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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di LUGLIO 2016

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aggiornamento al 29.07.2016

aggiornamento al 27.07.2016

aggiornamento all'11.07.2016

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 29.07.2016

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Pregiudizio della pubblica incolumità:
non sulla pubblica via ma su area privata coinvolgente diritti di terzi.
SINO A CHE PUNTO IL COMUNE PUO'/DEVE SPINGERSI -ovvero astenersi- NELL'INTIMARE AL PRIVATO CITTADINO DI RIMUOVERE LA CAUSA DI PERICOLO??

     Ecco, di seguito, un'interessantissima sentenza che può soccorrere l'UTC nell'affrontare la classica "bega" fra confinanti. Per la segnalazione, su richiesta d'aiuto, è doveroso un ringraziamento all'Avv. G.G. di Milano.

ATTI AMMINISTRATIVIIn linea generale, il potere sindacale di ordinanza contingibile e urgente, previsto dall’articolo 54 del TUEL al fine di prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciano l'incolumità dei cittadini, costituisce un rimedio giuridico straordinario, dagli effetti particolarmente incisivi e penetranti nella sfera riservata di liberà e proprietà dei privati.
Il suo esercizio richiede, pertanto, una verifica particolarmente rigorosa della sussistenza, nel singolo caso concreto, dei presupposti previsti dalla legge per la sua applicazione, sia sotto il profilo della ricorrenza di situazioni di oggettivo pericolo per la privata e/o la pubblica incolumità, sia sotto il profilo della inevitabilità del ricorso a tale rimedio straordinario sussidiario per l’accertata insufficienza, agli effetti del conseguimento del fine perseguito, dei mezzi giuridici ordinari messi a disposizione dall’ordinamento.
---------------
Più in particolare, se è vero che nella nozione di incolumità dei cittadini può includersi anche il caso di minaccia grave e attuale alla incolumità di soggetti privati che si verifichi esclusivamente entro ambiti di proprietà privata, senza riflessi diretti sulla pubblica incolumità, vale a dire senza che il pericolo minacci anche aree di pubblico transito e accesso, è altresì vero che, in siffatte, eccezionali evenienze, il pericolo deve presentare una consistenza e una evidenza particolarmente gravi e univoche, tali in definitiva da non consentire neppure la prosecuzione dell’uso o dell’abitazione dello spazio o del volume di pertinenza privata interessato dallo stato di pericolo, sì da giustificare piuttosto lo sgombero, e non il mero ordine di esecuzione dei lavori.
Quando si tratti, dunque, di un caso di pericolo gravante esclusivamente su beni privati sottratti a qualsiasi forma di uso e transito pubblici, il vaglio di legittimità dell’esercizio del suddetto potere di ordinanza ex art. 54 cit. deve essere ancor più penetrante e severo, soprattutto al fine di impedire che il ricorso a tale invasivo strumento imperativo, sviando dalla funzione pubblica, si risolva in una inutile e indebita interferenza in liti tra privati (magari già incardinate dinanzi al competente giudice civile).
---------------
Venendo alla fattispecie concreta che occupa il Collegio, la vicenda in esame ricade appieno nell’ipotesi, testé tratteggiata, di illegittima interferenza dell’amministrazione, con abusivo ricorso all’invasivo strumento sussidiario dell’ordinanza contingibile e urgente, in una lite in corso tra privati, in un’ipotesi sostanzialmente priva dei caratteri di urgenza e indifferibilità di intervento a tutela della pubblica e provata incolumità, atteso che nella fattispecie concreta all’esame del Collegio il pericolo per l’incolumità dei cittadini è circoscritto ad un immobile di proprietà privata e risulta eventualmente causato da fatti di carente o cattiva manutenzione e dalla conseguente lite condominiale sulla responsabilità e sulla spettanza dell’esecuzione dei connessi lavori di ordinaria o di straordinaria manutenzione;
Il fatto su cui è intervenuto il commissario prefettizio del Comune con il provvedimento impugnato va in definitiva a inserirsi in una lite, priva di ogni rilevanza di interesse pubblico, tra privati proprietari in merito al possesso di un viottolo di accesso alla proprietà della ricorrente, confinante appunto con il fondo dei sig.ri Sa.-Ca., donde l’avvenuta proposizione di un apposito giudizio civile innanzi alla Corte di Appello di Napoli, nel corso del quale sarebbe stata disposta una consulenza tecnica, tuttora in corso di espletamento.
In conclusione, l’assorbente fondatezza del profilo di censura volto a evidenziare la rilevanza puramente civilistica della controversia e la sua inidoneità a costituire il presupposto per la misura contingibile ed urgente impugnata, rende naturalmente del tutto irrilevante, in questa sede, ogni questione relativa alle responsabilità nella causazione di danni attuali o eventuali, ciò che invece è e deve restare materia riservata al giudice civile, non trasferibile dinanzi al giudice della legittimità, nemmeno attraverso l’impugnativa dell’atto amministrativo che illegittimamente interferisca nella controversia tra privati.

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... per l’annullamento, previa sospensione, <<a) dell’ordinanza n. 1 del 04.01.2007 del Comune di Tufino, a firma del Commissario prefettizio sindaco ai sensi dell’art. 54, comma 2, del d.lgs. 267/2000, con la quale disponeva a carico della ricorrente l’analisi dei manufatti verosimilmente contenenti amianto, in ottemperanza al punto 1 del d.m. 06.09.1994, ad opera dell’ARPA Campania o di laboratorio avente i requisiti del Piano Regionale Amianto; ed, ad eventuale esito positivo delle analisi, ottemperare ai punti 2 e 4 del d.m. innanzi citato, fissando per l’espletamento di analisi in 30 giorni consecutivi e naturali e termini per lo smaltimento in ulteriori 15 giorni, notificata in data 09.01.2007;
b) dell’avviso che in caso di inottemperanza si provvederà ad eseguire d’ufficio quanto disposto con la presente ordinanza, a spese del destinatario dell’atto stesso;
c) di ogni altro atto connesso, preordinato, sotteso e conseguente, ivi compreso, in ogni caso e tra l’altro, se ed in quanto lesivi dei diritti del ricorrente, i verbali di ispezione ASL NA 4 Dipartimento di prevenzione del 07.08.2006 e del 20.10.2006, la relazione di sopralluogo del Responsabile UTC Comune di Tufino prot. n. 651 del 06.11.2006, citati nell’ordinanza innanzi indicata e di ogni altra relazione di cui non si conosce data e numero
>>.
...
CONSIDERATO che, con il ricorso in trattazione –ritualmente notificato in data 12.03.2007 e depositato nella Segreteria del Tribunale il successivo 5 aprile– la ricorrente, comproprietaria di un fabbricato per civile abitazione sito in Tufino alla via ... 17, confinante con fondi di proprietà dei signori Sa.-Ca., ha impugnato l’ordinanza in epigrafe indicata, con la quale il Comune di Tufino le ha ordinato di provvedere ad horas all’analisi dei manufatti “verosimilmente contenenti amianto”, insistenti sulla facciata esterna –lato nord– del fabbricato di sua proprietà, ad opera dell’A.R.P.A.C. o di altro laboratorio avente i requisiti previsti dal Piano Regionale Amianto e, in caso di esito positivo delle analisi, di provvedere alla esecuzione dei lavori necessari allo smaltimento del materia inquinante;
CHE, a seguito della comunicazione di avvio del procedimento volto all’emissione dell’ordinanza ex art. 54, comma 2, del d.lgs. 267 del 2000, effettuata in data 13.12.2006, la sig.ra Mu. ha fatto pervenire una nota all’amministrazione comunale intimata, con la quale ha fatto presente che, in riferimento alla sostituzione degli elementi esistenti sulla “facciata esterna –lato nord– del fabbricato”, la suddetta area non risulta essere in suo possesso, bensì detenuta dai sig.ri Sa.-Ca., proprietari dei fondi confinanti, e con i quali è in corso un’annosa vertenza giudiziaria presso la Corte di Appello di Napoli;
CONSIDERATO in diritto, in linea generale, che il potere sindacale di ordinanza contingibile e urgente, previsto dall’articolo 54 del TUEL al fine di prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciano l'incolumità dei cittadini, costituisce un rimedio giuridico straordinario, dagli effetti particolarmente incisivi e penetranti nella sfera riservata di liberà e proprietà dei privati.
Il suo esercizio richiede, pertanto, una verifica particolarmente rigorosa della sussistenza, nel singolo caso concreto, dei presupposti previsti dalla legge per la sua applicazione, sia sotto il profilo della ricorrenza di situazioni di oggettivo pericolo per la privata e/o la pubblica incolumità, sia sotto il profilo della inevitabilità del ricorso a tale rimedio straordinario sussidiario per l’accertata insufficienza, agli effetti del conseguimento del fine perseguito, dei mezzi giuridici ordinari messi a disposizione dall’ordinamento;
CHE, più in particolare, se è vero che nella nozione di incolumità dei cittadini può includersi anche il caso di minaccia grave e attuale alla incolumità di soggetti privati che si verifichi esclusivamente entro ambiti di proprietà privata, senza riflessi diretti sulla pubblica incolumità, vale a dire senza che il pericolo minacci anche aree di pubblico transito e accesso, è altresì vero che, in siffatte, eccezionali evenienze, il pericolo deve presentare una consistenza e una evidenza particolarmente gravi e univoche, tali in definitiva da non consentire neppure la prosecuzione dell’uso o dell’abitazione dello spazio o del volume di pertinenza privata interessato dallo stato di pericolo, sì da giustificare piuttosto lo sgombero, e non il mero ordine di esecuzione dei lavori;
CHE quando si tratti, dunque, di un caso di pericolo gravante esclusivamente su beni privati sottratti a qualsiasi forma di uso e transito pubblici, il vaglio di legittimità dell’esercizio del suddetto potere di ordinanza ex art. 54 cit. deve essere ancor più penetrante e severo, soprattutto al fine di impedire che il ricorso a tale invasivo strumento imperativo, sviando dalla funzione pubblica, si risolva in una inutile e indebita interferenza in liti tra privati (magari già incardinate dinanzi al competente giudice civile);
RITENUTO, venendo alla fattispecie concreta che occupa il Collegio, che la vicenda in esame ricade appieno nell’ipotesi, testé tratteggiata, di illegittima interferenza dell’amministrazione, con abusivo ricorso all’invasivo strumento sussidiario dell’ordinanza contingibile e urgente, in una lite in corso tra privati, in un’ipotesi sostanzialmente priva dei caratteri di urgenza e indifferibilità di intervento a tutela della pubblica e provata incolumità, atteso che nella fattispecie concreta all’esame del Collegio il pericolo per l’incolumità dei cittadini è circoscritto ad un immobile di proprietà privata e risulta eventualmente causato da fatti di carente o cattiva manutenzione e dalla conseguente lite condominiale sulla responsabilità e sulla spettanza dell’esecuzione dei connessi lavori di ordinaria o di straordinaria manutenzione;
CHE il fatto su cui è intervenuto il commissario prefettizio del Comune di Tufino con il provvedimento impugnato va in definitiva a inserirsi in una lite, priva di ogni rilevanza di interesse pubblico, tra privati proprietari in merito al possesso di un viottolo di accesso alla proprietà della ricorrente, confinante appunto con il fondo dei sig.ri Sa.-Ca., donde l’avvenuta proposizione di un apposito giudizio civile innanzi alla Corte di Appello di Napoli, nel corso del quale sarebbe stata disposta una consulenza tecnica, tuttora in corso di espletamento;
CHE, in conclusione, l’assorbente fondatezza del profilo di censura volto a evidenziare la rilevanza puramente civilistica della controversia e la sua inidoneità a costituire il presupposto per la misura contingibile ed urgente impugnata, rende naturalmente del tutto irrilevante, in questa sede, ogni questione relativa alle responsabilità nella causazione di danni attuali o eventuali, ciò che invece è e deve restare materia riservata al giudice civile, non trasferibile dinanzi al giudice della legittimità, nemmeno attraverso l’impugnativa dell’atto amministrativo che illegittimamente interferisca nella controversia tra privati;
RITENUTO, per tutti gli esposti motivi, che il ricorso deve giudicarsi fondato e merita come tale di essere accolto (TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 19.04.2007 n. 4992 - udienza).
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Si legga anche un relativo commento:
- Delle c.d. “ordinanze di necessità” (20.06.2007 - link a www.altalex.com).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 30 del 29.07.2016, "Approvazione elenco Regionale delle fattorie didattiche aggiornato al 30.06.2016, ai sensi del d.d.u.o. n. 6460 del 30.07.2015" (decreto D.S. 26.07.2016 n. 7321).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 30 del 29.07.2016, "Aggiornamento albo regionale delle imprese boschive (l.r. 31/2008, art. 57): iscrizione ditta Cagliani Marco" (decreto D.S. 26.07.2016 n. 7320).

APPALTI: G.U. 27.07.2016 n. 170 "Linee guida per la compilazione del modello di formulario di Documento di gara unico europeo (DGUE) approvato dal Regolamento di esecuzione (UE) 2016/7 della Commissione del 05.01.2016" (Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, circolare 18.07.2016 n. 3).

INCARICHI PROGETTUALI: G.U. 27.07.2016 n. 170 "Approvazione delle tabelle dei corrispettivi commisurati al livello qualitativo delle prestazioni di progettazione adottato ai sensi dell’articolo 24, comma 8, del decreto legislativo n. 50 del 2016" (Ministero della Giustizia, decreto 17.06.2016).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: G.U. 27.07.2016 n. 170 "Regolamento dell’albo degli idonei all’esercizio dell’attività di direttore di ente parco nazionale, ai sensi dell’articolo 2, comma 26, della legge 09.12.1998, n. 426" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto 15.06.2016 n. 143).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. del 27.07.2016, "Recepimento dell’accordo del 07.05.2015 tra il Governo, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano concernente la qualificazione dei laboratori pubblici e privati che effettuano attività di campionamento ed analisi sull’amianto sulla base dei programmi di controllo di qualità, di cui all’articolo 5 e all’allegato 5 del decreto 14.05.1996 e individuazione del centro di riferimento regionale" (deliberazione G.R. 18.07.2016 n. 5416).

LAVORI PUBBLICI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. del 27.07.2016, "Opere di pronto intervento di cui alla l.r. n. 34/1973 sui corsi d’acqua di competenza regionale - Disposizioni in materia di affidamenti in somma urgenza e di manutenzione urgente" (deliberazione G.R. 18.07.2016 n. 5407).

QUESITI & PARERI

ATTI AMMINISTRATIVI: Personale degli enti locali. Responsabile Servizio finanziario e parere sfavorevole di regolarità contabile.
L'Osservatorio per la finanza e la contabilità degli enti locali ha rilevato come, pur essendo un atto procedimentale obbligatorio che va inserito nella deliberazione, il parere di regolarità contabile non è vincolante, per cui si potrebbe verificare il caso in cui la Giunta o il Consiglio deliberino in presenza di un parere sfavorevole, assumendosene tutte le responsabilità.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine ad alcune problematiche derivanti dall'adozione ed esecuzione di un atto deliberativo giuntale sul quale si era espresso, da parte del funzionario competente, parere di regolarità contabile non favorevole.
In particolare, l'Ente si è posto le seguenti questioni attinenti l'iter della determina di attuazione della delibera giuntale:
-se il Responsabile del Servizio Finanziario può registrare l'impegno di spesa (dopo aver espresso parere di regolarità contabile non favorevole) a valere sul bilancio comunale;
- se il Responsabile di Area competente può procedere con il pagamento;
- se il Segretario comunale può emettere un ordine di servizio per dare esecuzione alla determina conseguente all'adozione dell'atto deliberativo;
- se il Responsabile del Servizio Finanziario può disattendere l'ordine di servizio e con quali motivazioni.
Sentito il Servizio finanza locale, si esprimono le seguenti considerazioni.
Com'è noto, l'art. 49, comma 1, del d.lgs. 267/2000, come novellato dal d.lgs. 174/2012, prevede che su ogni proposta di deliberazione sottoposta alla Giunta e al Consiglio che non sia mero atto di indirizzo deve essere richiesto il parere, in ordine alla sola regolarità tecnica, del responsabile del servizio interessato e, qualora comporti riflessi diretti o indiretti sulla situazione economico-finanziaria o sul patrimonio dell'ente, del responsabile di ragioneria in ordine alla regolarità contabile.
Il comma 3 del citato articolo precisa che i soggetti di cui al comma 1 rispondono in via amministrativa e contabile dei pareri espressi.
Infine, il successivo comma 4 dispone che, ove la Giunta o il Consiglio non intendano conformarsi ai pareri previsti dallo stesso articolo, devono darne adeguata motivazione nel testo della deliberazione.
La Corte dei conti
[1] ha evidenziato che le modifiche apportate da ultimo dal legislatore al richiamato articolo 49 del TUEL hanno certamente ampliato la casistica delle fattispecie in cui è necessario il parere di regolarità contabile, con la conseguente assegnazione al responsabile di ragioneria di un ruolo centrale nella tutela degli equilibri di bilancio dell'ente. Tale interpretazione è rafforzata dall'introduzione del comma 4 dell'art. 49 che, ferma rimanendo la valenza non vincolante del parere, ha significativamente previsto un onere di motivazione specifica del provvedimento approvato in difformità dal parere contrario reso dai responsabili dei servizi.
La Magistratura contabile ha comunque ricordato -nel predetto contesto- che l'accuratezza dell'istruttoria tecnica costituisce un elemento da verificare e riscontrare ai fini del rilascio di parere positivo, sia di regolarità tecnica che di regolarità contabile. Si è pertanto ritenuto, anche alla luce dei rafforzati vincoli di salvaguardia degli equilibri di bilancio, che il responsabile del servizio interessato avrà l'onere di valutare gli aspetti sostanziali della deliberazione dai quali possano discendere effetti economico-patrimoniali per l'ente. Il responsabile di ragioneria, pur senza assumere una diretta responsabilità in ordine alla correttezza dei dati utilizzati per le predette valutazioni, dovrà verificare che il parere di regolarità tecnica si sia fatto carico di compiere un esame metodologicamente accurato
[2].
Si osserva che l'art. 191, comma 1, del TUEL dispone che gli enti locali possono effettuare spese solo se sussiste l'impegno contabile registrato sul competente programma del bilancio di previsione e l'attestazione della copertura finanziaria di cui all'articolo 153, comma 5, del medesimo decreto.
L'Osservatorio per la finanza e la contabilità degli enti locali
[3] ha rilevato come, pur essendo un atto procedimentale obbligatorio che va inserito nella deliberazione, il parere di regolarità contabile non è vincolante, per cui si potrebbe verificare il caso in cui la Giunta o il Consiglio deliberino in presenza di un parere sfavorevole, assumendosene tutte le responsabilità.
Consiglio e Giunta, quindi, approvando comunque la proposta di deliberazione in presenza di pareri negativi espressi dai funzionari competenti, si addossano una rilevante responsabilità, amministrativa e contabile.
Si è inoltre precisato che, nel deliberare in difformità rispetto al parere di regolarità contabile, la Giunta o il Consiglio assumono inevitabilmente anche responsabilità amministrative e contabili che sono proprie della figura del responsabile del servizio finanziario.
Premesso un tanto, il predetto responsabile deve comunque portare a termine l'iter esecutivo dell'atto deliberativo, procedendo all'adozione degli atti conseguenti, tenuto conto che si tratta di adempimenti attuativi di scelte approvate dall'amministrazione
[4].
Si rammenta che l'art. 153, comma 5, del TUEL dispone che il regolamento di contabilità disciplina le modalità con le quali vengono resi i pareri di regolarità contabile sulle proposte di deliberazione ed apposto il visto di regolarità contabile sulle determinazioni dei soggetti abilitati. Il responsabile del servizio finanziario effettua le attestazioni di copertura della spesa in relazione alle disponibilità effettive esistenti negli stanziamenti di spesa e, quando occorre, in relazione allo stato di realizzazione degli accertamenti di entrata vincolata secondo quanto previsto dal regolamento di contabilità.
L'art. 183, comma 7, del predetto decreto stabilisce inoltre che i provvedimenti dei responsabili dei servizi che comportano impegni di spesa sono trasmessi al responsabile del servizio finanziario e sono esecutivi con l'apposizione del visto di regolarità contabile attestante la copertura finanziaria.
Va considerato che il parere di regolarità contabile espresso dal responsabile del servizio, secondo la giurisprudenza contabile prevalente, è un vero e proprio parere di legittimità del provvedimento di spesa, implicante la valutazione sulla correttezza sostanziale della spesa. Esso, pertanto, non si limita alla sola verifica della copertura finanziaria, della corretta imputazione al capitolo di spesa, della competenza dell'organo che l'ha assunta, del rispetto dei principi contabili e della completezza della documentazione. Il parere di regolarità contabile, quindi, diventa rilevante anche ai fini della ricerca e dell'individuazione delle responsabilità per illeciti amministrativi
[5].
L'assenza del visto di regolarità contabile, pur in presenza dell'attestazione di copertura finanziaria rende l'atto non esecutivo e conseguentemente nullo o inefficace.
[6]
Per quanto concerne, da ultimo, la possibilità per il dipendente interessato di disattendere un eventuale ordine di servizio
[7], che lo solleciti a dare esecuzione ad una determina, si rappresenta che l'art. 13, comma 3, lett. h., del CCRL del 26.11.2004 impone al dipendente degli enti locali del comparto unico del pubblico impiego regionale e locale l'obbligo di eseguire le disposizioni inerenti all'espletamento delle proprie funzioni o mansioni che gli siano impartite dai superiori. Se ritiene che l'ordine sia palesemente illegittimo, il dipendente deve farne rimostranza a chi l'ha impartito, dichiarandone le ragioni. Se l'ordine è rinnovato per iscritto, ha il dovere di darvi esecuzione. Il dipendente non deve, comunque, eseguire l'ordine quando l'atto sia vietato dalla legge penale o costituisca illecito amministrativo [8].
Tale principio è stato affermato anche dalla giurisprudenza amministrativa
[9], che ha statuito che non sussiste un obbligo incondizionato del pubblico dipendente di eseguire le disposizioni impartite dai superiori o dagli organi sovraordinati, posto che il c.d. 'dovere di obbedienza' incontra un limite nella ragionevole obiezione circa l'illegittimità dell'ordine ricevuto. Qualora ricorra un'evenienza del genere, il pubblico impiegato ha tuttavia l'obbligo di fare una immediata e motivata contestazione a chi ha impartito l'ordine.
Tuttavia se l'ordine stesso è ribadito per iscritto, il dipendente non può esimersi dall'eseguirlo, a meno che la sua esecuzione configuri un'ipotesi di reato o illecito amministrativo, come specificato dalla norma contrattuale, che ha limitato quindi ulteriormente tale dovere rispetto alle originarie previsioni dettate dal d.p.r. 3/1957.
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[1] Cfr. sez. reg. di controllo per le Marche, deliberazione n. 51/2013/PAR.
[2] Si segnala che già in precedenza la Corte dei conti (cfr. sez. giurisd. per la Regione siciliana, sentenza n. 1058/2011) aveva rilevato che nel parere di regolarità contabile è da comprendere, oltre che la verifica dell'esatta imputazione della spesa al pertinente capitolo di bilancio ed il riscontro della capienza dello stanziamento relativo, anche la valutazione sulla correttezza sostanziale della spesa proposta.
[3] Cfr. parere del 05-06.06.2003.
[4] Cfr. parere ANCI del 15.10.2011.
[5] In 'Natura del parere di regolarità contabile sulle determine di impegno: è un parere di legittimità Cdc Sent. n. 1058 del 23/03/2011 - Sez. giurisdiz. per la Regione Sicilia' di Pino Terracciano, a cui si rinvia per i numerosi riferimenti giurisprudenziali.
[6] Sentenza Corte dei Conti Sez. Giurisdiz. Per la Regione Sicilia n. 1337/2012.
[7] L'ordine di servizio è una disposizione impartita da un dirigente o suo delegato, in esecuzione del potere di organizzazione che la legge conferisce loro. In linea generale e ferme restando le disposizioni regolamentari adottate dall'Ente, si osserva che, a mente di quanto disposto dall'art. 97 del TUEL, il segretario comunale sovrintende allo svolgimento delle funzioni dei dirigenti/titolari di p.o. e ne coordina l'attività. In tale ottica, il segretario comunale, per raggiungere obiettivi comuni, ha il potere di indirizzare l'attività dei dirigenti/titolari di p.o. -con le modalità ritenute opportune- verso risultati di interesse comune, fornendo concreto sostegno agli organi elettivi e burocratici (cfr. Angela Bruno, Il Segretario generale: funzioni, costituzionalità del sistema dello spoil system, mantenimento della figura dopo la riforma del titolo V della Costituzione, in: www.diritto.it.).
[8] Per illecito amministrativo deve intendersi la violazione di una norma di legge (per condotta attiva od omissiva) cui consegue la irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria (cfr. l. 689/1981, in particolare gli artt. 1-31 che definiscono i caratteri dell'illecito amministrativo pecuniario, e anche la disciplina del procedimento d'irrogazione delle sanzioni amministrative).
[9] Cfr. Cons. di Stato, sez. V, sentenza n. 6208 del 2008
(27.07.2016 -
link a www.regione.fvg.it).

ENTI LOCALI: Concessioni cimiteriali perpetue. Revoca.
Al momento attuale non si registrano novità normative che consentano di revocare le concessioni cimiteriali perpetue e di trasformarle in concessioni a tempo determinato, ma la risoluzione ex lege della problematica potrebbe concretizzarsi in un prossimo futuro, atteso che il disegno di legge n. 1611, in corso di esame presso la 12a Commissione permanente (Igiene e sanità) del Senato contiene, all'art. 13, comma 3, lett. e), un'espressa previsione in tal senso.
Quanto alla giurisprudenza, notoriamente divisa, si segnala il costante rafforzamento dell'orientamento che ritiene legittima la trasformazione delle concessioni perpetue in concessioni 'di durata', posto che l'assoggettamento dei cimiteri al regime del demanio comunale (ex art. 824 cod. civ.), implica l'impossibilità di configurare atti dispositivi, in via amministrativa, senza limiti di tempo.

Il Comune chiede di conoscere se siano intervenute novità normative che consentano di revocare le concessioni cimiteriali perpetue e di trasformarle in concessioni a tempo determinato.
La risposta è negativa.
Si segnala, comunque, che la risoluzione ex lege della problematica in argomento potrebbe concretizzarsi in un prossimo futuro, atteso che il disegno di legge n. 1611 («Disciplina delle attività funerarie»), in corso di esame presso la 12a Commissione permanente (Igiene e sanità) del Senato
[1] contiene, all'art. 13, comma 3, lett. e) [2], l'espressa previsione di cessazione della perpetuità della concessioni cimiteriali esistenti e la loro trasformazione in concessioni a tempo determinato.
Benché il quesito posto risulterebbe così riscontrato, questo Ufficio ha ritenuto opportuno -al fine di fornire all'Ente elementi di valutazione utili ad assumere, eventualmente, le proprie determinazioni sin da ora- verificare come la giurisprudenza, già discordante all'epoca della formulazione del parere reso, su analoga questione, all'Ente medesimo
[3], abbia nel frattempo statuito.
Mentre allora risultava prevalente l'orientamento secondo il quale le concessioni perpetue esulano dall'ambito di applicazione dell'art. 92, comma 2, primo periodo
[4], del decreto del Presidente della Repubblica 10.09.1990, n. 285 e, non essendo soggette alla revoca ivi prevista, mantengono il carattere di perpetuità, attualmente si registra il costante rafforzamento del filone che ritiene legittima la trasformazione delle concessioni perpetue in concessioni 'di durata', nella considerazione che l'assoggettamento dei cimiteri al regime del demanio comunale, disposto dall'art. 824 [5], secondo comma, del codice civile, implica l'impossibilità di configurare atti dispositivi, in via amministrativa, senza limiti di tempo [6]. [7]
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[1] La materia forma oggetto di altri due disegni di legge: l'atto della Camera n. 3189 («Disciplina delle attività funerarie, della cremazione e della conservazione o dispersione delle ceneri»), assegnato il 16.12.2015 alla 12a Commissione permanente della Camera (Affari sociali) e del quale non è ancora iniziato l'esame e l'atto del Senato n. 447 («Disciplina delle attività nel settore funerario e disposizioni in materia di dispersione e conservazione delle ceneri»), congiunto il 19.04.2016 al DDL n. 1611 e con esso in corso di esame in commissione.
[2] «3. In ogni ATOC i comuni appartenenti a quel territorio costituiscono una Autorità d'ambito, la quale provvede ad emanare, entro due anni dalla costituzione:
[...]
e) la cessazione della perpetuità della concessioni cimiteriali esistenti, con la loro trasformazione in concessioni cimiteriali a tempo determinato, decorrenti dalla data di entrata in vigore della presente legge, di durata pari a novantanove anni, salvo rinnovo, previo versamento della tariffa corrispondente ai servizi per i novantanove anni, decurtata di un terzo se vi è la contemporanea trasformazione in tumulazione aerata. I concessionari interessati possono richiedere, al momento della trasformazione da perpetuo a tempo determinato della concessione, la riduzione della durata fino ad un minimo di trenta anni, fruendo egualmente della decurtazione tariffaria di un quarto se vi è la trasformazione in tumulazione aerata. In caso di mancato versamento della tariffa dovuta, la concessione cessa trascorsi venti anni dalla data di entrata in vigore della presente legge;
[...]».
[3] Parere 06.08.2014, prot. n. 21653.
[4] «2. Le concessioni a tempo determinato di durata eventualmente eccedente i 99 anni, rilasciate anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto del Presidente della Repubblica 21.10.1975, n. 803, possono essere revocate, quando siano trascorsi 50 anni dalla tumulazione dell'ultima salma, ove si verifichi una grave situazione di insufficienza del cimitero rispetto al fabbisogno del comune e non sia possibile provvedere tempestivamente all'ampliamento o alla costruzione di nuovo cimitero.».
[5] «I beni della specie di quelli indicati dal secondo comma dell'articolo 822, se appartengono alle province o ai comuni, sono soggetti al regime del demanio pubblico. Allo stesso regime sono soggetti i cimiteri e i mercati comunali.».
[6] V. TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sent. 07.11.2014, n. 2732; TAR Toscana-Firenze, Sez. I, sent. 24.03.2015, n. 462; CGARS sent. 16.04.2015, n. 321 (conferma TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sent. 18.01.2012, n. 70); TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sent. 22.01.2016, n. 187; TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sent. 29.06.2016, n. 1532.
[7] Anche S. Scolaro, noto esperto nella materia, in un recentissimo intervento (14.07.2016), ha rilevato che «si sta formando, ormai abbastanza numeroso ed uniforme, un indirizzo giurisprudenziale da parte di numerosi T.A.R. (Palermo, Napoli, Lecce, Firenze, Venezia, Potenza, Salerno, ed altri, ma anche del Consiglio di Stato) che valuta come concessioni cimiteriali caratterizzate da un'assenza di un termine finale contrastino con la natura demaniale propria delle concessioni cimiteriali, demanialità che, per definizione, esclude sia l'alienabilità, sia l'usucapibilità dei beni, per cui l'assenza di un limite temporale rischia di celare un'inammissibile alienazione»
(27.07.2016 -
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EDILIZIA PRIVATA: Parere in merito all'applicazione dell'art. 39, comma 10-bis, della legge 724/1994 in tema di condono edilizio - Comune di Gaeta (Regione Lazio, parere 22.07.2016 n. 388728 di prot.).

ENTI LOCALI: Azione indebito arricchimento verso ente pubblico.
In ordine all'azione di indebito arricchimento ex art. 2041 c.c. nei confronti della p.a., la giurisprudenza di legittimità ha espresso nel corso degli anni due orientamenti differenti: un orientamento maggioritario ha sostenuto che l'azione verso la p.a. fosse subordinata alla condizione del riconoscimento -anche implicito- dell'utilitas da parte della p.a., promanante dai suoi organi rappresentativi; un altro orientamento, minoritario, ha invece sostenuto che quando il riconoscimento dell'utilitas non sia esplicito non è richiesto che provenga da organi qualificati della p.a. e può essere altresì compiuto, in sostituzione della p.a., dal Giudice.
Il contrasto è stato risolto di recente dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione, che hanno espresso il principio per cui '... poiché il riconoscimento dell'utilità non costituisce requisito dell'azione di indebito arricchimento, il privato attore ex art. 2041 c.c., nei confronti della p.a. deve provare -il giudice accertare- il fatto oggettivo dell'arricchimento, senza che l'amministrazione possa opporre il mancato riconoscimento dello stesso, potendo essa, piuttosto, eccepire e dimostrare che l'arricchimento non fu voluto o non fu consapevole'.

Il Comune chiede un parere in ordine alla possibilità di esperire azione di indebito arricchimento nei confronti degli enti pubblici.
Ai sensi dell'art. 2041 c.c., chi senza una giusta causa, si è arricchito a danno di un'altra persona è tenuto, nei limiti dell'arricchimento, a indennizzare quest'ultima della correlativa diminuzione patrimoniale. Per il successivo art. 2042 c.c. l'azione di arricchimento non è proponibile quando il danneggiato può esercitare un'altra azione per farsi indennizzare del pregiudizio subito.
Presupposti dell'azione di arricchimento sono l'arricchimento di un soggetto e la diminuzione patrimoniale di un altro soggetto in conseguenza di un medesimo fatto
[1], in mancanza di una causa giustificativa dell'arricchimento dell'un soggetto e impoverimento dell'altro.
Caratteristiche dell'azione di arricchimento sono la generalità, nel senso che potenzialmente può derivare da un numero illimitato di fatti giuridici, e la sussidiarietà, nel senso che detta azione non è proponibile quando il danneggiato può esercitare un'altra azione per farsi indennizzare del pregiudizio subito (art. 2042 c.c.)
[2].
Per quanto concerne l'azione di arricchimento nei confronti della p.a., la giurisprudenza di legittimità ha espresso nel corso degli anni due orientamenti differenti, composti, da ultimo, dall'arresto delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione 26.05.2015, n. 10798.
Si ritiene dunque utile riportare le considerazioni espresse dalla Suprema Corte in sede di molteplici giudizi per indebito arricchimento instaurati da soggetti privati nei confronti di soggetti pubblici, per l'utilità che le stesse possono apportare all'esame, in generale, della proponibilità dell'azione di arricchimento nei confronti di un ente pubblico.
L'orientamento prevalente, fino alla sentenza delle Sezioni Unite, ha sostenuto che l'azione di arricchimento verso la p.a. differisce da quella ordinaria, in quanto presuppone non solo il fatto materiale dell'esecuzione di un'opera o di una prestazione vantaggiosa per la p.a., ma anche il riconoscimento da parte di questa dell'utilità dell'opera o della prestazione, in relazione alle proprie finalità istituzionali. Tale riconoscimento, che sostituisce il requisito dell'arricchimento previsto dall'art. 2041 c.c. nei rapporti tra privati, può avvenire in maniera esplicita, cioè con un atto formale, ma può anche risultare per implicito mediante utilizzazione della prestazione consapevolmente attuata dagli organi rappresentativi dell'ente
[3].
In particolare, proprio la configurazione del riconoscimento dell'utilità dell'opera o della prestazione come un atto di volontà della P.A. comporta, per questo orientamento, che il relativo giudizio resti affidato esclusivamente alla p.a., l'unica legittimata ad esprimere l'apprezzamento circa la rispondenza diretta della cosa o della prestazione al pubblico interesse
[4]. Il Giudice ordinario può essere solo chiamato ad accertare l'esistenza del riconoscimento, in qualunque modo si sia manifestato, ed in quale misura l'opera o la prestazione del terzo siano state effettivamente utilizzate [5].
Sulla base di questa impostazione, l'orientamento richiamato ritiene che, in caso di instaurazione di giudizio, nel termine decennale di prescrizione dell'azione decorrente dal riconoscimento dell'utilitas da parte della p.a.
[6], competa alla parte attorea fornire la prova del duplice presupposto dell'azione di indebito arricchimento verso la p.a. (fatto materiale [7] e riconoscimento -anche implicito- dell'utilitas da parte della p.a. [8]).
Un altro orientamento della Suprema corte, invero minoritario, ha invece sostenuto che quando il riconoscimento dell'utilitas non sia esplicito non è richiesto che provenga formalmente da organi qualificati della p.a., e può essere altresì compiuto, in sostituzione della p.a., dal Giudice, il quale ha il potere di accertare se e in che misura l'opera o la prestazione siano state effettivamente utilizzate dall'ente pubblico
[9].
A dirimere il contrasto giurisprudenziale, sono intervenute di recente le Sezioni Unite della Corte di cassazione
[10], le quali hanno ritenuto l'erroneità, ai fini dell'azione di arricchimento, del necessario riconoscimento dell'utilità dell'opera da parte dell'ente pubblico e, in specie, dei suoi organi rappresentativi, sostenuto dalla Corte territoriale, ed hanno affermato il principio di diritto secondo cui: '...poiché il riconoscimento dell'utilità non costituisce requisito dell'azione di indebito arricchimento, il privato attore ex art. 2041 c.c., nei confronti della p.a. deve provare -e il giudice accertare- il fatto oggettivo dell'arricchimento, senza che l'amministrazione possa opporre il mancato riconoscimento dello stesso, potendo essa, piuttosto, eccepire e dimostrare che l'arricchimento non fu voluto o non fu consapevole'.
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[1] Ad es., aver reso un servizio o aver realizzato un'opera in favore di altri, che se ne sono avvalsi, senza essere remunerato.
[2] E così, se il depauperamento deriva da fatto illecito, trova applicazione l'art. 2043 c.c., in tema di responsabilità extracontrattuale. Così come, la titolarità di un'azione contrattuale in capo alla p.a., in forza di uno schema negoziale idoneo ad impegnarla contrattualmente, rende inammissibile l'azione di indebito arricchimento (v. Cass. civ., sez. I, 12.02.2010, n. 3322; Cass. civ., sez. III, 25.01.1994, n. 715). In particolare, dalla nullità di un contratto di cui sia parte una p.a., per mancanza del requisito della forma scritta, pacificamente richiesto ad substantiam, discende la proponibilità della sussidiaria azione generale di arricchimento (Cass. civ., sez. I, 17.05.1986, n. 3268; Cass. civ., sez. I, 12.05.1995, n. 5179).
[3] Tra le tante, v. Cass. civ., sez. I, 18.04.2013, n. 9486; Cass. civ., sez. I, 24.10.2011, n. 21962 e Cass. civ., sez. II, 31.01.2008, n. 2312, secondo cui il riconoscimento dell'utilitas postula un'inequivoca, ancorché implicita, manifestazione di volontà consapevole promanante da organi rappresentativi dell'amministrazione interessata, non potendo il riconoscimento dell'utilitas desumersi dalla mera acquisizione della prestazione e dalla successiva utilizzazione della stessa; Cass. civ., sez. I, 20.04.2004, n. 16348; Cass. civ., sez. I, 07.03.2014, n. 5397; Cass. civ., sez. III, 27.07.2002, n. 11133; Cass. civ., sez. III, 14.10.2008, n. 25156; Cass. civ. n. 3322/2010, cit.; Cass. civ., sez. II, 27.02.1991, n. 2111; Cass. civ., sez. I, 12.09.1992, n. 10433; Cass. civ., sez. I, 11.09.1999, n. 9690; Cass. Civ., sez. III, 11.11.1994, n. 9458; Cass. civ., sez. I, 12.11.2003, n. 17028; Cass. civ., sez. III, 23.07.2003, n. 11454, Cass. civ., sez. I, 02.09.2005, n. 17703 e Cass. civ., sez. I, 20.08.2004, n. 16348, secondo cui il vantaggio goduto dalla p.a. non deve avere necessariamente un contenuto di diretto incremento patrimoniale, ma può consistere in qualsiasi forma di utilizzazione della prestazione consapevolmente attuata dalla p.a.; Cass. civ. sez. III, 27.06.2002, n. 9348.
[4] Cass. civ., sez. I, 18.04.2013, n. 9486; Cass. civ., sez. I, 23.04.2002, n. 5900; Cass. civ. n. 3322/2010, cit.; Cass. civ., sez. I, 10.12.1994, n. 10567; Cass. Civ., sez. III, 25.02.2004, n. 3811; Cass. civ., sez. II, 31.01.2008, n. 2312; Cass. Civ., Sez. lav., 18.03.2004, n. 5506, secondo cui l'apprezzamento della p.a. sull'utilitas della prestazione al pubblico interesse non può essere sostituito da un accertamento del Giudice ordinario, il quale verrebbe indebitamente a sovrapporsi alla valutazione della p.a. circa l'utilità di un bene in senso lato in vista dei suoi fini pubblici istituzionali.
[5] Cass. Civ., n. 3811/2004, cit.; Cass. civ., n. 10567/1994, cit.; Cass. civ., n. 25156/2008, cit..
[6] Cass. civ., sez. I, 14.04.2011, n. 8537.
[7] Esecuzione di un'opera o di una prestazione in favore dell'ente pubblico.
[8] Cass. civ., sez. I, 26.04.1999, n. 4125; Cass. civ., sez. II, 02.04.1999, n. 3222.
[9] Cfr. Cass. civ., sez. III, 16.05.2006, n. 11368; Cass. civ., sez. I, 24.09.2007, n. 19572; Cass. civ., sez. III, 21.04.2011, n. 9141. Più mite sul riconoscimento implicito dell'utilitas da parte della p.a. anche da organi non rappresentativi, Cass. civ., sez. I, 09.03.2006, n. 5069, secondo cui, se, di regola, il riconoscimento, anche implicito, dell'utilità deve provenire dagli organi rappresentativi dell'ente pubblico, non può escludersi un'attenuazione di tale esigenza in considerazione, da una parte, della natura o del modesto contenuto economico del rapporto e, dall'altra della eventuale complessa organizzazione dell'ente. In tali casi, ben può ritenersi legittima un'iniziativa lasciata ai soggetti che presiedono all'esecuzione dell'opera della cui utilità si tratta.
[10] Cass. civ., sez. un., 26.05.2015, n. 10798/2015, cit.
(14.07.2016 -
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PATRIMONIO: Acquisizione immobile.
La disposizione di cui all'art. 12, comma 1-ter, D.L. n. 98/2011, prevede per le pubbliche amministrazioni un regime di limitazione per gli acquisti di immobili a decorrere dall'01.01.2014.
La Corte dei conti ha di recente affermato la sottrazione delle acquisizioni di immobili mediante procedura espropriativa per pubblica utilità dal campo di applicazione del comma 1-ter, argomentando, tra l'altro dall'art. 10-bis, DL n. 35/2013, che ha escluso le procedure espropriative dal divieto di acquisto di immobili previsto dal comma 1-quater del suddetto art. 12, per l'anno 2013, e dall'essere i presupposti dell'indispensabilità e indilazionabilità, richiesti dal comma 1-ter per la legittimazione degli acquisti, insiti all'interno della disciplina delle espropriazioni.
Altro orientamento della Corte dei conti ha invece osservato come dall'art. 10-bis richiamato non risultino individuate eccezioni alle previsioni del comma 1-ter, affermando peraltro la sottrazione al divieto di acquisto di immobili ivi previsto delle procedure espropriative già in corso.

Il Comune, interessato ad acquistare un immobile vincolato ai sensi della D.Lgs. n. 42/2004
[1] e attualmente posto all'asta dal curatore fallimentare, chiede se può procedere, tenuto conto dei limiti in materia posti dalla normativa statale vigente [2], ipotizzando in particolare la possibilità di ricorrere alla procedura espropriativa (D.P.R. n. 327/2001 [3]) o all'acquisto in via di prelazione, da attuarsi ai sensi del D.Lgs. n. 42/2004 [4].
L'art. 12, comma 1-ter, D.L. n. 98/2011
[5], prevede che, a decorrere dall'01.01.2014, al fine di pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli già previsti dal patto di stabilità interno, gli enti territoriali (e gli enti del Servizio sanitario nazionale) effettuano operazioni di acquisto di immobili solo ove ne siano comprovate documentalmente l'indispensabilità e l'indilazionabilità [6] attestate dal responsabile del procedimento. La congruità del prezzo è attestata dall'Agenzia del demanio [7].
A fronte del quadro normativo richiamato, l'Ente ipotizza l'acquisizione dell'immobile mediante procedura espropriativa, ai sensi del D.P.R. n. 327/2001, o esercitando il diritto di prelazione, ai sensi dell'art. 60, D.Lgs. n. 42/2004.
La procedura espropriativa, come modalità di acquisizione di immobili da parte delle p.a., è stata posta dal legislatore come fattispecie derogatoria alla previgente norma di divieto di acquisto di immobili di cui al comma 1-quater dell'art. 1 del D.L. n. 98/2011.
Con l'art. 10-bis, del D.L. n. 35/2013, inserito dalla legge di conversione 06.06.2013, n. 64, il legislatore ha, infatti, dettato una norma di interpretazione autentica dell'art. 12, comma 1-quater, D.L. n. 98/2011, escludendo dal divieto di acquisto ivi previsto, tra l'altro, le 'procedure relative all'acquisto a titolo oneroso di immobili o terreni effettuate per pubblica utilità ai sensi del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 08.06.2001, n. 327'
[8].
Sulla riconducibilità dell'istituto dell'espropriazione per pubblica utilità nell'ambito di applicazione del comma 1-ter vigente non vi è ad oggi un orientamento univoco in seno alla magistratura contabile.
Al riguardo, si è pronunciata espressamente, di recente, la Corte dei conti Lombardia
[9], nel senso di escludere la procedura espropriativa per pubblica utilità dal campo di applicazione del comma 1-ter, argomentando da una serie di considerazioni.
In particolare: dal tenore letterale della norma, che fa riferimento alle sole ipotesi in cui sia contemplata la previsione di un prezzo di acquisto e quindi ai soli acquisti a titolo derivativo in esito a un procedimento contrattuale e non si applica quindi alle procedure espropriative; dal fatto che l'indennizzo riconosciuto al proprietario espropriato e il prezzo di acquisto non sono sovrapponibili; dall'art. 10-bis, D.L. n. 35/2013, richiamato che attesta la volontà del legislatore di escludere dalla disciplina limitativa dell'acquisto di beni immobili da parte, tra l'altro, degli enti territoriali, le procedure espropriative; dal fatto che l'applicazione del comma 1-ter alle procedure espropriative verrebbe a modificare una disciplina speciale rispetto alla generale disciplina degli acquisti di beni delle p.a. ed a introdurre delle limitazioni a funzioni fondamentali dell'ente, quali quelle della programmazione del territorio e della pianificazione urbanistica; dal fatto che limiti alla potestà espropriativa pubblica avrebbero dovuto essere espressamente individuati dal legislatore, in virtù della riserva di legge in materia di cui all'art. 42 della Costituzione.
Considerazioni, queste, che portano la Corte dei conti Lombardia ad escludere dal campo di applicazione della norma vincolistica di cui al comma 1-ter le procedure di espropriazione per pubblica utilità. Con la precisazione, peraltro, dell'essere i presupposti dell'indispensabilità e indilazionabilità insiti all'interno della disciplina delle espropriazioni
[10].
Peraltro, va segnalato anche l'orientamento della Corte dei conti Piemonte, la quale, successivamente alla norma di interpretazione autentica del comma 1-quater recata dall'art. 10-bis, D.L. n. 35/2013, osserva che per quanto riguarda la previsione del comma 1-ter non risultano essere state identificate eccezioni, alle condizioni ivi indicate, in sede d'interpretazione autentica. Ed invero, nel caso sottoposto al suo esame, la Corte dei conti ritiene escluso dall'applicazione del comma 1-ter il procedimento ablativo, per la circostanza specifica di essere questo già in corso e già nello stadio successivo all'approvazione del progetto definitivo e alla dichiarazione di pubblica utilità, in una fase cioè, in cui risulta in re ipsa integrato il requisito di indispensabilità e indilazionabilità richiesto dal comma 1-ter citato
[11].
Venendo all'istituto del diritto di prelazione, in mancanza di una norma o di indicazioni ministeriali che valgano a conciliare il suo esercizio con l'acquisto di immobili vincolato al rispetto delle condizioni previste dal comma 1-ter, ci si rifà ancora alle riflessioni offerte dalla giurisprudenza.
Prima dell'intervento della norma di interpretazione autentica del comma 1-quater recata dall'art. 10-bis richiamato, la Corte dei conti ha ritenuto che tale comma introducesse una fattispecie di impossibilità giuridica sopravvenuta per factum principis preclusiva all'esercizio dei diritti di prelazione per l'anno 2013 e che, negli esercizi successivi, anche questa tipologia di acquisti immobiliari dovesse soggiacere al requisito dell'indispensabilità e indilazionabilità
[12].
Successivamente all'introduzione dell'art. 10-bis, la Corte dei conti ha affermato che l'esercizio del diritto di prelazione in favore degli enti pubblici territoriali, dettato dall'art. 60 del D.Lgs. n. 42/2004, 'deve ritenersi sottratto dal campo di applicazione della norma introdotta dal comma 138 della legge di stabilità 2013 che vieta l'acquisto di immobili a titolo oneroso poiché espressione di una potestà autoritativa di preminente rilevanza pubblica dell'amministrazione che non si colloca in posizione di parità con i privati'
[13].
Peraltro, la pronuncia di apertura della Corte dei conti sembra essere riferita al solo comma 1-quater, mentre con specifico riferimento al vigente comma 1-ter non si rinvengono deliberazioni specifiche nel senso di ritenere escluso dal suo ambito di applicazione gli acquisti in via di prelazione.
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[1] D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, recante: 'Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'art. 10 della legge 06.07.2002, n. 137'.
[2] Il Comune precisa di non disporre di contributo regionale per l'acquisto di detto immobile, sicché non può venire in considerazione la normativa regionale di cui all'art. 11, comma 11, L.R. n. 5/2013, secondo cui le disposizioni di cui all'art. 12, D.L. n. 98/2011, come modificato dall'art. 1, comma 138, L. n. 228/2012, non si applicano agli enti locali della Regione per gli acquisti di immobili finanziati in tutto o in parte con legge regionale.
[3] D.P.R. 08.06.2001, n. 327, recante: 'Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità. (Testo A)'.
[4] L'art. 60 del D.Lgs. n. 42/2004 disciplina l'acquisto in via di prelazione degli enti territoriali.
[5] Attualmente non è più vigente la norma imperativa che vietava l'acquisto di beni immobili, nell'anno 2013, da parte delle pp.aa., contenuta nel comma 1-quater dell'art. 12, D.L. n. 98/2011, introdotto dall'art. 1, c. 138, L. n. 228/2012 (cfr. Corte dei conti, sez. reg. contr., Lombardia, deliberazione 05.03.2014, n. 97) e su cui era intervenuta una norma di interpretazione autentica (art. 10-bis, c. 1, D.L. n. 35/2013), di cui si dirà nel prosieguo.
[6] Sul piano della casistica, la Corte dei conti ha ritenuto legittimi gli acquisti di immobili, ai sensi del comma 1-ter, ove realizzati a conclusione di procedimenti espropriativi in corso, sul presupposto che la loro instaurazione sia stata giustificata proprio dalla necessità di soddisfare interessi pubblici assolutamente primari (Cfr. Corte dei conti, sez. reg. contr. Liguria, 25.01.2013, n. 9; Corte dei conti, sez. reg. contr. Piemonte, 21.11.2013, n. 402).
[7] Con la previsione dell'attestazione del prezzo da parte dell'Agenzia del demanio, il legislatore ha inteso tutelare l'Amministrazione procedente con riferimento alla puntuale determinazione del prezzo d'acquisto, affidando la congruità dell'importo ad un soggetto terzo e altamente qualificato in materia di attività tecnico-estimali (Cfr. Agenzia del demanio, circolare n. 29348 del 09.12.2013).
[8] Si riporta il testo dell'art. 10-bis in commento: 'Nel rispetto del patto di stabilità interno, il divieto di acquistare immobili a titolo oneroso, di cui all'articolo 12, comma 1-quater, del decreto-legge 06.07.2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n. 111, non si applica alle procedure relative all'acquisto a titolo oneroso di immobili o terreni effettuate per pubblica utilità ai sensi del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 08.06.2001, n. 327, nonché alle permute a parità di prezzo e alle operazioni di acquisto programmate da delibere assunte prima del 31.12.2012 dai competenti organi degli enti locali e che individuano con esattezza i compendi immobiliari oggetto delle operazioni e alle procedure relative a convenzioni urbanistiche previste dalle normative regionali e provinciali'.
[9] Corte dei conti Lombardia, 05.03.2014, n. 97, che richiama in tal senso Corte dei conti Veneto deliberazione 12 giugno 2013, n. 148, che già si era espressa nel senso di escludere dal campo di applicazione del comma 1-ter le procedure espropriative.
[10] La Corte dei conti Lombardia osserva, al riguardo, che all'interno del procedimento espropriativo trovano adeguata considerazione le prerogative enunciate dal comma 1-ter dell'indispensabilità e indilazionabilità, quali legittimanti le operazioni di acquisto di beni immobili. Ai sensi dell'art. 42, co. 3, Cost., infatti, l'espropriazione è consentita nei casi previsti dalla legge, per motivi di interesse generale: interesse pubblico che deve essere attuale e 'indispensabile per far fronte a bisogni che, pure se destinati a concretarsi in futuro e a essere soddisfatti soltanto col decorso del tempo, presentino tuttavia fin dal momento attuale quel sufficiente punto di concretezza che valga a far considerare necessario e tempestivo il sacrificio della proprietà privata nell'ora presente' (Corte costituzionale 06.07.1996, n. 90, richiamata dal magistrato contabile lombardo).
[11] Corte dei conti, sez. reg. contr. Piemonte, 21.11.2013, n. 402, la quale osserva che la ratio della deroga, espressamente disposta per il 2013, dall'art. 10-bis, D.L. n. 35/2013, a favore delle procedure espropriative, risulterebbe vanificata se poi, per la prosecuzione delle stesse nell'esercizio 2014, fossero richieste le restrittive condizioni di cui al comma 1-ter.
[12] Corte dei conti, sez. reg. contr., Liguria, 25.01.2013, n. 9, richiamata da Corte dei conti, sez. reg. contr., Basilicata 05.03.2013, n. 36.
[13] Corte dei conti, sez. reg. contr., Puglia, deliberazione 19.09.2013, n. 143, la quale ricorda di avere ritenuto escluse dal divieto di acquisto di immobili a titolo oneroso, per l'anno 2013, le procedure espropriative ancor prima che lo esplicitasse il legislatore, proprio sostenendo il riferimento di detta norma ai soli casi in cui le amministrazioni pubbliche agiscono iure privatorum al pari dei soggetti privati (il riferimento è a Corte dei conti, sez. reg. contr., Puglia, 03.05.2013, n. 89)
(06.07.2016 -
link a www.regione.fvg.it).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Il Comune ha violato le garanzie previste dall’art. 19, comma 4, legge n. 241 del 1990 che in presenza di una s.c.i.a. illegittima, consente certamente all’Amministrazione di intervenire anche oltre il termine perentorio di 60 giorni (30 giorni in materia edilizia) previsto dal comma 3, ma solo alle condizioni -e seguendo il procedimento- cui la legge subordina l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio dei provvedimenti amministrativi e, quindi, tenendo conto, oltre che degli eventuali profili di illegittimità dell’attività assentita per effetto della s.c.i.a. ormai perfezionatasi, dell’affidamento ingeneratosi in capo al privato per effetto del decorso del tempo, e, comunque, esternando le ragioni di interesse pubblico a sostegno del provvedimento repressivo.
Invero, la d.i.a./s.c.i.a., una volta decorsi i termini per l’esercizio del potere inibitorio-repressivo, costituisce un titolo abilitativo valido ed efficace (sotto tale profilo equiparabile quoad effectum al rilascio del provvedimento espresso), che può essere rimosso, per espressa previsione legislativa, solo attraverso l’esercizio del potere di autotutela decisoria nel rispetto delle prescrizioni recate dall’art. 19, comma 4, della legge n. 241/1990.
Pertanto, scaduto il termine perentorio previsto dalla legge per verificare la sussistenza dei relativi presupposti, deve considerarsi illegittima l’adozione di un provvedimento repressivo/ripristinatorio o di autotutela adottato senza le garanzie e i presupposti richiesti dall’art. 21-nonies l. n. 241/1990 per l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio.

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Con ricorso, integrato da motivi aggiunti, la società ricorrente ha impugnato gli atti con i quali il Comune di Venezia ha rimosso in autotutela gli effetti legittimanti della s.c.i.a. presentata, in data 18.03.2015, in relazione all'attività di affittacamere esercitata in Venezia, Via... n. ..., e le ha intimato la chiusura dell’attività ricettiva.
Resiste il Comune di Venezia contrastando le avverse pretese.
Il ricorso e i motivi aggiunti meritano accoglimento per una duplice e assorbente ragione.
In primo luogo perché gli atti impugnati, ovvero il cd. annullamento in autotutela della s.c.i.a. e la successiva diffida alla chiusura dell’attività di affittacamere, diversamente da quanto sostenuto dal Comune nei propri scritti difensivi, non appaiono fondati sui verbali di accertamento conseguenti ai sopralluoghi effettuati dalla Polizia Municipale in data 9 luglio e 26.11.2015 (neppure menzionati nei provvedimenti impugnati), bensì su violazioni minori, molte delle quali risalenti al 2007.
Vi è dunque una sfasatura tra la struttura argomentativa dei provvedimenti impugnati, che non risultano incentrati sulle violazioni riscontrate dalla Polizia Municipale in data 9 luglio e 26.11.2015, e le difese svolte in giudizio dall’Ente Locale, che cercano di giustificare l’operato del Comune richiamando le violazioni accertate in esito a tali sopralluoghi.
In secondo luogo -e il rilievo è dirimente, comunque s’interpretino i provvedimenti impugnati- perché l’atto del 05.02.2016, che ha rimosso in autotutela gli effetti legittimanti della s.c.i.a. presentata dalla ricorrente il 18.03.2015, non contiene una puntuale e specifica motivazione in ordine alle ragioni d’interesse pubblico, attuale e concreto, diverse dal ripristino della legalità violata, poste a fondamento dell’esercizio del potere di autotutela decisoria.
Il Comune ha violato le garanzie previste dall’art. 19, comma 4, legge n. 241 del 1990 che in presenza di una s.c.i.a. illegittima, consente certamente all’Amministrazione di intervenire anche oltre il termine perentorio di 60 giorni (30 giorni in materia edilizia) previsto dal comma 3, ma solo alle condizioni -e seguendo il procedimento- cui la legge subordina l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio dei provvedimenti amministrativi e, quindi, tenendo conto, oltre che degli eventuali profili di illegittimità dell’attività assentita per effetto della s.c.i.a. ormai perfezionatasi, dell’affidamento ingeneratosi in capo al privato per effetto del decorso del tempo, e, comunque, esternando le ragioni di interesse pubblico a sostegno del provvedimento repressivo.
La d.i.a./s.c.i.a., una volta decorsi i termini per l’esercizio del potere inibitorio-repressivo, costituisce un titolo abilitativo valido ed efficace (sotto tale profilo equiparabile quoad effectum al rilascio del provvedimento espresso), che può essere rimosso, per espressa previsione legislativa, solo attraverso l’esercizio del potere di autotutela decisoria nel rispetto delle prescrizioni recate dall’art. 19, comma 4, della legge n. 241/1990. Pertanto, scaduto il termine perentorio previsto dalla legge per verificare la sussistenza dei relativi presupposti, deve considerarsi illegittima l’adozione di un provvedimento repressivo/ripristinatorio o di autotutela adottato senza le garanzie e i presupposti richiesti dall’art. 21-nonies l. n. 241/1990 per l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio (cfr., in questi termini, Cons. Stato, sez. VI, 22.09.2014, n. 4780; TAR Lazio-Roma, 08.01.2015, n. 192; TAR Veneto, Sez. III, 10.09.2015, n. 958).
All’accoglimento del ricorso e dei motivi aggiunti consegue l’annullamento degli atti impugnati (TAR Veneto, Sez. III, sentenza 26.07.2016 n. 893 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Il Tar Milano si pronuncia sulle conseguenze della mancata adesione al soccorso istruttorio in materia di appalti pubblici nell'applicazione della disciplina abrogata e del nuovo codice dei contratti.
Appalti pubblici – Soccorso istruttorio - Mancata adesione – Conseguenze.
Appalti pubblici – Soccorso istruttorio - Mancata adesione - Disciplina interna ed euro unitaria – Art. 38, comma 2-bis, d.lgs. n. 163 del 2006 – Contrasto con la disciplina europea – Esclusione – Ratio.
Appalti pubblici – Soccorso istruttorio - Art. 83, comma 9, d.lgs. n. 50 del 2016 – Adesione alla disciplina europea.

...
Ai sensi dell’art. 38, comma 2-bis, d.lgs. 12.04.2006, n. 163, l’essenzialità dell’irregolarità determina in sé per sé l’obbligo del concorrente di pagare la sanzione pecuniaria prevista dal bando, a prescindere dalla circostanza che questi aderisca o meno all’invito, che la stazione appaltante deve necessariamente fargli, di sanare detta irregolarità.
L’art. 38, comma 2-bis, d.lgs. 12.04.2006, n. 163, non si pone in contrasto con l’ordinamento dell’Unione Europea, in quanto la direttiva 2014/24/UE, non rivestendo la qualifica di “self executing”, non poteva trovare applicazione diretta nell’ordinamento giuridico prima del suo recepimento nell’ordinamento interno.
La nuova disciplina del soccorso istruttorio in materia di appalti pubblici, di cui all’art. 83, comma 9, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, nella parte in cui non prevede l’obbligo del pagamento della sanzione nel caso di mancata regolarizzazione, risulta del tutto conforme alla direttiva 2014/24/UE.

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La sentenza in commento formula i principi di diritto di cui in massima, pronunciandosi sulle conseguenze della mancata adesione al soccorso istruttorio in materia di appalti pubblici nell'applicazione della disciplina abrogata e del nuovo codice dei contratti pubblici.
Il Tar Milano, con la sentenza segnalata, ha aderito all’orientamento maggioritario formatosi in relazione all’interpretazione dell’art. 38, comma 2-bis, d.lgs. 12.04.2006, n. 163, come inserito dall'art. 39, comma 1, d.l. 24.06.2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla l. 11.08.2014, n. 114, testo non più in vigore, ma applicabile alla fattispecie in questione, secondo il quale le carenze di qualsiasi elemento formale della domanda possono essere sanate attraverso la procedura di soccorso istruttorio ed implicano, comunque, il pagamento della sanzione pecuniaria, anche nel caso di mancata adesione al medesimo soccorso istruttorio e di conseguente esclusione dalla procedura concorsuale.
Tale conclusione si ricava, innanzitutto, dalla lettera della disposizione normativa, per la quale l’essenzialità dell’irregolarità determina in sé e per sé l’obbligo del concorrente di pagare la sanzione pecuniaria prevista dal bando, a prescindere dalla circostanza che questi aderisca o meno all’invito, che la stazione appaltante deve necessariamente fargli, di sanare detta irregolarità. Solamente quando l’irregolarità non è essenziale, il concorrente non è tenuto al pagamento della sanzione pecuniaria e la stazione appaltante al soccorso istruttorio.
Tale conclusione è giustificata anche dalla ratio di garantire la serietà delle offerte presentate, per favorire la responsabilizzazione dei concorrenti, per evitare spreco di risorse. Il nuovo comma 2-bis dell’art. 38 citato ha, invero, introdotto una sanzione pecuniaria, che non è alternativa e sostitutiva rispetto all’esclusione, ma colpisce l’irregolarità essenziale, in sé per sé considerata, indipendentemente dal fatto che essa venga successivamente sanata o meno dall’impresa interessata.
L’introduzione della sanzione pecuniaria, in caso di irregolarità essenziali nelle dichiarazioni sostitutive, quindi, contribuisce a garantire la celere e sicura verifica del possesso dei requisiti di partecipazione in capo ai concorrenti, in un’ottica di buon andamento ed economicità dell’azione amministrativa, a cui devono concorrere anche i partecipanti alla gara, in ossequio ai principi di leale cooperazione, di correttezza e di buona fede. L’esclusione, invece, consegue all’effettiva mancanza dei requisiti di partecipazione o, comunque, alla mancata regolarizzazione e integrazione delle dichiarazioni carenti (Tar L’Aquila 25.11.2015, n. 784).
Ha aggiunto il Tar Milano che, in relazione al paventato contrasto della norma con il diritto comunitario, la direttiva 2014/24/UE sugli appalti pubblici, né al considerando n. 84, né agli artt. 56, comma 3 e 59, paragrafo 4, subordina l’esercizio del soccorso istruttorio al pagamento di una sanzione pecuniaria, ma solamente all’osservanza dei principi di parità di trattamento e trasparenza; introdurre un tale obbligo significherebbe, dunque, violare il divieto di gold plating, stabilito dall’art. 1, l. 28.01.2016, n. 11 tra i criteri e principi direttivi per l’attuazione delle deleghe in materia di attuazione delle direttive europee sui contratti e sulle concessioni pubbliche, che impone il divieto di introdurre livelli di regolazione superiori a quelli imposti dalle direttive europee da recepire.
Il Tar ha ritenuto, tuttavia, che tale contrasto non potesse ancora ravvisarsi al momento degli accadimenti di cui è causa, atteso che la direttiva 2014/24/UE, adottata il 26.02.2014 e secondo quanto disposto dall’art. 92, entrata in vigore il ventesimo giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea, avvenuta il 17.04.2014, doveva essere recepita negli ordinamenti interni, ai sensi dell’art. 90 della medesima direttiva, entro il 18.04.2016.
Come chiarito dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato (sez. III, 25.11.2015, n. 5359; sez. V, 11.09.2015, n. 4253; sez. VI, 26.05.2015, n. 2660) la stessa, non rivestendo la qualifica di self executing, non poteva trovare applicazione diretta nell’ordinamento giuridico. Pur essendo dotata di giuridica rilevanza, essa non avrebbe potuto, dunque, imporre un vincolo di interpretazione conforme del diritto nazionale tale da stravolgerne il significato letterale.
La nuova disciplina del soccorso istruttorio in materia di appalti pubblici di cui all’art. 83, comma 9, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, risulta emendata proprio nel senso di non prevedere più l’obbligo del pagamento della sanzione nel caso di mancata regolarizzazione.
In tale parte la stessa risulta, dunque, del tutto conforme alla direttiva 2014/24/UE (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 14.07.2016 n. 1423 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
Il collegio, dopo un’approfondita delibazione degli atti della controversia, ritiene di aderire al maggioritario orientamento formatosi in relazione all’interpretazione dell’art. 38, comma 2-bis, del d.lgs. n. 163/2006, come inserito dall'art. 39, comma 1, del d.l. 24.06.2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.08.2014, n. 114, testo non più in vigore, ma applicabile alla fattispecie in questione, che così recitava: “
La mancanza, l'incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e delle dichiarazioni sostitutive di cui al comma 2 obbliga il concorrente che vi ha dato causa al pagamento, in favore della stazione appaltante, della sanzione pecuniaria stabilita dal bando di gara, in misura non inferiore all'uno per mille e non superiore all'uno per cento del valore della gara e comunque non superiore a 50.000 euro, il cui versamento è garantito dalla cauzione provvisoria. In tal caso, la stazione appaltante assegna al concorrente un termine, non superiore a dieci giorni, perché siano rese, integrate o regolarizzate le dichiarazioni necessarie, indicandone il contenuto e i soggetti che le devono rendere. Nei casi di irregolarità non essenziali, ovvero di mancanza o incompletezza di dichiarazioni non indispensabili, la stazione appaltante non ne richiede la regolarizzazione, né applica alcuna sanzione. In caso di inutile decorso del termine di cui al secondo periodo il concorrente è escluso dalla gara (…)”.
Ed invero, secondo tale maggioritario orientamento giurisprudenziale: “
In primo luogo, soccorre l’argomento testuale. Il comma 2-bis dell’art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006, infatti, chiarisce che è la mancanza, l'incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale nelle dichiarazioni sostitutive volte ad accertare i requisiti di partecipazione alle procedure di gara, in sé per sé considerate, ad obbligare il concorrente che vi ha dato causa al pagamento, in favore della stazione appaltante, della sanzione pecuniaria stabilita dal bando di gara.
Qualora l’irregolarità in cui è incorso il concorrente sia essenziale, infatti, la disposizione prevede, da un lato, il pagamento della sanzione pecuniaria nell’importo stabilito dal bando di gara e garantito dalla cauzione provvisoria, dall’altro, che la stazione appaltante assegni al concorrente un termine, non superiore a dieci giorni, perché siano rese, integrate o regolarizzate le dichiarazioni necessarie, indicandone il contenuto e i soggetti che le devono rendere. Se poi il termine decorre inutilmente, senza che il concorrente provveda alla regolarizzazione o integrazione richiesta, questi verrà altresì escluso dalla procedura di gara
".
In conclusione, appare evidente dalla lettera della disposizione che
l’essenzialità dell’irregolarità determina in sé per sé l’obbligo del concorrente di pagare la sanzione pecuniaria prevista dal bando, a prescindere dalla circostanza che questi aderisca o meno all’invito, che la stazione appaltante deve necessariamente fargli, di sanare detta irregolarità.
Solamente quando l’irregolarità non è essenziale, il concorrente non è tenuto al pagamento della sanzione pecuniaria e la stazione appaltante al soccorso istruttorio.
L’esclusione, invece, è una conseguenza sanzionatoria diversa e in parte autonoma da quella pecuniaria, nel senso che il concorrente vi incorrerà solamente in caso di mancata ottemperanza all’invito alla regolarizzazione da parte della stazione appaltante.

In secondo luogo,
ritiene il Collegio che questa lettura ermeneutica sia avvalorata dalla ratio della disposizione esaminata, la quale, come si è detto, è da ravvisare, indubbiamente, nell’esigenza di superare le incertezze interpretative e applicative del combinato disposto degli artt. 38 e 46 del d.lgs. n. 163 del 2006, mediante la procedimentalizzazione del potere di soccorso istruttorio, che è diventato doveroso per ogni ipotesi di mancanza o di irregolarità delle dichiarazioni sostitutive, anche “essenziale”.
Il legislatore, insomma, ha voluto evitare, nella fase del controllo delle dichiarazioni e, quindi, dell'ammissione alla gara delle offerte presentate, esclusioni dalla procedura per mere carenze documentali, imponendo un'istruttoria veloce, preordinata ad acquisire la completezza delle dichiarazioni, e autorizzando la sanzione espulsiva solo quale conseguenza dell’inosservanza, da parte dell'impresa concorrente, all'obbligo di integrazione documentale entro il termine perentorio accordato, a tal fine, dalla stazione appaltante.
In tal modo, si è proceduto alla dequalificazione delle irregolarità dichiarative da fattori escludenti a carenze regolarizzabili.

Proprio per questo –e in particolare per garantire la serietà delle offerte presentate, per favorire la responsabilizzazione dei concorrenti, per evitare spreco di risorse–
il nuovo comma 2-bis dell’art. 38 citato ha introdotto una sanzione pecuniaria, che non è alternativa e sostitutiva rispetto all’esclusione, ma colpisce l’irregolarità essenziale, in sé per sé considerata, indipendentemente dal fatto che essa venga successivamente sanata o meno dall’impresa interessata
(in tal senso si veda anche la relazione del Procuratore Generale della Corte dei Conti all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2015, secondo cui appunto “la sanzione è dovuta anche ove il concorrente decida di non rispondere all’invito a regolarizzare”).
L’introduzione della sanzione pecuniaria, in caso di irregolarità essenziali nelle dichiarazioni sostitutive, quindi, contribuisce a garantire la celere e sicura verifica del possesso dei requisiti di partecipazione in capo ai concorrenti, in un’ottica di buon andamento ed economicità dell’azione amministrativa, a cui devono concorrere anche i partecipanti alla gara, in ossequio ai principi di leale cooperazione, di correttezza e di buona fede.
L’esclusione, invece, consegue all’effettiva mancanza dei requisiti di partecipazione o, comunque, alla mancata regolarizzazione e integrazione delle dichiarazioni carenti” (TAR Abruzzo, 25.11.2015, n. 784).
In relazione al paventato contrasto della norma con il diritto comunitario, deve precisarsi che, sul punto, l’ANAC era intervenuta con la delibera n. 1 dell’08.01.2015, fornendo un’interpretazione difforme rispetto a quella appena descritta.
Come chiarito dal suo Presidente con il successivo comunicato del 23.03.2015 affrontando nuovamente il tema del giusto raccordo tra l’affermazione contenuta nella determinazione n. 1/2015, secondo cui “la sanzione individuata negli atti di gara sarà comminata nel caso in cui il concorrente intenda avvalersi del nuovo soccorso istruttorio” e la lettera dell’art. 38, comma 2-bis, d.lgs. 163/2006, laddove questo prevede che l’operatore economico “è obbligato al pagamento della sanzione”, la lettura interpretativa fornita dalla determinazione n. 1 del 2015 “si è imposta come doverosa sia per evitare eccessive ed immotivate vessazioni delle imprese sia in ossequio al principio di primazia del diritto comunitario, che impone di interpretare la normativa interna in modo conforme a quella comunitaria anche in corso di recepimento. La direttiva 2014/24/UE sugli appalti pubblici, infatti, prevede all’art. 59, paragrafo 4, secondo capoverso, la possibilità di integrare o chiarire i certificati presentati relativi al possesso sia dei requisiti generali sia di quelli speciali, senza il pagamento di alcuna sanzione”.
Ed invero, né al considerando n. 84, secondo cui: “l’offerente al quale è stato deciso di aggiudicare l’appalto dovrebbe tuttavia essere tenuto a fornire le prove pertinenti e le amministrazioni aggiudicatrici non dovrebbero concludere appalti con offerenti che non sono in grado di produrre le suddette prove. Le amministrazioni aggiudicatrici dovrebbero anche avere la facoltà di richiedere in qualsiasi momento tutti i documenti complementari o parte di essi se ritengono che ciò sia necessario per il buon andamento della procedura”, né all’art. 56, comma 3, secondo il quale: “Se le informazioni o la documentazione che gli operatori economici devono presentare sono o sembrano essere incomplete o non corrette, o se mancano documenti specifici, le amministrazioni aggiudicatrici possono chiedere, salvo disposizione contraria del diritto nazionale che attua la presente direttiva, agli operatori economici interessati di presentare, integrare, chiarire o completare le informazioni o la documentazione in questione entro un termine adeguato, a condizione che tale richiesta sia effettuata nella piena osservanza dei principi di parità di trattamento e trasparenza”, né, infine, all’art. 59, comma 4, secondo cui: “l’amministrazione aggiudicatrice può chiedere a offerenti e candidati, in qualsiasi momento nel corso della procedura, di presentare tutti i documenti complementari o parte di essi, qualora questo sia necessario per assicurare il corretto svolgimento della procedura”, la direttiva 2014/24/UE subordina l’esercizio del soccorso istruttorio al pagamento di una sanzione pecuniaria, ma solamente all’osservanza dei principi di parità di trattamento e trasparenza.
Introdurre un tale obbligo significherebbe, dunque, violare il divieto di “gold plating”, stabilito dall’art. 1 della legge 28.01.2016, n. 11 tra i criteri e principi direttivi per l’attuazione delle deleghe in materia di attuazione delle direttive europee sui contratti e sulle concessioni pubbliche, che impone il divieto di introdurre livelli di regolazione superiori a quelli imposti dalle direttive europee da recepire.
Il collegio ritiene, tuttavia, che tale contrasto non potesse ancora ravvisarsi al momento degli accadimenti di cui è causa, atteso che la direttiva 2014/24/UE, adottata il 26.02.2014 e secondo quanto disposto dall’art. 92, entrata in vigore il ventesimo giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea, avvenuta il 17.04.2014, doveva essere recepita negli ordinamenti interni, ai sensi dell’art. 90 della medesima direttiva, entro il 18.04.2016.
Come chiarito dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato (cfr. Cons. Stato, sez. III, 25.11.2015, n. 5359; sez. V, 11.09.2015, n. 4253; sez. VI, 26.05.2015, n. 2660) la stessa, non rivestendo la qualifica di “self executing”, non poteva trovare applicazione diretta nell’ordinamento giuridico.
Pur essendo dotata di giuridica rilevanza, essa non avrebbe potuto, dunque, imporre un vincolo di interpretazione conforme del diritto nazionale tale da stravolgerne il significato letterale.
Deve osservarsi, invero, che il nuovo codice degli appalti (d.lgs. n. 50/2016), adottato in attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, e pubblicato in Gazz. Uff., S.O., 19.04.2016, n. 91, prevede, ora, all’art. 83, comma 9, che: “
Le carenze di qualsiasi elemento formale della domanda possono essere sanate attraverso la procedura di soccorso istruttorio di cui al presente comma. In particolare, la mancanza, l'incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e del documento di gara unico europeo di cui all'articolo 85, con esclusione di quelle afferenti all'offerta tecnica ed economica, obbliga il concorrente che vi ha dato causa al pagamento, in favore della stazione appaltante, della sanzione pecuniaria stabilita dal bando di gara, in misura non inferiore all'uno per mille e non superiore all'uno per cento del valore della gara e comunque non superiore a 5.000 euro. In tal caso, la stazione appaltante assegna al concorrente un termine, non superiore a dieci giorni, perché siano rese, integrate o regolarizzate le dichiarazioni necessarie, indicandone il contenuto e i soggetti che le devono rendere, da presentare contestualmente al documento comprovante l'avvenuto pagamento della sanzione, a pena di esclusione. La sanzione e' dovuta esclusivamente in caso di regolarizzazione. Nei casi di irregolarità formali, ovvero di mancanza o incompletezza di dichiarazioni non essenziali, la stazione appaltante ne richiede comunque la regolarizzazione con la procedura di cui al periodo precedente, ma non applica alcuna sanzione. In caso di inutile decorso del termine di regolarizzazione, il concorrente e' escluso dalla gara. Costituiscono irregolarità essenziali non sanabili le carenze della documentazione che non consentono l'individuazione del contenuto o del soggetto responsabile della stessa”.
La nuova disciplina del soccorso istruttorio in materia di appalti pubblici risulta, dunque, emendata proprio nel senso di non prevedere più l’obbligo del pagamento della sanzione nel caso di mancata regolarizzazione. In tale parte, quindi, la norma risulta del tutto conforme alla direttiva succitata.
Tale testo normativo non può, peraltro, ricevere applicazione nella fattispecie all’esame del collegio, atteso che la procedura concorsuale in questione è stata bandita prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 50/2016.

AGGIORNAMENTO AL 27.07.2016

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INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE (ex incentivo progettazione):
ecco il 1° parere (che si conosca) dopo il varo del "nuovo codice dei contratti pubblici" ex d.lgs. n. 50/2006

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE (ex incentivo progettazione): Gli incentivi per attività tecniche non possono essere riconosciuti in favore di dipendenti interni che svolgano attività di direzione lavori o di collaudo quando dette attività sono connesse a “lavori pubblici da realizzarsi da parte di soggetti privati, titolari di permesso di costruire o di un altro titolo abilitativo, che assumono in via diretta l'esecuzione delle opere di urbanizzazione a scomputo totale o parziale del contributo previsto per il rilascio del permesso, ai sensi dell'articolo 16, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, e dell'articolo 28, comma 5, della legge 17.08.1942, n. 1150, ovvero eseguono le relative opere in regime di convenzione”.
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Il Sindaco del Comune di Carate Brianza (MB), con la nota indicata in epigrafe, ha formulato una richiesta di parere in merito all'applicabilità degli incentivi per attività tecniche relative a opere pubbliche derivanti da opere di urbanizzazione.
In particolare, chiede a questa Sezione di esprimere un parere sul seguente quesito: “se alla luce del combinato disposto dell'art. 1, comma 2, lettera e), e dell'art. 113 sia possibile prevedere nell'apposito regolamento una forma di incentivazione almeno per le attività relative alla direzione lavori e del collaudo per opere pubbliche derivanti da convenzioni urbanistiche sottoscritte con soggetti privati per opere di urbanizzazione che implicano, comunque, l’approvazione dei relativi progetti da parte degli organi collegiali comunali.
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In particolare, il Sindaco del Comune di Carate Brianza formula il seguente quesito: “se alla luce del combinato disposto dell'art. 1, comma 2, lettera e) e dell'art. 113 sia possibile prevedere nell'apposito regolamento una forma di incentivazione almeno per le attività relative alla direzione lavori e del collaudo per opere pubbliche derivanti da convenzioni urbanistiche sottoscritte con soggetti privati per opere di urbanizzazione che implicano, comunque, l’approvazione dei relativi progetti da parte degli organi collegiali comunali”.
In buona sostanza, l’amministrazione locale istante chiede se il regolamento comunale possa prevedere che possano godere degli incentivi previsti dall’art. 113 d.lgs. n. 50/2016 anche in favore dei “tecnici interni” che svolgono attività di direzione lavori e di collaudo per lavori pubblici realizzati “da parte di soggetti privati, titolari di permesso di costruire o di un altro titolo abilitativo, che assumono in via diretta l'esecuzione delle opere di urbanizzazione a scomputo totale o parziale del contributo previsto per il rilascio del permesso”.
Prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 50/2016 (19.04.2016), la disciplina era regolamentata dall’art. 93, commi 7-ter e ss. del d.lgs. 163/2006, come introdotti dagli artt. 13 e 13-bis, del d.l. 24.06.2014, n. 90 conv. con modificazioni dalla legge 11.08.2014, n. 114. Sull’interpretazione del precedente quadro normativo, tra l’altro, si era pronunciata più volte la Sezione delle Autonomie con la deliberazione 24.03.2015 n. 11, deliberazione 23.03.2016 n. 10 e, da ultimo, deliberazione 13.05.2016 n. 18.
Il d.lgs. n. 50/2016 (in linea con l’art. 1, comma 1, lett. rr della legge-delega 28.01.2016, n. 11) abolisce gli incentivi alla progettazione previsti dal previgente art. 93, comma 7-ter, ed introduce, all’art. 113, nuove forme di “incentivazione per funzioni tecniche”.
Disposizione, quest’ultima, rinvenibile al Tit. IV del d.lgs. n. 50/2016 rubricato “Esecuzione”, che disciplina gli incentivi per funzioni tecniche svolte da dipendenti esclusivamente per le attività di programmazione della spesa per investimenti e per la verifica preventiva dei progetti e, più in generale, per le attività tecnico-burocratiche, prima non incentivate, tese ad assicurare l’efficacia della spesa e la realizzazione corretta dell’opera.
Il richiamato art. 113 del nuovo codice degli appalti (d.lgs. n. 50/2016), ai primi tre commi, alla rubrica “incentivi per funzioni tecniche” recita: «1. Gli oneri inerenti alla progettazione, alla direzione dei lavori ovvero al direttore dell'esecuzione, alla vigilanza, ai collaudi tecnici e amministrativi ovvero alle verifiche di conformità, al collaudo statico, agli studi e alle ricerche connessi, alla progettazione dei piani di sicurezza e di coordinamento e al coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione quando previsti ai sensi del decreto legislativo 09.04.2008 n. 81, alle prestazioni professionali e specialistiche necessari per la redazione di un progetto esecutivo completo in ogni dettaglio fanno carico agli stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli lavori negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti.
2. A valere sugli stanziamenti di cui al comma 1 le amministrazioni pubbliche destinano a un apposito fondo risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate sull'importo dei lavori posti a base di gara per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti pubblici esclusivamente per le attività di programmazione della spesa per investimenti, per la verifica preventiva dei progetti di predisposizione e di controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del procedimento, di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti.
3. L'ottanta per cento delle risorse finanziarie del fondo costituito ai sensi del comma 2 è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, servizio, fornitura con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti, tra il responsabile unico del procedimento e i soggetti che svolgono le funzioni tecniche indicate al comma 1 nonché tra i loro collaboratori. Gli importi sono comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione. L'amministrazione aggiudicatrice o l'ente aggiudicatore stabilisce i criteri e le modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro a fronte di eventuali incrementi dei tempi o dei costi non conformi alle norme del presente decreto. La corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente o dal responsabile di servizio preposto alla struttura competente, previo accertamento delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti. Gli incentivi complessivamente corrisposti nel corso dell'anno al singolo dipendente, anche da diverse amministrazioni, non possono superare l'importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo. Le quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento, incrementano la quota del fondo di cui al comma 2. Il presente comma non si applica al personale con qualifica dirigenziale
».
Come emerge dal dato letterale della norma richiamata, non vi è dubbio che l’attività di direzione lavori e quella di collaudo rientrino tra quelle “incentivate” (si veda in questo senso il comma 1 dell’art. 113 cit.). In altri termini, sia l’attività di direzione lavori sia quella di collaudo rientrano tra gli incarichi tassativamente indicati dalla norma per le quali spetta in astratto il diritto del dipendente all’erogazione dell’incentivo per l’espletamento di attività tecniche.
Diversamente, bisogna affrontare la questione ermeneutica se gli incentivi in questione possano essere erogati per dette attività quando le stesse sono comportino “lavori pubblici da realizzarsi da parte di soggetti privati, titolari di permesso di costruire o di un altro titolo abilitativo, che assumono in via diretta l'esecuzione delle opere di urbanizzazione a scomputo totale o parziale del contributo previsto per il rilascio del permesso, ai sensi dell'articolo 16, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, e dell'articolo 28, comma 5, della legge 17.08.1942, n. 1150, ovvero eseguono le relative opere in regime di convenzione” [art. 1, comma 2, lett. e) d.lgs. 50/2016].
La norma di legge da ultimo richiamata precisa che con riferimento a detta ipotesi di lavori appaltati da un soggetto privato che deve realizzare opere a scomputo di oneri di urbanizzazione si applicano le disposizioni del codice degli appalti relative all'aggiudicazione dei contratti. Detto ciò bisogna, quindi, stabilire se tra dette norme sia ricompreso anche l’art. 113 che disciplina gli “incentivi per funzioni tecniche”.
Questa Sezione osserva che il quesito debba essere risolto alla luce del tenore letterale del primo e secondo comma dell’art. 113 cit.. In particolare, le disposizioni di legge richiamate indicano chiaramente che per la costituzione del fondo incentivante ci debbano essere “stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli lavori” nel bilancio dell’ente locale-stazione appaltante.
Ne consegue che, poiché i lavori pubblici realizzati da parte di soggetti privati ex art. 1, comma 2, lett. e), d.lgs. n. 50/16 non preventivano una spesa a carico dell’ente locale, non ricorre il presupposto per la costituzione del fondo incentivante.
Dunque, alla luce del tenore letterale dell’art. 113 del d.lgs. n. 50/2016, si deve concludere che
gli incentivi per attività tecniche non possono essere riconosciuti in favore di dipendenti interni che svolgano attività di direzione lavori o di collaudo quando dette attività sono connesse a “lavori pubblici da realizzarsi da parte di soggetti privati, titolari di permesso di costruire o di un altro titolo abilitativo, che assumono in via diretta l'esecuzione delle opere di urbanizzazione a scomputo totale o parziale del contributo previsto per il rilascio del permesso, ai sensi dell'articolo 16, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, e dell'articolo 28, comma 5, della legge 17.08.1942, n. 1150, ovvero eseguono le relative opere in regime di convenzione” [art. 1, comma 2, lett. e), d.lgs. 50/2016] (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 05.07.2016 n. 184).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Oggetto: Regione Lombardia - viabilità speciale di Segrate - realizzazione della c.d. “Cassanese-bis” – applicabilità art. 20 d.lgs. 50/2016 - richiesta di parere (parere sulla normativa n. 763 del 16.07.2016 - rif. AG 25/2016/AP - link a www.anticorruzione.it).
Art. 20 d.lgs. 50/2016 – realizzazione di opere pubbliche a cura e spese del privato
L’istituto contemplato nell’art. 20 del Codice non può trovare applicazione nel caso in cui la convenzione stipulata tra amministrazione e privato abbia ad oggetto la realizzazione di opere pubbliche da parte di quest’ultimo in cambio del riconoscimento in suo favore di una utilità, con conseguente carattere oneroso della convenzione stessa.
Il carattere oneroso della convenzione deve ritenersi sussistere in qualunque caso in cui, a fronte di una prestazione, vi sia il riconoscimento di un corrispettivo che può essere, a titolo esemplificativo, in denaro, ovvero nel riconoscimento del diritto di sfruttamento dell’opera (concessione) o ancora mediante la cessione in proprietà o in godimento di beni.
In tal caso la convenzione ha natura contrattuale, disciplinando il rapporto tra le parti con valore vincolante, sulla base di uno scambio sinallagmatico. Simili fattispecie sono da ricondurre nella categoria dell’appalto pubblico di lavori, da ciò derivando, come necessario corollario, il rispetto delle procedure ad evidenza pubblica previste nel Codice.

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Con nota pervenuta in data 18.05.2016 ed acquisita al prot. n. 79134, la Regione Lombardia –Direzione Generale Infrastrutture e Mobilità- ha sottoposto all’attenzione dell’Autorità una richiesta di parere in ordine alla possibilità di affidare direttamente ad un operatore economico la realizzazione della viabilità speciale di Segrate, c.d. “Cassanese–bis”, mediante il ricorso all’istituto previsto dall’art. 20 (opera realizzata a spese del privato) del d.lgs. n. 50/2016.
...
Alla luce di quanto sopra, l’Amministrazione richiedente ha formulato i seguenti quesiti:
   1. applicabilità dell’art. 20 del d.lgs. 50/2016 nel caso in cui, come nella fattispecie, si tratti di un progetto di interesse strategico ai sensi della legge n. 443/2001, approvato dal CIPE con deliberazione n. 62/2013;
   2. applicabilità dell’art. 20 citato nel caso in cui i costi di acquisizione delle aree necessarie per la realizzazione dell’opera vengano sostenuti dagli Enti pubblici sottoscrittori dell’Accordo di Programma, tenuto conto del fatto che la disposizione prevede che l’opera deve essere realizzata a totale cura e spese del soggetto privato;
   3. possibilità di ricorrere all’istituto in esame nel caso in cui sia stato già redatto il progetto esecutivo, posto che la norma prevede, prima della stipula della convenzione, la valutazione del progetto di fattibilità delle opere da eseguire;
   4. se tra gli schemi di contratto da valutare ai sensi del comma 2, dell’art. 20, sono ricompresi anche quelli relativi all’affidamento dei servizi tecnici (direzione lavori, collaudo, coordinatore sicurezza in corso d’opera, etc.).
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Sulla base delle considerazioni che precedono, in relazione ai quesiti formulati dall’Amministrazione regionale, è possibile affermare in linea generale che ai fini dell’applicazione della disciplina di cui all’art. 20 del d.lgs. 50/2016, mentre appare ininfluente che il progetto da valutare sia relativo ad un’opera di interesse strategico (ai sensi della legge obiettivo n. 443/2001) posto che la norma nulla dispone al riguardo, la predetta applicabilità sembra invece dubbia nel caso in cui sia stato già redatto il progetto esecutivo dell’opera, posto che la disposizione prevede che prima della stipula della convenzione deve essere valutato il “progetto di fattibilità delle opere da eseguire”.
Appare altresì dubbio, ai fini del ricorso all’istituto de quo, che i costi di acquisizione delle aree per la realizzazione dell’opera debbano necessariamente restare a carico del privato proponente, posto che l’art. 20 fa espresso riferimento esclusivamente alla realizzazione dell’opera a totale cura e spese dello stesso, senza specificare nulla in ordine ai predetti costi di acquisizione delle aree; pertanto, non sembrerebbe esclusa la possibilità che tali costi restino a carico della competente Amministrazione, salvo diverso accordo con il privato proponente.
Con riferimento agli schemi di contratto che devono essere valutati ai sensi dell’art. 20, comma 2, del Codice, stante la genericità della previsione, si ritiene che debbano essere ricompresi in tale novero tutti gli schemi di contratto relativi alla realizzazione dell’opera, inclusi quelli relativi all’affidamento dei servizi tecnici (direzione lavori, collaudo, coordinatore sicurezza in corso d’opera, etc.).
Infine, occorre ribadire che dal riferimento contenuto nella norma alla convenzione da stipulare (“prima della stipula della convenzione…”) ed alla previa valutazione del progetto di fattibilità -anche alla luce della disciplina transitoria contenuta nell’art. 216 del Codice- sembra derivare l’applicabilità delle disposizioni di cui all’art. 20 solo alle convenzioni in relazione alle quali sia effettivamente possibile una valutazione preventiva da parte dell’Amministrazione della fattibilità dell’opera, ossia in un momento anteriore rispetto alla conclusione di un accordo in tal senso.
Resta fermo che il ricorso all’istituto previsto dall’art. 20 citato, contemplante l’esclusione dell’applicazione del Codice alle operazioni ivi previste, dunque di stretta interpretazione, potrebbe giustificarsi esclusivamente nel caso in cui non sussista in favore del proponente alcuna controprestazione e l’operazione si configuri come atto di liberalità e gratuità nei termini indicati in motivazione; il ricorso all’istituto de quo è, invece, da escludere laddove la convenzione abbia i caratteri dell’appalto pubblico, secondo le indicazioni dell’Autorità contenute nella citata determinazione n. 4/2008 e secondo l’indirizzo del giudice comunitario (sentenza 12.07.2001, causa C399-98) e del Consiglio di Stato (parere n. 855/2016 cit.) sopra richiamati.
Da ultimo, pur nel silenzio della norma sul punto, occorre richiamare la necessità che il soggetto esecutore dell’opera “pubblica” realizzata gratuitamente ai sensi dell’art. 20, sia comunque in possesso di adeguati requisiti di qualificazione, quale principio di carattere generale, sancito nell’art. 84 del d.lgs. 50/2016, ai sensi del quale i soggetti esecutori a qualsiasi titolo di lavori pubblici devono essere in possesso di adeguata qualificazione.

IN EVIDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI: Albo Pretorio, la Funzione Pubblica bacchetta i Comuni: il caso Augusta.
Una nota dalla Presidenza del Consiglio - dipartimento della funzione pubblica, inviata al Segretario Comunale, bacchetta il Comune di Augusta relativamente all’albo pretorio:
l’albo del Comune è privo di autenticità del documento, conformità all’originale, inalterabilità e sottoscrizione con firma digitale.
L’albo online del Comune è una raccolta di copie informatiche di documenti analogici (per intenderci scansioni non sempre corrette e leggibili) in contrapposizione a quello previsto dalla legge, e cioè che la pubblicazione sia autentica, integra ed immodificabile, cosa che può farsi solo attraverso l’apposizione della firma digitale del responsabile
Secondo la Funzione Pubblica si evidenzia che
per gli atti per il quale è obbligatoria la pubblicazione, ai sensi del D.lgs. n. 33/2013, i dati devono essere inseriti sul web in formato non modificabile da terzi e sottoscritti con firma elettronica qualificata o firma digitale da parte del Responsabile che ha generato la pubblicazione del documento o del responsabile del procedimento che ha generato l’atto.
Il legislatore è stato esplicito circa la necessità –secondo il consigliere comunale di Augusta– di sottoscrizione digitale dei documenti pubblicati per dare pieno valore legale agli stessi, per evitare brutte sorprese e per rispettare il principio di trasparenza mi auguro che chi di competenza ponga immediato rimedio, al problema delle mancate risposte entro i termini di legge già denunciate dal sottoscritto si aggiunge anche questo fatto e la trasparenza e chi la deve fare rispettare nel Comune di Augusta continuano ad avere macchie sempre più evidenti”.
L’albo pretorio (detto talvolta anche albo municipale se presso un comune italiano) indica, in Italia un apposito spazio presso il quale le pubbliche amministrazioni italiane affiggono per legge notizie ed avvisi di interesse pubblico per la collettività.
Dal punto di vista materiale, consiste generalmente in una tavola o vetrina esistente presso ogni ente pubblico, solitamente collocata presso la porta della casa comunale o in un luogo pubblico.
La legge del 18.06.2009 n. 69, all’art 32 ha disposto che: «a far data dal 01.01.2010 gli obblighi di pubblicazione di atti e provvedimenti amministrativi aventi effetto di pubblicità legale si intendono assolti con la pubblicazione sui propri siti informatici da parte delle amministrazioni e degli enti pubblici obbligati».
Viene tuttavia garantita l’efficacia legale della pubblicazione a mezzo degli spazi e forme tradizionali dell’Albo pretorio sino al 31.12.2010: infatti il comma 5 dello stesso art. 32 statuisce invece che a decorrere dal 01.01.2011 che le pubblicità effettuate in forma cartacea non hanno effetto di pubblicità legale, di fatto riconoscendo tale caratteristica solo alle affissioni online.
Nell’albo pretorio vengono pubblicate le deliberazioni, le ordinanze, i manifesti e gli atti che devono essere portati a conoscenza del pubblico per disposizione di legge (ad esempio il "Testo Unico delle leggi sugli ordinamenti locali” all’articolo 6 prevede che lo statuto comunale o provinciale entri in vigore trascorsi 30 giorni dall’affissione nell’albo pretorio) o di apposito regolamento dell’amministrazione. Vengono inoltre esposti all’albo pretorio gli atti destinati a singoli cittadini quando i destinatari risultano irreperibili al momento della consegna.
Ogni tipologia di documento deve essere consultabile pubblicamente e liberamente, per un numero di giorni considerato congruo, cioè sufficiente perché i cittadini vengano a conoscenza della decisione, dell’evento ecc. La pubblicazione ha ordinariamente durata pari a gg. 15, qualora non sia indicata dalla legge o da un regolamento ovvero dal soggetto richiedente la pubblicazione una durata specifica e diversa.
La legge stabilisce per alcune tipologie di atto il periodo di affissione (con i termini di “affissione” e “defissione” va inteso l’inserimento e la rimozione di un documento nell’albo pretorio) (commento tratto da e link a www.lentepubblica.it - nota 18.03.2016 n. 14705 di prot.).

SINDACATI

PUBBLICO IMPIEGO: LEGGE DI STABILITA’ - AL PERSONALE DELLA POLIZIA LOCALE NESSUN CONTRIBUTO STRAORDINARIO PER IL 2016 (CGIL-FP di Bergamo, nota 15.02.2016).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: COMUNE DI PONTE SAN PIETRO (BG): QUANTI ATTI ILLEGITTIMI ADOTTATI DA ORGANI INCOMPETENTI? (CGIL-FP di Bergamo, nota 15.12.2015).

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOOggetto: Decreto del Presidente della Repubblica del 09.05.2016, n. 105 recante "Regolamento di disciplina delle funzioni del Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri in materia di misurazione e valutazione della performance delle pubbliche amministrazioni" (G.U. 17.06.2016, serie generale n. 140) - Interpretazione articolo 6, comma 5 - Nomina OIV - organismi indipendenti di valutazione nella fase transitoria (nota-circolare 14.07.2016 n. 37249 di prot.).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: G.U. 26.07.2016 n. 173 "Definizione delle caratteristiche essenziali delle prestazioni principali costituenti oggetto delle convenzioni stipulate da Consip S.p.a." (Ministero dell'Economia ed elle Finanze, decreto 21.06.2016).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 25.07.2016 n. 172 "Disposizioni integrative al decreto legislativo 04.07.2014, n. 102, di attuazione della direttiva 2012/27/UE sull’efficienza energetica, che modifica le direttive 2009/125/CE e 2010/30/UE e abroga le direttive 2004/8/CE e 2006/32/CE" (D.Lgs. 18.07.2016 n. 141).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U. 22.07.2016 n. 170 "Contratto collettivo nazionale quadro per la definizione dei comparti e delle aree di contrattazione collettiva nazionale (2016-2018)" (ARAN, comunicato).

APPALTI: G.U. 22.07.2016 n. 170 "Linee guida per la compilazione del modello di formulario di Documento di gara unico europeo (DGUE) approvato dal regolamento di esecuzione (UE) 2016/7 della Commissione del 05.01.2016" (Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, comunicato).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 29 del 22.07.2016, "Modifica dell’articolo 9 del regolamento regionale 15.06.2012, n. 2 (Attuazione dell’articolo 21 della legge regionale 12.12.2003, n. 26 “Disciplina dei servizi locali di interesse economico generale. Norme in materia di gestione dei rifiuti, di energia, di utilizzo del sottosuolo e di risorse idriche”, relativamente alle procedure di bonifica e ripristino ambientale dei siti inquinati)" (regolamento regionale 20.07.2016 n. 6).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 29 del 21.07.2016, "Quarto aggiornamento 2016 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (deliberazione G.R. 14.07.2016 n. 6891).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 29 del 21.07.2016, "Linee guida per la protezione delle acque dall’inquinamento provocato dai nitrati provenienti da fonti agricole nelle zone non vulnerabili ai sensi della direttiva nitrati 91/676/CEE" (deliberazione G.R. 18.07.2016 n. 5418).

ENTI LOCALI: G.U. 19.07.2016 n. 167 "Censimento della popolazione e archivio nazionale dei numeri civici e delle strade urbane" (D.P.C.M. 12.05.2016).

SICUREZZA LAVORO: Disposizioni per il miglioramento sostanziale della salute e sicurezza dei lavoratori (Atto Senato n. 2489 - presentato in data 19.07.2016).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U. 16.07.2016 n. 165 "Norme sul divieto di utilizzo e di detenzione di esche o di bocconi avvelenati" (Ministero della Salute, ordinanza 13.06.2016).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U. 16.07.2016 n. 165 "Recepimento della direttiva 2014/80/UE della Commissione del 20.06.2014 che modifica l’allegato II della direttiva 2006/118/CE del Parlamento europeo e del Consiglio sulla protezione delle acque sotterranee dall’inquinamento e dal deterioramento" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto 06.07.2016).

APPALTI: G.U. 15.07.2016 n. 164 "Comunicato relativo al decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, recante: «Attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d’appalto degli enti erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture» - (Decreto legislativo pubblicato nel Supplemento ordinario N. 10/L alla Gazzetta Ufficiale - Serie generale - n. 91 del 19.04.2016)" (avviso di rettifica).

AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: G.U. 13.07.2016 n. 162 "Norme per il riordino della disciplina in materia di conferenza di servizi, in attuazione dell’articolo 2 della legge 07.08.2015, n. 124" (D.Lgs. 30.06.2016 n. 127).
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Ex Atto del Governo n. 293: si leggano anche i relativi "Dossier di documentazione".

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: G.U. 13.07.2016 n. 162 "Attuazione della delega in materia di segnalazione certificata di inizio attività (SCIA), a norma dell’articolo 5 della legge 07.08.2015, n. 124" (D.Lgs. 30.06.2016 n. 126).
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Ex Atto del Governo n. 291: si leggano anche i relativi "Dossier di documentazione".

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 28 del 12.07.2016, "Disciplina regionale dei servizi abitativi" (L.R. 08.07.2016 n. 16).

EDILIZIA PRIVATA: Intesa sullo schema di decreto del Presidente della Repubblica recante regolamento, proposto dal Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo, relativo all’individuazione degli interventi esclusi dall’autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata, ai sensi dell’articolo 12 del decreto legge 31.05.2014, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 29.07.2014, n. 106, come modificato dall’articolo 25 del decreto-legge 12.09.2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.11.2014, n. 164 (Conferenza Unificata, repertorio atti n. 90/CU del 07/07/2016).

ENTI LOCALI: G.U. 24.06.2016 n. 146 "Misure finanziarie urgenti per gli enti territoriali e il territorio" (D.L. 24.06.2016 n. 113).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI: M. Alesio, L'inattesa resurrezione del regolamento nei contratti sotto soglia (21.07.2016 - tratto da www.upel.va.it).

SICUREZZA LAVORO: Testo unico sicurezza (Dlgs n. 81/2008), depositato al Senato disegno di legge di semplificazione (Atto Senato n. 2489).
L'attività di supporto garantita dai medici del lavoro o da altri professionisti esperti in materia di salute e sicurezza sul lavoro, che sotto la propria responsabilità certificheranno la correttezza delle misure di prevenzione e protezione in azienda (21.07.2016 - link a www.casaeclima.com).

APPALTI: R. de Nictolis, Servizio idrico integrato, green economy e appalti pubblici (19.07.2016 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
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Sommario: 1. Appalti pubblici come strumento delle politiche pubbliche: sviluppo sostenibile e tutela ambientale – 2. La governance del servizio idrico è fuori dal codice dei contratti pubblici - 3. Il servizio idrico ricade nei c.d. settori speciali - 4. Le disposizioni “verdi” nel codice dei contratti pubblici quadro di insieme - 5. La qualificazione delle stazioni appaltanti - 6. Il dibattito pubblico – 7. La progettazione - 8. I criteri ambientali minimi - 9. I requisiti generali e di qualificazione degli operatori economici - 10. I requisiti dell’offerta: le specifiche tecniche e le etichettature - 11. I criteri di valutazione dell’offerta – 12. Le condizioni di esecuzione degli appalti – 13. Le garanzie dell’offerta e dell’esecuzione: gli incentivi “verdi” – 14. Conclusioni.

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Appalti di servizi e forniture, esclusi dall'incarico di RUP i diplomati liceali: in crisi le PA locali.
Le Linee guida Anac stabiliscono che per i servizi e le forniture di importo pari o inferiore alle soglie di cui all’art. 35 del Codice il Rup deve avere un diploma tecnico (18.07.2016 - link a www.casaeclima.com).

EDILIZIA PRIVATA: Modulo unico SCIA: in Gazzetta il decreto legislativo.
Il Dlgs n. 126/2016 entrerà in vigore il prossimo 28 luglio (14.07.2016 - link a www.casaeclima.com).

ATTI AMMINISTRATIVI: Nuova Conferenza di servizi, il decreto in G.U.: in vigore dal 28 luglio.
Introdotta la conferenza semplificata che non prevede riunioni fisiche ma solo l’invio di documenti per via telematica. La conferenza simultanea con riunione (anche telematica) si svolge solo quando è strettamente necessaria (14.07.2016 - link a www.casaeclima.com).

ATTI AMMINISTRATIVI: Silenzio-assenso, il parere del Consiglio di Stato sulla riforma Madia.
Chiarimenti sull'ambito di applicazione del nuovo istituto, sui rapporti con la conferenza di servizi, sulle modalità di formazione e sull’esercizio del potere di autotutela (14.07.2016 - link a www.casaeclima.com).

ATTI AMMINISTRATIVI: PEC, posta elettronica certificata: se perdo la ricevuta di consegna (13.07.2016 - link a www.laleggepertutti.it).
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Il sistema di posta elettronica certificata consente di ottenere la prova certa della spedizione dell’e-mail e della data in cui ciò avviene grazie a una PEC inviata dal gestore: ma in caso di perdita accidentale delle ricevute di consegna è possibile ottenere un duplicato? (...continua).

INCARICHI PROFESSIONALI: Avvocato responsabile per consulenze e pareri (12.07.2016 - link a www.laleggepertutti.it).
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Responsabilità professionale: l’avvocato che sbaglia il parere, fornendo al cliente delle indicazioni non corrette ancor prima della causa o a prescindere dall’esistenza di un giudizio in tribunale, deve risarcire i danni (...continua).

PUBBLICO IMPIEGO: Furbetti del cartellino. Schema di Ordine di sospensione cautelare ed avvio procedimento disciplinare (11.07.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTI: M. Alesio, Modelli e procedure di scelta del contraente (11.07.2016 - link a tratto da www.upel.va.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: È legge il Collegato agricoltura: le potature del verde urbano non sono più rifiuti.
Potranno essere utilizzate a fini energetici (Atto Senato n. 1328-B) (08.07.2016 - link a www.casaeclima.com).

EDILIZIA PRIVATA: Autorizzazione paesaggistica semplificata: ok dalla Conferenza Unificata.
Via libera al silenzio-assenso per i pareri obbligatori e vincolanti delle soprintendenze per gli interventi edilizi di lieve entità ammessi alla procedura semplificata di autorizzazione paesaggistica (07.07.2016 - link a www.casaeclima.com).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Fideiussioni - Nota di approfondimento e avvertenze ai Comuni (IFEL, 04.07.2016).
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La nota si propone di fornire ai Comuni un quadro per quanto possibile completo dell’istituto della fideiussione e della relativa disciplina normativa, evidenziando gli elementi utili per operatori e amministratori comunali nell’analisi e valutazione delle garanzie fideiussorie della più varia natura.
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Sommario: Premessa - I casi tipici del ricorso alle garanzie fideiussorie da parte dei Comuni - Contesto normativo - I soggetti abilitati al rilascio delle garanzie fideiussorie - Banche e intermediari finanziari - Assicurazioni - Particolari cautele per i Comuni.

APPALTI: M. Alesio, Regolamento disciplinante gli “affidamenti diretti” - (ARTICOLO 36, COMMA 2°, LETTERA “A” NUOVO CODICE CONTRATTI PUBBLICI – D.LGS N. 50/2016) (12.05.2016 - tratto da www.upel.va.it).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Approvazione della nuova normativa sulle gestione delle terre e rocce da scavo (ANCE di Bergamo, circolare 15.07.2016 n. 141).

PUBBLICO IMPIEGO: OGGETTO: art. 25, commi 4 e 6-bis, del D.L. 24.06.2014, n. 90, convertito con modificazioni nella legge n. 114 dell’11.08.2014. Semplificazioni per i soggetti con disabilità grave: proroga degli effetti del verbale rivedibile fino al completamento dell’iter di revisione ai fini dei permessi e congedi riconosciuti ai lavoratori dipendenti in caso di disabilità grave. Istruzioni operative (INPS, circolare 08.07.2016 n. 127 - link a www.inps.it).
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SOMMARIO:
L’articolo 25 del decreto legge n. 90/2014, ai commi 4 e 6, introduce alcune novità finalizzate a semplificare gli adempimenti sanitari ed amministrativi per i soggetti invalidi civili o con disabilità grave. In particolare:
• il comma 6-bis prevede la proroga degli effetti del verbale rivedibile oltre il termine di scadenza apposto, in modo da consentire la fruizione anche dei benefici a tutela della disabilità grave nelle more della definizione dell’iter sanitario di revisione;
• il comma 4, lett. a), del citato art. 25, dimezza i termini per il rilascio della certificazione provvisoria di cui all’art. 2, comma 2, del decreto legge 27.08.1993, n. 324, convertito dalla legge 27.10.1993, n. 423 (tali termini infatti sono portati da 90 a 45 giorni).
Premessa:
1. Richiamo alle disposizioni di cui all’art. 25, comma 6-bis, del decreto legge 24.06.2014, n. 90. Effetti sugli istituti a tutela della disabilità.
2. Effetti sui provvedimenti di autorizzazione alla fruizione dei permessi ex art. 33, commi 3 e 6 della legge 104/1992.
2.1. Verbale con esito di conferma dello stato di disabilità in situazione di gravità del lavoratore che fruisce dei benefici per se stesso (art. 33, comma 6, della legge 104/1992).
2.2. Verbale con esito di conferma dello stato di disabilità in situazione di gravità della persona assistita dal familiare lavoratore (art. 33, commi 3, della legge 104/1992.
2.3. Verbale con esito di mancata conferma dello stato di disabilità in situazione di gravità del lavoratore che fruisce dei benefici per se stesso o della persona assistita dal familiare lavoratore (art. 33, commi 3 e 6, della legge 104/1992)
2.4. Assenza a visita di revisione del disabile grave.
3. Effetti sui benefici per i quali è necessario presentare una nuova domanda di autorizzazione.
4. Istruzioni per il pagamento diretto.
5. Art. 25, comma 4: riduzione dei termini da 90 a 45 giorni per la richiesta della certificazione provvisoria di cui all’art. 2, comma 2, del decreto legge 27.08.1993, n. 324.

AMBIENTE-ECOLOGIA - PATRIMONIO: Oggetto: L. 10/2013, art. 7 “Disposizioni per la tutela e la salvaguardia degli alberi monumentali, dei filari e delle alberate di particolare pregio paesaggistico, naturalistico, monumentale, storico e culturale” - Attività di competenza comunale (Regione Lombardia, DIREZIONE GENERALE AMBIENTE, ENERGIA E SVILUPPO SOSTENIBILE - PARCHI, TUTELA DELLA BIODIVERSITA' E PAESAGGIO - VALORIZZAZIONE DELLE AREE PROTETTE E BIODIVERSITA', nota 07.03.2016 n. 11584 di prot.).

A.N.AC. (già AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI)

APPALTILinee guida contratti sottosoglia. Affidamenti diretti con più preventivi e imprese a rotazione. Sul sito dell'Autorità antïcorruzione le indicazioni per gli appalti fino a 40 mila euro.
Appalti fino a 40 mila giuro affidabili in via diretta ma con almeno due preventivi; rotazione delle imprese scelte per le negoziazioni; requisiti adeguati per le piccole, medie e micro imprese ma senza rinunciare alla qualità delle prestazioni; criteri reputazionali applicabili anche per contratti fino a 40 mila curo.
Sono queste alcune delle principali indicazioni fornite dall'Autorità nazionale anticorruzione (Anac) con la proposta di linee guida approvate nel consiglio del 28 giugno e messe sul proprio sito martedì 5 luglio (Proposta di Linee guida attuative del nuovo Codice degli Appalti e delle Concessioni - deliberata dal Consiglio il 28.06.2016),relative alle procedure per l'affidamento dei contratti pubblici di importo inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria, indagini di mercato e formazione e gestione degli elenchi di operatori economici.
Il provvedimento è stato varato in base all'articolo 36, comma 7, del nuovo codice dei contratti ed è stato trasmesso, come le altre linee guida, alle commissioni parlamentari competenti di camera e senato e al consiglio di stato che invieranno i propri pareri, ancorché non previsti dal nuovo codice dei contratti pubblici. Soltanto dopo i pareri saranno approvate in via definitiva e diverranno quindi operative, anche se nulla toglie alle stazioni appaltanti di fare ad esse riferimento.
Nel documento si precisa che le stazioni appaltanti possono comunque ricorrere, nell'esercizio della propria discrezionalità, alle procedure ordinarie in luogo di quelle negoziate o semplificate; «qualora le esigenze del mercato suggeriscano di assicurare il massimo confronto concorrenziale». Non c'è quindi un obbligo di utilizzare le procedure più flessibili.
Fra le indicazioni generali date dall'Authority va segnalata quella riguardante le «realtà imprenditoriali di minori dimensioni»: in relazione a esse (le imprese) l'Anac ha chiesto di fissare i «requisiti di partecipazione e criteri di valutazione che, senza rinunciare al livello qualitativo delle prestazioni, consentano la partecipazione anche delle micro, piccole e medie imprese, valorizzandone il potenziale».
Nei contratti di importo fino a 40 mila euro si prevede che vi debbano essere almeno due preventivi, che si possano richiedere requisiti economico-finanziari e tecnico-organizzativi e che, in caso di soggetti «parimenti qualificati sotto il profilo delle capacità tecnico-professionali», la stazione appaltante possa indicare, quale criterio preferenziale di selezione, indici oggettivi basati su accertamenti definitivi concernenti il rispetto dei tempi e dei costi nell'esecuzione dei contratti pubblici, ovvero i criteri reputazionali di cui all'art. 83, comma 10, del Codice. Non si applica ai contratti di modesta entità il termine di «stand still» (35 giorni prima di stipulare il contratto).
Per i contratti di lavori di importo pari o superiore a 40 mila curo e inferiore a 150 mila euro odi servizi e forniture di importo pari o superiore a 40 mila giuro e inferiore alle soglie europee, alla procedura negoziata si devono chiamare almeno cinque operatori economici, ove esistenti, individuati sulla base di indagini di mercato o tramite elenchi di operatori economici nel rispetto del criterio di rotazione degli inviti (10 per contratti fino a un milione). In questi casi sono tre i momenti chiave della procedura:
- lo svolgimento di indagini di mercato o consultazione di elenchi per la selezione di operatori economici da invitare al confronto competitivo; - il confronto competitivo tra gli operatori economici selezionati e invitati; - la stipulazione del contratto.
Per la pubblicità degli avvisi l'Anac ha precisato che la stazione appaltante deve pubblicare un avviso sul profilo di committente, nella sezione «amministrazione trasparente» sotto la sezione «bandi e contratti», o ricorrere ad altre forme di pubblicità
(articolo ItaliaOggi dell'08.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: Anac, guida alla trasparenza negli appalti sotto il milione. Regole per le indagini di mercato e gli elenchi fornitori.
Codice. L’Authority approva il sesto documento attuativo di supporto agli operatori.
Rotazione degli inviti e composizione degli elenchi trasparente, sopra la soglia di 40mila euro e fino a un milione. Confronto di almeno due preventivi, per assicurare un minimo di concorrenza, negli affidamenti diretti sotto i 40mila euro. E obbligo di motivare in maniera articolata la scelta di passare dalla trattativa privata sopra il limite di 500mila euro.
Sono questi gli elementi chiave delle linee guida sul sottosoglia (Proposta di Linee guida attuative del nuovo Codice degli Appalti e delle Concessioni - deliberata dal Consiglio il 28.06.2016), che l’Anac ha appena approvato e che si prepara a inviare a Parlamento e Consiglio di Stato.
Le linee guida nascono in applicazione dell’articolo 36, comma 7, del Codice appalti (Dlgs n. 50 del 2016) e sono improntate al criterio di elevare al massimo l’asticella della trasparenza in tutte quelle gare poste al di sotto del milione di euro, la soglia sotto la quale è stata confermata, anche con il nuovo sistema, la possibilità di assegnazioni senza una gara formale.
L’Anticorruzione, allora, ricorda anzitutto che l’abuso dello strumento della procedura negoziata non deve essere un criterio guida per le amministrazioni: «Le stazioni appaltanti –spiega il documento- possono ricorrere, nell’esercizio della propria discrezionalità, alle procedure ordinarie, anziché a quelle semplificate, qualora le esigenze del mercato suggeriscano di assicurare il massimo confronto concorrenziale». Quindi, anche sotto le soglie indicate dal Codice si possono utilizzare gare normali.
Dando, però, per scontato che in molti casi le Pa sceglieranno diversamente, l’Anac procede a mettere qualche paletto. Partendo dai microappalti sotto i 40mila euro, per i quali è possibile l’incarico diretto a ditte di fiducia dell’amministrazione. In questo caso, le indicazioni dell’Authority sono principalmente due. La prima è che le stazioni appaltanti dovranno procedere «alla valutazione comparativa dei preventivi di spesa forniti da due o più operatori economici»: quindi, non sarà possibile un affidamento diretto senza un minimo di confronto concorrenziale. La seconda indicazione riguarda le motivazioni: a carico della Pa sussiste sempre un obbligo di motivare la sua scelta, «dando dettagliatamente conto del possesso da parte dell’operatore economico selezionato dei requisiti richiesti».
Ma è sugli appalti sopra la soglia di 40mila euro e fino a un milione che si concentrano le attenzioni maggiori. Questa fascia, infatti, costituisce una quota rilevante del mercato. Per i lavori, fino a 150mila euro sarà possibile l’affidamento tramite procedura negoziata con la consultazione di cinque operatori economici. Tra i 150mila euro e il milione è necessaria la consultazione di almeno dieci imprese. Le regole, al di là del numero di partecipanti, sono però sostanzialmente le stesse.
La procedura si divide in tre fasi: indagine di mercato o consultazione di elenchi per la selezione degli operatori, confronto competitivo, stipula del contratto. La prima è chiaramente quella più delicata. Per questo, le amministrazioni dovranno dotarsi di un regolamento per disciplinare la conduzione delle indagini di mercato e le modalità di costituzione degli elenchi fornitori. Per le indagini di mercato, è fondamentale che queste siano pubblicizzate in maniera adeguata.
Sul fronte degli elenchi, invece, questi andranno costituiti tramite avviso pubblico, reso conoscibile nella sezione “amministrazione trasparente” del portale della stazione appaltante. Nell’avviso devono essere riportati «le eventuali categorie e fasce di importo in cui l’amministrazione intende suddividere l’elenco e gli eventuali requisiti minimi, richiesti per l’iscrizione, parametrati in ragione di ciascuna categoria o fascia di importo». Gli elenchi andranno rivisti periodicamente, con cadenze prefissate o al verificarsi di determinati eventi.
Altro punto strategico è la rotazione degli inviti, «al fine di favorire la distribuzione temporale delle opportunità di aggiudicazione tra tutti gli operatori potenzialmente idonei». Insomma, per tutte le procedure sotto il milione andrà garantita la trasparenza. Con una precisazione, al di sopra dei 500mila euro: in questi casi, infatti, «la scelta di una procedura negoziata deve essere adeguatamente motivata in relazione alle ragioni di convenienza».
Ci dovrà essere, in sostanza, un supplemento di motivazione che spieghi perché, per importi di una certa rilevanza, si scelga la strada della trattativa privata
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

CORTE DEI CONTI

EDILIZIA PRIVATA: Sul rimborso spese ai membri della Commissione Comunale per il Paesaggio.
La Sezione ritiene che non rientri -in linea astratta- tra i vincoli finanziari sanciti dal comma 3, dell’art. 183 del dlgs 42/2004 il divieto di “rimborso delle spese” sostenute e documentate dai componenti le commissioni, e ciò a condizione che sia garantita la neutralità –in termini di impatto sugli equilibri economico-finanziari- della relativa voce di bilancio.
A tale fine
l’Ente potrà riallocare le risorse ordinariamente utilizzate in relazione all’esercizio di tale funzione ovvero utilizzare le maggiori entrate o le minori spese derivanti dall’espletamento della funzione medesima, e ciò anche alla luce delle risorse messe a disposizione dall’ente delegante (la regione) ovvero comunque percepite in ragione ed ai fini dell’esercizio della suddetta funzione delegata.
Si rileva in proposito che
nell’ambito dell’istituzione e del funzionamento delle commissioni locali per il paesaggio di cui all’art. 148 del dlgs 42/2004, le regioni assumono il ruolo fondamentale di “promotore” che non può e non deve limitarsi alla disciplina in via astratta dell’istituto in parola, ma deve connotarsi nei termini prescritti dal legislatore nazionale, cioè come “supporto” in concreto agli enti subdelegati nella composizione e nel funzionamento delle suddette commissioni.
Per l’effetto
si ritiene, altresì, che i professionisti componenti le commissioni in parola debbano essere "terzi” rispetto all’amministrazione delegata ma “interni” al comparto pubblico, inteso come soggetto macro aggregato.
Si ritiene che il legislatore, con il comma 3, dell’art. 183 del Codice, abbia effettuato una specifica opzione a tale riguardo, e ciò alla luce della natura “istituzionale” delle funzioni svolte e del divieto tombale di remunerazione, requisiti che mal si conciliano con il conferimento di incarichi a titolo onorifico a professionisti privati, e ciò alla luce del generale principio di “autosufficienza” e “valorizzazione” delle risorse interne all’apparato pubblico, del generale principio di onerosità della prestazione lavorativa e, non ultimo, della peculiare connotazione di “zona rischio corruzione” del settore in cui si trovano ad operare le commissioni in esame, in termini di potenziale (ed arbitrario) “ampliamento dei diritti dei privati” ed in relazione al quale (rischio) occorre assicurare –almeno in linea astratta- l’indipendenza ed imparzialità dei componenti le commissioni de quibus, e ciò anche per il tramite di una remunerazione sufficiente e proporzionata.
Tale elemento, visto il carattere tombale del divieto di remunerazione di cui al comma 3, dell’art. 183 del Codice, può essere rintracciato esclusivamente con riferimento a professionisti interni al comparto pubblico, in relazione ai quali la prestazione –seppure gratuita in seno alle commissioni de quibus– è già remunerato nell’ambito della restribuzione “madre” ricevuta per effetto del rapporto di servizio o del munus pubblico che lega il professionista alla pubblica amministrazione, complessivamente intesa.
Alla luce di quanto sopra, pertanto,
l’ente delegato dovrà aver previamente “mappato” nell’ambito del proprio piano triennale anticorruzione i rischi connessi all’attività in questione ed averne individuate le misure volte a prevenirlo.
In tale ottica,
il carattere onorifico della prestazione -in assenza di cause giustificatrici ulteriori rispetto al vincolo finanziario in sé- non si presenta –almeno in via astratta– come misura volta a prevenire ovvero ad ovviare il rischio che tale attività “gratuita” venga svolta nel perseguimento di interessi/vantaggi diversi ed opposti rispetto al fine tutelato dalla norma, e ciò proprio in ragione del peculiare assetto degli interessi coinvolti nell’esercizio della funzione de qua, l’interesse dei privati ad ampliare la propria sfera di diritti ed il bene-paesaggio rispetto al quale tali interessi potrebbero risultare recessivi.
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Il Comune di Moliterno (PZ), premettendo:
- che una rilevante porzione del territorio comunale (oltre il 90% del territorio) è compresa nel Parco Nazionale Appenino Lucano-Val d’agri-Lagonegrese;
- che tale circostanza ha comportato la necessità di acquisire “pareri obbligatori in merito alle domande paesaggistiche”;
- che il decreto legislativo n. 42/2004 e successive modifiche ed integrazioni “all’art. 146, attribuisce alla Regione l’esercizio della funzione autorizzatoria in materia di paesaggio, consentendo alla stessa tuttavia di delegarne l’esercizio ad una pluralità di enti tra cui i Comuni purché gli enti destinatari della delega dispongano di strutture in grado di assicurare un adeguato livello di competenze tecnico-scientifiche nonché di garantire la differenziazione tra attività di tutela del paesaggistica ed esercizio di funzioni amministrative in materia urbanistico-edilizia”;
- che il comma 3 dell’art. 183 del medesimo decreto legislativo “dispone testualmente che <<la partecipazione alle commissioni previste dal presente codice è assicurata nell’ambito dei compiti istituzionali delle amministrazioni interessate, non dà luogo alla corresponsione di alcun compenso e comunque, da essa non derivano nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica>>”;
- di non avere “al proprio interno personale idoneo per l’espletamento delle funzioni demandate alla commissione (...)” ;
- e che pertanto, al fine di istituire la commissione prevista dalla legge, “si è reso necessario ricorrere a professionisti esterni”, e ciò anche alla luce della delibera n. 2002 del 29.12.2008, con cui la Regione Basilicata ha previsto l’obbligo di “operare la scelta dei propri componenti tra tecnici esterni all’amministrazione”;
chiede di sapere se sia possibile “riconoscere ai componenti esterni la commissione un rimborso delle spese documentate (spese di viaggio) ancorandolo comunque ad un limite massimo.
A tale riguardo, l’Ente dichiara di essere consapevole che un “eventuale rimborso andrebbe a gravare le finanze comunali”, e ciò in quanto “se è vero che da un lato il rimborso spese non integra gli estremi di un compenso, è altrettanto vero che il dato normativo statuisce che non debbano derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”.
Il Comune rappresenta, altresì, che “la delega dell’esercizio del potere da parte della Regione al Comune, accelera l’istruttoria delle pratiche snellendo, di gran lunga l’iter procedimentale e, quindi, riduce notevolmente le lungaggini temporali”.
...
6. Inquadramento del quesito
   6.1 L’istanza di parere in esame verte in tema di esercizio -per delega regionale- della funzione autorizzatoria in materia di paesaggio e, in particolare, di oneri finanziari connessi alla composizione ed al funzionamento delle “commissioni locali per il paesaggio” istituite nell’ambito dei relativi procedimenti autorizzatori.
La normativa di riferimento è contenuta nel Dlgs 42/2004 (“Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio” ovvero per brevità “Codice”) così come successivamente modificato ed integrato e, per quanto qui di specifico interesse, negli artt. 146, comma 6 (che disciplina i presupposti della delega in materia di autorizzazione paesaggistica), 148 (che disciplina l’istituto delle commissioni locali per il paesaggio) e 183, comma 3 (che dispone i vincoli di natura finanziaria sottesi all’istituzione ed al funzionamento delle commissioni in parola).
Nello specifico, il Comune istante chiede di conoscere la portata e la latitudine applicativa della clausola di invarianza finanziaria contenuta nel comma 3, dell’art. 183 del Dlgs 42/2004, ai sensi del quale “la partecipazione alle commissioni previste dal presente codice è assicurata nell’ambito dei compiti istituzionali delle amministrazioni interessate, non dà luogo alla corresponsione di alcun compenso e, comunque, da essa non derivano nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”.
In particolare, viene chiesto di sapere se, alla luce del disposto in questione, il rimborso delle spese documentate a favore dei componenti la commissione per il paesaggio (spese di viaggio) –seppure non vietato esplicitamente- risulti comunque inibito alla luce della clausola di invarianza finanziaria ivi codificata, comportando comunque un aggravio per le finanze comunali.
Nella formulazione del quesito, il Comune, dichiarando di essere consapevole che l’attività dei componenti la commissione “rientrando all’interno dei compiti istituzionali, debba essere gratuita”, precisa di aver fatto ricorso a professionisti esterni per mancanza al proprio interno di “personale idoneo per l’espletamento delle funzioni demandate alla commissione”, e ciò anche in considerazione delle direttive contenute nella delibera di Giunta regionale della Basilicata n. 2202 del 29.12.2008 ai sensi della quale “la commissione ha l’obbligo di operare la scelta dei propri componenti tra tecnici esterni all’amministrazione”.
Alla luce di quanto sopra ed al fine di rispondere al quesito in esame, occorre analizzarne–seppure per linee generali– il contesto normativo di riferimento.
7. Autorizzazione in materia di paesaggio: presupposti per conferire la delega di funzione
   7.1 Ai sensi dell’art. 146, comma 1, del Dlgs 42/2004 i proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo di immobili ed aree di interesse paesaggistico, tutelati dalla legge, a termini dell'articolo 142, o in base alla legge, a termini degli articoli 136, 143, comma 1, lettera d), e 157, non possono distruggerli, né introdurvi modificazioni che rechino pregiudizio ai valori paesaggistici oggetto di protezione.
A tale fine, i suddetti soggetti hanno l'obbligo di presentare alle amministrazioni competenti il progetto degli interventi che intendano intraprendere, corredato della prescritta documentazione, ed astenersi dall'avviare i lavori fino a quando non ne abbiano ottenuta l'autorizzazione.
Il comma 6, nell’attuale formulazione introdotta dal Dlgs 63/2008, prevede espressamente che sia la regione il soggetto titolare dell’esercizio della funzione autorizzatoria in materia di paesaggio e che la debba espletare avvalendosi di propri uffici dotati di adeguate competenze tecnico-scientifiche e di idonee risorse strumentali .
Le regioni, però, hanno (conservato) la facoltà di delegarne, a loro volta, l’esercizio, per i rispettivi territori, a province, a forme associative e di cooperazione fra enti locali come definite dalle vigenti disposizioni sull'ordinamento degli enti locali, agli enti parco, ovvero a comuni, al sussistere dei due presupposti essenziali, e cioè “purché gli enti destinatari della delega dispongano di di strutture in grado assicurare un adeguato livello di competenze tecnico-scientifiche nonché di garantire la differenziazione tra attività di tutela paesaggistica ed esercizio di funzioni amministrative in materia urbanistico-edilizia” (cfr. comma 6, seconda parte art. 146).
Alla luce del rinnovato assetto normativo, pertanto, l’esercizio della funzione autorizzatoria in materia di paesaggio potrà essere intestato (rectius conservato) in capo agli enti locali, solo in via eventuale e, comunque, condizionata alla sussistenza dei suddetti presupposti di “adeguatezza” della struttura in termini di competenze professionali e di effettiva capacità/possibilità di differenziare le attività di tutela del paesaggio dalle funzioni (antagoniste) in materia urbanistico-edilizia.
Si precisa, peraltro, che suddetti requisiti devono sussistere in via continuativa per tutta la durata della delega.
Ai sensi dell’art. 159, la verifica della loro sussistenza e permanenza, in concreto ed in via continuativa, è rimessa alla cura e alla responsabilità delle regioni, con la conseguenza che, in caso di mancata verifica ovvero di esito negativo della stessa, la funzione tornerà (ovvero resterà) ad essere esercitata in via diretta dalla regione medesima .
Da ciò ne consegue che, una volta verificata la sussistenza di tali condizioni, gli enti delegati dovranno essere in grado di esercitare in concreto tale funzione.
In tale ottica, le regioni assumono un ruolo fondamentale.
Ci si riferisce in particolare all’istituzione ed al funzionamento delle commissioni locali per il paesaggio previste dall’art. 148 del Codice.
Ai sensi del suddetto articolato normativo “Le regioni promuovono l'istituzione e disciplinano il funzionamento delle commissioni per il paesaggio di supporto ai soggetti ai quali sono delegate le competenze in materia di autorizzazione paesaggistica, ai sensi dell'articolo 146, comma 6.”
Dal combinato disposto del comma 6 dell’art. 146 e del comma 1 dell’art. 148, infatti, discende che gli enti delegati, pur dotati “a monte” di una struttura “interna” adeguata, ai fini dell’esercizio in concreto della funzione devono essere “supportati” dalle commissioni locali di paesaggio.
L’istituzione delle suddette commissioni è affidata, in termini di “promozione”, alle regioni.
In quest’ottica, anche in considerazione della natura “delegata” della funzione autorizzatoria nel cui ambito si innestano tali commissioni, il termine “promozione” si pone come sinonimo di “rendere fattibile”, riducendosi –in caso contrario– ad una mera enunciazione di principio svuotata di effettiva portata applicativa.
E ciò in quanto costituisce “principio fondamentale della finanza pubblica quello secondo il quale, nella ipotesi in cui l’esercizio di funzioni e servizi resi dalla pubblica amministrazione all’utenza, o comunque diretti al perseguimento di pubblici interessi collettivi, venga trasferito o delegato da una ad altra amministrazione, l’autorità che dispone il trasferimento o la delega è, pur nell’ambito della sua discrezionalità, tenuta a disciplinare gli aspetti finanziari dei relativi rapporti attivi e passivi (…)” (cfr. Corte Costituzionale, sentenza 364/2010).
Ed è alla luce di tali coordinate che, a parere della Sezione, occorre analizzare il quesito in esame, con riferimento ai vincoli finanziari connessi all’istituzione ed al funzionamento delle suddette commissioni.
8. Commissioni locali per il paesaggio: statuto giuridico ed economico
   Lo statuto giuridico ed economico delle suddette commissioni è codificato –a livello di coordinate di principio- dal combinato disposto degli artt. 148 e 183, comma 3, del dlgs 42/2004, mentre la disciplina di dettaglio è affidata al potere normativo e regolamentare delle regioni.
L’art. 148 del Dlgs 42/2004 codifica i requisiti di professionalità e di esperienza dei componenti le commissioni, disponendo che debbano essere “soggetti con particolare, pluriennale e qualificata esperienza nella tutela del paesaggio”, e ne determina la funzione svolta, e cioè il rilascio di pareri propedeutici al rilascio dell’autorizzazione in materia di paesaggio.
A seguito della novella di cui al dlgs 63/2008, nell’attuale formulazione dell’art. 148, comma 3, è venuta meno la natura “vincolante” dei pareri resi dalle commissioni.
   8.1 Il comma 3 dell’art. 183 oltre a disegnarne i vincoli finanziari, ne connota la natura, facendo rientrare la partecipazione alle commissioni de quibus nell’ambito dei “compiti istituzionali” dell’amministrazione interessata.
Tale articolato normativo è collocato nell’ambito delle “Disposizioni finali” del Dlgs 42/2004 ed ha subito nel tempo alcune modifiche ed integrazioni.
Nella sua originaria formulazione (vigente sino all’11.05.2006), l’articolato in questione disponeva, oltre al generico vincolo di invarianza finanziaria, uno specifico vincolo di gratuità della partecipazione alle commissioni previste nel Codice (i.e. “la partecipazione alle commissioni previste nel presente codice si intende a titolo gratuito e comunque da essa non derivano nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”).
Con il decreto legislativo n.157/2006 è stato modificato, tra gli altri, anche il disposto di cui al comma 3, dell’art. 183.
In particolare, nella proposta di modifica presentata dal Governo, l’art. 30 dello schema di decreto legislativo 157/2006 non riportava più alcun riferimento al sopra citato vincolo di gratuità, limitandosi a codificare (rectius confermare) il divieto di “nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica” discendente dall’attuazione del complessivo articolato (i.e. “Dall’attuazione del presente decreto non derivano nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”).
Sul punto la V Commissione Bilancio, tesoro e programmazione (cfr. Atto 595 - Rilievi alla VIII Commissione), evidenziando l’anomalia della circostanza e ricordando che “in casi analoghi, in base alla prassi consolidata, si è previsto che la partecipazione a Comitati non deve dare luogo ad alcun compenso o rimborso spese”, aveva richiesto di riformulare il disposto in questione, proponendone un precetto più stringente ai sensi del quale “la partecipazioni alle commissioni previste dal presente codice non dà luogo alla corresponsione di alcun compenso o rimborso spese e comunque da essa non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”.
Rispetto a tale proposta di modifica, nella versione definitivamente approvata ed oggi vigente dell’articolato in questione, è stato espunto il riferimento al divieto di rimborso spese ed è stato integrato il contenuto precettivo, specificando la valenza “istituzionale” della partecipazione alle commissioni codificate dal Codice (i.e. “3. La partecipazione alle commissioni previste dal presente codice è assicurata nell'ambito dei compiti istituzionali delle amministrazioni interessate, non da' luogo alla corresponsione di alcun compenso e, comunque, da essa non derivano nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”.).
9. Vincoli finanziari contenuti nel comma 3, dell’art. 183 del Codice
   Alla luce dell’attuale formulazione del disposto in esame, quindi, occorre domandarsi se gli oneri derivanti dal “rimborso delle spese”, seppure non esplicitamente vietati dal dettato in questione (ed anzi, espressamente espunti dal precetto), rientrino comunque nel perimetro di applicazione della norma, in quanto compresi nel cono d’ombra del divieto di corresponsione di “alcun compenso” ovvero, comunque, nel perimetro applicativo del divieto di generare “nuovi o maggiori oneri”, oppure non rientrino in alcuni dei suddetti limiti e pertanto possono essere sostenuti nei limiti delle prescrizioni della normativa vigente.
A tale fine occorre precisare quanto segue.
Il comma 3, dell’art. 183 contiene due tipologie di vincolo: uno di natura specifica, relativo al divieto di “compensare” ossia remunerare, sotto qualsiasi forma, l’attività di partecipazione alle commissioni de quibus; l’altro di natura generica e residuale, inerente al divieto di “alterare” il complessivo equilibrio economico-finanziario della finanza pubblica allargata.
   9.1 Con riferimento alla portata del vincolo di natura specifica, si ritiene che con l’attuale formulazione della norma (“non si dà luogo alla corresponsione di alcun compenso”) s’intenda precludere ogni tipologia di onere finalizzato, anche in via indiretta, alla remunerazione –sotto qualsiasi forma ed “etichetta”- dell’attività svolta dal componente la commissione.
In tale ottica, esulerebbero dal perimetro applicativo del divieto esclusivamente gli oneri aventi natura e funzione meramente “restitutorie”, come il rimborso delle spese documentate.
Tale opzione peraltro sarebbe confermata dalla specifica espunzione del divieto del “rimborso delle spese” dal testo finale del disposto in esame e dalla circostanza che in altre fattispecie assimilabili il legislatore abbia espressamente incluso nel divieto tale voce di spesa.
Alla luce di quanto sopra, pertanto, si ritiene che esulino dall’ambito di applicazione del vincolo di gratuità di cui al comma 3, dell’art. 183 esclusivamente gli oneri di natura “restitutoria”, come quelli relativi al “rimborso delle spese”, purché la natura “non remunerativa” né “indennitaria” di tali oneri sussista, in concreto, al di là della sua etichetta formale.
   9.2 Fermo quanto sopra, occorre verificare se il rimborso delle spese –per quanto non precluso dal divieto di compensi sopra citato- sia consentito alla luce del vincolo di invarianza della spesa codificato dal medesimo articolato in esame.
Il vincolo di invarianza della spesa costituisce “l’alter ego” dell’obbligo di copertura finanziaria codificato dall’art. 81, comma 4, della Costituzione, in termini di identità di obiettivo perseguito, e cioè la tutela degli equilibri di finanza pubblica.
L’obbligo di copertura finanziaria (nella versione dell’art. 81, comma 3, Cost. post intervento riformatore del 2012 “ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi per farvi fronte”) impone che la legge provveda, in maniera adeguata ed effettiva, ai mezzi di sostegno dei nuovi e/o maggiori oneri derivanti –in via esplicita ovvero implicita- dall’attuazione della norma.
Il vincolo di invarianza finanziaria presuppone o comunque codifica (e impone) la “neutralità” dell’impatto degli oneri derivanti dall’attuazione della norma, in termini di equilibrio economico-finanziario complessivo.
L’obiettivo perseguito è identico: la tutela degli equilibri della finanza pubblica; ciò che differisce è lo strumento utilizzato per raggiungerlo. Nel prima caso si agisce sulla necessità di “dare copertura finanziaria” agli oneri (nuovi o maggiori, anche in termini di minori entrate) sopravvenuti per effetto della norma; nel secondo caso si agisce sulla necessità che gli oneri, qualora sussistenti, non abbiamo alcun impatto sugli equilibri di bilancio.
Il criterio di invarianza degli oneri finanziari è fissato, infatti, con riguardo agli effetti complessivi della norma e non comporta “in sé” la preclusione di un eventuale aggravio di spesa purché tale aggravio sia “neutralizzato” nei termini sopra precisati, “dal momento che ben potrebbe un singolo aggravio di spesa trovare compensazione in altre disposizioni produttive di risparmi o di maggiori entrate” (cfr. ex pluribus Corte Costituzionale sentenza n. 132/2014).
Ai sensi dell’art. 17, comma 7, della legge di contabilità e finanza pubblica n. 196/2009, tale “neutralità finanziaria” deve essere comprovata nell’ambito di una relazione tecnica che riporta i dati e gli elementi idonei a suffragare l'ipotesi di invarianza degli effetti sui saldi di finanza pubblica, anche attraverso l'indicazione dell'entità delle risorse già esistenti e delle somme già stanziate in bilancio, utilizzabili per le finalità indicate dalle disposizioni medesime.
In tale senso, il comma 3, dell’art. 183 del D.lgs. 42/2004 nel prevedere che dalla partecipazione alle commissioni previste nel Codice non devono “comunque derivare nuovi o maggiori oneri” non comporta un divieto assoluto di sostenere nuovi o maggiori oneri, ma esclusivamente l’obbligo di compensare tali oneri con entrate ovvero con risparmi di spesa derivanti e/o connesse all’attuazione della normativa in questione (cioè le disposizioni che nell’ambito del Codice istituiscono le varie commissioni, tra cui l’art. 148 in tema di commissioni locali per il paesaggio).
   10. Alla luce di quanto sopra e per rispondere all’oggetto del quesito in esame, la Sezione ritiene che il comma 3, dell’art. 183 del Dlgs 42/2004, per come formulato, non precluda “in linea astratta” il rimborso delle spese di viaggio sostenute dai componenti per la partecipazione alle commissioni di riferimento, e ciò in quanto l’articolato in questione non prevede uno specifico divieto in tale senso, e, comunque, tale divieto non può ritenersi compreso –per via implicita- nel divieto di “corrispondere alcun compenso” sancito dal comma in questione, in quanto non ne condivide i medesimi presupposti “remunerativi o compensativi”.
Fermo quanto sopra, alla luce del vincolo di neutralità finanziaria sancito dall’articolato in esame, gli oneri derivanti dal “rimborso delle spese” potranno essere legittimamente previsti e sostenuti dall’amministrazione interessata solo ed esclusivamente all’esito della verifica “a monte”, sin dalla fase di programmazione, della possibilità di neutralizzare, in concreto, tali spese con le nuove entrate (ovvero con i risparmi di spesa) derivanti dall’esercizio della funzione delegata, di cui è parte integrante e sostanziale la commissione locale per il paesaggio in esame.
In caso contrario, tali oneri non potranno essere sostenuti, pena la violazione del vincolo di invarianza finanziaria come sopra codificato a norma del comma 3, dell’art. 183 in esame.
Si ricorda, inoltre, che tale rimborso spese dovrà essere effettuato in conformità ai vincoli della normativa vigente, e ciò in termini di presupposti, tipologia e limiti quantitativi ivi fissati, regolamentandone a monte la fattispecie, pur sempre nella propria discrezionalità gestoria.
Nel caso in esame, peraltro, trattandosi di istituzione e funzionamento di un organo collegiale connesso all’esercizio di una funzione “istituzionale” dell’amministrazione interessata, tale vincolo di invarianza della spesa comporterà –ai fini del suo rispetto- una diversa allocazione delle ordinarie risorse (umane, strumentali ed economiche) disponibili a legislazione vigente, ovvero l’utilizzo delle eventuali maggiori entrate derivanti dalla o per l’effetto dell’istituzione delle suddette commissioni, il tutto avendo riguardo al fatto che si tratta di una funzione “delegata” che le regioni hanno l’onere di “promuovere” ai fini del suo esercizio, in concreto.
A tale fine occorrerà, pertanto, avere riguardo alla normativa regionale emanata al fine di “promuovere” e “disciplinare” il funzionamento delle suddette commissioni.
   10.1 I parametri di riferimento sono, da un lato, la legge regionale n. 50/1993 e successive modifiche ed integrazioni, tra cui la legge regionale n. 7/1999 emanata in attuazione del dlgs 112/1998 per il “conferimento di funzioni e compiti amministrativi al sistema delle autonomie locali” e, dall’altro, la delibera di giunta regionale n. 2202/2008 che, alla luce delle innovazioni introdotte dal Dlgs 63/2008, ha provveduto a disciplinare, nel dettaglio, i presupposti per l’esercizio della delega in questione da parte degli enti delegati.
L’art. 7 della legge 50/1993, andando a modificare ed integrare la legge regionale n. 20/1987 in materia di paesaggio, dispone che sono subdelegate ai comuni le funzioni amministrative esercitate dagli organi e uffici regionali, concernenti il rilascio di nullaosta o divieti relativi e connessi, tra l’altro, alla tutela del paesaggio. A tale fine il competente ufficio comunale rilascia il nullaosta, ovvero respinge l'istanza, sentita la commissione comunale per la tutela del paesaggio.
Ai sensi dell’articolato in questione, cosi come modificato dalla sopra citata legge n. 7/1999, la commissione in esame è un “(...) organo collegiale imperfetto, istituita con deliberazione del Consiglio comunale, è composta dal responsabile dell'ufficio tecnico comunale, da un architetto, un ingegnere edile, un geologo, un biologo naturalista e un agronomo".
Nell’ambito delle direttive contenute nella sopra citata delibera di Giunta regionale 2202/2008 vengono, invece, esplicitati i presupposti per la delega dell’esercizio della funzione autorizzatoria in parola.
A tale fine, la regione Basilicata assegna un ruolo “essenziale” all’istituzione delle suddette commissioni locali paesaggio (definita nel provvedimento regionale come “Commissione per la qualità architettonica e per il paesaggio”), ponendosi come strumento per il soddisfacimento di entrambi i presupposti fissati dal comma 6, dell’art. 146, e precisamente:
   a) come strumento necessario per “assicurare la richiesta adeguatezza delle istruttorie tecnico-amministrative relative alle istanze di autorizzazione in materia paesaggistica”, prescrivendo che “ogni Comune dovrà garantire che il procedimento venga affidato a strutture che siano in grado di esprimere la necessaria competenza dal punto di vista tecnico scientifico. In particolare la struttura comunale deve necessariamente avvalersi della competenza tecnico-scientifica delle Commissioni per la qualità architettonica e per il paesaggio, istituite in attuazione dell'art. 7 della l.r. n. 50/1993, che dovrà essere rinominata nella composizione prevista dalla l.r. n. 7/1999.” (cfr. punto 1, lett. a) Allegato A); nonché
   b) come strumento per garantire la “differenziazione tra i procedimenti paesaggistico e urbanistico-edilizio (...), in quanto la Commissione comunale per la qualità architettonica e per il paesaggio, è “composta da figure professionali di elevata competenza e specializzazione, esterni alle strutture amministrative comunali.” (cfr. punto 1, lett. b) Allegato A).
Con riferimento ai requisiti “soggettivi” dei componenti, oltre alla specifica tipologia di professionisti richiesta ai sensi dell’art. 7 della legge 7/2009 sopra richiamata (i.e. “(..) responsabile dell'ufficio tecnico comunale, da un architetto, un ingegnere edile, un geologo, un biologo naturalista e un agronomo”), viene ribadito che la Commissione dovrà operare la scelta dei propri componenti tra tecnici “esterni” all'amministrazione e in ogni caso non facenti parte della Sportello unico per edilizia e che i componenti dovranno dimostrare di aver svolto attività attinenti a materie quali l'uso, la pianificazione e la gestione del territorio e del paesaggio, la progettazione edilizia e urbanistica, la tutela dei beni architettonici e culturali e dovranno aver maturato una qualificata esperienza, almeno quinquennale.
In tale contesto, il ruolo di “promotore” della regione si sostanzierebbe unicamente nel consentire ai comuni di costituire Commissioni intercomunali nell'ambito delle forme associative previste dalle leggi regionali e nazionali, con particolare riguardo alle Unioni di Comuni, privilegiando Commissione tra Comuni contermini ovvero, qualora abbiano già istituito una Commissione, ai sensi dell'art. 7 della L.R. n. 50/1993, di non provvedere ad una nuova istituzione qualora quella esistente risulti adeguata e conforme ai criteri come sopra fissati.
Al fine di dare un contenuto “concreto” all’onere di promozione codificato dall’art. 148, comma 1, si ritiene, quindi, che debba aversi riguardo ai principi generali fissati dal sistema in tema di delega di funzione, ed ai sensi dei quali l’ente delegante deve intervenire al fine di rendere in concreto possibile l’esercizio della funzione delegata.
Nel caso di specie, pertanto, tale onere potrà sostanziarsi nel coadiuvare gli enti delegati nella istituzione/composizione delle commissioni de quibus.
   11. A tale specifico riguardo, anche alla luce del peculiare requisito di “terzietà” richiesto nelle direttive in parola con riferimento ai componenti le commissioni in esame, si ritiene necessario verificare se tali professionisti debbano essere “esterni” all’amministrazione interessata ma “interni” al comparto pubblico complessivamente inteso ovvero possano essere anche professioni privati, cioè “esterni” a tale apparato pubblico.
Come noto, per i professionisti legati da un rapporto di servizio con la pubblica amministrazione vige il tendenziale principio di onnicomprensività della retribuzione alla luce del quale gli importi percepiti per le funzioni svolte in via principale s’intendono sufficienti e proporzionati a remunerare tutti gli eventuali altri incarichi ricoperti nell’ambito ed in ragione del rapporto di impiego alle pubbliche dipendenze (cfr. parere Consiglio di Stato n. 173/2004) nonché il principio, oggi immanente al sistema ai fini di tutela della finanza pubblica allargata, di divieto di “cumulo” degli emolumenti percepiti (tra gli altri, si vedano gli artt. 82 e 83 del TUEL).
In tale ottica, la gratuità delle prestazioni svolte in seno ad organi collegiali, non si presenta come mancanza di sinallagmaticità (e quindi di causa) e quindi eccezione al principio di necessaria onerosità delle prestazioni lavorative, in quanto il professionista s’intende remunerato nell’ambito e per effetto della retribuzione ovvero degli emolumenti già percepiti in virtù del rapporto di servizio ovvero del munus pubblico rivestito nell’ambito della pubblica amministrazione.
   11.1 Nel caso in cui invece i professionisti fossero esterni al complessivo apparato pubblico occorrerà verificare se il tale vincolo di gratuità tombale sia compatibile con il suddetto principio di onerosità delle prestazioni ai sensi del quale “Ogni attività lavorativa è presunta a titolo oneroso salvo che si dimostri la sussistenza di una finalità di solidarietà in luogo di quella lucrativa (...)” (ex pluribus Cass. sentenza 26.01.2009 n. 1833) e, comunque, non vada ad inficiare –almeno in linea potenziale e astratta– sull’indipendenza e sull’imparzialità dei componenti le commissioni, alla luce proprio dell’assenza di qualsiasi remunerazione per l’attività svolta.
In tale caso, infatti, si suole parlare di “funzionario onorifico”, e cioè di professionista esterno che presta la propria attività nell’ambito del comparto pubblico pur non condividendone, neppure in parte, i connotati essenziali, tra cui “la scelta del dipendente di carattere prettamente tecnico-amministrativo effettuata mediante procedure concorsuali (che, si contrappone, nel caso del funzionario onorario, ad una scelta politico-discrezionale), l'inserimento strutturale del dipendente nell'apparato organizzativo della p.a. (rispetto all'inserimento meramente funzionale del funzionario onorario), lo svolgimento del rapporto secondo un apposito statuto per il pubblico impiego (che si contrappone ad una disciplina del rapporto di funzionario onorario derivante pressoché esclusivamente dall'atto di conferimento dell'incarico e dalla natura dello stesso), il carattere retributivo -perché inserito in un rapporto sinallagmatico- del compenso percepito dal pubblico dipendente (rispetto al carattere indennitario rivestito dal compenso percepito dal funzionario onorario), la durata tendenzialmente indeterminata del rapporto di pubblico impiego (a fronte della normale temporaneità dell'incarico onorario)” (cfr. ex pluribus Corte di Cassazione, sentenza n. 5398/2007).
Nel caso di specie, si ritiene che il legislatore abbia effettuato un’opzione, seppure implicita, a favore di componenti “interni” all’apparato pubblico, in quanto legati da un rapporto di dipendenza (nelle sue varie forme) con la pubblica amministrazione, e ciò per le seguenti ragioni:
   a) in primo luogo alla luce del fatto che la partecipazione alle suddette commissioni rientra –per espressa previsione di legge– nei compiti “istituzionali” dell’amministrazione interessata (cfr. comma 3, art. 186 del Codice), con tutti i corollari a questo connessi, anche in termini di sempre più incisiva valorizzazione delle risorse professionali interne da adibire a tali scopi.
Sul punto, peraltro, si segnala che ai sensi dell’ art. 6, comma 7, del DL 78/2010, a decorrere dall’esercizio 2011 il legislatore, al fine di conseguire risparmi nei costi di apparato “valorizzando” al contempo le figure professionali “interne”, vincola la spesa per incarichi di studio e consulenza ad una percentuale del 20% della spesa sostenuta per tale voce nel 2009, pena illecito disciplinare e responsabilità erariale del dirigente responsabile;
   b) per la rilevanza delle funzioni espletate dalle commissioni in esame in termini di “zona a rischio corruzione”, considerato il peculiare settore in cui i componenti si trovano ad operare–quello delle autorizzazione paesaggistiche- in cui si contrappongono interessi pubblici ed interessi privati, con conseguente potenziale ampliamento dei diritti dei privati in danno di quello pubblico di tutela del paesaggio;
   c) per la necessità, quindi, di garantire che le attività dei componenti de quibus siano improntate ai principi di indipendenza ed imparzialità, alla cui base non può non assumere rilievo essenziale una retribuzione sufficiente e proporzionata;
   d) per il carattere tombale del divieto di corrispondere compensi del comma 3, dell’art. 183 che, alla luce di quanto sopra, mal si concilia –almeno in linea di principio- con la necessità di remunerare i professionisti “altamente specializzati” (privati) incaricati in via “onorifica” ;
   e) per gli specifici vincoli imposti dai codici deontologici degli ordini professionali di appartenenza dei professionisti indicati nella normativa regionale (cfr. art. 7 legge regionale Basilicata n. 7/1999), ai sensi dei quali la regola generale vieta la gratuità della prestazione salvo specifiche ipotesi motivate da ragioni di “solidarietà” ovvero di “apprendistato”; ragioni che, nel caso di specie, non è dato intravedere;
   f) per la possibilità di rinvenire le suddette professionalità nell’ambito del comparto organizzativo regionale che –quale titolare della funzione– ha (o comunque dovrebbe avere) al proprio interno le specifiche figure professionali richieste ai fini della composizione delle commissioni in parola.
   11.2 Ed è in quest’ottica che, a parere della Sezione, si ritiene di dover interpretare il punto 2 dell’allegato A (“Requisiti dei componenti della Commissione per la qualità architettonica”) della delibera di giunta della regione Basilicata (n. 2202/2008) ai sensi della quale le commissioni in esame devono essere composte da “tecnici esterni all'amministrazione e in ogni caso non facenti parte della Sportello unico per edilizia”.
La ratio sottesa a tale disposizione –cioè la necessità di garantire le competenze tecnico-scientifiche e la differenziazione tra i due procedimenti, quello paesaggistico e quello urbanistico-edilizio- si appalesa comunque soddisfatta con l’utilizzo di professionisti “esterni” all’amministrazione interessata ma “interni” al comparto pubblico.
In questo caso, peraltro, il vincolo di gratuità tombale previsto dal comma 3, dell’art. 183 si presenterebbe non come deroga al principio immanente al sistema di onerosità della prestazione, ma come diretta attuazione del principio di onnicomprensività della retribuzione come sopra enucleato.
A tale fine, peraltro, potrà essere la stessa regione –in qualità di titolare della funzione autorizzatoria- a dotare l’amministrazione interessata dei professionisti in possesso dei necessari requisiti di competenza ed esperienza cui affidare l’incarico di comporre le commissioni in parola, e ciò in attuazione dell’obbligo di “promozione” delle commissioni di cui al comma 1 dell’art. 148.
   12. Per concludere, anche al fine di riepilogare gli esiti del percorso motivazionale seguito,
la Sezione ritiene che non rientri -in linea astratta- tra i vincoli finanziari sanciti dal comma 3, dell’art. 183 del dlgs 42/2004 il divieto di “rimborso delle spese” sostenute e documentate dai componenti le commissioni, e ciò a condizione che sia garantita la neutralità –in termini di impatto sugli equilibri economico-finanziari- della relativa voce di bilancio.
A tale fine
l’Ente potrà riallocare le risorse ordinariamente utilizzate in relazione all’esercizio di tale funzione ovvero utilizzare le maggiori entrate o le minori spese derivanti dall’espletamento della funzione medesima, e ciò anche alla luce delle risorse messe a disposizione dall’ente delegante (la regione) ovvero comunque percepite in ragione ed ai fini dell’esercizio della suddetta funzione delegata.
Si rileva in proposito che
nell’ambito dell’istituzione e del funzionamento delle commissioni locali per il paesaggio di cui all’art. 148 del dlgs 42/2004, le regioni assumono il ruolo fondamentale di “promotore” che non può e non deve limitarsi alla disciplina in via astratta dell’istituto in parola, ma deve connotarsi nei termini prescritti dal legislatore nazionale, cioè come “supporto” in concreto agli enti subdelegati nella composizione e nel funzionamento delle suddette commissioni.
Per l’effetto
si ritiene, altresì, che i professionisti componenti le commissioni in parola debbano essere "terzi” rispetto all’amministrazione delegata ma “interni” al comparto pubblico, inteso come soggetto macro aggregato.
Si ritiene che il legislatore, con il comma 3, dell’art. 183 del Codice, abbia effettuato una specifica opzione a tale riguardo, e ciò alla luce della natura “istituzionale” delle funzioni svolte e del divieto tombale di remunerazione, requisiti che mal si conciliano con il conferimento di incarichi a titolo onorifico a professionisti privati, e ciò alla luce del generale principio di “autosufficienza” e “valorizzazione” delle risorse interne all’apparato pubblico, del generale principio di onerosità della prestazione lavorativa e, non ultimo, della peculiare connotazione di “zona rischio corruzione” del settore in cui si trovano ad operare le commissioni in esame, in termini di potenziale (ed arbitrario) “ampliamento dei diritti dei privati” ed in relazione al quale (rischio) occorre assicurare –almeno in linea astratta- l’indipendenza ed imparzialità dei componenti le commissioni de quibus, e ciò anche per il tramite di una remunerazione sufficiente e proporzionata.
Tale elemento, visto il carattere tombale del divieto di remunerazione di cui al comma 3, dell’art. 183 del Codice, può essere rintracciato esclusivamente con riferimento a professionisti interni al comparto pubblico, in relazione ai quali la prestazione –seppure gratuita in seno alle commissioni de quibus– è già remunerato nell’ambito della restribuzione “madre” ricevuta per effetto del rapporto di servizio o del munus pubblico che lega il professionista alla pubblica amministrazione, complessivamente intesa.
Alla luce di quanto sopra, pertanto,
l’ente delegato dovrà aver previamente “mappato” nell’ambito del proprio piano triennale anticorruzione i rischi connessi all’attività in questione ed averne individuate le misure volte a prevenirlo.
In tale ottica,
il carattere onorifico della prestazione -in assenza di cause giustificatrici ulteriori rispetto al vincolo finanziario in sé- non si presenta –almeno in via astratta– come misura volta a prevenire ovvero ad ovviare il rischio che tale attività “gratuita” venga svolta nel perseguimento di interessi/vantaggi diversi ed opposti rispetto al fine tutelato dalla norma, e ciò proprio in ragione del peculiare assetto degli interessi coinvolti nell’esercizio della funzione de qua, l’interesse dei privati ad ampliare la propria sfera di diritti ed il bene-paesaggio rispetto al quale tali interessi potrebbero risultare recessivi (Corte dei Conti, Sez. controllo Basilicata, parere 07.07.2016 n. 29).

QUESITI & PARERI

APPALTI FORNITURE E SERVIZI La convenzione tra Comuni.
DOMANDA:
L’Ente capofila –stazione appaltante di un servizio fra più Comuni, in virtù della convenzione stipulata con essi- ha chiesto ad un Comune “gli interessi di mora previsti dalla normativa vigente” per il ritardato pagamento di alcune note informative nelle quali dichiara che esse non costituiscono fatture commerciali in quanto trattasi di trasferimento tra enti pubblici ai sensi della convenzione per lo svolgimento di servizi associati.
Si chiede pertanto se, ai sensi del D.Lgs. n. 231/2002 così come modificato dal D.Lgs. n. 192/2012, l’attività svolta dall’ente capofila, in rapporto ai comuni convenzionati, possa qualificarsi come “transazione commerciale” e pertanto esso sia da considerarsi “impresa”.
Nel caso affermativo si chiede inoltre se siano dovuti gli interessi di mora anche in assenza della relativa richiesta da parte della ditta appaltatrice del servizio.
RISPOSTA:
Il D.Lgs. 231/2002, come modificato dal D.Lgs. 192/2012, all’articolo 2 stabilisce che la normativa in questione si applica alle “transazioni commerciali”, cioè ai contratti, comunque denominati, tra imprese e pubbliche amministrazioni, che comportano, in via esclusiva o prevalente, la consegna di merci o la prestazione di servizi contro il pagamento di un prezzo.
La circolare del Ministero dello sviluppo economico n. 1293 del 23/01/2013, nel commentare queste disposizioni, afferma che “in conclusione, si ritiene che la nuova disciplina dei ritardati pagamenti introdotta in attuazione della normativa comunitaria 7/2011/UE, si applica ai contratti pubblici relativi a tutti i settori produttivi, inclusi i lavori, stipulati a decorrere dal 1/1/2013, ai sensi dell’articolo 3, comma 1, del D.Lgs. 192/2012”. Si ritiene che la convenzione stipulata tra i Comuni in questione, sottoscritta sulla base di quanto stabilito dall’articolo 30 del Tuel, non possa essere equiparata ad un contratto che da luogo ad una transazione commerciale.
Infatti, il comune capo fila si ritiene che non assuma la veste di “imprenditore”, cioè di un soggetto “esercente un’attività economica organizzata o una libera professione”. Pertanto, si ritiene che i rapporti finanziari che conseguono ad una convenzione costituita sulla base dell’articolo 30 del Tuel, non diano luogo a fatture commerciali, con la conseguenza che in questo caso non sono applicabili le disposizioni previste dal D.Lgs. 231/2002 (link
a www.ancirisponde.ancitel.it).

APPALTI SERVIZI: L'affidamento in concessione.
DOMANDA:
Dovendo procedere all'individuazione di un concessionario per la gestione dei servizi pre e post scuola, in cui questa Amministrazione non assumerà alcun impegno di spesa e il concessionario incasserà le rette direttamente dagli utenti, ma si limiterà all'individuazione della base d'asta sulla quale viene richiesto un ribasso per determinare la retta a carico degli utenti.
Come procedere all'affidamento in concessione alla luce del D.Lgs. 50/2016 (l'importo è inferiore a € 40.000,00):
- è obbligatorio ricorrere al MEPA attraverso una RDO?
- le concessioni sono escluse dal MEPA?
- oppure dobbiamo fare una procedura negoziata invitando al meno 5 operatori?
RISPOSTA:
Trattandosi di affidamento di importo inferiore a 40 mila euro, trova luogo il comma 2 dell’art. 36 del nuovo codice il quale prevede che “fermo restando quanto previsto dagli articoli 37 e 38 e salva la possibilità di ricorrere alle procedure ordinarie, le stazioni appaltanti procedono all'affidamento di lavori, servizi e forniture di importo inferiore alle soglie di cui all'articolo 35, secondo le seguenti modalità: - a) per affidamenti di importo inferiore a 40.000 euro, mediante affidamento diretto, adeguatamente motivato o per i lavori in amministrazione diretta…”.
L’ANAC nelle proprie recenti linee guida (doc. consultazione) ha tuttavia precisato che “come previsto dall’art. 36, comma 2, lett. a), la scelta dell’affidatario deve essere adeguatamente motivata. Si reputa che una motivazione adeguata dà dettagliatamente conto del possesso da parte dell’operatore economico selezionato dei requisiti richiesti nella delibera a contrarre, della rispondenza di quanto offerto alle esigenze della stazione appaltante, di eventuali caratteristiche migliorative offerte dal contraente e della convenienza del prezzo in rapporto alla qualità della prestazione. A tal fine, si ritiene che le stazioni appaltanti, anche per soddisfare gli oneri motivazionali, possano procedere alla valutazione comparativa dei preventivi di spesa forniti da due o più operatori economici. In caso di affidamento all'operatore economico uscente, è richiesto un onere motivazionale più stringente, in quanto la stazione appaltante motiva la scelta avuto riguardo al grado di soddisfazione maturato a conclusione del precedente rapporto contrattuale (esecuzione a regola d’arte nel rispetto dei tempi e dei costi pattuiti) e, si ritiene, anche in ragione della competitività del prezzo offerto rispetto alla media dei prezzi praticati nel settore di mercato di riferimento, anche tenendo conto della qualità della prestazione”.
L’applicazione obbligatoria del MEPA (comma 450 l. n. 296/2006) trova luogo, per regola generale, in relazione a tutti gli acquisti della PA, come del resto ripetuto più volte dalla Corte dei Conti (con particolare riferimento anche agli acquisti in economia: cfr. tra le varie Sez. Marche n. 17/2013; Sez. Lombardia n. 92/2013; v. anche CDS n. 3/2013).
Ma per tale stessa ragione si è ritenuto che non trovi luogo invece in relazione agli affidamenti in concessione di servizi, dal momento che in tale ipotesi non si ravvisa un vero e proprio “acquisto” di un servizio destinato al comune poiché la prestazione è rivolta direttamente agli utenti che ne sopportano anche i costi, mentre la controprestazione è costituita dal diritto di gestire il servizio in chiave produttiva (v. anche ANAC det. n. 11/2015).
La procedura negoziata con invito ad almeno n. 5 operatori risulta invece obbligatoria qualora si tratti di affidamenti di forniture e servizi di importo superiore a 40 mila euro e fino alle soglie di cui all’art. 35 del codice (lett. b) comma 2 art. 36 codice) (link
a www.ancirisponde.ancitel.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Giunte rosa nei mini-enti. La parità di genere non conosce eccezioni. Anche sotto i 3 mila abitanti va garantita la presenza femminile.
Quale disciplina deve essere applicata, in tema di parità di genere nella composizione della giunta comunale, a un ente locale che conta una popolazione inferiore a 3 mila abitanti?

La legge n. 56 del 07.04.2014, all'art. 1, comma 137, ha stabilito, per i soli comuni con popolazione superiore ai 3.000 abitanti, un preciso quorum del 40% affinché sia rispettato il principio dell'equilibrio di genere; per i comuni al di sotto di tale soglia demografica occorre richiamare l'art. 6, comma 3, del decreto legislativo n. 267/2000.
L'articolo citato prevede che gli statuti comunali e provinciali stabiliscano norme per assicurare condizioni di pari opportunità tra uomo e donna e per garantire la presenza di entrambi i sessi nelle giunte e negli organi collegiali non elettivi del comune e della provincia, nonché degli enti, aziende ed istituzioni da essi dipendenti.
Tale disposizione è stata modificata dall'art. 1, comma 1, della legge n. 215 del 2012 che ha sostituito il verbo «promuovere» con il verbo «garantire» e ha aggiunto alla espressione «organi collegiali» la dicitura «non elettivi». Ai sensi del comma 2 dell'art. 1 della citata legge n. 215 del 2012 è previsto che gli enti locali, entro sei mesi dall'entrata in vigore della legge stessa, adeguino i propri statuti e regolamenti alle disposizioni recate dell'art. 6, comma 3, del richiamato Testo unico degli enti locali.
L'art. 2, comma 1, lett. b) della citata legge n. 215/12 ha modificato l'art. 46, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, disponendo che il sindaco e il presidente nella provincia nominano i componenti della giunta «nel rispetto del principio di pari opportunità tra donne e uomini, garantendo la presenza di entrambi i sessi».
La normativa in parola va letta alla luce dell'art. 51 della Costituzione, come modificato dalla legge costituzionale n. 1/2003, che ha riconosciuto dignità costituzionale al principio della promozione delle pari opportunità tra donne e uomini.
Nel caso dei comuni rientranti nella suddetta fascia demografica, pertanto, devono trovare applicazione le disposizioni contenute nei citati articoli 6, comma 3, e 46, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 e nella legge n. 215/2012. Tali disposizioni, recependo i principi sulle pari opportunità dettati dall'art. 51 della Costituzione, dall'art. 1 del decreto legislativo dell'11.04.2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità) e dall'art. 23 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, non hanno un mero valore programmatico, ma carattere precettivo, finalizzato a rendere effettiva la partecipazione di entrambi i sessi in condizioni di pari opportunità, alla vita istituzionale degli enti territoriali.
Peraltro, ferma restando la necessità dell'adeguamento statutario da parte dell'ente interessato, le richiamate disposizioni sulla parità di genere risultano immediatamente applicabili, anche in carenza di una espressa previsione statutaria (articolo ItaliaOggi del 22.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Incompatibilità dipendente provinciale incaricato p.o. e assessore presso Comune.
A norma dell'art. 12, comma 4, lett. b), del d.lgs. 39/2013, nelle pubbliche amministrazioni, gli incarichi dirigenziali, interni ed esterni, sono incompatibili con la carica di componente della giunta di un comune con popolazione superiore ai 15.000 abitanti o di una forma associativa tra comuni avente la medesima popolazione, ricompresi nella stessa regione dell'amministrazione locale che ha conferito l'incarico.
Detta incompatibilità si verifica anche nella fattispecie di dipendente incaricato di posizione organizzativa, vista l'assimilazione di tale incarico a quello dirigenziale operata dall'art. 2, comma 2, del citato decreto, e gli orientamenti espressi in materia dall'ANAC.
L'incompatibilità potrebbe non sussistere solo nel caso in cui l'incarico fosse stato conferito prima dell'entrata in vigore del d.lgs. 39/2013, ovvero nel caso in cui non si trattasse di delega di funzioni dirigenziali.

L'Ente ha chiesto un parere in ordine al sussistere di una possibile incompatibilità tra due posizioni rivestite da un funzionario dipendente della Provincia, incaricato di posizione organizzativa. Si tratta, da un lato, della nomina ad Assessore presso un Comune (con popolazione superiore ai 15.000 abitanti), e, dall'altro, di un funzionario (non dirigente), cui è stato conferito un incarico di posizione organizzativa con delega di funzioni dirigenziali.
Com' è noto, l'art. 12, comma 4, lett. b), del d.lgs. 39/2013 dispone che, nelle pubbliche amministrazioni, gli incarichi dirigenziali, interni e esterni, sono incompatibili con la carica di componente della giunta o del consiglio di una provincia, di un comune con popolazione superiore ai 15.000 abitanti o di una forma associativa tra comuni avente la medesima popolazione, ricompresi nella stessa regione dell'amministrazione locale che ha conferito l'incarico.
Si osserva che l'art. 1, comma 2, lett. j), del citato decreto qualifica come 'incarichi dirigenziali interni' gli 'incarichi di funzione dirigenziale, comunque denominati, che comportano l'esercizio in via esclusiva delle competenze di amministrazione e gestione [.....] conferiti a dirigenti o ad altri dipendenti [...] appartenenti ai ruoli dell'amministrazione che conferisce l'incarico ovvero al ruolo di altra pubblica amministrazione'.
Inoltre l'art. 2
[1], comma 2 del d.lgs. 39/2013, prevede espressamente che, ai fini applicativi dello stesso, al conferimento negli enti locali di incarichi dirigenziali è assimilato quello di funzioni dirigenziali a personale non dirigenziale.
L'ANAC
[2], con riferimento alla previsione normativa di cui si discute, ha chiarito che sussiste l'incompatibilità tra l'incarico di posizione organizzativa in un ente locale, conferito ai sensi dell'art. 109, comma 2, del d.lgs. 267/2000, e la carica di componente della giunta o dell'assemblea della forma associativa di cui il medesimo ente locale fa parte, in quanto tale incarico è qualificabile come incarico di funzioni dirigenziali a personale non dirigenziale, fatta salva l'ipotesi che il conferimento dello stesso sia avvenuto prima dell'entrata in vigore del citato decreto 39/2013, secondo quanto stabilito dall'art. 29-ter del d.l. 69/2013.
La stessa ANAC
[3] ha osservato, più in generale, che 'il regime delle incompatibilità di cui al d.lgs. n. 39 del 2013 fa esclusivo riferimento agli incarichi dirigenziali e agli incarichi di funzioni dirigenziali, onde l'annoverabilità tra i medesimi degli incarichi di posizione organizzativa va valutata caso per caso in ragione delle funzioni effettivamente svolte'.
In conclusione, il presupposto rilevante al fine della sussistenza dell'incompatibilità è che al responsabile delegato di posizione organizzativa siano attribuite le funzioni dirigenziali di cui all'art. 107, commi 2 e 3, del d.lgs. 267/2000.
Nella fattispecie prospettata emerge che l'interessato è stato delegato allo svolgimento di determinate funzioni dirigenziali rientranti nel predetto ambito, per cui si ritiene che l'incompatibilità potrebbe non sussistere solo qualora l'incarico fosse stato conferito prima dell'entrata in vigore del d.lgs. 39/2013 e, in tal caso, fino alla scadenza già stabilita per il medesimo incarico.
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[1] Rubricato Ambito di applicazioni.
[2] Cfr. orientamento n. 4 del 15.05.2014.
[3] Cfr. FAC 7.19 Il d.lgs. n. 39 del 2013 si applica ai titolari di posizioni organizzative?
(19.07.2016 -
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CONSIGLIERI COMUNALI: Amministratori locali. Utilizzo consigliere comunale in cantiere di lavoro.
Non si ritiene sussistere nei confronti del consigliere comunale che sta per essere avviato ad un'attività di cantieri di lavoro presso il medesimo Ente la causa di incompatibilità di cui al combinato disposto degli articoli 60, comma 1, numero 7) e 63, comma 1, numero 7), del d.lgs. 267/2000, in quanto tale utilizzo, improntato a finalità di carattere assistenziale/previdenziale, non implica la costituzione di un rapporto di lavoro. 
Il Consigliere comunale ha chiesto un parere in ordine al possibile sussistere di una causa di incompatibilità con riferimento alla situazione di un soggetto, individuato quale destinatario di un progetto 'cantieri di lavoro' ex l.r. 27/2012 e che contestualmente ricopre la carica di consigliere comunale presso il medesimo Ente.
Sentito il Servizio Consiglio autonomie locali ed elettorale, si esprimono le seguenti considerazioni.
Si ritiene utile riportare innanzitutto le considerazioni espresse a suo tempo in un precedente parere reso dallo scrivente Servizio
[1], in cui si era esaminata la questione -analoga- della sussistenza di una causa di incompatibilità per un amministratore locale che si appresta a svolgere presso l'amministrazione comunale nella quale esercita il suo mandato un lavoro di pubblica utilità.
Preliminarmente, si è rilevato -in detto contesto- che la valutazione della sussistenza delle cause di ineleggibilità o di incompatibilità dei componenti di un organo elettivo amministrativo è attribuita dalla legge all'organo medesimo. È, infatti, principio di carattere generale del nostro ordinamento che gli organi collegiali elettivi debbano esaminare i titoli di ammissione dei propri componenti.
Così come, in sede di esame delle condizioni degli eletti (art. 41 del D.Lgs. 267/2000), è attribuito al consiglio comunale il potere-dovere di controllare se nei confronti dei propri membri esistano condizioni ostative all'esercizio delle funzioni, allo stesso modo, qualora venga successivamente attivato il procedimento di contestazione di una causa di incompatibilità, a norma dell'art. 69 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, spetta al consiglio medesimo, al fine di valutare la sussistenza di detta causa, esaminare le osservazioni difensive formulate dall'amministratore e, di conseguenza, adottare gli atti ritenuti necessari.
Ciò premesso, la norma da prendere in esame, con riferimento alla fattispecie in commento, è l'articolo 60, comma 1, numero 7), del D.Lgs 267/2000, la quale stabilisce che non è eleggibile a consigliere comunale, nel rispettivo consiglio, il dipendente del Comune. In forza del disposto di cui all'articolo 63, comma 1, numero 7), TUEL, infatti, costituisce causa di incompatibilità per un amministratore locale il venire a trovarsi, nel corso del mandato, in una delle condizioni di ineleggibilità previste dal precedente articolo 60.
La ratio della norma è quella di garantire il più possibile la separazione tra attività politica e attività di gestione e l'elemento di discrimine affermato dalla giurisprudenza al riguardo è la sussistenza delle condizioni tipiche del rapporto di impiego subordinato. Occorre, in altri termini, per la configurabilità dell'ipotesi di incompatibilità in esame, che nell'attività svolta per il Comune siano rinvenibili i profili della subordinazione tipici del rapporto di lavoro dipendente o ad esso assimilati (sottoposizione ad ordini e direttive; inserimento del lavoratore nella struttura dell'ente; assenza di un rischio imprenditoriale; continuità della prestazione; forma della retribuzione; non gratuità della prestazione...
[2]).
Tali requisiti paiono non ravvisarsi nel caso di realizzazione di cantieri di lavoro di cui all'art. 9, comma 127 e seguenti, della l.r. 27/2012, volti a facilitare l'inserimento lavorativo e sostenere il reddito di soggetti disoccupati, residenti nella Regione Friuli Venezia Giulia, e utilizzati in via temporanea e straordinaria da Province, Comuni e loro forme associative.
Il comma 129 del citato articolo 9 specifica espressamente che l'utilizzo dei predetti soggetti nei cantieri di lavoro non costituisce rapporto di lavoro e il successivo comma 130 precisa altresì che i soggetti utilizzati, per la durata del cantiere, mantengono lo stato di disoccupazione.
Trattasi di lavori da eseguire nell'ambito di attività forestale e vivaistica, di rimboschimento, di sistemazione montana e di costruzione di opere di pubblica utilità, diretti al miglioramento dell'ambiente e degli spazi urbani.
Appaiono significative, al riguardo, le statuizioni contenute nella sentenza della Suprema Corte, la quale, con riferimento alla fattispecie dei L.S.U., recita che: 'Non può qualificarsi come rapporto di lavoro subordinato l'occupazione temporanea di lavoratori socialmente utili alle dipendenze di un ente comunale per l'attuazione di un apposito progetto, realizzandosi con essa, alla stregua dell'apposita normativa in concreto applicabile, un rapporto di lavoro speciale di matrice essenzialmente assistenziale'
[3]
Oltre all'espressa esclusione normativa della fattispecie in esame dall'ambito dei rapporti di lavoro, si osserva ad ogni modo che in relazione all'istituto dei 'cantieri di lavoro' sussiste la medesima finalità assistenziale/previdenziale che caratterizza i lavori socialmente utili.
E' da rilevare inoltre che il Ministero dell'Interno si è espresso in senso negativo con particolare riferimento alla configurabilità di una causa di incompatibilità per un amministratore locale che svolge un lavoro socialmente utile presso il medesimo Ente
[4].
La posizione assunta dal Ministero appare valida anche con riferimento alla fattispecie dei cantieri lavoro, conformemente, tra l'altro, all'orientamento espresso dalla giurisprudenza, la quale ha avuto modo di rilevare, nello specifico, che: 'l'istituzione dei cantieri-lavoro risponde, infatti, ad una esigenza politico sociale di carattere generale, avendo come finalità la lotta alla disoccupazione, finalità cui la legge regionale...... abbina, quale ulteriore finalità di interesse generale, la realizzazione o la sistemazione di opere di pubblica utilità e di interesse pubblico o sociale che si pongono in connessione diretta con il raggiungimento delle finalità istituzionali degli enti pubblici ai quali è affidata la gestione dei predetti cantieri'.
[5]
Si consideri, infine, in aggiunta alle considerazioni sopra svolte, che le cause ostative all'espletamento del mandato elettivo, disciplinate dal TUEL, incidendo direttamente sull'esercizio del diritto di elettorato passivo, sono di stretta interpretazione e come tali non suscettibili di estensione analogica
[6], con la conseguenza che anche situazioni di fatto che accidentalmente dovessero evidenziare elementi del rapporto subordinato non precluderebbero l'assunzione o il mantenimento della carica elettiva [7].
In conclusione, salve le eventuali diverse valutazioni che il Ministero dell'Interno dovesse esprimere specificamente in relazione alla fattispecie dei 'cantieri di lavoro', non si ritiene allo stato sussistere nei confronti del consigliere comunale che sta per essere avviato ad un'attività di cantieri di lavoro presso il medesimo Ente la causa di incompatibilità di cui al combinato disposto degli articoli 60, comma 1, numero 7), e 63, comma 1, numero 7), del D.Lgs.267/2000.
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[1] Cfr. prot. n. 6825 del 24.02.2012.
[2] Si vedano, al riguardo, tra le altre Cassazione civile, sez. VI, sentenza del 19.10.2011, n. 21689 e Cassazione civile, sez. lavoro, sentenza dell'08.07.2013, n. 16935.
[3] Cfr. Cassazione civile, sez. lavoro, sentenza del 05.02.2013, n. 2605.
[4] Ministero dell'Interno, parere del 02.03.2015.
[5] Cfr. TAR Catania, sez. IV, sentenza del 14.03.2011, n. 598.
[6] Così Cass. Civ., sez. I, sentenza 12.12.2011, n. 28504.
[7] In questi termini si è espresso il Ministero dell'Interno con parere del 12.05.2011
(13.07.2016 -
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PATRIMONIO: Validità contratto di affitto di fondo rustico.
Perché un contratto di cui è parte una p.a. possa dirsi validamente concluso, occorre la manifestazione di volontà dell'organo cui la legge attribuisce la legale rappresentanza dell'ente pubblico, previe le eventuali delibere di altri organi, nonché la forma scritta ad substantiam.
In tal senso si esprime la giurisprudenza, muovendo dalla disciplina generale della forma dei contratti pubblici contenuta nel R.D. n. 2440/1923 (artt. 16, 17 e 18), che impone la forma scritta anche quando la p.a. agisce iure privatorum.
In particolare, in tema di contratti di affitto di fondi rustici, pur dopo l'entrata in vigore della L. n. 203/1982, art. 41, che ha deformalizzato i contratti di affitto a coltivatore diretto, anche se ultranovennali, rendendoli a forma libera, non può ritenersi concluso un contratto di affitto agrario con la p.a. in forza di un comportamento concludente, anche protrattosi per anni.

Il Comune riferisce di aver affittato, nell'anno 1993 e per la durata di venti anni, un fondo rustico, sito nel proprio territorio e oggetto di comproprietà con altro comune
[1], a privato cittadino, che ha da allora realizzato diverse costruzioni dietro rilascio dei necessari titoli abilitativi edilizi.
Posto che nel dicembre 2013 è intervenuta la scadenza del contratto in argomento, il Comune chiede come comportarsi di fronte alle domande di permesso di costruire avanzate dal privato affittuario, il quale sostiene che il contratto in questione è da considerarsi prorogato ex lege, in quanto si tratta di fondo rustico affittato ad imprenditore agricolo.
La disamina del quesito postula la definizione dell'attuale sussistenza o meno del contratto di affitto di fondo rustico, considerato che, ai sensi della L.R. n. 19/2009, è riconosciuto il diritto di eseguire opere edilizie, oltre che al proprietario, tra gli altri, all'affittuario di fondo rustico (art 21, comma 2, lett. b).
Per orientamento consolidato della giurisprudenza, espresso anche in tema di contratti di affitto di fondi rustici, i requisiti di validità dei contratti posti in essere dalla p.a., anche iure privatorum, attengono alla manifestazione della volontà e alla forma. In particolare, occorre la manifestazione di volontà da parte dell'organo al quale è attribuita la legale rappresentanza dell'ente, previe eventuali deliberazioni dei propri organi deliberativi che hanno valore di atti interni preparatori della successiva manifestazione esterna, e la forma che deve essere scritta, a pena di nullità, sicché nei confronti della stessa p.a. non è configurabile il rinnovo tacito del contratto
[2].
Pertanto, ove faccia difetto sia una manifestazione di volontà dell'ente pubblico, proveniente dall'organo al quale dalla legge è attribuita la legale rappresentanza dell'ente stesso, previe le eventuali delibere di altri organi, nonché la forma scritta ad substantiam, non si è in presenza di un contratto, mancando in radice l'accordo tra le parti, presupposto dell'art. 1321 c.c.
[3], con la conseguenza che il contratto deve considerarsi giuridicamente inesistente [4].
In particolare, in tema di contratti di affitto di fondi rustici, la Corte di cassazione ha affermato che non rileva che l'amministrazione richieda la restituzione del fondo molto tempo dopo la scadenza del contratto
[5], non essendo ipotizzabile una rinnovazione tacita del contratto, che verrebbe ad eludere il requisito della forma scritta fissato dall'art. 17 del R.D. 18.11.1923, n. 2440. La normativa speciale dettata in tema di contratti della p.a. prevale, infatti, sulla disciplina dei rapporti tra privati [6].
E così, pur dopo l'entrata in vigore della L. n. 203/1982, art. 41
[7], che ha deformalizzato i contratti di affitto a coltivatore diretto, anche se ultranovennali, rendendoli a forma libera, non può ritenersi concluso un contratto di affitto agrario con la p.a. in forza di un comportamento concludente, anche protrattosi per anni [8]. E a nulla rileva la previsione dell'art. 6, D.Lgs. n. 228/2001, che estende le disposizioni della L. n. 203/1982 anche ai terreni degli enti pubblici che siano oggetto di affitto o di concessione amministrativa, poiché questa norma attiene, come risulta dalla stessa rubrica all''utilizzazione agricola dei terreni demaniali e patrimoniali indisponibili' e non al momento genetico del rapporto [9].
Alla luce dell'orientamento giurisprudenziale riportato, non sembrerebbe ad oggi potersi ritenere in corso di validità il contratto di affitto di fondo rustico stipulato dal Comune istante nel 1993 (anche in nome e per conto del comune comproprietario), essendo scaduti i 20 anni di durata pattuiti nell'accordo e non essendo intervenuta una nuova manifestazione di volontà, nelle forme dovute, dei Comuni proprietari.
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[1] In base al regolamento disciplinante i rapporti tra i due comuni per la gestione del bene in comproprietà di cui si tratta, quello nel cui territorio è ubicato detto bene (Comune istante) è competente alla gestione, e in particolare può operare la gestione straordinaria solo su espressa delega dell'altro comune comproprietario. Il contratto di affitto in questione è stato stipulato dal Comune istante, in rappresentanza anche dell'altro comune comproprietario in virtù del suddetto regolamento, e previa delega di quest'ultimo. In particolare, la durata dell'affitto è stata pattuita 'di anni 20 a partire dalla data di stipulazione del contratto'.
[2] Cfr. specificamente per i contratti di affitto di fondi rustici, Cass. civ., sez. III, 16.01.2009, n. 976; Cass. civ., sez. III, 15.12.2000, n. 15862; Cass. civ., sez. III, 08.05.2014, n. 9975.
[3] Cass. civ., sez. III, 15.12.2000, n. 2611.
[4] Cass. civ. sez. I, 21.05.2002, n. 7422.
[5] Nel caso in esame, la scadenza della durata ventennale del contratto è avvenuta nel dicembre 2013.
[6] Cass. civ., n. 9975/2014.
In generale, è consolidato in giurisprudenza l'orientamento che fa risalire agli artt. 16 e 17 del R.D. n. 2440/1923 l'obbligo della forma scritta ad substantiam per tutti i contratti stipulati dalla p.a., anche iure privatorum. Tra le tante, v. Cass. civ., sez. II, 18.05.2011, n. 10910 e Cass. civ., sez. II, 30.07.2004, n. 14570. Conforme anche Corte dei conti, sez. reg. contr. Regione Puglia, 22.01.2014, n. 16.
Anche l'ANAC (parere n. 43 del 27.01.2011) osserva che la disciplina generale della forma dei contratti pubblici è contenuta nel decreto sull'amministrazione del patrimonio e sulla contabilità generale dello Stato (R.D. n. 2440/1923), agli articoli 16 (forma pubblica amministrativa), 17 (contratti a trattativa privata) e 18 (contratti stipulati con ditte e società commerciali). Secondo tale disciplina, tutti i contratti stipulati dalla Pubblica Amministrazione, anche quando quest'ultima agisce iure privatorum, richiedono la forma scritta ad substantiam. V. anche Corte di Appello di Napoli, Ufficio del Referente per la Formazione decentrata, 12.12.2011, Il Contenzioso civile in tema di locazioni,
secondo cui, a norma dell'art. 1350 n. 13 c.c., la forma scritta è richiesta a pena di nullità 'per...gli altri atti specialmente indicati dalla legge'. Le leggi che disciplinano i contratti della p.a. prevedono per l'appunto tale requisito formale.
[7] L'art. 41 della legge 03.05.1982, n. 203, (Norme sui contratti agrari), prevede che 'i contratti agrari ultranovennali, compresi quelli in corso, anche se verbali o non trascritti, sono validi ed hanno effetto anche riguardo ai terzi'.
[8] Cass. civ., n. 9975/2014 e Cass. civ., n. 15862/2000 su contratto di affitto di fondo rustico. Conformi: Cass. civ., sez. vi, 23.06.2011, n. 13886 e Cass. civ., sez. III, 23.01.2006, n. 1223, su contratto di locazione. In particolare quest'ultima, nell'escludere radicalmente la rinnovazione tacita del contratto ex art. 1597 c.c. qualora ne sia parte una p.a., precisa l'inidoneità di circostanze quali la permanenza del conduttore nell'immobile, il pagamento e la riscossione dei canoni, a determinare la rinnovazione del contratto. Proprio perché la volontà della p.a. non può desumersi da fatti concludenti, ma deve essere espressa in forma scritta a pena di nullità.
[9] Cass. civ., n. 9975/2014
(17.06.2016 -
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NEWS

APPALTIAppalti, subentro con tutele limitate. Al personale non sempre vanno garantiti retribuzioni, regole e diritti già in vigore.
Contratti. Dal 23 luglio entra in vigore la legge comunitaria che prevale su altre norme di legge e contratti collettivi.

Dal 23 luglio entreranno in vigore le nuove regole sulla gestione del personale in caso di successione di appalti, per effetto della pubblicazione in Gazzetta ufficiale della legge comunitaria (la 122/2016), avvenuta l’8 luglio.
La normativa sostituisce il testo oggi vigente dell’articolo 29, comma 3, del Dlgs 276/2003 (la legge Biagi), che esclude l’applicabilità delle regole del trasferimento di azienda ai casi di subentro di un appaltatore all’altro nella gestione del medesimo servizio, anche nei casi in cui tale subentro sia accompagnato dall’assunzione del personale già impiegato nell’appalto.
Lo scopo della norma attuale è di evitare di omologare il fenomeno della successione degli appalti al trasferimento di azienda, e fare in modo di non applicare le regole (contenute nell’articolo 2112 del Codice civile) che impongono al cessionario dell’impresa di acquisire senza soluzione di continuità tutto il personale impiegato nel ramo di azienda trasferito, garantendo il mantenimento dei diritti acquisiti e l’applicazione dei trattamenti economici e normativi già in essere.
Questa disciplina non è stata vista con favore dalla Commissione europea, che ha avviato nei confronti del nostro Paese una procedura di pre-infrazione, ritenendo che il comma 3 dell’articolo 29 del Dlgs 276/2003 non sia conforme ai principi della direttiva 2001/23/Ce del 12.03.2001 sul trasferimento d’azienda. Secondo la Commissione non è possibile escludere il mantenimento dei diritti dei lavoratori in presenza di fattispecie (il cambio di appalto) assimilabili al trasferimento di azienda.
La norma appena approvata -meno drastica della versione inizialmente contenuta nel disegno di legge comunitaria, che prevedeva l’abrogazione totale del 3 comma dell’articolo 29- tenta di rispondere alla procedura comunitaria pur facendo salvo il principio per cui la successione di appalti e il trasferimento di azienda costituiscono fattispecie distinte e, come tali, meritevoli di regole differenti.
Per coniugare queste esigenze contrapposte, la modifica inserisce nel testo normativo alcuni criteri volti a individuare quando tale distinzione viene meno.
In particolare viene precisato che l’acquisizione di personale già impiegato nell’appalto non comporta l’applicazione delle regole del trasferimento di azienda quando il subentro nella gestione del servizio avviene in favore di un soggetto dotato di propria struttura organizzativa e operativa e a condizione che sussistano elementi di discontinuità con il precedente appaltatore che determinino una specifica identità di impresa. In questi casi, quindi, potrà per esempio essere applicato un contratto diverso e/o ridotte le retribuzioni.
È troppo presto per stabilire come, in concreto, la giurisprudenza identificherà questi elementi. Senza dubbio non potranno beneficiare dell’esenzione (e quindi ricadranno nell’ambito di applicazione delle norme dell’articolo 2112 sul trasferimento di azienda) tutte le ipotesi di successione di appaltatori nelle quali l’impresa subentrante non sarà dotata di una struttura imprenditoriale che sia effettiva e reale, da un lato, e che si distingua in maniera non solo formale ma anche sostanziale con l’impresa uscente, dall’altro.
La nuova disposizione (come la precedente) si applica a tutti i casi di acquisizione del personale, sia che questa avvenga sulla base di una norma di legge (per esempio come accade per i call center, dove è stata introdotta dal nuovo codice appalti la cosiddetta clausola sociale) sia quando il personale sia trasferito al soggetto subentrante in virtù di una clausola di un contratto collettivo nazionale di lavoro oppure di un contratto d’appalto
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.07.2016).

PUBBLICO IMPIEGOPermessi 104 senza sospensione.
I lavoratori disabili possono continuare a fruire dei permessi della 104 durante il periodo di attesa di revisione dello stato invalidante. A stabilirlo è la legge n. 114/2014, con effetto dal 19 agosto 2014. Di conseguenza, i datori di lavoro possono portare a conguaglio le somme anticipate ai lavoratori (cioè le giornate di assenza retribuite), anche se il provvedimento di autorizzazione è scaduto e fino a compimento dell'iter sanitario di revisione.

Lo spiega l'Inps nella circolare 08.07.2016 n. 127.
Quali prestazioni. La novità riguarda i benefici di cui sono destinatari i lavoratori dipendenti con disabilità grave (ai sensi della legge n. 104/1992) e quelli che prestano assistenza ai familiari disabili gravi, vale a dire:
• permessi (art. 33 della legge n. 104/1992);
• prolungamento del congedo parentale (art. 33 del dlgs n. 151/2001);
• riposi orari, alternativi al prolungamento del congedo parentale (art. 33 del dlgs n. 151/2001 e art. 33 della legge n. 104/1992);
• congedo straordinario (art. 42 del dlgs n. n. 151/2001).
La novità, introdotta dall'art. 25 del dl n. 90/2014 convertito dalla legge n. 114/2014, ha il fine di semplificare gli adempimenti sanitari e amministrativi per i soggetti disabili per evitare che il costo della burocrazia venga a ricadere sulle loro spalle.
La novità, in particolare, è questa: sono automaticamente prorogati gli effetti del verbale rivedibile oltre il termine stabilito per la revisione, in modo da consentire la fruizione dei predetti benefici nelle more della definizione dell'iter sanitario di revisione.
La novità. Infatti i verbali di accertamento della disabilità in situazione di gravità possono essere oggetto di revisione, attraverso una successiva visita da parte della commissione deputata al compito di rilasciare la certificazione di «situazione di gravità» (art. 4 della legge n. 104/92).
Fino alla legge n. 114/2014, il lavoratore autorizzato dall'Inps a uno o più benefici correlati alla disabilità grave accertata dal verbale soggetto a revisione non poteva continuare a fruirne nel periodo compreso tra la data di scadenza del verbale e la fine dell'iter sanitario di revisione. Dopo la legge n. 114/2014, ossia a partire dal 19.08.2014, invece, possono continuare a fruire dei benefici nelle more dell'iter sanitario di revisione.
Quando serve la domanda. Pur riguardano tutti i benefici, la novità è disciplinata con regole diverse. Infatti, l'Inps precisa che i lavoratori non devono presentare una nuova domanda di autorizzazione per continuare a fruire dei permessi 104 dalla data di scadenza del verbale rivedibile e il completamento dell'iter sanitario di revisione.
Mentre devono presentare nuova domanda di autorizzazione per poter fruire, nello stesso periodo, degli altri benefici (cioè prolungamento del congedo parentale; riposi orari, alternativi al prolungamento del congedo parentale; congedo straordinario), in quanto si tratta di prestazioni richieste per periodi determinati di tempo.
I permessi. Il lavoratore titolare dei permessi legge 104 in base a un verbale sottoposto a revisione alla data del 19.08.2014, anche se è decorsa la data di scadenza riportata su tale verbale, può dunque continuare a fruire dei permessi già autorizzati dall'Inps.
Conseguentemente, anche il datore di lavoro può continuare a portare a conguaglio le somme anticipate per le prestazioni oltre la data di scadenza riportata nel provvedimento di autorizzazione a suo tempo rilasciato in base al verbale rivedibile e fino al compimento dell'iter sanitario di revisione (articolo ItaliaOggi del 12.07.2016).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAssenteisti Pa, sospensione sprint da mercoledì. Entra in vigore dopodomani il decreto che prevede lo stop in 48 ore e il licenziamento in 30 giorni.
Per gli assenteisti inguaribili della Pubblica amministrazione domani è l’ultimo giorno per farsi cogliere sul fatto e imboccare la strada ordinaria del procedimento disciplinare; da mercoledì entrano infatti in vigore le regole scritte nel decreto attuativo della riforma Madia, che dopo un dibattito acceso e una serie di correttivi imbarcati in Parlamento è pronto per provare a dispiegare i propri effetti: in teoria, le prime sospensioni potrebbero arrivare già in settimana, entro venerdì, ma comunque non ci vorrà molto a capire se il calendario sprint e le super-sanzioni anche a carico di chi non vigila saranno in grado di mettere davvero il freno a un fenomeno che colpisce al cuore la credibilità della nostra amministrazione pubblica.
A innescare l’ultima ondata del dibattito, che ha spinto il governo ad accelerare nell’attuazione di questa parte della delega (il decreto sugli assenteisti è stato il secondo, dopo quello sulla trasparenza del Freedom of Information Act, a finire in Gazzetta Ufficiale), è stato come si ricorderà il caso del Comune di Sanremo, con 195 indagati su 528 dipendenti e una ricca cineteca con filmati di timbrature “allegre” culminata nell’immagine del vigile in mutande (perché la timbratrice era accanto a casa in un palazzo chiuso al pubblico). La questione, però, è decisamente nazionale, e produce nuovi casi a ritmi incessanti.
Le ultime notizie sul tema arrivano da Belluno, dove giovedì sono finiti sotto inchiesta 12 forestali, e da Oppido Mamertina, in provincia di Reggio Calabria, dove la Procura ha indagato 24 dipendenti comunali (per 4 di loro ha chiesto anche gli arresti domiciliari) che dopo aver timbrato si dedicavano agli acquisti nel mercato locale anziché alle pratiche del loro ufficio.
Lunedì scorso a Foggia un sindacato autonomo ha scritto al sindaco e al dirigente delle risorse umane del Comune per chiedere di evitare «determinazioni intransigenti, inesorabili o, peggio, esemplari» a carico dei 20 dipendenti coinvolti nel blitz del 9 maggio (in 13 sono stati arrestati, e e liberati 11 giorni dopo ma sospesi per un anno dal servizio) colti sul fatto a timbrare mazzi di badge per i colleghi assenti. A fine giugno la Procura di Salerno ha messo sotto indagine centinaia di lavoratori dell’ospedale Ruggi d’Aragona, contestando anche l’associazione a delinquere per il meccanismo oliato che delegava la timbratura ad altri e provava ad eludere i controlli, e l’aneddotica potrebbe continuare a lungo.
Intendiamoci: le norme anti-assenteismo esistevano già, e dal 2009 con la riforma Brunetta già arrivavano esplicitamente al licenziamento senza preavviso mentre prima l’addio al lavoratore era riservato dai contratti ai casi di «recidive plurime» (per questa ragione la Cassazione un mese fa ha rimesso definitivamente al suo posto a un funzionario di un Comune del Nord licenziato nel 2008 proprio per false timbrature, come raccontato sul Sole 24 Ore dell’8 giugno).
Finora, però, i licenziamenti per assenteismo sono stati limitati a poche decine di casi, e per cambiare registro il nuovo decreto Madia punta su due strumenti: calendario ultrarapido e sanzioni pesanti per i dirigenti che si girano dall’altra parte. Quando un assenteista è colto sul fatto, oppure viene filmato mentre timbra l’entrata e poi snobba la scrivania, dovrà scattare un meccanismo che porta alla sospensione in 48 ore e al contraddittorio entro 15 giorni per arrivare al licenziamento, ovviamente se tutto è confermato, nel giro di un mese dal fatto.
Entro 15 giorni deve partire anche la segnalazione alle procure di Repubblica e Corte dei conti, e i magistrati contabili devono inviare l’invito a dedurre entro tre mesi per il danno erariale comprensivo di danno all’immagine (minimo sei mesi di stipendio, ma il conto cresce con la «rilevanza mediatica» del caso), e sospensione, licenziamento e segnalazione all’autorità giudiziaria riguarderanno anche il dirigente che non fa partire subito il procedimento disciplinare. Tutto questo basterà o si risolverà nell’ennesimo effetto annuncio che ha caratterizzato tanti interventi sul tema? Basteranno poche settimane per saperlo.
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Nel passaggio parlamentare il decreto ha imbarcato alcuni meccanismi di garanzia per i dipendenti accusati di assenteismo. Il dipendente va convocato in contraddittorio dopo 15 giorni, e il termine può essere rinviato di altri 5 giorni in caso di impedimento motivato. Durante la sospensione si ha diritto all’assegno alimentare
Accanto al licenziamento, i dipendenti assenteisti devono subire il procedimento davanti alla Corte dei conti per danno all’immagine della Pa. La sanzione va modulata anche in relazione alla «rilevanza mediatica» del caso, e comunque non può essere inferiore a sei mensilità più interessi e spese processuali.
Il decreto punta anche a responsabilizzare i dirigenti, prevedendo sanzioni fino al licenziamento in caso di mancata attivazione tempestiva del procedimento disciplinare. L’inazione del dirigente fa partire anche la segnalazione alla Procura della Repubblica per valutare il reato di omissione di atti d’ufficio
 (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.07.2016 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

APPALTIIndagini autonome nelle mini-gare. Indicazioni Anac con ampi spazi discrezionali per le verifiche di mercato.
Appalti/1. Le conseguenze operative delle Linee guida sulle procedure sotto-soglia dopo la riforma del Codice.

Le stazioni appaltanti devono regolamentare le modalità di svolgimento delle indagini di mercato e di formazione degli elenchi di operatori economici da invitare alle procedure semplificate sottosoglia, specificando anche i criteri di scelta dei soggetti da invitare alle mini-gare.
Le linee guida elaborate dall’Anac in attuazione dell’articolo 36 del nuovo Codice dei contratti pubblici (ora sottoposte al parere del consiglio di Stato e delle commissioni parlamentari) sollecitano le amministrazioni ad esercitare la loro potestà regolamentare per definire i percorsi di individuazione delle imprese da coinvolgere nei confronti competitivi.
L’Autorità delinea le caratteristiche principali delle indagini di mercato, ma rimette alle stazioni appaltanti la scelta delle modalità ritenute più convenienti per lo svolgimento delle stesse, secondo una logica di differenziazione per importo e complessità di affidamento, dovendo tener conto dei principi di adeguatezza e proporzionalità.
Le indagini possono essere realizzate anche tramite la consultazione dei cataloghi elettronici del mercato elettronico propri o delle altre stazioni appaltanti, nonché di altri fornitori esistenti, formalizzandone i risultati, eventualmente ai fini della programmazione e dell’adozione della determina a contrarre.
L’attività di esplorazione del mercato deve essere pubblicizzata con strumenti idonei in rapporto alla rilevanza del contratto per il settore merceologico di riferimento e alla sua contendibilità, da valutare sulla base di parametri non solo economici.
In questa prospettiva la stazione appaltante pubblica un avviso sul profilo di committente, ma può ricorrere anche ad altre forme di pubblicità. La durata della pubblicazione è stabilita in ragione della rilevanza del contratto, in un periodo minimo identificabile in quindici giorni, salvo la riduzione dello stesso termine per motivate ragioni di urgenza a non meno di cinque giorni.
Per selezionare gli operatori economici da invitare alle gare semplificate previste dall’articolo 36, comma 2, lett. a) e b), del Dlgs 50/2016 le amministrazioni possono anche costituire degli elenchi, evidenziandone le modalità di formazione mediante un avviso pubblicato sul profilo di committente del sito internet: gli operatori economici si possono iscrivere sempre, dichiarando il possesso dei requisiti di ordine generale e di capacità mediante modulistica specifica o con il documento di gara unico europeo (Dgue), ricevendo riscontro all’istanza entro trenta giorni.
L’elenco deve inoltre essere sottoposto a revisione almeno ogni sei mesi e dallo stesso sono escluse le imprese che abbiano commesso gravi errori professionali, mentre possono essere cancellati gli operatori economici che non abbiano risposto ad almeno tre inviti nell’arco di due anni.
Una volta costituiti, gli elenchi sono pubblicati sul sito internet della stazione appaltante: da tale obbligo discende la necessaria prefigurazione di criteri, per l’estrazione degli operatori economici da invitare alle procedure, casuali (sorteggio) o per esperienze maturate negli ultimi anni, evitando l’individuazione per “blocchi”, in quanto determinerebbe il rischio di accordi collusivi tra le imprese iscritte.
In relazione al confronto competitivo, la stazione appaltante deve rispettare il criterio di rotazione degli inviti, al fine di favorire la distribuzione temporale delle opportunità di aggiudicazione tra tutti gli operatori potenzialmente idonei e di evitare il consolidarsi di rapporti esclusivi con alcune imprese.
La stazione appaltante può invitare, oltre al numero minimo di cinque operatori, anche l’aggiudicatario uscente, dando adeguata motivazione in relazione alla competenza e all’esecuzione a regola d’arte del contratto precedente, consentendo quindi un contemperamento tra il criterio di rotazione e il principio di economicità.
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Affidamenti con un passaggio unico.
Appalti/2. Per gli acquisti di lavori, servizi e forniture inferiori ai 40mila euro un solo documento che motiva la scelta e l’idoneità del fornitore.

L’affidamento diretto per l’acquisizione di beni, servizi o lavori di modico valore e per i quali sia certo il fornitore, nonché in forma di ordine diretto nel mercato elettronico, può essere formalizzato con un unico atto che specifichi in modo semplificato le ragioni della scelta e l’idoneità dell’affidatario.
La previsione, contenuta nelle linee guida dell’Anac sulle acquisizioni sottosoglia che disciplinano gli affidamenti entro i 40mila euro, si pone come eccezione rispetto al percorso standard che deve essere avviato con una determina a contrarre, nella quale devono essere specificati l’interesse pubblico che si intende soddisfare con l’acquisto e le principali caratteristiche dei lavori, delle forniture o dei servizi, nonché i criteri che guideranno la selezione degli operatori economici e la valutazione delle offerte.
Confermando le indicazioni dettate nella prima versione del documento, l’Anac sollecita infatti le stazioni appaltanti, quando lo ritengano necessario, a svolgere un’indagine preliminare, volta a identificare le soluzioni presenti sul mercato per soddisfare i propri fabbisogni e la platea dei potenziali affidatari.
Questa verifica può tradursi in una valutazione comparativa dei preventivi di spesa forniti da due o più operatori economici, con la quale possono essere soddisfatti gli oneri motivazionali relativi all’economicità dell’affidamento e al rispetto dei principi di concorrenza.
Da questo modello operativo scaturisce, quindi, un secondo passaggio che configura un confronto super-semplificato, gestibile in piena autonomia dall’amministrazione, secondo le proprie esigenze, senza costituire alcun impegno nei confronti degli operatori consultati, che può essere sviluppato con riferimento al solo prezzo o a più elementi.
L’obbligo di motivazione dell’affidamento diretto, richiesto esplicitamente dall’articolo 36, comma 2, lett. a), del Dlgs 50/2016, deve essere rispettato dalla stazione appaltante specificando che l’offerta soddisfa l’interesse pubblico all’acquisto e che è congrua, nonché evidenziando il rispetto del principio di rotazione.
Proprio in ordine a quest’ultimo aspetto, l’Anac ammette la possibilità che l’affidamento avvenga a favore dell’operatore economico uscente, ma in tal caso la stazione appaltante deve spiegare la scelta evidenziando il precedente positivo e la competitività del prezzo offerto rispetto alla media dei prezzi nel settore di riferimento, anche tenendo conto della qualità della prestazione. Il criterio di rotazione viene quindi ad essere contemperato anche in tal caso dal principio di economicità e da quello di efficacia.
L’Autorità non evidenzia nelle linee guida situazioni nelle quali l’affidamento diretto possa derogare al mini-confronto, ma è possibile che queste si verifichino: si pensi agli affidamenti di prestazioni artistiche da parte dei Comuni per le rassegne estive, per i quali ricorre l’unicità del prestatore in base alla fattispecie delineata dall’articolo 63, comma 2, lett. a), del Codice.
L’Autorità chiarisce che l’obbligo di motivazione può essere attenuato per affidamenti di modico valore, ad esempio inferiori a mille euro, o quando l’acquisizione avviene nel rispetto del regolamento di contabilità dell’amministrazione, ovvero nel caso in cui la stazione appaltante adotti un proprio regolamento per acquisire lavori, servizi e forniture in economia, redatto nel rispetto del Codice.
L’indicazione sembra riferirsi alla regolamentazione delle spese economali (note anche come spese minute e urgenti) o, comunque, di quelle acquisizioni presso terzi effettuabili con moduli contrattuali semplificati (come i buoni d’ordine), riferiti a tipologie di beni e servizi standardizzati e di utilizzo frequente
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

VARI: Malattia, controlli mai esclusi. L'esonero da visita fiscale non impedisce le verifiche Inps. I casi che non prevedono l'intervento del medico: dalle patologie gravi all'invalidità.
Esonero della visita fiscale per chi è malato grave. Il dipendente affetto da una patologia grave (pancreatite, infarto, polmoniti, ecc.) o da una malattia invalidante (riduzione della capacità lavorativa di almeno il 67%), infatti, non deve rispettare le fasce di reperibilità per la cd visita fiscale. La deroga opera soltanto nel settore privato e non esclude controlli da parte dell'Inps, al quale non è mutato il potere-dovere di accertare la correttezza, formale e sostanziale, della certificazione medica e la congruità della prognosi.
Vediamo le nuove regole e soprattutto le malattie esoneranti.
Le visite fiscali. Le visite fiscali (cioè controlli medico legali dei lavoratori assenti per malattia) sono effettuate dall'Inps che ha la titolarità dei controlli per i lavoratori privati e anche per quelli pubblici. Le richieste di controllo sono generalmente richieste dal datore di lavoro, in qualunque momento della giornata attraverso una procedura telematica.
Le richieste sono elaborate giornalmente dall'Inps e smistate ai medici se pervenute entro le ore 9, per la fascia antimeridiana, ed entro le ore 12 per quella pomeridiana. Al fine di consentire i controlli, i lavoratori sono obbligati a essere reperibili in alcune fasce orarie della giornata e, in caso di inosservanza, sono soggetti a sanzioni. Le discipline sono leggermente differenti nel caso di lavoratori privati o pubblici.
Le regole per il settore privato. Per tutti i lavoratori del settore privato gli orari delle visite fiscali sono fissati dalle 10,00 alle 12,00 e dalle 17,00 alle 19,00. Gli orari di reperibilità devono essere rispettati sin dal primo giorno di malattia e anche il sabato, la domenica, nei festivi, comprese le festività di Natale, Capodanno, Pasqua e del Patrono.
La disciplina sull'obbligo di reperibilità durante i periodi di malattia (art. 5 della legge n. 300/1970, lo Statuto dei lavoratori) prevede la facoltà del datore di lavoro o dell'Inps di richiedere il controllo fiscale sul dipendente che si assenta dal lavoro per una patologia, per una visita o per esami medici: il lavoratore assente per una tale ragione, dunque, deve garantire la sua presenza in casa, nello specifico presso il domicilio comunicato attraverso il certificato medico di malattia, nei predetti orari e restare a disposizione di un eventuale controllo, mentre può uscire di casa al di fuori delle fasce orarie di garanzia.
Allora, per fare un esempio, se occorre andare in farmacia per acquistare medicinali bisogna farlo o prima delle 10 o dopo le 12 oppure prima delle 17 o dopo le 19. Unica eccezione è qualora ci sei deve recare dal medico urgentemente; in tal caso si può uscire anche nelle fasce orarie di reperibilità, ma occorrerà farsi rilasciare una certificazione dal medico attestante, appunto, che in quel giorno e in quell'orario si era a visita presso di lui e che la visita era indifferibile.
È obbligatorio rispettare le fasce orarie? Sì, anche perché la mancata reperibilità ingiustificata è sanzionabile con sanzioni disciplinari, economiche e, per estremo, anche con il licenziamento. In particolare, l'assenza a visita di controllo, se non giustificata, comporta l'applicazione della sanzione di non indennizzabilità delle giornate di malattia nel seguente modo:
• fino a un massimo di 10 giorni di calendario, dall'inizio dell'evento, in caso di 1° assenza a visita di controllo non giustificata;
• per il 50% dell'indennità nel restante periodo di malattia in caso di 2° assenza a visita di controllo non giustificata;
• per il 100% dell'indennità dalla data della 3° assenza non giustificata.
Il medico di controllo domiciliare che riscontra l'assenza rilascio (in busta chiusa) un invito a effettuare la visita medica di controllo presso l'ambulatorio.
Le ipotesi di esonero dalla reperibilità. I lavoratori dipendenti del settore privato sono esentati dall'obbligo di reperibilità se assenti per infortunio sul lavoro. Accanto a questa ipotesi, l'art. 25 del dlgs n. 151/2015 (riforma Jobs act) ha introdotto la possibilità di prevedere ulteriori casi di esenzioni dalla reperibilità, a tal fine modificando il comma 13 dell'art. 5 del dl n. 463/1983 (convertito in legge n. 638/1983) per stabilire che con decreto, appunto, possano essere «stabilite le esenzioni dalla reperibilità per i lavoratori subordinati dipendenti dai datori di lavoro privati». A tanto ha provveduto il dm 11.01.2016 fissando le prime ipotesi di esenzione in riferimento alle assenze che «etiologicamente» sono riconducibili alle seguenti circostanze:
a) patologie gravi che richiedono terapie salvavita;
b) stati patologici sottesi o connessi alla situazione d'invalidità riconosciuta.
Nel primo caso, la patologia deve risultare da apposita documentazione rilasciata da strutture sanitarie, attestante la natura della patologia e la specifica terapia salvavita da fare.
Nel secondo caso invece, per beneficiare dell'esclusione dell'obbligo di reperibilità, l'invalidità deve aver determinato una riduzione della capacità lavorativa nella misura pari o superiore al 67%.
Le malattie. Secondo l'Inps (circolare n. 95/2016), la normativa fornisce solo una previsione astratta delle situazioni di esonero senza dettagliare le concrete fattispecie che, oggetto di valutazione da parte di vasta platea di medici (quelli che, materialmente, sono gli estensori dei certificati medici), potrebbero essere suscettibili di diverse interpretazioni.
Per evitare questo rischio e orientare correttamente e univocamente i medici, l'Inps, con l'approvazione del ministero della salute e del ministero del lavoro, ha elaborato apposite linee guida che, tra l'altro, ne precisano la casistica (in tabella). Di conseguenza, ha aggiunto l'Inps, i medici che redigono i certificati di malattia solo in presenza di una delle situazioni patologiche elencate nelle linee guida devono: valorizzare i campi del certificato telematico riferiti a «terapie salvavita»/«invalidità»; nel caso di certificati redatti su carta attestare esplicitamente la sussistenza di un caso (precisandolo) che esclude il lavoratore dall'obbligo della reperibilità.
L'esonero non esclude i controlli. Attenzione. L'Inps ha ancora spiegato che, nelle due nuove fattispecie di malattie gravi, il fatto che venga meno l'onere della reperibilità alla visita medica di controllo per i lavoratori non esclude anche la possibilità (per l'istituto) di effettuare controlli sulla correttezza formale e sostanziale della certificazione e sulla congruità della prognosi. Stesso discorso ha fatto anche per i datori di lavoro.
Questi, ha spiegato, non devono richiedere la visita fiscale dei lavoratori per i quali sussistano certificati medici che riportino i campi riferiti a terapie salvavita e invalidità; tuttavia, resta loro la possibilità di segnalare, mediante Pec istituzionale, alla sede Inps «possibili eventi ( ) per i quali ravvisino la necessità di effettuare la verifica».
Sarà cura della sede Inps valutare, mediante il proprio centro medico legale l'opportunità o meno di esercitare l'azione di controllo, dandone conseguente notizia al datore di lavoro richiedente (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.07.2016).

ENTI LOCALI - VARIContrassegno invalidi a maglie più larghe.
Hanno diritto a richiedere il rilascio del contrassegno invalidi le persone che non possono disporre di una mobilità autonoma. Anche se la problematica sanitaria non interferisce direttamente con la capacità tecnica di deambulazione del soggetto.

Lo ha chiarito il Ministero dei trasporti con il parere n. 1567/2016 di prot..
Il contrassegno invalidi, ai sensi del codice stradale, può essere rilasciato alle persone con capacità di deambulazione impedita o sensibilmente ridotta. Spetterà all'azienda sanitaria certificare questo impedimento, con un ampio margine di discrezionalità.
L'art. 381 del regolamento stradale infatti non fa esplicito riferimento a una invalidità degli arti inferiori o superiori. Per questo motivo a parere del Ministero lo speciale contrassegno potrebbe essere rilasciato anche a persone come il disabile psichico o invalido agli arti superiori, laddove venga effettivamente dimostrato che tale menomazione rende difficile l'autonoma mobilità del soggetto (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.07.2016).

ENTI LOCALI - VARILa gara podistica impone di stoppare la circolazione.
Se il comune autorizza l'effettuazione di una gara podistica per le strade del centro sarà necessario anche adottare una ordinanza di sospensione della circolazione. Ovvero di interruzione totale del traffico veicolare se necessaria per assicurare l'incolumità dei partecipanti.

Lo ha chiarito il Ministero dei trasporti con il parere 03.05.2016 n. 2553 di prot..
I comuni hanno la facoltà di autorizzare lo svolgimento delle competizioni sportive su strada ai sensi dell'art. 9 del dlgs 285/1992. Conseguentemente, salvo che sia necessario chiudere completamente il traffico nella zona interessata dall'evento, spetterà comunque al comune adottare un'ordinanza di temporanea sospensione della circolazione nei tratti di strada interessati dall'evento.
E anche prevedere itinerari alternativi per il traffico locale, se disponibili. Solo in casi estremi, ovvero di elevata partecipazione di atleti e spettatori, si potrà chiudere completamente la strada (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.07.2016).

VARISponsorizzazione costo deducibile. Corrispettivi a società sportive dilettantistiche.
Il corrispettivo in denaro o in natura a società o associazioni sportive dilettantistiche entro l'importo previsto dalla legge 289/2002 (euro 200.000) volta alla promozione dell'immagine o dei prodotti costituisce spese di pubblicità per l'erogante e, quindi, costo deducibile.

Così ha deciso la Commissione tributaria provinciale di Pisa con la sentenza 11.02.2016.
L'Agenzia delle entrate recuperava a tassazione la somma di sponsorizzazione erogata a una società di calcio dilettantistica dubitando dell'inerenza data la natura antieconomica della spesa sostenuta (euro 19.500 su un volume di ricavi di 127.000 euro) tenuto conto che la società di calcio era collocata in un girone di scarso peso sportivo che non consentirebbe alcun ritorno economicamente apprezzabile.
Il contribuente proponeva rituale ricorso, producendo il contratto di sponsorizzazione, e chiedeva l'annullamento dell'accertamento con varie argomentazioni.
La Commissione tributaria riteneva che le motivazione dell'accertamento erano totalmente apodittiche e, come tali, soggettive, e che così ragionando si legittimerebbe la sponsorizzazione soltanto delle associazioni sportive di sicuro successo, frustrando la ratio legis che è proprio quella di assicurare forme di finanziamento ad aggregazioni sportive caratterizzate dal dilettantismo rispetto alle quali la deduzione fiscale costituisce solo un mezzo incentivante.
Ne consegue che una volta accertato che siano soddisfatti i requisiti soggettivi e oggettivi scatta la presunzione assoluta per cui entro l'importo previsto dalla legge 289/2002 (euro 200.000) l'erogazione deve essere considerata «spesa di pubblicità» senza possibilità di ulteriore sindacato anche in relazione alla congruità. Congruità che può essere posta in discussione quando la sponsorizzazione è diretta a soggetti diversi da quelli in discussione.
I giudici pisani hanno annullato l'atto di accertamento impugnato e, secondo il principio della soccombenza, condannato l'Agenzia delle entrate a rimborsare al contribuente le spese del giudizio (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.07.2016).

PUBBLICO IMPIEGO: Permessi 104 «in deroga» senza domanda. Welfare. Le indicazioni dell’Inps per i periodi in cui viene effettuata una revisione.
Da ieri, giorno di pubblicazione della circolare 08.07.2016 n. 127 dell’Inps, le autorizzazioni per i tre giorni di permesso mensili previsti dalla legge 104/1992 per i disabili gravi e rilasciate sulla base di un verbale soggetto a revisione non riportano più una data di scadenza, ma indicano che il provvedimento ha validità fino alla conclusione dell’iter sanitario di revisione.
Con la circolare l’Inps è intervenuta nuovamente sulle modifiche introdotte dal decreto legge 90/2014 che ha previsto la possibilità di continuare a godere dei benefici previsti anche durante l’iter di verifica a seguito di una visita di revisione della condizione di disabilità grave.
In precedenza, infatti, durante il periodo di verifica, l’interessato o i familiari perdevano la possibilità di richiedere permessi, prolungare il congedo parentale, quello straordinario o di fruire de i riposi alternativi.
La circolare 127/2016 precisa che, durante l’iter di revisione, per i permessi non è necessario presentare una nuova domanda, anche se il verbale sottoposto a revisione riporta una data di scadenza che è stata superata.
Se la verifica si conclude con una conferma, il disabile o il suo familiare non dovranno presentare una nuova domanda di permessi, nemmeno se viene prevista un’ulteriore revisione del nuovo verbale, a meno che nel frattempo sia cambiato il datore di lavoro o l’orario (da full-time a part-time o viceversa o se si deve modificare il tipo di permesso).
Se l’esito è negativo, invece, il disabile, il familiare che lo assiste e il datore di lavoro verranno informati dall’Inps con effetto al giorno successivo alla data di definizione del nuovo verbale.
Per quanto riguarda il prolungamento del congedo parentale, i riposi alternativi a questo, o il congedo straordinario si deve presentare domanda per continuare la fruizione nel periodo dell’iter di revisione della disabilità. Questo perché, precisa l’Inps, si tratta di prestazioni richieste al bisogno per periodi determinati di tempo.
La circolare indica inoltre le procedure da seguire da parte delle sedi territoriali in caso di mancata presenza al controllo da parte dell’interessato e le relative conseguenze.
Infine viene ricordato che sempre il Dl 90/2014 ha ridotto da 90 a 45 giorni il tempo massimo entro cui deve essere accertato dalle commissioni previste dalla legge 104/1992, lo stato di disabilità su richiesta dell’interessato. Di conseguenza, superato il nuovo termine, sono effettuati accertamenti provvisori da medici specialisti in servizio presso l’azienda sanitaria locale dove il disabile è assistito
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.07.2016).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOContratti pubblici, mercoledì la firma sui quattro comparti. Pubblico impiego. Trattative al via.
I sindacati del pubblico impiego che non raggiungono le dimensioni minime per essere considerati «rappresentativi» nei nuovi comparti del pubblico impiego avranno tempo fino alla vigilia di Ferragosto per aggregarsi e continuare a sedersi ai tavoli delle trattative.

È questo il primo effetto del lento cammino che sta portando alla ridefinizione della geografia della Pa. Ieri dall’Aran è partita la convocazione per mercoledì prossimo, 13 luglio, per la firma definitiva al contratto quadro che riduce a quattro gli undici comparti in cui finora è stato diviso il pubblico impiego.
Per sanità ed enti locali cambia poco, quindi non sono necessarie alleanze, mentre la fusione di istruzione, università e ricerca e la creazione del comparto delle «funzioni centrali», che accorpa ministeri, agenzie fiscali, enti pubblici e tutto il resto della Pa statale, modifica parecchio le condizioni: per essere rappresentativi i sindacati devono raggiungere il 5% nella media di iscritti e voti nelle Rsu, per cui più si allargano i confini del comparto più cresce il bisogno di iscritti e votanti per superare la soglia.
L’intesa dà 30 giorni di tempo per le alleanze. Questi problemi aiutano a spiegare i tempi lunghi con cui l'accordo arriva al traguardo, dopo la prima intesa del 5 aprile approvata con poche correzioni nel Consiglio dei ministri del 15 giugno, dato che le conseguenze politiche e pratiche superano di molto le questioni che stanno a cuore agli addetti ai lavori sindacali.
La riduzione dei comparti pubblici è la premessa, imposta dalla riforma Brunetta del 2009, per far ripartire la trattativa sui contratti, sbloccati dalla sentenza della Corte costituzionale pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 29 luglio 2015 ma ancora in stallo.
Definito il numero dei contratti nazionali, però, restano da deciderne i contenuti, e le premesse non indicano tempi brevi. Alla Funzione pubblica si sta lavorando all’atto di indirizzo, che dovrebbe chiedere ad Aran e sindacati di prevedere ritocchi in busta paga inversamente proporzionali ai livelli di reddito e indicare la strada di un rafforzamento della contrattazione decentrata. I sindacati continuano a giudicare insufficienti i 300 milioni messi a disposizione dalla manovra (a cui si aggiungono circa 70 milioni a carico degli enti territoriali), e la partita si intreccia con quella della riforma del pubblico impiego, in attuazione della riforma Madia.
Per scrivere il Testo unico, però, il governo ha tempo fino all’inizio del 2017, e sembrano scendere le quotazioni dell’ipotesi che prevedeva un’accelerazione, accorpando il decreto a quello sui dirigenti da approvare in prima lettura entro fine mese. A breve, dunque, dovrebbe arrivare la convocazione annunciata dalla ministra della Pa, Marianna Madia, ma la strada è ancora lunga
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.07.2016).

EDILIZIA PRIVATAIl nulla-osta paesaggistico ora serve per meno opere.
Via libera della Conferenza unificata alla semplificazione per i piccoli interventi paesaggistici. Gli interventi volti al miglioramento dell'efficienza energetica, all'adeguamento antisismico, all'eliminazione delle barriere architettoniche (compresa l'installazione di un servoscala o ascensore esterno) che non comportino elementi emergenti dalla sagoma saranno esentati dall'autorizzazione paesaggistica.

La Conferenza unificata del 07.07.2016 ha dato il via libera definitivo al dpr che individua gli interventi esclusi dall'autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata.
Tra le opere «libere» da nullaosta paesaggistico (disciplinate dall'allegato «A» del dpr in commento) rientrano gli interventi di coibentazione volti a migliorare l'efficienza energetica che non comportino manufatti emergenti dalla sagoma, gli interventi di consolidamento statico per l'adeguamento ai fini antisismici che non modifichino la volumetria e l'altezza dell'edificio, gli interventi indispensabili per il supermanto di barriere architettoniche come ascensori esterni o altri manufatti simili, le installazione di pannelli solari o fotovoltaici su coperture piane non visibili dagli spazi pubblici esterni, le sostituzione o adeguamento di cancelli e recinzioni, gli interventi nel sottosuolo come la realizzazione di volumi completamente interrati che non comportino opere soprasuolo, le opere temporanee che occupino suolo per non più di 120 giorni nell'anno e le installazione di tende a protezione di attività commerciali o in spazi pertinenziali a uso privato.
Nell'allegato «B» del dpr in commento invece viene regolamentata l'autorizzazione semplificata e rapida per 42 tipologie di interventi considerati ad impatto lieve sul territorio.
Tra questi rientrano le opere che comportano un incremento di volume fino al 10% della volumetria che non alterino le caratteristiche del fabbricato, gli interventi antisismici, di miglioramento energetico o per il superamento delle barriere architettoniche che comportino innovazioni nelle caratteristiche morfologiche dell'edificio o sulla sagoma, la realizzazione di tettoie, porticati, chiostri da giardino permanenti, aventi una superficie non superiore a 30 mq e l'installazione di impianti fotovoltaici o termici visibili dall'esterno (articolo ItaliaOggi del 09.07.2016).

AMBIENTE-ECOLOGIAI mini rifiuti elettrici in negozio.
Dal 22 luglio scatta per le grandi strutture di vendita il ritiro «uno contro zero» delle apparecchiature elettriche ed elettroniche (Raee) di piccolissime dimensioni.

Tutto questo lo prevede il decreto del ministero dell'ambiente del 31.05.2016 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 07.07.2016, n. 157) che regolamenta lo svolgimento delle attività di ritiro gratuito da parte dei distributori di rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche di piccolissime dimensioni, nonché i requisiti tecnici per lo svolgimento del deposito preliminare alla raccolta presso i distributori e per il trasporto.
I distributori possono rifiutare il ritiro di un Raee di piccolissime dimensioni nel caso in cui questo rappresenti un rischio per la salute e la sicurezza del personale per motivi di contaminazione o qualora il rifiuto in questione risulti in maniera evidente privo dei suoi componenti essenziali e se contenga rifiuti diversi dai Raee.
I distributori effettuano il ritiro dei Raee di piccolissime dimensioni provenienti dai nuclei domestici a titolo gratuito e senza obbligo di acquisto di Aee di tipo equivalente (criterio dell'uno contro zero). I distributori hanno l'obbligo di informare esplicitamente gli utilizzatori finali della gratuità del ritiro e del fatto che esso non comporta l'obbligo di acquistare altra o analoga merce, con modalità chiare e di immediata percezione, anche tramite avvisi facilmente leggibili collocati nei locali commerciali.
Al fine di favorire il conferimento dei Raee di piccolissime dimensioni provenienti dai nuclei domestici da parte degli utilizzatori finali, i distributori promuovono campagne informative e iniziative commerciali incentivanti o premiali (articolo ItaliaOggi del 09.07.2016).

ATTI AMMINISTRATIVI: Via libera al «taglia-tempi» sulle opere strategiche. Riforma Madia. Finito l’esame parlamentare sul Dpr che dimezza i termini per le autorizzazioni locali.
Con il via libera ottenuto ieri in commissione Affari costituzionali alla Camera si completa il percorso parlamentare del decreto «taglia-tempi» (Atto del Governo n. 309), il tassello della riforma Madia che punta a dimezzare il calendario per le autorizzazioni delle opere considerate strategiche e a commissariare le amministrazioni territoriali che non si adeguano. L’obiettivo è di tagliare da 180 a 90 giorni i tempi massimi per per gli assensi locali ai progetti.
A questo punto al decreto, che mercoledì ha passato anche l’esame del Senato, manca solo l’ultimo passaggio in consiglio dei ministri. Potrebbe arrivare la prossima settimana, e sul tavolo del governo è attesa per il via libera definitivo anche la riforma delle partecipate, mentre anche i decreti su autorità portuali e accorpamento della Forestale nei Carabinieri.
Sull’accoglimento da parte del governo delle «condizioni» che sia alla Camera sia al Senato hanno accompagnato i pareri favorevoli non ci dovrebbero essere troppi problemi, perché le richieste parlamentari collimano con i contenuti dell’intesa già raggiunta con gli enti territoriali in conferenza unificata (si veda Il Sole 24 Ore del 13 maggio).
Il punto fondamentale è legato alla richiesta di un altro provvedimento attuativo, da sbrigare entro due mesi attraverso un decreto nel quale governo e regioni si accordino, sempre in conferenza unificata, sui «criteri per selezionare i progetti» a cui applicare i tempi accelerati «in relazione alla rilevanza strategica degli interventi per il sistema Paese». Questo passaggio serve a disinnescare i rischi di conflitto costituzionale, evocati anche dal Consiglio di Stato quando ha esaminato il provvedimento, perché, allo stato attuale, le regioni potrebbero invocare l’intervento della Consulta sulle “invasioni di campo” da parte del governo.
In pratica, il decreto anticipa nei fatti gli obiettivi alla base della riforma del Titolo V della Costituzione, e prova a togliere i poteri di veto locale sui progetti più importanti (possono essere infrastrutture, ma anche insediamenti produttivi); per quelli considerati «di preminente interesse nazionale», il testo approvato in prima lettura prevedeva la possibilità di un commissariamento unilaterale, senza cercare l’accordo con gli enti territoriali.
Il decreto sui criteri, da approvare d’intesa con regioni ed enti locali, rappresenterebbe quindi un accordo preventivo per consentire a Palazzo Chigi, o alla struttura da lui delegata, di esercitare i poteri sostitutivi. Sull’individuazione puntuale degli interventi da spingere, invece, il Parlamento chiede di introdurre solo un’informativa alle regioni e agli enti locali
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

GIURISPRUDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI: Non è dato ravvisare a carico dell’Amministrazione un onere particolarmente stringente di dare minuzioso riscontro alle osservazioni rese ai sensi dell’art. 10-bis, atteggiandosi le medesime pur sempre a un contributo al procedimento da parte del privato di tipo squisitamente collaborativo.
In ogni caso, ai sensi dell’art. 21-octies, della medesima l. n. 241 del 1990, la mancata o insufficiente motivazione dell’apporto collaborativo proposto con le osservazioni non può refluire sulla validità dell’atto di diniego che nel caso in esame esprime un potere privo di margini di discrezionalità in ragione della presupposta e vincolante regolamentazione comunale richiamata nell’adottata determinazione.

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6. Occorre che il Collegio si occupi in primo luogo della censura di violazione della regola del clare loqui dedotta in via preliminare dall’appellante nei confronti del Comune e del TAR, in quanto il primo avrebbe ignorato, in contrasto con le disposizioni di cui all’art. 10-bis della legge generale sul procedimento amministrativo, le sue osservazioni in ordine all’inserimento dell’area in questione nei c.d. “tessuti edificati” (che consentirebbe l’intervento diretto), mentre il secondo avrebbe omesso di pronunciarsi sulla predetta questione.
Le censura non è condivisibile.
Si osserva innanzitutto che non è dato ravvisare a carico dell’Amministrazione un onere particolarmente stringente di dare minuzioso riscontro alle osservazioni rese ai sensi dell’art. 10-bis, atteggiandosi le medesime pur sempre a un contributo al procedimento da parte del privato di tipo squisitamente collaborativo.
In ogni caso, ai sensi dell’art. 21-octies, della medesima l. n. 241 del 1990, la mancata o insufficiente motivazione dell’apporto collaborativo proposto con le osservazioni non può refluire sulla validità dell’atto di diniego che nel caso in esame esprime un potere privo di margini di discrezionalità in ragione della presupposta e vincolante regolamentazione comunale richiamata nell’adottata determinazione (Cons. Stato sez. IV 09/12/2015 n. 5577; Cons. Stato Sez. V 25/01/2016 n. 233)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 20.07.2016 n. 3293 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Un lotto confinante con un’altra area più vasta inedificata non può essere qualificato come “lotto intercluso”.
La nozione di lotto intercluso, in tema di pianificazione urbanistica, ha peraltro una sua valenza quando non si rinviene spazio giuridico per un’ulteriore pianificazione, stante la presenza di sufficienti opere di urbanizzazione primaria e secondaria.
Ove pertanto la zona sia parzialmente urbanizzata, ma non sia possibile ravvisare la sussistenza di un’adeguata dotazione degli standard urbanistici prescritti dal d.m. n. 1444/1968, e vi sia spazio per l’approvazione di uno strumento attuativo, il lotto esula dalla nozione di interclusione.

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Invero, il lotto in questione non reca, dal punto di vista urbanistico, le caratteristiche del lotto intercluso per la semplice ragione che è confinante con un’altra area più vasta anch’essa inedificata per cui non può dirsi che il terreno edificabile del sig. Carella sia l’unico a non essere stato ancora edificato e se così è non può qualificarsi come “lotto intercluso” (Cons. Stato Sez. IV 07/11/2014 n. 5488).
Peraltro la nozione di lotto intercluso in tema di pianificazione urbanistica ha una sua valenza quando non si rinviene spazio giuridico per un’ulteriore pianificazione (Cons. Stato Sez. IV 17/07/2013 n. 3880; idem 21/12/2012 n. 6656), stante la presenza di sufficienti opere di urbanizzazione primaria e secondaria, ma non è questo il caso che ci occupa, posto che in loco non è possibile ravvisare la sussistenza di un’adeguata dotazione degli standard urbanistici prescritti dal d.m. n. 1444/1968.
Invero, anche a voler ammettere, come in sostanza rivendica il ricorrente, che la zona sia parzialmente urbanizzata, questo non equivale a consentire di prescindere dalla previa approvazione di uno strumento attuativo proprio perché l’ulteriore edificazione espone la zona in cui è inserita l’area de qua al rischio di compromissione definitiva dei valori urbanistici, mentre la pianificazione attuativa può ancora conseguire l’effetto di correggere e compensare il disordine edificativo in atto nonché di assicurare un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 20.07.2016 n. 3293 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAProprio per le sue caratteristiche di strumento di pianificazione e delle sua possibilità di utilizzo, è del tutto evidente che lo strumento urbanistico, nel disporre le future conformazioni del territorio, considera le sole “aree libere”, tali dovendosi ritenere quelle “disponibili” al momento della pianificazione, e ancor più precisamente quelle che non risultano già edificate (in quanto costituenti aree di sedime di fabbricati o utilizzate per opere di urbanizzazione), ovvero quelle che, nel rispetto degli standard urbanistici, risultano comunque già utilizzate per l’edificazione (in quanto asservite alla realizzazione di fabbricati, onde consentirne lo sviluppo volumetrico).
D’altra parte, diversamente opinando, ogni nuova pianificazione risulterebbe del tutto scollegata dalla precedente, potendo da questa prescindere, e di volta in volta riguarderebbe, senza alcuna contestualizzazione storica, una parte sempre più esigua del territorio comunale (cioè quella non ancora occupata da immobili e manufatti), valutata ex novo.
In tal modo, la pianificazione urbanistica si ridurrebbe a considerare il territorio solo nella sua mera possibilità di edificazione, in quanto non ostacolata da presenze materiali, e non già come un bene da conformare per il migliore sviluppo della comunità, salvaguardando i diritti costituzionalmente garantiti degli individui che su di esso vivono ed operano.
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Un'area edificabile, già interamente considerata in occasione del rilascio di una concessione edilizia, agli effetti della volumetria realizzabile, non può essere più tenuta in considerazione come area libera, neppure parzialmente, ai fini del rilascio di una seconda concessione nella perdurante esistenza del primo edificio, irrilevanti appalesandosi le vicende inerenti alla proprietà dei terreni.
Più in particolare, "in ipotesi di realizzazione di un manufatto edilizio la cui volumetria è calcolata sulla base anche di un'area asservita o accorpata, l'intera estensione interessata deve essere considerata utilizzata ai fini edificatori, con l'effetto che anche l'area asservita o accorpata non è più edificabile, anche se è oggetto di un frazionamento o di alienazione separata dall'area su cui insiste il manufatto".
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In definitiva, una volta utilizzato per la definizione complessiva degli standard di un territorio oggetto di piano di lottizzazione, il singolo terreno, ancorché non interessato da edificazione ed anche se eventuali destinazioni, quali quella a verde pubblico, non hanno avuto attuazione, non può essere considerato disponibile ai fini di una successiva edificazione: una volta realizzate le volumetrie previste, risultando inconferente il decorso del decennio di efficacia del Piano di lottizzazione.

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4. Le conclusioni cui si è pervenuti risultano coerenti con i principi già espressi, in casi analoghi, dalla giurisprudenza amministrativa.
Questo Consiglio di Stato (sez. IV, 09.07.2011 n. 4134) ha già avuto modo di affermare che “proprio per le sue caratteristiche di strumento di pianificazione e delle sua possibilità di utilizzo, è del tutto evidente che lo strumento urbanistico, nel disporre le future conformazioni del territorio, considera le sole “aree libere”, tali dovendosi ritenere quelle “disponibili” al momento della pianificazione, e ancor più precisamente quelle che non risultano già edificate (in quanto costituenti aree di sedime di fabbricati o utilizzate per opere di urbanizzazione), ovvero quelle che, nel rispetto degli standard urbanistici, risultano comunque già utilizzate per l’edificazione (in quanto asservite alla realizzazione di fabbricati, onde consentirne lo sviluppo volumetrico).
D’altra parte, diversamente opinando, ogni nuova pianificazione risulterebbe del tutto scollegata dalla precedente, potendo da questa prescindere, e di volta in volta riguarderebbe, senza alcuna contestualizzazione storica, una parte sempre più esigua del territorio comunale (cioè quella non ancora occupata da immobili e manufatti), valutata ex novo.
In tal modo, la pianificazione urbanistica si ridurrebbe a considerare il territorio solo nella sua mera possibilità di edificazione, in quanto non ostacolata da presenze materiali, e non già come un bene da conformare per il migliore sviluppo della comunità, salvaguardando i diritti costituzionalmente garantiti degli individui che su di esso vivono ed operano
”.
Si è affermato inoltre che "un'area edificabile, già interamente considerata in occasione del rilascio di una concessione edilizia, agli effetti della volumetria realizzabile, non può essere più tenuta in considerazione come area libera, neppure parzialmente, ai fini del rilascio di una seconda concessione nella perdurante esistenza del primo edificio, irrilevanti appalesandosi le vicende inerenti alla proprietà dei terreni” (Cons. Stato, sez. V, 10.02.2000 n. 749).
Più in particolare, si è precisato che “in ipotesi di realizzazione di un manufatto edilizio la cui volumetria è calcolata sulla base anche di un'area asservita o accorpata, l'intera estensione interessata deve essere considerata utilizzata ai fini edificatori, con l'effetto che anche l'area asservita o accorpata non è più edificabile, anche se è oggetto di un frazionamento o di alienazione separata dall'area su cui insiste il manufatto" (Cons. Stato, sez. V, 07.11.2002 n. 6128; sez. IV, 06.09.1999 n. 1402).
In definitiva, una volta utilizzato per la definizione complessiva degli standard di un territorio oggetto di piano di lottizzazione, il singolo terreno, ancorché non interessato da edificazione ed anche se eventuali destinazioni, quali quella a verde pubblico, non hanno avuto attuazione, non può essere considerato disponibile ai fini di una successiva edificazione: una volta realizzate le volumetrie previste, risultando inconferente il decorso del decennio di efficacia del Piano di lottizzazione (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 20.07.2016 n. 3246 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOIndennità per le ferie non godute. La regola non si applica però in caso di mancato servizio. Corte di giustizia Ue. Una norma nazionale non può negare la somma in caso di dimissioni.
In caso di cessazione del rapporto di lavoro su richiesta del dipendente questo ha comunque diritto a un’indennità per le ferie non godute.
Con la sentenza 20.07.2016 causa C-341/15 la Corte di giustizia europea si è espressa in merito alla conformità della «legge relativa alla retribuzione dei dipendenti pubblici della capitale federale Vienna» al disposto dell’articolo 7 della direttiva 2003/88/Ce (si legga anche il comunicato stampa 20.07.2016 n. 81/16).
La domanda di pronuncia pregiudiziale è stata presentata dal tribunale amministrativo viennese nell’ambito di una controversia instaurata da un dipendente pubblico per la corresponsione dell’«indennità finanziaria» per ferie maturate e non godute alla cessazione del rapporto di lavoro, avvenuta per la richiesta di collocamento in pensione avanzata dallo stesso lavoratore.
Il cittadino austriaco, infatti, ha chiesto il pagamento di tale indennità in relazione alle ferie non godute durante il periodo (di circa un anno e mezzo) in cui lo stesso non ha prestato servizio in quanto, dal 15.11. al 31.12.2010 è stato assente per malattia, mentre, a partire dal 01.01.2011 e sino al pensionamento, è stato sollevato dall’obbligo di presentarsi sul posto di lavoro, pur continuando a percepire il proprio stipendio, in virtù di un accordo sottoscritto con il datore di lavoro.
La pubblica amministrazione viennese ha respinto tale pretesa, evidenziando che la legge austriaca nega espressamente il diritto del dipendente a percepire una tale indennità «in caso di ammissione al beneficio della pensione su sua richiesta».
La Corte di giustizia ha effettuato un lucido esame del contesto normativo di riferimento, rammentando che l’articolo 7 della direttiva 2003/88/Ce prevede non solo che ogni lavoratore debba beneficiare di un periodo di ferie annuale retribuito di almeno quattro settimane, ma altresì che, ai sensi del secondo paragrafo dello stesso articolo, il periodo minimo di ferie non possa essere sostituito da un’indennità «salvo in caso di fine rapporto».
La Corte ha quindi rilevato come il legislatore comunitario -nel prevedere comunque l’erogazione di tale indennità alla cessazione del rapporto lavorativo- abbia considerato del tutto irrilevante il motivo per cui il rapporto di lavoro si sia risolto: evidenzia, infatti, la Corte che l’articolo 7, paragrafo 2, non assoggetta tale diritto «ad alcuna condizione diversa da quella relativa, da un lato, alla cessazione del rapporto di lavoro e, dall’altro, al mancato godimento da parte del lavoratore di tutte le ferie annuali a cui lo stesso aveva diritto alla data in cui il rapporto è cessato».
La Corte di giustizia, rispondendo alle questioni poste dal giudice del rinvio, ha quindi interpretato la direttiva comunitaria evidenziando come l’articolo 7 non consenta a una normativa nazionale di privare del diritto all’«indennità finanziaria» per ferie annuali non godute il lavoratore il cui rapporto di lavoro sia cessato a seguito della sua domanda di pensionamento nel caso in cui non sia stato in grado di usufruire di tutte le ferie prima della fine del rapporto.
La Corte europea ha poi affrontato la questione relativa alla causale della mancata fruizione delle ferie, evidenziando come, nel caso di specie, fosse necessario effettuare una differenziazione tra il periodo di mancata fruizione a causa della malattia del dipendente e, dall’altro, il periodo di mancata prestazione lavorativa in forza dell’accordo concluso con il datore di lavoro.
Ebbene, la Corte –richiamando la duplice finalità delle ferie, ovverosia consentire al lavoratore di sospendere l’esecuzione dei compiti attribuitigli in forza del suo contratto e di beneficiare di un periodo di svago e relax– conclude evidenziando che nell’ipotesi in cui, pur a fronte della corresponsione della retribuzione, la prestazione lavorativa non sia dovuta in virtù di un accordo tra le parti, il lavoratore non ha diritto all’indennità per ferie annuali retribuite non godute durante tale periodo, salvo che lo stesso non abbia potuto fruire del periodo di ferie a causa di malattia
(articolo Il Sole 24 Ore del 21.07.2016).
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MASSIMA
Per questi motivi, la Corte (Decima Sezione) dichiara:
L’articolo 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 novembre 2003, concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro, deve essere interpretato nel senso che:
– esso osta a una normativa nazionale, come quella di cui al procedimento principale, che priva del diritto all’indennità finanziaria per ferie annuali retribuite non godute il lavoratore il cui rapporto di lavoro sia cessato a seguito della sua domanda di pensionamento e che non sia stato in grado di usufruire di tutte le ferie prima della fine di tale rapporto di lavoro;
– un lavoratore ha diritto, al momento del pensionamento, all’indennità finanziaria per ferie annuali retribuite non godute per il fatto di non aver esercitato le sue funzioni per malattia;
– un lavoratore il cui rapporto di lavoro sia cessato e che, in forza di un accordo concluso con il suo datore di lavoro, pur continuando a percepire il proprio stipendio, fosse tenuto a non presentarsi sul posto di lavoro per un periodo determinato antecedente il suo pensionamento non ha diritto all’indennità finanziaria per ferie annuali retribuite non godute durante tale periodo, salvo che egli non abbia potuto usufruire di tali ferie a causa di una malattia;
– spetta, da un lato, agli Stati membri decidere se concedere ai lavoratori ferie retribuite supplementari che si sommano alle ferie annuali retribuite minime di quattro settimane previste dall’articolo 7 della direttiva 2003/88. In tale ipotesi, gli Stati membri possono prevedere di concedere a un lavoratore che, a causa di una malattia, non abbia potuto usufruire di tutte le ferie annuali retribuite supplementari prima della fine del suo rapporto di lavoro, un diritto all’indennità finanziaria corrispondente a tale periodo supplementare. Spetta, dall’altro lato, agli Stati membri stabilire le condizioni di tale concessione.

EDILIZIA PRIVATAQuesta Corte ha costantemente affermato che «la disciplina delle distanze minime tra costruzioni rientra nella materia dell’ordinamento civile e, quindi, attiene alla competenza legislativa statale; alle Regioni è consentito fissare limiti in deroga alle distanze minime stabilite nelle normative statali, solo a condizione che la deroga sia giustificata dall’esigenza di soddisfare interessi pubblici legati al governo del territorio. Dunque, se da un lato non può essere del tutto esclusa una competenza legislativa regionale relativa alle distanze tra gli edifici, dall’altro essa, interferendo con l’ordinamento civile, è rigorosamente circoscritta dal suo scopo −il governo del territorio− che ne detta anche le modalità di esercizio».
Si è conseguentemente affermato che, «Nella delimitazione dei rispettivi ambiti di competenza −statale in materia di «ordinamento civile» e concorrente in materia di «governo del territorio»−, il punto di equilibrio è stato rinvenuto nell’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, che questa Corte ha più volte ritenuto dotato di efficacia precettiva e inderogabile. Tale disposto ammette distanze inferiori a quelle stabilite dalla normativa statale, ma solo “nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche”. In definitiva, le deroghe all’ordinamento civile delle distanze tra edifici sono consentite se inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio».
Tali conclusioni meritano di essere ribadite anche alla luce dell’introduzione −ad opera dall’art. 30, comma 1, 0a), del decreto-legge 21.06.2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 09.08.2013, n. 98− dell’art. 2-bis del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia – Testo A).
La disposizione recepisce la ricordata giurisprudenza di questa Corte, inserendo nel testo unico sull’edilizia i principi fondamentali della vincolatività, anche per le Regioni e le Province autonome, delle distanze legali stabilite dal d.m. n. 1444 del 1968 e dell’ammissibilità delle deroghe solo a condizione che siano «inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio».

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4.− È fondata la questione di legittimità costituzionale, dell’art. 2, comma 1, lettera g), della legge reg. Molise n. 7 del 2015, promossa dal Presidente del Consiglio dei ministri con riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera l), e terzo comma, Cost., perché la disposizione impugnata, nel sostituire l’art. 2, comma 5, della legge reg. Molise n. 30 del 2009, «fermi restando i limiti stabiliti dalla normativa nazionale», ha espressamente introdotto, per gli ampliamenti in sopraelevazione degli edifici esistenti, la possibilità di derogare alle distanze fissate dal decreto ministeriale n. 1444 del 1968.
4.1.− Questa Corte ha costantemente affermato che «la disciplina delle distanze minime tra costruzioni rientra nella materia dell’ordinamento civile e, quindi, attiene alla competenza legislativa statale; alle Regioni è consentito fissare limiti in deroga alle distanze minime stabilite nelle normative statali, solo a condizione che la deroga sia giustificata dall’esigenza di soddisfare interessi pubblici legati al governo del territorio. Dunque, se da un lato non può essere del tutto esclusa una competenza legislativa regionale relativa alle distanze tra gli edifici, dall’altro essa, interferendo con l’ordinamento civile, è rigorosamente circoscritta dal suo scopo −il governo del territorio− che ne detta anche le modalità di esercizio» (sentenza n. 6 del 2013; nello stesso senso, sentenze n. 134 del 2014 e n. 114 del 2012; ordinanza n. 173 del 2011).
Si è conseguentemente affermato che, «Nella delimitazione dei rispettivi ambiti di competenza −statale in materia di «ordinamento civile» e concorrente in materia di «governo del territorio»−, il punto di equilibrio è stato rinvenuto nell’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, che questa Corte ha più volte ritenuto dotato di efficacia precettiva e inderogabile (sentenze n. 114 del 2012 e n. 232 del 2005; ordinanza n. 173 del 2011). Tale disposto ammette distanze inferiori a quelle stabilite dalla normativa statale, ma solo “nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche”. In definitiva, le deroghe all’ordinamento civile delle distanze tra edifici sono consentite se inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio (sentenza n. 6 del 2013)» (sentenza n. 134 del 2014).
Tali conclusioni meritano di essere ribadite anche alla luce dell’introduzione −ad opera dall’art. 30, comma 1, 0a), del decreto-legge 21.06.2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 09.08.2013, n. 98− dell’art. 2-bis del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia – Testo A).
La disposizione recepisce la ricordata giurisprudenza di questa Corte, inserendo nel testo unico sull’edilizia i principi fondamentali della vincolatività, anche per le Regioni e le Province autonome, delle distanze legali stabilite dal d.m. n. 1444 del 1968 e dell’ammissibilità delle deroghe solo a condizione che siano «inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio» (sentenza n. 134 del 2014).
4.2.− Nel caso di specie questa condizione non sussiste e pertanto la disposizione impugnata eccede la competenza regionale concorrente del «governo del territorio», violando il limite dell’«ordinamento civile», di competenza legislativa esclusiva dello Stato.
Deve essere pertanto dichiarata la illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera g), della legge reg. Molise n. 7 del 2015, limitatamente alle parole «, ivi comprese quelle previste dall’articolo 9 del D.M. n. 1444/1968,».
5.− È fondata anche la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera i), della legge reg. Molise n. 7 del 2015, promossa dal Presidente del Consiglio dei ministri con riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera l), e terzo comma, Cost.
5.1.− La disposizione impugnata, nel sostituire il comma 8 dell’art. 2 della legge reg. Molise n. 30 del 2009, consente che gli ampliamenti previsti dai commi precedenti agli edifici esistenti e in costruzione avvengano in deroga ai vigenti strumenti urbanistici comunali, fermo restando quanto stabilito dal codice civile, ma senza espressamente imporre –e in ciò risiede la doglianza del ricorrente− il rispetto delle distanze fissate dall’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968.
Nel caso di specie (a differenza di quello esaminato nella sentenza n. 134 del 2014), l’espressa menzione del solo codice civile non consente di ritenere implicitamente richiamate anche le distanze fissate dal decreto ministeriale, come è reso evidente, da un lato, dall’intervento della successiva legge reg. Molise n. 13 del 2015, che ha sostituito la norma in esame espressamente prevedendo anche il rispetto di tali distanze, e, dall’altro, dalla menzione, nel previo comma 5 dell’art. 2, del rispetto della «normativa nazionale», locuzione, questa sì, idonea a ricomprendere non solo il codice civile ma l’intera disciplina civilistica delle distanze.
5.2.− In conclusione, «la norma in questione, attraverso il mero richiamo delle norme del codice civile, è suscettibile di consentire l’introduzione di deroghe particolari in grado di discostarsi dalle distanze di cui all’art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444» (sentenza n. 114 del 2012); il che, come detto sopra, rende illegittimo l’intervento del legislatore regionale, non ricorrendo, anche nel caso di specie, il collegamento agli strumenti urbanistici e la finalizzazione delle deroghe alla conformazione di determinate zone del territorio.
Va pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale della norma impugnata nella parte in cui non prevede, dopo le parole «fermo restando quanto stabilito dal codice civile», le parole «e dall’articolo 9 del d.m. n. 1444 del 1968».
6.− È ugualmente fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1, lettera g), della legge reg. Molise n. 7 del 2015, promossa dal Presidente del Consiglio dei ministri con riferimento ai medesimi parametri costituzionali.
6.1.− La disposizione impugnata ha aggiunto all’art. 3, comma 7, primo e secondo periodo, della legge reg. Molise n. 30 del 2009, dopo le parole «distanze tra gli edifici», le parole «, anche di quelle previste dall’articolo 9 del D.M. n. 1444/1968», così espressamente sancendo la derogabilità anche di queste ultime nel caso degli interventi di demolizione e ricostruzione contemplati dalla norma modificata.
Anche in questo caso, tuttavia, la generalità della previsione e il mancato collegamento delle deroghe agli strumenti urbanistici rendono illegittimo l’intervento del legislatore regionale.
7.− La disposizione modificatrice impugnata è avvinta da un «inscindibile legame funzionale» (sentenza n. 217 del 2015) con l’art. 3, comma 7, della legge reg. Molise n. 30 del 2009, nella parte in cui consente la deroga alle distanze tra gli edifici senza prevedere il rispetto di quelle stabilite dal codice civile e dalle disposizioni integrative.
Ai sensi dell’art. 27 della legge 11.03.1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), va pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale in via consequenziale di tale disposizione (sulla declaratoria di illegittimità costituzionale in via consequenziale nei giudizi in via principale si vedano, tra le tante, le sentenze n. 249, n. 87 e n. 68 del 2014, n. 308 del 2013, n. 378, n. 166 e n. 2 del 2004).
...
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1)
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera g), della legge della Regione Molise 14.04.2015, n. 7, recante «Disposizioni modificative della legge regionale 11.12.2009, n. 30 (Intervento regionale straordinario volto a rilanciare il settore edilizio, a promuovere le tecniche di bioedilizia e l’utilizzo di fonti di energia alternative e rinnovabili, nonché a sostenere l’edilizia sociale da destinare alle categorie svantaggiate e l’edilizia scolastica)», limitatamente alle parole «, ivi comprese quelle previste dall’articolo 9 del D.M. n. 1444/1968,»;
2)
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera i), della legge della Regione Molise n. 7 del 2015, nella parte in cui non prevede, dopo le parole «fermo restando quanto stabilito dal codice civile», le parole «e dall’articolo 9 del d.m. n. 1444 del 1968»;
3) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1, lettera g), della legge della Regione Molise n. 7 del 2015;
4) dichiara, in applicazione dell’art. 27 della legge 11.03.1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 7, della legge della Regione Molise 11.12.2009, n. 30 (Intervento regionale straordinario volto a rilanciare il settore edilizio, a promuovere le tecniche di bioedilizia e l’utilizzo di fonti di energia alternative e rinnovabili, nonché a sostenere l’edilizia sociale da destinare alle categorie svantaggiate e l’edilizia scolastica), nella parte in cui non prevede il rispetto delle distanze legali stabilite dal codice civile e dalle disposizioni integrative (Corte Costituzionale, sentenza 20.07.2016 n. 185).

TRIBUTI: Aree edificabili e criterio base imponibile: l'edificabilità va desunta dal PRG comunale.
Cassazione: a prescindere dall'approvazione del piano regolatore generale da parte della Regione e dell'adozione di strumenti urbanistici attuativi.
L'edificabilità di un'area, ai fini dell'applicazione del criterio di determinazione della base imponibile, fondato sul valore venale, deve essere desunta dalla qualificazione ad essa attribuita dal piano regolatore generale adottato dal Comune, indipendentemente dall'approvazione di esso da parte della Regione e dell'adozione di strumenti urbanistici attuativi, principio di seguito costantemente ribadito dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr., tra le molte Cass. Cass. sez. 5, 27.07.2007, n. 16174; Cass. sez. 5, 16.11.2012, n. 20137; Cass. sez. 5, 05.03.2014, n. 5161; Cass. sez. 5, 27.02.2015, a 4091), in un quadro di riferimento segnato anche da pronuncia della Corte costituzionale (ord. 27.02.2008, n. 41), che ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale della norma d'interpretazione autentica dell'art. 2, lett. b), del dlgs. 504/1992, rappresentata dall'art. 36, comma 2, del d.l. n. 223/2006, come convertito nella legge n. 248/2006.
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Il secondo motivo, con il quale la ricorrente denuncia, in relazione all'art. 360, 1° comma, n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell'art. 2 del dlgs. n. 504/1992, sollevando anche questione di legittimità costituzionale in relazione agli artt. 3, 53 e 97 Cost., è infondato.
Esso tende a rimettere in discussione il principio, espresso dalle Sezioni Unite di questa Corte con la nota sentenza 30.11.2006, n. 25506, secondo cui l'edificabilità di un'area, ai fini dell'applicazione del criterio di determinazione della base imponibile, fondato sul valore venale, deve essere desunta dalla qualificazione ad essa attribuita dal piano regolatore generale adottato dal Comune, indipendentemente dall'approvazione di esso da parte della Regione e dell'adozione di strumenti urbanistici attuativi, principio di seguito costantemente ribadito dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr., tra le molte Cass. Cass. sez. 5, 27.07.2007, n. 16174; Cass. sez. 5, 16.11.2012, n. 20137; Cass. sez. 5, 05.03.2014, n. 5161; Cass. sez. 5, 27.02.2015, a 4091), in un quadro di riferimento segnato anche da pronuncia della Corte costituzionale (ord. 27.02.2008, n. 41), che ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale della norma d'interpretazione autentica dell'art. 2, lett. b), del dlgs. 504/1992, rappresentata dall'art. 36, comma 2, del d.l. n. 223/2006, come convertito nella legge n. 248/2006.
Il motivo, anche con specifico riferimento all'eccezione di legittimità costituzionale, nei diversi profili articolati in ricorso, non apporta elementi nuovi che consentano d'investire nuovamente la Corte costituzionale del sindacato richiesto o di sollecitare alle Sezioni Unite di questa Corte un mutamento dell'indirizzo sopra citato (Corte di Cassazione, Sez. VI civile, ordinanza 18.07.2016 n. 14676 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Interventi edilizi e tutela degli interessi del vicino: l’esercizio della tutela del vicino va attivato senza indugio e non differito nel tempo irragionevolmente o colposamente determinando una situazione di incertezza.
Se da un lato deve essere assicurata al vicino la tutela in sede giurisdizionale dei propri interessi nei confronti di un intervento edilizio ritenuto illegittimo, dall’altro lato deve parimenti essere salvaguardato l’interesse del titolare del permesso di costruire a che l’esercizio di detta tutela venga attivato senza indugio e non irragionevolmente o colposamente differito nel tempo, determinando una situazione di incertezza delle situazioni giuridiche in contrasto con i principi ordinamentali.
In caso di impugnazione da parte del vicino di un permesso di costruire rilasciato a terzi, il termine di impugnazione inizia bensì a decorrere in linea di principio dal completamento dei lavori o, comunque, dal momento in cui la costruzione realizzata è tale che non si possono avere dubbi in ordine alla portata dell’intervento, ma, al contempo, il principio di certezza delle situazioni giuridiche e di tutela di tutti gli interessati comporta che non si possa lasciare il soggetto titolare di un permesso di costruire edilizio nell’incertezza circa la sorte del proprio titolo oltre una ragionevole misura, poiché, nelle more, il ritardo dell’impugnazione si risolverebbe in un danno aggiuntivo connesso all’ulteriore avanzamento dei lavori che, ex post, potrebbero essere dichiarati illegittimi.
Infatti, se da un lato deve essere assicurata al vicino la tutela in sede giurisdizionale dei propri interessi nei confronti di un intervento edilizio ritenuto illegittimo, dall’altro lato deve parimenti essere salvaguardato l’interesse del titolare del permesso di costruire a che l’esercizio di detta tutela venga attivato senza indugio e non irragionevolmente o colposamente differito nel tempo, determinando una situazione di incertezza delle situazioni giuridiche in contrasto con gli evidenziati principi ordinamentali.
In questo senso la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha individuato una serie di fattispecie in cui, in ragione della natura delle doglianze mosse nei confronti dell’intervento edilizio, dei rilievi addotti con riguardo alla conformazione fisica o giuridica delle aree oggetto dello stesso, delle censure dedotte avverso il titolo in sé e per sé considerato, nonché delle conoscenze acquisite e delle attività poste in essere in sede procedimentale o comunque extraprocessuale, non sussistono oggettivamente ragionevoli motivi che possano legittimare l’interessato ad una impugnazione differita dei titoli edilizi alla fine dei relativi lavori.

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RITENUTA la manifesta fondatezza del motivo d’appello, proposto in via principale dal Comune di Aldino e in via incidentale dagli originari controinteressati, con cui si censura la reiezione dell’eccezione di irricevibilità dell’avversario ricorso di primo grado per tardiva proposizione oltre il termine di decadenza di sessanta giorni di cui all’art. 41, comma 2, cod. proc. amm., in quanto:
- secondo consolidato orientamento giurisprudenziale condiviso da questo Collegio, in caso di impugnazione da parte del vicino di un permesso di costruire rilasciato a terzi, il termine di impugnazione inizia bensì a decorrere in linea di principio dal completamento dei lavori o, comunque, dal momento in cui la costruzione realizzata è tale che non si possono avere dubbi in ordine alla portata dell’intervento, ma, al contempo, il principio di certezza delle situazioni giuridiche e di tutela di tutti gli interessati comporta che non si possa lasciare il soggetto titolare di un permesso di costruire edilizio nell’incertezza circa la sorte del proprio titolo oltre una ragionevole misura, poiché, nelle more, il ritardo dell’impugnazione si risolverebbe in un danno aggiuntivo connesso all’ulteriore avanzamento dei lavori che, ex post, potrebbero essere dichiarati illegittimi (v., ex plurimis, Cons. Stato, IV Sez., 28.10.2015, n. 4909; Cons. Stato, IV, Sez. 10.06.2014, n. 2959): infatti, se da un lato deve essere assicurata al vicino la tutela in sede giurisdizionale dei propri interessi nei confronti di un intervento edilizio ritenuto illegittimo, dall’altro lato deve parimenti essere salvaguardato l’interesse del titolare del permesso di costruire a che l’esercizio di detta tutela venga attivato senza indugio e non irragionevolmente o colposamente differito nel tempo, determinando una situazione di incertezza delle situazioni giuridiche in contrasto con gli evidenziati principi ordinamentali;
- in questo senso la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha individuato una serie di fattispecie in cui, in ragione della natura delle doglianze mosse nei confronti dell’intervento edilizio, dei rilievi addotti con riguardo alla conformazione fisica o giuridica delle aree oggetto dello stesso, delle censure dedotte avverso il titolo in sé e per sé considerato, nonché delle conoscenze acquisite e delle attività poste in essere in sede procedimentale o comunque extraprocessuale, non sussistono oggettivamente ragionevoli motivi che possano legittimare l’interessato ad una impugnazione differita dei titoli edilizi alla fine dei relativi lavori (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 18.07.2016 n. 3191 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAE’ noto al Collegio l’orientamento secondo cui ai procedimenti preordinati all'emanazione dell'ordinanza di rimozione e smaltimento dei rifiuti ai sensi dell'art. 192, d.lgs. n. 152 del 2006 si deve applicare la disciplina sulla comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7, l. n. 241 del 1990, in quanto adempimento obbligatorio, rispetto al quale risulta recessivo, nella specifica materia, l'art. 21-octies, con conseguente illegittimità dell'ordinanza non preceduta dalla comunicazione stessa.
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Si deve ricordare che l'art. 192 del testo unico n. 152 del 2006 attribuisce rilievo anche alla negligenza del proprietario, che -a parte i casi di connivenza o di complicità negli illeciti- si disinteressi del proprio bene per qualsiasi ragione e resti inerte, senza affrontare concretamente la situazione, ovvero la affronti con misure palesamenti inadeguate
Questa conclusione è sostenuta dalla più recente giurisprudenza in materia, che, anche al fine di contrastare più efficacemente gli illeciti fenomeni di abbandono di rifiuti, ha notevolmente ampliato il contenuto del dovere di diligenza da esigersi nei confronti del proprietario dell'area interessata e correlativamente ha aumentato le ipotesi di negligenza tali da integrare la culpa in omittendo del proprietario; sul punto il Consiglio di Stato ha rilevato che, nel suo significato lessicale, la negligenza (vale a dire la mancata diligenza) consisteva e consiste nella trascuratezza, nell'incuria nella gestione di un proprio bene, e cioè nell'assenza della cura, della vigilanza, della custodia e della buona amministrazione del bene.
E’ stato altresì rilevato come questa conclusione sia “pienamente in linea con la concezione della proprietà-funzione recepita dalla nostra Costituzione, per la quale la proprietà pone anche degli obblighi di rendersi attivo al suo titolare”.
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In tale situazione la circostanza addotta dalla ricorrente per la quale il deposito dei rifiuti non sarebbe stato perpetrato dalla proprietà, ma da soggetti terzi, è del tutto irrilevante; tale circostanza non sottrae la società ricorrente al proprio obbligo di provvedere alla rimozione strumentale al risanamento dell'area e, con essa, ad inibire pericoli per l'igiene e la salute pubblica, in quanto si tratta di attività che non può non gravare sul titolare del diritto di proprietà della medesima.

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... per l'annullamento:
con il ricorso principale:
   - dell'ordinanza n. 202/2015 del Sindaco del Comune di Casale Monferrato avente ad oggetto "Prescrizioni alla ditta La.En. e Ic.Te. s.r.l. di Casale Monferrato in merito a rimozione e smaltimento rifiuti", datata 27/04/2015 e notificata il giorno 30/05/2015 a parte ricorrente;
   - di ogni altro atto presupposto, conseguente e comunque connesso, e in particolare la relazione tecnica n. SC07-2015/0503-04 dell'08.04.2015 redatta dall'Arpa Piemonte avente ad oggetto "Segnalazione Comune di Casale M.to per abbandono rifiuti in Str. ... 2, Casale M.to";
con motivi aggiunti del 27.11.2015:
   - dell'ordinanza n. 486/2015 del Sindaco del Comune di Casale Monferrato avente ad oggetto "Ulteriori interventi immediati a tutela della salute pubblica in Strada ... 4 - Casale Monferrato" datata 01.08.2015 e notificata il giorno 03.08.2015;
   - di ogni altro atto presupposto, conseguente e comunque connesso.
...
1) Il presente ricorso verte sul procedimento di bonifica dell’area ex Eternit, sita nel Comune di Casale Monferrato, di proprietà della società Ic.Te. s.r.l..
Le due ordinanza impugnate sono state emesse dal Comune di Casale Monferrato a fronte del rinvenimento di rifiuti consistenti in materiale fibroso contenente amianto, in condotti e parti impiantistiche, nonché carcasse di elettrodomestici fuori uso, materiale isolante, materiale ferroso, laterizi.
Il Comune ha quindi ritenuto che detto materiale potesse essere riconducibile all’attività della società La. (che svolge attività edilizia) e della società Ic.Te., che non solo ha svolto fino al 2009 attività di commercio e riparazione di elettrodomestici, ma è proprietaria dell’area.
Si deve osservare che il primo provvedimento dispone lo smaltimento dei rifiuti, ai sensi dell’art. 192 d.lgs. 152/2006, mentre il secondo la bonifica del suolo (che implica la rimozione dei rifiuti) nonché la messa in sicurezza.
Tra i due provvedimenti si sono inserite l’ordinanza n. 288/2015 di proroga dei termini, nonché l’ordinanza n. 433 del 09.07.2015, con cui si dispone l’interdizione e il divieto di accesso e di utilizzo dell’area de qua, al fine di ridurre il rischio di esposizione all’amianto.
1.2 Con la prima ordinanza, impugnata con il ricorso principale, il Sindaco ha ordinato lo smaltimento dei rifiuti e il ripristino dello stato dei luoghi.
Re melius perpensa rispetto alla fase cautelare, l’ordinanza risulta legittimamente adottata ai sensi dell’art. 192, comma 3, d.lgs. 152/2006, che così dispone “Fatta salva l'applicazione della sanzioni di cui agli articoli 255 e 256, chiunque viola i divieti di cui ai commi 1 e 2 è tenuto a procedere alla rimozione, all'avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull'area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo. Il Sindaco dispone con ordinanza le operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui provvedere, decorso il quale procede all'esecuzione in danno dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme anticipate”.
Il primo motivo verte sulla violazione delle garanzie partecipative: lamenta la ricorrente il mancato invio della comunicazione di avvio del procedimento, nonché il mancato svolgimento degli accertamenti in contraddittorio.
E’ noto al Collegio l’orientamento secondo cui ai procedimenti preordinati all'emanazione dell'ordinanza di rimozione e smaltimento dei rifiuti ai sensi dell'art. 192, d.lgs. n. 152 del 2006 si deve applicare la disciplina sulla comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7, l. n. 241 del 1990, in quanto adempimento obbligatorio, rispetto al quale risulta recessivo, nella specifica materia, l'art. 21-octies, con conseguente illegittimità dell'ordinanza non preceduta dalla comunicazione stessa.
Tuttavia nel caso di specie si ritiene che, in base all’evoluzione dei fatti, non sia stata violata alcuna garanzia partecipativa: l’emissione dell’ordinanza de qua è stata preceduta da due sopralluoghi dell’Arpa, uno risalente al 2012 e l’altro quello del 19.03.2015; l’efficacia della prima ordinanza è stata sospesa ed è poi intervenuto il secondo provvedimento, che ha in sostanza reiterato l’ordine di rimozione, imponendo anche la messa in sicurezza.
Dopo la prima ordinanza la società ben poteva rappresentare le proprie osservazioni e chiedere lo svolgimento di accertamenti in contraddittorio, mentre si è limitata a presentare una istanza di proroga, per la difficoltà di accedere all’area.
Proprio considerando la connessione tra le due ordinanze, si deve ritenere che la prima abbia svolto la funzione di atto di comunicazione del procedimento che si è concluso poi con l’ordinanza n. 486/2015.
1.3 Nel secondo motivo si lamenta invece la violazione dell’art. 192 d.lgs. 152/2006, nonché il difetto di motivazione, di istruttoria, l’erroneità dei presupposti e la manifesta illogicità, in quanto l’Amministrazione non ha effettuato alcuna indagine circa la responsabilità del proprietario del fondo rispetto all’inquinamento: dal provvedimento e dalla relazione dell’Arpa non emergerebbe alcun elemento da cui ricavare una corresponsabilità della società ricorrente.
La società al contrario sarebbe estranea all’abbandono dei rifiuti poiché è stata posta in liquidazione dal 2009; per un lungo periodo non è stata operativa e la tipologia di rifiuti (lastre di fibrocemento e materiale isolante, ferroso e laterizi) non è riconducibile all’attività della ricorrente.
L’Amministrazione non avrebbe quindi dimostrato in alcun modo la sussistenza dell’elemento soggettivo, limitandosi ad affermare la responsabilità sulla scorta della sola titolarità del diritto reale.
Né, sempre secondo la tesi della ricorrente, può affermarsi una culpa in vigilando, poiché gli illeciti esulano dalla sfera di controllo della società.
Anche questo motivo non può trovare accoglimento.
Contrariamente a quanto affermato dalla ricorrente, tra i rifiuti rinvenuti vi sono anche elettrodomestici, quindi oggetti che la società ricorrente commercializzava, pertanto può configurarsi anche una responsabilità diretta della ricorrente.
In ogni caso, rispetto soprattutto al materiale di natura diversa, si deve ricordare che l'art. 192 del testo unico n. 152 del 2006 attribuisce rilievo anche alla negligenza del proprietario, che -a parte i casi di connivenza o di complicità negli illeciti (qui non prospettabili)- si disinteressi del proprio bene per qualsiasi ragione e resti inerte, senza affrontare concretamente la situazione, ovvero la affronti con misure palesamenti inadeguate
Questa conclusione è sostenuta dalla più recente giurisprudenza in materia, che, anche al fine di contrastare più efficacemente gli illeciti fenomeni di abbandono di rifiuti, ha notevolmente ampliato il contenuto del dovere di diligenza da esigersi nei confronti del proprietario dell'area interessata e correlativamente ha aumentato le ipotesi di negligenza tali da integrare la culpa in omittendo del proprietario; sul punto il Consiglio di Stato ha rilevato che, nel suo significato lessicale, la negligenza (vale a dire la mancata diligenza) consisteva e consiste nella trascuratezza, nell'incuria nella gestione di un proprio bene, e cioè nell'assenza della cura, della vigilanza, della custodia e della buona amministrazione del bene (Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 10.06.2014, n. 2977).
E’ stato altresì rilevato come questa conclusione sia “pienamente in linea con la concezione della proprietà-funzione recepita dalla nostra Costituzione, per la quale la proprietà pone anche degli obblighi di rendersi attivo al suo titolare” (TAR Napoli, (Campania), sez. V, 23/03/2015, n. 1692).
In tale situazione la circostanza addotta dalla ricorrente per la quale il deposito dei rifiuti non sarebbe stato perpetrato dalla proprietà, ma da soggetti terzi, è del tutto irrilevante; tale circostanza non sottrae la società ricorrente al proprio obbligo di provvedere alla rimozione strumentale al risanamento dell'area e, con essa, ad inibire pericoli per l'igiene e la salute pubblica, in quanto si tratta di attività che non può non gravare sul titolare del diritto di proprietà della medesima.
Il ricorso principale va quindi respinto
(TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 15.07.2016 n. 994 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La Consulta pone importanti paletti alla competenza regionale in tema di deroghe alle regole sulle distanze fra edifici dettate dal testo unico edilizia.
Edilizia – Distanze fra costruzioni – Deroghe – Disciplina statale – Estensione regionale – Illegittimità costituzionale.
E’ incostituzionale l’art. 10, comma 1, l.reg. Marche 13.04.2015, n. 16, nella parte in cui modifica l’art. 35, l.reg. 04.12.2014, n. 33, sostituendo, all’espressione originaria "ovvero di ogni altra trasformazione", la diversa espressione "e di ogni trasformazione", con ciò ampliando la deroga alle distanze anche in relazione ad “interventi di carattere puntuale”, in violazione dell’art. 2-bis, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo unico dell’ edilizia), che invece consente alle Regioni di prevedere, con proprie leggi e regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori pubblici 02.04.1968, n. 1444, unicamente a condizione che quest’ultime si inseriscano nell’ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario dell’intero territorio o di specifiche aree.
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Con la sentenza 15.07.2016 n. 178 la Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale di alcune norme della Regione Marche, accogliendo il ricorso proposto dalla Presidenza del Consiglio dei ministri.
In particolare, la norma regionale contestata consentiva la deroga alle distanze anche in relazione ad “interventi di carattere puntuale”, in violazione dell’art. 2-bis, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo unico dell’edilizia), che invece consente alle Regioni di prevedere, con proprie leggi e regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori pubblici 02.04.1968, n. 1444, unicamente a condizione che quest’ultime si inseriscano nell’ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario dell’intero territorio comunale o di specifiche aree territoriali.
Il ragionamento della Corte segue un percorso lineare nell’estendere alla fattispecie i chiari e rigorosi principi più volte dettati in materia.
In primo luogo, la Corte ricorda che in materia di disciplina della distanze fra costruzioni, il “punto di equilibrio” tra gli ambiti di competenza -rispettivamente, “esclusiva”, dello Stato (in ragione dell’attinenza di detta disciplina alla materia «ordinamento civile») e, “concorrente”, della Regione, nella materia «governo del territorio» (per il profilo della insistenza dei fabbricati su territori che possono avere, rispetto ad altri, specifiche caratteristiche, anche naturali o storiche)– va individuato sempre nel principio, ricavabile dall’ultimo comma dell’art. 9, d.m. n. 1444 del 1968 (che la Corte ha più volte ritenuto dotato di efficacia precettiva e inderogabile: sentenze n. 114 del 2012 e n. 232 del 2005; ordinanza n. 173 del 2011), per cui sono ammesse distanze inferiori a quelle stabilite dalla normativa statale, ma solo nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche.
In secondo luogo la Corte, da tale indicazione di principio, trae il corollario che la legislazione regionale che interviene sulle distanze, interferendo con l’ordinamento civile, è legittima solo in quanto persegua chiaramente finalità di carattere urbanistico, demandando l’operatività dei suoi precetti a strumenti urbanistici funzionali ad un assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio (sentenza n. 232 del 2005).
Diversamente, le norme regionali che, disciplinando le distanze tra edifici, esulino da tali finalità, risultano invasive della materia «ordinamento civile», riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato.
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Per completezza si segnala:
   a) circa il riparto di competenze Stato–Regioni in materia di distanze (fra edifici e costruzioni), Corte cost. 21.05.2014, n. 134, in Foro it., 2014, I, 2009 (ivi i riferimenti in nota alle ulteriori citazioni di dottrina e giurisprudenza sul tema più generale delle distanze fra fabbricati e confini), secondo cui “Premesso che la disciplina delle distanze tra i fabbricati va ricondotta alla materia dell'”ordinamento civile”, di competenza legislativa esclusiva dello Stato, anche se è consentito alle regioni fissare limiti in deroga alle distanze minime stabilite nella normativa statale unicamente qualora tale deroga abbia chiaramente finalità di carattere urbanistico, ossia sia giustificata dall'esigenza di soddisfare interessi pubblici legati alla materia del "governo del territorio", di competenza concorrente delle regioni in base all'art. 117, comma 3, Cost., e che nella delimitazione dei rispettivi ambiti di competenza, statale in materia di “ordinamento civile” e concorrente in materia di “governo del territorio”, il punto di equilibrio si rinviene nell'ultimo comma dell'art. 9 d.m. n. 1444 del 1968, che consente le deroghe all'ordinamento civile delle distanze tra edifici se inserite in strumenti urbanistici funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio, l'esplicito richiamo al codice civile contenuto nella norma censurata deve essere inteso come riferito all'intera disciplina civilistica di cui il citato decreto ministeriale è parte integrante e fondamentale, risultando la norma censurata, così interpretata, pienamente rispettosa della competenza legislativa esclusiva dello Stato nella materia civilistica dei rapporti interprivati”;
   b) circa la identificazione delle luci e vedute rilevanti ai fini del computo delle distanze, Cons. St., sez. IV, 05.10.2015, n. 4628, in Foro it., 2015, III, 653, ivi l’ampia nota redazionale di richiami ad ulteriore giurisprudenza e dottrina;
   c) circa le deroghe convenzionali alla disciplina legale delle distanze e la usucapibilità di un correlato diritto di servitù, Cass. civ., sez. II, 22.02.2010, n. 4240, in Foro it., 2010, I, 3457, ivi l’ampia nota di A. L. OLIVA di richiami ad ulteriore giurisprudenza e dottrina (commento tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
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Disciplina delle distanze tra costruzioni – Materia dell’”ordinamento civile” – Competenza esclusiva dello Stato – Regioni – Previsioni di distanze inferiori a quelle stabilite dalla normativa statale – Limiti di cui all’art. 9, ultimo comma, d.m. n. 1444/1968 – Art. 35, l.r. Marche n. 33/2014 – Illegittimità costituzionale.

In tema di disciplina delle distanze fra costruzioni, il “punto di equilibrio” –tra gli ambiti di competenza, rispettivamente, “esclusiva”, dello Stato (in ragione dell’attinenza di detta disciplina alla materia «ordinamento civile») e, “concorrente”, della Regione, nella materia «governo del territorio» (per il profilo della insistenza dei fabbricati su territori che possono avere, rispetto ad altri, specifiche caratteristiche, anche naturali o storiche)– si rinviene nel principio, estraibile dall’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 (che questa Corte ha più volte ritenuto dotato di efficacia precettiva e inderogabile: sentenze n. 114 del 2012 e n. 232 del 2005; ordinanza n. 173 del 2011), per cui sono ammesse distanze inferiori a quelle stabilite dalla normativa statale, ma solo «nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche».
Principio, questo, sostanzialmente poi recepito dal legislatore statale con l’art. 30, comma 1, del decreto-legge 21.06.2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, della legge 09.08.2013, n. 98, che ha inserito, dopo l’art. 2 del d.P.R. n. 380 del 2001, l’art. 2-bis, a norma del quale «Ferma restando la competenza statale in materia di ordinamento civile con riferimento al diritto di proprietà e alle connesse norme del codice civile e alle disposizioni integrative, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano possono prevedere, con proprie leggi e regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori pubblici 02.04.1968, n. 1444, e possono dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi, nell’ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali».
Ne consegue che la legislazione regionale che interviene sulle distanze, interferendo con l’ordinamento civile, è legittima solo in quanto persegua chiaramente finalità di carattere urbanistico, demandando l’operatività dei suoi precetti a «strumenti urbanistici funzionali ad un assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio» (sentenza n. 232 del 2005).
Diversamente, «le norme regionali che, disciplinando le distanze tra edifici, esulino, invece, da tali finalità, risultano invasive della materia «ordinamento civile», riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato (sentenza n. 134 del 2014)
(Corte Costituzionale, sentenza 15.07.2016 n. 178).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il Consiglio di Stato ha reso il parere sul silenzio-assenso tra pubbliche amministrazioni.
I punti principali del parere del Consiglio di stato sul silenzio-assenso tra Pubbliche amministrazioni (art. 17-bis, l. n. 241 del 1990) (Consiglio di Stato, Commissione speciale, parere 13.07.2016 n. 1640).
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L’importanza del ricorso ai quesiti nella fase attuativa della riforma
Il Consiglio di Stato, in occasione del primo dei quesiti riguardanti l’attuazione della riforma di cui alla legge n. 124 del 2015, sottolinea l’efficacia del metodo seguito dal Governo di procedere tramite la proposizione di quesiti sul funzionamento pratico della riforma, confermando:
- l’importanza cruciale della attuazione ‘in concreto’ della riforma;
- l’utilità della funzione consultiva del Consiglio di Stato concepita come sostegno in progress a un progetto istituzionale, piuttosto che a singoli provvedimenti.
Il ‘nuovo paradigma’ nei rapporti tra amministrazioni pubbliche: il silenzio-assenso ‘endoprocedimentale’
Il parere della Commissione speciale rileva come l’art. 17-bis, introducendo il nuovo istituto del silenzio-assenso ‘endoprocedimentale’, ponga una seconda regola generale –dopo quella prevista dall’art. 21-nonies nei rapporti tra cittadino e PA– che stavolta riguarda i rapporti ‘interni’ tra amministrazioni, quale che sia l’amministrazione coinvolta e quale che sia la natura del procedimento pluristrutturato.
Infatti, la nuova disposizione prevede che il silenzio dell’Amministrazione interpellata, che non esterni alcuna volontà, è equiparato ope legis ad un atto di assenso e non preclude all’Amministrazione procedente l’adozione del provvedimento conclusivo.
Il silenzio-assenso come sanzione e rimedio all’inerzia amministrativa
La Commissione speciale evidenzia come il nuovo strumento di semplificazione confermi la natura “patologica” del silenzio amministrativo, sia nel rapporto verticale (tra amministrazione e cittadino), sia nel rapporto orizzontale (tra amministrazioni co-decidenti).
Il meccanismo del silenzio-assenso stigmatizza l’inerzia dell’amministrazione coinvolta, ancorché non fisiologica, tanto da ricollegarvi la più grave delle “sanzioni” o il più efficace dei rimedi: la definitiva perdita del potere di dissentire e di impedire la conclusione del procedimento.
Il triplice fondamento del nuovo silenzio-assenso
Il fondamento del nuovo silenzio-assenso è triplice:
- eurounitario, individuato nel “principio della tacita autorizzazione” (ovvero la regola del silenzio-assenso) introdotto dalla cd. direttiva Bolkestein (considerando 43; art. 13, par. 4);
- costituzionale, rinvenibile nel principio di buon andamento, di cui all’art. 97 Cost., inteso nell’ottica di assicurare il ‘primato dei diritti’ della persona, dell’impresa e dell’operatore economico;
- sistematico, con riferimento al principio di trasparenza (anch’esso desumibile dall’art. 97 Cost.) che ormai, specie dopo l’entrata in vigore del d.lgs. 25.05.2016, n. 97, informa l’intera attività amministrativa come principio generale.
Ambito di applicazione soggettivo
Il parere risolve alcuni dubbi interpretativi. Il Consiglio di Stato ritiene l’art. 17-bis applicabile anche a:
   1) Regioni ed enti locali
Va, infatti, intensificata ogni forma di coordinamento istituzionale volta a garantire un’applicazione omogenea delle nuove regole di semplificazione nel rispetto della loro autonomia organizzativa.
   2) Organi politici
L’art. 17-bis si applica a tali organi sia quando essi adottano atti amministrativi o normativi che quando sono chiamati ad esprimere concerti, assensi o nulla osta comunque denominati nell’ambito di procedimenti per l’adozione di atti amministrativi o normativi di competenza di altre Amministrazioni. In tal caso, è la natura dell’atto da adottare (amministrativo o normativo) che rileva, e non la natura dell’organo (amministrativo o politico) titolare della competenza “interna” nell’ambito della pubblica Amministrazione coinvolta.
   3) Autorità indipendenti
Rispetto ad esse non emergono ragioni di incompatibilità con la particolare autonomia di cui godono, anche in considerazione della natura amministrativa ormai ad esse pacificamente riconosciuta.
   4) Gestori di beni e servizi pubblici
L’art. 17-bis si applica ai gestori di beni e servizi anche quando siano titolari del procedimento (e debbano acquisire l’assenso di altre amministrazioni) e non solo quando siano chiamati a dare l’assenso nell’ambito di procedimento di altre Amministrazione.
A favore di tale conclusione, viene richiamata la nozione (di matrice comunitaria ed ormai accolta dalla prevalente giurisprudenza) “oggettiva” e “funzionale” di pubblica Amministrazione, in virtù della quale si considera pubblica Amministrazione ogni soggetto che, a prescindere dalla veste formale-soggettiva, sia tenuto ad osservare, nello svolgimento di determinate attività o funzioni, i principi del procedimento amministrativo.
Ambito di applicazione oggettivo
Il parere affronta, altresì, delicate questioni interpretative concernenti anche l’ambito di applicazione oggettivo del nuovo istituto.
   1) Applicabilità agli atti normativi
Secondo la Commissione speciale, la norma si applica anche ai procedimenti diretti all’emanazione di atti normativi in virtù di un espresso dato testuale: il primo periodo del comma 1 contiene un esplicito riferimento ai procedimenti per l’adozione degli atti normativi
   2) Applicabilità a procedimenti relativi a interessi pubblici primari
La formulazione testuale del comma 3 consente di accogliere la tesi favorevole all’applicabilità del meccanismo di semplificazione anche ai procedimenti di competenza di amministrazioni preposte alla tutela di interessi sensibili, ivi compresi i beni culturali e la salute dei cittadini: le Amministrazioni preposte alla tutela degli interessi sensibili beneficiano di un termine diverso (quello previsto dalla normativa di settore o, in mancanza, del termine di novanta giorni), scaduto il quale sono, tuttavia, sottoposte alla regola generale del silenzio assenso.
L’applicazione della norma agli atti di tutela degli interessi sensibili dovrà poi essere esclusa laddove la relativa richiesta non provenga dall’Amministrazione procedente, ma dal privato destinatario finale dell’atto. In tal caso, venendo in rilievo un rapporto verticale, troverà applicazione l’art. 20 della legge n. 241 del 1990 (che esclude dal suo campo di applicazione gli interessi sensibili).
   3) Rapporto con gli artt. 16 e 17 legge n. 241/1990
Gli artt. 16 e 17 fanno riferimento ad atti di altre amministrazioni da acquisire (al di là del nomen iuris) nella fase istruttoria, mentre l’art. 17-bis fa riferimento ad atti da acquisire nella fase decisoria, dopo che l’istruttoria si è chiusa.
In base a tali considerazioni, la Commissione speciale ritiene che la disposizione sia applicabile anche ai pareri vincolanti e non, invece, a quelli puramente consultivi (non vincolanti) che rimangono assoggettati alla diversa disciplina di cui agli artt. 16 e 17 della legge n. 241 del 1990.
   4) Il “bollino” della Ragioneria generale dello Stato
L’applicabilità della norma ai soli casi di atti che hanno natura codecisoria esclude, che il silenzio-assenso possa sostituire atti che si collocano in un momento successivo a quello della decisione, riguardando la fase costitutiva dell’efficacia del provvedimento: è il caso del c.d. ‘bollino’ della Ragioneria Generale dello Stato, previsto dall’art. 17, comma 10, della legge 31.12.2009, n. 196, un atto con funzione di controllo, che si colloca dopo l’esaurimento della fase decisoria ed è necessario per l’integrazione dell’efficacia di provvedimenti già adottati.
   5) Non applicabilità ai procedimenti ad iniziativa di parte tramite sportello unico
Il parere esclude che il nuovo silenzio-assenso tra pubbliche amministrazioni possa operare nei casi in cui l’atto di assenso sia chiesto da un’altra pubblica amministrazione non nel proprio interesse, ma nell’interesse del privato (destinatario finale dell’atto) che abbia presentato la relativa domanda tramite lo sportello unico.
Non incide sull’applicabilità del nuovo istituto la circostanza, del tutto irrilevante, che l’istanza il privato la presenti direttamente o per il tramite di un’Amministrazione che si limita ad un ruolo di mera intermediazione, senza essere coinvolta, in qualità di autorità co-decidente, nel relativo procedimento.
Rapporti con la conferenza di servizi
Secondo il parere, il criterio più semplice per la risoluzione dell’apparente sovrapposizione normativa è quello secondo cui l’art. 17-bis trova applicazione nel caso in cui l’Amministrazione procedente debba acquisire l’assenso di una sola Amministrazione, mentre nel caso di assensi da parte di più Amministrazioni opera la conferenza di servizi.
La Commissione speciale suggerisce in alternativa, al fine di estendere l’ambito applicativo dell’art. 17-bis, la soluzione secondo cui il silenzio-assenso di cui all’art. 17-bis operi sempre (anche nel caso in cui siano previsti assensi di più amministrazioni) e prevenga la necessità di convocare la conferenza di servizi.
Quest’ultima andrebbe convocata, quindi, nei casi in cui il silenzio assenso non si è formato a causa del dissenso espresso dalle Amministrazioni interpellate, e avrebbe lo scopo di superare quel dissenso nell’ambito della conferenza appositamente convocata.
La disciplina del superamento del disaccordo
Il parere segnala –de jure condendo– che la disciplina del superamento del disaccordo prevista dall’art. 17-bis, comma 2, secondo periodo, solleva alcune perplessità:
In primo luogo, non risulta appropriata la sedes materiae: la norma disciplina un meccanismo sostitutivo che presuppone il dissenso espresso, che, dunque, non si applica per definizione nelle ipotesi di silenzio-assenso che costituiscono l’oggetto specifico dell’art. 17-bis.
In secondo luogo, il riferimento testuale alle “modifiche da apportare allo schema del provvedimento” non tiene conto dell’eventualità che il Presidente del Consiglio possa risolvere il conflitto senza modificare lo schema del provvedimento, ma recependolo integralmente la posizione dell’Amministrazione procedente.
Formazione del silenzio-assenso e firma del provvedimento
Secondo il parere è sufficiente da parte dell’Amministrazione procedente l’invio formale del testo non ancora sottoscritto, in vista della successiva eventuale sottoscrizione di un testo condiviso (nell’ipotesi in cu l’Amministrazione interpellata esprima un assenso espresso).
Nel caso in cui l’Amministrazione interpellata rimanga silente, il provvedimento potrà essere sottoscritto soltanto dall’Amministrazione procedente, dando atto nelle premesse o in calce al provvedimento dell’invio dello schema di provvedimento e del decorso del termine per il silenzio-assenso.
Autotutela
Successivamente all’adozione del provvedimento finale (adottato sulla base del silenzio-assenso dell’Amministrazione interpellata), l’autotutela soggiace alla regola del contrarius actus.
Nel caso in cui il provvedimento finale non sia stato ancora adottato, il parere esclude che, formatosi il silenzio-assenso, l’Amministrazione inerte possa superarlo esercitando il potere di autotutela unilaterale.
Secondo il parere, infatti, il termine di trenta giorni (o il diverso termine per le Amministrazioni preposte alla tutela di interessi sensibili) ha natura perentoria e, dunque, la sua scadenza fa venire meno il potere postumo di dissentire (anche in autotutela) (commento tratto da www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa denuncia di inizio attività una volta perfezionatasi, costituisce un titolo abilitativo valido ed efficace (sotto tale profilo equiparabile quoad effectum al rilascio del provvedimento espresso), che può essere rimosso, per espressa previsione legislativa, solo attraverso l’esercizio del potere di autotutela decisoria.
Ne consegue l’illegittimità del provvedimento repressivo-inibitorio avente ad oggetto lavori che risultano oggetto di una d.i.a. già perfezionatasi (per effetto del decorso del tempo) e non previamente rimossa in autotutela.

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6.– L’appello è fondato.
Gli articoli 19 della legge n. 241 del 1990 e 23 e seguenti del d.p.r. 06.06.2001 n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di edilizia) prevedono che, in presenza di dia in materia edilizia, decorsi il termine di trenta giorni dalla sua presentazione l’amministrazione può assumere determinazioni soltanto nel rispetto del condizioni prescritte per l’esercizio dei poteri di autotutela dall’art. 21-nonies della stessa legge n. 241 del 1990.
Questo Consiglio ha già avuto modo di affermare che la denuncia di inizio attività «una volta perfezionatasi, costituisce un titolo abilitativo valido ed efficace (sotto tale profilo equiparabile quoad effectum al rilascio del provvedimento espresso), che può essere rimosso, per espressa previsione legislativa, solo attraverso l’esercizio del potere di autotutela decisoria. Ne consegue l’illegittimità del provvedimento repressivo-inibitorio avente ad oggetto lavori che risultano oggetto di una d.i.a. già perfezionatasi (per effetto del decorso del tempo) e non previamente rimossa in autotutela» (Consiglio di Stato, VI, n. 4780 del 2014).
Nel caso di specie, decorsi i termini previsti per l’esercizio dei poteri inibitori, l’amministrazione avrebbe pertanto dovuto attivare un nuovo procedimento che si sarebbe dovuto svolgere nel rispetto delle condizioni formali (garanzie del contradditorio) e sostanziali (valutazione dell’interesse pubblico concreto e dell’affidamento ingenerato nel privato) contemplate nel citato art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990.
Né varrebbe rilevare, come ritenuto dal primo giudice, che potrebbero considerarsi espressive di tale «potere di autotutela» le «note istruttorie e interlocutorie del Dipartimento comunale del 14.07.2014» e il «preavviso di diniego di dia», trattandosi di atti meramente procedimentali, in quanto tali non idonei ad integrare gli estremi del provvedimento richiesto dalla normativa sopra indicata (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 11.07.2016 n. 3044 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALIConoscenza della legge rafforzata. Sentenza della cassazione sui professionisti ed esperti.
Per chi è esperto conoscenza della legge rafforzata.

La Corte di Cassazione (Sez. III penale, sentenza 08.07.2016 n. 28344) ha ritenuto che il soggetto che svolga professionalmente una specifica attività può invocare l'ignoranza incolpevole della legge penale, che scusa l'autore dell'illecito, quando «dimostri, da un lato, di aver fatto tutto il possibile per richiedere alle autorità competenti i chiarimenti necessari e, dall'altro, di essersi informato in proprio, ricorrendo ad esperti giuridici, così adempiendo al dovere di informazione».
In altri termini è previsto un diverso obbligo di informazione, ai fini della valutazione sulla inevitabilità dell'errore e, quindi, sulla scusabilità dell'ignoranza sulla legge penale, a seconda che il soggetto agente sia un cittadino comune oppure sia una persona «professionalmente inserita in un campo di attività collegato alla materia disciplinata dalla legge integratrice del precetto penale».
Al cittadino comune è richiesto di assolvere al dovere di informazione con l'ordinaria diligenza mediante il ricorso ai normali mezzi di informazione, indagine e ricerca, mentre il professionista, secondo quanto afferma la giurisprudenza di legittimità, può addurre l'ignoranza incolpevole della legge penale nei casi in cui l'interpretazione normativa da esso adottata sia determinata «da un comportamento positivo degli organi amministrativi o da un complessivo pacifico orientamento giurisprudenziale».
Nell'ipotesi concreta la Cassazione, trattandosi di imprenditori che svolgevano attività professionale nel settore della gestione dei rifiuti, ha ritenuto che essi non potessero fare affidamento sul provvedimento amministrativo che era stato loro rilasciato, in quanto le conoscenze che essi avrebbero dovuto possedere non potevano non far loro percepire l'illegittimità dello stesso.
La sentenza in esame mette in evidenza che nella specifico settore dei reati edilizi vige anche il principio di diritto secondo cui la responsabilità per abuso edilizio del committente, del titolare del permesso di costruire, del direttore dei lavori e del costruttore non è esclusa dal rilascio del titolo abilitativo in violazione di legge o degli strumenti urbanistici.
La Cassazione ribadisce, inoltre, che essendo il giudice penale tenuto a verificare l'esistenza di tutti gli elementi che concorrono a integrare la condotta criminosa, nelle ipotesi in cui la fattispecie di reato preveda un atto amministrativo egli non può limitarsi al riscontro dell'esistenza ontologica del provvedimento, ma deve, comunque, accertare se vi sia stata realizzazione della fattispecie penale.
I giudici di legittimità, ritengono, pertanto, che «il giudice penale è in ogni caso tenuto a verificare incidentalmente la legittimità del titolo abilitativo, senza che ciò comporti la sua eventuale ''disapplicazione'', in quanto tale provvedimento non è sufficiente a definire di per sé (ovvero prescindendo dal quadro delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, e dalle rappresentazioni di progetto alla base della sua emissione) lo statuto di legalità dell'opera realizzata» (articolo ItaliaOggi del 22.07.2016).
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MASSIMA
6. Anche il secondo motivo di ricorso, volto a lamentare la violazione dell'art. 5 c.p., è manifestamente infondato.
Va ricordato che
non può essere invocata l'ignoranza della legge penale ex art. 5 c.p. -alla luce dell'orientamento della giurisprudenza costituzionale- da parte di chi, professionalmente inserito in un campo di attività collegato alla materia disciplinata dalla legge integratrice del precetto penale, non si uniformi alle regole di settore, per lui facilmente conoscibili in ragione dell'attività professionale svolta (Sez. 3, n. 22813 del 15/04/2004, Ferri, Rv. 229228) salvo che non dimostri, da un lato, di aver fatto tutto il possibile per richiedere alle autorità competenti i chiarimenti necessari e, dall'altro, di essersi informato in proprio, ricorrendo ad esperti giuridici, così adempiendo al dovere di informazione (da ultimo, Sez. 3, n. 35694 del 05/04/2011, Pavanati, Rv. 251225).
Nella specie, per quanto già detto sopra, è indiscusso che entrambi gli imputati svolgevano attività professionale nel settore della gestione dei rifiuti, da ciò dunque discendendo l'impossibilità di allegare l'ignoranza in ordine ad un profilo, essenziale ai fini di qualificare il provvedimento amministrativo rilasciato come gravemente illegittimo, dato dalla mancata attivazione della procedura dì cui al già richiamato art. 208 del d.lgs. n. 152 del 2006.
Non sussiste dunque alcuna violazione di legge laddove i giudici dell'appello non hanno ritenuto di accedere alla richiesta di applicazione di cui all'art. 5 cit.

EDILIZIA PRIVATA: La responsabilità per abuso edilizio del committente, del titolare del permesso di costruire, del direttore dei lavori e del costruttore, individuata ai sensi dell'art. 29 del d.P.R. n. 380 del 2001, non è esclusa dall'avvenuto rilascio del titolo abilitativo in violazione di legge o degli strumenti urbanistici giacché la stessa deriva dalla posizione di garanzia diretta che detta norma pone a carico di detti soggetti e sulla quale si fonda l'addebito, di natura anche colposa, per il reato di cui all'art. 44, dello stesso d.P.R..
Anche a volere prescindere da tale determinante rilievo, va considerato che anche nei casi in cui, nella fattispecie di reato, sia previsto un atto amministrativo ovvero l'autorizzazione al comportamento del privato da parte di un organo pubblico, il giudice penale non deve limitarsi a verificare l'esistenza ontologica dell'atto o del provvedimento amministrativo, ma deve verificare l'integrazione o meno della fattispecie penale, in vista dell'interesse sostanziale che tale fattispecie assume a tutela (nella specie, l'interesse sostanziale alla tutela del territorio), nella quale gli elementi di natura extra-penale convergono organicamente, assumendo un significato descrittivo. È la stessa descrizione normativa del reato che impone infatti al giudice un riscontro diretto di tutti gli elementi che concorrono a determinare la condotta criminosa, ivi compreso l'atto amministrativo.
In altri termini, il giudice penale è in ogni caso tenuto a verificare incidentalmente la legittimità del titolo abilitativo, senza che ciò comporti la sua eventuale "disapplicazione", in quanto tale provvedimento non è sufficiente a definire di per sé -ovvero prescindendo dal quadro delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, e dalle rappresentazioni di progetto alla base della sua emissione- lo statuto di legalità dell'opera realizzata.
Né la distinzione che pare prospettata in ricorso tra permesso di costruire "illecito", perché frutto di collusione tra pubblico amministratore e privato destinatario del provvedimento, e permesso di costruire invece solo "illegittimo" al fine di far ritenere integrato il reato di specie solo nel primo caso può condurre ad esiti diversi: infatti, ove il contrasto del provvedimento con norme imperative assurga in termini di netta evidenza, verrebbe comunque a determinarsi non la mera illegittimità dell'atto, ma, appunto, la illiceità del medesimo sì da non essere necessaria la prova della collusione tra amministratore e soggetti interessati o l'accertamento dell'avvenuto inizio dell'azione penale a carico degli amministratori stessi.

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5. I ricorsi sono inammissibili.
Il primo motivo muove da un presupposto erroneo, ovvero che fosse sufficiente escludere condotte dolose nel destinatario del provvedimento per far ritenere insussistente il reato contestato.
Va anzitutto ribadito che la responsabilità per abuso edilizio del committente, del titolare del permesso di costruire, del direttore dei lavori e del costruttore, individuata ai sensi dell'art. 29 del d.P.R. n. 380 del 2001, non è esclusa dall'avvenuto rilascio del titolo abilitativo in violazione di legge o degli strumenti urbanistici giacché la stessa deriva dalla posizione di garanzia diretta che detta norma pone a carico di detti soggetti e sulla quale si fonda l'addebito, di natura anche colposa, per il reato di cui all'art. 44, dello stesso d.P.R. (da ultimo, Sez. 3, n. 10106 del 21/01/2016, Torzini, Rv. 266291; Sez. 3, n. 27261 del 08/03/2010, Caleprico, Rv. 248070).
Peraltro, anche a volere prescindere da tale determinante rilievo, va considerato che anche nei casi in cui, nella fattispecie di reato, sia previsto un atto amministrativo ovvero l'autorizzazione al comportamento del privato da parte di un organo pubblico, il giudice penale non deve limitarsi a verificare l'esistenza ontologica dell'atto o del provvedimento amministrativo, ma deve verificare l'integrazione o meno della fattispecie penale, in vista dell'interesse sostanziale che tale fattispecie assume a tutela (nella specie, l'interesse sostanziale alla tutela del territorio), nella quale gli elementi di natura extra-penale convergono organicamente, assumendo un significato descrittivo. È la stessa descrizione normativa del reato che impone infatti al giudice un riscontro diretto di tutti gli elementi che concorrono a determinare la condotta criminosa, ivi compreso l'atto amministrativo (da ultimo, Sez. 3, n. 14945 del 28/01/2014, Graziano, non massimata).
In altri termini, il giudice penale è in ogni caso tenuto a verificare incidentalmente la legittimità del titolo abilitativo, senza che ciò comporti la sua eventuale "disapplicazione", in quanto tale provvedimento non è sufficiente a definire di per sé -ovvero prescindendo dal quadro delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, e dalle rappresentazioni di progetto alla base della sua emissione- lo statuto di legalità dell'opera realizzata (da ultimo, Sez. 3, n. 36366 del 16/06/2015, Faiola, Rv. 265034 Sez. fer., n. 33600 del 23/08/2012, Lo Vullo e altro, Rv. 253426; Sez. 3, n. 41620 del 02/10/2007, Emelino, Rv. 237995).
Né la distinzione che pare prospettata in ricorso tra permesso di costruire "illecito", perché frutto di collusione tra pubblico amministratore e privato destinatario del provvedimento, e permesso di costruire invece solo "illegittimo" al fine di far ritenere integrato il reato di specie solo nel primo caso può condurre ad esiti diversi: infatti, ove il contrasto del provvedimento con norme imperative assurga in termini di netta evidenza, verrebbe comunque a determinarsi non la mera illegittimità dell'atto, ma, appunto, la illiceità del medesimo sì da non essere necessaria la prova della collusione tra amministratore e soggetti interessati o l'accertamento dell'avvenuto inizio dell'azione penale a carico degli amministratori stessi (Sez. 3, n. 38735 del 11/07/2003, Schrotter ed altri, Rv. 226576).
E che, nella specie, si versasse in un caso di macroscopico contrasto deriva dalle stesse sentenze di merito laddove si è evidenziato che in relazione all'impianto della ditta It. s.a.s nessuna istanza autorizzativa alla Regione, competente per la realizzazione di impianti di smaltimento o di recupero di rifiuti, venne presentata da parte degli interessati (che pur dovevano essere consapevoli di una tale obbligo stante la attività professionale esercitata) ai sensi degli artt. 27 e 28 del d.P.R. n. 22 del 1997 (ora art. 208 del d.lgs. n. 152 del 2006).
Ne consegue che, in definitiva, alla luce della corretta individuazione, già in primo grado, alla stregua dei criteri più volte espressi da questa Corte, della fattispecie di reato configurabile, nessuna prescrizione poteva ritenersi maturata come preteso dai ricorrenti, sicché il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.07.2016 n. 28344).

APPALTI: E’ pacifico -in giurisprudenza- che non sussiste un onere di immediata impugnazione dell’aggiudicazione provvisoria dell’appalto, essendo una simile impugnativa rivolta contro un atto di natura endoprocedimentale, non conclusivo del procedimento, e dunque, di norma, non immediatamente lesivo; a differenza –ovviamente– dell’impugnazione dell’aggiudicazione definitiva, che è invece necessaria.
La facoltatività dell’impugnativa succitata esclude che l’impresa aggiudicataria provvisoria sia titolare di una posizione giuridica soggettiva differenziata, ed abbia una specifica utilità alla conservazione del relativo atto endoprocedimentale, tale da essere qualificata come “controinteressata”, ai sensi e per gli effetti dell’art. 41 del c.p.a., diversamente da quanto avviene per l’aggiudicazione definitiva che le attribuisce stabilmente la conseguente posizione di vantaggio.
Tale soluzione interpretativa è oggi rafforzata alla luce del nuovo Codice dei contratti pubblici, approvato con D.Lgs. 50/2016.
Infatti l’art. 204 di quest’ultimo, modificando l’art. 120 del c.p.a. sul rito speciale degli appalti, ha introdotto il comma 2-bis del citato art. 120, in forza del quale (cfr. l’ultimo periodo del comma suindicato), è <<…inammissibile l’impugnazione della proposta di aggiudicazione, ove disposta, e degli altri atti endoprocedimentali privi di immediata lesività>>.
La “proposta di aggiudicazione”, ai sensi del combinato disposto degli articoli 32 e 33 comma 1, del D.Lgs. 50/2016, equivale all’aggiudicazione provvisoria (su tale equivalenza si sono espressi anche i primi commenti dottrinari al nuovo Codice).

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1. In via preliminare deve essere esaminata l’eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dalla difesa di parte resistente.
Secondo quest’ultima, in particolare, il ricorso sarebbe inammissibile, ai sensi dell’art. 41 del c.p.a., per omessa notificazione ad un controinteresssato, individuato nella società Me.Int.It. Srl, vale a dire l’impresa aggiudicataria provvisoria nei lotti da 15 a 18, lotti per i quali invece la ricorrente è stata esclusa (cfr., per l’aggiudicazione provvisoria, il doc. 2 della resistente, cioè la copia del verbale della seduta pubblica del 10.12.2015).
L’eccezione è nella fattispecie infondata, per le ragioni che seguono.
In primo luogo, deve rilevarsi che il provvedimento di aggiudicazione provvisoria non è stato oggetto di impugnazione, dal che deriva che attraverso il presente gravame non poteva certo essere evocata in giudizio l’impresa aggiudicataria provvisoria.
E’ inoltre pacifico -in giurisprudenza- che non sussiste un onere di immediata impugnazione dell’aggiudicazione provvisoria dell’appalto, essendo una simile impugnativa rivolta contro un atto di natura endoprocedimentale, non conclusivo del procedimento, e dunque, di norma, non immediatamente lesivo; a differenza –ovviamente– dell’impugnazione dell’aggiudicazione definitiva, che è invece necessaria (sul carattere facoltativo dell’impugnazione dell’aggiudicazione provvisoria, si vedano: Consiglio di Stato, sez. IV, 19.03.2015, n. 1512 e 07.11.2014, n. 5497, oltre a TAR Calabria, Reggio Calabria, 26.02.2015, n. 188).
La facoltatività dell’impugnativa succitata esclude che l’impresa aggiudicataria provvisoria sia titolare di una posizione giuridica soggettiva differenziata, ed abbia una specifica utilità alla conservazione del relativo atto endoprocedimentale, tale da essere qualificata come “controinteressata”, ai sensi e per gli effetti dell’art. 41 del c.p.a., diversamente da quanto avviene per l’aggiudicazione definitiva che le attribuisce stabilmente la conseguente posizione di vantaggio.
Tale soluzione interpretativa è oggi rafforzata alla luce del nuovo Codice dei contratti pubblici, approvato con D.Lgs. 50/2016.
Infatti l’art. 204 di quest’ultimo, modificando l’art. 120 del c.p.a. sul rito speciale degli appalti, ha introdotto il comma 2-bis del citato art. 120, in forza del quale (cfr. l’ultimo periodo del comma suindicato), è <<…inammissibile l’impugnazione della proposta di aggiudicazione, ove disposta, e degli altri atti endoprocedimentali privi di immediata lesività>>.
La “proposta di aggiudicazione”, ai sensi del combinato disposto degli articoli 32 e 33 comma 1, del D.Lgs. 50/2016, equivale all’aggiudicazione provvisoria (su tale equivalenza si sono espressi anche i primi commenti dottrinari al nuovo Codice).
Si conferma, di conseguenza, il rigetto dell’eccezione preliminare (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 08.07.2016 n. 1383 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: I documenti digitali dei quali la stazione appaltante lamenta la mancanza sono, in realtà, stati inviati tempestivamente attraverso la piattaforma informatica SINTEL, sicché la mera impossibilità tecnica della loro lettura non può giustificare l’esclusione automatica della partecipante, ben potendo essere attivato il soccorso istruttorio.
La gara di cui è causa è stata svolta con modalità telematiche, avvalendosi del sistema gestito dalla Regione Lombardia –attraverso la propria società controllata Arca Spa– e denominato Sintel.
Come risulta dai documenti versati in atti, la ricorrente ha caricato sul sistema e spedito ritualmente le buste elettroniche contenenti i documenti di cui è causa (vale a dire i relativi “file” informatici); tuttavia nel corso della seduta pubblica di apertura delle offerte elettroniche, la stazione appaltante non è riuscita ad aprire e quindi a leggere i file contenenti i succitati documenti dell’offerta (vale a dire la copia del verbale di gara, dal quale risulta che i file contenenti la cauzione provvisoria e l’impegno al rilascio di quella definitiva “sono risultati illeggibili”).
La stazione appaltante, dopo avere ottenuto da Arca Spa una dichiarazione dalla quale risulta che i problemi di apertura dei file non sono imputabili al sistema Sintel, sul quale non sono state riscontrate anomalie, ha escluso dalla gara la società ricorrente, reputando la produzione dei due documenti essenziale e ritenendo altresì non attivabile il soccorso istruttorio a favore della partecipante.
La determinazione è però erronea, in quanto nel caso di specie sussistono senza dubbio i presupposti per l’applicazione del soccorso istruttorio di cui agli articoli 38, comma 2-bis, e 46, comma 1-ter, del D.Lgs. 163/2006.
Preme dapprima rilevare, infatti, che le disposizioni di cui ai succitati articoli 38, comma 2-bis, e 46, comma 1-ter –per le quali in dottrina e giurisprudenza si è talora parlato di “nuovo soccorso istruttorio”– sono applicabili in un ampio ventaglio di ipotesi, compresa quella di eventuali documenti di gara incompleti o irregolari, come del resto statuito dalla più recente giurisprudenza amministrativa.
Sulla questione si vedano:
- Consiglio di Stato, sez. V, 19.05.2016 n. 2106, secondo cui la novella legislativa può applicarsi anche a casi di mancanza di dichiarazioni previste dalla legge di gara;
- TAR Lombardia, Brescia, sez. II, 22.03.2016, n. 434, per cui le norme succitate consentono di sanare lacune nella produzione documentale, purché il concorrente sia in possesso dei requisiti;
- TAR Puglia, Lecce, sez. III, 18.05.2016, n. 829, che espressamente consente il soccorso istruttorio nei casi di omessa produzione di una delle due referenze bancarie richieste dalla disciplina di gara e
- TAR Lazio, Roma, sez. II-bis, 23.06.2016, n. 7249, che ammette il soccorso istruttorio in caso di omessa presentazione della cauzione provvisoria o di presentazione di una cauzione insufficiente.
Nel caso di specie, appare fuori discussione che i documenti dei quali la stazione appaltante lamenta la mancanza siano in realtà stati inviati tempestivamente attraverso la piattaforma informatica, sicché la mera impossibilità tecnica della loro lettura non può giustificare l’esclusione automatica della partecipante, ben potendo essere attivato il soccorso istruttorio.

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2. Nel merito, l’esponente contesta la propria esclusione dalla procedura (cfr. il doc. 9 della ricorrente ed anche il doc. 11, vale a dire la risposta negativa alla preinformativa di ricorso), seppure limitatamente ai lotti dal n. 15 al n. 18, disposta dall’Amministrazione per la presunta mancanza di elementi essenziali dell’offerta, vale a dire il deposito cauzionale provvisorio e l’impegno del garante al rilascio della cauzione definitiva, ai sensi dell’art. 75 del D.Lgs. 163/2006.
Le doglianze di parte ricorrente sono fondate, per le ragioni che seguono.
Come già sopra indicato, la gara di cui è causa è stata svolta con modalità telematiche, avvalendosi del sistema gestito dalla Regione Lombardia –attraverso la propria società controllata Arca Spa– e denominato Sintel.
Come risulta dai documenti versati in atti, la ricorrente ha caricato sul sistema e spedito ritualmente le buste elettroniche contenenti i documenti di cui è causa (vale a dire i relativi “file” informatici, cfr. i documenti 7 e 8 della ricorrente); tuttavia nel corso della seduta pubblica di apertura delle offerte elettroniche, la stazione appaltante non è riuscita ad aprire e quindi a leggere i file contenenti i succitati documenti dell’offerta (cfr. il doc. 12 della ricorrente, vale a dire la copia del verbale di gara, dal quale risulta che i file contenenti la cauzione provvisoria e l’impegno al rilascio di quella definitiva “sono risultati illeggibili”).
La stazione appaltante, dopo avere ottenuto da Arca Spa una dichiarazione dalla quale risulta che i problemi di apertura dei file non sono imputabili al sistema Sintel, sul quale non sono state riscontrate anomalie (cfr. il doc. 7 della resistente e il doc. 1 di Arca Spa), ha escluso dalla gara la società ricorrente, reputando la produzione dei due documenti essenziale e ritenendo altresì non attivabile il soccorso istruttorio a favore della partecipante.
La determinazione della Fondazione è però erronea, in quanto nel caso di specie sussistono senza dubbio i presupposti per l’applicazione del soccorso istruttorio di cui agli articoli 38, comma 2-bis, e 46, comma 1-ter, del D.Lgs. 163/2006.
Preme dapprima rilevare, infatti, che le disposizioni di cui ai succitati articoli 38, comma 2-bis, e 46, comma 1-ter –per le quali in dottrina e giurisprudenza si è talora parlato di “nuovo soccorso istruttorio”– sono applicabili in un ampio ventaglio di ipotesi, compresa quella di eventuali documenti di gara incompleti o irregolari, come del resto statuito dalla più recente giurisprudenza amministrativa.
Sulla questione si vedano: Consiglio di Stato, sez. V, 19.05.2016 n. 2106, secondo cui la novella legislativa può applicarsi anche a casi di mancanza di dichiarazioni previste dalla legge di gara; TAR Lombardia, Brescia, sez. II, 22.03.2016, n. 434, per cui le norme succitate consentono di sanare lacune nella produzione documentale, purché il concorrente sia in possesso dei requisiti; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 18.05.2016, n. 829, che espressamente consente il soccorso istruttorio nei casi di omessa produzione di una delle due referenze bancarie richieste dalla disciplina di gara e TAR Lazio, Roma, sez. II-bis, 23.06.2016, n. 7249, che ammette il soccorso istruttorio in caso di omessa presentazione della cauzione provvisoria o di presentazione di una cauzione insufficiente.
Nel caso di specie, appare fuori discussione che i documenti dei quali la stazione appaltante lamenta la mancanza siano in realtà stati inviati tempestivamente attraverso la piattaforma informatica, sicché la mera impossibilità tecnica della loro lettura non può giustificare l’esclusione automatica della partecipante, ben potendo essere attivato il soccorso istruttorio (la ricorrente ha inoltre prodotto in giudizio la copia della polizza fideiussioria, emessa il 17.11.2015, cfr. il suo doc. 13).
A conclusione diversa non induce neppure la lettura del Disciplinare di gara (cfr. il doc. 2 della ricorrente e il doc. 4 della resistente), le cui disposizioni sulle modalità di presentazione delle offerte o sulle cause di esclusione devono sempre essere interpretate alla luce delle succitate norme di legge sul soccorso istruttorio, norme del resto espressamente richiamate dall’art. 9 del Disciplinare stesso.
A questo punto, appare irrilevante stabilire se la mancata apertura dei file sia dovuta ad anomalie del sistema (circostanza negata da Arca Spa) o ad errori della partecipante, giacché in entrambi i casi l’attivazione del soccorso istruttorio appare doverosa.
Si conferma quindi l’accoglimento del presente ricorso, con conseguente annullamento del provvedimento di esclusione ivi impugnato e con obbligo per la stazione appaltante di procedere al soccorso istruttorio, ai fini della prosecuzione del procedimento finalizzato alla valutazione delle offerte presentate dalla ricorrente nei lotti di cui è causa.
L’annullamento dell’esclusione e la conseguente prosecuzione del procedimento di valutazione delle offerte garantiscono la reintegrazione in forma specifica della posizione soggettiva della ricorrente, non essendovi allo stato altri elementi di danno risarcibile in capo a quest’ultima
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 08.07.2016 n. 1383 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOPrescrizione più lunga per l’ente. All’impresa corruttrice si applicano le interruzioni del Codice civile. Appalti. I funzionari delle imprese privatizzate imputabili per corruzione: applicabili anche le sanzioni 231.
I funzionari di società per azioni privatizzate sono a tutti gli effetti «incaricati di pubblico servizio» e come tali idonei a commettere il reato di corruzione. Inoltre, in questo contesto, la responsabilità amministrativa degli enti ha un regime prescrizionale differenziato che è compatibile il dettato della Costituzione.
Con una chilometrica motivazione, la VI Sez. penale della Corte di Cassazione (sentenza 07.07.2016 n. 28299) ribadisce i criteri di imputazione della 231/2001 quando il player appaltante è una privatizzata, chiarendo inoltre la piena legittimità della prescrizione a doppio binario, quella tra le persone fisiche indagate per il reato presupposto e quella che invece, sul piano amministrativo, opera nei confronti dell’ente/impresa.
I fatti riportati d’attualità dalla Cassazione riguardano l’inchiesta milanese della fine del decennio scorso relativa a una serie di appalti per forniture ad Enipower (parte civile nel processo, insieme ad Eni e Snamprogetti) di impianti turbogas, di impianti di riduzione di gas, per la realizzazione inoltre di un impianto termoelettrico, oltreché di lavori e appalti strumentali, opere a margine delle quali la Procura aveva confiscato per equivalente oltre 100 milioni di euro sui conti di Ansaldo Energia e di altre sei imprese corruttrici.
Undici dei ricorsi presentati contro la decisione della Corte d’appello di Milano riguardavano la riconosciuta sussistenza, in capo a un funzionario di Enipower e a un omologo di Snamprogetti -imputati entrambi di corruzione- della qualifica soggettiva di rilievo pubblicistico, preupposto dell’intera impalcatura dell’accusa. Secondo la Sesta, in aderenza ai colleghi di merito, vale il brocardo secondo cui le qualifiche soggettive si acquistano «non per ciò che si è, ma per ciò che si fa».
E se va comunque escluso lo status di pubblici ufficiali per i due funzionari -in quanto non avevano i caratteristici poteri deliberativi, autoritativi o certificativi- il ruolo da loro giocato in un settore peculiare, quale è la disciplina degli appalti nei cosiddetti “settori speciali”, ne fa fuor di dubbio degli incaricati di pubblico servizio, come del resto conferma il contesto giuridico della procedura di gara. Proprio sulla gara era maturata la condotta corruttiva dei due funzionari delle privatizzate, che avevano venduto ad aziende partecipanti le informazioni tecniche necessarie a vincere i bandi, di valore prossimo al miliardo di euro.
Ansaldo Energia aveva poi impugnato la norma della 231/2001 che prevede il congelamento della prescrizione “amministrativa” fino al momento del passaggio in giudicato della sentenza penale. «Irragionevole differenziazione rispetto agli imputati persone fisiche», sostiene il ricorso, ma la Sesta richiama anche i lavori preparatori del Dlgs 231 (legge delega 300/2000) che indicavano nel codice civile le norme interruttive del decorso del tempo.
La scelta del legislatore, incensurabile secondo la Suprema corte, «vuole evitare che, in presenza dell’interesse dell’autorità procedente a far valere la potestà punitiva dello Stato, manifestata attraverso l’esercizio dell’azione penale, si corra il rischio di dover dichiarare l’estinzione dell’illecito per il sopraggiungere della prescrizione» .
E quanto al rapporto tra la prescrizione penale e quella della 231, la Corte ricorda che se la prima matura senza che sia stato contestato l’illecito amministrativo, decade la potestà sanzionatoria a carico dell’ente.
    (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

INCARICHI PROFESSIONALIDecisione disciplinare, obbligo di correlazione.
Nel caso di procedimento disciplinare a carico di un avvocato c'è obbligo di correlazione tra quanto addebitato in contestazione e la decisione disciplinare, al fine di evitare che il soggetto venga condannato per un fatto rispetto al quale non gli è stato possibile esplicare un'azione difensiva.

E' quanto stabilito dai giudici delle Sezz. unite civili della Corte di Cassazione con la sentenza 06.07.2016 n. 13723.
Il thema decidendum vedeva contestati all'avvocato Tizio dal Coa due illeciti disciplinari.
Il primo, relativo all'assunzione di mandato professionale da parte di Caio per assisterlo in un procedimento civile dinnanzi al Tribunale contro Caietto e all'assunzione successivamente di incarico professionale da parte di Tizietto e altri, per essere assistiti in un procedimento civile dinnanzi al medesimo tribunale contro Caia, nonostante che egli avesse assistito il sig. Caietto in un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo dinnanzi al Tribunale medesimo promosso e entrambi i signori Tizi in altro giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo.
Il secondo illecito, relativo al fatto che il Tizio aveva rinunciato ai mandati conferitigli dai signori Tizi nei detti giudizi di opposizione, e, senza che fosse trascorso un biennio dalla cessazione di tali incarichi, ed essendo egli a conoscenza di notizie acquisite in ragione del rapporto professionale intercorso con i Tizi, per avere agito giudizialmente ed esecutivamente per il recupero del proprio credito professionale. Il Coa affermava, quindi, comminava la sanzione della censura. L'avvocato Tizio proponeva ricorso al Cnf che lo rigettava e quindi egli si rivolgeva alla Cassazione.
I giudici di piazza Cavour hanno preliminarmente ribadito che in tema di procedimento disciplinare a carico di u avvocato, la necessaria correlazione tra addebito contestato e decisione disciplinare non rileva in termini puramente formali, rispondendo tale regola all'esigenza di garantire pienezza ed effettività del contraddittorio sul contenuto dell'accusa e a evitare che l'incolpato sia condannato per un fatto rispetto al quale non abbia potuto esplicare difesa.
Pertanto una eventuale modifica, ad opera del giudice, della qualificazione giuridica dell'incolpazione non andrà a determinare «alcuna lesione del diritto di difesa ove siano rimasti immutati gli elementi essenziali della materialità del fatto addebitato» (si veda anche: Ss.uu., n. 11024/2014) (articolo ItaliaOggi Sette del 18.07.2016).

EDILIZIA PRIVATA: Costruzione in area soggetta a vincolo paesaggistico: motivazione idonea a sorreggere un provvedimento di diniego.
Per aversi motivazione idonea a sorreggere un provvedimento di diniego del richiesto nulla osta per la costruzione in area soggetta a vincolo paesaggistico, l'Amministrazione non può limitare la sua valutazione al mero riferimento ad un pregiudizio ambientale, utilizzando espressioni vaghe o formule stereotipate. Tale (idonea) motivazione deve contenere una sufficiente esternazione delle specifiche ragioni per le quali si ritiene che un'opera non sia idonea ad inserirsi nell'ambiente, attraverso l'individuazione degli elementi di contrasto; pertanto, occorre un concreto ed analitico accertamento del disvalore delle valenze paesaggistiche.
In materia di tutela paesaggistica, vige un costante orientamento giurisprudenziale nell’ambito del quale si è avuto modo di precisare che la discrezionalità tecnica di cui gode la Soprintendenza è temperata dall’onere, gravante nei confronti di quest’ultima, di corredare il provvedimento di diniego del parere di ammissibilità paesaggistica, con un percorso motivazionale, riferito al concreto, alla realtà dei fatti e alle ragioni ambientali ed estetiche che sconsigliano alla P.A. di non ammettere un determinato intervento.
Si è sancito che affermare che un determinato intervento compromette gli equilibri ambientali della zona interessata per le incongruenze fra tipologia e materiali o per l’impatto dell’opera, non spiega alcunché sul futuro danno alle bellezze ambientali che ne deriverebbe, risultando necessario un concreto ed analitico accertamento del disvalore delle valenze paesaggistiche.
Alcune recenti pronunce non solo hanno ritenuto esistente la necessità di un onere di motivazione particolarmente intenso, ma hanno sancito l’indispensabilità circa lo svolgimento di un’ampia e compiuta istruttoria che risulti comprensiva dell’indicazione delle possibili forme di mitigazione degli interventi richiesti.
Si è così affermata la necessità, quanto meno in particolari circostanze, che il parere negativo debba indicare quale tipo di accorgimento tecnico o, al limite, di modifica progettuale potrebbe far conseguire all'interessato l'autorizzazione paesaggistica, in quanto la tutela del preminente valore del paesaggio non deve necessariamente coincidere con la sua statica salvaguardia, ma richiede interventi improntati a fattiva collaborazione delle autorità preposte alla tutela paesaggistica, funzionali a conformare le iniziative edilizie al rispetto dei valori estetici e naturalistici insiti nel bene paesaggio.
E’ evidente che con le pronunce sopra citate si è generalizzato l'obbligo di dissenso costruttivo, sinora codificato soltanto nell'ambito della conferenza di servizi dall'art. 14-quater, comma 1, della L. n. 241/1990, obbligo che deve ritenersi sussistente quanto meno in situazioni come quelle in esame nell’ambito delle quali l’intervento risultava assentibile sulla base delle prescrizioni urbanistiche e l’impatto ambientale risultava comunque attenuato.

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1.3 E’, peraltro, necessario premettere che in materia di tutela paesaggistica, vige un costante orientamento giurisprudenziale nell’ambito del quale si è avuto modo di precisare che la discrezionalità tecnica di cui gode la Soprintendenza è temperata dall’onere, gravante nei confronti di quest’ultima, di corredare il provvedimento di diniego del parere di ammissibilità paesaggistica, con un percorso motivazionale, riferito al concreto, alla realtà dei fatti e alle ragioni ambientali ed estetiche che sconsigliano alla P.A. di non ammettere un determinato intervento.
Si è sancito che affermare che un determinato intervento compromette gli equilibri ambientali della zona interessata per le incongruenze fra tipologia e materiali o per l’impatto dell’opera, non spiega alcunché sul futuro danno alle bellezze ambientali che ne deriverebbe, risultando necessario un concreto ed analitico accertamento del disvalore delle valenze paesaggistiche (TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 10.11.2010, n. 23751, TAR Veneto, sentenze n. 1394/2013; n. 44/2014; n. 48/2014; n. 51/2014; n. 331/2014, TAR Friuli Venezia Giulia n. 426/2013 e TAR Lombardia, Brescia sentenza n. 492/2013).
1.4 Alcune recenti pronunce, non solo hanno ritenuto esistente la necessità di un onere di motivazione particolarmente intenso, ma hanno sancito l’indispensabilità circa lo svolgimento di un’ampia e compiuta istruttoria che risulti comprensiva dell’indicazione delle possibili forme di mitigazione degli interventi richiesti (Cons. Stato Sez. VI, 24.03.2014, n. 1418, TAR Sicilia Palermo Sez. I 07.03.2007 n. 751 e TAR Sicilia Palermo Sez. I 28.05.2005 n. 1671).
1.5 Si è così affermata la necessità, quanto meno in particolari circostanze, che il parere negativo debba indicare quale tipo di accorgimento tecnico o, al limite, di modifica progettuale potrebbe far conseguire all'interessato l'autorizzazione paesaggistica, in quanto la tutela del preminente valore del paesaggio non deve necessariamente coincidere con la sua statica salvaguardia, ma richiede interventi improntati a fattiva collaborazione delle autorità preposte alla tutela paesaggistica, funzionali a conformare le iniziative edilizie al rispetto dei valori estetici e naturalistici insiti nel bene paesaggio.
1.6 E’ evidente che con le pronunce sopra citate si è generalizzato l'obbligo di dissenso costruttivo, sinora codificato soltanto nell'ambito della conferenza di servizi dall'art. 14-quater, comma 1, della L. n. 241/1990, obbligo che deve ritenersi sussistente quanto meno in situazioni come quelle in esame nell’ambito delle quali l’intervento risultava assentibile sulla base delle prescrizioni urbanistiche e l’impatto ambientale risultava comunque attenuato.
1.7 Nel caso di specie, infatti, era stata la stessa Soprintendenza ad ammettere, come è possibile evincere dal provvedimento impugnato, che l’impatto visivo dell’opera risultava percepibile solo in misura attenuata per via delle schermature presenti ai lati della carreggiata relativa alla superstrada Firenze-Siena.
1.8 Dette circostanze hanno inevitabilmente l’effetto di incidere sull’onere motivazionale, dovendosi ritenere che l’Amministrazione era obbligata a considerare eventuali modifiche che, in quanto tali, avrebbero consentito di superare l’impatto ambientale (peraltro circoscritto) e riferito ad un opera che, peraltro, era risultata oggetto di un precedente parere favorevole emesso dall’Amministrazione comunale.
1.9 Ne consegue che la mancata indicazione di detti correttivi, in una fattispecie come quella in esame, si traduce in un difetto di motivazione del diniego di autorizzazione che non consente di comprendere al privato quali azioni avrebbe potuto adottare al fine di renderlo compatibile con l’ambiente circostante.
2. Detto difetto di motivazione è ancora più evidente nel diniego dell’autorizzazione unica emanato dal Comune di Impruneta e impugnato con i successivi motivi aggiunti, nell’ambito del quale lo stesso Comune si è limitato a dare atto del parere negativo della Soprintendenza, senza esprimere le ragioni del dissenso e, quindi, le modifiche progettuali necessarie ai fini dell'assenso ai sensi dell’art. 14-quater della L. n. 241/1990.
2.1 E’ evidente che il comportamento posto in essere dalla Soprintendenza, nemmeno presente alla conferenza di Servizi, ha determinato la violazione dell’art. 14-quater sopra citato, non prevedendo elementi gli correttivi richiesti dalla stessa disposizioni che, in quanto tali, avrebbero potuto portare ad una soluzione condivisa (sulla necessità del dissenso costruttivo si vada Cons. Stato Sez. III, 23.01.2014, n. 350 Cons. Stato Sez. V, 24.01.2013, n. 434 TAR Campania Salerno Sez. I, 13.01.2016, n. 19 e TAR Calabria Catanzaro Sez. I, 12.01.2011, n. 32 Tar Puglia-Lecce, sez. I, n. 3730/2008) (
TAR Toscana, Sez. III, sentenza 06.07.2016 n. 1155 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZSIIl fatturato aziendale non limita la concorrenza. Gare: legittima richiesta del requisito.
Legittimo il requisito del fatturato aziendale se è adeguatamente motivato; non ha effetti preclusivi della concorrenza per le piccole imprese, se non eccede i 10 milioni all'anno.

È quanto afferma il TAR Toscana, Sez. III, con la sentenza 06.07.2016 n. 1129, che offre una esegesi della disposizione del vecchio codice dei contratti pubblici in tema di capacità economica e finanziaria.
Si tratta dell'articolo 41, comma 2, del codice De Lise del 2006, che disciplina la capacità economica e finanziaria per gli appalti di servizi, prevedendo, all'ultimo periodo, che «sono illegittimi i criteri che fissano, senza congrua motivazione, limiti di accesso connessi al fatturato aziendale».
Nel ricorso, relativo a un appalto di servizi sanitari da 560 milioni divisi in tre lotti, si eccepisce sia la richiesta di fatturato specifico come requisito di partecipazione, sia l'entità dello stesso, tale da determinare una restrizione della possibilità di partecipazione per le piccole e medie imprese. Il collegio toscano respinge il ricorso affermando che la norma del vecchio codice, «pur formulata in termini negativi, volta al positivo vuol dire che il fatturato aziendale può essere preso a riferimento per la partecipazione a gare purché vi sia sul punto una congrua motivazione».
I giudici condividono la scelta di chiedere il fatturato aziendale, anche in ragione della delicatezza delle attività da affidare e aggiungono che anche l'entità del requisito sostanzialmente è corretta per quanto consistente in valore assoluto (25 milioni per ciascuno dei lotti). Per il Tar i requisiti non appaiono illogici o eccessivi se si tiene conto dell'ammontare complessivo dei due dei tre lotti messi a gara (132 milioni e 186 milioni di euro) e che il fatturato richiesto è spalmato su tre anni, e quindi richiede un fatturato annuo di poco superiore a 8 milioni di euro.
Non si determina alcun effetto preclusivo della concorrenza dal momento che i limiti dimensionali per qualificare un operatore economico come piccola impresa arriva fino a 10 milioni di euro di fatturato annuo, anche se congiunto al numero di dipendenti (in base al dm Attività produttive 18.04.2005). Da ciò la legittimità della richiesta di fatturato aziendale (articolo ItaliaOggi del 22.07.2016).
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MASSIMA
7.1 – La gara oggetto del presente giudizio, relativa a servizi di pulizia e sanificazione degli enti del Servizio Sanitario ed altre strutture, ha un valore complessivo di € 560.000.000,00 ed è suddivisa in tre lotti, di cui il lotto 1 per un importo di € 132.000.000,00 e il lotto 2 per un importo di € 186.000.000,00 (il lotto 3 non è invece oggetto di contestazione).
Ai fini della partecipazione alla gara il disciplinare prevede che i concorrenti possiedano un fatturato per servizi di pulizia e sanificazione svolti nel triennio 2013–2015 presso strutture pubbliche o private pari almeno a € 25.000.000,00 tanto per il lotto 1 quanto per il lotto 2.
Parte ricorrente contesta, in primo luogo, la richiesta di fatturato specifico come requisito di partecipazione e contesta poi anche l’ammontare dello stesso, che determina a suo avviso una forte restrizione della possibilità di partecipazione per le piccole e medie imprese.
Il profilo di censura è infondato.
L’art. 41, comma 2, del d.lgs. n. 163 del 2006, che disciplina la capacità economica e finanziaria per gli appalti di servizi, prevede, all’ultimo periodo, che “sono illegittimi i criteri che fissano, senza congrua motivazione, limiti di accesso connessi al fatturato aziendale”. La norma, pur formulata in termini negativi, volta al positivo vuol dire che il fatturato aziendale può essere preso a riferimento per la partecipazione a gare purché vi sia sul punto una “congrua motivazione”.
La delibera di indizione della gara n. 163 del 2016 motiva specificamente sul punto, chiarendo di aver posto come requisito di partecipazione l’aver svolto attività nel settore specifico delle pulizie e sanificazioni in ambito sanitario “per motivazioni legate prevalentemente al peculiare settore di appartenenza delle Aziende interessate”, dal momento che “l’affidamento oggetto della presente procedura è destinato, infatti, a soddisfare le esigenze di approvvigionamento del servizio di pulizie e sanificazione di Aziende/enti sanitari regionali” e quindi “assume fondamentale importanza la possibilità di selezionare attraverso la presente gara operatori economici dotati di adeguate capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzative, idonee a garantire un adeguato ed elevato livello qualitativo dei servizi, in considerazione anche della rilevanza e della delicatezza del servizio in ambito sanitario”.
Parte ricorrente tenta di smontare queste argomentazioni, evidenziando che le pulizie assumono le stesse caratteristiche in qualunque contesto si svolgano; ciò non appare tuttavia convincente, il servizio di pulizia e sanificazione in ambito sanitario, ed ospedaliero in ispecie, assumendo una forte e peculiare connotazione, certo diversa dalla pulizia di uffici o ambienti civili, legata com’è all’igiene di ambienti nei quali assume particolare importanza la finalità di evitare il possibile diffondersi di infezioni e garantire la salute dei pazienti, con le cognizioni tecniche ed esperienziali che a ciò si connettono.
Dunque alla luce della motivazioni fornita,
appare giustificabile che si prenda in esame il fatturato pregresso dei concorrenti e che lo stesso guardi non già all’aver svolto attività di pulizia in generale, ma specifica attività di sanificazione e pulizia di ambiti sanitari pubblici o privati.
Quanto ai livelli dimensionali del fatturato, osserva il Collegio che gli stessi, per quanto consistenti in valore assoluto (25 milioni per ciascuno dei lotti), non appaiono illogici o eccessivi se si tiene conto dell’ammontare complessivo dei servizi a gara (132 milioni e 186 milioni di euro) e se si evidenzia poi che il fatturato richiesto è spalmato su tre anni, e quindi richiede un fatturato annuo di poco superiore a 8 milioni di euro, ammontare non particolarmente preclusivo alla concorrenza, se si tiene conto che i limiti dimensionali per qualificare un operatore economico come “piccola impresa” arriva fino a 10 milioni di euro di fatturato annuo, anche se congiunto a numero di dipendenti (DM Attività Produttive 18.04.2005).

PUBBLICO IMPIEGOIncompatibili malattia e attività fisica. Cassazione. In caso contrario viene compromesso il rapporto tra dipendente e azienda e ci sono le condizioni per licenziare per giusta causa.
Il dipendente che durante il periodo di malattia (dovuta a discopatie e a lombalgie curate chirurgicamente) assume una condotta molto imprudente per la propria salute (consistente nel sollevamento da solo di 3 bombole di gas da 30 chilogrammi e di una quarta da 40 chili, con l’aiuto di un collega) viola il dovere di lealtà e correttezza nei confronti dell’azienda. Questa violazione compromette in maniera irrimediabile il rapporto con l’azienda e consente il licenziamento per giusta causa.

Con questa decisione la Corte di Cassazione - Sez. lavoro (sentenza 05.07.2016 n. 13676) ha rigettato il ricorso promosso da un lavoratore che è stato licenziato per essere stato scoperto a sollevare delle bombole di gas durante il periodo di assenza per malattia.
La sentenza della Suprema corte ricorda che, in tema di licenziamento per giusta causa, il dipendente deve astenersi dal porre in essere non solo le condotte espressamente vietate dalla legge o dal Ccnl, ma deve avere l’attenzione di evitare ogni condotta che, per la sua natura e per le conseguenze che può comportare, risulti oggettivamente in contrasto con gli obblighi connessi al rapporto di lavoro.
In altre parole, il dipendente deve osservare i doveri di correttezza e buona fede, previsti dagli articoli 1175 e 1375 del codice civile, anche nelle condotte extralavorative, allo scopo di non arrecare danno al proprio datore di lavoro.
Non basta la violazione di tali doveri, prosegue la sentenza, per giustificare il recesso in tronco dal rapporto di lavoro; è necessario altresì che la condotta illecita si traduca in una grave negazione dell’elemento fiduciario che deve caratterizzare il rapporto di lavoro, tenuto conto delle circostanze in cui questa è stata realizzata, del grado di affidamento richiesto dalle mansioni del dipendente, e dell’intensità dell’elemento intenzionale.
La compromissione dell’elemento fiduciario, chiarisce ancora la sentenza, si verifica anche quando la condotta del lavoratore possa far ritenere, per la sua gravità, che la prosecuzione del rapporto di lavoro possa risultare pregiudizievole per gli scopi aziendali.
Con riferimento al caso sottoposto alla propria attenzione, la Corte sottolinea che tali parametri normativi e giurisprudenziali sono stati correttamente applicati dai giudici di appello e, quindi, conferma la decisione del grado precedente, che aveva convalidato il recesso.
La sentenza precisa, inoltre, che la condotta del dipendente non deve considerarsi come una forma di violazione del dovere di fedeltà ma, piuttosto, è riconducibile alla nozione di slealtà, in quanto consente di mettere in dubbio la correttezza dei rapporti futuri tra il lavoratore e l’azienda e compromette l’elemento fiduciario del rapporto
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.07.2016).
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MASSIMA
Il quarto motivo, relativo a violazione dell'art. 2119 c.c. e carenza di motivazione, per inesistenza dei requisiti oggettivi, soggettivi e di proporzionalità della giusta causa di licenziamento, anche considerato il quindicennale rapporto di lavoro tra le parti, è infondato.
E' noto, in tema di licenziamento per giusta causa, che il lavoratore debba astenersi dal porre in essere non solo i comportamenti espressamente vietati ma anche qualsiasi altra condotta che, per la natura e per le possibili conseguenze, risulti in contrasto con gli obblighi connessi al suo inserimento nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa, dovendosi integrare l'art. 2105 c.c. con gli artt. 1175 e 1375 c.c., che impongono l'osservanza dei doveri di correttezza e di buona fede anche nei comportamenti extralavorativi, sì da non danneggiare il datore di lavoro (Cass. 10.02.2015, n. 2550).
D'altro canto,
la giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell'elemento fiduciario, dovendo il giudice valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all'intensità del profilo intenzionale, dall'altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell'elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare (Cass. 18.09.2012, n. 15654; Cass. 02.03.2011, n. 5095; Cass. 13.12.2010, n. 25144).
Inoltre,
la sussistenza in concreto di una giusta causa di licenziamento va accertata in relazione sia della gravità dei fatti addebitati al lavoratore (desumibile dalla loro portata oggettiva e soggettiva, dalle circostanze nelle quali sono stati commessi nonché dall'intensità dell'elemento intenzionale), sia della proporzionalità tra tali fatti e la sanzione inflitta: per la quale ultima, rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali, essendo determinante, in tal senso, la potenziale influenza del comportamento del lavoratore, suscettibile, per le concrete modalità e il contesto di riferimento, di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento, denotando scarsa inclinazione all'attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza (Cass. 16.10.2015, n. 21017; Cass. 04.03.2013, n. 5280; Cass. 13.02.2012, n. 2013).
Ebbene, nella valutazione che le pertiene, in ordine alla verifica della concretizzazione operata dall'interprete della giusta causa di licenziamento quale clausola generale, tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza generale e dei principi tacitamente richiamati dalla norma, quindi mediante specificazioni che hanno natura giuridica e la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge (Cass. 26.04.2012, n. 6498; Cass. 02.03.2011, n. 5095; Cass. 13.12.2010, n. 25144), reputa questa Corte che la Corte d'appello sarda abbia fatto corretta applicazione dei suenunciati principi di diritto.
E che essa abbia pure accertato la ricorrenza concreta degli elementi del parametro normativo, sotto il profilo del giudizio di fatto demandatole, incensurabile in cassazione se, come nel caso in esame, privo di errori logici e giuridici (Cass. 26.04.2012, n. 6498; Cass. 02.03.2011, n. 5095; Cass. 13.12.2010, n. 25144): e ciò anche in specifico riferimento al requisito di proporzionalità, che esige valutazione non astratta dell'addebito, ma attenta ad ogni aspetto concreto del fatto, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico della sua gravità, rispetto ad un'utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi rilievo alla configurazione delle mancanze operata dalla contrattazione collettiva, all'intensità dell'elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla durata dello stesso, all'assenza di pregresse sanzioni, alla natura e alla tipologia del rapporto medesimo (Cass. 13.02.2012, n. 2013).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAIl principio della necessaria motivazione degli atti amministrativi, scolpito nell’art. 3 della legge n. 241/1990, non è altro che il precipitato dei più generali principi di buona amministrazione, correttezza e trasparenza, cui la p.a. deve uniformare la sua azione e rispetto ai quali sorge per il privato la legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni giustificative del provvedimento incidente sui suoi interessi, anche al fine di poter esercitare efficacemente le prerogative di difesa innanzi all’autorità giurisdizionale.
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In tale ottica, è carente di motivazione il diniego di permesso di costruire fondato su un generico contrasto dell’opera progettata con leggi, regolamenti o strumenti urbanistici, dovendo invece il diniego stesso soffermarsi sulle disposizioni normative e/o sulle previsioni di riferimento contenute negli strumenti urbanistici che si assumano ostative al rilascio del titolo, in modo da consentire all’interessato, da un lato, di rendersi conto degli impedimenti che si frappongono alla realizzazione dell’opera e, dall’altro, di confutare in giudizio, in maniera pienamente consapevole ed esaustiva, la legittimità del provvedimento impugnato.
Di conseguenza, la determinazione reiettiva del permesso di costruire, quando si limita, come nella specie, ad un’apodittica affermazione di principio sulla contrarietà dell’attività edilizia ad uno strumento urbanistico quale il piano di lottizzazione, risulta viziata da difetto di motivazione, atteso che l’obbligo di motivazione legislativamente imposto va declinato in adeguate argomentazioni che chiariscano la non compatibilità dell’opera con le singole prescrizioni di piano preposte a tutela dell’ordinato sviluppo del territorio.
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E' inammissibile l’integrazione postuma della motivazione di un atto amministrativo, realizzata mediante gli scritti difensivi predisposti dall’amministrazione resistente, e ciò anche dopo le modifiche apportate alla legge n. 241/1990 dalla legge n. 15/2005, rimanendo sempre valido il principio secondo cui la motivazione del provvedimento non può essere integrata nel corso del giudizio con la specificazione di elementi di fatto, dovendo la motivazione precedere e non seguire il provvedimento amministrativo, a tutela del buon andamento amministrativo e dell’esigenza di delimitazione del controllo giudiziario.
Invero, la norma contenuta nell’art. 3 della legge n. 241/1990, che prescrive che ogni provvedimento amministrativo sia motivato, non è riconducibile a quelle “sul procedimento o sulla forma degli atti”, poiché la motivazione non ha alcuna attinenza né con lo svolgimento del procedimento né con la forma degli atti in senso stretto, riguardando, più precisamente, l’indicazione dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche “che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria”; tant’è che nella stessa giurisprudenza comunitaria la motivazione viene configurata come requisito di “forma sostanziale”.
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Non merita accoglimento la connessa istanza risarcitoria, peraltro non provata nel quantum, atteso che deve escludersi che l’annullamento di atti illegittimi per difetto di motivazione possa di per sé comportare il diritto al risarcimento dei danni subiti, giacché tale vizio non impedisce (ma anzi consente) il riesercizio del potere, con la conseguenza che la domanda risarcitoria non può che essere valutata all’esito dell’eventuale nuova attivazione del potere.

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... per l'annullamento:
a) della nota dirigenziale del Comune di Giugliano in Campania n. 32/N/2013 del 25.11.2013, con cui è stato disposto il diniego del permesso di costruire richiesto dalla società ricorrente per la realizzazione di un impianto di distribuzione carburanti;
b) della nota dirigenziale del Comune di Giugliano in Campania prot. n. 45033 del 05.09.2013, con cui sono stati comunicati i motivi ostativi all’accoglimento della richiesta di permesso di costruire;
c) di tutti gli atti preordinati, connessi e conseguenziali;
...
Considerato che:
- si palesa fondata la prima censura, con cui parte ricorrente denuncia il difetto di motivazione da cui sarebbe affetto il contestato diniego, in termini di mancata indicazione degli specifici parametri dispositivi del piano di lottizzazione ritenuti in concreto violati;
- invero, vale premettere che il principio della necessaria motivazione degli atti amministrativi, scolpito nell’art. 3 della legge n. 241/1990, non è altro che il precipitato dei più generali principi di buona amministrazione, correttezza e trasparenza, cui la p.a. deve uniformare la sua azione e rispetto ai quali sorge per il privato la legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni giustificative del provvedimento incidente sui suoi interessi, anche al fine di poter esercitare efficacemente le prerogative di difesa innanzi all’autorità giurisdizionale (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 22.09.2005 n. 4982; TAR Lazio Roma, Sez. I-ter, 31.01.2011 n. 841; TAR Campania Napoli, Sez. VIII, 25.03.2009 n. 1610);
- in tale ottica, è carente di motivazione il diniego di permesso di costruire fondato su un generico contrasto dell’opera progettata con leggi, regolamenti o strumenti urbanistici, dovendo invece il diniego stesso soffermarsi sulle disposizioni normative e/o sulle previsioni di riferimento contenute negli strumenti urbanistici che si assumano ostative al rilascio del titolo, in modo da consentire all’interessato, da un lato, di rendersi conto degli impedimenti che si frappongono alla realizzazione dell’opera e, dall’altro, di confutare in giudizio, in maniera pienamente consapevole ed esaustiva, la legittimità del provvedimento impugnato; di conseguenza, la determinazione reiettiva del permesso di costruire, quando si limita, come nella specie, ad un’apodittica affermazione di principio sulla contrarietà dell’attività edilizia ad uno strumento urbanistico quale il piano di lottizzazione, risulta viziata da difetto di motivazione, atteso che l’obbligo di motivazione legislativamente imposto va declinato in adeguate argomentazioni che chiariscano la non compatibilità dell’opera con le singole prescrizioni di piano preposte a tutela dell’ordinato sviluppo del territorio (cfr. TAR Marche, Sez. I, 09.10.2015 n. 732; TAR Sicilia Palermo, Sez. II, 23.06.2015 n. 1504; TAR Campania Napoli, Sez. VII, 09.11.2012 n. 4531);
- né le deficienze motivazionali delle gravate determinazioni comunali possono essere colmate dalla relazione istruttoria depositata dall’amministrazione resistente in data 18.04.2016, nella quale si prospetta essenzialmente che l’intervento progettato si porrebbe in contrasto con l’art. 16 del piano di lottizzazione (come recepito nella corrispondente convenzione urbanistica), configurandosi quale variante planovolumetrica allo strumento urbanistico attuativo;
- tale notazione difensiva, estranea al corpo motivazionale degli atti in contestazione, non riesce ad introdurre idonei elementi di supporto al disposto diniego di permesso di costruire. Infatti, è inammissibile l’integrazione postuma della motivazione di un atto amministrativo, realizzata mediante gli scritti difensivi predisposti dall’amministrazione resistente, e ciò anche dopo le modifiche apportate alla legge n. 241/1990 dalla legge n. 15/2005, rimanendo sempre valido il principio secondo cui la motivazione del provvedimento non può essere integrata nel corso del giudizio con la specificazione di elementi di fatto, dovendo la motivazione precedere e non seguire il provvedimento amministrativo, a tutela del buon andamento amministrativo e dell’esigenza di delimitazione del controllo giudiziario (orientamento consolidato: cfr. ex multis Consiglio di Stato, Sez. VI, 18.10.2011 n. 5598 e 30.06.2011 n. 3882; TAR Campania Salerno, Sez. II, 15.02.2012 n. 218; TAR Campania Napoli, Sez. VII, 10.06.2011 n. 3081);
- invero, la norma contenuta nell’art. 3 della legge n. 241/1990, che prescrive che ogni provvedimento amministrativo sia motivato, non è riconducibile a quelle “sul procedimento o sulla forma degli atti”, poiché la motivazione non ha alcuna attinenza né con lo svolgimento del procedimento né con la forma degli atti in senso stretto, riguardando, più precisamente, l’indicazione dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche “che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria”; tant’è che nella stessa giurisprudenza comunitaria la motivazione viene configurata come requisito di “forma sostanziale” (cfr. TAR Sicilia Catania, Sez. IV, 29.03.2012 n. 900);
- ad ogni modo, tale tardivo supporto motivazionale si presenta anche insufficiente per fornire giustificazione alla reiezione dell’istanza della ricorrente, se solo si pone mente al fatto che l’art. 16 del piano di lottizzazione non si occupa di varianti planovolumetriche, bensì dei cambiamenti di destinazione degli edifici, e che il precedente art. 15 consente espressamente, sebbene entro certi limiti, l’introduzione delle predette varianti nella fase di esecuzione del piano;
- discende da quanto esposto l’illegittimità per carenza motivazionale delle gravate note dirigenziali del Comune di Giugliano in Campania, che meritano di essere annullate, con assorbimento delle rimanenti censure meno invasive quivi non esaminate;
- viceversa, non merita accoglimento la connessa istanza risarcitoria, peraltro non provata nel quantum, atteso che deve escludersi che l’annullamento di atti illegittimi per difetto di motivazione possa di per sé comportare il diritto al risarcimento dei danni subiti, giacché tale vizio non impedisce (ma anzi consente) il riesercizio del potere, con la conseguenza che la domanda risarcitoria non può che essere valutata all’esito dell’eventuale nuova attivazione del potere (orientamento consolidato: cfr. per tutte TAR Sicilia Catania, Sez. I, 14.04.2011 n. 927) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 05.07.2016 n. 3326 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

SICUREZZA LAVORO: Responsabilità limitata per il coordinatore. Sicurezza. Deve intervenire solo per rischi gravi.
Il coordinatore per l’esecuzione ha una posizione di garanzia e in quanto tale non è tenuto a verificare continuamente di persona il rispetto delle regole di sicurezza in cantiere. Il suo intervento diretto, che può determinare la sospensione dei lavori, è consentito solo in caso di pericolo grave e imminente, direttamente riscontrato, come previsto dall’articolo 92, lettera f, del Dlgs 81/2008.
Ruolo e responsabilità del coordinatore per l’esecuzione sono stati puntualizzati dalla Corte di Cassazione, Sez. IV penale, nella sentenza 04.07.2016 n. 27165, relativa a un infortunio mortale avvenuto in un cantiere edile per cui nei primi due gradi di giudizio è stato condannato anche il coordinatore.
Con posizione discordante da quella del tribunale e della Corte d’appello, la Cassazione precisa che questa figura ha «una posizione di garanzia che non va confusa con quella del datore di lavoro...in altri termini non è il controllore del datore di lavoro, ma il gestore del rischio interferenziale», cioè il pericolo che si può presentare quando ci sono più imprese coinvolte simultaneamente nei lavori. Questa attività viene svolta per atti formali, con contestazione alle imprese e informazione al committente delle irregolarità riscontrate, ma la sospensione dei lavori può essere decisa solo a fronte di pericolo grave e imminente. «Solo qualora l’infortunio sia riconducibile a carenze organizzative generali di immediata percettibilità -scrivono i giudici- sarà dunque configurabile anche la responsabilità del coordinatore».
Quanto all’attività di formazione e informazione dei lavoratori, il coordinatore deve verificare il rispetto delle norme a livello documentale, ma la responsabilità e l’obbligo di verifica che la formazione sia effettivamente svolta ricade sul datore di lavoro
(articolo Il Sole 24 Ore del 05.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Messaggi nella mailing list tutelati come corrispondenza privata. Corte d’appello. Gli scambi non possono essere utilizzate senza limiti in una procedura di licenziamento.
I messaggi di posta elettronica scambiati tra dipendenti nell’ambito di una mailing list riservata agli aderenti al sindacato costituiscono corrispondenza epistolare privata e, in quanto tali, rientrano nella protezione delle comunicazioni di natura personale.
È questo il principio affermato dalla Corte d’appello di Milano con sentenza n. 439/2016, secondo cui la pluralità dei destinatari della mailing list non fa venir meno il carattere di corrispondenza chiusa e inviolabile delle comunicazioni scambiate tra gli aderenti al gruppo, in quanto i messaggi diffusi grazie alla rete informatica sono inoltrati non a una moltitudine indistinta di destinatari.
Da queste premesse, ad avviso della Corte d’appello, deriva che anche tali comunicazioni telematiche ricadono nel regime di tutela previsto, tra l’altro, dall’articolo 15 della Costituzione, a norma del quale la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili.
A ulteriore conforto di questa tesi, la Corte meneghina si rifà a precedenti prese di posizione del Garante della privacy, secondo cui i messaggi che circolano attraverso mailing list e newsgroup protetti da una password di accesso o, comunque, delimitati agli aderenti a una community devono considerarsi corrispondenza privata.
Il caso affrontato dalla Corte d’appello ha riguardato il licenziamento per giusta causa irrogato nei confronti di un pilota per aver istigato i colleghi ad assumere forme di lotta sindacale in contrasto con gli obblighi di lavoro e per avere, in questo modo, arrecato turbativa al regolare svolgimento dell’attività di volo, nonché per avere sviluppato affermazioni denigratorie e minacciose nei confronti di altri piloti.
A sostegno delle ragioni fondanti il licenziamento, la compagnia aerea ha prodotto i messaggi scambiati sulla mailing list degli aderenti al sindacato dei piloti, affermando che non è stata violata la riservatezza del gruppo e che, quindi, tali documenti erano pienamente utilizzabili nell’ambito del processo per essere stati consegnati da un altro pilota iscritto alla medesima “chat”.
Sulla scorta delle considerazioni sulla natura dei messaggi scambiati, i giudici hanno ritenuto che la maggior parte delle comunicazioni provenienti dalla mailing list ristretta agli aderenti del sindacato non potesse essere utilizzata per valutare la validità del licenziamento. Potevano, invece, essere esaminati nell’ambito del giudizio solo due messaggi con specifici apprezzamenti negativi nei confronti di un altro pilota inserito nella mailing list, in quanto quest’ultimo ha a sua volta promosso una causa risarcitoria per mobbing nei confronti della compagnia aerea.
La Corte d’appello ha confermato l’illegittimità del licenziamento già stabilito dal tribunale, sia in quanto la mailing list nella quale sono stati diffusi i messaggi costituiva un gruppo di discussione chiuso e riservato agli aderenti in un contesto prettamente sindacale, sia in quanto le affermazioni contestate al pilota sono intervenute in un periodo di forte contrapposizione tra il management aziendale e i lavoratori
(articolo Il Sole 24 Ore del 05.07.2016).

INCARICHI PROFESSIONALIAvvocati, illecito permanente. Nel caso di ritenzione indebita di somme del cliente. La Corte di cassazione a sezioni unite ha sciolto un dubbio di carattere deontologico.
Nel caso in cui un avvocato ritenga indebitamente una somma spettante al cliente si configurerà un illecito deontologico avente carattere permanente.

È quanto stabilito dai giudici delle Sezz. unite civili della Corte di Cassazione con la sentenza 30.06.2016 n. 13379.
I giudici di piazza Cavour sono stati chiamati ad esprimersi sul caso che vedeva un avvocato proporre ricorso per la Cassazione di una decisione del Cnf con la quale veniva rigettato il ricorso dal medesimo proposto avverso la decisione dei Coa, con la quale lo stesso avvocato era stato ritenuto responsabile dell'indebita ritenzione di somme riscosse per conto di un cliente, violando, pertanto, gli articoli 7, comma 1 (Dovere di fedeltà), 8 (Dovere di diligenza), 38, comma 1 (Inadempimento al mandata), 41, commi 1, 2 e 3 (Gestione di denaro altrui), con irrogazione della sospensione dall'esercizio della professione per mesi 11.
Il Cnf riteneva infondata l'eccezione di prescrizione formulata dall'avvocato sul rilievo che la violazione deontologica risultava integrata da una condotta protrattasi nel tempo, richiamando in proposito l'orientamento espresso con le decisioni n. 208 dei 28/12/2012, n. 55 del 10/4/2013, n. 132 dei 08/09/2011, nonché di queste Ss.uu. n. 14620 dell'01/10/2003.
Secondo gli Ermellini ex art. 51 del regio decreto-legge 27.11.1933, n. 1578, «l'azione disciplinare nei confronti dell'avvocato si prescrive nel termine di cinque anni, che decorrono dal giorno di realizzazione dell'illecito, ovvero, se questo consista in una condotta protratta, dalla data di cessazione della condotta stessa».
A parere delle Sezioni unite nel caso di specie la condotta dell'avvocato presentava i connotati tipici della continuità della violazione deontologica, per tale sua natura destinata a protrarsi fino alla restituzione delle somme che il medesimo avrebbe dovuto mettere a disposizione del cliente.
Quindi ne consegue che il protrarsi di tale condotta fino alla decisione del Coa è ostativa al decorso del termine prescrizionale di cui all'art. 51 cit., osservando, inoltre, che analogo carattere permanente va riconosciuto alle correlate e contestate violazioni di cui agli artt. 7 (dovere di fedeltà), 8 (diligenza), 38 (inadempimento del mandato) (articolo ItaliaOggi Sette del 18.07.2016).

VARISullo stalking basta l’accusa della persona perseguitata. Determinante la valutazione del giudice sulla credibilità.
Rapporti di vicinato. Il reato si consuma anche nel «tormento» dato a estranei.

Commette il reato di stalking chi esaspera i vicini tanto da provocare in loro gravi stati d’ansia e costringerli a cambiare abitudini di vita, assentandosi dal lavoro e assumendo tranquillanti. Un avvertimento a tutti i disturbatori professionali che viene dalla Corte di Cassazione - Sez. V penale (sentenza 28.06.2016 n. 26878).
La pronuncia conferma l’applicabilità dell’articolo 612-bis del Codice penale nei rapporti di vicinato e, in particolar modo, in quelli tra condòmini. Si parla di “stalking condominiale”, che si verifica tutte le volte in cui il condòmino molesta e perseguita i vicini di casa con una serie di azioni dirette a:
- ingenerare in loro un fondato timore per l’incolumità propria o di un familiare;
- costringere la vittima a cambiare le proprie abitudini.
I giudici della Cassazione hanno così confermato le accuse di stalking contro l’imputato, anche se fondate sulle dichiarazioni della persona offesa, in linea con quanto affermato dalle Sezioni unite, secondo cui le dichiarazioni della persona offesa «possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto».
Il caso
Detto in altri termini: la condanna per stalking può scattare anche in base alle sole accuse mosse dal soggetto perseguitato, se valutate dal giudice credibili ed attendibili. Circostanza che si è verificata in questo caso: le accuse esposte dalla persona offesa nelle numerose denunce querele hanno trovato ampi riscontri oggettivi. Hanno trovato conferma, in particolare, le conseguenze dei comportamenti persecutòri sulla condizione di vita della persona offesa, costretta ad assentarsi dal lavoro ed assumere tranquillanti; eventi, quest’ultimi, che dimostrano, secondo la suprema Corte, un mutamento delle abitudini di vita e l’insorgere di un grave stato d’ansia nella vittima.
Tali conclusioni, peraltro, sono coerenti con precedenti sentenze in materia, secondo cui «la prova dell’evento del delitto in riferimento alla causazione nella persona offesa di un grave e perdurante stato d’ansia o di paura deve essere ancorata ad elementi sintomatici di tale turbamento psicologico, ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall’agente ed anche da quest’ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l’evento quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata» (Cassazione, sentenza 14391/2012).
Il Codice
Previsto dall’articolo 612 bis del Codice penale (introdotto dalla legge 11/2009), il reato di atti persecutori (meglio noto come stalking). Gli elementi caratterizzanti dello stalking sono la reiterazione delle azioni criminose e la loro incidenza negativa nella vita delle persone che ne sono vittima. L’obiettivo del legislatore è quello di tutelare quei soggetti che, subendo continue vessazioni, sono costrette a modificare la loro stessa vita che altrimenti diviene insopportabile.
Il termine stalking viene spesso associato a comportamenti che attengono alla sfera affettiva. Tuttavia, se è vero che le vittime sono quasi sempre partner e soprattutto ex, in particolar modo donne. è anche vero che il delitto in esame ben può configurarsi al di fuori di una relazione sentimentale.
È infatti sufficiente il compimento di più atti molesti o minatori che ledano l’altrui sfera psico-affettiva o inducano la vittima a mutare stile di vita In quest’ottica si colloca il cosiddetto “stalking condominiale”, ormai divenuto una realtà, come dimostra anche la sentenza in commento. La possibilità di querelare il vicino di casa molesto e assillante non si limita al singolo atto, ma si estende anche alla valutazione del complessivo comportamento da questi reiterato nel tempo.
Sicuramente non basta una singola azione; ma in passato anche due semplici episodi sono stati ritenuti sufficienti dalla giurisprudenza a far scattare l’incriminazione del reo. Ciò che conta è la gravità dei comportamenti che, nel caso del condòmino, devono essere tali da riuscire ad esasperare il vicino perseguitato, tanto da portarlo a modificare le sue abitudini di vita
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.07.2016).

INCARICHI PROFESSIONALILa responsabilità professionale dell'avvocato, la cui obbligazione è di mezzi e non di risultato, presuppone la violazione del dovere di diligenza media esigibile ai sensi dell'art. 1176, secondo comma, c.c..
Tale violazione, ove consista nell'adozione di mezzi difensivi pregiudizievoli al cliente, non è esclusa né ridotta quando tali modalità siano state sollecitate dal cliente stesso, poiché costituisce compito esclusivo del legale la scelta della linea tecnica da seguire nella prestazione dell'attività professionale.

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3.3 terzo motivo, rubricato come violazione e falsa applicazione dell'articolo 112 c.p.c., concerne l'asserita mancanza di un valido consenso informato della Ma. Srl rispetto alla tattica difensiva adottata nel suo interesse di cliente dal Mo.. Ma. Srl aveva addotto di aver dato direttiva all'avvocato perché agisse nei confronti di Pr. Srl, mentre questi agi avverso Ed. Srl.
Nel motivo si sostiene che l'attuale ricorrente avrebbe dimostrato la scienza del cliente in ordine al soggetto che avrebbe citato. La corte territoriale avrebbe integrato la domanda della Ma. Srl addebitando all'avvocato di non aver ottenuto un valido consenso informato, ma ciò sull'erroneo presupposto che il legale rappresentante della società non avesse "gli strumenti culturali per comprendere la portata della domanda" proposta avverso Ed. Srl.
Inoltre, in tal modo la corte territoriale sarebbe incorsa in ultrapetizione.
Anche questa doglianza non merita accoglimento. Anzitutto, deve rilevarsi che la corte territoriale non è incorsa in ultrapetizione, bensì, a fronte del quarto motivo d'appello, ha valutato la questione della "scienza" del cliente "solo, per completezza, di fronte ad una doglianza non chiara nella prospettazione" richiamando giurisprudenza sull'obbligo dell'avvocato di assolvere i doveri di informazione del cliente (motivazione, pagina 7).
In verità, la corte territoriale osserva che nel quarto motivo l'appellante in sostanza riproponeva, per contestarla, "la prospettazione della società Ma. secondo cui avrebbe prospettato...la necessità di agire esclusivamente nei confronti della società Pr.", al riguardo, appunto "per completezza", replicando che un avvocato, "per essere esonerato da responsabilità, non può limitarsi a sostenere di aver aderito" a indicazioni del cliente, "ma deve dare prova di una corretta informazione riguardo il verosimile esito dell'azione da intraprendere, soprattutto in presenza di un cliente non esperto di diritto".
L'assunto della corte territoriale è perfettamente corrispondente alla consolidata giurisprudenza di legittimità (oltre a Cass. sez. 2, 30.07.2004 n. 14597, citata dalla corte territoriale, v. da ultimo Cass. sez. 3, 20.05.2015 n. 10289 che così ben sintetizza la tematica: "La responsabilità professionale dell'avvocato, la cui obbligazione è di mezzi e non di risultato, presuppone la violazione del dovere di diligenza media esigibile ai sensi dell'art. 1176, secondo comma, c.c.; tale violazione, ove consista nell'adozione di mezzi difensivi pregiudizievoli al cliente, non è esclusa né ridotta quando tali modalità siano state sollecitate dal cliente stesso, poiché costituisce compito esclusivo del legale la scelta della linea tecnica da seguire nella prestazione dell'attività professionale"; e v. pure Cass. sez. 6-3 ord. 05.09.2013 n. 20379 nonché Cass. sez. 2, 28.10.2004 n. 20869; in particolare a proposito dell'obbligo di informazione v. Cass. sez. 3, 20.11.2009 n. 24544) (Corte di Cassazione, Sez. III civile, sentenza 28.06.2016 n. 13292).

APPALTICertificazioni ambientali l'avvalimento è legittimo.
In una gara di appalto pubblico è legittimo l'avvalimento della certificazione Emas.
Lo ha affermato la sentenza 28.06.2016 n. 2903 del Consiglio di Stato, Sez. V, che affronta il tema del ricorso all'avvalimento della certificazione Emas (Eco-management and audit scheme), ancorché riferibile a un requisito soggettivo.
La sentenza si esprime positivamente dopo avere preso atto dell'orientamento oscillante della giurisprudenza e del fatto che le distinzioni fra requisiti soggettivi e requisiti oggettivi, riferite alle imprese partecipanti alle gare, «perdono la loro chiarezza ed intellegibilità ed entrano in una zona di indeterminazione una volta che il loro referente fondamentale sia divenuto la capacità tecnica».
La giurisprudenza, fa notare il Consiglio di stato, a volte ha ritenuto che i requisiti di natura soggettiva, afferenti allo status d'imprenditore, non siano trasferibili ma altre volte ha consentito il ricorso all'avvalimento dell'organizzazione dell'impresa ausiliaria, ancorché riferita ad un requisito soggettivo.
E peraltro interessante notare che l'allegato XVII del nuovo codice dei contratti pubblici (50/2016) recepisce con molta chiarezza invece la distinzione (lettera f) con riguardo ai titoli di studio e professionali che possono essere richiesti per provare la capacità tecnica, soltanto «a condizione che non siano valutati tra i criteri di aggiudicazione.
Tornando alla sentenza, i giudici, per risolvere una volta per tutte la questione fanno riferimento «al dato positivo, ossia alla normativa specifica, desumibile dalla fonte legislativa e alla disciplina contenuta nella lex specialis». Nel caso esaminato, nota la sentenza, è l'articolo 44 dell'abrogato decreto 163/2016 a richiamare l'art. 42, comma 1, lett. f), dello stesso codice del 2006 che individuava i modi attraverso i quali fornire «la dimostrazione delle capacità tecniche» e l'indicazione «delle misure di gestione ambientale che l'operatore potrà applicare durante la realizzazione dell'appalto» (disposizione che è confluita nel citato allegato XVII, parte II, lettera g).
Quindi, conclude la sentenza, «la normativa applicabile iscrive la certificazione Emas fra i requisiti di capacità tecnica suscettibili d'avvalimento» (articolo ItaliaOggi dell'08.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
7. Con terzo motivo, la società appellante deduce che, erroneamente, il Tar ha ritenuto suscettibile d’avvalimento la certificazione EMAS sebbene attesti un requisito soggettivo.
Il motivo è infondato.
La censura muove da un dato di fatto incontroverso: le distinzione fra requisiti soggettivi e requisiti oggettivi, riferiti alle imprese partecipanti alle gare, perdono la loro chiarezza ed intellegibilità ed entrano in una zona di indeterminazione una volta che il loro referente fondamentale sia divenuto la capacità tecnica.
Significativamente l’analisi dei precedenti in tema restituisce un quadro giurisprudenziale variegato e contraddittorio: s’è ritenuto che i requisiti di natura soggettiva, afferenti allo status d’imprenditore, non siano trasferibili (cfr. Cons. Stato, sez. III, 25.02.2014 n. 887; Tar Lazio sez. I-ter, 24.04.2013 n. 4130); viceversa, è stato ammesso il ricorso all’avvalimento dell’organizzazione dell’impresa ausiliaria sebbene riferita ad un requisito soggettivo (cfr., Cons. Stato, sez. V., 19.11.2012 n. 5853; Tar Lombardia, Milano, sez. IV, 23.04.2015 n. 1011).
Per uscire dall’impasse va fatto riferimento al dato positivo, ossia alla normativa specifica, desumibile dalla fonte legislativa e alla disciplina contenuta nella lex specialis.
Nel caso in esame
l’art. 44 del d.lgs. n. 163 del 2006 richiama l’art. 42, comma 1, lett. f) d.lgs. cit. che individua fra i modi di in cui è possibile fornire “la dimostrazione delle capacità tecniche” l’indicazione “delle misure di gestione ambientale che l’operatore potrà applicare durante la realizzazione dell’appalto”; il bando, a sua volta, fa espresso riferimento alla certificazione EMAS genericamente indicata.
Sicché la normativa applicabile iscrive la certificazione EMAS fra i requisiti di capacità tecnica suscettibili d’avvalimento.

AMBIENTE-ECOLOGIA: Danno da rumore a prova semplificata. Risarcimento anche senza documenti su specifiche patologie. Immissioni sonore/1. Anche la liquidazione equitativa è rimessa all’apprezzamento del giudice di merito.
Se i rumori molesti superano la normale tollerabilità scatta il risarcimento del danno.
Il principio è stato ribadito dalla III Sez. civile della Suprema Corte nella recente sentenza 27.06.2016 n. 13208.
Le immissioni rumorose che eccedano la soglia della normale tollerabilità sono di per sé idonee a provocare una compromissione dell’equilibrio psico-fisico del soggetto ripetutamente esposto ad esse.
Nel caso affrontata dalla Cassazione il giudice di legittimità ha ritenuto di confermare la sentenza impugnata con la quale i giudici di merito avevano condannato una società di capitali, esercente l’attività di discoteca in un edificio, al pagamento, a titolo di risarcimento dei danni provocati dalle immissioni rumorose, dell’importo di diecimila euro in favore di ciascuno dei proprietari degli appartamenti confinanti.
Nel primo motivo di ricorso la società (che aveva fatto ricorso contro la decisione della Corte d’appello) aveva censurato la pronuncia lamentando in particolare che i giudici di merito avevano omesso di considerare che l’accertata intollerabilità delle immissioni non esonera la parte dall’onere di provare una specifica compromissione della sua salute, non potendosi identificare il danno risarcibile come compromissione in sé stessa, né tantomeno con meri fastidi naturalmente conseguenti alle immissioni moleste.
A giudizio della Cassazione questo motivo di ricorso deve ritenersi infondato. Infatti, osserva la Corte, i giudici d’appello, pur avendo osservato che i danneggiati avessero comunque documentato con certificazioni mediche le condizioni di salute in senso lato patologiche, conseguenti all’esposizione prolungata ad un livello eccessivo di rumore, avevano poi specificato che, pur in assenza di tale documentazione, si sarebbe in ogni caso dovuto presumere il danno subito dalle persone soggette alle immissioni intollerabili. Ne consegue che il dispositivo della sentenza risulta conforme a diritto, potendo il giudice, nella specifica materia, avvalersi della regola di comune esperienza secondo la quale le immissioni rumorose che eccedano la soglia della normale tollerabilità sono di per sé idonee a provocare una compromissione dell’equilibrio psico-fisico del soggetto ripetutamente esposto ad esse.
Si deve pertanto ritenere, conclude sul punto la Cassazione, che le allegazioni, la documentazione e l’evocazione di una regola di comune esperienza siano sufficienti ad integrare i necessari estremi dell’an e del quantum probatorio richiesti al fine dell’accoglimento della domanda risarcitoria.
È stato anche ritenuto infondato anche il secondo motivo di ricorso della società, con il quale aveva denunziato il mancato accertamento specifico compiuto dal giudice di merito in sede di quantificazione del danno, ribadendo che la liquidazione equitativa del danno è rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito. Questo, conclude la Cassazione, sia quando la determinazione del relativo ammontare sia impossibile, sia quando, in relazione alla peculiarità del caso concreto essa si presenti particolarmente difficoltosa, costituendo oggetto di un giudizio di fatto che si sottrae, se non inficiato da errori logico-giuridici, al controllo di legittimità.
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Musica notturna, non sempre è reato. Immissioni sonore/2. Occorre il disturbo di un numero indeterminato di persone.
Il problema delle immissioni rumorose, spese se notturne e provenienti da locali di intrattenimento, è molto avvertito nei condomini degli edifici perché incide sulla serenità e sulla qualità della vita di ciascuno dei partecipanti.
Tenere la musica ad alto volume per tutta la notte, sino alle quattro del mattino, può integrare l’elemento materiale del reato del disturbo di cui all’articolo 659 del Codice penale, a mente del quale: chiunque, mediante schiamazzi o rumori, ovvero abusando di strumenti sonori o di segnalazioni acustiche, ovvero suscitando o non impedendo strepiti di animali, disturba le occupazioni o il riposo delle persone, ovvero gli spettacoli, i ritrovi o i trattenimenti pubblici, è punito con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda sino a 309 euro .
La norma, in particolare, prevede due autonome fattispecie di reato. L’elemento distintivo, tra di esse, è dato dalla fonte del rumore prodotto: quando il rumore provenga dall’esercizio di una professione o di un mestiere rumorosi (come quella che svolge all’interno di un pub e/o di un ristorante con musica dal vivo), la condotta viene fatta rientrare nella previsione del secondo comma dell’articolo 659, per effetto della esorbitanza rispetto alle disposizioni di legge o alle prescrizioni dell’autorità, presumendosi la turbativa della pubblica tranquillità; viceversa, nel caso in cui le vibrazioni sonore non siano causate dall’esercizio dell’attività lavorativa, ricorrerebbe l’ipotesi di cui all’articolo 659, comma 1, per la quale occorre che i rumori superino la normale tollerabilità ed investano un numero indeterminato di persone, disturbando le loro occupazioni o il riposo (Cassazione Penale, Sez. 1, 17.12.1998, n. 4820/99, Marinelli, Rv. 213395).
Mentre il primo comma della norma è, dunque, volto a tutelare il riposo e la tranquillità del vicinato e richiede l’accertamento concreto del disturbo arrecato, il secondo comma, invece, prescinde dalla verificazione della misura del disturbo, integrando un’ipotesi di presunzione legale di rumorosità, al di là dei limiti tempro-spaziali e/o delle modalità di esercizio imposto dalla legge, dai regolamenti o da altri provvedimenti adottati dalle competenti autorità (così anche Cassazione Penale, Sez. 1, 12.06.2012, n. 39852, Minetti, Rv. 253475).
Sulla scorta di tali premesse, la Corte di Cassazione, Sezione III Penale, con la sentenza del 05–20.06.2016, n. 25424, ha stabilito che nel caso cui i rumori provengano da un locale (abilitato) in cui si svolga uno spettacolo musicale, per poter applicare comunque la fattispecie del reato di cui all’articolo 659 occorre in ogni caso dimostrare che le vibrazioni prodotte siano in grado di disturbare un numero indeterminato di persone, così da soddisfare il requisito della «turbativa della pubblica tranquillità».
Se tale prova non venga raggiunta in giudizio, il titolare del locale in cui si è svolto lo spettacolo musicale va assolto perché «il fatto non sussiste»
(articolo Il Sole 24 Ore del 05.07.2016).

AMBIENTE-ECOLOGIALe immissioni rumorose che eccedano la soglia della normale tollerabilità sono di per sé idonee a provocare una compromissione dell'equilibrio psico-fisico del soggetto ripetutamente esposto ad esse.
Deve, pertanto, ritenersi, che le allegazioni, la documentazione, e l'evocazione di una regola di comune esperienza siano sufficienti ad integrare i necessari estremi dell'an e del quantum probatorio richiesto al fine dell'accoglimento della domanda risarcitoria.

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Con il primo motivo, si denuncia violazione ed erronea applicazione degli artt. 844, 2043, 2059, 2697 c.c.; mancato e/o omesso esame di fatto decisivo per il giudizio.
Il motivo -con il quale si lamenta l'erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui omette di considerare che l'accertata intollerabilità delle immissioni non esonera la parte dall'onere di provare una specifica compromissione della sua salute, non potendosi identificare il danno risarcibile come compromissione in re ipsa, né tantomeno con meri fastidi naturalmente conseguenti alle immissioni moleste- è privo di pregio.
Esso si infrange, difatti, sul corretto impianto motivazionale adottato dal giudice d'appello nella parte in cui ha preliminarmente osservato come gli istanti avessero documentato con certificazioni mediche le condizioni di salute lato sensu patologiche conseguenti all'esposizione prolungata ad un livello eccessivo di rumore - pur specificando poi che, anche in assenza di tale documentazione, si sarebbe in ogni caso dovuto presumere il danno subito dalle persone soggette alle immissioni intollerabili.
Pertanto, corretta in parte qua la motivazione (non essendo astrattamente predicabile la configurabilità di un danno in re ipsa), il dispositivo della sentenza risulta conforme a diritto, potendo il giudice, in subiecta materia, avvalersi della regola di comune esperienza secondo la quale le immissioni rumorose che eccedano la soglia della normale tollerabilità sono di per sé idonee a provocare una compromissione dell'equilibrio psico-fisico del soggetto ripetutamente esposto ad esse (ex aliis, Cass. 5844/2007).
Deve, pertanto, ritenersi, che le allegazioni, la documentazione, e l'evocazione di una regola di comune esperienza siano sufficienti ad integrare i necessari estremi dell'an e del quantum probatorio richiesto al fine dell'accoglimento della domanda risarcitoria (Corte di Cassazione, Sez. III civile, sentenza 27.06.2016 n. 13208).

INCARICHI PROFESSIONALIDiritto al compenso, procedura speciale ko. Ordinanza.
Nel caso in cui la controversia non abbia ad oggetto soltanto la semplice determinazione della misura del compenso a favore di un avvocato, ma si estenda anche ai presupposti del diritto a ricevere il compenso stesso, non sarà ammissibile il ricorso alla speciale procedura di cui agli artt. 28 e 29 della legge n. 794/1942.

Lo hanno ribadito i giudici della VI Sez. civile della Corte di Cassazione con l'ordinanza 24.06.2016 n. 13175.
Con ricorso ex art. 702-bis c.p.c. al tribunale l'avvocato Tizio esponeva che aveva svolto su incarico e per conto del comune attività professionale sia in sede giudiziale, nel giudizio dinanzi alla corte d'appello di definito con sentenza, sia in sede stragiudiziale, mediante la formulazione di un parere in merito ad una proposta transattiva; che, inoltrata all'ente comunale la nota-specifica delle sue spettanze, aveva ricevuto in pagamento la minor somma.
Tizio chiedeva che il comune fosse condannato al pagamento della somma restante.
Costituitosi, il comune contestava, preliminarmente, la competenza dell'adito giudice e, nel merito il valore della controversia ai fini della individuazione dello scaglione di riferimento, lo svolgimento di singole attività in relazione a talune voci della parcella «e con riguardo stragiudiziale persino il conferimento dell'incarico, nonché le spese».
Con ordinanza il tribunale in composizione collegiale dichiarava la propria incompetenza e la competenza a decidere della corte d'appello.
I giudici del tribunale sottolineavano che l'eccezione di incompetenza era fondata «anche in ragione della non contestazione in ordine allo svolgimento della prestazione, da parte del comune resistente»; che doveva propriamente, ai sensi dell'art. 14 del dlgs n. 150/2011, reputarsi competente la corte d'appello, quale ufficio giudiziario di merito adito per il processo nel quale l'avvocato Tizio aveva prestato la propria opera, atteso che nella fattispecie l'oggetto del giudizio concerneva la mera attività di liquidazione del compenso.
Avverso tale ordinanza ha proposto ricorso per regolamento necessario di competenza l'avvocato Tizio; ha chiesto dichiararsi la competenza del tribunale di Lamezia Terme con ogni conseguente statuizione anche in ordine alle spese (articolo ItaliaOggi Sette del 18.07.2016).

ATTI AMMINISTRATIVI: Lite temeraria: «salvo» il risarcimento al vincitore. Corte costituzionale. Legittimo il pagamento alla controparte anziché all’Erario.
La Consulta “salva” il risarcimento del danno alla controparte in caso di lite temeraria.
Con la sentenza 23.06.2016 n. 152, la Corte costituzionale ha respinto la questione di illegittimità dell’articolo 96, comma 3, del Codice di procedura civile sollevata dal Tribunale di Firenze.
In effetti, insieme alla decisione sul merito della causa, i giudici devono sempre pronunciarsi sulle spese di giudizio. La regola generale è che le spese seguano la soccombenza: la parte che perde la causa deve rimborsare alla controparte le spese di costituzione e difesa, nella misura stabilita dal giudice.
La compensazione delle spese di lite, in base alla quale ciascuna delle parti sopporta le spese del proprio legale indipendentemente dall’esito della causa, costituisce –in seguito alle modifiche introdotte tra il 2005 e il 2014– un’ipotesi eccezionale. In base all’articolo 92 del Codice di procedura civile, infatti, «se vi è soccombenza reciproca ovvero nel caso di assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti, il giudice può compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero».
Sono inoltre previste alcune disposizioni volte a sanzionare la parte soccombente che abbia, con la sua condotta processuale, causato all’altra iniziative defatiganti, inutili o dispendiose, oppure che abbia rifiutato la proposta conciliativa avanzata dal Giudice nel corso del giudizio.
Il complesso di norme ha non solo un carattere deflativo, volto a incentivare la soluzione stragiudiziale delle controversie e dissuadere dall’inutile aggravio di iniziative giudiziarie di dubbia fondatezza, ma anche un carattere di effettività, volto a non vanificare la pronunzia favorevole ottenuta dalla parte vittoriosa, la quale può vedersi dare ragione dopo anni di attesa e significativi costi sostenuti non solo per il pagamento del proprio legale, ma per tutti gli oneri fiscali connessi con una lite giudiziaria.
La norma esaminata dalla Consulta prevede una ulteriore ipotesi di responsabilità aggravata, che sussiste quanto risulta evidente non solo che la pretesa azionata dalla parte soccombente era infondata ma che questa dall’inizio non meritava di essere sottoposta al giudice. In tali ipotesi il giudice dispone, anche d’ufficio, la condanna a un’ulteriore somma a titolo di risarcimento del danno a favore della controparte che si aggiunge al rimborso delle spese di lite. La condanna per la cosiddetta lite temeraria, è disposta «se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave».
La questione di legittimità costituzionale sottoposta al vaglio della Corte concerneva in particolare la ritenuta ingiustizia di disporre un risarcimento per lite temeraria a favore della controparte anziché dell’Erario.
Il ragionamento del giudice che ha sollevato la questione, infatti, prendeva le mosse dal carattere afflittivo e sanzionatorio della condanna, con la conseguenza che esso avrebbe dovuto andare a favore dello Stato, leso dall’intralcio all’Amministrazione della giustizia cagionato da una lite manifestamente infondata, e non alla controparte, già adeguatamente ristorata dal rimborso delle spese di lite. Non dovrebbe pertanto trattarsi di un risarcimento del danno a favore dell’avversario, come oggi di fatto configurato, ma di una sanzione nell’interesse della collettività.
La Corte costituzionale ha preso atto che nella prassi l’ipotesi di condanna per responsabilità aggravata da lite temeraria é poco utilizzata e ha messo in luce che l’istituto può essere letto in modo duplice: come vero e proprio risarcimento oppure come sanzione. La Corte, concordando sul punto con il Tribunale di Firenze (ma anche con la Cassazione: ordinanza 3003/2014), ha propeso per la prevalenza della seconda lettura, ovvero per il carattere afflittivo e sanzionatorio della misura, facendo leva anche sul fatto che essa può essere disposta pure d’ufficio del giudice, indipendentemente dalla richiesta di controparte. Sulla base di tale ricostruzione, la Corte ha ritenuto che la ragionevolezza di una eventuale previsione che il versamento venga disposto a favore dell’Erario anziché della controparte non renda di per sé illegittima la soluzione contraria.
Infatti, la maggiore effettività della tutela giurisdizionale garantita alla parte vittoriosa, che si vede riconosciuta una somma aggiuntiva qualora risulti il coinvolgimento della medesima in una lite temeraria senza che essa debba provare il danno subito, finisce per garantire allo strumento deflativo in esame anche una «più incisiva efficacia deterrente» anche perché l’eventuale recupero forzoso di detta somma, qualora la parte soccombente non adempisse spontaneamente, sarebbe sicuramente più lento e incerto se dovesse provvedervi lo Stato
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.07.2016).

EDILIZIA PRIVATA: Gazebo e tettoia pari non sono. Serve il titolo edilizio al pergolato che aumenta i volumi. Una sentenza del Tar Emilia e alcuni precedenti su coperture per auto e affini.
Altro che «gazebo»: un conto è il pergolato realizzato per dare un po' d'ombra al giardino nelle torride giornate estive, un altro è la struttura in legno e ferro non facilmente amovibile realizzata per mettere l'auto ben al coperto. Nel secondo caso si configura l'incremento dei volumi e dunque la necessità di un vero e proprio titolo edilizio prima di realizzare l'opera.
Scatta allora la sanzione pecuniaria per il proprietario dell'immobile quando la polizia municipale scopre i lavori realizzati senza permesso.

È quanto emerge dalla sentenza 21.06.2016 n. 612, pubblicata dalla II Sez. del TAR Emilia Romagna-Bologna.
Arredo escluso. Non giova al cittadino multato sostenere che la struttura realizzata nel suo giardino nulla aggiungerebbe alla possibilità di utilizzare il terreno come parcheggio pertinenziale a raso. Decisive infatti sono le foto prodotte in giudizio dal comune: sul pergolato erano state installate anche lastre di policarbonato, poi rimosse.
Ma ciò che più conta è che il presunto «gazebo» ha travi in legno e ferro e non può essere reputato un semplice arredo di spazi esterni: l'aumento di superficie utile si può ben escludere quando la struttura realizzata funge da sostegno per piante rampicanti o per teli in modo da dare sollievo dal sole, ma soltanto laddove l'uso può essere ritenuto del tutto momentaneo e a patto che le dimensioni siano modeste.
In questo caso il pergolato risulta sì costruito con materiali leggeri, ma deve essere comunque ritenuto un intervento di nuova costruzione perché la struttura solida e robusta fa presumere che il manufatto sia destinato a una permanenza prolungata nel tempo. La parte evita il pagamento delle spese di giudizio perché il comune non si è costituito.
Nozione restrittiva. Ancora. Deve essere abbattuta la tettoia realizzata dal proprietario di casa senza permesso di costruire benché i pannelli laterali stavolta siano comunque amovibili. E ciò perché è l'incremento dei volumi che risulta in ogni caso realizzato a imporre di dotarsi del titolo edilizio.
L'opera, poi, non può essere riconosciuta come pertinenza in senso urbanistico in modo da evitare la demolizione: vale infatti una nozione più restrittiva di quella applicabile in campo civilistico in quanto esclude i manufatti che sono sì posti a servizio di un immobile ma risultano utilizzabili in modo autonomo rispetto al cespite. È quanto emerge dalla sentenza 1051/2016, pubblicata dalla quarta sezione del Tar Campania.
Coessenzialità necessaria. Scatta lo stop del comune alla superficie di quaranta metri quadrati sorretta da pali in legno e pareti laterali in muratura sull'immobile: in base al regolamento edilizio dell'ente, infatti, non può essere tecnicamente definita «tettoia» perché risulta chiusa da pareti laterali, per quanto non fisse.
Come accade anche per la veranda, non basta la Dia-Scia per tutti gli interventi che alterano la sagoma di un'abitazione determinando l'incremento di volume e una variazione architettonica; un bene che costituisce una pertinenza per il diritto civile può non esserlo sul piano urbanistico perché sul secondo fronte per evitare il permesso di costruire è necessario dimostrare che il manufatto risponda a una precisa esigenza dell'immobile cui accede. Il requisito non ricorre quando l'opera incriminata occupa aree e volumi diversi. Al proprietario non resta che pagare le spese.
Rapporto irrilevante. Un precedente di giurisprudenza può essere individuato nella sentenza 4997/2013 del Consiglio di stato, pubblicata dalla quinta sezione, secondo cui devono essere abbattute la tettoia e la pensilina di dimensioni non trascurabili, realizzate senza permesso: anche se si trovano in rapporto con l'immobile, infatti, non costituiscono una pertinenza del cosiddetto «bene principale» perché alterano comunque l'assetto del territorio. E ciò anche quando si tratta di strutture facilmente smontabili.
Valore autonomo. Accolto il ricorso del comune contro la pensilina della pompa di benzina. Anche qui perché la nozione civilistica di pertinenza non corrisponde affatto a quella edilizia. Nel secondo caso il concetto ha una portata ridotta: è chi l'ha realizzata senza sottostare al regime concessorio che deve dimostrare come il manufatto non abbia un valore autonomo in quanto non può essere utilizzato indipendentemente dal (presunto) bene principale.
E soprattutto bisogna provare che non è aumentato il carico urbanistico. I titolari dell'impianto non ci riescono, devono rinunciare all'opera abusiva ma evitano almeno di pagare le spese dei due gradi di giudizio (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.07.2016).

CONDOMINIO - VARILe riprese nello stabile utilizzabili in sede penale. Videosorveglianza.
Le riprese delle telecamere di sorveglianza del condominio sono utilizzabili per “incastrare” il colpevole. Quando c’è un reato, le immagini della videosorveglianza, non contenendo “atti comunicativi” (sono cioè filmati che non immortalano comunicazioni verbali o scritte, cenni di assenso o rifiuto ovvero espressioni fisiognomiche ma solo «mere condotte», che non hanno nessun valore esprimente), non rientrano nella categoria delle intercettazioni; pertanto, se effettuate in luoghi pubblici, aperti o esposti al pubblico, come nel caso del condominio, possono essere utilizzate quali «prove atipiche» e quindi non abbisognano di autorizzazione all'utilizzo da parte dell'autorità giudiziaria.
Questo è il principio espresso dalla II Sez. penale della Corte di Cassazione, nella sentenza 17.06.2016 n. 25307.
La difesa dell'imputato (condannato per rapine nello stesso condominio) aveva basato il ricorso proprio sull’utilizzo, per la condanna, delle immagini ricavate dal sistema di videosorveglianza del condominio, nonostante queste riprese attenessero a luoghi di privata dimora che, in quanto tali, risulterebbero tutelati dalla normativa sulla privacy.
La Cassazione ha invece chiarito che, nel caso delle riprese effettuate dalle telecamere di sorveglianza del condominio –premesso che si tratta di“atti non comunicativi”– gli unici soggetti legittimati ad opporre la violazione della tutela della privacy risultano esclusivamente i condòmini.
Quindi non sussiste alcun elemento di illiceità nella raccolta della prova, con conseguente piena utilizzabilità del materiale probatorio acquisito. E ha condannato l’imputato a pagare le spese di giudizio e a versare 1.500 euro alla Cassa delle ammende
(articolo Il Sole 24 Ore del 05.07.2016).
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MASSIMA
1. Il ricorso è manifestamente infondato.
2. Con il primo motivo il ricorrente deduce che il giudice di merito ha fondato in modo esclusivo la sentenza di condanna sulle immagini estrapolate da due sistemi di videosorveglianza installati all'interno dei condomini, ritenendo tali prove inutilizzabili perché acquisite in luoghi di privata dimora, tutelati da una legittima aspettativa di privacy.
Il rilievo -compiutamente esaminato dalla corte territoriale- risulta per un verso in contrasto con i principi di diritto in materia e per altro addirittura irrilevante ai fini della decisione.
2.1
La giurisprudenza di legittimità, inquadrandosi nei vari interventi relativi all'art. 14 Cost. nonché all'art. 8 CEDU della Corte Costituzionale (sentenze 135/2002, 149/2008 e 320/2009), ha operato una netta distinzione tra le videoriprese di atti comunicativi, riconducibili alla disciplina delle intercettazioni, e quelle di atti non comunicativi (mere condotte, che non hanno nessun valore esprimente; sono comunque comunicative, assoggettando così la relative videoriprese alla disciplina delle intercettazioni, tutte quelle condotte che hanno un significato fungibile con la comunicazione verbale/scritta, come un gesto di assentimento o di rifiuto, espressioni fisionomiche ecc), che non rientrano nella qualifica di intercettazioni e, se effettuate in luoghi pubblici, aperti o esposti al pubblico, sono utilizzabili come prove atipiche ex art. 189 c.p.p..
Qualora invece le videoriprese di atti non comunicativi siano effettuate in luoghi riconducibili al domicilio, e quindi sottoposti alla tutela di cui agli art. 14 Cost. e art. 8 CEDU, la tutela in tal senso di chi è ivi domiciliato ne impedisce l'utilizzazione e, prima ancora, anche l'acquisizione, escludendo l'applicabilità dell'art. 189 c.p.p. in quanto sono qualificabili prove illecite (S.U. 28.03.2006 n. 26797).
Si tratta, peraltro, della tutela di un diritto disponibile, per cui, qualora le riprese siano effettuate con il consenso del titolare al diritto di tutela del domicilio, si esce da ogni profilo di illiceità, cosicché la prova, come atipica, risulta utilizzabile senza necessità di autorizzazione dell'autorità giudiziaria (in tal senso Cass. sez. 3, 07.07.2010 n. 37197, nonché Cass. sez. 2, 13.12.2007-10.01.2008 n. 1127 e, da ultimo, in motivazione, Cass. n. 25177 del 21/05/2014).
Nel caso in esame, trattasi di videoriprese di un atto non comunicativo -non esprimente cioè alcuna comunicazione, ritraendo solo la condotta del soggetto introdottosi nello stabile condominiale- sì che destinatari della tutela della privacy devono considerarsi esclusivamente i condòmini ossia i soggetti che domiciliano in quegli stabili; non potrà certamente lamentarsi della violazione il ricorrente, che non è titolare di alcun diritto alla riservatezza rispetto ai luoghi di privata dimora altrui.
Non sussistono pertanto profili di illiceità, con conseguente piena utilizzabilità della prova.

AMBIENTE-ECOLOGIA: Bruciare plastica turbando i vicini si commette reato penale.
Il il reato di getto di cose pericolose, di cui all'art. 674 cod. pen., ha di regola carattere istantaneo e solo eventualmente permanente.
La permanenza va ravvisata quando le illegittime emissioni sono connesse all'esercizio di attività economiche e legate al ciclo produttivo, mentre, con riguardo specifico all'emissione molesta di gas, di vapori o di fumo, la contravvenzione di cui all'art. 674 cod. pen., è un reato non necessariamente, ma solo eventualmente permanente, in dipendenza cioè della durata, istantanea o continuativa, della condotta che provoca le emissioni stesse.
Ne deriva, per l'integrazione del reato, che è sufficiente anche un solo atto mediante il quale si provoca un'emissione molesta, e che l'idoneità della condotta a produrre emissioni moleste deve essere dimostrata.
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RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 10.02.2015, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Asti, a seguito di richiesta del P.M. di emissione di decreto penale nei confronti di It.Ci., per il reato di cui all'art. 674 cod. pen., perché dando fuoco a materiale plastico e in alluminio, provocava emissioni di fumi maleodoranti ed irritanti, atti a molestare il vicinato, pronunziava sentenza, ai sensi dell'art. 129 cod. proc. pen., perché il fatto non sussiste.
2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Asti e ne ha chiesto l'annullamento per inosservanza o erronea applicazione della legge penale e processuale.
Il primo luogo, il Giudice avrebbe prosciolto l'imputato ritenendo erroneamente la natura permanente del reato di cui all'art. 674 cod. pen. Avrebbe, poi, ritenuto insussistente il reato per essere l'episodio denunciato, e riscontrato dagli operanti intervenuti e dai testimoni, occasionale e sporadico.
Il G.I.P. avrebbe, così, pronunciato una sentenza in presenza di situazione riconducibile alla carenza di indagini, nella specie prova dell'emissioni, che avrebbero dovuto condurre il Giudice alla restituzione degli atti al P.M. ai sensi dell'art. 459, comma 3, cod. proc. pen. e non alla pronuncia della sentenza di proscioglimento.
3. Il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione ha chiesto l'accoglimento del ricorso ed il conseguente annullamento senza rinvio della sentenza impugnata.
CONSIDERATO IN DIRITTO
4. Il ricorso è fondato avendo il Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Asti disatteso i principi ermeneutici affermati, in tema, da questa Corte.
5. Va rammentato che, secondo la costante giurisprudenza di legittimità, nel caso in cui il Pubblico Ministero abbia richiesto l'emissione del decreto penale di condanna, ai sensi dell'art. 459 c.p.p., comma 3 il G.I.P., qualora ritenga di non accogliere la richiesta, deve restituire gli atti al Pubblico Ministero a meno che non ritenga, ricorrendone i presupposti, di pronunciare sentenza di proscioglimento a norma dell'art. 129 c.p.p..
In tale caso, la sentenza di proscioglimento può essere pronunciata solo nel caso in cui risulti evidente positivamente l'innocenza dell'imputato o risulti evidente che non possono essere acquisite prove della sua colpevolezza, mentre l'analoga sentenza è preclusa quando l'infondatezza dell'accusa dovrebbe essere affermata mediante un esame critico degli elementi prodotti a sostegno della richiesta (Sez. 3, n. 5716 del 07/01/2016, P.M. in proc. Isoardi, non ancora massimata; Sez. 3, n. 45934 del 09/10/2014, P.M. in proc. Fusco, Rv. 260941; Sez. 4, n. 992 del 18/07/2013, P.M. in proc. Canto, Rv. 259079; Sez. 3, n. 15034 del 24/10/2012, P.M. in proc. Carboni Rv. 258013; Sez. 2, n. 1631 del 12/12/2012 Pg in proc. Rouane, Rv. 254449; Sez. 3, n. 3914 del 05/12/2013, Pintaldi, Rv. 258298; Sez. 6, n. 29538 del 27/06/2013 P.G. in proc. P. Rv. 256149; Sez. 5. n. 14981 del 24/03/2005 P.M. in proc. Becatelli, Rv. 231461).
6. La sentenza assolutoria impugnata ha disatteso i principi ermeneutici sopra evidenziati.
Il G.I.P. ha prosciolto l'imputato perché non sussisterebbe il reato in quanto la condotta non avrebbe avuto carattere permanente, ma (solo) occasionale e ciò sulla base delle valutazione delle dichiarazioni testimoniali dei vicini di casa dell'imputato.
Tale conclusione non è per nulla condivisibile e disattende quanto pacificamente affermato dalla Corte di Cassazione, secondo cui
il reato di getto di cose pericolose, di cui all'art. 674 cod. pen., ha di regola carattere istantaneo e solo eventualmente permanente. La permanenza va ravvisata quando le illegittime emissioni sono connesse all'esercizio di attività economiche e legate al ciclo produttivo (Sez. 1, n. 2598 del 13/11/1997, P.M. in proc. Garbo, Rv. 209960), mentre, con riguardo specifico all'emissione molesta di gas, di vapori o di fumo, la contravvenzione di cui all'art. 674 cod. pen., è un reato non necessariamente, ma solo eventualmente permanente, in dipendenza cioè della durata, istantanea o continuativa, della condotta che provoca le emissioni stesse (Sez. 1, n. 3162 del 10/11/1988, Mazzoni, Rv. 180652).
Ne deriva,
per l'integrazione del reato, che è sufficiente anche un solo atto mediante il quale si provoca un'emissione molesta, e che l'idoneità della condotta a produrre emissioni moleste deve essere dimostrata, con la conseguenza che il proscioglimento del G.I.P. è stato erroneamente pronunciato, poiché, non solo il Giudice ha disatteso il principio di diritto della natura istantanea del reato de quo, ma ha escluso l'idoneità della condotta emissiva, di cui al capo di imputazione, ad offendere o molestare le persone esposte, sulla base di una non consentita valutazione del materiale probatorio.
7. In definitiva, il Giudice è pervenuto al proscioglimento dell'imputato senza che fosse evidente l'insussistenza del fatto addebitato all'imputato e, dunque, non sussistevano i presupposti che presiedono all'obbligo di immediata declaratoria ex art. 129 c.p.p..
8. Deve, quindi, disporsi l'annullamento senza rinvio della sentenza con trasmissione degli atti al P.M. presso il Tribunale di Asti per il prosieguo (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.06.2016 n. 24817).

INCARICHI PROFESSIONALITardiva impugnazione, il legale deve risarcire.
Nel caso di tardiva impugnazione di una sentenza penale di condanna, dopo la quale il soggetto anche in appello sarà impossibilitato ad ottenere una condanna a pena minore, si profilerà un danno, di natura non patrimoniale, attribuibile all'avvocato che dovrà risarcire il condannato al fine di ristorare la sofferenza patita per il protrarsi della detenzione che tuttavia non potrà considerarsi ingiusta.

Ad affermarlo sono stati i giudici della III Sez. civile della Corte di Cassazione con la sentenza 15.06.2016 n. 12280.
Pertanto secondo i giudici di piazza Cavour i criteri assunti dalla giurisprudenza penale in tema di liquidazione del danno da ingiusta detenzione (euro 235,83 al giorno) non potranno essere acquisiti in modo automatico in sede civile, ma necessiteranno di un adattamento alla particolarità della situazione, che il giudice di merito è chiamato a compiere, trattandosi di una liquidazione in via equitativa.
E quindi il criterio economico assunto come parametro non sarà automaticamente utilizzabile e, così, tale criterio, pur essendo quello che, almeno in astratto, più si avvicina al caso in esame, potrà essere assunto a parametro, ma di una valutazione non automatica, trattandosi di una liquidazione che deve avvenire secondo criteri equitativi.
Gli Ermellini hanno altresì richiamato un orientamento della stessa Cassazione (Ss.uu., sentenza 09.11.2011, n. 23299) secondo il quale: «Affinché un capo di sentenza possa ritenersi validamente impugnato, non è sufficiente che nell'atto di appello sia manifestata una volontà in tal senso, ma è necessario che sia contenuta una parte argomentativa che, contrapponendosi alla motivazione della sentenza impugnata, con espressa e motivata censura, miri ad incrinarne il fondamento logico-giuridico».
Inoltre, nella sentenza in commento, è stato sottolineato come il danno non patrimoniale sia cosa diversa da quello patrimoniale e che, perciò, l'atto della liquidazione non comporta alcun cambiamento della natura del danno, ovvio essendo che la liquidazione traduce comunque il pregiudizio sofferto in un'entità economicamente valutabile.
In conclusione: la più lunga detenzione che Tizio ha subito non è da considerarsi ingiusta, ma può esserlo solo in via ipotetica, perché egli è stato condannato ad una pena detentiva in primo grado, evidentemente confermata in appello a causa della tardività dell'impugnazione proposta dall'avvocato: sarà, dunque, una condanna del tutto legittima alla quale ha fatto seguito una detenzione altrettanto legittima (articolo ItaliaOggi Sette del 18.07.2016).

EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: Requisito della ruralità fuori dai dati catastali.
Quando la destinazione di fatto dell'immobile integra i presupposti della destinazione agricola, indipendentemente dalla classificazione catastale, a questi stessi immobili deve essere riconosciuto il requisito della ruralità con le conseguenti agevolazioni in tema di Ici e Imu.

Sono le conclusioni della Commissione tributaria provinciale di Firenze, che si leggono nella sentenza 15.06.2016 n. 889/2/16.
La vertenza tributaria riguarda un diniego a una richiesta di rimborso di Ici/Imu relativa agli anni d'imposta ricompresi tra il 2009 e il 2013 che il comune di San Casciano aveva notificato alla ricorrente. Nel caso specifico, l'immobile sia pure censito nelle categorie catastali A/1 e A/9, veniva utilizzato, all'interno dell'attività agricola, ad abitazione dei dipendenti esercenti l'attività agricola, per conto della stessa azienda; secondo la società ricorrente, quando i fabbricati sono destinati all'abitazione di coloro che attendono col proprio lavoro alla manuale coltivazione della terra, o al ricovero del bestiame o alla conservazione e prima manipolazione dei prodotti agrari dei terreni, nonché alla custodia di macchine e attrezzi agricoli, non possono essere valutati separatamente dal terreno agricolo sul quale insistono. I giudici provinciali di Firenze hanno accolto il ricorso e disposto il rimborso fiscale.
Nella sua costituzione in giudizio, l'Agenzia del territorio (chiamata in giudizio) faceva rilevare che la categoria catastale in cui erano censite le unità abitative non consentiva di riconoscerne la ruralità.
Il collegio provinciale, accogliendo il ricorso, osserva che in merito a questa fattispecie non si può non tenere in considerazione che, relativamente alla stessa società sulla richiesta di ruralità del fabbricato, si è già espressa altra sezione della Commissione, in senso favorevole al contribuente.
Nel merito, prescindendo da qualsiasi caratteristica oggettiva e soggettiva, indipendentemente dalla categoria catastale assegnata agli immobili in presenza dei requisiti di cui all'articolo 9, comma 3-bis, del dl n. 553/93 e successive modificazioni, prescindendo da qualsiasi caratteristica oggettiva e soggettiva essendo stata la stessa unità immobiliare destinata, il ricorso è stato accolto. Il Collegio ha rilevato che, comunque, il contrasto giurisprudenziale tra le varie Commissioni tributarie, sia provinciali che regionali. determinano quelle condizioni straordinarie che giustificano la compensazione delle spese.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] La Commissione, esaminata la documentazione in atti, sentite le parti in causa, ritiene i ricorsi riuniti Rgr 1829/14 e Rgr 220/15 non meritevoli di accoglimento. Ai fini della decisione della controversia, questo organo giudicante ha preso in esame i motivi di gravame sollevati dalla contribuente vertenti sulla carenza di motivazione del provvedimento di diniego del requisito della ruralità emesso dall'Agenzia delle entrate di Firenze, sul successivo provvedimento di diniego dell'istanza di rimborso Imu/Ici dal 2009 al 2013 e sui motivi di merito tendenti a ottenere i requisiti della ruralità. Parti convenute, invece, ritengono di avere legittimamente operato e contestano puntualmente tutte le eccezioni della ricorrente.
La prima eccezione sollevata dalla società ricorrente, di carenza di motivazione degli atti opposti, è infondata. Infatti, il provvedimento di diniego, prot., contiene tutti gli elementi indispensabili quali: i riferimenti normativi (commi 3, 3-bis e 3-ter dell'art. 9 del dl n. 557 del 1993) che hanno motivato il rigetto della richiesta di ruralità, i dati catastali (foglio, p.lla, sub.), riferimento delle unità immobiliari per fabbricati strumentali e tutte le altre informazioni che hanno consentito di propone un completo e articolato ricorso; tutto ciò, in base a costante giurisprudenza della Cassazione non ha in alcun modo leso il principio del diritto di difesa sancito dalla Corte costituzionale artt. 24 e 113; di conseguenza anche la determinazione comunale n. 119 dell'1/12/2014 e notificata alla ricorrente il 04/12/2014, con la quale è stato disposto il diniego dell'istanza di rimborso, appare motivata perché, oltre a contenere tutti gli elementi che hanno consentito di produrre ricorso, è consequenziale a un rigetto di richiesta di ruralità dell'AdE.
Nel merito, non si può non tener conto che sulla stessa fattispecie, concernente l'opposizione al rigetto della richiesta di riconoscimento del requisito della ruralità all'edificio in quanto strumentale, riguardante la stessa società, si è già espressa la sezione n. 5 di questa Cip in senso favorevole alla contribuente con sentenza n. 760 del 21/04/2016, che questo collegio giudicante condivide e fa propria. La sez. 5 ha riconosciuto il requisito della ruralità alle unità immobiliari, in presenza dei requisiti di cui all'art. 9, c. 3-bis, del dl n. 557 del 1993 e successive modificazioni, prescindendo da qualsiasi caratteristica oggettiva e soggettiva essendo stata la stessa unità immobiliare destinata, all'interno dell'azienda agricola, ad abitazione dei dipendenti esercenti l'attività agricola per conto della stessa azienda.
Pertanto, i ricorsi riuniti debbono essere accolti con conseguente annullamento dell'avviso di accertamento catastale prot.... emesso dall'AdE e contestuale annullamento del diniego al rimborso Ici/Imu emesso dal comune di [omissis] (articolo ItaliaOggi Sette del 18.07.2016).

AMBIENTE-ECOLOGIARumore, il gestore deve vigilare sui clienti. Tar Veneto. Legittimo l’obbligo previsto dal regolamento comunale sui locali pubblici.
Il regolamento comunale sull’inquinamento acustico può imporre ai gestori di vigilare anche sui frequentatori che si trovino nelle vicinanze del loro esercizio e obbligarli, ove non provvedano, a sospendere la musica. Sanzione più soft della riduzione dell’orario di apertura e, comunque, proporzionata alla violazione.
Lo precisa il TAR Veneto, Sez. III, con sentenza 15.06.2016 n. 644.
Protagonista, il titolare di un bar sito in pieno centro cittadino, colpito dal provvedimento comunale di sospensione, per ben 28 giorni consecutivi, della diffusione di musica. Misura disposta dall’ente, a seguito della reiterata violazione delle prescrizioni imposte dal regolamento comunale. L’uomo impugna la decisione, ma il Tar rigetta il ricorso.
Più che dimostrate, puntualizzano i giudici, le plurime trasgressioni della disciplina locale sulle attività rumorose, commesse nel giro di un anno dall’apertura dell’attività: in varie occasioni la Polizia municipale, chiamata dai cittadini infastiditi dagli schiamazzi, aveva riscontrato «l’effettuazione di attività musicale amplificata in assenza di titolo».
Il ricorrente, del resto, non aveva neppure adottato i necessari accorgimenti per il rispetto della convivenza civile assicurando un’adeguata sorveglianza, quantomeno per garantire il normale svolgimento dell’attività e prevenire il disturbo provocato dagli avventori del locale che stazionavano al suo esterno, consumando alcolici e parlando a voce altissima. In breve, a prescindere dalla mancanza del nulla-osta, ciò che più giustificava la sanzione era il comportamento rumoroso dei frequentatori del locale dell’uomo.
A nulla poteva valere la difesa del gestore, che, nell’atto introduttivo del giudizio, aveva affermato che al momento dell’accesso degli agenti, la musica era spenta e nel plateatico non vi erano avventori. Dichiarazione –afferma il Tar– non «idonea a sovvertire le risultanze dei verbali redatti dagli organi accertatori» della Polizia municipale e della Questura, trattandosi di atti «dotati di fede privilegiata», i quali fanno «piena prova, fino a querela di falso, con riguardo ai fatti attestati dal pubblico ufficiale come avvenuti in sua presenza e conosciuti senza alcun margine di apprezzamento».
Ciò chiarito e ribadita la legittimità del regolamento comunale, il Tribunale ne richiama la norma specifica che impone all’esercente di determinate attività, quali bar, sale giochi, discoteche, trattorie e birrerie, di «vigilare mediante proprio personale sui frequentatori del pubblico esercizio all’interno dello stesso e nelle sue immediate pertinenze», chiedendo all’occorrenza l’ausilio delle forze dell’ordine. Previsione tesa a contenere gli effetti negativi di attività potenzialmente lesive della tranquillità pubblica e privata.
In ultimo, chiude il Tar, va rilevato come la misura della sospensione di diffusione musicale non sia sproporzionata, considerate le reiterate violazioni del regolamento poste in essere dal ricorrente, costituendo, a ben vedere, sanzione più lieve rispetto a quella che imporrebbe la riduzione dell’orario di apertura.
I giudici ritengono ragionevole anche la durata della sospensione comminata, calcolata in base alle ripetute trasgressioni
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.07.2016).

EDILIZIA PRIVATA: TAR: senza aumento di superficie utile gli oneri di urbanizzazione non sono dovuti.
Il calcolo degli oneri di urbanizzazione va correlato alle “superfici di calpestio”, ma per queste si devono intendere quelle “utili”.
La giurisprudenza ha da tempo individuato il principio (recepito anche da qualche legge regionale) secondo il quale per l'insorgenza dell'obbligo di corresponsione degli oneri di urbanizzazione occorre che vi sia un effettivo aggravio del carico urbanistico, dovuto alla incidenza dell'intervento edilizio, che deve essere considerato non nell'insieme delle superfici <di calpestio>, ma di quelle utili, le sole in grado di comportare un maggior incremento del carico urbanistico.
Da tale principio la richiamata pronuncia del Consiglio di Stato trae la conclusione che il calcolo degli oneri di urbanizzazione vada sì correlato alle “<superfici di calpestio>, ma per queste devono intendersi quelle <utili>, che sono costituite dalla somma delle aree di pavimento dei singoli vani utilizzati per le attività e destinazioni d'uso, con esclusione delle aree destinate
<ai porticati, ai pilotis, alle logge, ai balconi, ai terrazzi, ai locali cantina, soffitte ed ai locali sottotetto non agibili>".
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... per l'annullamento della nota comunale prot. n. 33388 del 21 ottobre 2000 e allegati dai quali risulta l’obbligo della ricorrente di provvedere al pagamento di lire 6.370.583 a titolo di saldo degli oneri concessori.
... 
Con istanza in data 24.02.1995 la sig.ra Do.Ba. richiedeva al Comune di Castiglion della Pescaia la sanatoria edilizia, ai sensi della legge n. 724 del 1994, ai fini della utilizzazione come locale cantina di un volume interrato, dichiarato non utilizzabile nella originaria concessione edilizia (scannafosso e terrapieno), sanatoria che veniva assentita con il rilascio della concessione n. 471 del 2002 (doc. 1 del deposito comunale del 05.04.2016).
Nella domanda si specificava che la sanatoria, soggetta al pagamento dell’oblazione e del contributo per costo di costruzione, non era invece soggetta al pagamento al pagamento degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria (doc. 2 di parte ricorrente).
L’Amministrazione, con nota del 04.04.1997, richiedeva il pagamento degli oneri di urbanizzazione (doc. 3 di parte ricorrente), poi invece riconosceva, con nota del 09.06.1997, che gli stessi non erano dovuti, trattandosi di volume interrato (doc. 5 di parte ricorrente), infine con nota prot. n. 33388 del 21.10.2000 (doc. 1 di parte ricorrente) ancora richiedeva il pagamento degli oneri citati (doc. 1) e nella relazione del tecnico istruttore specificava che solo nel caso di cantine che avessero le esatte dimensioni di cui all’art. 16 delle NTA del PRG comunale gli oneri di urbanizzazione non erano dovuti.
...
La censura è fondata.
A prescindere dalla specifica applicabilità al caso in esame dell’art. 16 delle NTA comunali, con ancoraggio al solo “volume emergente” del pagamento degli oneri di urbanizzazione, norma che sembra invero dettata ad altri fini, il motivo di ricorso merita egualmente accoglimento sul rilievo che “la giurisprudenza ha da tempo individuato il principio (recepito anche da qualche legge regionale, si veda legge regionale Toscana n. 1/2005, art. 120) secondo il quale per l'insorgenza dell'obbligo di corresponsione degli oneri di urbanizzazione occorre che vi sia un effettivo aggravio del carico urbanistico, dovuto alla incidenza dell'intervento edilizio, che deve essere considerato non nell'insieme delle superfici <di calpestio>, ma di quelle utili, le sole in grado di comportare un maggior incremento del carico urbanistico” (Cons. Stato, sez. 4^, n. 4439 del 2009); da tale principio la richiamata pronuncia del Consiglio di Stato trae la conclusione che il calcolo degli oneri di urbanizzazione vada sì correlato alle “<superfici di calpestio>, ma per queste devono intendersi quelle <utili>, che sono costituite dalla somma delle aree di pavimento dei singoli vani utilizzati per le attività e destinazioni d'uso, con esclusione delle aree destinate <ai porticati, ai pilotis, alle logge, ai balconi, ai terrazzi, ai locali cantina, soffitte ed ai locali sottotetto non agibili>".
Ne consegue che anche nella specie, trattandosi pacificamente di locale interrato adibito a cantina, gli oneri di urbanizzazione non sono dovuti (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 08.06.2016 n. 948 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIAppalti, lo stop ai lavori macchia il cv dell'impresa.
Resta la «macchia» sulla «fedina» dell'impresa appaltatrice quando il coordinatore della sicurezza rileva irregolarità sulla sicurezza tali da sospendere i lavori: su segnalazione dell'ente che ha messo a gara quel lotto, infatti, l'authority di settore -ieri Avcp oggi Anac- deve dar conto del fatto nel casellario informatico delle imprese qualificate a svolgere lavori pubblici.
L'annotazione è un atto dovuto senza obbligo di una particolare motivazione perché l'impresa deve ritenersi al corrente delle proprie inadempienze.

E quanto emerge dalla sentenza 07.06.2016 n. 6522, pubblicata dalla I Sez. del TAR Lazio-Roma.
VIOLAZIONE CONTESTATE. Niente da fare per la società che sta costruendo la cittadella della cultura nel territorio del Comune. Decisivo il sopralluogo del coordinatore che blocca i lavori: nel cantiere vede lavorare operai su vani scala senza parapetto a più di due metri dal piano inferiore e accerta altre omissioni in termini di protezione dei lavoratori; lo stop alle operazioni scatta dunque per un «pericolo imminente».
Ecco allora che è inevitabile l'annotazione nel casellario informatico ex articolo 27 del dpr 34/2000: la segnalazione della stazione appaltante non ha margini discrezionali perché è «grave» la violazione riscontrata rispetto alle norme antinfortunistiche. E dunque non c'è bisogno di coinvolgere l'impresa nel procedimento amministrativo: deve invero ritenersi che l'appaltatore sia al corrente degli illeciti che gli sono contestati dopo che gli è trasmesso il verbale del coordinatore per la sicurezza.
BLACK LIST. Inutile in particolare per l'impresa lamentare che non è stato comunicato l'avvio del procedimento in base alla legge sulla trasparenza dell'attività amministrativa, la 241/1990. Il punto è che la segnalazione all'autorità vigilante costituisce una provvedimento a carattere vincolato per la stazione appaltante, il che consente di comprimere il diritto del privato a partecipare al procedimento amministrativo: anche se l'impresa finita sulla black list avesse presto parte all'iter non avrebbe ottenuto alcun vantaggio perché sono incontestati i fatti addebitati alla società nell'ambito del verbale sottoscritto dal coordinatore della sicurezza che ha rilevato le irregolarità.
ELEMENTO LESIVO. Va detto fra l'altro che non si può impugnare la comunicazione dell'ente all'autorità con cui si segnala la sospensione dell'attività nel cantiere: è infatti escluso che sia un atto tale da avere natura di provvedimento, ma è soltanto preparatorio, mentre l'unico elemento che può essere lesivo per l'impresa è l'annotazione disposta dall'autorità di vigilanza nel casellario informatico, di cui all'articolo 27 del dpr 34/2000, che raccoglie tutte le annotazioni provenienti dalle Soa e dalle stazioni appaltanti.
Soltanto l'annotazione, dunque, può essere impugnata e il resto del ricorso è dunque inammissibile. Non resta che pagare le spese di giudizio
(articolo ItaliaOggi del 05.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

VARIRevoca patente spostata avanti. Triennio al via dal passaggio della sentenza in giudicato. Per il Consiglio di stato non rileva il momento in cui è stata commessa l'infrazione.
Il triennio di revoca della patente per guida in stato di ebbrezza decorre dal passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna, e non dall'accertamento dell'infrazione.
Lo ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. III, con la sentenza 06.06.2016 n. 2416.
Il Collegio ha rovesciato l'impostazione teorica scolpita dal giudice di primo grado, facendo presagire tempi duri per chi si mette al volante dopo un bicchiere in più.
La controversia riguardava una donna la quale, priva di sensi, si era schiantata contro muro, con tasso alcolemico superiore a 1,50 grammi per litro. Nei confronti di un fenomeno molto pericoloso e spesso tragico, come quello della circolazione in auto sotto l'influenza dell'alcol, Palazzo Spada ha deciso di adottare una lettura restrittiva della normativa di settore stabilendo che non è possibile conseguire una nuova patente di guida prima di tre anni, i quali decorrono però dalla data di irrevocabilità della sentenza penale.
L'intero ragionamento espresso nella sentenza, che sposta nel tempo la possibilità di guidare nuovamente, ruota intorno all'interpretazione dell'art. 219, comma 3-ter del codice della strada. In tal senso il giudice d'appello premette che «il codice della strada a volte fa riferimento all'“accertamento” dei fatti, altre volte all'“accertamento del reato”.
L'art. 219, nel prevedere la possibilità di ottenere nuovamente il permesso di guida dopo l'avvenuta revoca nei casi di guida alticcia o alterata da uso di stupefacenti, fa riferimento “all'accertamento del reato” e non alla “data di commissione del fatto», né alla «data di accertamento del fatto in sede amministrativa». Poiché l'Autorità amministrativa non può accertare reati, ciò rientra nell'ambito delle competenze dell'Autorità giudiziaria.
Va tenuto presente che la tematica risulta poco omogenea, quantomeno nella giurisprudenza di primo grado. I giudici amministrativi di Trento addirittura affidano la questione al giudice ordinario (sentenza 24.03.2016 n. 164). Il Tar del Veneto (sentenza 15.04.2016 n. 393) fa invece coincidere la data di accertamento del reato con la data di contestazione della violazione da parte dell'organo accertatore (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.07.2016).

APPALTI: Per i contratti pubblici di appalto relativi a lavori, servizi e forniture, in caso di ritardo nel pagamento delle retribuzioni o dei contributi dovuti al personale dipendente dell'esecutore o del subappaltatore o dei soggetti titolari di subappalti e cottimi di cui all'art. 118, comma 8, ultimo periodo, del relativo codice, di cui al D.Lgs. 12.04.2006, n. 163, i lavoratori devono avvalersi degli speciali strumenti di tutela previsti dal codice citato, le cui modalità di utilizzazione sono determinate, in particolare, dagli artt. 4 (per i contributi) e 5 (per le retribuzioni) del D.P.R. 05.10.2010, n. 207 (recante il Regolamento di esecuzione ed attuazione del suddetto codice).
Tale disciplina che, peraltro, consente agli interessati di recuperare -anche in corso d'opera- quanto dovuto, è articolata in modo tale da dimostrare che, nell'ambito degli appalti pubblici, il legislatore attribuisce allo scorretto comportamento tenuto dal datore di lavoro nei confronti dei propri dipendenti un disvalore maggiorato dal fatto di considerarlo anche lesivo degli interessi pubblici al cui migliore perseguimento è preordinata la complessiva disciplina regolatrice degli appalti pubblici.
Ne consegue che alla suindicata fattispecie non è applicabile il D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, comma 2, come peraltro stabilisce il precedente art. 1, comma 2, che esclude che il decreto stesso sia applicabile "per le pubbliche amministrazioni e per il loro personale" e come, di recente ha confermato dal D.L. 28.06.2013, n. 76, art. 9, comma, (convertito dalla L. 09.08.2013, n. 99).
Viceversa nel caso di mancata utilizzazione da parte dei lavoratori degli strumenti previsti dalla suindicata normativa speciale, è possibile fare ricorso, in via residuale, alla tutela di cui all'art. 1676 cod. civ., che in base alla consolidata giurisprudenza di questa Corte, è applicabile anche ai contratti di appalto stipulati con le pubbliche amministrazioni
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Il primo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione degli artt. 29 d.lgs. 276/2003, 118, sesto comma, dlgs 163/2006 e 5 d.p.r. 207/2010, per la soggezione di Trenitalia s.p.a. al regime di responsabilità previsto dal codice di disciplina degli appalti pubblici, è infondato.
Esso pone la questione della compatibilità tra le due normative di disciplina della materia dell'occupazione e del mercato del lavoro e quindi della tutela delle condizioni dei lavoratori (d.lgs. 276/2003) e dei contratti pubblici (d.lgs. 163/2006) e dei relativi regimi di responsabilità: solidale del committente con l'appaltatore per i trattamenti retributivi e i contributi previdenziali da questo dovuti ai suoi lavoratori dipendenti (art. 29, secondo comma, d.lgs. 276/2003); diretta dell'appaltatore nei confronti dei propri dipendenti e solidale con i subappaltatori per i loro per l'osservanza integrale del trattamento economico e normativa stabilito dai contratti collettivi nazionale e territoriale in vigore per il settore e la zona di esecuzione delle prestazioni (art. 118, sesto comma d.lgs. 163/2006) e sostitutiva del committente (stazione appaltante) in caso di inadempienza contributiva e retributiva dell'esecutore e dell'appaltatore (artt. 4 e 5 d.p.r. 207/2010, recante regolamento di esecuzione ed attuazione del d.lgs. 163/2006, codice dei contratti pubblici).
Come noto, la questione è stata risolta negativamente da un recente arresto di questa Corte (Cass. 07.07.2014, n. 15432) in riferimento alle pubbliche amministrazioni (nel caso di specie: ministero della giustizia). E ciò appare chiaro fin dall'esordio della sua parte motiva, secondo cui: "
La questione centrale per il presente giudizio è rappresentata dallo stabilire se la delineata disciplina della responsabilità solidale tra committente e appaltatore sia applicabile anche agli appalti pubblici e, conseguentemente, se gli obblighi posti in capo al committente dall'art. 29 d.lgs. 276/2003 si applichino anche nell'ipotesi in cullo stesso sia una pubblica amministrazione".
In esito ad un articolato procedimento argomentativo, di individuazione delle disposizioni regolanti i rapporti tra i soggetti coinvolti nell'appalto pubblico e l'osservanza dei loro obblighi retributivi e contributivi ("Dall'insieme di tali disposizioni" -essenzialmente quelle sopra citate- "si desume che a garanzia dei crediti retributivi e contributivi dei lavoratori impegnati negli appalti -o nei subappalti- pubblici sono previsti specifici strumenti che, se attivati nei tempi e nei modi prescritti, consentono agli interessati di avere direttamente dall'amministrazione committente il pagamento delle retribuzioni dovute dai loro datore di lavoro anche in corso d'opera. Al contempo, con l'attivazione di tale tutela speciale, il lavoratore può consentire al committente di applicare le opportune sanzioni ... al datore di lavoro inadempiente ed ottenere un ristoro pieno del proprio credito per le retribuzioni corrisposte ai lavoratori, obiettivo raggiungibile anche "detraendo il relativo importo dalle somme dovute all'esecutore del contratto ovvero dalle somme dovute al subappaltatore inadempiente nel caso in cui sia previsto il pagamento diretto ai sensi degli art. 37, comma 11, ultimo periodo e art. 118, comma 3, primo periodo del codice"), da cui trae la constatazione della più rigorosa disciplina del codice degli appalti (anche) a tutela della natura pubblica della committenza ("Da tutto ciò si desume che il mancato pagamento delle retribuzioni nell'ambito di un appalto pubblico è, dal legislatore, considerato più grave del mancato pagamento delle retribuzioni nell'ambito di un appalto privato, perché la questione non riguarda solo i lavoratori, ma anche l'appaltatore inadempiente, nel suo rapporto con il committente pubblico"), la Corte, previsto in via sussidiaria il ricorso dei lavoratori alla tutela stabilita dall'art. 1676 c.c. ("che in base ad orientamenti consolidati e condivisi di questa Corte, è applicabile anche ai contratti di appalto stipulati con le pubbliche amministrazioni"), risolve la questione nel senso detto, di inapplicabilità della responsabilità prevista dall'art. 29, secondo comma dlgs. 276/2003 alle pubbliche amministrazioni con l'affermazione del seguente principio di diritto: "
per i contratti pubblici di appalto relativi a lavori, servizi e forniture, in caso di ritardo nel pagamento delle retribuzioni o dei contributi dovuti al personale dipendente dell'esecutore o del subappaltatore o dei soggetti titolari di subappalti e cottimi di cui all'art. 118, comma 8, ultimo periodo, del relativo codice, di cui al D.Lgs. 12.04.2006, n. 163, i lavoratori devono avvalersi degli speciali strumenti di tutela previsti dal codice citato, le cui modalità di utilizzazione sono determinate, in particolare, dagli artt. 4 (per i contributi) e 5 (per le retribuzioni) del D.P.R. 05.10.2010, n. 207 (recante il Regolamento di esecuzione ed attuazione del suddetto codice).
Tale disciplina che, peraltro, consente agli interessati di recuperare -anche in corso d'opera- quanto dovuto, è articolata in modo tale da dimostrare che, nell'ambito degli appalti pubblici, il legislatore attribuisce allo scorretto comportamento tenuto dal datore di lavoro nei confronti dei propri dipendenti un disvalore maggiorato dal fatto di considerarlo anche lesivo degli interessi pubblici al cui migliore perseguimento è preordinata la complessiva disciplina regolatrice degli appalti pubblici.
Ne consegue che alla suindicata fattispecie non è applicabile il D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 29, comma 2, come peraltro stabilisce il precedente art. 1, comma 2, che esclude che il decreto stesso sia applicabile "per le pubbliche amministrazioni e per il loro personale" e come, di recente ha confermato dal D.L. 28.06.2013, n. 76, art. 9, comma, (convertito dalla L. 09.08.2013, n. 99).
Viceversa nel caso di mancata utilizzazione da parte dei lavoratori degli strumenti previsti dalla suindicata normativa speciale, è possibile fare ricorso, in via residuale, alla tutela di cui all'art. 1676 cod. civ., che in base alla consolidata giurisprudenza di questa Corte, è applicabile anche ai contratti di appalto stipulati con le pubbliche amministrazioni
".
E ciò si spiega per l'espresso divieto di applicazione del dlgs. 276/2003 alle pubbliche amministrazioni, a norma del suo art. 1, secondo comma ("Il presente decreto non trova applicazione per le pubbliche amministrazioni e per il loro personale"), ulteriormente ribadito da quello più specifico introdotto dall'art. 9, primo comma, dl. 76/2013 conv. con mod. in l. 99/2013 (inapplicabile ratione temporis, ma utilizzabile in via interpretativa, come anche ritenuto da Cass. 07.07.2014, n. 15432), secondo cui: "Le disposizioni di cui all'articolo 29, comma 2, del decreto legislativo 10.09.2003, n. 276 e successive modificazioni ... non trovano applicazione in relazione ai contratti di appalto stipulati dalle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165" (secondo cui; "Per amministrazioni pubbliche si intendono tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le Regioni, le Province, i Comuni, le Comunità montane e loro consorzi e associazioni, le istituzioni universitarie, gli Istituti autonomi case popolari, le Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e loro associazioni, tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, le amministrazioni, le aziende e gli enti del Servizio sanitario nazionale").
Ma un analogo divieto di applicazione dell'art. 29, secondo comma, d.lgs. 276/2003 non esiste nei confronti dei soggetti privati, quale Trenitalia s.p.a., cui pure si applica il codice dei contratti pubblici, nella sua qualità di "ente aggiudicatore", secondo la definizione dell'art. 3, ventinovesimo comma d.lgs. 163/2006 (nel campo dei servizi ferroviari in base all'allegato VI D ed ai fini dell'applicazione della parte III, artt. 206 ss., secondo la previsione dell'art. 3, trentesimo comma, d.lgs. cit.) e quindi anche l'art. 118, sesto comma, neppure essendo la norma in esame stata abrogata dall'art. 256 dlgs. cit.
Giova poi ancora sottolineare come il codice dei contratti pubblici non contenga una disciplina di legge autosufficiente, in sé esaustiva né aliunde integrabile: al contrario, esso è compatibile con disposizioni ad esso esterne, come chiaramente denunciato dal rinvio, per quanto in esso non espressamente previsto in riferimento all'attività contrattuale, alle disposizioni stabilite dal codice civile (art. 2, quarto comma, 163/2006).
E proprio in virtù di un tale rimando, nei confronti delle pubbliche amministrazioni, cui è preclusa per espresso divieto di legge l'integrazione con il d.lgs. 276/2003, si è ritenuto applicabile il regime di garanzia dei lavoratori (più in generale degli ausiliari) dell'appaltatore previsto dall'art. 1676 c.c. (ancora da Cass. 07.07.2014, n. 15432).
Sicché, ben a ragione si deve ritenere applicabile il regime di responsabilità solidale stabilito dall'art. 29, secondo comma d.lgs. 276/2003 a quei soggetti privati, quale Trenitalia s.p.a., anche qualora committenti in appalti pubblici, alla cui disciplina pure siano soggetti.
Ed infatti, nessuna incompatibilità è ravvisabile tra le due discipline.
Il dlgs 276/2003 regola la materia dell'occupazione e del mercato del lavoro, sul piano della tutela delle condizioni dei lavoratori, con riserva di una più forte protezione ad essi, titolari di un'azione diretta nei confronti (in via solidale con il proprio datore di lavoro) del committente per ottenere i trattamenti retributivi e i contributi previdenziali dovuti in dipendenza dell'appalto e non soltanto, come a norma dell'art. 5, primo comma, d.p.r. 207/2010, le retribuzioni arretrate (peraltro nei limiti delle somme dovute all'esecutore del contratto ovvero al subappaltatore inadempiente nel caso in cui sia previsto il pagamento diretto, con detrazione da queste del loro importo): e ciò non per riconoscimento di un proprio diritto, ma per esercizio di una facoltà ("possono pagare anche in corso d'opera") attribuita ai soggetti indicati dall'art. 3, primo comma, lett. b), D.P.R. cit. ("amministrazioni aggiudicatrici, organismi di diritto pubblico, enti aggiudicatori, altri soggetti aggiudicatori, soggetti aggiudicatori e stazioni appaltanti: i soggetti indicati rispettivamente dall'art. 3, commi 25, 26, 29, 31, 32 e 33, del codice").
Il d.lgs. 163/2006 opera, invece, sul diverso piano della disciplina degli appalti pubblici, anche apprestando una tutela ai lavoratori, nei limiti detti, in corso d'opera, ma con più intensa concentrazione sull'esecuzione dell'appalto in conformità a tutti gli obblighi previsti dalla legge: e ciò mediante un costante monitoraggio dell'osservanza del loro regolare adempimento a cura dell'appaltatore e dei suoi subappaltatori, per effetto di una disciplina sintomatica di una più preoccupata attenzione legislativa alla corretta esecuzione dell'appalto pubblico, siccome non riguardante soltanto diritti dei lavoratori, ma anche l'appaltatore inadempiente nel suo rapporto con il committente pubblico (come osservato anche da Cass. 07.07.2014, n. 15432).
Dalle superiori argomentazioni discende allora coerente la possibilità di un concorso, nei confronti di un imprenditore soggetto di diritto privato come Trenitalia s.p.a., delle due discipline, in assenza di un espresso divieto di legge e tra loro, per le ragioni dette, ben compatibili (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 24.05.2016 n. 10731).

EDILIZIA PRIVATA: Le fioriere si rimuovono senza nullaosta del Comune. Tar Lazio. Niente sanzioni quando si tratta di lavori di «edilizia libera».
Non è legittimo il comportamento del Comune che irroga una sanzione amministrativa al condominio che ha fatto rimuovere le fioriere posizionate lungo il prospetto dell’edificio senza effettuare la segnalazione di inizio attività all’amministrazione.

Lo afferma
la sentenza 24.05.2016 n. 6098, pubblicata dalla Sez. II-quater del TAR Lazio-Roma.
La vicenda
La vicenda prende le mosse da un condominio che decideva di rimuovere delle fioriere che si sviluppavano per diversi metri lungo la facciata del caseggiato. Tale modifica veniva ritenuta illecita dal Comune che, con determinazione dirigenziale, irrogava una pesante sanzione pecuniaria alla collettività condominiale, in quanto mancava il titolo abilitativo (Scia) per svolgere le opere.
Sono infatti soggetti a Scia le manutenzioni straordinarie con interessamento delle parti strutturali, i restauri e risanamenti conservativi, le ristrutturazioni edilizie “leggere”, comprese anche le demolizioni e ricostruzioni senza rispetto della precedente sagoma dell’edificio, purché non si modifichino le volumetrie originarie o i prospetti.
La replica
I condomini, però, erano convinti che per la rimozione fosse sufficiente una semplice comunicazione di inizio lavori con asseverazione tecnica (allegata) redatta da un tecnico, che confermasse l’assenza di modifiche alle parti strutturali del caseggiato, nonché attestasse la conformità delle opere previste alle prescrizioni edilizio-urbanistiche di leggi e norme comunali.
I giudici del tribunale amministrativo laziale hanno dato ragione al condominio, affermando che l’intervento (rimozione delle fioriere) deve qualificarsi come manutenzione straordinaria che non riguarda parti strutturali dell’edificio, quindi assoggettata al regime dell’edilizia libera previa presentazione di una comunicazione di inizio lavori asseverata.
In altre parole, secondo il Tar, la rimozione in questione rientra certamente nell’ambito dell’attività di edilizia libera che non richiede da parte di chi la realizza l’ottenimento di particolari titoli abilitativi e può essere iniziata dalla data di presentazione della comunicazione da consegnare al Comune unitamente ad una relazione asseverata di un tecnico abilitato, disegni di progetto (prima, dopo e durante i lavori).
È quindi il tecnico a caricarsi della responsabilità di dichiarare se i lavori possono essere realizzati solo con una semplice comunicazione.
In ogni caso va ricordato che si può usufruire di questo strumento semplificato solo se vengono rispettate le normative antisismiche, energetiche, antincendio, igienico sanitarie, ed altre prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali (piano regolatore e regolamento edilizio)
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.07.2016).

EDILIZIA PRIVATAAbusi sulla spiaggia risolti con ordinanza del sindaco.
Chi occupa abusivamente la duna può incorrere in un controllo dei vigili e nella conseguente ordinanza di ripristino comunale. Oltre alle normali sanzioni previste dalla disciplina edilizia e marittima.

Lo ha chiarito il TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, con la sentenza 24.05.2016 n. 2638.
Un cittadino ha acquistato una villetta sul mare con tanto di vialetto abusivo e connesse installazioni sulla duna demaniale. A seguito del sopralluogo della polizia municipale il comune ha adottato una ordinanza di ripristino contro il quale l'interessato ha proposto senza successo censure al collegio.
L'installazione sullo spazio demaniale protetto, senza alcun titolo, di una piscina con tanto di vialetto servito lateralmente da lampioncini elettrici e tubo di irrigazione, contrasta certamente con la normativa ambientale. A nulla rileva se l'installazione è precedente all'acquisto. E il comune in materia ha una competenza concorrente con l'autorità marittima (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.07.2016).
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MASSIMA
Il ricorso deve essere respinto in quanto infondato.
Dal verbale redatto dagli agenti della Polizia Municipale di Sessa Aurunca nel luglio 2011 risulta, infatti, che sullo spazio antistante la proprietà della ricorrente sono stati installati 70 piante frangivento, una piscina gonfiabile e un gioco jumping (molla elastica), e realizzato un vialetto di circa 50 metri, servito lateralmente da lampioncini elettrici, con un tubo in pvc interrato per l'irrigazione delle piante, il tutto collegato all'impianto idrico della villa di proprietà della ricorrente.
Il Comune, rilevata l’abusività delle opere, insistenti su suolo demaniale, ha ordinato la rimozione delle stesse e il ripristino dello stato dei luoghi.
Con la prima censura la ricorrente ha dedotto di essere estranea all’abuso, in quanto le opere preesistevano rispetto all’epoca in cui aveva acquistato la villa ed erano state apposte su suolo di proprietà del demanio marittimo.
Al riguardo deve evidenziarsi, in primo luogo, che non assume rilievo l’eventuale realizzazione delle opere in epoca antecedente all’acquisto dell’immobile adiacente da parte della ricorrente, emergendo con chiarezza, dalla documentazione agli atti, che la stessa ne aveva l’utilizzo e la disponibilità al momento del sopralluogo effettuato, dalle cui risultanze sono scaturiti i provvedimenti in questa sede impugnati.
Con riferimento alla contestazione della responsabilità, in capo alla ricorrente, dell’abuso, deve infatti osservarsi che,
fermo restando, in linea generale, l'obbligo di emanare le ordinanze di demolizione di opera edilizia abusiva nei confronti del proprietario attuale indipendentemente dall'essere o meno responsabile delle opere abusive (Consiglio di Stato sez. V 10.07.2003, n. 4107; TAR Puglia Bari sez. II, 28.02.2012, n. 450; TAR Lazio-Roma sez. I-quater, 26.03.2012, n. 2830), detto ordine deve comunque essere rivolto anche nei confronti di chi utilizzi o abbia la disponibilità dell'opera abusiva quale soggetto in grado di porre fine alla situazione antigiuridica (TAR Liguria, sez. I, 30.04.2015, n. 430; Consiglio di Stato sez. VI 30.03.2015 n. 1650; TAR Toscana sez. III, 15.05.2013, n. 801; Consiglio di Stato sez. IV, 16.07.2007, n. 4008; TAR Lazio-Roma sez. I-quater, 26.03.2012, n. 2830) indipendentemente dal coinvolgimento o meno nella realizzazione dell'abuso, in considerazione del carattere ripristinatorio della disposta demolizione (ex multis TAR Puglia-Bari sez. III, 10.05.2013, n. 710).
Le citate norme sanzionatorie si riferiscono, infatti, non all’“autore”, ma al “responsabile” dell'abuso, quest'ultimo inteso come esecutore materiale, ma anche come proprietario o come soggetto che abbia la disponibilità del bene, al momento dell'emissione della misura repressiva.
Ciò vale anche nelle ipotesi, quali quella in esame, di opere realizzate senza titolo abilitativo su area demaniale, dovendo i provvedimenti repressivi adottati dall'Amministrazione essere rivolti nei confronti di chi abbia in concreto una relazione giuridica o anche materiale con il bene (TAR Umbria, sez. I, 29/01/2014 n. 66; Consiglio di Stato sez. IV, 16.07.2007, n. 4008) quindi anche nei confronti dell'odierna ricorrente.
Orbene, nel caso di specie il collegamento delle opere insistenti sull’area demaniale all’impianto idrico dell’immobile di proprietà della ricorrente comprova senza possibilità di dubbio il collegamento delle stesse a tale unità immobiliare ed il loro utilizzo come strutture accessorie della villa, di tal che l’effettivo possessore ed utilizzatore delle opere va individuato nel proprietario del bene cui accedono, che non può certo dirsi estraneo all’abuso.
Il primo motivo va quindi respinto.
Va quindi esaminata la seconda censura, relativa alla violazione dell'art. 54 del Codice della Navigazione che, nel caso di occupazione abusiva di zone del demanio marittimo, prevede la competenza del capo del compartimento con riferimento agli ordini di rimessione in pristino, con conseguente incompetenza dell'ente Comune.
Al riguardo si osserva che
il Testo Unico dell’edilizia prevede una concorrente competenza del Comune in materia di repressione di interventi abusivi su suolo demaniale: in particolare, l'art. 35 DPR 380/2001 dispone che qualora sia accertata la realizzazione di interventi in assenza di titolo abilitativo su suoli del demanio o del patrimonio dello Stato o di enti pubblici "il dirigente o il responsabile dell'ufficio, previa diffida non rinnovabile, ordina al responsabile dell'abuso la demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi, dandone comunicazione all'ente proprietario del suolo".
Tale potere, per giurisprudenza costante, concorre ma è comunque distinto rispetto a quello spettante all'Autorità marittima ai sensi dell'art. 54 Cod. Nav., approvato con r.d. 30.03.1942 n. 327
(TAR Napoli, sez. III, 16.01.2012 n. 195; TAR Latina, sez. I, 23.09.2009, n. 834).
Non è, quindi, ravvisabile alcuna incompetenza del Dirigente comunale in materia, con conseguente infondatezza anche di tale censura.

ATTI AMMINISTRATIVI - PATRIMONIO: L'azione civile va a braccetto con l'ordinanza. Decisione del Tar Marche sui poteri del comune ai fini del rilascio di immobili.
Se anche il Comune ha avviato un'azione in sede civile per ottenere il rilascio di un immobile di sua proprietà, ciò non gli preclude in assoluto la possibilità di utilizzare anche gli strumenti pubblicistici di cui dispone, a condizione, ovviamente, che sussistano i presupposti per l'adozione di un provvedimento contingibile e urgente.

È quanto ribadito dai giudici della I Sez. del TAR per le Marche con la sentenza 21.05.2016 n. 327.
È stato poi evidenziato che il sindaco è indiscutibilmente titolare del potere di disporre lo sgombero coattivo di edifici che minaccino la rovina (e ciò a salvaguardia sia di coloro che abitano in quegli edifici sia della pubblica incolumità), e come ovvio, di caso in caso, è opportuno verificare se sussistano i meno i presupposti di legge per l'adozione dell'atto.
Secondo i giudici amministrativi di Ancona, è, altresì, vero che in talune circostanze l'utilizzo delle prerogative pubblicistiche in pendenza di una lite civile (o anche di trattative per l'acquisto di un bene privato) può far insorgere il sospetto di uno sviamento di potere, ma, viene evidenziato, che l'eccesso di potere sussiste solo nel caso in cui venga accertata la mancanza delle condizioni per l'esercizio dei poteri d'imperio.
Nella sentenza in commento è stato anche offerto un esempio dai giudici al fine di chiarire il concetto: se anche la pubblica amministrazione avesse in corso con un soggetto privato delle trattative per l'acquisto di un immobile da adibire a sede dei propri uffici, ciò non renderebbe ex se illegittimo un provvedimento che, in presenza di una situazione di emergenza sopravvenuta, disponesse la requisizione temporanea o l'espropriazione del medesimo bene (ad esempio, per un terremoto o un'inondazione in conseguenza dei quali sorgesse la necessità di disporre di edifici sicuri dove ospitare gli sfollati).
Inoltre, per espresse disposizioni di legge (si veda, ad esempio, l'art. 823 c.c.), la pubblica amministrazione, al fine di preservare le proprie ragioni con riguardo ai beni demaniali e patrimoniali di cui è proprietaria, dispone sia dei rimedi civilistici (azione di rivendicazione, azione di nuova opera e di danno temuto, azione di rilascio per finita locazione ecc.) sia di quelli pubblicistici (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.07.2016).

ATTI AMMINISTRATIVICause, no Pec? Allora telefax. Senza rituale comunicazione rinvio a nuovo ruolo. Lo hanno ribadito i giudici della Cassazione con un'ordinanza interlocutoria.
Qualora dovesse mancare un recapito di posta certificata tutte le comunicazioni dovranno essere trasmesse a mezzo telefax e nel caso in cui manchi una rituale comunicazione dell'avviso di udienza bisognerà rinviare la causa a nuovo ruolo.
A ribadirlo sono stati i giudici della VI Sez. civile - 2 della Corte di Cassazione con ordinanza interlocutoria 02.05.2016 n. 8623.
Ai sensi dell'art. 366, comma 2 del c.p.c., «se il ricorrente non ha eletto domicilio a Roma ovvero non ha indicato l'indirizzo di posta elettronica certificata comunicato al proprio ordine, le notificazioni gli sono fatte presso la Cancelleria della Corte di cassazione».
Nel caso in esame Tizio, parte ricorrente, nel proporre ricorso, non aveva eletto domicilio in Roma e il difensore aveva dichiarato di voler ricevere ogni comunicazione e/o notificazione ex art. 366 c.p.c. alla utenza telefax e all'indirizzo Pec. L'avviso di udienza veniva notificato presso la Cancelleria della Corte e veniva effettuata la comunicazione a mezzo Pec, priva, peraltro, di valore legale. Si precisava, inoltre, che la comunicazione a mezzo telefax era stata tentata due volte dalla Cancelleria, ma non era andata a buon fine.
Ai sensi, poi, dell'art. 136, al comma secondo, c.p.c. è stato ribadito che «il biglietto è consegnato dal cancelliere al destinatario, che ne rilascia ricevuta, ovvero a mezzo posta elettronica certificata, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici» e al comma terzo stabilisce che «salvo che la legge disponga diversamente, se non è possibile procedere ai sensi del comma che precede, il biglietto viene trasmesso a mezzo telefax, o è rimesso all'ufficiale giudiziario per la notificazione».
E pertanto, escluso che l'avviso di udienza potesse essere comunicato alle parti a mezzo posta elettronica certificata, essendo tale modalità di comunicazione divenuta operante, nel giudizio di cassazione, a far data dal 15.02.2016, deve ritenersi che, nella specie, la comunicazione dovesse avvenire a mezzo fax, ai sensi dell'art. 136, terzo comma, cod. proc. civ., richiamato dall'art. 366, quarto comma, per le comunicazioni di cancelleria.
Nel caso sottoposto all'attenzione degli Ermellini non c'era stata una rituale comunicazione dell'avviso di udienza e ciò, secondo i giudici della Cassazione, comporta la necessità di rinviare la causa a nuovo ruolo (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.07.2016).

INCARICHI PROFESSIONALILa Pec in tilt non salva la notifica. Non c’è rimessione in termini se il malfunzionamento dipende dall’avvocato.
Tribunale di Milano. Respinto il reclamo su una fissazione d’udienza vista oltre il tempo massimo.
Nessuna rimessione in termini per l’avvocato che, dimenticando di svuotare il cestino della casella di posta elettronica certificata, non abbia preso visione in tempo utile – facendolo decorrere – del termine indicato nel decreto di fissazione di udienza per notificare il provvedimento alla controparte. L’uso non diligente dell’account professionale, del resto, è ascrivibile unicamente alla sfera di organizzazione dello studio legale.

Lo sottolinea il TRIBUNALE di Milano, in composizione collegiale, con ordinanza 20.04.2016.
Accende la questione la richiesta di un legale di essere rimesso nei termini per notificare a controparte il decreto di fissazione di udienza con annesso ricorso, promosso nell’interesse degli assistiti. Del provvedimento, rileva l'avvocato, era venuto a conoscenza –non avendo ricevuto alcuna comunicazione da parte della cancelleria del menzionato decreto con apposito messaggio a mezzo pec– una volta decorso l’ultimo giorno utile per la notifica dell’atto e solo all’esito di un controllo effettuato tramite il software “Consolle Avvocato”.
Istanza respinta dal Collegio milanese: del decreto, come confermato dall’attestazione telematica relativa ai dati desunti dal registro di cancelleria, il legale non era venuto a conoscenza in tempo utile, è vero, ma ciò, marca il Tribunale, era conseguenza esclusiva di una negligente gestione della casella di posta. Gli uffici, infatti, avevano regolarmente eseguito la comunicazione nei confronti del legale, ottenendo dal gestore di pec del destinatario una ricevuta di mancata consegna recante la causale “casella piena”.
Mancata visione dell’atto imputabile, pertanto, al professionista, il quale, se solo avesse controllato con la necessaria periodicità la capienza residua della propria casella di posta certificata, scaricando o cancellando i messaggi che ne rendevano satura la memoria, sarebbe senz’altro venuto a conoscenza dei termini fissati dal giudice per provvedere a notificare a controparte il decreto di fissazione d’udienza.
Né, d'altro canto –precisa il Tribunale– «in ipotesi siffatte può fondatamente affermarsi l’onere della cancelleria di effettuare la relativa comunicazione a mezzo fax» posto che, ex articolo 16 del Dl 179/2012, la comunicazione o notificazione via pec «impossibile per cause imputabili al destinatario, si ha per effettuata mediante deposito in cancelleria, essendo questa tenuta ad ovviare con l’uso di mezzi alternativi» (invio di telefax o inoltro tramite ufficiale giudiziario) soltanto quando l’impossibilità di comunicare con il destinatario «non dipenda da causa imputabile allo stesso». Ed è previsto per legge, che nei procedimenti civili le comunicazioni e le notificazioni a cura della cancelleria debbano effettuarsi «esclusivamente per via telematica» all’indirizzo risultante da elenchi pubblici o comunque accessibili alle pubbliche amministrazioni.
Ebbene, nel caso concreto, la mancata ricezione e presa visione del decreto di fissazione dell’udienza collegiale e del termine per notificare alle controparti decreto e reclamo deve ritenersi senza alcun dubbio «ascrivibile alla sfera di organizzazione del legale» che non ha fatto «diligente uso del proprio account di pec». Di qui, il rigetto dell’istanza di rimessione nei termini per notificare
(articolo Il Sole 24 Ore del 21.07.2016).

EDILIZIA PRIVATALavori consolidamento con aliquota ordinaria.
Ai lavori di consolidamento che non siano, quindi opere di urbanizzazione primaria, deve essere applicata l'aliquota Iva ordinaria del 22%; le sanzioni, tuttavia, in considerazione delle condizioni di obiettiva incertezza sulla portata e sull'ambito di applicazione delle disposizioni dell'aliquota agevolata del 10% non sono dovute.
Lo hanno stabilito i giudici della Sez. XXXVIII della Ctr Lazio nella sentenza 05.04.2016 n. 1790/38/2016.
La vertenza riguarda l'aliquota Iva a cui assoggettare le opere di primaria urbanizzazione eseguite dalla società ricorrente al comune di Roma. La società si era aggiudicata un appalto con cui si dovevano consolidare la banchina e il canale di Ostia con la messa in sicurezza del doppio senso di marcia.
Ritenendo che i lavori potessero rientrare nelle agevolazioni previste dalla norma ai sensi del n. 127-quinquies e del n. 127-septies della Tabella A, Parte III, allegata al dpr 633/1972, le opere venivano fatturate all'aliquota agevolata del 10%.
La Commissione provinciale di Roma riteneva che le opere, poiché non di nuova realizzazione, ma, bensì, di mero consolidamento, dovessero essere assoggettate ad aliquota ordinaria. Tuttavia i primi giudici accoglievano il ricorso limitatamente alle sanzioni. Contro questa prima decisione ricorreva sia l'amministrazione finanziaria che la società. I giudici regionali capitolini hanno confermato la decisione di annullamento delle sole sanzioni.
L'Agenzia delle entrate, con la risoluzione n. 41/E del 20.3.2006, ha fornito chiarimenti in merito a quali siano le opere di urbanizzazione primaria e secondaria che possono usufruire del regime Iva agevolato (10%), ai sensi del n. 127-quinquies e del n. 127-septies della Tabella A, Parte III, allegata al dpr 633/1972.
L'Agenzia precisa in particolare che sono soggette al regime agevolato solo la cessione o la costruzione in appalto delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria tassativamente elencate nell'art. 4 della legge 847/1964, successivamente integrato dall'art. 44 della legge 865/1971.
Tuttavia, nel caso specifico il collegio regionale ha ritenuto non applicabili le sanzioni. Questo, nella considerazione delle condizioni di obiettiva incertezza sulla portata e sull'ambito di applicazione delle agevolazioni spettanti alle opere di primaria e secondaria urbanizzazione, a cui potevano essere imputate, prima facie, e in assenza di indicazioni fuorvianti indicate dal comune committente e contenute nella determina di spesa. In conclusione il Collegio, considerata la reciproca soccombenza, ha compensato le spese.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] La Ctp adita accoglieva il ricorso, limitatamente all'ammontare delle sanzioni, ritenendo non applicabili le stesse, per le obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull'ambito di applicazione delle disposizioni alle quali le sanzioni si riferiscono. Avverso la sentenza propone appello principale l'Ufficio, per quanto di soccombenza, lamentandone l'erroneità in fatto e in diritto [omissis]
Con proprie controdeduzioni e appello incidentale, la società insiste sulla correttezza del proprio operato con riguardo al merito della pretesa impositiva e chiede il rigetto del proposto appello principale, in quanto la sentenza si appalesa immune dalle lamentate censure. [omissis] La Commissione, preso atto di quanto dedotto e prodotto dalle parti, ritiene di respingere il proposto appello principale e di respingere il proposto appello incidentale, ravvisando meritevole di conferma l'impugnata sentenza.
Osserva infatti che i primi giudici, del tutto condivisibilmente, sul merito della pretesa impositiva hanno ritenuto di accogliere le ragioni dell'Ufficio, nel presupposto che lavori commissionati nel caso di specie e consistenti nel consolidamento della Banchina dei Pescatori in Ostia e nella messa in sicurezza e riapertura della via dei Pescatori, non consistevano nella realizzazione di un'opera ex novo, come invece avrebbe dovuto essere, ai fini della corretta applicazione dell'aliquota agevolata di cui alla Tabella «A» n. 1271-quinquies, allegata al dpr Iva, ma consistevano in lavori di intervento su opere preesistenti.
Mentre, sul punto dell'applicazione delle sanzioni di cui all'Atto di contestazione impugnato, gli stessi primi giudici, del tutto condivisibilmente, hanno ritenuto le stesse non applicabili, in considerazione delle condizioni di obiettiva incertezza sulla portata e sull'ambito di applicazione delle disposizioni richiamate, atteso che l'aliquota Iva al 10% di cui alla Tabella «A» n. 127-quinquies, allegata al dpr Iva, in quanto riferita a opere di urbanizzazione primaria e secondaria come previste dalla legge 847/1964, poteva riferirsi, prima facie, anche ai lavori commissionati nel caso di specie, e consistenti nel consolidamento della Banchina dei Pescatori in Ostia e nella messa in sicurezza e riapertura della via dei Pescatori, pur non trattandosi della realizzazione di un'opera ex novo, come invece avrebbe dovuto essere, per la corretta applicazione dell'aliquota agevolata; a tacere poi delle indicazioni fuorvianti date dal Comune committente e contenute nella determina di spesa n. 170/05. Le spese di giudizio si compensano tra le parti, in considerazione della materia trattata e della reciproca soccombenza.
P.Q.M. Rigetta l'appello principale, rigetta l'appello incidentale e conferma il primo grado. Spese compensate (articolo ItaliaOggi Sette del 18.07.2016).

EDILIZIA PRIVATA - VARI: Consegna del certificato di abitabilità all'acquirente dell'immobile: è una condotta ricompresa tra le obbligazioni del venditore ai sensi dell'art. 1477 cod. civ..
La consegna del certificato di abitabilità dell'immobile oggetto del contratto, ove questo sia un appartamento da adibire ad abitazione, pur non costituendo di per sé condizione di validità della compravendita, integra un'obbligazione incombente sul venditore ai sensi dell'art. 1477 c.c., attenendo ad un requisito essenziale della cosa venduta, in quanto incide sulla possibilità di adibire legittimamente la stessa all'uso contrattualmente previsto.
Il venditore-costruttore ha dunque l'obbligo di consegnare all'acquirente dell'immobile il certificato, curandone la richiesta e sostenendo le spese necessarie al rilascio, e l'inadempimento di questa obbligazione è ex se foriero di danno emergente, perché costringe l'acquirente a provvedere in proprio, ovvero a ritenere l'immobile tal quale, cioè con un valore di scambio inferiore a quello che esso diversamente avrebbe, a prescindere dalla circostanza che il bene sia alienato o comunque destinato all'alienazione a terzi.
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La pronunzia mette a fuoco il tema specifico del rifiuto da parte del promissario acquirente di addivenire alla stipulazione del contratto traslativo di compravendita in difetto della consegna, da parte del promittente alienante, del certificato di agibilità.
Si tratta invero di una situazione non infrequente, in parte anche riconducibile all'inerzia degli uffici comunali ed alle incertezze conseguenti al fatto che l'abitabilità scaturisce anche semplicemente per effetto del perfezionamento del procedimento che culmina con il silenzio-assenso.
Nel caso concreto non era in questione l'aspetto costituito dalla mancanza o meno dei requisiti affinché l'immobile potesse essere dichiarato abitabile. Giova rilevare come, in quest'ultimo caso, si possa giungere a configurare la radicale ipotesi di aliud pro alio (in relazione all'eventuale perfezionamento di atto traslativo della proprietà) (commento tratto da www.e-glossa.it - Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 08.02.2016 n. 2438).
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MASSIMA
1.1. - Il ricorso principale è fondato.
1.2. - Con il primo motivo è dedotta violazione e falsa applicazione degli artt. 1453-1460, 1477, terzo comma, 1490, primo e secondo comma, 2932 cod. civ., nonché vizio di motivazione.
I ricorrenti si dolgono che la Corte d'appello abbia ritenuto ingiustificato il loro rifiuto di stipulare il contratto definitivo a fronte della mancata consegna del certificato di agibilità dell'immobile oggetto del trasferimento.
La consegna del certificato costituiva prestazione essenziale del promittente venditore, con la conseguenza che erano privi di significato i rilievi della Corte d'appello in ordine alla mancanza assunzione di uno specifico impegno in tal senso da parte del promittente venditore, e alla mancata deduzione, da parte dei promissari acquirenti, dell'impossibilità di ottenere il certificato.
1.3 - La doglianza è fondata.
1.3.1. -
L'obbligo di consegnare il certificato di agibilità grava ex lege sul venditore, in base all'art. 1477, terzo comma, cod. civ., e a ciò consegue che il rifiuto del promissario acquirente di stipulare la compravendita definitiva di un immobile privo dei certificati di abitabilità o di agibilità e di conformità alla concessione edilizia, pur se il mancato rilascio dipende da inerzia del Comune -nei cui confronti peraltro è obbligato ad attivarsi il promittente venditore- è giustificato, poiché l'acquirente ha interesse ad ottenere la proprietà di un immobile idoneo ad assolvere la funzione economico- sociale e a soddisfare i bisogni che inducono all'acquisto, e cioè la fruibilità e la commerciabilità del bene (ex plurimis, Cass., sez. 2^, sentenza n. 15969 del 2000; sentenza n. 16216 del 2008).
...
2. - Con il secondo motivo è dedotta violazione e falsa applicazione degli artt. 1453 e ss., 1218 e ss. cod. civ., nonché vizio di motivazione.
I ricorrenti lamentano il mancato accoglimento della domanda di risarcimento del danno provocato dall'omessa consegna del certificato di abitabilità relativo all'appartamento acquistato con rogito del 05.09.2001, che Orlando si era impegnato a consegnare con scrittura privata in pari data.
La Corte territoriale, infatti, aveva condannato St.Or. consegnare il certificato o, in alternativa, a rimborsare le spese a tal fine necessarie, ed aveva motivato il rigetto della pretesa risarcitoria sul rilievo che gli appellanti Ca.-Si. non avevano allegato che il certificato fosse stato rifiutato o non potesse essere rilasciato.
Oltre all'erronea applicazione dei principi in tema di onere di allegazione, la Corte territoriale non aveva tenuto conto che Orlando non aveva contestato la circostanza che, a distanza ormai di molti anni, non era stata ottenuta l'abitabilità dell'immobile.
A tale ultimo proposito, i ricorrenti precisano che il certificato non è stato rilasciato per difetti di costruzione dell'appartamento, e che pertanto essi sono tenuti a far eseguire a loro spese i lavori necessari.
2.1. - La doglianza è fondata.
La Corte territoriale ha erroneamente escluso che l'accertata mancata consegna del certificato dà abitabilità dell'appartamento integrasse inadempimento contrattuale, ponendo a carico degli acquirenti l'onere di dimostrare che il certificato non potesse essere ottenuto.
2.1.1. - Come già evidenziato nell'esame del precedente motivo,
la consegna del certificato di abitabilità dell'immobile oggetto del contratto, ove questo sia un appartamento da adibire ad abitazione, pur non costituendo di per sé condizione di validità della compravendita, integra un'obbligazione incombente sul venditore ai sensi dell'art. 1477 cod. civ., attenendo ad un requisito essenziale della cosa venduta, in quanto incide sulla possibilità di adibire legittimamente la stessa all'uso contrattualmente previsto.
Il venditore-costruttore ha dunque l'obbligo di consegnare all'acquirente dell'immobile il certificato, curandone la richiesta e sostenendo le spese necessarie al rilascio, e l'inadempimento di questa obbligazione è ex se foriero di dann emergente, perché costringe l'acquirente a provvedere in proprio, ovvero a ritenere l'immobile tal quale, cioè con un valore di scambio inferiore a quello che esso diversamente avrebbe, a prescindere dalla circostanza che il bene sia alienato o comunque destinato all'alienazione a terzi
(ex plurimis, Cass., sez. 2^, sentenza n. 23157 del 2013).
2.1.2. - Sulla base dei principi richiamati e di quelli in tema di inadempimento contrattuale,
non è dubitabile che l'onere di allegazione e di prova della perdurante possibilità di procurare il certificato gravi sulla parte che è tenuta alla consegna.
Nel caso di specie, la parte promittente venditrice non ha dimostrato di poter onorare l'impegno, e quindi sussiste l'inadempimento e, con esso, il relativo danno.
2.2. - Nell'accoglimento dei motivi che precedono, rimane assorbito il terzo motivo del ricorso principale, relativo alla regolamentazione delle spese di lite disposta dalla Corte d'appello.
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In argomento, si legga anche:
Obbligazioni del venditore (22.07.2016 - link a www.e-glossa.it).

EDILIZIA PRIVATANegozio in centro, basta la Cila per ristrutturare (senza facciata). Comunicazione di inizio lavori sufficiente, ha affermato il Tar della Puglia.
Basta la Cila per ristrutturare il bagno del negozio nel centro storico della città senza che il proprietario dell'immobile e il gestore dell'esercizio siano costretti anche a realizzare interventi sulla facciata dell'edificio, che pure è di pregio. E ciò perché la comunicazione di inizio lavori asseverata risulta sufficiente quando i lavori previsti non incidono sulla struttura del fabbricato, mentre il Comune non può imporre anche di realizzare lavori sul prospetto dell'immobile.

È quanto emerge dalla sentenza 03.02.2016 n. 240, pubblicata dalla III Sez. TAR Puglia-Lecce.
Vincolo irragionevole
Accolto il ricorso del proprietario delle mura e del commerciante: compie un eccesso di potere l'amministrazione locale quando dichiara decaduta la Cila sostenendo che per portare a termine il progetto sarebbe necessario il permesso a costruire.
In realtà i lavori riguardano l'intonaco e i pavimenti, si punta a rifare il bagno, a tinteggiare le pareti, a restaurare gli infissi e sostituire gli impianti. Nulla di particolarmente invasivo, insomma: sarebbe dunque ingiustamente dannoso per il proprietario e il gestore dei locali subordinare qualsiasi intervento alla realizzazione di opere sull'intero edificio, laddove ad esempio si dispone che la facciata debba essere riportata alle antiche fattezze.
Né si può imporre il titolo edilizio più oneroso per un cambio di destinazione d'uso: i locali un tempo ospitavano un bar e sono sempre stati utilizzati per un'attività commerciale, diversamente sarebbe stato sì necessario il permesso di costruire. E la destinazione d'uso si desume dal titolo edilizio, fino a prova contraria. D'altronde sono le stesse norme tecniche di attuazione del piano particolareggiato per il centro storico che consentono di realizzare interventi dettati da esigenze igieniche, a patto che non compromettano i principi essenziali del restauro.
Nonostante che il provvedimento del Comune sia annullato, il proprietario dell'immobile e il committente dell'opera non ottengono anche il risarcimento perché non riescono a dimostrare il danno in concreto patito. Le spese di giudizio sono dichiarate irripetibili per la complessità e la natura tecnica del processo (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: Pensiline senza vincoli. Sono pertinenze.
La circolare amministrativa non può bloccare la pensilina. È illegittimo il niet della soprintendenza alla compatibilità paesistica per la pensilina dell'abitazione in area vincolata se il rigetto risulta motivato con il superamento del limite massimo di incremento di superficie utile, laddove il «paletto» risulta indicato nella misura di un quarto dell'area di sedime del fabbricato da un documento di prassi diffuso del ministero dei beni e delle attività culturali: è evidente che quest'ultimo non può derogare alla legge e, dunque, i valori indicati devono essere ritenuti di massima e da valutare caso per caso.

È quanto emerge dalla sentenza 13.01.2016 n. 17, pubblicata dalla I Sez. del TAR Campania-Salerno.
Zona panoramica. Accolto il ricorso del proprietario dell'immobile dopo lo stop imposto dall'amministrazione alla struttura aperta da tre lati e adiacente all'abitazione in zona panoramica.
La pensilina risulta assimilabile alla tettoia perché entrambe hanno le stesse finalità di arredo, riparo e di protezione dagli agenti atmosferici: l'opera edilizia può dunque ritenersi sanabile anche di fronte a un modesto scostamento dal limite massimo per l'incremento di superficie utile.
E d'altronde la giurisprudenza ha riconosciuto che le tettoie aperte su tre lati e addossate a un edificio principale costituiscono pertinenze dell'edificio cui accedono se mostrano dimensioni e caratteristiche costruttive non particolarmente impattanti.
Insomma: la soprintendenza deve ritornare sul provvedimento che ha negato il placet. E il ministero dei beni culturali paga le spese di giudizio (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.07.2016).

AGGIORNAMENTO ALL'11.07.2016

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Impianti tecnologici post D.M. n. 37/2008: se la ditta non produce la dichiarazione di conformità il comune cosa può/deve richiedere al cittadino/ditta in luogo della stessa??

     A seguire si ripropone il quesito posto al Mi.S.E. da parte di un comune:

     Buongiorno,
interloquendo con la CCIAA di Bergamo, mi hanno detto di rivolgermi direttamente alla Sua attenzione per il quesito che rappresento a seguire, poiché non sanno darmi la risposta.
     Nello specifico, mi riferisco a quanto disposto dall'art. 7, comma 5, del D.M. 37/2008 il quale così recita:

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Art. 7. Dichiarazione di conformità
  
1. Al termine dei lavori, previa effettuazione delle verifiche previste dalla normativa vigente, comprese quelle di funzionalità dell'impianto, l'impresa installatrice rilascia al committente la dichiarazione di conformità degli impianti realizzati nel rispetto delle norme di cui all'articolo 6. Di tale dichiarazione, resa sulla base del modello di cui all'allegato I, fanno parte integrante la relazione contenente la tipologia dei materiali impiegati, nonché il progetto di cui all'articolo 5.
   2. Nei casi in cui il progetto è redatto dal responsabile tecnico dell'impresa installatrice l'elaborato tecnico è costituito almeno dallo schema dell'impianto da realizzare, inteso come descrizione funzionale ed effettiva dell'opera da eseguire eventualmente integrato con la necessaria documentazione tecnica attestante le varianti introdotte in corso d'opera.
   3. In caso di rifacimento parziale di impianti, il progetto, la dichiarazione di conformità, e l'attestazione di collaudo ove previsto, si riferiscono alla sola parte degli impianti oggetto dell'opera di rifacimento, ma tengono conto della  sicurezza e funzionalità dell'intero impianto. Nella dichiarazione di cui al comma 1 e nel progetto di cui all'articolo 5, è espressamente indicata la compatibilità tecnica con le condizioni preesistenti dell'impianto.
   4. La dichiarazione di conformità è rilasciata anche dai responsabili degli uffici tecnici interni delle imprese non installatrici di cui all'articolo 3, comma 3, secondo il modello di cui all'allegato II del presente decreto.
   5. Il contenuto dei modelli di cui agli allegati I e II può essere modificato o integrato con decreto ministeriale per esigenze di aggiornamento di natura tecnica.
   6. Nel caso in cui la dichiarazione di conformità prevista dal presente articolo, salvo quanto previsto all'articolo 15, non sia stata prodotta o non sia più reperibile, tale atto è sostituito - per gli impianti eseguiti prima dell'entrata in vigore del presente decreto - da una dichiarazione di rispondenza, resa da un professionista iscritto all'albo professionale per le specifiche competenze tecniche richieste, che ha esercitato la professione, per almeno cinque anni, nel settore impiantistico a cui si riferisce la dichiarazione, sotto personale responsabilità, in esito a sopralluogo ed accertamenti, ovvero, per gli impianti non ricadenti nel campo di applicazione dell'articolo 5, comma 2, da un soggetto che ricopre, da almeno 5 anni, il ruolo di responsabile tecnico di un'impresa abilitata di cui all'articolo 3, operante nel settore impiantistico a cui si riferisce la dichiarazione.

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     Parrebbe di capire che la dichiarazione di rispondenza può essere presentata in luogo della dichiarazione di conformità solamente per gli impianti tecnologici realizzati prima della data di entrata in vigore del D.M..
     DOMANDA: per gli impianti realizzati dopo l'entrata in vigore del suddetto D.M., se la ditta non produce la dichiarazione di conformità (per mille motivazioni …) il comune cosa può/deve richiedere al cittadino/ditta in luogo della stessa??
    
Anticipo, già da subito, che non mi sembra corretto (come parrebbe operare qualche altro comune …) che una ditta rilasci la dichiarazione di conformità su un impianto tecnologico realizzato dalla ditta inadempiente come sopra esplicitato …
    
Nell'attesa di un cortese e celere riscontro, ringrazio e porgo cordiali saluti.
12.02.2016

     Ed ecco la risposta fornita dal Ministero dello Sviluppo Economico:

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Richiesta parere su Decreto Ministeriale n. 37 del 22.01.2008 (Ministero dello Sviluppo Economico, nota 16.06.2016 n. 203335 di prot.).

     Ci preme sottolineare, infine, come dopo ben 26 anni dall'avvento della L. 05.03.1990 n. 46 (Norme per la sicurezza degli impianti) ancora oggi le ditte installatrici, troppo spesso, rilascino la dichiarazione di conformità del realizzato impianto tecnologico non compiegata dei tre allegati obbligatori siccome contemplati dall'«ALLEGATO 1» del D.M. 22.01.2008 n. 37 e cioè: 1) progetto oppure schema di impianto realizzato; 2) relazione con tipologie dei materiali utilizzati; 3) copia del certificato di riconoscimento dei requisiti tecnico-professionali.
     Invero, allegano solamente il certificato di riconoscimento dei requisiti tecnico-professionali e, nel caso di specie, la dichiarazione di conformità resa

E' CARTA STRACCIA

con le conseguenti responsabilità dell'U.T.C. laddove non dovesse richiedere tempestivamente le necessarie integrazioni, anche in relazione al fatto di come -in questi ultimi tempi- ci siano molte più richieste di accesso agli atti (di questa o quella pratica edilizia ... per verificare che tutto sia in regola) in concomitanza di sottoscrizione atti di compravendita immobiliare.
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.07.2016 - LA SEGRETERIA PTPL

ARAN

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Raccolta sistematica degli orientamenti applicativi: FERIE E FESTIVITA (dicembre 2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Raccolta sistematica degli orientamenti applicativi: ASSENZE PER MALATTIA, INFORTUNI SUL LAVORO E CAUSA DI SERVIZIO (dicembre 2015).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

ENTI LOCALI - VARI: Oggetto: Indicazioni operative concernenti finalità e limiti dell'intervento delle Organizzazioni di Volontariato di Protezione Civile a supporto delle Autorità preposte ai servizi di polizia stradale (Dipartimento della Protezione Civile, nota 24.06.2016 n. 32320 di prot.).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: SISTRI – nuovo regolamento e manuale operativo (ANCE di Bergamo, circolare 24.06.2016 n. 131).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI: Commissione di gara e Rup, garbuglio sulle competenze (10.07.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

PUBBLICO IMPIEGO: P. Corso, Licenziamento furbetti del cartellino: i tempi stanno cambiando (09.07.2016 - tratto da www.ipsoa.it).

APPALTI: Incarico al direttore dell'esecuzione aggiornato alle Linee Guida (09.07.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTI: Linee guida Anac sul Rup: la negazione del modello funzionale (03.07.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Dirigenti a contratto: Corte dei conti sull’orlo di una crisi di nervi (02.07.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTI: Legge Europea: tutelati i diritti dei lavoratori in caso di nuovo appaltatore (01.07.2016 - tratto da www.ipsoa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - ENERGIA: Fonti FER diverse dal fotovoltaico - Decreto Ministeriale 23.06.2016 - Nuovi incentivi di settore (Giugno 2016 - Grimaldi Studio Legale).
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SOMMARIO: Premessa - Ambito di applicazione - Procedure di accesso (Accesso diretto - Iscrizione a registro - Asta) - Impianti “stranieri” - Tariffe incentivanti - Fotovoltaico (e altre FER) - Disposizioni finali.

PUBBLICO IMPIEGO: R. Schiavone, Licenziamento disciplinare nella PA: più responsabilità per i dirigenti (29.06.2016 - tratto da www.ipsoa.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Rup di forniture e servizi dopo Linee Guida Anac (29.06.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

ENTI LOCALI - VARI: Che valore ha un’e-mail semplice? (28.06.2016 - link a www.laleggepertutti.it).

APPALTI: Appalti: DGUE editabile (27.06.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Utilizzo del personale nei piccoli comuni: clamorosi errori della Sezione Autonomie (26.06.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

ENTI LOCALI - PATRIMONIO: Concessioni o appalti? Maggiore chiarezza col codice dei contratti per tesoreria e gestione impianti sportivi (26.06.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: R. D'Isa, La fideiussione, il contratto autonomo di garanzia e la polizza fideiussoria (22.06.2016 - tratto da https://renatodisa.com).

EDILIZIA PRIVATA - ENERGIA: Conto Termico 2.0 - Decreto Ministeriale 16.02.2016 - Efficientamento e produzione di energia - Nuove misure di incentivazione (Maggio 2016 - Grimaldi Studio Legale).
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SOMMARIO: Premessa - Soggetti ammessi - Tipologie di interventi - Criteri, misura e durata - Procedure di accesso (Accesso diretto - Prenotazione) - Cumulabilità.

AMBIENTE-ECOLOGIA: G. Atzori, Chi (non) inquina, paga? La giurisprudenza più recente sugli obblighi del proprietario incolpevole (Ambiente & sviluppo 10/2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: A. Muratori, Traveggole da calura estiva sulla classificazione delle potature del verde pubblico (Ambiente & sviluppo 8-9/2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: V. Paone, Mancata osservanza dell'ordine sindacale di bonifica: reato istantaneo o permanente? (Ambiente & sviluppo 8-9/2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: V. Cavanna, La Provincia ha l’obbligo di attivarsi per individuare il responsabile dell’inquinamento (nota a TAR Lombardia n. 940/2015) (Ambiente & sviluppo 7/2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: A. Muratori, Attività rumorose: quando superare i limiti (di immissione o emissione) può “costituire reato” ex art. 659 cod. pen. (nota a Cass. pen. n. 5735/2015) (Ambiente & sviluppo 4/2015).

PUBBLICO IMPIEGO: D. de Paolis, Incarichi e consulenze pubbliche a soggetti in quiescenza: limiti e divieti (Bollettino di Legislazione Tecnica n. 3/2015).
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In questo articolo vengono illustrati i divieti al conferimento di incarichi pubblici e consulenze a soggetti in quiescenza, previsti dall’art. 5, comma 9, del D.L. 95/2012 - come successivamente modificato dall’art. 6 del D.L. 90/2014.
Sono esaminati, tramite agili tabelle che consentono di reperire subito l’informazione necessaria, l’efficacia temporale della disciplina, le pubbliche amministrazioni cui si applicano i limiti e divieti, i soggetti che non possono essere incaricati, gli incarichi vietati e quelli invece consentiti, quali ad esempio le cariche elettive negli organi di Ordini e Collegi professionali e Consigli nazionali.

AMBIENTE-ECOLOGIA: A. L. Vergine, Piovono norme sull’abbruciamento del materiale agricolo e forestale: le reazioni della Cassazione (Ambiente & sviluppo 3/2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: M. Benozzo, La tenuta dei registri di carico e scarico tra copie e originali (Ambiente & sviluppo 3/2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: V. Paone, Abbruciamento di scarti vegetali: quale disciplina? (Ambiente & sviluppo 2/2015).

APPALTI: M. Urbani, Il nuovo soccorso istruttorio «a pagamento» (Bollettino di Legislazione Tecnica n. 2/2015).
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Questo articolo, dopo le novità introdotte dal D.L. 90/2014 (L. 114/2014) ed i primi chiarimenti forniti dall’ANAC con la Determinazione n. 1/2015, fornisce un panorama completo sull’istituto del «soccorso istruttorio». Sono messe in luce tutte le criticità e le difficoltà applicative delle nuove norme, evidenziando suggerimenti di buon senso e best practices concernenti gli elementi e le dichiarazioni regolarizzabili, le carenze ed irregolarità non sanabili, le irregolarità concernenti gli adempimenti formali, la cauzione provvisoria, gli effetti sul procedimento di gara.

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

ATTI AMMINISTRATIVI: Schema di decreto del Presidente della Repubblica concernente regolamento recante norme per la semplificazione e l'accelerazione dei procedimenti amministrativi (Atto del Governo n. 309 - link a www.camera.it).

APPALTI SERVIZI: Schema di decreto legislativo recante testo unico sui servizi pubblici locali di interesse economico generale (Atto del Governo n. 308 - link a www.camera.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: Schema di decreto legislativo recante modifiche e integrazioni al codice dell'amministrazione digitale di cui al decreto legislativo 07.03.2005 n. 82 (Atto del Governo n. 307 - link a www.camera.it).

ENTI LOCALI: Schema di decreto legislativo recante testo unico in materia di società a partecipazione pubblica (Atto del Governo n. 297 - link a www.camera.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Schema di decreto legislativo recante norme per il riordino della disciplina in materia di conferenza di servizi (Atto del Governo n. 293 - link a www.camera.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria 27 dell'08.07.2016, "Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale 21.01.2000, n. 1, dei nominativi e degli estremi dei provvedimenti di riconoscimento di tecnico competente in acustica ambientale alla data del 30.06.2016, in attuazione dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della deliberazione di giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato regionale 05.07.2016 n. 114).

VARI: G.U. 08.07.2016 n. 158 "Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea - Legge europea 2015-2016" (Legge 07.07.2016 n. 122).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U. 07.07.2016 n. 157 "Regolamento recante modalità semplificate per lo svolgimento delle attività di ritiro gratuito da parte dei distributori di rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche (RAEE) di piccolissime dimensioni, nonché requisiti tecnici per lo svolgimento del deposito preliminare alla raccolta presso i distributori e per il trasporto, ai sensi dell’articolo 11, commi 3 e 4, del decreto legislativo 14.03.2014, n. 49" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto 31.05.2016 n. 121).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: G.U. 06.07.2016 n. 156 "Modalità di acquisizione di beni e servizi ICT nelle more della definizione del «Piano triennale per l’informatica nella pubblica amministrazione» previsto dalle disposizioni di cui all’art. 1, comma 513 e seguenti della legge 28.12.2015, n. 208 (Legge di stabilità 2016)" (Agenzia per l'Italia Digitale, circolare 24.06.2016 n. 2).

PATRIMONIO - EDILIZIA PRIVATA: G.U. 30.06.2016 n. 151 "Approvazione dell’aggiornamento del Piano nazionale infrastrutturale per la ricarica dei veicoli alimentati ad energia elettrica approvato con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 26.09.2014" (D.P.C.M. 18.04.2016).

VARI: G.U. 29.06.2016 n. 150 "Incentivazione dell’energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili diverse dal fotovoltaico" (Ministero dello Sviluppo Economico, decreto 23.06.2016).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U. 28.06.2016 n. 149 "Modifiche all’articolo 55-quater del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, ai sensi dell’articolo 17, comma 1, lettera s) , della legge 07.08.2015, n. 124, in materia di licenziamento disciplinare" (D.Lgs. 20.06.2016 n. 116).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 28.06.2016 n. 149 "Disposizioni in materia di aree e parchi archeologici e istituti e luoghi della cultura di rilevante interesse nazionale" (Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, decreto 09.06.2016).

PATRIMONIO: G.U. 27.06.2016 n. 148 "Modalità di messa a dimora di piantine in aree pubbliche in occasione della Giornata nazionale degli alberi" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto 31.05.2016).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI: G.U. 24.06.2016 n. 146 "Proroga del regime transitorio di cui all’art. 16, comma 8, del decreto 05.12.2012, recante regole tecniche per la consultazione diretta del sistema informativo del casellario da parte delle pubbliche amministrazioni e dei gestori di pubblici servizi" (Ministero della Giustizia, decreto 17.06.2016).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U. 24.06.2016 n. 146 "Linee guida per il calcolo della percentuale di raccolta differenziata dei rifiuti urbani" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto 26.05.2016).

VARI: G.U. 24.06.2016 n. 146 "Disposizioni in materia di assistenza in favore delle persone con disabilità grave prive del sostegno familiare" (Legge 22.06.2016 n. 112).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 23.06.2016 n. 145 "Approvazione di norme tecniche di prevenzione incendi per le attività di ufficio, ai sensi dell’articolo 15 del decreto legislativo 08.03.2006 n. 139" (Ministero dell'Interno, decreto 08.06.2016).

A.N.AC. (già AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI)

APPALTINegli appalti valutazioni «soggettive». Linee guida Anac. Le istruzioni per gli affidamenti con l’offerta più vantaggiosa.
L’affidamento di appalti con l’offerta economicamente più vantaggiosa comporta la definizione dettagliata di criteri, subcriteri e parametri motivazionali, connessi all’oggetto dell’appalto e al suo ciclo di vita.

Il documento contenente le linee-guida dell’Anac attuative dell’articolo 95 del nuovo Codice dei contratti pubblici (ora sottoposto al parere del Consiglio di Stato e delle commissioni parlamentari) fornisce una serie di indicazioni operative, che le stazioni appaltanti sono chiamate a utilizzare per sviluppare correttamente i processi valutativi delle offerte con l’approccio multicriteriale.
L’impostazione dei criteri di valutazione della parte tecnico-qualitativa può essere definita tenendo conto anzitutto degli elementi proposti dall’articolo 95, comma 6, rispetto ai quali l’Anac evidenzia la rilevante novità posta dalle direttive comunitarie e dal Codice. Nella valutazione possono essere infatti presi in esame profili di carattere soggettivo qualora consentano di apprezzare meglio il contenuto e l’affidabilità dell’offerta o di valorizzare caratteristiche ritenute particolarmente meritevoli; in ogni caso, devono riguardare aspetti, quali quelli indicati dal Codice, che incidono in maniera diretta sulla qualità della prestazione.
Le stazioni appaltanti devono tener conto anche dei criteri ambientali minimi (Cam) prevedono l’attribuzione di punteggi qualora vengano proposte condizioni superiori a quelle minime previste dagli stessi Cam con riferimento alle specifiche prestazionali e alle condizioni di esecuzione definite nel capitolato speciale e nello schema di contratto.
L’Anac evidenzia che il set degli elementi da sottoporre a valutazione può includere anche criteri premiali legati al rating di legalità (valutando però se le imprese del settore dell’appalto ne siano dotate), all’impatto sulla sicurezza e salute dei lavoratori, a quello sull’ambiente e per agevolare la partecipazione delle microimprese e delle piccole e medie imprese, dei giovani professionisti e per le imprese di nuova costituzione (inserendo nei criteri elementi che valorizzino gli elementi di innovatività delle offerte presentate).
In relazione ai criteri e i subcriteri, le stazioni appaltanti devono specificare nei documenti di gara i criteri motivazionali che guidano la valutazione da parte della commissione giudicatrice.
Il criterio di attribuzione dei punteggi può essere scelto liberamente dall’amministrazione, ma nelle linee-guida l’Anac propone le soluzioni più frequentemente utilizzate, ossia l’attribuzione discrezionale di un coefficiente (da moltiplicare poi per il punteggio massimo attribuibile in relazione al criterio), variabile tra zero e uno, da parte di ciascun commissario di gara e il confronto a coppie tra le offerte presentate, effettuato sempre da ciascun commissario di gara.
L’autorità disciplina anche la riparametrazione dei risultati della valutazione della parte tecnico-qualitativa dell’offerta, rimettendo la scelta sulla sua applicazione (finalizzata al riequilibrio rispetto all’attribuzione del punteggio massimo alla componente economica dell’offerta) alla stazione appaltante.
Le linee-guida consigliano la riparametrazione correlata ai singoli criteri o subcriteri e al risultato finale conseguito dall’offerta per la parte tecnico-qualitativa, ponendosi in controtendenza rispetto alla giurisprudenza più recente, che evidenzia invece la necessità di effettuarla una sola volta.
Sugli elementi economici dell’offerta, l’Anac fa rilevare le criticità dell’utilizzo delle formule con proporzionalità diretta lineare, rimettendo anche in tal caso la scelta del metodo di attribuzione del punteggio alla stazione appaltante, purché tale da consentire l’assegnazione del massimo all’offerta migliore
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.07.2016).

LAVORI PUBBLICIDirettore dei lavori trasparente. Niente conflitti di interesse con l'impresa aggiudicataria. Le indicazioni delle linee guida inviate dall'Anac al ministero delle infrastrutture.
Il direttore dei lavori non può accettare alcun incarico professionale dall'impresa aggiudicataria del contratto e deve segnalare alla stazione appaltante eventuali rapporti esistenti con l'affidatario; non può inoltre avere svolto la verifica del progetto relativo all'intervento da eseguire.

Sono queste alcune delle indicazioni contenute nella proposta di linea guida sul direttore dei lavori emessa il 28 giugno dall'Autorità nazionale anticorruzione e inviata al ministero delle infrastrutture.
Il documento sostituisce gli articoli da 180 a 195, oltre agli articoli 199-202 e 210 del dpr 207/2010, il vecchio regolamento del codice De Lise. Rispetto alle norme del regolamento si introducono alcuni obblighi e incompatibilità per il direttore dei lavori: l'Anac chiarisce innanzitutto che l'attività di direzione lavori è incompatibile con lo svolgimento dell'attività di verifica preventiva della progettazione per il medesimo progetto.
Inoltre al direttore dei lavori è fatto divieto, dal momento dell'aggiudicazione e fino al collaudo, di accettare nuovi incarichi professionali dall'impresa affidataria. Corre poi l'obbligo, sempre al direttore dei lavori, una volta conosciuta l'identità dell'aggiudicatario, di segnalare alla stazione appaltante l'esistenza di eventuali rapporti con lo stesso, per la valutazione discrezionale sulla sostanziale incidenza di questi rapporti rispetto all'incarico da svolgere.
Come prevede il codice (art. 111) la nomina del direttore dei lavori deve essere effettuata prima dell'avvio delle procedure di gara e i compiti e le funzioni di direzione dei lavori devono fare capo ad un unico soggetto. Se la stazione appaltante non individua all'interno delle diverse figure tecniche un soggetto idoneo a coprire l'incarico, potrà procedere alla scelta di un soggetto esterno con regole ad evidenza pubblica. Il direttore dei lavori, laddove abilitato in base al decreto 81/2008, potrà sommare anche la funzione di coordinatore per la sicurezza; in caso negativo la stazione appaltante potrà o nominare un ufficio di direzione lavori con almeno un soggetto in possesso di questi requisiti, oppure affidare a terzi l'incarico.
La proposta di linea guida individua con precisione, riprendendo larga parte delle disposizioni regolamentari dell'abrogato dpr 207/2010, i compiti del direttore dei lavori che si sostanziano prevalentemente in ordini di servizio impartiti, tramite Pec (modalità da utilizzare anche nei rapporti con il Rup), all'impresa aggiudicataria del contratto.
Sulle modifiche e sulle varianti dei contratti in corso di esecuzione l'Anac precisa che il direttore dei lavori le può proporre al Rup nei casi e alle condizioni previste dall'art. 106 del Codice e risponde direttamente del fatto di avere ordinato o lasciato eseguire variazioni o addizioni al progetto, senza averne ottenuto regolare autorizzazione. L'unica eccezione è se quanto autorizzato sia necessario ad evitare danni gravi a persone o cose o a beni soggetti alla legislazione in materia di beni culturali e ambientali, o comunque di proprietà delle stazioni appaltanti.
Una particolare attenzione viene riservata alla tempistica dei pagamenti: il direttore dei lavori deve trasmettere «immediatamente lo stato di avanzamento al Rup, che emette il certificato di pagamento entro il termine di sette giorni dal rilascio del Sal»; sarà poi il Rup, verificata la regolarità contributiva dell'impresa, ad inviare il certificato di pagamento alla stazione appaltante per l'emissione del mandato di pagamento entro 30 giorni dalla data di rilascio del certificato di pagamento (articolo ItaliaOggi dell'01.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: Proposta di Linee Guida - Procedure per l’affidamento dei contratti pubblici di importo inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria.
Deliberate dal Consiglio dell’Autorità il 28.06.2016 le Linee Guida “Procedure per l’affidamento dei contratti pubblici di importo inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria, indagini di mercato e formazione e gestione degli elenchi di operatori economici”.
Prima dell’approvazione del documento definitivo, l’atto è stato inviato per un parere al Consiglio di Stato, alla Commissione VII del Senato e della Commissione VIII della Camera (link a www.anticorruzione.it).

APPALTIStazioni appaltanti più efficienti. Il responsabile del procedimento sarà un project manager. Le prime cinque linee guida approvate dall'Anac e inviate a parlamento e Consiglio di stato.
Responsabili del procedimento delle gare di appalto con qualifica di project manager. Parametri per il calcolo delle parcelle di ingegneria e architettura obbligatori, ma ancora per poco. Requisito del fatturato sostituibile con idonea copertura assicurativa. Incentivo del 2% per i tecnici interni non applicabile alla progettazione. Premialità per i giovani professionisti inseriti nei gruppi concorrenti. Massimo 20 punti su 100 alla valutazione del prezzo offerto. Obbligo di denuncia all'Antitrust di comportamenti anticoncorrenziali.

Sono questi alcuni dei punti significativi delle cinque «proposte di linee guida» emesse dal Consiglio dell'autorità Anticorruzione nell'adunanza del 21.06.2016.
Si tratta dei primi cinque esempi della cosiddetta «soft law» che sostituirà il vecchio regolamento del codice dei contratti pubblici. Di questi cinque documenti, ancora non definitivi perché occorrerà attendere i pareri delle commissioni parlamentari e del Consiglio di stato, ve ne sono due (direttore dei lavori e direttore dell'esecuzione) che sono proposte per il ministero delle infrastrutture ai fini dell'adozione del prescritto decreto ministeriale di competenza. L'Autorità ha precisato che soltanto «all'esito dell'acquisizione dei pareri richiesti, si procederà all'approvazione e successiva pubblicazione dei documenti definitivi».
Quindi va ben chiarito che i cinque documenti, pubblicati ieri in tarda mattinata sul sito www.anticorruzione.it, sono provvisori e non definitivi. Per quel che riguarda il documento per l'affidamento dei servizi di ingegneria e architettura (che colmano un vuoto normativo seguito all'abrogazione delle norme del dpr 207/2010) uno dei passaggi di maggiore rilievo è quello relativo al calcolo dei corrispettivi a base di gara: ancora per poco, cioè fino a quando non sarà emesso il nuovo decreto del ministero della giustizia, le stazioni appaltanti dovranno applicare il decreto «parametri» n. 143/2013 che consente la stima dell'importo dell'affidamento.
Si tratterà però di un periodo breve perché il ministero della giustizia ha già varato il decreto, atteso a breve in gazzetta, e sarà facoltativo per le amministrazioni, che invece avranno comunque l'obbligo di indicare come è stato calcolata la parcella.
Viene ribadito che non è applicabile alla fase di progettazione l'incentivo del 2% per i tecnici dipendenti delle amministrazioni alla luce di quanto dispone l'articolo 113 del codice e visto il divieto contenuto nella legge delega 11/2016.
In alternativa al requisito del fatturato (migliori tre anni dell'ultimo quinquennio non superiore al doppio dell'importo della gara) l'amministrazione potrà chiedere una polizza assicurativa con congrui massimali, per agevolare i giovani professionisti. Fino a 40 mila euro si potranno affidare gli incarichi in via diretta ma avendo chiesto almeno due preventivi; da 40 mila a 100 mila euro la scelta dovrà avvenire fra almeno 5 soggetti individuati con indagini di mercato da elenchi o tramite avviso e applicazione del principio di rotazione degli incarichi.
Previsti incrementi convenzionali premianti se si inserisce un giovane professionista (laureato da meno di cinque anni) nel team di progettazione. Per l'aggiudicazione si prevede che il prezzo non possa valere oltre 20 punti su 100. Nelle linee guida sull'offerta economicamente più vantaggiosa si definiscono i criteri e i metodi per attribuire i punteggi, recuperando larga parte delle formule già applicabili in base al vecchio codice De Lise e al regolamento attuativo.
Una novità è quella che consentirebbe, con una certa forzatura della giurisprudenza Ue, di valutare in sede di offerta il rating di legalità le certificazioni del concorrente, soprattutto ambientali, elemento soggettivi che dovrebbe essere considerati solo in fase di accesso alla gara. L'Anac chiede poi alle stazioni appaltanti di informare l'Antitrust delle anomalie che possano risultare indice di comportamenti anticoncorrenziali e suggerisce, al fine di agevolare la partecipazione delle microimprese, pmi, start up e giovani, di prevedere criteri di valutazione che valorizzino gli elementi di innovatività delle offerte.
Nelle linee guida sulla direzione lavori si affrontano il tema della nomina del direttore dei lavori e della costituzione dell'ufficio di direzione lavori, le incompatibilità e i rapporti con altre figure il coordinamento e la supervisione dell'ufficio di direzione lavori, i suoi compiti e il controllo amministrativo contabile.
Molto dettagliata è anche la proposta inviata al Ministero delle infrastrutture (come quella della direzione lavori) sul direttore dell'esecuzione. Nel documento sul responsabile del procedimento (Rup) l'Autorità evidenzia con forza la necessità che si tratti di un vero e proprio project manager, soprattutto per interventi di particolare complessità per i quali il Rup dovrà possedere «la qualifica di project manager».
Parallelamente si chiede alle stazioni appaltanti di incidere sui profili formativi organizzando «piani di formazione del personale finalizzati all'acquisizione di competenze in materia di project management». Il Rup dovrà anche procedere alla verifica della congruità delle offerte insieme alla Commissione giudicatrice (articolo ItaliaOggi del 29.06.2016).

APPALTIAppalti con le linee guida Anac. Progettisti: assicurazione al posto dei requisiti di fatturato - Premi al rating di legalità.
Contratti pubblici. Approvati i primi cinque documenti di indirizzo al mercato: entro l’estate i vademecum diventeranno dieci.

La “soft law” dell’Anac passa dalla teoria alla pratica. L’Autorità anticorruzione ha appena approvato le prime indicazioni di regolazione per il mercato, preparate in attuazione del Codice appalti (Dlgs n. 50/2016): cinque delle sette linee guida messe in consultazione a fine aprile, chiusa la valutazione di centinaia di pareri degli addetti ai lavori, stanno per essere messe a disposizione di imprese e stazioni appaltanti.
Decollano così le regole sull’offerta economicamente più vantaggiosa, i servizi di architettura e ingegneria, la direzione lavori, la direzione dell’esecuzione e il responsabile unico del procedimento. Mancano all’appello due testi, in materia di commissioni giudicatrici e procedure sotto soglia. A questi, nelle prossime settimane, se ne aggiungeranno altri tre, relativi alla consultazione che si è conclusa proprio ieri, sul partenariato pubblico-privato, sugli illeciti professionali e, soprattutto, sul rating di impresa.
La bussola dell’Anac era attesissima dagli operatori, che grazie alle indicazioni dell’Authority potranno risolvere diversi problemi applicativi riscontrati in queste prime settimane di applicazione del codice. Accadrà certamente per i servizi di progettazione. Qui si registrano due indicazioni importanti. In primo luogo, l’obbligo per le stazioni appaltanti di utilizzare il decreto (Dm n. 143/2013) per il calcolo dei parametri da porre a base di gara.
In secondo luogo, l’alleggerimento dei requisiti per l’accesso ai bandi, con la possibilità di portare una polizza assicurativa anziché dimostrare un certo livello di fatturato: una norma favorevole a giovani e piccoli professionisti. Importanti anche i documenti dedicati alla direzione di lavori ed esecuzione. Qui viene introdotto un capitolo dedicato al conflitto di interessi tra il professionista e l’impresa aggiudicataria. E vengono regolati, punto per punto, tutti gli obblighi e gli adempimenti necessari in fase di attuazione del contratto.
Chiarimenti di rilievo anche sull’offerta economicamente più vantaggiosa con l’indicazione dei criteri da utilizzare per la valutazione delle offerte. Tra questi potranno entrare anche il rating di legalità rilasciato dall’Antitrust e altri parametri “soggettivi”, come ad esempio il possesso di marchi di certificazione ambientale (Ecolabel). Quanto ai funzionari delle stazioni appaltanti , incaricati di seguire le procedure di affidamento e di esecuzione degli appalti (Rup), l’indicazione che arriva dall’Anac è quella di farne dei veri e propri project manager, almeno per i lavori di carattere più complesso.
Se l’obiettivo dell’Authority è dichiaratamente quello di completare questa prima fase di attuazione con l’approvazione di dieci linee guida entro l’estate, adesso siamo arrivati a metà strada. Anche se bisogna precisare che i cinque documenti appena licenziati non sono ancora del tutto assestati. Gli indirizzi su direzione lavori e direttore dell’esecuzione vanno al ministero delle Infrastrutture che dovrà adottarli con decreto, dopo aver incassato i pareri del Consiglio di Stato e delle commissioni parlamentari.
Anche per gli altri tre documenti di indirizzo appena varati dall’Autorità ci sarà un percorso supplementare, anche se non espressamente previsto dalle norme. L’Anac ha, infatti, deciso di trasmetterli alle commissioni parlamentari e al Consiglio di Stato. Qualche ulteriore aggiustamento, allora, è ancora possibile. Anche se dall’Anticorruzione spiegano che queste indicazioni sono già utilizzabili.
Nel frattempo dovrebbero arrivare al primo traguardo anche le linee guida sulle gare sottosoglia europea (forse già questa settimana, come annunciato da Cantone in audizione alle Camere) e poi quelle sulla composizione delle commissioni giudicatrici esterne alle amministrazioni. Si tratta in questo caso delle linee guida più attese dagli operatori e quelle che stanno evidenziando gli aspetti più delicati da risolvere. E per questo gli uffici di Cantone hanno deciso di dedicarci qualche giorno in più
(articolo Il Sole 24 Ore del 28.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIConcessionari, Cantone vieta l'autocertificazione. Precisazione dell'anticorruzione. Revisione da parte delle Soa.
Stop all'autocertificazione dei lavori da parte dei concessionari che non eseguono direttamente i lavori, ma li affidano a terzi; possibile riconoscere i lavori soltanto se il concessionario svolge un ruolo di coordinamento tecnico avendo la responsabilità della progettazione; le Soa dovranno rivedere le certificazioni anomale rilasciate finora.

Sono queste alcune delle rilevanti precisazioni che ha fornito l'Autorità nazionale anticorruzione con il comunicato 08.06.2016 pubblicato il 20 giugno sul proprio sito web.
L'Autorità interviene quindi nel vivo dell'operatività concreta dei concessionari e delle modalità di attestazione dei lavori connesse alle concessioni, siano esse di lavori pubblici o di servizio pubblico.
Un primo problema segnalato dall'Anac come anomalo e meritevole di chiarimento riguarda i lavori eseguiti direttamente (dal concessionario, o dal solo socio operativo) che sono strettamente connessi all'oggetto di concessione e che sono stati certificati con Cel (certificati di esecuzione dei lavori) che lo stesso concessionario ha nella banca dati telematica.
A tale riguardo, le anomalie individuate, riguardanti anche la coincidenza fra concessionario e concedente, portano l'Autorità a ritenere che le certificazioni «dovranno essere immesse nella banca dati telematica dei Cel pubblici a cura del soggetto concedente (esclusivamente di natura pubblica)» e quindi non dal concessionario o dal socio operativo. Il presupposto è che il concessionario di un servizio pubblico deve eseguire, ovvero affidare a terzi, lavori nel rispetto della disciplina di settore degli appalti pubblici (cioè il decreto n. 50/2016).
Un secondo problema sul quale si sofferma l'Anac attiene alla circostanza che i lavori affidati dai concessionari a terzi esecutori per la realizzazione di opere e lavori che riguardano le attività in concessione siano poi utilizzati per la propria qualificazione e certificati come lavori in conto proprio, sebbene totalmente eseguiti da imprese terze.
Così facendo il concessionario acquisisce la qualifica di esecutore non avendo eseguito nulla e sfruttando il cosiddetto premio di coordinamento previsto per le imprese aggiudicatarie che sub-affidano opere a terzi esecutori. Per questo punto il comunicato firmato dal presidente dell'Autorità anticorruzione, Raffaele Cantone specifica che o i lavori vengono attribuiti direttamente e certificati dal concessionario ai soli soggetti esecutori, o possono essere intestati al concessionario ma a condizione che almeno «dimostri di aver assunto diretta responsabilità nei confronti del concedente», oppure di avere svolto un ruolo di coordinamento tecnico. In questo caso deve emergere che il concessionario abbia svolto «almeno la progettazione dell'intervento e la direzione tecnica del l'esecuzione».
In questa ipotesi la documentazione idonea a tale dimostrazione dovrà essere prodotta alla Soa e oggetto di opportuni riscontri di veridicità.
Alla luce di queste indicazioni l'Anac ha chiesto alle Soa di rivedere «tutte le attestazioni già rilasciate, in occasione della verifica triennale o in occasione del primo rinnovo» mettendo in chiaro che saranno legittime soltanto certificazioni rilasciate sulla base dei chiarimenti forniti con il comunicato (articolo ItaliaOggi del 24.06.2016 -  tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: Qualificazione, cosa cambia. Dimezzato a 5 anni il periodo di verifica dei requisiti speciali. L'Authority sull'applicazione del nuovo regime che, però, non si applica ai consorzi stabili.
Ancora ammessa l'attestazione dei lavori attraverso l'avvalimento fra imprese; i requisiti speciali per la qualificazione delle imprese dovranno essere dimostrati soltanto con riferimento al quinquennio e non più al decennio; salve, transitoriamente, le vecchie disposizioni sulla qualificazione dei consorzi stabili.

Sono queste alcune delle indicazioni che ha fornito l'Autorità nazionale anticorruzione per risolvere una serie di profili critici determinati dall'abrogazione di diverse disposizioni regolamentari e del vecchio codice dei contratti pubblici in tema di qualificazione delle imprese.
L'intervento dell'Authority è contenuto nel comunicato 31.05.2016, uscito sul sito Anac venerdì scorso, che fornisce risposte a molte segnalazioni evidenziate dalle società organismo di attestazione (Soa) in queste ultime settimane.
Fra i diversi problemi assume un rilievo non da poco, anche per i riflessi che avrà sulle linee guida che si occupano direttamente o indirettamente di qualificazione, quello della qualificazione su un periodo di cinque anni e non più di dieci anni con riferimento alla dimostrazione della cifra d'affari globale e ad altri requisiti specifici. Con il decreto milleproroghe, la verifica poteva essere svolta (fino al 31.07.2016) su un periodo di dieci anni ma tecnicamente la norma era collegata alle pertinenti disposizioni del codice del 2006 (il decreto 163) adesso abrogate a seguito dell'entrata in vigore del nuovo codice dei contratti pubblici.
Per il futuro si dovrà fare riferimento soltanto al quinquennio e non più al decennio. Sull'ipotesi di recuperare la possibilità di applicare il vecchio sistema, il comunicato siglato dal presidente Raffaele Cantone non lascia speranza alcuna: «La norma, riferendosi ad un articolo del codice abrogato (articolo 253, dlgs 163/2006) deve ritenersi essa stessa abrogata implicitamente con applicazione in via transitoria e nelle more dell'emanazione delle linee guida del dpr 207/2010».
Un altro problema riguarda la disciplina del consorzi stabili per i quali la precedente disciplina del 2006 (art. 36, comma 7) prevedeva la possibilità di procedere con la sommatoria dei requisiti dei consorziati e, nel dpr 207/2010 trovava una disciplina ad hoc.
La situazione è infatti che la norma del codice vecchio è abrogata, ma l'Autorità la «ritiene transitoriamente vigente (l'articolo 36, comma 7, e la disciplina generale sui concorsi stabili) in ragione delle norme contenute agli articoli 81 e 94 del dpr n. 207/2010, che ad essa rinvia».
Soa. Viene poi affrontato il tema dell'avvenuta abrogazione dell'articolo 50 del decreto 163/2006: le Soa hanno chiesto all'Anac di sapere i criteri cui fare riferimento nell'ambito del procedimento di attestazione concernente la qualificazione ottenuta attraverso lavori di imprese controllate che abbiano operato in regime di avvalimento con l'impresa controllante.
La disciplina prevista all'articolo 50 del decreto 163 (che, insieme agli articoli 88 e 89 del dpr 207/2010, indicava nel dettaglio le dichiarazioni e le comunicazioni da effettuare per ottenere l'attestazione dei lavori eseguiti in avvalimento cosiddetto stabile) non è stata riprodotta nel nuovo codice dello scorso aprile. Nel comunicato dell'Autorità di palazzo Sciarra si sceglie una linea di flessibilità e apertura: «Trovano ancora applicazione, nelle more dell'emanazione delle linee guida a cura dell'Anac e tenuto conto che i contratti di attestazione sono stati sottoscritti sotto la vigenza del dlgs 163/2006, gli articoli 88 e 89 del dpr 207/2010 (che regolano la qualificazione mediante avvalimento) e, in generale, i principi dettati all'articolo 50 del dlgs n. 163 del 2006» (articolo ItaliaOggi del 24.06.2016).

APPALTIAppalti, ok alle prime linee guida. Cantone: preoccupato dal calo dei bandi ma non è colpa del codice.
Anac. Inizia il varo dei provvedimenti attuativi del Dlgs 50/2016, rinviati gare sottosoglia e commissari.

L’Autorità Anticorruzione ha dato il via libera ai primi cinque provvedimenti attuativi del nuovo codice degli appalti.
Si tratta delle linee guida per l’affidamento dei servizi di ingegneria, per l’assegnazione delle gare con il sistema dell’offerta economicamente più vantaggiosa e dei tre “manuali” destinati a guidare le attività dei responsabili del procedimento di gara (Rup) dei direttori lavori e dei direttori dell’esecuzione del contratto nel campo dei servizi pubblici.
Rispetto al pacchetto dei primi sette provvedimenti attuativi messi in consultazione a maggio restano per ora fuori due delle linee guida più attese: quelle relative alla gestione degli appalti sotto le soglie europee e gli indirizzi per la nomina delle commissioni di gara esterne alle amministrazioni.
«Su questi due provvedimenti abbiamo ricevuto un quantità enorme di contributi spesso in contraddizione tra loro -ha spiegato il presidente dell’Anac Raffaele Cantone, in un’audizione congiunta delle commissioni Lavori pubblici di Camera e Senato sull’attuazione del codice. Dobbiamo avere il tempo di esaminarli in modo serio».
La previsione comunque è quella di licenziare definitivamente le linee guida sui contratti sottosoglia «nel Consiglio dell’Autorità che si terrà la prossima settimana», ha spiegato Cantone. Subito dopo, «nella prima settimana di luglio» arriverà il documento sui commissari di gara. Entro l’estate saranno infine licenziate le altre tre linee guida ancora in consultazione (rating di impresa, esclusioni dalle gare e partenariato pubblico-provato). Anche se non è strettamente previsto dal codice, tutte le linee guida, ha sottolineato Cantone, saranno inviate per un parere alle commissioni parlamentari così come al Consiglio di Stato.
Al centro dell’audizione le difficoltà incontrate da stazioni appaltanti e imprese in questa prima fase di attuazione del nuovo codice. Cantone non ha nascosto «la preoccupazione per il blocco delle gare», ma ha anche sottolineato di non rilevare alcuna «giustificazione giuridica» all’impasse, «visto che in assenza delle linee guida resta interamente operativo il vecchio regolamento appalti, che le amministrazioni non dovrebbero avere difficoltà ad applicare». In ogni caso, ha aggiunto, speriamo che «con l’arrivo degli indirizzi sull’offerta più vantaggiosa, la situazione si sblocchi».
Su un piano più politico Cantone ha ribadito che «Parlamento e Governo hanno fatto un lavoro molto buono sul nuovo codice». E ha invitato a non fare passi indietro sulla scelta di limitare il massimo ribasso e di mandare in gara i lavori solo su progetto esecutivo, vietando l’appalto integrato.
«Non vorrei che le preoccupazioni sull’obbligo di mandare in gara i progetti esecutivi siano strumentali e vengano da qualcuno che ha capito che è finita la pacchia delle varianti e delle riserve», ha concluso il numero uno dell’Anticorruzione
(articolo Il Sole 24 Ore del 22.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALINon è rinvenibile alcuna disposizione che impedisca all’ente locale di effettuare attribuzioni patrimoniali a terzi, ove queste siano necessarie per conseguire i propri fini istituzionali.
Se, infatti, l’azione è intrapresa al fine di soddisfare esigenze della collettività rientranti nelle finalità perseguite dal Comune (nel caso di specie, l’interesse alla conservazione del patrimonio storico e artistico) il finanziamento, “anche se apparentemente a fondo perso, non può equivalere ad un depauperamento del patrimonio comunale, in considerazione dell’utilità che l’ente o la collettività ricevono dallo svolgimento del servizio pubblico o di interesse pubblico effettuato dal soggetto che riceve il contributo.
Riconosciuto l’interesse generale dell’attività, la natura pubblica o privata del soggetto che percepisce il contributo risulta indifferente, posto che la stessa amministrazione opera utilizzando, per molteplici finalità (gestione di servizi pubblici, esternalizzazione di funzioni strumentali, etc.), soggetti aventi natura privata.
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Una contribuzione pubblica può qualificarsi come spesa di sponsorizzazione, come tale incorrente nel divieto di cui all’art. 6, comma 9, del D.L. 78/2010, quando “presuppone la semplice finalità di segnalare ai cittadini la presenza dell’ente pubblico, così da promuoverne l’immagine.
Non si configura, invece, quale sponsorizzazione il sostegno di iniziative di un soggetto terzo, riconducibili ai fini istituzionali dello stesso ente pubblico.
L’attività, dunque, che rientra nelle competenze dell’ente locale e viene esercitata, in via mediata, da soggetti privati destinatari di risorse pubbliche, piuttosto che, direttamente, da parte di Comuni e Province, costituisce una modalità alternativa di erogazione del servizio pubblico e non una forma di promozione dell’immagine dell’amministrazione.

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Con nota prot. n. 1506 del 30.04.2016, trasmessa per il tramite del Cal con nota prot. n. 15660 del 03.05.2016 ed acquisita a prot. Cdc n. 3892 del 05.05.2016, il Sindaco del Comune di Rivara (TO) formula richiesta di parere ai sensi dell’art. 7, comma 8, della legge n. 131/2003.
Premette il Comune istante di essere intenzionato, nell’ambito della programmazione culturale per l’anno 2016, ad organizzare “attività in materia culturale/artistica che risaltino i protagonisti della storia locale” e che tra queste potrebbe rientrare l’allestimento nel territorio comunale di una mostra di pittura intitolata “Carlo Pittara e i pittori di Rivara”, già organizzata in Torino dalla “Fondazione Accorsi-Ometto”-Museo di arti decorative, ente senza fini di lucro.
Il Comune intenderebbe altresì concedere il patrocinio alla mostra, mettere a disposizione i locali nonché erogare un contributo per la parziale copertura delle spese di allestimento.
Chiede, quindi, il Comune di conoscere se sia legittima la concessione di detta tipologia di contributo o se la stessa rientri nel divieto di cui all’art. 6, comma 9, del sopra richiamato D.L. n. 78 del 31.05.2010, convertito in Legge 30.07.2010 n. 122 (“divieto di sponsorizzazioni”)” e “di conoscere, qualora la spesa sia legittima, se debba essere considerata una spesa soggetta alle limitazioni imposte dal soprarichiamato art. 6 del D.L. 31.05.2010 n. 78, convertito con legge 30.07.2010 n. 122.
...
La questione oggetto della richiesta di parere è stata affrontata numerose volte dalla giurisprudenza contabile e su di essa si è formato un consolidato orientamento teso “a precisare come, in base alle norme ed ai principi della contabilità pubblica, non è rinvenibile alcuna disposizione che impedisca all’ente locale di effettuare attribuzioni patrimoniali a terzi, ove queste siano necessarie per conseguire i propri fini istituzionali. Se, infatti, l’azione è intrapresa al fine di soddisfare esigenze della collettività rientranti nelle finalità perseguite dal Comune (nel caso di specie, l’interesse alla conservazione del patrimonio storico e artistico) il finanziamento, “anche se apparentemente a fondo perso, non può equivalere ad un depauperamento del patrimonio comunale, in considerazione dell’utilità che l’ente o la collettività ricevono dallo svolgimento del servizio pubblico o di interesse pubblico effettuato dal soggetto che riceve il contributo. Riconosciuto l’interesse generale dell’attività, la natura pubblica o privata del soggetto che percepisce il contributo risulta indifferente, posto che la stessa amministrazione opera utilizzando, per molteplici finalità (gestione di servizi pubblici, esternalizzazione di funzioni strumentali, etc.), soggetti aventi natura privata” (cfr. deliberazione n. 262/2012/PAR)” (Sez. reg. contr. Lombardia,
parere 01.10.2014 n. 248).
Una contribuzione pubblica può qualificarsi come spesa di sponsorizzazione, come tale incorrente nel divieto di cui all’art. 6, comma 9, del D.L. 78/2010, quando “presuppone la semplice finalità di segnalare ai cittadini la presenza dell’ente pubblico, così da promuoverne l’immagine (cfr. deliberazione n. 1075/2010/PAR). Non si configura, invece, quale sponsorizzazione il sostegno di iniziative di un soggetto terzo, riconducibili ai fini istituzionali dello stesso ente pubblico. L’attività, dunque, che rientra nelle competenze dell’ente locale e viene esercitata, in via mediata, da soggetti privati destinatari di risorse pubbliche, piuttosto che, direttamente, da parte di Comuni e Province, costituisce una modalità alternativa di erogazione del servizio pubblico e non una forma di promozione dell’immagine dell’amministrazione.” (Sez. reg. contr. Lombardia,
parere 01.10.2014 n. 248).
Da tale consolidato orientamento la Sezione non ha motivo di discostarsi, fermo restando che l’applicazione al caso concreto delle disposizioni in materia di contabilità pubblica è di esclusiva competenza dell’ente locale (Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte, parere 30.06.2016 n. 77).

APPALTI - TRIBUTIBaratto amministrativo senza limiti temporali. Corte dei conti. Il coordinamento con la riforma degli appalti.
Le disposizioni sul baratto amministrativo del Dl 133/2014 devono essere coordinate con le nuove norme introdotte dagli articoli 189 e 190 del Codice dei contratti pubblici, che delineano una più ampia prospettiva di coinvolgimento dei cittadini.
La Corte dei Conti, sezione regionale di controllo per il Veneto, con il parere 21.06.2016 n. 313 ha rilevato che il quadro normativo è molto articolato e composto da disposizioni accomunate dalla prospettiva di valorizzare il principio di sussidiarietà, che viene assunto nel Dlgs 50/2016 attraverso le attività che possono essere esercitate dalla autonoma iniziativa dei cittadini e delle loro formazioni sociali, come canone dell’azione amministrativa nell’ambito della tutela del territorio e della manutenzione di esso, traducendosi per le amministrazioni interessate nella possibilità di adottare forme procedimentali semplificate.
Il parere individua le differenze tra l’articolo 24 del Dl 133/2014 e le nuove disposizioni del Codice dei contratti, evidenziando che queste ultime esprimono la facoltà di attivare contratti di partenariato sociale da parte di tutti gli enti territoriali (mentre l’articolo 24 li riserva ai Comuni) e che la stessa esenzione o riduzione dei tributi non è più prevista necessariamente per un periodo limitato. Inoltre, le agevolazioni contemplano la previsione della possibilità di affidare la valorizzazione delle vie e piazze mediante iniziative culturali di vario genere. In tutti questi casi il riconoscimento specifico del ruolo che i cittadini svolgono nel perseguimento di interessi generali è connotato dal Dlgs 50/2016 in modo molto più ampio.
La Corte dei conti fornisce nella deliberazione una serie di chiarimenti specifici sull’applicazione dell’istituto. In primo luogo, viene precisato che se gli interventi dell’articolo 24 sono realizzati dai cittadini non avendo a presupposto agevolazioni tributarie, ma in forma di volontariato, queste attività dovrebbero essere ricondotte a organismi strutturati, in grado di farsi carico degli oneri assicurativi. Se invece gli interventi dei cittadini sono correlati a riduzioni o agevolazioni tributarie è necessario che sussista un rapporto di stretta inerenza tra queste facilitazioni e le attività di cura e valorizzazione del territorio che i cittadini possono realizzare, dovendo tener conto che i servizi, sostitutivi del pagamento delle imposte locali.
La prestazione offerta dal cittadino deve quindi corrispondere, in valore alla misura delle imposte locali agevolate, ma la delibera assunta dall’ente deve motivare la decisione di avvalersi del baratto sulla base di un’attenta valutazione di tutti gli interessi coinvolti che dimostri la convenienza, anche economica, della scelta.
Gli articoli 189 e 190 del Codice dei contratti ora evolvono il quadro, collegandolo alle riduzioni o esenzioni di tributi; la compensazione tra debiti (o crediti) di cui solo uno esistente, essendo l’altro futuro ed eventuale, può essere applicata solo a seguito dell’integrale e soddisfacente realizzazione dell’opera o del servizio.
In questo rapporto, le prestazioni richieste ai beneficiari di provvidenze comunali stanziate non possono che rivestire forme di collaborazione sociale senza corrispettività con il contributo economico elargito. Pertanto non possono essere qualificati come rapporto di lavoro e nemmeno essere computati nel calcolo delle spese di personale.
Le agevolazioni connesse al baratto amministrativo, secondo la Corte dei conti del Veneto, non possono essere fruite dalle imprese, perché si verificherebbe un’elusione delle regole di evidenza pubblica
(articolo Il Sole 24 Ore del 27.06.2016).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Il riconoscimento dell’incentivo alla progettazione di cui all’art. 93, comma 7-ter, del d.lgs. n. 163/2006 in favore del responsabile unico del procedimento non presuppone necessariamente che l’intera attività di progettazione sia svolta all’interno dell’ente.
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Il Sindaco del Comune di Macchia Valfortore (CB), con nota n. 137 del 15.01.2016, assunta al protocollo di questa Sezione n. 65 del 19.01.2016, ha trasmesso una richiesta di parere in ordine alla legittimità della liquidazione al Responsabile Unico del Procedimento (RUP) dell’incentivo relativo alla responsabilità del procedimento connesso alla “realizzazione di lavori appaltati ed eseguiti sulla base di progettazioni, direzione dei lavori ed altri incarichi connessi alla realizzazione di opere pubbliche effettuati all’esterno del comune” fino alla data del 14.08.2014.
...
Ai fini della soluzione della presente richiesta il Collegio intende fare riferimento alla recente deliberazione 13.05.2016 n. 18, con cui la Sezione delle Autonomie della Corte dei conti è stata chiamata a pronunciarsi in ordine alla possibilità di riconoscere l’incentivo di cui all’art. 93, d.lgs. 12.04.2006, n. 163, in favore del responsabile unico del procedimento (RUP), anche nell’ipotesi in cui tutte le attività che la legge individua come incentivabili sia di progettazione, sia di direzione dei lavori, sia di collaudo, siano state svolte all’esterno dell’Ente da professionisti all’uopo incaricati.
Al riguardo, la Sezione delle autonomie ha affermato che “l’art. 93, comma 7-ter, ha previsto che le quote del fondo incentivante corrispondenti a prestazioni non svolte dai dipendenti, ma affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione, costituiscono necessariamente economie di spesa.
Dall’analisi della richiamata disposizione, sembra potersi evincere che l’attività del RUP, ove svolta tramite personale dipendente –come previsto dall’art. 9, del D.P.R. n. 207/2010– sia incentivabile a prescindere dallo svolgimento o meno all’interno dell’ente dell’intera attività di progettazione e delle restanti attività contemplate.
Le rilevanti funzioni intestate al responsabile unico nell’ambito della gestione delle varie fasi procedimentali, del contraddittorio con le parti private e del coordinamento con gli uffici interni ed esterni, rimangono, infatti, sostanzialmente invariate, al pari delle correlate responsabilità, anche nell’ipotesi di esternalizzazione delle altre attività previste dall’art. 93 del d.lgs. 163/2006, in cui permane, comunque, l’obbligo dell’amministrazione di dotarsi di tale figura nell’ambito del proprio organico.
Come già osservato da una parte della giurisprudenza contabile (Sez. contr. Lombardia,
parere 01.10.2014 n. 247; Sez. contr. Piemonte, parere 20.01.2015 n. 17), la normativa vigente non richiede, ai fini della legittima erogazione dell’incentivo, il necessario espletamento interno di tutta l’attività progettuale quanto, semmai, una previsione regolamentare che ripartisca gli incentivi in maniera conforme alle responsabilità attribuite e devolva in economia la quota relativa agli incarichi conferiti a professionisti esterni”.
La Sezione delle autonomie conclude pertanto affermando il seguente principio di diritto: “
Il riconoscimento dell’incentivo alla progettazione di cui all’art. 93, comma 7-ter, del d.lgs. n. 163/2006 in favore del responsabile unico del procedimento non presuppone necessariamente che l’intera attività di progettazione sia svolta all’interno dell’ente”.
Ebbene, la suddetta pronuncia, a cui la presente Sezione intende aderire, può trovare piena applicazione anche alla fattispecie in esame, stante l’identità tra le disposizioni richiamate.
Invero, l’art. 92 del d.lgs. n. 193/2006, nella versione precedente all’abrogazione ad opera dell'art. 13, comma 1, D.L. 24.06.2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla L. 11.08.2014, n. 114, così disponeva:
“le quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento, costituiscono economie”.
Disposizione, quest’ultima, che, come visto, ha in seguito trovato collocazione nell’art. 93, comma 7-ter, del medesimo decreto, oggetto di analisi da parte della richiamata deliberazione (Corte dei Conti, Sez. controllo Molise, parere 21.06.2016 n. 97).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Enti, personale condiviso non sempre senza vincoli.
Rientrano nei vincoli alla spesa del personale flessibile gli incarichi che i comuni con popolazione inferiore ai 5 mila abitanti conferiscono a dipendenti di enti di maggiori dimensioni, se la prestazione lavorativa vada oltre le 36 ore. Non rientrano, invece, in questi vincoli incarichi volti a condividere la prestazione lavorativa sulla base di convenzioni o se si attiva un comando.

Sono queste le conclusioni cui giunge la Corte dei conti, Sez. autonomie, con la deliberazione 20.06.2016 n. 23, tesa a chiare se la possibilità offerta dall'articolo 1, comma 557, della legge 311/20014 ai piccoli comuni di avvalersi delle prestazioni lavorative di dipendenti di comuni più grandi, possa fuoriuscire dai limiti alla spesa di personale flessibile, posti dall'articolo 9, comma 28, del dl 78/2010, convertito in legge 122/2010.
Secondo la magistratura contabile un primo schema di utilizzo dell'articolo 1, comma 557, è quello secondo il quale l'ente di piccole dimensioni costituisce col dipendente dell'altro ente un rapporto di lavoro ulteriore e diverso, consentito dalla deroga all'esclusività che, secondo la giurisprudenza amministrativa, pone la norma. In questo caso, allora, il dipendente aggiunge al rapporto di lavoro principale con l'ente di maggiori dimensioni, un ulteriore lavoro a tempo parziale (che non potrà superare le 12 ore settimanali) con l'ente di piccole dimensioni.
In questo caso, secondo la Corte dei conti «la prestazione aggiuntiva andrà ad inquadrarsi necessariamente all'interno di un nuovo rapporto di lavoro autonomo o subordinato a tempo parziale, i cui oneri dovranno essere computati ai fini del rispetto dei limiti di spesa imposti dall'art. 9, comma 28, per la quota di costo aggiuntivo». Questo è, a ben vedere, lo schema esclusivo di operatività dell'articolo 1, comma 557.
La delibera afferma che non si applicano i vincoli al lavoro flessibile, laddove il piccolo comune utilizzi il lavoratore nell'ambito di convenzioni che regolino l'utilizzo reciproco e condiviso del dipendente con l'ente di maggiori dimensioni. Per meglio dire, l'articolo 9, comma 28, del dl 78/2010 non è operante se il lavoratore svolge la propria prestazione lavorativa di 36 ore in parte per il comune di maggiori dimensioni che rimane titolare del rapporto di lavoro, e nella parte residua (sempre all'interno delle 36 ore) in favore del piccolo comune richiedente.
In terzo luogo, la Corte ritiene che si possa dare attuazione all'articolo 1, comma 557, della legge 311/2004, mediante l'istituto del comando. In questo caso i vincoli alla spesa flessibile non si applicherebbero, ma solo a condizione che l'ente che comanda il proprio dipendente non utilizzi le economie di spesa di personale conseguenti per attivare nuove assunzioni (articolo ItaliaOggi del 28.06.2016).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Meno paletti per i mini-enti. Corte conti sul personale esterno.
I piccoli comuni possono utilizzare dipendenti provenienti da altre amministrazioni senza dover rispettare i limiti sulla spesa per il personale. Affinché ciò sia possibile, tuttavia, i dipendenti esterni dovranno essere utilizzati entro i limiti dell'ordinario orario di lavoro settimanale. E gli enti di appartenenza, che autorizzano l'utilizzo part-time o in posizione di comando del proprio dipendente, dovranno verificare che i risparmi di spesa conseguiti non alimentino spese aggiuntive o nuove assunzioni.

Lo ha chiarito la Sez. autonomie della Corte dei conti nella deliberazione 20.06.2016 n. 23.
I giudici contabili sono stati chiamati in causa dalla sezione regionale del Piemonte a cui si era rivolto il sindaco del comune di Pavone Canavese (3.895 abitanti in provincia di Torino) che chiedeva se, avvalendosi di personale esterno, avrebbe dovuto rispettare il limite del 50% della spesa sostenuta per le forme di lavoro flessibile nel 2009.
Di fronte al contrasto giurisprudenziale sul punto, con le sezioni regionali della Corte conti divise tra una lettura a maglie larghe della norma (art. 9, comma 28, dl 78/2010), secondo cui l'utilizzo di lavoratori esterni non implicherebbe il ricorso a una forma flessibile di assunzione («in quanto non verrebbe alterata la titolarità del rapporto di impiego, ma soltanto l'oggetto del rapporto») e una più restrittiva secondo cui l'impiego di personale di altre amministrazioni «configurerebbe forma flessibile di assunzione con conseguente applicazione del tetto di spesa di cui all'art. 9, comma 28, del dl 78/2010 e non una diversa modalità di utilizzo delle prestazioni in seno al medesimo rapporto», la sezione autonomie ha aderito alla prima tesi.
I giudici hanno escluso l'applicazione dei tetti di spesa «allorché gli enti utilizzano le prestazioni del dipendente in modo contestuale e reciproco, ovvero in posizione di comando, secondo tempi, modi, condizioni e limiti definiti nell'atto autorizzativo o in apposita convenzione» (articolo ItaliaOggi del 23.06.2016).

QUESITI & PARERI

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: L'acquisto di beni e servizi informatici.
DOMANDA:
L'art. 1, comma 516, della Legge n. 208/2015 ha stabilito che gli acquisti di beni e servizi informatici e di connettività deve avvenire esclusivamente su Consip, fatta salva apposita deroga dell'organo di vertice amministrativo.
Ciò premesso, questo comune ha acquisito anni fa alcuni programmi informatici, per i quali occorre ogni anno garantire la relativa assistenza sistemistica. E' evidente che l'assistenza deve essere garantita dalle stesse ditte che hanno fornito i prodotti software. Si pone quindi il problema di stabilire se si possa di anno in anno autorizzare gli acquisti in deroga.
E' possibile a tal fine utilizzare detto comma 516?
L'alternativa sarebbe di cessare l'utilizzo degli stessi programmi e acquistare su Consip i prodotti, comprensivi della manutenzione per n anni. E' evidente che ciò comporterebbe il disinvestimento di notevoli cespiti, con danno per l'Ente. Si chiede parere in merito.
RISPOSTA:
Il comma 516 dell’art. 1 della l. n. 208/2015 prevede che “le amministrazioni e le società di cui al comma 512 possono procedere ad approvvigionamenti al di fuori delle modalità di cui ai commi 512 e 514 esclusivamente a seguito di apposita autorizzazione motivata dell'organo di vertice amministrativo, qualora il bene o il servizio non sia disponibile o idoneo al soddisfacimento dello specifico fabbisogno dell'amministrazione ovvero in casi di necessità ed urgenza comunque funzionali ad assicurare la continuità della gestione amministrativa. Gli approvvigionamenti effettuati ai sensi del presente comma sono comunicati all'Autorità nazionale anticorruzione e all'Agid”.
Tale disposizione, che sostanzialmente risulta assai simile a quella del precedente comma 510, è stata dettata per il settore informatico. La norma prevede in particolare la possibilità, in via eccezionale, di derogare agli obblighi di cui al comma 512 che si incentrano nell’obbligatorio ed esclusivo ricorso alla Consip (la detta norma dispone infatti “al fine di garantire l'ottimizzazione e la razionalizzazione degli acquisti di beni e servizi informatici e di connettività, fermi restando gli obblighi di acquisizione centralizzata previsti per i beni e servizi dalla normativa vigente, le amministrazioni pubbliche e le società inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi dell'articolo 1 della legge 31.12.2009, n. 196, provvedono ai propri approvvigionamenti esclusivamente tramite Consip SpA o i soggetti aggregatori, ivi comprese le centrali di committenza regionali, per i beni e i servizi disponibili presso gli stessi soggetti".
Le regioni sono autorizzate ad assumere personale strettamente necessario ad assicurare la piena funzionalità dei soggetti aggregatori di cui all'articolo 9 del decreto-legge 24.04.2014, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge 23.06.2014, n. 89, in deroga ai vincoli assunzionali previsti dalla normativa vigente, nei limiti del finanziamento derivante dal Fondo di cui al comma 9 del medesimo articolo 9 del decreto-legge n. 66 del 2014), allorché sussistano i requisiti di cui ai nn. 1) e 2) del comma 510 (e cioè sia resa apposita autorizzazione specificamente motivata resa dall’organo di vertice amministrativo ed il bene o il servizio oggetto di convenzione non sia idoneo al soddisfacimento dello specifico fabbisogno dell'amministrazione per mancanza di caratteristiche essenziali).
Oltre a tali ipotesi eccezionali viene prevista anche la possibilità alternativa che l’autorizzazione motivata dell’organo di vertice amministrativo sia resa non solo nel caso in cui i beni o servizi risultino non disponibili o non idonei, ma anche nell’ipotesi di “necessità ed urgenza comunque funzionali ad assicurare la continuità della gestione amministrativa”, sembrando il legislatore in tal modo consentire una più ampia libertà per gli acquisti diretti nel settore informatico, in deroga alle convenzioni Consip.
Sulla base di tali previsioni si è quindi dell’avviso che anche nel caso prospettato nel quesito l’amministrazione potrebbe evidenziare ai fini dell’applicabilità della norma il fatto che soltanto mantenendo il servizio in capo alle stesse ditte affidatarie risulta possibile la gestione dei programmi e dei prodotti già acquistati, mentre in caso diverso sarebbe compromessa la stessa continuità del servizio e delle relative attività di assistenza e manutenzione informatica.
E’ chiaro peraltro che la ammissibilità di una scelta risulta tanto più sicura quanto si riesca a fondarla su motivazioni il più oggettive possibile sulla necessità e funzionalità del servizio in essere non proseguibile, così come impostato e concepito, con altri soggetti, e non solo su considerazioni di mera e generica opportunità; mentre andrebbe comunque adeguatamente dimostrato e motivato, al fine di evitare qualsiasi responsabilità contabile, che, in definitiva, tale soluzione risulterebbe anche la più conveniente dal punto di vista economico poiché la diversa soluzione di far ricorso a Consip imporrebbe all’Ente il disinvestimento di cespiti rilevanti con conseguenti danni economici, come accennato nel quesito stesso.
Va comunque ricordato che l’autorizzazione a derogare alle convenzioni Consip, deve essere preliminarmente trasmessa alla Corte dei Conti, anche in conformità alla previsione di cui al comma 517 che stabilisce la sanzione disciplinare ed erariale per inosservanza degli obblighi di cui al 512.
Inoltre gli approvvigionamenti effettuati ai sensi del comma 516, in deroga al convenzionamento per il settore informatico e della connettività, devono essere comunicati all'Autorità nazionale anticorruzione e all’Agid (link
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PATRIMONIO: L'affidamento del centro sportivo.
DOMANDA:
Questo Ente intende affidare la gestione del Centro Sportivo Comunale con annesso Bar per n. 5 anni, prevedendo una base d'appalto di euro 163.000,00, quindi sotto soglia.
Detto appalto facente parte dell'ex Allegato IIB dlgs. 163/2006, ora abrogato, da pareri online, dovrebbe rientrare tra gli appalti di servizi sociali e di cui all'allegato IX del D.LGS. 50/2016.
Si chiede se: 1) nell'attuale fase transitoria, la procedura corretta è indagine di mercato con pubblicazione sul sito del committente seguita da procedura negoziata con n. 5 operatori minimi da invitare se rinvenibili; 2) Procedura aperta con pubblicazione sul sito dell'Ente e con quali altre forme?
Si chiede se sia obbligatorio che le procedure suddette debbano essere gestite da una centrale di committenza qualificata o, in alternativa, ricorrendo agli strumenti di acquisto e di negoziazione, anche telematici tipo SINTEL, oppure, vista la tipologia dei presunti concorrenti, con la vecchia procedura cartacea?
RISPOSTA:
Va preliminarmente ricordato che, in via generale, trattandosi di comune non capoluogo di provincia, dovrebbe trovare applicazione il comma 4 dell’art. 37 del nuovo codice degli appalti il quale dispone: ”se la stazione appaltante è un comune non capoluogo di provincia, fermo restando quanto previsto al comma 1 e al primo periodo del comma 2, procede secondo una delle seguenti modalità: - a) ricorrendo a una centrale di committenza o a soggetti aggregatori qualificati; - b) mediante unioni di comuni costituite e qualificate come centrali di committenza, ovvero associandosi o consorziandosi in centrali di committenza nelle forme previste dall'ordinamento; - c) ricorrendo alla stazione unica appaltante costituita presso gli enti di area vasta ai sensi della legge 07.04.2014, n. 56”.
Va ricordato peraltro che il comma 1 ed il primo periodo del comma 2 sopra cit. prevedono che:
   - “1. Le stazioni appaltanti, fermi restando gli obblighi di utilizzo di strumenti di acquisto e di negoziazione, anche telematici, previsti dalle vigenti disposizioni in materia di contenimento della spesa, possono procedere direttamente e autonomamente all'acquisizione di forniture e servizi di importo inferiore a 40.000 euro e di lavori di importo inferiore a 150.000 euro, nonché attraverso l'effettuazione di ordini a valere su strumenti di acquisto messi a disposizione dalle centrali di committenza. Per effettuare procedure di importo superiore alle soglie indicate al periodo precedente, le stazioni appaltanti devono essere in possesso della necessaria qualificazione ai sensi dell'articolo 38”.
   - “2. Salvo quanto previsto al comma 1, per gli acquisti di forniture e servizi di importo superiore a 40.000 euro e inferiore alla soglia di cui all'articolo 35, nonché per gli acquisti di lavori di manutenzione ordinaria d'importo superiore a 150.000 euro e inferiore a 1 milione di euro, le stazioni appaltanti in possesso della necessaria qualificazione di cui all'articolo 38 procedono mediante utilizzo autonomo degli strumenti telematici di negoziazione messi a disposizione dalle centrali di committenza qualificate secondo la normativa vigente”.
L’ANAC ha peraltro recentemente chiarito, con un proprio comunicato, che i comuni non capoluogo di provincia possono procedere all’acquisizione di servizi di importo inferiore a 40 mila euro direttamente ed autonomamente ovvero attraverso l’effettuazione di ordini a valere sugli acquisti messi a disposizione dalle centrali di committenza mentre per affidamenti di importi superiori deve essere in possesso della necessaria qualificazione ai sensi dell’art. 38, ricordando però che, nel periodo transitorio, questa si intende sostituita dall’iscrizione all’AUSA (Anagrafe Unica Stazioni Appaltanti) di cui all’art. 33-ter, DL 18.12.2012 n. 179).
Ciò rilevato in via preliminare, si osserva che se si tratti, come riferito nel quesito, di un affidamento di un appalto di un servizio rientrante nell’ambito di cui all’allegato IX del codice (servizi sociali), questo risulta ora escluso dall’applicazione del codice se di importo superiore alla soglia di 750 mila euro di cui al comma 1, lett. d), del cit. art. 35, come chiarito sempre dall’ANAC nel comunicato suindicato.
Pertanto si dovrebbe concludere che nella fattispecie, se riguardante un affidamento di un servizio di natura sociale di importo inferiore a tale soglia, non dovrebbero trovar luogo nemmeno, in particolare, gli obblighi aggregativi di cui all’art. 37, comma 4, previsti in generale per l’affidamento degli altri servizi ordinari.
Trovano invece luogo i principi generali di cui all’art. 30, comma 1, richiamato dall’art. 36 e le procedure ivi previste, tra cui quella di cui alla lett. b) del comma 2 secondo cui si procede “per affidamenti di importo pari o superiore a 40.000 euro e inferiore a 150.000 euro per i lavori, o alle soglie di cui all'articolo 35 per le forniture e i servizi, mediante procedura negoziata previa consultazione, ove esistenti, di almeno cinque operatori economici individuati sulla base di indagini di mercato o tramite elenchi di operatori economici, nel rispetto di un criterio di rotazione degli inviti. I lavori possono essere eseguiti anche in amministrazione diretta, fatto salvo l'acquisto e il noleggio di mezzi, per i quali si applica comunque la procedura negoziata previa consultazione di cui al periodo precedente. L'avviso sui risultati della procedura di affidamento, contiene l'indicazione anche dei soggetti invitati”.
Trovano applicazione inoltre per tale tipo di appalti le disposizioni di cui agli artt. 142 e 143 del codice (link
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ENTI LOCALI: Il protocollo informatico.
DOMANDA:
Si chiede una interpretazione sul contenuto della “segnatura di protocollo”.
1) posizione della software house: il formato della segnatura è quello indicato all’art. 9 … e non precisa che sono dati minimali (come invece nella normativa precedente);
2) posizione dell’ente: questo formato di segnatura, rispettando il formato di cui all’art. 9 …, complica la lettura da parte del cittadino che si trova “solo” con una serie di codici, tra i quali il prot..
Chiediamo, ovviamente nel rispetto della norma, se è possibile inserire nome dell’ente e prot. n. (com’era prima del DPCM del 2013) e come verificato nella segnatura di tante pubbliche amministrazioni.
RISPOSTA:
Innanzitutto occorre ricordare in via generale che la segnatura di protocollo è l’apposizione o l’associazione all’originale del documento, in forma permanente non modificabile, delle informazioni riguardanti il documento stesso. La segnatura consente di individuare ciascun documento in modo inequivocabile.
Il DPCM 03.12.2013 dettante Regole tecniche per il protocollo informatico ai sensi degli articoli 40-bis, 41, 47, 57-bis e 71, del Codice dell’amministrazione digitale di cui al decreto legislativo n. 82 del 2005 interviene, tra l’altro, sul formato della segnatura di protocollo con l’art. 9, il cui dispositivo espressamente prevede: "1. Le informazioni apposte o associate ai documenti informatici, registrati nel registro di protocollo, negli altri registri di cui all’art. 53, comma 5, del testo unico, nei repertori e negli archivi, nonché negli albi, negli elenchi e in ogni raccolta di dati concernente stati, qualità personali e fatti con le modalità descritte nel manuale di gestione, mediante l’operazione di segnatura di cui all’art. 55 del testo unico che ne garantisce l’identificazione univoca e certa, sono espresse nel seguente formato: a) codice identificativo dell’amministrazione; b) codice identificativo dell’area organizzativa omogenea; c) codice identificativo del registro; d) data di protocollo secondo il formato individuato in base alle previsioni di cui all’art. 20, comma 2; e) progressivo di protocollo secondo il formato specificato all’art. 57 del testo unico.".
La sopravvenuta disposizione normativa in disamina, se pure riportandosi alla disciplina dell’art. 57 del D.P.R. 28.12.2000, n. 445, regola dettagliatamente e puntualmente il formato della segnatura di protocollo.
Ciascun ente locale, fermo restando la propria competenza all’approvazione (come alla modifica e/o integrazione) del Manuale di Gestione del Protocollo, dovrà rispettare le prescrizioni dettagliate dal dispositivo normativo sopra ricordato.
Quanto sopra non esclude che ciascun ente locale, nell’ambito delle proprie prerogative, possa integrare la segnatura con l’apposizione di ulteriori elementi (come quelli ipotizzati dal quesito, come per esempio la denominazione dell’amministrazione procedente ed il numero di protocollo, ecc.) nell’intento di facilitare l’utenza locale e non, che accede al servizio di registrazione di protocollo.
Per gli effetti, le modifiche e/o integrazioni di che trattasi, oltre che richiedere una apposita integrazione del vigente Manuale di Gestione del Protocollo, dovranno essere oggetto di eventuale (laddove si rendesse necessario sulla base del contratto in essere) rinegoziazione, anche economica, del rapporto contrattuale con la società esterna, chiamata a gestire il relativo software gestionale, questa ultima a sua volta obbligata ad effettuare le necessarie modifiche e/o integrazioni tecniche dello stesso software (link
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PATRIMONIO: L'iva per l'utilizzo di immobili comunali.
DOMANDA:
Premesso che questa amministrazione è proprietaria di un immobile di due piani, dove il primo piano è adibito ad poliambulatorio ed affittato a medici privati e pertanto assoggettato ad attività commerciale a regime di esenzione.
Tenuto conto che il secondo piano verrà assegnato ad uso condiviso ad associazioni locali, senza alcun canone di affitto ma con il solo rimborso forfettario di parte delle spese per le utenze di energia elettrica e riscaldamento, si chiede di conoscere se l'attività di assegnazione dei locali assume la caratteristica di attività commerciale pur in assenza di un canone di affitto determinato.
RISPOSTA:
Si osserva preliminarmente che la mancanza di un contratto di locazione, concessione in uso e simili, a titolo oneroso, esclude la sussistenza dell’esercizio di attività economica, cioè finalizzata allo sfruttamento di un bene materiale o immateriale per ricavarne introiti aventi carattere di stabilità (art. 9, parag. 2, della direttiva IVA comunitaria 2006/112/Ce).
Nel caso di specie il Comune procede al mero riaddebito, peraltro parziale, delle spese accessorie alla conduzione (gratuita) dell’immobile. In tal caso, quindi, enunciando il principio IVA comunitario contenuto nella norma sopra richiamata, non sussiste quel minimo di organizzazione di mezzi preordinata alla percezione di corrispettivi con carattere di continuità che caratterizza un’attività economica. Conseguentemente, i riaddebiti non devono essere fatturati.
Qualora il Comune procedesse non soltanto al riaddebito delle utenze ma anche all’addebito di un complesso di ulteriori servizi organizzati specificamente dal Comune (p.e. pulizie, sorveglianza, custodia, etc.), si rientrerebbe invece nel campo di applicazione dell’IVA sussistendo quel minimo di attività organizzata sopra citata. Si aggiunge che è necessario verificare preliminarmente se l’acquisto dell’immobile è stato immesso tra le attività commerciali rilevanti IVA del Comune tramite l’esercizio della detrazione dell’IVA.
In caso positivo la destinazione permanente ad assegnazione gratuita alle associazioni comporterebbe l’obbligo per il Comune di operare la rettifica della detrazione ai sensi dell’art. 19-bis2, c. 3, del DPR 633/1972, vale a dire la restituzione dell’IVA detratta su acquisti di beni destinati a finalità estranee all’esercizio di attività commerciali successivamente all’acquisto (link
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EDILIZIA PRIVATA: Osservatorio Viminale/ Sotto i 3 mila abitanti i consiglieri sono 12. Simboli riutilizzabili.
Per i comuni con popolazione inferiore a 3 mila abitanti, il consiglio comunale deve essere composto da dieci consiglieri? Può essere riutilizzato il simbolo della lista già impiegato nelle precedenti elezioni?

In merito al primo dei quesiti, occorre evidenziare che, nella fattispecie in esame, l'ente locale insiste nel territorio di una regione a statuto speciale. Secondo la carta statutaria, l'ordinamento degli enti locali rientra nella competenza della legislazione regionale, nel rispetto della Costituzione, dei principi dell'ordinamento giuridico della Repubblica, degli obblighi internazionali e degli interessi nazionali, nonché delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali della repubblica.
La disciplina prevista dalla legge n. 56/2014, in materia di città metropolitane, è qualificata dall'art. 1, comma 5, della stessa legge come normativa recante principi di «grande riforma economica e sociale»; inoltre, la citata legge, ai sensi del successivo comma 145, dispone che «entro 12 mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, le regioni a statuto speciale Friuli-Venezia Giulia e Sardegna e la regione siciliana adeguano i propri ordinamenti interni ai principi della medesima legge
».
Le disposizioni di cui ai commi da 104 a 141 sono applicabili nelle regioni a statuto speciale Trentino-Alto Adige e Valle d'Aosta compatibilmente con le norme dei rispettivi statuti e con le relative norme di attuazione, anche con riferimento alla legge costituzionale 18.10.2001, n. 3.
Nel caso di specie, tuttavia, la regione non ha ancora provveduto ad un riordino complessivo del proprio ordinamento degli enti locali.
Pertanto, nelle more di un futuro riassetto della materia, occorre fare riferimento alla normativa regionale attualmente vigente, secondo cui il consiglio comunale dei comuni con popolazione compresa tra 1.000 e 5 mila abitanti è composto da 12 membri.
In ordine al secondo quesito formulato, si ritiene possa essere nuovamente utilizzato, da parte della formazione politica interessata alle prossime elezioni comunali, il medesimo contrassegno di lista presentato, e presumibilmente ammesso, in occasione delle elezioni tenutesi nello stesso comune.
In merito, si richiamano le disposizioni contenute nell'art. 30, comma 1, lettera b), (per i comuni sino a 15 mila abitanti) e nell'art. 33, comma 1, lett. b) (per i comuni con popolazione superiore a 15 mila abitanti) del dpr n. 570/1960, da cui si evincono i criteri di ammissione dei contrassegni di lista, con riferimento, tra l'altro, al divieto di presentazione di contrassegni identici o comunque confondibili con quelli presentati precedentemente per la stessa consultazione o con quelli notoriamente usati da altri partiti o raggruppamenti politici (articolo ItaliaOggi dell'01.07.2016).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Il vicesindaco non vota. Ma l'atto annullabile può essere convalidato. Se l'illegittimità del voto non ha influito sull'esito della deliberazione.
È legittima una delibera di consiglio comunale adottata con il voto espresso anche dal vice sindaco dell'ente?

Il Consiglio di stato, con parere n. 94/96 del 21/02/1996, ha escluso che nel novero dei poteri vicari del vice sindaco rientri l'esercizio delle funzioni di componente del consiglio con diritto di voto.
Nel caso di specie, la deliberazione consiliare in questione sarebbe stata approvata anche senza computare il voto espresso dal vice sindaco, pertanto occorre valutare se sia opportuno provvedere al ritiro della stessa, ove fosse inficiata da vizi di legittimità.
In merito il Consiglio di stato, V sezione, con sentenza n. 1564 del 2005, con riferimento alla circostanza che la delibera adottata sopravviva alla cosiddetta «prova di resistenza», ha affermato che una giusta composizione tra l'esigenza di reintegrare la legittimità violata nel corso delle operazioni di voto e quella di salvaguardare la volontà espressa dall'organo deliberante, non consente di pronunciare l'annullamento degli atti impugnati e dei voti così espressi, se la loro illegittimità non influisca in concreto sull'esito della deliberazione.
Circa il superamento della «prova di resistenza», questa è del tutto irrilevante quando la controversia sia riferita alla violazione degli obblighi di astensione gravanti sugli amministratori locali ai sensi della vigente normativa in materia (cfr Consiglio di stato sez. IV 20/12/2013 n. 6177).
Nella fattispecie in esame, potrebbe farsi ricorso all'istituto della convalida amministrativa grazie al quale, qualora si sia in presenza di un atto annullabile, la pubblica amministrazione, in virtù del principio di conservazione degli atti giuridici, può decidere di mantenere in vita tale atto, rimuovendo i vizi che lo inficiano attraverso l'espressione di una manifestazione di volontà finalizzata a eliminare il vizio ravvisato.
Infatti, la convalida si sostanzia in una nuova ed autonoma manifestazione di volontà che, collegandosi all'atto originario, ne mantiene gli effetti fin dal momento in cui esso venne emanato. La legge n. 15 del 2005 ha modificato la legge n. 241 del 1990, introducendo l'art. 21-nonies che, al comma 2, prevede la possibilità di convalida del provvedimento annullabile, entro un termine ragionevole, nel caso in cui ne sussistano le ragioni di pubblico interesse (articolo ItaliaOggi del 24.06.2016).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Quorum.
Qual è la normativa da applicare, in ordine alla definizione del quorum strutturale stabilito per la validità delle sedute del consiglio comunale, in caso di contrasto tra previsione statutaria e norma regolamentare?

L'art. 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, demanda al regolamento comunale, «nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto» la determinazione del «numero dei consiglieri necessario per la validità delle sedute», con il limite che tale numero non può, in ogni caso, scendere sotto la soglia del «terzo dei consiglieri assegnati per legge all'ente, senza computare a tale fine il sindaco e il presidente della provincia»; quest'ultimo assunto deve essere inteso nel senso che, limitatamente al computo del «terzo» dei consiglieri, il sindaco deve essere escluso.
Nel caso di specie è stato rilevato un contrasto tra la previsione recata dallo statuto comunale e la disciplina prevista dal regolamento sul funzionamento del consiglio dell' ente locale.
La prima delle due fonti normative, infatti, prevede, in prima convocazione, la presenza della maggioranza assoluta dei consiglieri assegnati al fine della validità delle sedute ed, in seconda convocazione, la presenza di almeno sei consiglieri, non computando il sindaco. Ai sensi della norma regolamentare è, invece, previsto che, per la validità delle sedute di seconda convocazione, sia necessaria la presenza di almeno un terzo dei consiglieri assegnati su un totale di dodici consiglieri oltre al sindaco.
Secondo il principio della gerarchia delle fonti, conformemente anche all'articolo 7 del citato Tuel, che disciplina l'adozione dei regolamenti comunali «nel rispetto dei principi fissati dalla legge e dallo statuto» (cfr. sentenza Tar Lombardia, Brescia, n. 2625 del 28.12.2009, Tar Lazio, n. 497 del 2011), la citata disposizione regolamentare dovrebbe essere disapplicata, prevalendo la norma statutaria.
È, tuttavia, opportuno comporre la discrasia rilevata; l'ente dovrà, pertanto, porre in essere un intervento correttivo volto ad armonizzare le previsioni recate dalle citate fonti di autonomia locale (articolo ItaliaOggi del 24.06.2016).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Richiesta parere su Decreto Ministeriale n. 37 del 22.01.2008 (Ministero dello Sviluppo Economico, nota 16.06.2016 n. 203335 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Richiesta di parere in merito all'intervento di ripristino di un edificio alla luce delle modifiche apportate all'art. 3, comma 1, lett. d) del d.P.R. 380/2001 da parte del d.l. 69/2013, come convertito dalla legge 98/2013 - Comune di Cassino (Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, nota 15.06.2016 n. 5772 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Parere in merito all'assoggettabilità al contributo di costruzione degli impianti fotovoltaici destinati alla produzione di energia elettrica da commercializzare – Comune di Montalto di Castro (Regione Lazio, parere 14.06.2016 n. 312998 di prot.).

NEWS

EDILIZIA PRIVATAAgenda in ritardo su Scia via internet e regolamento unico. In edilizia non rispettato il 30% delle scadenze.
Semplificazioni. L’impatto delle misure potrà valutarsi a fine 2016.

Le scadenze previste dall’agenda per la semplificazione amministrativa 2015-2017 –come conferma il terzo rapporto di monitoraggio stilato dal Governo– sono state rispettate al 90 per cento. Ma nel settore dell’edilizia il calendario di partenza può dirsi “saltato” per due attività su sei.
Gli obiettivi dell’agenda
All’agenda per la semplificazione, prevista dal Dl 90/2014, è stato assegnato l’ambizioso obiettivo di «recuperare il ritardo competitivo dell’Italia, liberare le risorse per tornare a crescere e restituire ai cittadini e alle imprese il tempo da dedicare a quello che conta», sburocratizzando e rendendo più trasparente il rapporto con gli enti pubblici.
I settori interessati da queste misure sono cinque: cittadinanza digitale, welfare e salute, fisco, edilizia, impresa. Si tratta di ambiti nei quali ridurre i costi dei rapporti con le Pa che erogano i servizi e abbreviare i tempi di attesa degli atti o delle risposte avrebbe grande effetto sia sulla qualità della vita e il benessere dei cittadini, sia sull’efficienza e la competitività delle imprese: in sintesi, sullo stato dell’economia. Per ogni settore si è quindi provveduto a individuare una serie di azioni: iniziative da promuovere, soggetti coinvolti, scadenze da rispettare e risultati attesi.
L’ambito edilizio
Nel settore dell’edilizia la semplificazione viaggia su sei azioni specifiche (si vedano le schede in pagina). Ma per i costruttori e gli altri operatori economici che si muovono in questo mercato, risultano importanti anche alcune delle azioni previste per la generalità delle imprese. Vale a dire, per fare solo qualche esempio: riduzione dei tempi e degli adempimenti degli sportelli unici per le attività produttive, semplificazione delle procedure per avviare un’impresa, razionalizzazione delle conferenze di servizi.
In generale, se il rapporto tra le aziende e la Pa diventa più fluido, nel rispetto delle regole, a beneficiare dello snellimento amministrativo possono essere anche le famiglie che acquistano una casa e gli altri soggetti che hanno bisogno dei loro servizi. Secondo il dipartimento della Funzione pubblica, nel solo campo dell’edilizia, preparare relazioni, dichiarazioni e ogni altro documento necessario per presentare una domanda costa agli utenti 4,4 miliardi di euro all’anno.
Certo, riducendo le carte e i passaggi burocratici superflui questi costi non spariscono, ma possono essere di gran lunga limitati. E se tutti i traguardi vengono rispettati, anche i 175 giorni di media che occorrono per ottenere un permesso di costruzione possono avvicinarsi ai 60 previsti dal Testo unico sull’edilizia (Dpr 380/2001).
La tabella di marcia
Per valutare l’impatto complessivo dell’applicazione dell’agenda in edilizia bisogna attendere la fine dell’anno, quando produrranno i loro effetti anche le azioni ancora in via di definizione. La tabella di marcia inizialmente stabilita è stata però rispettata solo in parte, e per alcuni interventi si procede un po’ al rallentatore.
È ad esempio in ritardo l’elaborazione del regolamento edilizio tipo. A novembre 2015 è scaduto il termine previsto per predisporre lo schema tipo, che dovrebbe sostituire gli oltre 8mila diversi regolamenti ora applicati dai Comuni (si veda Il Sole 24 Ore del 4 aprile scorso). Stato, regioni ed enti locali sono riusciti finora a mettersi d’accordo sulla definizione di 42 parametri edilizi (quali altezze, superfici o distanze). Ma non è ancora chiaro quando il lavoro potrà essere completato.
Siamo ai tempi supplementari anche per la pianificazione delle procedure edilizie online. In questo caso la scadenza era stata fissata a marzo 2015, ma dal rapporto risulta che a quella data è stato definito il solo documento di pianificazione, mentre la conclusione dei lavori è in calendario per il prossimo dicembre. Mese entro il quale saranno terminati anche gli interventi previsti dalle altre azioni, le cui diverse fasi sono state realizzate secondo i tempi previsti
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPersonale, dal decreto un primo passo ancora da completare.
Si fa qualche passo in avanti in tema di gestione del personale. Grazie alle insistenti richieste dell’Anci, il decreto-legge 113/2016 ha finalmente recepito la proposta volta a superare una norma che da anni ha posto problemi poi acuitisi con la grave impasse determinata dall’interpretazione “evolutiva” resa dalla Corte dei Conti, che in un’ultima pronuncia ha asserito la precettività del disposto contenuto nella legge finanziaria del 2007 in merito al contenimento dell’incidenza della spesa di personale sul complesso delle spese correnti nelle Regioni e nei Comuni, contravvenendo a quanto scritto nella delibera 27/2015 in cui si ribadiva l’orientamento consolidato secondo cui il comma 557, lettera a), della legge 296/2006 avrebbe carattere programmatorio e di principio.
La sezione delle Autonomie invece con la delibera 16/2016, e nonostante le sollecitazioni delle sezioni remittenti (Lombardia e Veneto) di riconsiderare la posizione interpretativa già espressa visti gli effetti maggiormente penalizzanti e paradossali per gli enti che più hanno ridotto le spese correnti, ha ribadito l’immediata precettività della disposizione, specificando ulteriormente l’impossibilità di utilizzare correttivi idonei a garantire la comparabilità dei dati della serie storica di spesa corrente.
Questa nuova lettura “interpretativa” ha determinato la diretta applicazione delle sanzioni stabilite dalla legge per le amministrazioni che violano le norme imperative di contenimento (in termini di valore assoluto) della spesa di personale. Conseguentemente anche i Comuni che hanno garantito la riduzione della spesa di personale al di sotto del corrispondente valore medio registrato nel triennio 2011-2013 (parametro introdotto dal decreto-legge 90/2014), si sono ritrovati a subire il divieto di procedere ad assunzioni a qualsiasi titolo, con qualsivoglia tipologia contrattuale, di portare a conclusione le stabilizzazioni in atto, di stipulare contratti di servizio con soggetti privati che si configurino come elusivi del divieto, con un impatto in molti casi pesantissimo sull’organizzazione e sull’erogazione dei servizi.
Parliamo dei Comuni che hanno razionalizzato la spesa corrente, dei Comuni che erogano servizi, spesso essenziali per la comunità, di quelli che hanno visto una costante riduzione della spesa per il personale in termini assoluti e pro capite; parliamo dei Comuni che vedono un drammatico invecchiamento del proprio personale, e che sono chiamati ad applicare riforme importanti come il nuovo codice dei contratti o le numerose riforme della Pa.
Il problema ha riguardato indiscriminatamente sia molte grandi città, impossibilitate a dar seguito alle assunzioni programmate nelle funzioni legate a servizi alla cittadinanza come quello educativo, sia moltissimi Comuni di medie e piccole dimensioni demografiche, nei quali si è determinato un impatto pesantissimo sulle strutture organizzative già ridotte all’osso, traducendosi nei fatti nell’impossibilità di procedere alla sostituzione per turn-over di figure essenziali, quali il ragioniere o il tecnico comunale.
La norma contenuta nell’articolo 16 del decreto legge ripete testualmente l’emendamento proposto dall’Anci già nel novembre scorso, in occasione del dibattito parlamentare sulla legge di stabilità 2016, e consegue alle forti pressioni fatte in questi mesi in sede di Conferenza Unificata. Questa previsione consente di superare nell’immediato un paradosso interpretativo, ma resta aperto il problema di giungere quanto prima a una complessiva semplificazione delle norme che disciplinano le spese di personale nei Comuni e il turn-over di personale, che, ricordiamolo, è bloccato da quasi due anni dal processo di ricollocazione del personale soprannumerario delle Province
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.07.2016).

VARI: Il ciclista all'incrocio resta dietro.
Con il codice stradale non è possibile allestire degli spazi di sosta per permettere ai ciclisti di fermarsi alle linee di arresto semaforiche in prima linea, davanti ai veicoli a motore. Per evitare fumi di scarico e agevolare la partenza degli utenti deboli.

Lo ha chiarito il Mintrasporti con il parere n. 2409/2016 di prot..
Un comune ha proposto al dipartimento per i trasporti di collocare una particolare segnaletica in certi incroci molto frequentati dai ciclisti. In pratica si tratterebbe di creare una zona di arresto agevolata ai semafori, davanti alla colonna dei veicoli a motore, all'estero denominata «casa avanzata per ciclisti».
In questo modo verrebbe agevolata la circolazione dei velocipedi e migliorata la qualità dell'aria respirata. Ma per il ministero questo tipo di segnaletica non è ancora ammessa dal codice stradale. Quindi niente da fare. Le biciclette devono rassegnarsi a manovre pericolose e soste fai-da-te sotto alle marmitte (articolo ItaliaOggi Sette del 04.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

VARIDocumento sequestrato, niente bis. Guida.
Chi subisce il sequestro della propria patente di guida non può richiederne una nuova. Il documento soggetto a restrizione infatti è ancora valido e il titolare ai sensi dell'art. 116 Cds non può mai essere intestatario di due licenze per condurre veicoli in ambito comunitario.

Lo ha chiarito il Ministero dei trasporti con il parere 04.05.2016 n. 10470 di prot..
Alcuni uffici della motorizzazione hanno evidenziato che in caso di sequestro di una patente di guida l'interessato si trova in evidente difficoltà. Per tentare di conseguire un nuovo titolo occorrerebbe infatti togliere valore al documento sottoposto a restrizione.
Ma questa soluzione non è praticabile. Non è infatti possibile annullare una licenza di guida sottoposta a sequestro da parte dell'autorità giudiziaria, specifica il ministero.
E di conseguenza consentire il rilascio di una nuova patente o di un suo duplicato a chi risulta sulla carta ancora intestatario di una licenza di guida in corso di validità (articolo ItaliaOggi Sette del 04.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - VARI: Niente palette per i volontari. Una circolare della protezione civile.
I volontari che aiutano le forze dell'ordine a dirigere il traffico non possono prendere in mano palette o altri segnali distintivi tipici delle forze di polizia stradale. E il loro impiego deve essere preventivamente formalizzato dagli organi di vigilanza che se ne assumono pure la responsabilità operativa.

Lo ha chiarito il Dipartimento della protezione civile con la circolare 24.06.2016 n. 32320 di prot..
La questione dell'impiego operativo dei volontari e di quelli della protezione civile in particolare è densa di incognite soprattutto quando si tratta di collaborare con vigili urbani, carabinieri e polizia impegnati con deviazioni del traffico e chiusura di strade. Normalmente l'operatore ritiene di poter offrire il suo supporto anche utilizzando palette per regolare il traffico ed essere più riconoscibile dagli automobilisti. Nulla di più sbagliato.
A parere della Presidenza del consiglio dei ministri la collaborazione dei volontari può innanzitutto inquadrarsi all'interno dell'art. 11 del codice della strada ma solo in riferimento alla regolazione del traffico e alla scorta dei mezzi. Quindi non certo per fare multe o rilevare incidenti. Questa attività di supporto però deve essere inquadrata nell'alveo dei compiti che possono essere richiesti ai volontari di protezione civile. Ovvero l'informazione alla popolazione e il presidio del territorio, in conformità al decreto del capo della protezione civile del 12.01.2012.
Anche in scenari caratterizzati dall'assenza di specifici rischi di protezione civile. Spetterà però ai vigili urbani, alla polizia e ai carabinieri richiedere formalmente il supporto delle organizzazioni di volontariato e di protezione civile. Con tanto di assunzione di responsabilità sul coordinamento operativo del personale impiegato effettivamente sul campo.
L'autorità locale di protezione civile potrà quindi autorizzare l'uso del personale in strada esclusivamente per finalità di supporto alle forze dell'ordine. Ma risulterà sempre tassativamente vietato l'uso di palette dirigi-traffico o altri segnali in uso alle forze dell'ordine che possano ingenerare equivoci nella popolazione (articolo ItaliaOggi del 02.07.2016).

ATTI AMMINISTRATIVI: Giudizi contabili più equilibrati. Parità accusa-difesa, contraddittorio, esecuzioni certe. Le novità del dlgs che riscrive le regole dei processi dinanzi alla Corte dei conti.
I giudizi davanti alla Corte dei conti saranno più equilibrati. Con una reale parità tra accusa e difesa e maggiori garanzie di contraddittorio per i presunti responsabili nella fase istruttoria e pre-processuale. Corollario dell'ingresso del principio del giusto processo nel giudizio erariale sarà l'equidistanza del pubblico ministero che dovrà svolgere indagini non solo per provare gli elementi costitutivi della responsabilità erariale, ma anche per accertare gli elementi che la escludono tale responsabilità.

Si pone dunque rimedio dopo più di 80 anni alle contraddizioni del giudizio dinanzi alla Corte dei conti, disciplinato da un coacervo di norme stratificate nel tempo, culminate con il regio decreto 1038/1933 che rinviando ai termini e alla norme del codice di procedura civile «in quanto applicabili» ha di fatto creato «un sistema asimmetrico» che ha «finito per sacrificare le garanzie di difesa». Di qui l'esigenza di rimettere mano alla normativa e di farlo per la prima volta con un codice organico che racchiude le disposizioni processuali di tutte le tipologie di giudizi che si svolgono davanti alla Corte dei conti.
Il Codice, il secondo dopo quello sui contratti pubblici (dlgs 50/2016) messo a punto dal governo Renzi, è stato approvato in via preliminare dal consiglio dei ministri di giovedì. In 219 articoli (a cui si aggiungono le norme di attuazione) il dlgs riscrive del tutto i giudizi contabili rendendoli, come detto, più garantisti. E il principio del giusto processo permea tutti gli istituti processuali. Viene previsto l'obbligo di motivazione degli atti istruttori e introdotti riti alternativi e semplificati, con l'obiettivo di ridurre il volume del contenzioso e rendere più certa l'esecuzione delle sentenze di condanna.
Il giudizio davanti alla Corte conti perderà la sua connotazione inquisitoria espressa, in particolare, dall'esercizio del potere «sindacatorio» in forza del quale, per esempio, l'integrazione del contraddittorio poteva avvenire prescindendo dai necessari passaggi preliminari difensivi e in deroga alla titolarità del diritto d'azione in capo al procuratore contabile.
Vediamo le novità più significative.
Invito a dedurre. L'invito a dedurre, cioè il tipico atto attraverso il quale un presunto responsabile è informato del fatto che è stata effettuata un'indagine per danno erariale nei suoi confronti, viene arricchito di contenuti informativi per consentire al destinatario di comprendere la portata delle contestazioni a suo carico e argomentare la propria difesa.
Audizioni personali. La parte ha diritto di essere sentita con l'assistenza dell'avvocato (pena la nullità dell'audizione) e, dopo l'invito a dedurre, ha diritto di accedere a tutti gli atti del fascicolo istruttorio. Il soggetto sottoposto ad audizione ha l'obbligo di presentarsi e di rispondere alle domande che gli sono rivolte. Tuttavia, egli non è obbligato a deporre sui fatti da cui potrebbe emergere una sua responsabilità. Chi, senza giustificato motivo, rifiuta la convocazione del pm è punito con una sanzione da 100 a 1.000 euro.
Accesso agli atti. Il pm potrà accedere agli atti sui siti delle pubbliche amministrazioni che, in particolare dopo gli ultimi interventi normativi (il dlgs 97/2016 che ha introdotto nel nostro ordinamento il Freedom of information act), consentono di verificare online la maggior parte dei documenti che caratterizzano l'attività di una p.a.
Azioni a tutela del credito erariale. Il pubblico ministero contabile potrà esercitare tutte le azioni a tutela delle ragioni del creditore previste dalla procedura civile, compresa l'azione surrogatoria e revocatoria.
Onere di segnalazione. I magistrati della Corte conti assegnati alle sezioni e agli uffici di controllo devono segnalare alle competenti procure regionali i fatti da cui possano derivare responsabilità erariali. Tuttavia, viene stabilito il divieto che le notizie o i dati inerenti ipotesi di danno erariale transitino nella fase istruttoria del giudizio di responsabilità come prove già precostituite in sede di controllo. La prova del danno erariale è infatti interamente rimessa all'opera del procuratore contabile.
Viene inoltre prevista l'archiviazione della notizia di danno per assenza di elemento psicologico se l'azione dell'ente locale si sia conformata al parere reso dalla Corte conti nei confronti dei medesimi enti in sede di controllo o in sede consultiva (articolo ItaliaOggi del 02.07.2016).

LAVORI PUBBLICILavori, pianificazione più facile. Programma triennale ed elenco annuale vanno nel Dup. Il nuovo codice degli appalti ha semplificato l'iter e abrogato la precedente disciplina.
Il nuovo codice degli appalti ha semplificato l'iter per la programmazione dei lavori pubblici, abrogando la previgente disciplina che mal si coordinava con quella relativa al Dup.
Il vecchio dlgs 163/2006 ed i relativi provvedimenti applicativi (dpr 207/2010 e dm 24.10.2014 del ministero delle infrastrutture) prevedevano che lo schema di programma triennale fosse redatto entro il 30 settembre, adottato dalla giunta entro il 15 ottobre e infine deliberato dal consiglio contestualmente al bilancio di previsione, del quale costituiva un allegato assieme all'elenco dei lavori da avviare nell'anno.
Prima del varo definitivo, inoltre, gli schemi di tali provvedimenti dovevano essere pubblicati per almeno 60 giorni consecutivi nella sede dell'amministrazione (che poteva anche adottare ulteriori forme di informazione).
Per contro, il dlgs 118/2011 (e, in particolare, l'allegato 4/1 recante il principio contabile applicato sulla programmazione) impongono che la programmazione in materia di lavori pubblici (come quella su personale e patrimonio) confluiscano nel Documento unico di programmazione (Dup).
In altre parole, quindi, sia il programma triennale che l'elenco annuale diventano un allegato del Dup, da collocare nella seconda parte della sezione operativa del documento. Il Dup deve essere presentato dalla giunta al consiglio «per le conseguenti deliberazioni» entro il 31 luglio. È evidente che si trattava di previsioni mal coordinate sia sul piano temporale, che su quello formale. Ora, come detto, il quadro normativo è stato modificato dal dlgs 50/2016.
Quest'ultimo disciplina il programma triennale dei lavori pubblici (insieme al programma biennale degli acquisti di beni e servizi) all'art. 21, prevedendo (al comma 1) che essi siano approvati nel rispetto dei documenti programmatori e in coerenza con il bilancio. Il successivo comma 8 rimette ad un nuovo decreto delle infrastrutture (da adottare entro 90 giorni dall'entrata in vigore del nuovo codice) l'aggiornamento della relativa modulistica.
Alla luce di tale novella, si ritiene che, nelle more dell'adozione del predetto dm, gli enti possano utilizzare i vecchi modelli, ma non siano più vincolati a seguire il precedente iter e la relativa tempistica. Ciò pare confermato anche dall'art. 216, che fa scattare con decorrenza immediata l'abrogazione della precedente disciplina.
Pertanto, il programma triennale e l'elenco annuale vanno senz'altro inseriti nello schema di Dup 2017-2019 che le giunte devono presentare fra un mese ai consigli, i quali lo approveranno secondo la tempistica prevista dai regolamenti di contabilità dei singoli enti ovvero, in mancanza, i in tempi utili per la presentazione dell'eventuale nota di aggiornamento entro il 15 novembre, unitamente allo schema di bilancio per il prossimo triennio.
Ovviamente, la nota di aggiornamento dovrà adeguare la programmazione dei lavori pubblici alle indicazioni consiliari o al mutato quadro normativo, raccordandola in modo puntuale con il preventivo. Quanto alla pubblicità, il comma 7 dell'art. 1 prevede che il programma degli acquisti di beni e servizi e quello dei lavori pubblici, nonché i relativi aggiornamenti annuali, siano pubblicati sul profilo del committente, sul sito informatico del ministero delle infrastrutture e dell'Osservatorio dei contratti pubblici.
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Regola estesa agli acquisti.
Nel Dup 2017-2019, gli enti locali devono inserire la programmazione degli acquisti di beni e servizi di importo pari o superiore a 40 mila euro. Anche tale obbligo è stato introdotto dall'art. 21 del nuovo codice degli appalti (dlgs 50/2016), che ha ampliato l'analoga previsione contenuta nella legge di stabilità 2016 (comma 505 della legge 208/2015). Quest'ultima, infatti, aveva limitato il campo ai soli acquisti di importo unitario stimato superiore a 1 milione di euro.
Ora, invece, la soglia è stata abbassata a 40 mila euro, ovvero l'importo massimo di acquisto autonomo per i comuni non capoluogo che sono stazioni appaltanti non qualificate. Ovviamente, il dlgs 118/2011, nel disciplinare i contenuti del Dup, non richiama la programmazione degli acquisti di beni e servizi, non essendo ancora stato aggiornato alle richiamate novità normative.
Tuttavia, la questione dovrà essere posta, considerato che l'art. 21, comma 1, del dlgs 50 impone il raccordo con i documenti programmatori, oltre che (ovviamente) con il bilancio (articolo ItaliaOggi dell'01.07.2016).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI La registrazione al Sic slitta di un anno. L'entrata in vigore dell'obbligo è prorogata al 30/06/2017.
Prorogata di un anno, fino al 30.06.2017, l'entrata in vigore dell'obbligo di registrazione al sistema informativo del casellario giudiziale; le pubbliche amministrazioni potranno ancora chiedere i dati agli uffici locali del casellario; assicurata la continuità del servizio che interessa importanti verifiche sugli affidatari di contratti pubblici.

È quanto prevede il decreto del ministero della giustizia del 17.06.2016, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 24.06.2016, n. 146, in tema di utilizzo del casellario giudiziale da parte delle pubbliche amministrazioni e dei gestori di pubblici servizi.
Nel 2014, con il decreto dirigenziale del ministero della giustizia del 12 giugno, era già stato prorogato al 30.06.2016 il termine per la vigenza delle disposizioni transitorie di cui all'art. 16 del decreto dirigenziale, secondo cui le amministrazioni interessate all'accesso diretto al Sic che non avessero ancora attivato la procedura di cui all'art. 5 dello stesso decreto dirigenziale, potevano continuare a richiedere i certificati agli uffici locali del casellario.
In base al decreto del 5 dicembre 2012 tutte le amministrazione, entro il termine che scadeva ieri, avrebbero dovuto procedere alla registrazione per accedere alla consultazione diretta del sistema informativo del casellario, individuando al proprio interno anche un funzionario responsabile per l'accesso a tali dati.
Il periodo transitorio non è stato però sufficiente perché, come dice lo stesso ministero della giustizia, «per ciascuna istanza di accesso e' da verificare preliminarmente che l'amministrazione interessata abbia indicato, nella relativa scheda informativa, i procedimenti amministrativi di competenza, per i quali è legittimata ad acquisire i certificati del casellario in virtù di una specifica previsione normativa che ne stabilisca il contenuto, ciò anche al fine della realizzazione della procedura informatica per il rilascio di un certificato selettivo».
Peraltro le richieste di accesso non sono state neanche numerose se è vero che, come dice sempre il ministero della giustizia, sono arrivate soltanto 400 richieste dai comuni su un totale di 8 mila (anche carenti di informazioni e non in linea con le disposizioni dettate dalle circolari in materia).
La proroga consentirà anche di mettere a punto una serie di convenzioni tipo, ad esempio con l'Anci, cui aderiranno le amministrazioni comunali le quali potranno così evitare di accreditarsi singolarmente.
Per i contratti pubblici le verifiche sul casellario giudiziale scattano nell'ambito dell'applicazione dell'articolo 80 del nuovo codice (decreto legislativo n. 50/2016) che prevede l'esclusione dalla gara per l'operatore economico che abbia riportato una condanna con sentenza definitiva o decreto penale di condanna divenuto irrevocabile, o sentenza di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell'articolo 444 del codice di procedura penale, anche riferita a un suo subappaltatore nei casi di cui all'articolo 105, comma 6, per una serie di reati che comprendono quelli contro la pubblica amministrazione e altre gravi fattispecie rilevanti ai fini della conclusione di un contratto pubblico, fra ciò anche l'appartenenza a organizzazioni di stampo mafioso (articolo ItaliaOggi dell'01.07.2016).

PUBBLICO IMPIEGOFalse presenze, sospensione immediata. Dal 13 luglio linea dura sulle attestazioni e per i dirigenti che non sanzionano le irregolarità.
Riforma Madia. Pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale» del 28 giugno il decreto per mettere alle corde i «furbetti del cartellino».

Vita dura dal 13 luglio per i “furbetti del cartellino”. Da tale data, infatti, entreranno in vigore le norme del Dlgs 20.06.2016, n. 116, pubblicate martedì sulla «Gazzetta Ufficiale», che modificano l’articolo 55-quater del Testo unico del pubblico impiego (Dlgs 165/2001), allo scopo di combattere il fenomeno della falsa attestazione della presenza in ufficio da parte dei dipendenti pubblici.
La falsa attestazione della presenza, secondo la riforma, si realizza quando il dipendente, con qualunque modalità, faccia risultare in maniera fraudolenta -anche avvalendosi di terzi- di essere in servizio, oppure tragga in inganno l'amministrazione circa l'orario di lavoro effettivamente svolto.
Se la falsa attestazione della presenza viene accertata in flagranza, oppure mediante l'utilizzo di strumenti di sorveglianza o di registrazione degli accessi o delle presenze, l'Amministrazione deve disporre immediatamente -e comunque entro 48 ore dalla conoscenza del fatto– e con provvedimento motivato la sospensione cautelare del dipendente, senza necessità di ascoltarlo preventivamente.
Il superamento di tale termine non determina inefficacia della sospensione e non comporta la decadenza dall'azione (analogo principio è previsto per la successiva procedura disciplinare).
La sospensione è una misura diversa dal licenziamento, ma i suoi effetti concreti di fatto anticipano le conseguenze dell'eventuale e futura misura di recesso dal rapporto; infatti, durante il periodo di sospensione non spetta lo stipendio, anche se deve essere riconosciuto un trattamento minimo alimentare, nella misura stabilita dalle disposizioni normative e contrattuali vigenti.
Dopo la sospensione, deve essere avviato il procedimento disciplinare, finalizzato ad ascoltare le difese del lavoratore e ad adottare l'eventuale misura sanzionatoria, in caso tali difese risultino insufficienti; anche per questa fase sono previsti termini accelerati.
Il dipendente è convocato, per il contraddittorio a sua difesa, con un preavviso di almeno 15 giorni, e l'ufficio conclude il procedimento entro 30 giorni dalla ricezione, da parte del dipendente, della contestazione dell'addebito; al termine della procedura il lavoratore può essere licenziato, se le giustificazioni addotte non sono considerate sufficienti.
Dopo il licenziamento, al dipendente non resta che andare davanti al giudice del lavoro, sperando che questo trovi delle irregolarità formali o sostanziali nella procedura; in tal caso, potrebbe essere invocata l'applicazione dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori nella versione originaria, stando a quanto sancito dalla Corte di Cassazione con la sentenza 11868/2016.
Il dipendente che attesta falsamente la presenza rischia di risarcire anche il danno di immagine prodotto alla pubblica amministrazione: il responsabile della struttura che ha sospeso il lavoratore deve, infatti, denunciare il fatto al pubblico ministero e trasmettere gli atti alla procura regionale della Corte dei Conti entro 15 giorni dall'avvio della procedura disciplinare.
La procura, entro tre mesi dal licenziamento, può emettere nei confronti del dipendente un “invito a dedurre” in merito al risarcimento per danno di immagine alla pubblica amministrazione.
L'eventuale danno viene liquidato dal giudice in via equitativa, tenendo conto della rilevanza che ha avuto la vicenda sui mezzi di informazione (ma in misura non inferiore a sei mensilità dell'ultimo stipendio percepito dal dipendente).
La legge punisce anche i dirigenti e i responsabili dell'ufficio che, avendo conosciuto l'illecito, non si siano attivati prontamente per applicare la nuova procedura: tale omissione costituisce illecito disciplinare punibile con il licenziamento, e deve essere comunicata all'autorità giudiziaria ai fini dell'accertamento della sussistenza di eventuali reati
(articolo Il Sole 24 Ore del 30.06.2016 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'Ape cambia di nuovo. In chiaro consumi di ascensori e scale mobili. CERTIFICAZIONE ENERGETICA/In vigore nuove norme tecniche.
Nello stilare la certificazione energetica degli edifici bisognerà tener conto anche dei consumi derivanti da ascensori, scale e marciapiedi mobili.

Dal 29 giugno sono in vigore le nuove norme Uni 11300 parte 4 (aggiornamento), parte 5 e parte 6 e le Uni 10349 parte 1, 2 e 3.
Il 31.03.2016 (con entrata in vigore dopo 90 giorni dalla pubblicazione), infatti, sono state pubblicate dal Comitato termotecnico italiano (Cti) le nuove norme Uni che, oltre alla certificazione energetica, interessano il calcolo delle prestazioni termiche, ossia le Uni 11300 e delle Uni 10349 (dati climatici).
Il dlgs 92/2005 ha infatti previsto che le metodologie di calcolo delle prestazioni energetiche degli edifici devono far riferimento alle norme Uni/Ts 11300. Di conseguenza, da ieri, per procedere alla redazione dell'Ape (l'attestato di prestazione energetica) e alla verifica dei requisiti minimi degli edifici è necessario utilizzare software sottoposti a una nuova procedura di certificazione da parte del Cti per la conformità alle nuove Uni/Ts 2016.
E non è più possibile redigere i nuovi Ape con software non conformi e certificati dal Comitato.
Cosa cambia nella redazione dell'Ape. Come detto, per i certificatori energetici diventa vincolante utilizzare le nuove norme Uni per la redazione degli attestati di prestazione energetica degli edifici. Così, per esempio, diventa obbligatorio stimare anche i consumi derivanti da ascensori, scale mobili e marciapiedi mobili (per le categorie di edifici dove la stima è prevista), da calcolare secondo la Uni/Ts 11300-6.
Le nuove Uni/Ts 11300. La revisione delle parti 4, 5 e 6 della Uni/Ts 11300 segue alle norme emanate dal Cti nell'ottobre 2014. In particolare, la revisione della Uni/Ts 11300-4 riguarda le fonti rinnovabili e altri metodi di generazione.
Calcola, cioè, il fabbisogno di energia per la climatizzazione invernale e la produzione di acqua calda sanitaria, nel caso vi siano sottosistemi di generazione (impianti solari termici, generatori a combustione alimentati a biomasse, pompe di calore, impianti fotovoltaici, cogeneratori, sottostazioni di teleriscaldamento), che forniscono energia termica utile da fonti rinnovabili o con metodi di generazione diversi dalla combustione a fiamma di combustibili fossili. La Uni/Ts 11300-5, invece, fornisce metodi di calcolo per determinare in modo univoco e riproducibile il fabbisogno di energia primaria degli edifici sulla base dell'energia consegnata ed esportata e la quota di energia da fonti rinnovabili, applicando la normativa tecnica citata nei riferimenti normativi.
La Uni/Ts 11300-6 infine fornisce dati e metodi per la determinazione del fabbisogno di energia elettrica per il funzionamento di impianti destinati al sollevamento e al trasporto di persone o persone accompagnate da cose in un edificio (ascensori, scale mobili e marciapiedi mobili), sulla base delle caratteristiche dell'edificio e dell'impianto.
Le norme Uni 10349. La Uni 10349:2016 è composta da tre parti. La nuova versione è in sostanza la revisione delle parti 1, 2 e 3 dell'edizione Uni 10349 precedente, che risale al 1994. In particolare:
- la Uni 10349-1 riguarda le medie mensili per la valutazione della prestazione termo-energetica dell'edificio e metodi per ripartire l'irradianza solare nella frazione diretta e diffusa e per calcolare l'irradianza solare su di una superficie inclinata;
- la Uni/Tr 10349-2 riguarda i dati di progetto. Il rapporto tecnico fornisce, per il territorio italiano, i dati climatici convenzionali necessari per la progettazione delle prestazioni energetiche e termoigrometriche degli edifici, inclusi gli impianti tecnici per la climatizzazione estiva e invernale a essi asserviti;
- infine la Uni 10349-3 riguarda le differenze di temperatura cumulate (gradi giorno) e altri indici sintetici. La norma fornisce metodi di calcolo e prospetti di sintesi relativi a indici sintetici da utilizzarsi per la descrizione climatica del territorio (articolo ItaliaOggi del 30.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Un metodo comune per calcolare la raccolta differenziata.
Regole comuni su tutto il territorio italiano per il calcolo della percentuale di raccolta differenziata dei rifiuti urbani e assimilati. Arriva infatti un metodo unico a cui tutte le regioni dovranno attenersi nel dotarsi dei propri metodi di calcolo e di certificazione. Tra le novità, anche la possibilità di conteggiare il compostaggio domestico nella raccolta differenziata e di considerare nel calcolo tutti i rifiuti che sono conferiti nei centri di raccolta comunali. Questo potrà avvenire solo nei comuni che abbiano con proprio atto disciplinato questa attività, garantendo dunque la tracciabilità e il controllo.

È con il decreto del ministero dell'ambiente (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 24.06.2016 n. 146) che sono state introdotte, per la prima volta, le linee guida nazionali per un metodo di calcolo unico della raccolta differenziata dei rifiuti urbani e assimilati.
Il decreto, che attua l'articolo 32 del collegato ambientale (legge 28.12.2015 n. 221), permetterà un reale confronto dei risultati tra le diverse aree geografiche del territorio nazionale e tra i comuni, calibrando i tributi comunali a seconda dei livelli di raccolta raggiunti e certificati dalle regioni.
Finalità. Le linee guida forniscono indirizzi e criteri per il calcolo della percentuale di raccolta differenziata dei rifiuti urbani e assimilati raggiunta in ciascun comune, al fine di uniformare, sull'intero territorio nazionale, il metodo di calcolo della stessa.
Alla base del documento la necessità di creare un complesso di raccomandazioni tecniche, da applicarsi in modo omogeneo sull'intero territorio nazionale, per rendere confrontabili, sia a livello temporale che spaziale, i dati afferenti a diversi contesti territoriali. Per raccolta differenziata, va ricordato, si intende «la raccolta in cui un flusso di rifiuti è tenuto separatamente in base al tipo e alla natura al fine di facilitarne il trattamento specifico».
Essa rappresenta lo strumento cardine dell'economia circolare, perché raccogliendo le singole frazioni in modo separato si contribuisce alla riduzione della pericolosità dei rifiuti, si favorisce il loro trattamento specifico e la loro valorizzazione; i rifiuti così diventano risorse e, quindi, opportunità di sviluppo economico, riducendo al contempo l'impatto complessivo su salute e ambiente (articolo ItaliaOggi del 30.06.2016).

ENTI LOCALI: Partecipate senza conflitti. Struttura ad hoc per monitoraggio e controllo. Oggi la camera vota il parere sul T.u. Largo alle società consortili.
Niente conflitti di interesse sul controllo delle partecipate statali. Ferma restando la competenza del Mef, il monitoraggio dovrà essere affidato a una struttura ad hoc «onde evitare potenziali conflitti tra l'esercizio dei poteri dell'azionista e l'attività di controllo».
Le p.a. potranno continuare a detenere partecipazioni in società consortili che si affiancano a spa e srl nell'elenco delle tipologie societarie per le quali sarà ammessa la partecipazione pubblica. Inoltre, saranno svincolate dall'obbligo dell'amministratore unico (che costituisce la regola di governance delle partecipate anche se in determinati casi, da definire con dpcm, sarà possibile nominare un consiglio di amministrazione di tre o cinque membri) le società che hanno ottenuto affidamenti di appalti o concessioni tramite gara.

Sono alcune delle richieste di modifica che la commissione bilancio della camera ha inserito nel parere sul Testo unico di riforma delle partecipate che verrà votato oggi. Secondo la quinta commissione il decreto legislativo, attuativo della delega Madia (legge 124/2015), deve essere rivisto in più punti a cominciare dal limite di fatturato medio del triennio (attualmente fissato a un milione di euro) al di sotto del quale le società saranno oggetto dei piani di razionalizzazione, fusione o soppressione (anche mediante cessione o messa in liquidazione).
La commissione presieduta da Francesco Boccia chiede al governo la riduzione di tale tetto (l'Anci per esempio aveva proposto di portarlo a 500 mila euro) «eventualmente collegandola ad altri criteri maggiormente idonei a misurare l'efficienza e l'economicità della gestione, posto che in caso contrario si rischierebbe di penalizzare società virtuose». Non solo. Va ripensata la regola che rende obbligatorio il piano di razionalizzazione (ad eccezione delle società che gestiscono servizi di interesse generale) in presenza di perdite in quattro degli ultimi cinque esercizi.
Secondo Montecitorio non si dovrebbe tenere conto delle perdite inferiori al 5% del fatturato «in modo da prevedere l'attivazione del piano di riassetto nei casi in cui effettivamente sia messa a rischio l'economicità della gestione». Riscritta anche la tempistica dei piani di razionalizzazione.
La revisione straordinaria dovrà scattare entro sei mesi dall'entrata in vigore del decreto, mentre la revisione ordinaria, quella che le p.a. dovranno effettuare ogni anno passando ai raggi X l'assetto complessivo delle società di cui detengono partecipazioni dirette o indirette, inizierà a decorrere dal 2017.
Un'altra novità riguarda il blocco delle nuove assunzioni. La commissione bilancio suggerisce al governo di ridurre il blocco che impedisce alle società a controllo pubblico fino al 31.12.2018 di effettuare assunzioni a tempo indeterminato se non attingendo all'elenco del personale in eccesso che dovrà essere trasmesso all'Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro in luogo della Funzione pubblica (articolo ItaliaOggi del 30.06.2016).

PUBBLICO IMPIEGO: Stop ai furbetti del cartellino. Dal 13 luglio tempi brevi e sanzioni dure per gli assenteisti. Con la pubblicazione in G.U. del dlgs 116/2016 diventano operative le nuove misure.
Dal 13 luglio entra in vigore la stretta sui furbetti del cartellino. Con la pubblicazione del dlgs 116/2016 sulla Gazzetta Ufficiale n. 149 del 28 giugno divengono infatti operative le misure finalizzate a colpire col licenziamento i dipendenti pubblici che attestino falsamente la propria presenza in servizio.
Il dlgs 116/2016 modifica in parte le disposizioni sul licenziamento senza preavviso già presenti nel testo unico del pubblico impiego, il dlgs 165/2001. Si tratta, comunque, di una riforma molto specifica e mirata, perché l'applicazione della sospensione cautelare immediata e del procedimento disciplinare con i termini ridotti scatta laddove la frode sia accertata in flagranza, oppure mediante strumenti di sorveglianza o di registrazione degli accessi o delle presenze.
Proprio la circostanza che la norma si applica a situazioni conclamate di frode, corroborate da prove molto forti, fonda la procedura che si caratterizza per essere al tempo stesso molto dura e molto veloce.
Il dirigente della struttura presso la quale opera il dipendente assenteista, o quello posto a capo dell'ufficio per le sanzioni disciplinari, entro 48 ore dalla notizia della frode adotta un provvedimento motivato di sospensione cautelare, nel corso del quale l'incolpato potrà avere diritto solo all'assegno alimentare, meno del 50% del trattamento economico. La sospensione scatta senza necessità di sentire il dipendente e anche se si vìola il termine delle 48 ore resta efficace, ferme restando le responsabilità per il ritardo.
Il provvedimento che sospende cautelarmente il dipendente al tempo stesso contesta la violazione disciplinare, dando così allo stesso tempo anche all'avvio del procedimento disciplinare, da concludere entro i successivi 30 giorni. In questa fase, l'incolpato riacquista il diritto di essere sentito a difesa e col provvedimento di avvio del procedimento disciplinare deve essere convocato non prima dei successivi 15 giorni (è possibile un rinvio per gravi e comprovati motivi di altri 5 giorni), per poter esporre le proprie difese.
L'eventuale violazione dei termini imposti al procedimento non comporterà, comunque, la decadenza dall'azione disciplinare, né l'inefficacia del licenziamento. Insomma, il dlgs 116/2016 mira a scongiurare l'ipotesi che elementi procedurali possano impedire l'applicazione del licenziamento. Che non sarà l'unica. Infatti, l'amministrazione deve denunciare l'assenteista al pubblico e segnalare il fatto alla competente procura regionale della Corte dei conti entro 15 giorni dall'avvio del procedimento disciplinare.
La Procura della Corte dei conti, se del caso, avvia l'azione per responsabilità contabile, invitando l'interessato a dedurre per danno d'immagine entro tre mesi dalla conclusione della procedura di licenziamento. L'azione di responsabilità è esercitata, entro i 120 giorni successivi alla denuncia, senza possibilità di proroga.
Il risarcimento del danno, in caso di condanna, non potrà essere inferiore a sei mensilità dell'ultimo stipendio in godimento, oltre a interessi e spese di giustizia: complessivamente, comunque, è rimesso alla valutazione equitativa del giudice contabile, che terrà conto della rilevanza del fatto per i mezzi di informazione (articolo ItaliaOggi del 30.06.2016).

ATTI AMMINISTRATIVI: Poste manda in soffitta la data certa. In dottrina e giurisprudenza non è riconosciuto strumento analogo.
Più complicato dare «data certa» ai documenti dopo la soppressione del servizio a cura di Poste italiane spa.

Dallo scorso 1° aprile molti utenti e professionisti si sono recati presso gli sportelli postali e hanno, purtroppo, preso atto della scelta dell'ente di non fornire più un servizio, sebbene a pagamento, concernente la cosiddetta «data certa».
Sino a tale data era possibile ottenere la data certa, recandosi in un qualsiasi ufficio postale che provvedeva all'apposizione di un timbro, previa predisposizione di un documento a corpo unico (stampato e rilegato in un modo che non permettesse l'aggiunta o la rimozione di pagine), sul quale veniva apposta la dicitura «si richiede l'apposizione del timbro per la data certa», seguita dalla data e dalla firma.
Il servizio era fin troppo utile, si pensi soltanto all'utilità nei conferimenti degli incarichi agli stessi professionisti chiamati, oltre che a stabilire a priori, gli onorari con i clienti, anche a fornire la prova che tale accordo sia stabilito in data anteriore al momento rispetto al quale lo stesso professionista (legale, commercialista e quant'altro) si attiva per recuperare il proprio credito, dopo l'esecuzione della propria prestazione.
Dare «data certa» a un documento o un atto vuol dire, infatti, attribuire allo stesso prova della sua formazione in un determinato momento o, comunque, fornire la prova che la sua esistenza è anteriore rispetto a uno specifico evento o una specifica data.
Dal punto di vista normativo, e in particolare sotto il profilo civilistico, in materia di prove documentali, si deve necessariamente far riferimento agli artt. 2703 (sottoscrizione autenticata) e 2704 (data della scrittura privata nei confronti di terzi) c.c., i quali dispongono sui metodi utilizzabili per l'attribuzione della «data certa» ai documenti: atto pubblico, autenticazione di un notaio o di altro pubblico ufficiale, registrazione dell'atto presso un ufficio pubblico o di «ogni altro fatto» che stabilisca, in modo ugualmente certo, l'anteriorità della formazione del documento (comma 1, ultimo periodo, art. 2704 c.c.).
Inoltre, dottrina e giurisprudenza di legittimità, nel tempo, hanno ritenuto idonei, a rendere certa la data, l'utilizzazione del servizio presso i servizi postali con apposizione di apposito timbro direttamente sul documento, l'apposizione della «marca temporale» sui documenti informatici (si tratta di un sistema che si basa su un procedimento informatico stabilito dalla legge) e il servizio di posta elettronica certificata (Pec).
Quest'ultimo servizio fornisce al mittente la prova legale dell'invio e della consegna del documento informatico, e quindi anche della data, ma per poterlo utilizzare correttamente è necessario che entrambe le parti (emittente e ricevente) siano in possesso di un indirizzo di posta certificata; situazione sicuramente ricorrente per imprese e professionisti, ma più unico che raro tra i privati, con la conseguenza che questo procedimento non può, in linea di principio, essere applicato per ottenere la «data certa» di un verbale inviato dalla società al socio o all'amministratore, per confermare l'erogazione di un finanziamento o l'attribuzione del trattamento di fine mandato, come richiesto dall'amministrazione finanziaria.
Inoltre, la trasmissione tramite pec, in conformità del dpr 68/2005, equivale alla notificazione a mezzo posta e ha valore legale, ma solo nei casi previsti dalla legge; ai sensi del comma 3, dell'art. 48, dlgs 82/2005, la data e l'ora di trasmissione e di ricezione di un documento informatico, trasmesso a mezzo Pec, sono opponibili ai terzi.
Infine, si ricorda che sulla raccomandata con avviso di ricevimento il codice civile non si esprime ma che la giurisprudenza esclude la «data certa» al documento inviato in busta con tale metodo (articolo ItaliaOggi del 29.06.2016).

EDILIZIA PRIVATA: Ampliamenti senza bonus 65%. Il credito d'imposta finanzia solo le parti da ristrutturare. RIQUALIFICAZIONE ENERGETICA/ Nuove risposte a quesiti Enea. Richieste entro il 31/12.
Nel caso di ristrutturazione di un immobile senza demolizione e con ampliamento, la detrazione del 65% per la qualificazione energetica (da utilizzarsi fino al 31.12.2016) compete unicamente per le spese riferibili alla parte esistente, in quanto l'ampliamento viene considerato una «nuova costruzione».

Così le nuove Faq Enea in materia di detrazione del 65%, aggiornate allo scorso 24 giugno. Per usufruire della detrazione del 65% non occorre inviare alcuna comunicazione preventiva. Ma entro 90 giorni dalla data di fine lavori va inviata online tramite il sito http://finanziaria2016.enea.it/index.asp, la specifica documentazione richiesta.
La documentazione sarà costituita dall'attestato di qualificazione energetica (allegato A al «decreto edifici» dm 19.02.2007 e successive modifiche ) e la scheda descrittiva degli interventi realizzati (allegato E) o in alcuni casi, una documentazione semplificata, costituita dal solo allegato E (nel caso di sostituzione di impianti termici con caldaie a condensazione, pompe di calore ad alta efficienza o impianti geotermici a bassa entalpia o di sostituzione di scaldacqua di tipo tradizionale con scaldacqua a pompa di calore) o dal solo allegato F (nel caso di sostituzione di infissi in singole unità immobiliari o di installazione di pannelli solari o di schermature solari).
Effettuata la trasmissione, in automatico ritorna al mittente da Enea una ricevuta informatica con il Cpid (codice personale identificativo), valida a tutti gli effetti come prova dell'avvenuto invio. Non sono previsti altri riscontri da parte di Enea, né in caso di invio corretto, né in caso di invio incompleto, errato o non conforme.
Non vanno inviate asseverazioni, relazioni tecniche, fatture, copia di bonifici, piantine, documentazione varia, ecc. che invece deve essere conservata a cura dell'utente ed esibita in caso di eventuali controlli da parte dell'Agenzia delle entrate (articolo ItaliaOggi del 28.06.2016).

ENTI LOCALISulla riduzione delle spese il governo ha messo a tacere la Corte conti.
Messa a tacere, da parte del governo, la sezione autonomie della Corte dei conti sull'obbligo della riduzione progressiva del rapporto tra spese di personale e spesa corrente, appare oggettivamente inutile insistere ulteriormente sull'applicazione come obbligo e non come principio delle disposizioni di contenimento della spesa di personale contenute nella legge finanziaria per il 2007.

Il dl 113/2016, come è noto, con l'articolo 16 ha abolito l'articolo 1, comma 557, lettera a), della legge 296/2006, ai sensi del quale si prevedeva la riduzione dell'incidenza percentuale delle spese di personale rispetto al complesso delle spese correnti, attraverso parziale reintegrazione dei cessati e contenimento della spesa per il lavoro flessibile.
Questa previsione era da considerare certamente abolita implicitamente dall'articolo 3, comma 5-bis, del dl 90/2014, convertito in legge 114/2014, che ha introdotto nella medesima legge 296/2006 il comma 557-quater, ai sensi del quale «ai fini dell'applicazione del comma 557, a decorrere dall'anno 2014 gli enti assicurano, nell'ambito della programmazione triennale dei fabbisogni di personale, il contenimento delle spese di personale con riferimento al valore medio del triennio precedente alla data di entrata in vigore della presente disposizione».
È del tutto evidente che una volta fissato il valore medio del triennio 2011-2013 il tetto massimo della spesa di personale, la necessità di ridurre annualmente l'incidenza della spesa di personale rispetto a quella corrente era incompatibile. Tuttavia, la Corte dei conti, sezione autonomie ha insistito con questa interpretazione, rigoristica più che rigorosa, inducendo il governo a tagliare corto con l'abolizione della lettera a) del comma 556; scelta che si pone in evidente dissenso dal parere della Corte dei conti, mitigato dalla scelta di non adottare una maggiormente opportuna norma di interpretazione autentica, che avrebbe rivelato ancor meglio la non con divisibilità della tesi della sezione autonomie, in particolare con la delibera 16/2016.
Secondo alcuni primi osservatori, vi sarebbe tuttavia la possibilità di estendere la visione della corte dei conti anche alle lettere b) e c) dell'articolo 1, comma 557, della legge 296/2006.
Dette disposizioni indicano agli enti locali di giungere all'obiettivo della riduzione della spesa del personale mediante la razionalizzazione e snellimento delle strutture burocratico-amministrative, (anche attraverso accorpamenti di uffici con l'obiettivo di ridurre l'incidenza percentuale delle posizioni dirigenziali in organico); nonché attraverso il contenimento delle dinamiche di crescita della contrattazione integrativa, tenuto anche conto delle corrispondenti disposizioni dettate per le amministrazioni statali. Considerare, comunque, cogenti queste previsioni non appare corretto.
In primo luogo, perché è lo stesso articolo 557 a qualificarle come «principi», laddove, nel suo primo capoverso dispone che si tratti di «azioni da modulare nell'ambito della propria autonomia e rivolte, in termini di principio». Questo significa che gli enti locali non hanno un obbligo puntuale, ma il potere-dovere di operare per ridurre la spesa di personale in via autonoma, quando ciò si riveli necessario per mantenersi entro il tetto massimo previsto dal comma 557-quater.
In ogni caso, le disposizioni da considerare sicuramente di principio delle lettere b) e c) del comma 557 della legge 296/2006 (come di principio era anche la lettera a), nonostante il diverso non condivisibile parere della sezione autonomie), attualmente va preso atto siano inoperanti. Infatti, la riduzione della spesa per strutture amministrative e dirigenza è imposta sia dal dl 95/2012, convertito in legge 135/2012, sia, più di recente, dalla legge 208/2015.
Le dinamiche della crescita della spesa per la contrattazione collettiva sono state bloccate direttamente dal parlamento e dal governo col susseguirsi, dopo l'articolo 9, commi 1, 2 e 2-bis, del dl 78/2010 delle continue proroghe al blocco della contrattazione che hanno portato alla nota sentenza della Consulta 178/2015. Solo quando simili disposizioni verranno meno l'articolo 1, comma 557, lettere b) e c), riprenderà effetto (articolo ItaliaOggi del 28.06.2016).

ATTI AMMINISTRATIVI: La nuova trasparenza parte al rallentatore: sei mesi per l’accesso. In vigore solo la cancellazione di oneri informativi Differito l’obbligo di esibire gli atti non pubblicati.
Partenza differita per il Foia italiano: il decreto con il nuovo F reedom of information act è entrato formalmente in vigore la scorsa settimana, il 23 giugno, ma di fatto sarà efficace solo all’antivigilia di Natale, il 23 dicembre prossimo.
Al contrario, è già pienamente operativa l’opera di sfoltimento e di semplificazione dei tanti oneri di pubblicazione online che gravavano sulle amministrazioni pubbliche dal 2013.

Formalmente, appunto, il decreto è operativo dal 23 giugno, cioè 15 giorni dopo la sua pubblicazione sulla «Gazzetta ufficiale», ma la sua vera partenza è scritta nelle disposizioni transitorie.
L’articolo 42 concede ad amministrazioni pubbliche, gestori di servizi pubblici e società partecipate o controllate dal pubblico un massimo di sei mesi -fino al 23 dicembre prossimo, appunto- per adeguarsi alle modifiche alle vecchie regole sulla trasparenza (Dlgs 33/2013) introdotte ora.
In pratica, quindi, tutte le novità, e dunque i nuovi obblighi di pubblicazione sui siti come, per esempio, i compensi complessivi dei dirigenti pubblici o le spese delle Asl, così come il diritto di accesso «allargato» scatteranno solo da Natale.
Ma c’è, al contrario, un effetto immediato altrettanto importante legato alle numerose disposizioni cancellate con un colpo di spugna. Il provvedimento, infatti, abroga interi articoli e vari commi del decreto 33 e lo fa con effetto immediato, a decorrere dall’entrata in vigore. Il risultato? Dal 23 giugno un pacchetto sostanzioso di informazioni legate alla vita e all’organizzazione delle amministrazioni pubbliche e dei gestori dei servizi pubblici non deve più essere pubblicato. Con un paradossale effetto -solo per questi primi sei mesi- di indebolimento della trasparenza pubblica.
Facciamo qualche esempio concreto (si veda anche la scheda a fianco). Per tutti gli appalti pubblici di lavori, servizi e forniture sono scomparsi indicatori importanti quali i tempi di realizzazione e i costi unitari previsti. Proprio i due fattori che l’Anticorruzione tiene sotto controllo per rilevare anomalie. Via anche l’obbligo di rendere noti i controlli che ogni amministrazione può fare sulle imprese e di pubblicare lo scadenzario dei nuovi oneri man mano che entrano in vigore. Due punti, questi, su cui anche il Consiglio di Stato nel proprio parere aveva sollevato qualche perplessità.
Nell’insieme la riforma sfoltisce un carico di oneri informativi apparso subito difficile da sostenere per le Pa. E infatti in molti casi l’adeguamento era solo di facciata con le caselle delle singole voci presenti sui siti, ma vuote di fatto al primo click. Proprio molti degli obblighi di trasparenza ora cancellati erano rimasti in realtà sulla carta. È il caso, tra gli altri, dello scadenzario o dei documenti preliminari di pianificazione, entrambi difficilmente rintracciabili sui siti pubblici.
Ai cittadini, poi, resta comunque l’ultima spiaggia dell’accesso civico che, peraltro, nella sua nuova veste non conosce limiti e quindi “copre” anche le informazioni cancellate o quelle da non pubblicare.
In pratica, chiunque anche senza dover dimostrare di avere interessi specifici e posizioni qualificate potrà richiedere all’amministrazione qualsiasi dato, compresi, appunto, quelli non più presenti online. Ma certo ognuno dovrà attivarsi con una richiesta individuale, attendere la risposta (da 30 a 60 giorni) e fronteggiare eventuali dinieghi della Pa, perché in alcuni casi specifici i documenti restano inaccessibili. Senza contare il leggero sfasamento iniziale per cui, mentre questi obblighi informativi sono già scomparsi, il nuovo accesso civico “pieno” partirà tra sei mesi.
La vera partenza del Foia, quindi, è rimandata a Natale. Dal 23 dicembre online si potranno rintracciare nuove informazioni. Tra le più “pesanti” ci sono quelle su retribuzioni e altri emolumenti dei dirigenti pubblici: saranno tenuti a comunicarli e a pubblicare tutti i compensi ricevuti da enti pubblici per controllare che i dirigenti restino davvero al di sotto del tetto dei 240mila euro previsto nel settore pubblico. Un onere sanzionato ad hoc con multe che vanno da 50 a 10mila euro.
In realtà la riforma sarà davvero completa tra un anno, a giugno 2017. Entro quel termine si dovranno aprire le banche dati pubbliche (da quelle sul personale a quelle sugli appalti e sui costi della politica) gestite da Mef, Funzione pubblica e Corte dei conti.
Da quel momento gli enti pubblicheranno solo il link alle informazioni inviate a queste banche dati
(articolo Il Sole 24 Ore del 27.06.2016 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATACantieri e manutenzioni alla prova del nuovo Sistri. Il Dm 78 specifica i soggetti obbligati Errori «gestionali» ora non sanzionati.
Rifiuti. Disegnate le linee guida da seguire per la futura revisione delle procedure.

Il nuovo Sistema elettronico per la tracciabilità dei rifiuti (Sistri) delinea alcuni cambiamenti anche per cantieri e attività di manutenzione. Se infatti, dal punto di vista dei rifiuti pericolosi, il regolamento introdotto dal Dm 78 del 30.03.2016 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale 120 del 14 maggio) conferma sostanzialmente tutte le regole applicate fino a oggi, tratteggia allo stesso tempo importanti aperture verso la semplificazione e lo snellimento procedurale, prevedendo l’emanazione di ulteriori decreti e avviando anche un restyling del perimetro entro cui dovrà essere concepita l’infrastruttura telematica.
A partire dalla sua entrata in vigore, lo scorso 8 giugno, il nuovo Testo unico Sistri ha quindi abrogato il precedente Dm 52/2011. Nello stesso giorno sono state pubblicate sul portale informativo (www.sistri.it) le versioni aggiornate del «Manuale operativo Sistri» e delle «Procedure di iscrizione e gestione del fascicolo azienda».
Iscrizioni e cantieri
Per quel che riguarda i soggetti obbligati all’iscrizione, l’articolo 4 del Dm 78/2016 fa esplicito richiamo a coloro che sono tenuti ad aderire al Sistri così come indicati dal Dlgs 152/2006 (articolo 188-ter) e dal Dm 24.04.2014.
La norma fornisce tuttavia un’ulteriore precisazione, chiarendo che i produttori iniziali –in quanto tali, tenuti ad aderire al Sistri– sono obbligati a osservare il sistema anche in qualità di trasportatori iscritti all’albo nazionale dei gestori ambientali in categoria 2-bis o 5: vale a dire i soggetti che trasportano i rifiuti pericolosi da loro stessi prodotti.
Circa i cantieri obbligati al Sistri (quelli con più di dieci dipendenti e che producono rifiuti pericolosi), l’articolo 10, comma 6, del decreto conferma che, se l’attività lavorativa non si protrae oltre i sei mesi e non si dispone di tecnologie adeguate per l’accesso al Sistri, le schede del sistema sono compilate dal delegato della sede legale o dell’unità locale dell’impresa. Inoltre, nel caso di un “cantiere complesso”, che comporta cioè l’intervento di più soggetti, l’attività è calcolata per ciascuno di essi in relazione al contratto del quale è titolare.
Attività di manutenzione
L’articolo 13 del Dm 78/2016 conferma inoltre che in caso di rifiuti prodotti da attività di manutenzione o da altra attività svolta fuori dalla sede dell’unità locale, la “scheda Sistri - area registro cronologico” è compilata «dal delegato della sede legale dell’ente o dell’impresa, o dal delegato dell’unità locale che gestisce l’attività».
In ordine alla manutenzione delle infrastrutture, effettuata direttamente dal loro gestore oppure tramite terzi, e prevista dall’articolo 230, comma 1, del Codice ambientale (Dlgs 152/2006), il nuovo decreto ribadisce che –se dall’attività derivano rifiuti pericolosi– per i “materiali tolti d’opera” sui quali deve essere effettuata la valutazione tecnica della riutilizzabilità, lo spostamento dei rifiuti effettuato dal manutentore (dal luogo di effettiva produzione fino alla sede legale o dell’unità locale dell’ente o impresa) è accompagnato da una copia cartacea della “scheda Sistri - area movimentazione”.
Questa scheda dev’essere scaricata dal portale Sistri, accedendo all’area autenticata, e quindi compilata e sottoscritta dal soggetto che ha effettuato la manutenzione.
Operatività
Sotto il profilo operativo, per il momento non cambia nulla. I soggetti obbligati all’iscrizione al Sistri e al pagamento dei relativi contributi (compresi i cantieri che rientrano nei parametri dei produttori di rifiuti pericolosi e con forza lavoro superiore a dieci dipendenti) continuano infatti a operare esattamente come prima, almeno fino a quando sarà ridefinita l’infrastruttura telematica secondo le linee guida indicate dall’articolo 23 del Dm 78.
Si continua dunque ancora a usare registri e formulari cartacei, affiancandoli alla strumentazione Sistri (chiavette usb, black box, schede, chiavi di accesso e collegamenti online).
Mentre gli errori non sono per adesso perseguibili, perché l’articolo 11, comma 3-bis, del Dl 101/2013 (convertito dalla legge 125/2013 e prorogato dal Dl 210/2015) dispone la moratoria delle sanzioni “gestionali” fino al 31.12.2016. Ed è tale rinvio a indurre impropriamente a parlare della cosiddetta “proroga Sistri”.
 
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Come funziona il coordinamento tra iscritti (e no). Il raccordo. Registri cartacei da compilare comunque.
La disciplina del coordinamento tra soggetti iscritti e non iscritti al Sistri, prevista all’articolo 11 del Dm 78/2016, richiede un’attenzione particolare.
Non tutta la platea dei produttori e dei gestori di rifiuti è infatti obbligata ad aderire al sistema elettronico di tracciabilità. I produttori di scarti non pericolosi, per esempio, ne sono esclusi; e tra coloro che producono quelli pericolosi, rientrano solo i soggetti con più di dieci dipendenti.
Di fatto, accade tuttavia che i trasportatori –quando gestiscono rifiuti di diverso tipo– pur essendo soggetti al Sistri solo per i materiali pericolosi, spesso sottopongono alla procedura telematica anche quelli che non lo sono, per evidenti ragioni di economia di scala. Questo, ovviamente, non li esime dal dover continuare a compilare registri e formulari, le cui relative violazioni vengono sanzionate. A differenza delle violazioni “gestionali” del Sistri, che non saranno perseguite fino al 31.12.2016.
In questo quadro composto da situazioni asimmetriche e problemi organizzativi, succede frequentemente che soggetti non obbligati al Sistri si trovano a interfacciarsi con quanti, invece, devono sottostare al sistema. Su questo punto, il nuovo decreto ministeriale dispone che i produttori non obbligati devono comunicare i propri dati (necessari per la compilazione della “scheda Sistri - area movimentazione”) al delegato dell’impresa di trasporto, il quale –inserendo le informazioni ricevute– compila anche la sezione relativa ai dati del produttore del rifiuto.
Dopo aver trattato con il trasportatore, il produttore deve interfacciarsi con l’impianto di destinazione dei rifiuti. A tal proposito, il Dm 78/2016 stabilisce che il gestore dell’impianto di recupero o smaltimento deve stampare e trasmettere al produttore la copia della “scheda Sistri - area movimentazione” completa. Questo passaggio è previsto proprio per attestare che il produttore abbia assolto le proprie responsabilità (in analogia con quanto avviene con la quarta copia del formulario).
Se il trasportatore non iscritto a Sistri conferisce invece rifiuti speciali pericolosi che ha prodotto lui stesso, l’impianto finale che li riceve deve riportare il codice del formulario nella propria registrazione cronologica. Così anche nel caso in cui il trasportatore non iscritto a Sistri conferisca rifiuti speciali non pericolosi, per i quali è previsto l’utilizzo del formulario di trasporto.
In tale ipotesi, infatti, se l’impianto che riceve il rifiuto ha aderito volontariamente al Sistri per quella tipologia di rifiuti, provvede a riportare il codice del formulario nella propria registrazione cronologica. L’articolo 11, comma 3, del decreto ricorda infatti che i trasporti di rifiuti effettuati da soggetti non iscritti al Sistri devono essere accompagnati dal formulario di trasporto, secondo quanto previsto dall’articolo 193, del Codice ambientale (Dlgs 152/2006)
(articolo Il Sole 24 Ore del 27.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - VARISemafori, sì del prefetto per i controlli automatici.
Serve l'autorizzazione del prefetto per attivare controlli automatici delle infrazioni semaforiche fuori dal centro abitato. Mancando però la necessaria direttiva ministeriale resta tutto fermo al palo. Almeno per gli impianti nuovi.

Lo ha chiarito il Ministero dei trasporti con il parere 13.05.2016 n. 2737 di prot..
Il dl 151/2003, convertito nella legge 214/2003, ha introdotto nel corpo del codice stradale, all'art. 201, rilevanti modifiche che hanno di fatto legittimato l'avvento dei documentari elettronici di infrazione semaforica. Successivamente la legge 120/2010 ha ulteriormente confermato questa scelta normativa evidenziando la necessità che gli strumenti siano specificamente omologati ovvero approvati per il funzionamento in modo completamente automatico e gestiti direttamente dagli organi di polizia stradale.
Lo stabilisce a chiare lettere il comma 1-quater dell'art. 201 cds. La riforma ha specificato meglio sia la necessità di una omologazione dedicata all'impiego automatico dei misuratori sia la presenza costante e prioritaria degli organi di polizia nelle fasi dell'accertamento. Ma poi il ministero non ha emanato la direttiva necessaria ai prefetti per autorizzare questi impianti.
Specifica infatti il parere centrale che «le direttive previste dal comma 1-quater dell'art. 201 del codice della strada non sono state ancora emanate, quindi, allo stato, non è possibile operare accertamenti automatici delle violazioni delle norme elencate sotto alla lettera g-bis), fuori dai centri abitati», ovvero anche il controllo delle infrazioni semaforiche.
Testualmente, infatti, anche gli strumenti per il controllo dei semafori devono essere gestiti direttamente dagli organi di polizia stradale di cui all'articolo 12, comma 1, e fuori dei centri abitati possono essere installati e utilizzati solo sui tratti di strada individuati dai prefetti, secondo le direttive fornite dal ministero dell'interno.
Quindi al momento non possono essere certamente installati impianti nuovi mentre qualche perplessità può intervenire in riferimento alle installazioni attivate per il controllo degli incroci, fuori centro abitato, prima delle legge 120/2010 (articolo ItaliaOggi Sette del 27.06.2016).

ENTI LOCALI - VARI: Polizia e carabinieri fuori legge con mezze luci.
I soli lampeggianti blu accesi sui mezzi di soccorso non consentono di derogare alle norme stradali. Serve anche il dispositivo acustico di emergenza attivo. E in ogni caso l'impiego della luce blu da crociera non è regolato dal codice.

Lo ha chiarito il Ministero dei trasporti con il parere 22.03.2016 n. 7119 di prot..
Il dl 172/2008 ha modificato l'art. 177 del codice stradale individuando i veicoli che possono essere dotati dei dispositivi di allarme con luce blu. La materia, di esclusiva competenza statale, ammette oggi tra i veicoli abilitati ai servizi di emergenza anche quelli attrezzati per attività antincendio e di protezione civile.
La riforma ha però demandato a un decreto ad hoc l'individuazione dei conducenti abilitati all'impiego di sirene e lampeggianti. Oltre ai veicoli d'istituto del dipartimento della protezione civile, specifica quindi il decreto datato 23.10.2009, possono usare questi dispositivi anche gli altri mezzi adibiti al medesimo servizio di proprietà di regioni, enti locali e organizzazioni di volontariato in generale.
Ma per quanto riguarda questi utenti non professionisti il provvedimento specifica che dovrà trattarsi di vera emergenza e il servizio dovrà essere appositamente richiesto dall'autorità preposta e documentato, anche con autocertificazione del conducente, da esibire in caso di controllo di polizia stradale, per evitare abusi. Per quanto riguarda il diffuso impiego della sola luce blu sulle strade, prosegue la nota, «pur non essendo aprioristicamente escluso dal codice della strada, non consente, comunque, di derogare ad alcuna delle norme di comportamento e di sicurezza della circolazione stradale». In buona sostanza non basta attivare i dispositivi luminosi per decretare l'emergenza.
Serve anche la sirena accesa. A maggior ragione non è possibile utilizzare i dispositivi a luce blu in modalità da crociera, conclude il ministero. Anche se il Viminale ha specificamente caldeggiato le mezze luci blu per evidenziare la presenza degli organi di polizia sulle strade la scelta non appare regolare. Ma per le multe occorrerà chiedere lumi al ministero dell'interno, conclude il Mit (articolo ItaliaOggi Sette del 27.06.2016).

PUBBLICO IMPIEGODirigenti p.a., riforma nel caos. L'analisi.
Le prime bozze della riforma della dirigenza pubblica confermano l'impressione di confusione e caos data dall'articolo 11 della legge delega 124/2015.
Particolarmente delicata è l'abbozzo di disciplina riguardante i dirigenti del ruolo privi di incarico. Si è appreso da qualche tempo che i dirigenti entreranno in un limbo: per 6 anni riceveranno il solo trattamento economico fondamentale, decurtato del 10% di anno in anno, finché non si ricollochino o non si risolva il rapporto di lavoro.
È palese la criticità di questo sistema, perché dà per scontato e corretta l'ipotesi che dirigenti di ruolo, assunti mediante procedure concorsuali finalizzate ad accertarne professionalità e competenza, possano non disporre delle medesime professionalità e competenza e, quindi, essere estromessi dal ruolo dei dirigenti, pur in assenza, per altro, di una valutazione negativa.
Un altro paradosso discende proprio dalla valutazione. Infatti, le bozze prevedono, nella sostanza, il medesimo trattamento sia per i dirigenti che si ritrovino senza incarico per il mero fatto della scadenza di quello precedentemente svolto, sia per i dirigenti rimasti senza incarico a seguito di valutazione negativa. Anche questi, infatti, andranno a disposizione dei ruoli per 6 anni, con possibilità comunque di partecipare alle procedure per nuovi incarichi. L'unica differenza è che al termine dei 6 anni, i dirigenti senza incarico per effetto di valutazione negativa non potranno chiedere il demansionamento a funzionari, consentito invece per gli altri dirigenti.
Ma, anche il demansionamento pone problemi operativi. Infatti, anche laddove il dirigente alle soglie del licenziamento scegliesse di essere reinquadrato come funzionario per non perdere il lavoro, non si sa come collocarlo, perché non dispone di un datore di lavoro. Dunque, alla scelta del demansionamento seguirebbe un complesso sistema finalizzato a dare priorità alle assunzioni di funzionari ai dirigenti demansionati.
Di fatto, quindi, la disciplina dei ruoli della dirigenza finirebbe per incidere sull'autonomia di scelta delle amministrazioni in merito alle assunzioni. In ogni caso, il demansionamento dei dirigenti non garantirebbe per nulla la loro ricollocazione. E si pone in contrasto con la disciplina del demansionamento già vigente per i dipendenti pubblici, ai sensi della quale l'accettazione di attività lavorative in qualifiche inferiori è solo temporanea, e non preclude la possibilità di partecipare a procedure di mobilità riferite alla categoria di inquadramento precedentemente posseduta.
Altro tema delicato è la partecipazione alle procedure di selezione per il conferimento degli incarichi dirigenziali. Lo schema del decreto legislativo, infatti, modifica in parte l'articolo 19, comma 6, del dlgs 165/2001 e consente alle amministrazioni di incaricare dirigenti esterni senza che sia più necessario verificare l'assenza di professionalità interne. Si dà, quindi, corso ad una liberalizzazione assoluta della possibilità di avvalersi di dirigenti esterni ai ruoli, i quali per assurdo potranno partecipare, come i dirigenti di ruolo e in concorrenza con essi alle procedure di «interpello».
Il che porta necessariamente a chiedersi, da un lato, a che servano ruoli unici se sono aperti a soggetti non appartenenti ai ruoli le procedure di incarico, e, dall'altro, come si possa conciliare la previsione di dirigenti che per 6 anni percepiscano stipendi, sia pure ridotti, a carico delle finanze pubbliche per non fare nulla, senza nemmeno la garanzia di avere priorità, nelle procedure selettive, rispetto a soggetti estranei ai ruoli (articolo ItaliaOggi del 25.06.2016).

EDILIZIA PRIVATA: Finanziamenti per demolire edifici abusivi La priorità va al rischio idrogeologico.
Stop alla costruzione di edifici abusivi. Con un fondo da 10 milioni di euro destinati ai comuni per la demolizione degli immobili abusivi, con priorità per quelli realizzati nelle aree a rischio idrogeologico.

È questa la finalità del dpcm ambiente sul dissesto idrogeologico attuativo del collegato ambientale (legge 28.12.2015, n. 221 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale 18.01.2016, n. 13) che ha ricevuto lo scorso 22 giugno l'approvazione all'unanimità della Conferenza stato-città e autonomie locali.
Il ministero dell'ambiente Gianluca Galletti ha annunciato che sarò pronto a raddoppiarne l'importo di 10 milioni di euro in caso di esaurimento delle risorse.
Richiesta finanziamento. Le richieste di finanziamento per interventi di rischio idrogeologico dovranno essere inserite nella piattaforma del repertorio nazionale degli interventi per la difesa del suolo a cura delle regioni e province autonome o dei soggetti dalle stesse accreditati. Per ogni istanza andranno fornite, secondo il principio della massima completezza e rigorosità, i dati e le informazioni tecnico-amministrative richieste dalle forme di caricamento (cosiddetta scheda istruttoria).
La scheda istruttoria presenta una parte generale comune per tutte le tipologie di intervento e sezioni specifiche in relazione alla necessità di acquisire informazioni peculiari alla tipologia di dissesto (alluvione, frana, erosione costiera, valanga e tipologia mista).
La compilazione della scheda istruttoria sarà considerata come un'attività preistruttoria condotta dalla regione richiedente. I dati richiesti di carattere amministrativo, geografico, finanziario e tecnico saranno considerati nelle successive fasi di valutazione.
Categoria e valutazione interventi. Gli interventi che potranno accedere ai 10 mln di euro di finanziamento saranno distinti in tre categorie a seconda che abbiano a oggetto, «interventi a efficacia autonoma», «interventi complessi di vasta area» e «interventi di mitigazione del rischio idrogeologico e di tutela e recupero degli ecosistemi e della biodiversità». La categoria dovrà essere inserita dalla regione all'atto dell'inserimento dei dati nella «scheda per proposta di interventi».
La procedura di valutazione degli interventi per i quali sarà richiesto un finanziamento sarà strutturato in tre fasi distinte: accertamento dell'ammissibilità del finanziamento, elencazione delle richieste ammissibili per ordine di priorità e verifica cantierabilità e cronoprogramma.
La prima fase quella «dell'accertamento dell'ammissibilità del finanziamento» verterà sull'accertamento della completezza dei dati inseriti nel repertorio nazionale degli interventi per la difesa del suolo, sulla puntualità e precisione dei dati e sul rispetto del fine primario quello del rispetto del suolo.
La seconda fase dell'istruttoria avrà a oggetto la classificazione su base regionale, in ordine alle priorità delle sole proposte ritenute ammissibili. Tale fase verrà svolta dal ministero dell'ambiente. Una volta definita la graduatoria di finanziamento su base regionale, si passerà alla fase tre del procedimento: la valutazione dei cronoprogrammi degli interventi ammissibili e della cantierabilità dell'intervento (articolo ItaliaOggi del 24.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - VARI: Le multe per mancanza di Rc auto può farle solo l'agente.
Non sono ancora omologati gli strumenti per accertare automaticamente la mancata copertura assicurativa e la revisione dei veicoli in transito. Per attivare questo tipo di controlli serve dunque la presenza dell'agente che potrà fermare i mezzi o documentare le cause previste dal codice di mancata contestazione immediata.

Lo ha chiarito il Ministero dei trasporti con il parere 03.06.2016 n. 3311 di prot..
La possibilità di sanzionare in modalità completamente automatica, senza la presenza dei vigili, la mancata revisione periodica e la mancanza della copertura assicurativa dei veicoli deriva da una serie di recenti modifiche introdotte nel codice della strada, in ultimo con l'art. 1/597 della legge 208/2015. Ma per essere veramente operativi servono dispositivi omologati, specifica il ministero, che non esistono ancora sul mercato.
Dunque a parere dell'organo tecnico centrale al momento non si possono attivare controlli automatici della mancata revisione periodica e neppure della mancata copertura assicurativa perché gli strumenti elettronici non sono disponibili. E non è neanche possibile fare partire degli inviti automatici per fornire informazioni agli organi di polizia stradale ai sensi dell'art. 180 del codice della strada, prosegue la nota.
Sarà dunque opportuno utilizzare eventuali dispositivi già funzionanti sulle strade, come per esempio i varchi di lettura targhe, solo con la presenza costante dell'agente in divisa che potrà notificare immediatamente l'infrazione o documentare adeguatamente la causa di mancata contestazione immediata. Per esempio, perché l'operatore era impegnato in altro controllo o lo strumento elettronico ha dato un riscontro tecnico leggermente differenziato nel tempo impedendo il fermo immediato del trasgressore.
In pratica la burocrazia ha azzerato la novella e per attivare controlli in automatico ci vorranno anni e risorse. Attenzione infine alle disposizioni del codice privacy. La disciplina elaborata dal garante impone l'obbligo di rendere comunque noto agli utenti l'impiego dei dispositivi elettronici di controllo del traffico veicolare, conclude il parere centrale (articolo ItaliaOggi del 24.06.2016).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPiccoli Comuni con unioni «flessibili». I sindaci chiedono un collegato alla manovra per riformare le gestioni.
Enti locali. Apertura del governo sulle scelte per superare lo stallo creato dagli obblighi sospesi di associazione.

Un collegato alla legge di bilancio per rivedere le regole di gestione degli otre 7mila Comuni con meno di 5mila abitanti, «sospese» fino al 31 dicembre dalla proroga che ha congelato gli obblighi di gestione associata tentati da anni ma senza successo.
La proposta è arrivata ieri dal presidente del consiglio nazionale dell’Anci, Enzo Bianco, con l’obiettivo di sbloccare un empasse che senza un’accelerazione netta rischia di non trovare soluzione. L’associazione dei Comuni ha elaborato anche i contenuti della riforma, che secondo i sindaci dovrebbe imporre la gestione associata di tre funzioni fondamentali all’interno di bacini omogenei che gli stessi amministratori locali dovrebbero individuare sul territorio, con un potere sostitutivo della Regione che scatterebbe quando gli enti non «rispondono» in tempo.
A condannare all’impotenza le regole scritte dal 2010 nel tentativo di ridurre la spesa pubblica è stata del resto la griglia rigida, uguale per tutti, che hanno tentato di imporre: l’obbligo, scritto nel 2010 e poi incappato in una lunga catena di ritocchi e rinvii, imponeva ai Comuni fino a 5mila abitanti (3mila in montagna) di gestire in forma associata tutte le funzioni fondamentali, per bacini di almeno 10mila abitanti.
Lo stesso governo è convinto che quella strada sia sbagliata: «Non è possibile tenere conto solo di dati demografici -ha sottolineato il ministro degli Affari regionali Enrico Costa intervenuto ieri al seminario Anci di presentazione del disegno di legge- ma bisogna considerare il quadro socio-economico dei territori e arriveremo presto a una sintesi con la proposta».
«La razionalizzazione -gli ha fatto eco il sottosegretario all’Interno Gianpiero Bocci- non è un tema di spending, ma serve a ottimizzare la gestione e rilanciare gli investimenti». L’obiettivo dei sindaci, ha spiegato del resto il vicepresidente Anci Matteo Ricci, sindaco di Pesaro, «non è di difendere l’esistente, ma di rilanciare una proposta utile al Paese e urgente in questa fase di svuotamento delle Province».
In fatto di piccoli Comuni, il titolare degli Affari regionali ha rilanciato l’ipotesi di rivedere il meccanismo del pareggio di bilancio quando gli abitanti sono meno di mille, in particolare per l’utilizzo degli avanzi di amministrazione, perché «ingessa troppo la gestione». Il punto è delicato, perché regole uguali per tutti dalle grandi città ai piccoli Comuni sollevano più di un problema applicativo, ma il pareggio è l’architrave per la tenuta della finanza locale e quindi le revisioni devono essere mirate e richiedono coperture.
Per ora, il pareggio di bilancio «perde» le Province e, ma solo temporaneamente, le Regioni. La ragione è nel pacchetto di misure scritte nel decreto enti locali, il cui testo è in fase di limatura e potrebbe arrivare oggi in «Gazzetta Ufficiale», per tamponare l’emergenza degli enti di area vasta stoppando le sanzioni per Province e Città metropolitane che hanno sforato il Patto di stabilità 2015.
Per Province, Città e Regioni salta anche l’obbligo di rispettare il pareggio a preventivo: nel caso delle Regioni, il motivo è tecnico, legato ai ritardi nei meccanismi dei trasferimenti statali (ora accelerati dal decreto) ed è destinato a risolversi nel corso dell’anno: per gli enti di area vasta, invece, è ancora da risolvere il nodo della distribuzione dei tagli 2016, che ieri è stato ancora rinviato dalla Conferenza Stato-Città
(articolo Il Sole 24 Ore del 23.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - VARI: Le multe per la revisione le fa solo la pattuglia.
Non sono ancora omologati gli strumenti per accertare automaticamente la mancata copertura assicurativa e la revisione dei veicoli in transito. Per attivare questo tipo di controlli serve dunque la presenza dell'agente che potrà fermare i mezzi o documentare le cause previste dal codice di mancata contestazione immediata.

Lo ha chiarito il Ministero dei trasporti con il parere 03.06.2016 n. 3311 di prot..
La possibilità di sanzionare in modalità completamente automatica, senza la presenza dei vigili, la mancata revisione periodica e la mancanza della copertura assicurativa dei veicoli deriva da una serie di recenti modifiche introdotte nel codice della strada, in ultimo con l'art. 1/597° della legge 208/2015.
Ma per essere veramente operativi servono dispositivi omologati, specifica il ministero, che non esistono ancora sul mercato. Dunque a parere dell'organo tecnico centrale al momento non si possono attivare controlli automatici della mancata revisione periodica e neppure della mancata copertura assicurativa perché gli strumenti elettronici non sono disponibili.
E non è neanche possibile fare partire degli inviti automatici per fornire informazioni agli organi di polizia stradale ai sensi dell'art. 180 del Codice della strada, prosegue la nota. Sarà dunque opportuno utilizzare eventuali dispositivi già funzionanti sulle strade, come per esempio i varchi di lettura targhe, solo con la presenza costante dell'agente in divisa che potrà notificare immediatamente l'infrazione o documentare adeguatamente la causa di mancata contestazione immediata.
Per esempio perché l'operatore era impegnato in altro controllo o lo strumento elettronico ha dato un riscontro tecnico leggermente differenziato nel tempo impedendo il fermo immediato del trasgressore. In pratica la burocrazia ha azzerato la novella e per attivare controlli in automatico ci vorranno anni e risorse. Attenzione infine alle disposizioni del codice privacy.
La disciplina elaborata dal garante impone l'obbligo di rendere comunque noto agli utenti l'impiego dei dispositivi elettronici di controllo del traffico veicolare, conclude il parere centrale (articolo ItaliaOggi del 23.06.2016).

VARI: Guida con patente sospesa sanzioni di 164 euro e revoca.
Il destinatario di un provvedimento di revisione della patente rischia grosso se circola con la licenza sospesa di validità. Soprattutto se si tratta di una misura di carattere sanzionatorio derivante per esempio dall'accertamento della guida alterata.

Lo ha chiarito il Ministero dell'interno con la circolare 01.06.2016 n. 300/a/3953/16/109/55 di prot..
La circolazione con patente sospesa è densa di incognite anche in relazione alle diverse tipologie di sanzioni previste dal codice stradale negli articoli 128 e 218. Per questo motivo il Viminale ha diramato interessanti chiarimenti agli organi di polizia.
Innanzitutto l'art. 126-bis/6° Cds tratta dell'ipotesi di revisione della patente in conseguenza dell'azzeramento del punteggio disponibile. Spetta alla motorizzazione civile notificare all'interessato l'azzeramento di punteggio con invito a sottoporsi alla revisione delle licenza entro 30 giorni.
Solo se l'utente stradale non ottempera all'obbligo la motorizzazione disporrà, con un ulteriore provvedimento, la sospensione della patente a tempo indeterminato. E per chi non rispetterà l'inibizione scatteranno guai grossi. Specifica infatti la nota che in tal caso si applicherà la sanzione prevista dall'art. 128/2° Cds ovvero una multa di 164 euro con la revoca definitiva della licenza.
La stessa sanzione, prosegue la circolare, si applicherà alle ulteriori diverse ipotesi di sospensione della patente a tempo indeterminato contemplate dall'art. 128 Cds ovvero conseguenti alla revisione della licenza disposta per motivi tecnici o di salute dell'autista. Attenzione però, in questo caso la circolazione sarà vietata subito, senza necessità di un ulteriore avviso.
Per quanto riguarda le sanzioni attenzione alla durata della sospensione. Se la misura è stata disposta a tempo indeterminato ricade tutto nella previsione appena esaminata. Diversamente, se la sospensione della patente viene disposta a tempo determinato, a titolo di sanzione accessoria, il trasgressore ricadrà nella diversa ipotesi sanzionatoria prevista dall'art. 218/6° Cds. Ovvero almeno 2 mila euro di sanzione con revoca della patente e fermo del veicolo (articolo ItaliaOggi del 23.06.2016).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATASicurezza ascensori, gli adeguamenti non sono obbligatori. Casa. Valgono le «vecchie» regole.
Il Dpr ascensori, approvato ieri in prima istanza dal Consiglio dei ministri, perde un pezzo importante rispetto al testo di entrata: quello sull’adeguamento obbligatorio alle norme di sicurezza contenute nella «raccomandazione» Ue del 1995. Norme per le quali lo Sviluppo economico si era speso con energia lo scorso febbraio, mentre Confedilizia ne aveva chiesto (e, ora, ottenuto) lo stralcio.
Restano le altre disposizioni, quelle per le quali l’Italia rischiava la procedura d’infrazione, previste dalla direttiva 2014/33/Ue (il termine è già scaduto). L’ambito di applicazione della direttiva si estende agli ascensori intesi come prodotti finiti e installati in modo permanente in edifici o costruzioni e ai componenti di sicurezza per ascensori nuovi prodotti da un fabbricante nell’Unione oppure componenti di sicurezza nuovi o usati importati da un paese terzo.
Le nuove norme prevedono una serie di obblighi per fabbricanti, distributori e importatori. I ministeri di Sviluppo e Lavoro esercitano una valutazione di sicurezza su impianti e componenti e possono chiedere che gli operatori economici intervengano e, al limite, li ritirino dal mercato. Viene anche rimesso in vigore il «certificato di abilitazione» rilasciato dalle prefetture ai manutentori dopo una prova teorico-pratica.
Le norme che non hanno superato l’esame del Consiglio dei ministri prevedevano una serie di controlli (come quelli sulla precisione di fermata e livellamento tra cabina e piano). Controlli che avrebbero portato all’imposizione di interventi mirati, qualora non superati. Ora (come prima) gli interventi possono solo essere suggeriti dai manutentori, mentre i proprietari sono liberi di scegliere se eseguirli o meno, salve naturalmente le responsabilità derivanti da eventuali incidenti. Gli unici obblighi restano quelli relativi alle norme in vigore all’epoca di installazione.
Ora il provvedimento passa all’esame delle commissioni Industria di Camera e Senato per il parere obbligatorio (ma non vincolante). Positivo il giudizio di Confedilizia: «Diamo atto al presidente del Consiglio e al nuovo ministro dello Sviluppo economico -dichiara il presidente Giorgio Spaziani Testa- di aver varato un provvedimento attento alla sicurezza dei cittadini, ma privo di inutili e costosi adempimenti aggiuntivi per la proprietà».
Per Robeto Zappa (Assoaascensori) e Michele Mazzarda (Anacam) si tratta di «Una polemica montata ad arte in nome di vantaggi economici per pochi grandi proprietari di case e a svantaggio della sicurezza di milioni di persone che ogni giorno utilizzano più di 700mila ascensori non in linea con gli attuali standard europei»
 (articolo Il Sole 24 Ore del 22.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTICodice appalti in attuazione. Cantone: pronte le prime linee guida.
L'Autorità nazionale anticorruzione ha approvato i primi cinque provvedimenti di soft law attuativi del nuovo codice dei contratti pubblici; al via le regole per servizi di ingegneria e architettura, responsabile del procedimento e offerta economicamente più vantaggiosa che saranno a breve sul sito www.anticorruzione.it; e Raffaele Cantone difende la riforma degli appalti nonostante il calo dei bandi.

È quanto emerso dall'intervento svolto ieri dal presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione, presso le commissioni riunite di camera e senato per fare il punto sul decreto 50/2016 e sulla sua attuazione.
Due provvedimenti sono proposte indirizzate al ministero delle infrastrutture e tre sono vere e proprie linee guida: quelle sull'affidamento dei servizi di ingegneria e architettura, sul Rup e sul criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa che sono state approvate ieri dal consiglio dell'Autorità e che sono in via di pubblicazione sul sito dell'Anac e di trasmissione alle camere (ma non sono previsti pareri, in base all'articolo 213, comma 2, del decreto 50/2016). Si tratta di provvedimenti particolarmente attesi anche perché l'abrogazione del dpr 207/2010 ha lasciato un vuoto normativo.
Cantone ha anche annunciato che la prossima settimana il consiglio Anac dovrebbe approvare le linee sui contratti «sottosoglia», anch'esse molto attese, e che prima dell'estate dovrebbero uscire le altre tre linee guida messe in consultazione a maggio; però il tema vero, ha detto in commissione Cantone, «è che ci vuole più di un mese per portare a termine la procedura perché sono moltissime le osservazioni pervenute sulle bozza di linee guida». Cantone ha poi espresso preoccupazione per la prima fase di attuazione del codice perché «è giunta voce, da più parti, della riduzione del numero delle gare d'appalto».
Ciononostante il presidente Anac non ritiene giustificabile la situazione. Anche per l'obbligo di appaltare i lavori sulla base del progetto esecutivo Cantone ha chiarito che «nonostante sia un problema per le amministrazioni è la scelta corretta: se ben fatto può rendere meno discrezionali le valutazioni che attengono alla scelta dell'offerta più vantaggiosa.» (articolo ItaliaOggi del 22.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAConfedilizia: non ci sarà la tassa sugli ascensori.
Lo schema di regolamento in materia di ascensori, approvato lunedì dal consiglio dei ministri, non contiene la norma, che era invece presente nel testo proposto qualche mese fa dal ministero dello sviluppo economico (anticipato da ItaliaOggi il 17/02/2016) con la quale si prevedeva l'obbligo di eseguire una serie di costosi interventi su tutti gli ascensori costruiti prima del 1999 (la cosiddetta «tassa sull'ascensore»).

A renderlo noto è Confedilizia che aveva individuato e fortemente contestato la disposizione, chiedendone l'eliminazione.
«Diamo atto al presidente del consiglio e al nuovo ministro dello sviluppo economico, Carlo Calenda, di aver varato un provvedimento attento alla sicurezza dei cittadini, ma privo di inutili e costosi adempimenti aggiuntivi per la proprietà, già pesantemente provata dalla congiuntura economica e dall'imposizione fiscale», ha commentato il presidente di Confedilizia, Giorgio Spaziani Testa (articolo ItaliaOggi del 22.06.2016).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Enti, viatico per le assunzioni. Non conta il rapporto tra costi di personale e spese correnti. Il dl enti locali ha abrogato la norma interpretata restrittivamente dalla Corte conti.
Salta l'obbligo per gli enti locali di ridurre l'incidenza della spesa di personale sulla spesa corrente.

La novità, contenuta, nel testo del decreto appena varato dal governo, elimina una serie di storture che penalizzavano le amministrazioni più virtuose e favorisce le nuove assunzioni.
Nel dettaglio, l'art. 16 del provvedimento (ma la numerazione potrebbe ancora cambiare) abroga la lettera a) dell'art. 1, comma 557, della l. 296/2006 (legge finanziaria 2007). Tale norma è stata interpretata dalla Corte dei conti (si vedano, in particolare, le deliberazioni della sezione delle autonomie nn. 16/20216 e 27/2015) in senso fortemente restrittivo, come se imponesse agli enti di ridurre, oltre che l'aggregato della spesa di personale, anche la sua incidenza sulla spesa corrente complessiva. Il parametro per verificare il rispetto dell'obbligo era rappresentato «in modo statico» dalla media registrata nel triennio 2011-2013.
Tale lettura ha posto numerose e rilevanti criticità: ad esempio, se negli anni benchmark si sono sostenute spese di natura eccezionale o non ricorrente e poi le uscite sono tornate al loro livello fisiologico, rispettare l'obiettivo può essere complicato. E la stessa cosa accade se un ente decide (magari per migliorare efficacia ed efficienza) di esternalizzare un servizio prima svolto in forma diretta.
Comune a tutte le amministrazioni è poi il problema (nato con l'armonizzazione contabile) del fondo crediti di dubbia esigibilità: esso non è oggetto di impegno e genera un'economia di bilancio che confluisce nel risultato di amministrazione come quota accantonata e conseguentemente non assume rilevanza nella determinazione del denominatore del rapporto spesa del personale/spesa corrente.
Gli stessi giudici contabili hanno stigmatizzato tali «distonie», ma hanno anche evidenziato che, per correggerle, occorreva un intervento del legislatore, che adesso è finalmente arrivato.
Se il correttivo verrà confermato, le p.a. locali avranno come unico vincolo quello di non spendere per i propri dipendenti più di quanto impegnato nel triennio di riferimento (2011-2013), mentre non dovranno più ridurre anche il rapporto spesa di personale/spesa corrente. Solo chi non rispetta il primo target, quindi, incapperà nel divieto di reclutare nuovi lavoratori.
Si tratta di un importante viatico soprattutto per la capacità assunzionale dei comuni, che a questo punto attende solo le sblocco (dato per imminente) conseguente alla chiusura della procedura di ricollocazione degli esuberi provinciali.
Da segnalare, sempre a favore dei sindaci, anche l'art. 1 del decreto, che ridistribuisce i risparmi sugli accantonamenti del fondo di solidarietà comunale degli ultimi due anni (pari a circa 26 milioni) ai comuni maggiormente penalizzati dall'applicazione come criterio di riparto dei fabbisogni standard, replicando un'analoga misura prevista nel 2015.
Sancita, infine, l'applicazione a regime del correttivo statistico per limitare le variazioni, in aumento o in diminuzione, delle risorse attribuite a ciascun comune (articolo ItaliaOggi del 22.06.2016).

APPALTITriplice freno ai nuovi appalti. Transizione incerta, novità procedurali e norme in conflitto rallentano le gare. Codice dei contratti. Da precisare il ruolo del responsabile unico nella valutazione di offerte e anomalie.
Le numerose novità del Codice dei contratti pubblici presentano anche profili critici, che ne rendono problematica l’applicazione e ritardano lo sviluppo di nuove gare da parte delle stazioni appaltanti.
Il ridotto numero di bandi di gara pubblicati dopo l’entrata in vigore del decreto legislativo 50/2016 (si veda Il Sole 24 Ore dell’11 giugno) evidenzia le numerose difficoltà incontrate in questa fase dalle amministrazioni aggiudicatrici, che sono riconducibili a tre tipologie di problemi.
Il primo ostacolo deriva dai numerosi spazi di regolamentazione attuativa demandati all’Anac e a una serie di decreti ministeriali, rispetto ai quali le stazioni appaltanti preferiscono attendere un primo assestamento, soprattutto delle linee-guida, per evitare lo sviluppo delle procedure in modo incoerente.
Nel documento sottoposto a consultazione in ordine al ruolo del responsabile del procedimento, ad esempio, l’Autorità ha evidenziato come a suo parere questa figura non debba procedere alla verifica delle offerte anormalmente basse, andando in senso contrario a quanto era stabilito nel quadro normativo previgente. L’incertezza conseguente ha indotto molte amministrazioni ad aspettare le linee-guida definitive per avere elementi certi su un passaggio operativo così delicato.
Situazione analoga è registrabile per le linee-guida relative all’offerta economicamente più vantaggiosa, rispetto alle quali le stazioni appaltanti attendono di verificare le indicazioni dell’Anac in merito alle metodologie di attribuzione dei punteggi da utilizzare.
Una seconda serie di criticità deriva dalle confliggenze tra alcune norme del Codice dei contratti pubblici e altre disposizioni di legge: il caso più rilevante è quello delle previsioni sulla partecipazione degli operatori economici ammessi al concordato con continuità aziendale, per le quali non sussiste coordinamento tra l’articolo 110 del Dlgs 50/2016 e l’articolo 186-bis della legge fallimentare.
Il terzo profilo problematico emerge dalle notevoli differenze nell’impostazione di alcune fasi procedurali, che devono essere rapidamente assimilate dalle stazioni appaltanti.
Il nuovo Codice non prevede più l’obbligo di verificare in corso di gara i requisiti di capacità economica e tecnica su un campione di concorrenti scelto a sorteggio, rimettendo invece questa analisi all’amministrazione e comunque prevedendola come necessaria solo in rapporto all’aggiudicazione.
Il Dlgs 50/2016 non contempla più nemmeno norme sullo svolgimento delle operazioni di gara e ha semplificato il sub-procedimento di verifica delle offerte anomale.
Molti aspetti di dettaglio volti a regolare questi passaggi della procedura selettiva, pertanto, devono essere specificati dalle amministrazioni nel disciplinare di gara, per evitare difficoltà per le commissioni e per ridurre i margini di rischio rispetto a possibili necessità di integrazioni dei bandi che potrebbero scaturire da previsioni eccessivamente sintetiche.
Analogo approccio di dettaglio deve essere adottato nella definizione dei sistemi criteriali per la valutazione degli aspetti tecnico-qualitativi delle offerte, poiché l’articolo 95, al comma 1, stabilisce l’obbligo di strutturazione, per ogni elemento, dei criteri motivazionali che devono guidare la valutazione.
Molte problematiche si rilevano anche nella traduzione negli atti di gara delle nuove disposizioni sui motivi di esclusione, per i quali le stazioni appaltanti devono far fronte a norme con carenze di coordinamento (ad esempio quelle inerenti le condanne penali e la sottoposizione a misure di prevenzione antimafia) e con confliggenze interpretative (ad esempio quelle riguardanti i conflitti di interesse, che devono essere risolti dall’amministrazione con l’astensione del dipendente interessato), ma anche con la nuova previsione per cui i requisiti di ordine generale devono essere mantenuti nel corso di tutta la procedura di gara (sancendo in diritto quanto era stato affermato più volte in passato dalla giurisprudenza)
(articolo Il Sole 24 Ore del 20.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTISui requisiti dichiarazione europea.
Certificazioni. Obbligatorio accettare il documento unico comunitario con l’autocertificazione semplificata sull’assenza di cause di esclusione.
Le stazioni appaltanti devono accettare il documento di gara unico europeo (Dgue) come strumento dichiarativo dei requisiti per partecipare alle procedure di affidamento degli appalti pubblici.
Il nuovo Codice dei contratti introduce con l’articolo 85 il particolare formulario (definito dal regolamento comunitario 2016/7) per la veicolazione, da parte degli operatori economici, delle informazioni essenziali inerenti l’insussistenza dei motivi di esclusione e il possesso delle capacità economico-finanziarie e tecnico-professionali.
Il principale elemento a favore dell’obbligatorietà di utilizzo del documento unico europeo si rinviene all’articolo 83, comma 9, in quanto la disposizione disciplina l’applicazione del soccorso istruttorio in particolare per la mancanza, l’incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e del documento di gara unico europeo previsto dall’articolo 85.
Il formulario è un’autocertificazione con la quale l’operatore economico dichiara di non trovarsi in una delle situazioni ostative declinate dall’articolo 80 (condanne, tentativi di infiltrazioni criminali e così via) e di possedere i requisiti di capacità definiti nel bando di gara in base all’articolo 83 del nuovo codice.
La struttura del documento unico europeo, modulata sulle fattispecie delle direttive comunitarie, è impostata per favorire dichiarazioni molto semplici, che possono riguardare anche più tipologie di elementi, nella prospettiva di ridurre gli oneri dichiarativi e formali per gli operatori economici.
Questa struttura non è modulabile o estensibile, tanto che lo stesso regolamento comunitario 2016/7 precisa che in caso di raggruppamenti temporanei d’impresa il documento unico deve essere presentato distintamente da tutti i partecipanti così come, in caso di avvalimento, deve essere presentato sia dal concorrente sia dall’ausiliaria.
Rispetto ai requisiti riferiti ai titolari di poteri di rappresentanza, lo stesso regolamento precisa che il documento unico può essere sottoscritto da tutti questi soggetti.
Il tipo di relazione informativa semplificata che deriva dal modello responsabilizza moltissimo gli operatori economici, i quali possono tuttavia trovarsi in difficoltà nell’esplicitare mediante le dichiarazioni sintetiche del formulario situazioni complesse (si pensi a soggetti che hanno riportato condanne penali o sono incorsi in risoluzioni contrattuali).
Per consentire una resa delle informazioni più ordinata possibile, è ipotizzabile che le stazioni appaltanti forniscano istruzioni precise per la compilazione nel disciplinare di gara e mettano a disposizione un modello dichiarativo correlato, utile soprattutto a consentire la specificazione delle dichiarazioni più articolate (sia quelle riferite a più soggetti sia quelle inerenti più situazioni critiche).
Il quadro normativo del codice sembra prefigurare l’estensione dell’utilizzo del documento unico anche alle procedure di valore inferiore alla soglia comunitaria, sia per il riferimento nella disciplina del soccorso istruttorio sia per la combinazione tra l’articolo 81, espressamente richiamato nel comma 5 dell’articolo 36, e l’articolo 85
(articolo Il Sole 24 Ore del 20.06.2016).

ATTI AMMINISTRATIVITrasparenza, sei mesi di tempo per formare strutture e personale. Riforma Madia. Sull’attuazione le incognite costi e formazione.
Con l’entrata in vigore delle nuove regole sul diritto di accesso dettate dal decreto legislativo 97/2016 sul Freedom of Information Act possono cambiare radicalmente i rapporti tra i cittadini e le imprese da un lato e le pubbliche amministrazioni, dall’altro; ma senza un adeguato supporto organizzativo questo disegno rimarrà sulla carta in molte aree del Paese.
Il segno distintivo del decreto è il rafforzamento delle forme di tutela offerte ai cittadini e alle imprese, e l’aumento della trasparenza dell’attività delle amministrazioni pubbliche. Non sembra però essere stato valutato a fondo l’impatto che l’applicazione delle nuove regole determina sull’organizzazione delle Pa. Non si tratta certo di una novità nella nostra legislazione, ma ciò non può costituire un alibi né per il legislatore né per i singoli enti.
Né si può ritenere che le misure di semplificazione dei vincoli dettati in materia di trasparenza (tra tutti, la riduzione degli obblighi per i Comuni fino a 15mila abitanti per come sarà definita dall’Anac e la possibilità di utilizzare nella pagina amministrazione trasparente i link ad altre banche dati) possano essere giudicate come misure sufficienti per bilanciare le nuove sfide che l’applicazione del decreto impone. In questo quadro il dettato finale del decreto, cioè che la sua realizzazione deve avvenire a costo zero, sembra una foglia di fico.
Per l’attuazione delle nuove regole vengono dati sei mesi di tempo, con un termine che quindi in pratica scade entro la fine del 2016. Il tempo è ridotto, per cui le amministrazioni devono cominciare subito ad assumere le necessarie iniziative organizzative. Non si può mancare di sottolineare che viene previsto invece un anno di tempo per gli adeguamenti delle banche dati nazionali.
Il primo elemento di novità è che l’accesso viene garantito senza la necessità di motivare adeguatamente la richiesta. Gli uffici devono informare della richiesta i soggetti controinteressati, cioè quelli che sono coperti dalla tutela della privacy, contemperando queste opposte esigenze per quanto possibile oppure operando una scelta. Il diritto accesso potrà essere esercitato per svolgere forme di controllo che invece fino a oggi erano consentite solo ai consiglieri comunali. Inoltre, le amministrazioni possono chiedere solo il rimborso delle spese vive per la riproduzione dei documenti, il che sembra escludere la possibilità di calcolare anche i costi del lavoro del dipendente. Le modalità di accesso sono semplificate, così come le forme di tutela offerte al cittadino, a partire dalla segnalazione al responsabile anticorruzione.
Da tutto ciò deriva la conseguenza che le singole amministrazioni, compresi i Comuni più piccoli, devono darsi delle strutture e formare il personale, che deve essere in possesso di un’adeguata preparazione di base, cioè la laurea. Ed ancora, è inevitabile che si dovranno realizzare adeguati investimenti per potenziare la possibilità di utilizzare gli strumenti informatici per semplificare gli iter procedurali.
In questo ambito occorre verificare le iniziative di gestione associata che i Comuni più piccoli possono concretamente realizzare per cercare di ridurre l’impatto organizzativo. Gli enti devono infine rivedere in misura radicale le disposizioni regolamentari oggi in vigore in materia di accesso in applicazione dei principi dettati dalla legge 241/1990
(articolo Il Sole 24 Ore del 20.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Sistri, istruzioni aggiornate. Confermati i soggetti obbligati. Coordinamento d'obbligo. A disciplinare il tracciamento telematico dei rifiuti si aggiunge il Manuale del gestore.
Migrano nella manualistica predisposta dal Gestore del Sistri molte delle regole operative da osservare per il tracciamento telematico dei rifiuti prima direttamente dettate dal MinAmbiente con proprio decreto.

È quanto emerge dalle nuove istruzioni dedicate a Enti e imprese produttori e gestori di rifiuti, pubblicate sul portale www.sistri.it lo scorso 8 giugno, in ossequio al neo Dm Ambiente 78/2016, il regolamento con cui il Dicastero ha riscritto le norme generali sul funzionamento del sistema. Rispetto al pregresso regime ex Dm 52/2011 (il primo «Testo unico Sistri», abrogato e sostituito dal nuovo Dm 78/2016) il legislatore pone dunque gli operatori di fronte a un più complesso quadro di regole.
Infatti, se il Dm 52/2011 dettava già a monte dettagliate norme poi a valle supportate dalle relative istruzioni tecniche fornite dal Gestore, il nuovo Testo unico propone un più sofisticato panorama di regole, costituito da: Dm 78/2016, recante la nuda architettura regolamentare del Sistri; la manualistica di supporto sviluppata (ex articoli 2 e 23 dello stesso Dm) dal Gestore del servizio e pubblicata sul portale sistri.it previo visto di approvazione del MinAmbiente (si veda ItaliaOggi Sette del 06/06/2016); i futuri decreti di natura (però) non regolamentare emanati (in base agli stessi citati articoli) dal MinAmbiente che introdurranno ulteriori nuove procedure operative con prevalenza su quelle nelle more dettate dal suddetto Gestore.
Le prime nuove istruzioni pubblicate su www.sistri.it l'08.06.2016 (a seguito di autorizzazione MinAmbiente «Dd prot. Rindec-2016-63», come riportato sul portale) coincidono con i rinnovati «Manuale operativo Sistri» e «Procedure di iscrizione e gestione fascicolo azienda».
Le istruzioni da un lato traducono le innovazioni recate dal citato Dm 78/2016 e dall'altro ripropongono procedure operative simili a quelle previste dall'abrogato Dm 52/2011, il tutto fornendo in qualche caso alcuni (ulteriori, ove fosse necessario) chiarimenti in relazione al regime giuridico generale Sistri.
Soggetti obbligati. Il nuovo Dm 78/2016 ha confermato il novero dei soggetti obbligati a utilizzare il Sistri previsto dall'articolo 188-ter comma 1 del Dlgs 152/2006 e «dalle disposizioni attuative approvate ai sensi del comma 3 del medesimo articolo». Tale ultimo riferimento è da leggersi in relazione al Dm 24.04.2014, il regolamento MinAmbiente che dispone l'esenzione dall'obbligo di iscrizione per alcune categorie di produttori iniziali di speciali pericolosi, tra cui quelli che hanno (tra le altre condizioni) un numero di dipendenti non superiore a dieci.
E una conferma sulla effettiva portata della deroga ex Dm 24/4/2014 arriva proprio dalle nuove «Procedure», che nella parte introduttiva propongono una ricognizione dei soggetti tenuti ad operare in Sistri. Nell'ambito di tale ricognizione, il punto «1.3» delle nuove Procedure individua infatti tra i soggetti obbligati i «( ) produttori iniziali di rifiuti speciali pericolosi che effettuano attività di stoccaggio» specificando, senza riferimenti al numero di dipendenti, che «Si intendono per tali gli enti o imprese produttori iniziali di rifiuti speciali pericolosi che effettuano: attività di smaltimento consistenti nelle operazioni di deposito preliminare ( ); attività di recupero consistenti nelle operazioni di messa in riserva ( )» e precisando che «i soggetti ricadenti in tale fattispecie devono iscriversi sia nella categoria produttori che in quella gestori.».
Dunque, la conduzione dello stoccaggio ex 183, comma 1, lettera aa), Dlgs 152/2006 dei rifiuti in parola fa scattare per i produttori iniziali che lo effettuano, indipendentemente dal numero di dipendenti, l'obbligo di iscrizione al Sistri, evidentemente perché tale condotta li rende agli occhi della Legge (anche) «gestori».
Delegato. Dal punto di vista operativo, le nuove «Procedure» Sistri prendono, in primo luogo, atto della mera possibilità stabilita dal Dm 78/2016 (in luogo dell'obbligo ex abrogato Dm 52/2011) di nominare nell'ambito dell'organizzazione interna il soggetto «delegato» all'utilizzo del sistema.
E di conseguenza specificano che qualora l'ente/impresa non abbia indicato tale soggetto nella procedura di iscrizione, le credenziali di accesso al Sistri e il certificato per la firma elettronica (necessaria alla validazione delle schede informatiche) verranno attribuiti al rappresentante legale dell'Ente/impresa (evidentemente, con tutte le connesse responsabilità ex Dlgs 152/2006).
L'indicazione dei delegati, ricordano altresì le stesse istruzioni, potrà comunque avvenire anche successivamente alla ricezione dei dispositivi Usb, mediante l'applicazione informatica «Gestione azienda» della piattaforma Sistri.
Comunicazione informazioni. Conformemente a quanto sancito dal Dm 78/2016, non appare più nella parte del Manuale dedicata alle procedure ordinarie di movimentazione dei rifiuti l'obbligo di comunicare tale attività diverse ore prima al Sistri, essendo sufficiente farlo comunque in anticipo.
Microraccolta. Trovano diretta collocazione nel nuovo Manuale anche le regole per la microraccolta, che ricalcano quelle previste dal pregresso Dm 52/2011, riproponendo il sistema semplificato fondato sull'emissione della scheda «Comunicazione trasporto per microraccolta», la più elastica registrazione delle movimentazioni (possibile fino alle 48 ore lavorative dalla chiusura delle operazioni), il tracciamento del trasporto senza obbligo di utilizzo della «funzionalità cartografica» della black box. Tali regole, nel tenore dell'articolo 14 del Dm 78/2016, saranno però riviste direttamente dal MinAmbiente tramite i citati futuri decreto non regolamentare.
Conservazione documenti. Assenti nel Dm 78/2016, i parametri di conservazione temporale delle schede Sistri (da 3 a 5 anni) presso l'operatore interessato sono riproposte dal nuovo Manuale sulla scia di quanto previsto in materia da pregresso Dm 52/2011 e relative istruzioni operative.
Coordinamento tra soggetti. Riappare sempre nel nuovo Manuale l'obbligo per il trasportatore Sistri di lasciare all'eventuale produttore di rifiuti non iscritto al sistema (perché non obbligato) copia della scheda di movimentazione dei residui. Tale delicata disposizione (soprattutto per il produttore, nell'ambito del quadro probatorio sull'avvenuto affidamento dei rifiuti) non è infatti presente nel Dm 78/2016, mentre era direttamente prevista dal Dm 52/2011.
Respingimento rifiuti. Migrano nel nuovo Manuale anche le procedure da osservare in caso di respingimento totale o parziale dei rifiuti da parte dell'impianto di destinazione, prima direttamente disciplinate dal Dm 52/2011 ma non più contemplate dal Dm 78/2016.
Il nuovo volto del Sistri appare dunque promettere, dietro la prevista semplificazione operativa del sistema, una complicazione delle sorgenti cui approvvigionarsi per conoscere le esatte regole del gioco, laddove dal ruolo principe delle vere e proprie fonti del diritto (con tutte le relative garanzie, anche in termini di cognizione, per i destinatari) si passa a una produzione normativa stratificata e largamente fondata sulla «soft law»: più snella nell'aggiornamento per il legislatore, ma altrettanto impegnativa nel «tracciamento» per gli operatori (articolo ItaliaOggi Sette del 20.06.2016).

ATTI AMMINISTRATIVI: Privacy messa all'angolo. Copia di atti dovuta senza bisogno di ragioni. Il correttivo sulla trasparenza amministrativa. Tutela solo apparente.
Il correttivo sulla trasparenza amministrativa seppellisce la privacy dei cittadini.

La nuova disciplina dell'accesso civico, portata dal decreto legislativo 97/2016, consente di avere conoscenza di dati e copia di documenti senza dovere dare spiegazioni specifiche sulle ragioni della richiesta. E anche se il decreto legislativo costruisce una procedura con la quale il soggetto, cui si riferiscono i dati, può presentare opposizione, si tratta di una tutela solo apparente.
Sulla carta bisognerebbe fare un bilanciamento di interessi: su un piatto della bilancia la riservatezza e sull'altro l'interesse proprio di chi chiede dati e documenti. Ma questo bilanciamento è impossibile, perché per fare il confronto occorre avere i due dati da confrontare. Se, invece, chi chiede dati e informazioni, per legge, non deve dichiarare l'interesse perseguito, manca un termine per fare la valutazione comparata.
Sembrerebbe, dunque, che non ci sia via d'uscita nelle disposizioni intrinsecamente inapplicabili.
Uno spiraglio potrebbe essere il rinvio a linee guida dell'Autorità anticorruzione (Anac), che dovranno indicare quando prevale la privacy e quando, invece, prevale l'accesso. A questo punto si deve concludere che il livello di garanzia della privacy dei cittadini è affidato non alla legge e neppure al garante della privacy, ma a provvedimenti (di rango amministrativo e non normativo) dell'Anac; correndo comunque il rischio che l'Anac non disciplini tutti i possibili casi.
Ma spieghiamo con ordine.
Il decreto legislativo 97/2016 riformula l'accesso civico. Se prima era solo un mezzo per ottenere la pubblicazione sul sito internet dei singoli enti degli atti che per legge dovevano essere pubblicati, ora diventa lo strumento per ottenere da qualunque p.a. da parte di chiunque tutti i dati e documenti detenuti dall'ente pubblico.
Ad esempio si può chiedere a un comune l'elenco dei titoli edilizi o copia dei contratti di convivenza o l'elenco delle associazioni che hanno ricevuto contributi o di chi ha pagato un certo tributo ecc. Le possibilità sono infinite.
Il decreto 97/2016 sembra subordinare l'accesso civico a limiti oltre che di interesse pubblico, anche di interesse privato, tra cui la riservatezza delle persone.
Peraltro la formulazione della disciplina di tutela è così farraginosa da autoannullarsi.
La tutela della riservatezza blocca, infatti, l'accesso civico solo quando ciò risulta «necessario» per evitare un pregiudizio «concreto» alla tutela della protezione dei dati personali e comunque «in conformità con la disciplina legislativa in materia».
Non è sufficiente che l'interessato si opponga. In effetti la norma in commento prevede che se l'amministrazione individua controinteressati deve dare loro avviso della richiesta di accesso. Il controinteressato (potenzialmente leso nella sua privacy) può presentare una motivata opposizione, che non è vincolante. La p.a. deve, infatti, decidere sulla richiesta di accesso tenendo conto dell'opposizione, ma senza che questa la obblighi a un rigetto dell'istanza di accesso civico. Tra l'altro l'onere economico per la p.a. degli avvisi ai controinteressati cresce con il numero degli stessi controinteressati. Se si tratta di centinaia o migliaia di persone, le cifre lievitano.
Tornando al bilanciamento tra privacy e accesso civico, la p.a. deve valutare se i singoli subiscano (per effetto del rilascio dati e copie) un pregiudizio concreto e se il diniego sia necessario per evitare il danno.
Si tratta di concetti molto vaghi, lasciati alla discrezionalità dei singoli funzionari. E questi ultimi non hanno parametri per esercitare la discrezionalità. Si noti che la norma non permette di comparare la situazione di chi chiede dati rispetto a coloro cui i dati si riferiscano. Con il rischio che qualche p.a. ritenga necessario il diniego (e quindi niente accesso) in casi in cui altre omologhe p.a. arrivano alla conclusione diversa (e quindi addio alla privacy).
Certo il decreto prevede che, ai fini della definizione delle esclusioni e dei limiti all'accesso civico, l'Autorità nazionale anticorruzione, d'intesa con il Garante per la protezione dei dati personali e sentita la Conferenza unificata, adotta linee guida recanti indicazioni operative. Ci si chiede quanto tali indicazioni siano cogenti o solo un semplice consiglio (articolo ItaliaOggi Sette del 20.06.2016).

GIURISPRUDENZA

APPALTI: Per l'emanazione della interdittiva non occorre l'accertamento di elementi di colpevolezza o di responsabilità nei confronti dei soggetti a cui è rivolta, trattandosi di una misura di tutela avanzata a presidio dell'ordine pubblico.
E' del tutto diverso e non equiparabile il contesto nell'ambito del quale si pone la valutazione del giudice penale rispetto a quello dell'esercizio dei poteri di contrasto dell'infiltrazione mafiosa, di cui è titolare il Prefetto.
La disciplina legislativa in materia non ha attribuito all'informativa antimafia un carattere punitivo: per l'emanazione della interdittiva non occorre l'accertamento di elementi di colpevolezza o di responsabilità nei confronti dei soggetti a cui è rivolta, trattandosi di una misura di tutela avanzata a presidio dell'ordine pubblico, che ben può basarsi su circostanze esclusivamente rilevanti sul piano oggettivo, aventi valore di elemento indiziario e sintomatico, in base alle quali risulti non illogico ed attendibile l'apprezzamento della sussistenza del pericolo di condizionamento dell'impresa derivante dalla infiltrazione mafiosa.
L'orientamento della giurisprudenza è pacifico nel senso che si debba operare una valutazione complessiva, valorizzando i collegamenti tra i diversi elementi, anche sulla base di deduzioni logiche basate sul principio del "più probabile che non", alla luce di una regola di giudizio, cioè, che ben può essere integrata da dati di comune esperienza, evincibili dall'osservazione dei fenomeni sociali, qual è, anzitutto, anche quello mafioso.
In base alla giurisprudenza, è irrilevante la mancanza del rapporto di affiliazione con le associazioni malavitose (così come di un accertamento di concreti elementi di collusione e di cointeressenza con la malavita), posto che ai fini dell'interdittiva è sufficiente l'accertamento di relazioni di varia natura con la criminalità, anche risalenti nel tempo, che abbiano valore sintomatico ed indiziario (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 07.07.2016 n. 3009 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATAIn ordine all’ignoranza inevitabile della legge penale la giurisprudenza ha elaborato tre criteri: il criterio oggettivo; il criterio soggettivo; il criterio misto.
Il criterio oggettivo è basato su una marcata spersonalizzazione, nel senso che esso opera laddove debba ritenersi che qualsiasi consociato, in quella determinata situazione di tempo, di luogo ed operativa, sarebbe incappato nell’ignoranza o nell’errore sulla norma penale. Ciò può dipendere dall’oscurità o dalla contraddittorietà del testo legislativo; da un generalizzato caos interpretativo; dall’assoluta estraneità del suo contenuto precettivo ai valori correnti nella società.
Si esula dunque dall’ambito dell’inevitabilità dell’ignoranza della legge penale allorché ci si trovi in presenza di norme dal contenuto precettivo sufficientemente chiaro, che non presenta particolari asperità ermeneutiche e che non si discosta dai valori correnti nella società in misura tale da non trovare nessuna rispondenza nella c.d. “sfera parallela laica”.
In ogni caso, l’inevitabilità dell’ignoranza della legge penale può essere ravvisata ogniqualvolta il cittadino abbia assolto,con il criterio dell’ordinaria diligenza, al cosiddetto “dovere di informazione”, attraverso l’espletamento di qualsiasi accertamento utile per conseguire la conoscenza della normativa vigente.
Il parametro soggettivo è invece basato sulle caratteristiche personali dell’agente che abbiano influito sulla conoscenza del precetto, come l’elevato deficit culturale, alla luce ad esempio, della condizione di straniero proveniente da aree socio-culturali molto distanti dalla nostra e da poco in Italia; o l’incolpevole carenza di socializzazione.
Il parametro c.d. misto comprende infine tutte le ipotesi in cui operano, in varia misura e con diverso spessore, criteri oggettivi e soggettivi, in combinazione tra loro. In quest’ottica, la giurisprudenza ha evidenziato come l’esimente della buona fede possa trovare applicazione solo nell’ipotesi in cui l’agente abbia fatto tutto il possibile per adeguarsi al dettato della norma e questa sia stata violata per cause indipendenti dalla volontà dell’agente, al quale quindi non possa essere mosso alcun rimprovero, neppure di semplice leggerezza.
Conseguentemente, non è sufficiente ad integrare gli estremi dell’esimente il semplice comportamento passivo dell’agente, essendo invece necessario che egli si adoperi al fine di adeguarsi all’ordinamento giuridico, ad esempio,informandosi presso gli uffici competenti o consultando esperti in materia.

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MASSIMA
3. Nemmeno il terzo motivo di ricorso merita accoglimento.
L'ignoranza e l'errore sul precetto possono infatti assumere rilevanza sotto un duplice profilo: o come ignoranza o errore sulla legge extrapenale, nell'ottica delineata dall'art. 47, comma 3, cod. pen.; o come ignoranza inevitabile della norma penale, ai sensi dell'art. 5 cod. pen., nel testo risultante da Corte Cost. n. 364 del 24.03.1988.
In ordine alla prima ipotesi, occorre osservare come la giurisprudenza, come è noto, distingua fra norme extrapenali integratrici del precetto, che, essendo in esso incorporate,sono da considerarsi legge penale, per cui l'errore su di esse non scusa, ai sensi dell'art. 5 cod. pen.; e norme extrapenali non integratrici del precetto, ossia disposizioni destinate, ab origine, a regolare rapporti giuridici di carattere non penale, non richiamate, neppure implicitarnente, dalla norma penale. L'errore che cade su di esse esclude il dolo, generando un errore sul fatto, a norma dell'art. 47, comma 3, cod. pen. (ex plurimis, Cass., Sez. 5, 20.02.2001, Martini; Cass., Sez. 6, 18.11.1998, Benanti).
In ordine all'ignoranza inevitabile della legge penale- prospettazione che occorre sempre riguardare con cautela, nella vastissima area dei mala quia prohibita- è invece da osservare come la giurisprudenza, sulla scia della citata pronuncia della Corte costituzionale, abbia elaborato tre criteri: il criterio oggettivo; il criterio soggettivo; il criterio misto.
Il criterio oggettivo è basato su una marcata spersonalizzazione, nel senso che esso opera laddove debba ritenersi che qualsiasi consociato, in quella determinata situazione di tempo, di luogo ed operativa, sarebbe incappato nell'ignoranza o nell'errore sulla norma penale. Ciò può dipendere dall'oscurità o dalla contraddittorietà del testo legislativo; da un generalizzato caos interpretativo; dall'assoluta estraneità del suo contenuto precettivo ai valori correnti nella società. Si esula dunque dall'ambito dell'inevitabilità dell'ignoranza della legge penale allorché ci si trovi in presenza di norme dal contenuto precettivo sufficientemente chiaro, che non presenta particolari asperità ermeneutiche e che non si discosta dai valori correnti nella società in misura tale da non trovare nessuna rispondenza nella c.d. "sfera parallela laica".
In ogni caso, Sez. U., 10.06.1994, Calzetta, ha stabilito che l'inevitabilità dell'ignoranza della legge penale può essere ravvisata ogniqualvolta il cittadino abbia assolto,con il criterio dell'ordinaria diligenza, al cosiddetto "dovere di informazione", attraverso l'espletamento di qualsiasi accertamento utile per conseguire la conoscenza della normativa vigente.
Il parametro soggettivo è invece basato sulle caratteristiche personali dell'agente che abbiano influito sulla conoscenza del precetto, come l'elevato deficit culturale, alla luce ad esempio, della condizione di straniero proveniente da aree socio-culturali molto distanti dalla nostra e da poco in Italia; o l'incolpevole carenza di socializzazione (Cass. 09.05.1996, Falsino, Rv. n. 205513; Cass. 04.05.1995, Bindi).
Il parametro c.d. misto comprende infine tutte le ipotesi in cui operano, in varia misura e con diverso spessore, criteri oggettivi e soggettivi, in combinazione tra loro. In quest'ottica, la giurisprudenza ha evidenziato come l'esimente della buona fede possa trovare applicazione solo nell'ipotesi in cui l'agente abbia fatto tutto il possibile per adeguarsi al dettato della norma e questa sia stata violata per cause indipendenti dalla volontà dell'agente, al quale quindi non possa essere mosso alcun rimprovero, neppure di semplice leggerezza.
Conseguentemente, non è sufficiente ad integrare gli estremi dell'esimente il semplice comportamento passivo dell'agente, essendo invece necessario che egli si adoperi al fine di adeguarsi all'ordinamento giuridico, ad esempio,informandosi presso gli uffici competenti o consultando esperti in materia (Cass., Sez. 1, n. 25912 del 18.12.2003, Rv. 228235; Cass., Sez. 5, n. 41476 del 25.09.2003, Rv. 227042).
3.1. Nel caso in esame, non è ravvisabile l'ipotesi di cui all'art. 47, comma 3, cod. pen., poiché le norme che attribuiscono ad un bene il carattere di pignorabilità integrano il precetto penale, essendo in esso incorporate, in quanto l'art. 388, comma 6, cod. pen. fa espresso riferimento alle cose o ai crediti "pignorabili", con ciò richiamando le disposizioni di legge in tema di pignorabilità.
Ne deriva che l'ignoranza o l'errore circa la pignorabilità di un bene si risolve in ignoranza o in errore sulla legge penale. Né è sostenibile che si versi in un'ipotesi di inevitabilità dell'ignoranza della legge penale, poiché la normativa in tema di pignorabilità della pensione non presenta certamente connotati di cripticità tali da potersi ricondurre all'ottica dell'oscurità del precetto. Non è nemmeno riscontrabile, in materia, una situazione di caos interpretativo o di assoluta estraneità del contenuto precettivo delle norme alla sensibilità del cittadino.
Ancor meno può farsi appello, nel caso di specie, a criterio soggettivo, poiché il Be. riveste qualità di avvocato. Né risulta che egli abbia fatto tutto il possibile per acquisire la conoscenza della normativa in materia (massima tratta da https://renatodisa.com - Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza 06.07.2016 n. 27941).

VARI: L’immagine di una persona costituisce dato personale, rilevante ai sensi dell’art. 4, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 196 del 2003 (cd. codice della privacy), trattandosi di dato immediatamente idoneo a identificare una persona a prescindere dalla sua notorietà, sicché l’installazione di un impianto di videosorveglianza all’interno di un esercizio commerciale, allo scopo di controllare l’accesso degli avventori, costituisce trattamento di dati personali e deve formare oggetto dell’informativa di cui all’art. 13 del d.lgs. n. 196 del 2003, rivolta ai soggetti che facciano ingresso nel locale.
L’installazione di un impianto di video sorveglianza all’interno di un esercizio commerciale, costituendo trattamento di dati personali, deve formare oggetto di previa informativa, ex art. 13 del d.lgs. n. 196 dei 2003, resa ai soggetti interessati prima che facciano accesso nell’area video sorvegliata, mediante supporto da collocare perciò fuori del raggio d’azione delle telecamere che consentono la raccolta delle immagini delle persone e danno così inizio al trattamento stesso.

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Questa Corte ha già affermato che "
l'immagine di una persona costituisce dato personale, rilevante ai sensi dell'art. 4, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 196 del 2003 (cd. codice della privacy), trattandosi di dato immediatamente idoneo a identificare una persona a prescindere dalla sua notorietà, sicché l'installazione di un impianto di videosorveglianza all'interno di un esercizio commerciale, allo scopo di controllare l'accesso degli avventori, costituisce trattamento di dati personali e deve formare oggetto dell'informativa di cui all'art. 13 del d.lgs. n. 196 del 2003, rivolta ai soggetti che facciano ingresso nel locale" (Cass., sez. II, 02.09.2015, n. 17440).
Nello stesso senso, la Corte di giustizia dell'Unione Europea, con sentenza 11.12.2014, in causa C- 12/13, ha interpretato la Direttiva 95/46/Ce nel senso che l'immagine di una persona registrata da una telecamera costituisce un dato personale se e in quanto essa consente di identificare la persona interessata, e che una sorveglianza effettuata mediante una registrazione video delle persone, immagazzinata in un dispositivo di registrazione continua, ossia in un disco duro, costituisce un trattamento di dati personali automatizzato.
L'art. 13 del Codice della privacy, com'è noto, dispone che l'interessato o la persona presso la quale sono raccolti i dati personali siano "previamente informati oralmente o per iscritto" del trattamento.
Già per il dettato dell'art. 13 citato, allora, l'informativa ai soggetti che facessero ingresso in un locale chiuso (quale un locale commerciale) deve intendersi necessaria prima che gli interessati accedano nella zona videosorvegliata, potendosi spiegare la diversa previsione di cui al punto 3.1. del Provvedimento generale del 29.04.2004, secondo cui l'informativa va rivolta a coloro che già "si trovano in una zona videosorvegliata" con riguardo agli spazi aperti.
La tempestività dell'informativa è necessariamente strumentale alla validità del consenso espresso dell'interessato al trattamento dei dati (art. 23, comma 3, Codice della privacy), salvi i casi in cui da esso possa prescindersi (di cui al successivo art. 24), non potendo tale consenso non essere preventivo rispetto all'inizio del trattamento stesso, nella specie consistente nella raccolta delle immagini delle persone che accedono nel locale e vengono riprese dalla videocamera.
Anche perciò se la condotta contestata alla s.r.l. Farmacia Comunale Po.Se.Co. ed a Ad.Me. era anteriore rispetto al Provvedimento del Garante in materia di videosorveglianza dell'08.04.2010, pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 99 del 29.04.2010 (il quale ha poi espressamente chiarito che "gli interessati devono essere sempre informati che stanno per accedere in una zona videosorvegliata"), già l'applicabilità dell'art. 13 del Codice privacy e delle prescrizioni del precedente Provvedimento generale del 29.04.2004 inducono ad affermare, ai sensi dell'art. 384, comma 1, c.p.c., il principio di diritto per cui: "
L'installazione di un impianto di videosorveglianza all'interno di un esercizio commerciale, costituendo trattamento di dati personali, deve formare oggetto di previa informativa, ex art. 13 del d.lgs. n. 196 del 2003, resa ai soggetti interessati prima che facciano accesso nell'area videosorvegliata, mediante supporto da collocare perciò fuori del raggio d'azione delle telecamere che consentono la raccolta delle immagini delle persone e danno così inizio al trattamento stesso".
Essendo spiegato nella sentenza del Tribunale di Sondrio, in punto non controverso, che la presenza dell'avviso della zona videosorvegliata era collocato su una parete interna della farmacia, non sono necessari ulteriori accertamento, e questa Corte può decidere nel merito, ai sensi dell'art. 384, comma 2, c.p.c., rigettando l'opposizione proposta (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 05.07.2016 n. 13663).

PUBBLICO IMPIEGOSindacalista trasferita solo con il sì della «sigla». Lavoro. Il presupposto
Il trasferimento di una rappresentante sindacale aziendale, che svolga effettivamente attività sindacale, è illegittimo e configura condotta antisindacale se il datore di lavoro non ha prima ottenuto il nullaosta del sindacato.

Lo ha deciso il TRIBUNALE di Bari con la sentenza n. 688/2016 (giudice Procoli).
La vicenda riguarda una lavoratrice, che è anche sindacalista, alla quale viene chiesto il cambio di sede. La società datrice di lavoro dichiara che lo spostamento si è reso necessario per le perdite del punto di vendita in cui la dipendente lavorava e di averla individuata in base al criterio della “minore anzianità aziendale”. Il trasferimento viene formalizzato anche se il sindacato, a cui la dipendente aderisce, non ha dato il nullaosta previsto dall’articolo 22 dello Statuto dei lavoratori (legge 300/1970). Il sindacato si oppone quindi al trasferimento rivolgendosi al giudice.
Il tribunale rileva che il trasferimento è stato deciso sulla base di legittime ragioni organizzativo-produttive ma è mancato il presupposto giuridico necessario per lo spostamento di sede di un rappresentante sindacale, ossia il nullaosta sindacale. Il giudice afferma (seguendo l’interpretazione della sentenza 16790/2006 della Cassazione) che la lavoratrice svolgeva effettivamente attività sindacale perché è stata eletta dai lavoratori dell’azienda (non nominata dal sindacato provinciale) e perché diversi lavoratori hanno aderito alla nuova Rsa.
Inoltre, spiega il giudice, il datore ha implicitamente riconosciuto la qualità di sindacalista della dipendente, chiedendo (senza ottenerlo) il nullaosta al sindacato.
Per questo il tribunale accoglie l’opposizione al trasferimento e lo annulla
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.07.2016).

EDILIZIA PRIVATAA norma dell'art. 133, lett. a), del RD n. 268 del 1904 (inserito nei Capo I "Disposizioni per la conservazione delle opere di bonificamento e loro pertinenze"), "Sono lavori, atti o fatti vietati in modo assoluto rispetto ai sopraindicati corsi d'acqua, strade, argini ed altre opere d'una bonificazione: a) le piantagioni di alberi e siepi, le fabbriche, e lo smovimento del terreno dal piede interno ed esterno degli argini e loro accessori o dal ciglio delle sponde dei canali non muniti di argini o dalle scarpate delle strade, a distanza minore di metri 2 pelle piantagioni, di metri i a 2 per le siepi e smovimento del terreno, e di metri 4 a 10 per i fabbricati, secondo l'importanza del corso d'acqua".
A norma dell'art. 96, lett. f), del RD n. 523 del 1904, "Sono lavori ed atti vietati in modo assoluto sulle acque pubbliche, loro alvei, sponde e difese ... le piantagioni di alberi e siepi, le fabbriche, gli scavi e lo smovimento del terreno a distanza dal piede degli argini e loro accessori come sopra, minore di quella stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse località, ed in mancanza di tali discipline, a distanza minore di metri quattro per le piantagioni e smovimento del terreno e di metri dieci per le fabbriche e per gli scavi".
Dalle menzionate disposizioni scaturiscono due diversi regimi:
il primo, concerne le opere di bonifica e le loro pertinenze e prevede, secondo la loro importanza, una distanza minima per i fabbricati che può essere fissata da 4 a 10 metri;
il secondo concerne, invece, tutte le altre acque pubbliche, le loro sponde, alvei e difese e fissa la distanza minima di 10 metri per le fabbriche.
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Svolgimento del processo
L'associazione denominata Comitato contro gli abusi edilizi ed ambientali e per la tutela dell'ambiente nonché quella denominata Legambiente Onlus hanno chiesto al TSAP l'annullamento della deliberazione del consiglio comunale di Grumolo delle Abbadesse con la quale è stata approvata (ai sensi dell'art. 50, comma 4, LR Veneto n. 61 del 1985) la variante al PRG consistente nella modifica dell'art. 40 delle norme tecniche di attuazione (zone di tutela e fasce di rispetto) con riduzione da 10 a 5 metri delle distanze delle costruzioni dai corsi d'acqua pubblici.
Hanno lamentato: la violazione dell'art. 96, lett. f), RD n. 254/1904, a norma del quale le nuove costruzioni devono rispettare una distanza di almeno 10 metri dalle sponde o dai piedi degli argini dei corsi d'acqua pubblici; la violazione dell'art. 50, comma 4, lett. d), della LR Veneto n. 61 del 1985, in relazione all'art. 42 della stessa legge; l'eccesso di potere per contraddittorietà con precedente manifestazione di volontà; l'eccesso di potere per inosservanza della circolare regionale Veneto n. 6 del 1998; l'eccesso di potere per travisamento. In estrema sintesi, le associazioni ricorrenti hanno sostenuto che il limite di rispetto di mt. 10 dagli argini fluviali può essere superato solo sulla scorta di ponderata valutazione di interventi per la miglior tutela idrica.
Il ricorso è stato respinto dal TSAP nella considerazione che il suddetto limite è vincolante non per la generalità dei corpi idrici nel territorio comunale, bensì solo per quelli non inerenti al sistema di bonifica; per i corpi idrici sottoposti alle specifiche competenze di gestione del Consorzio di Bonifica il limite di mt. 10 è, dunque, superabile.
Propongono ricorso per cessazione le suddette associazioni attraverso quattro motivi. Rispondono con controricorso il Comune di Grumolo delle Abbadesse e la Regione Veneto. Il ricorrente ha depositato memoria per l'udienza.
Motivi della decisione
Il primo motivo (violazione art. 96, lett. f), RD n. 523/1904 in combinato disposto con la legge n. 36/1994 e l'art. 144 DLGS n. 152/2006) sostiene che non potrebbe più ritenersi attuale la distinzione tra due regimi vincolistici autonomi, ossia da un lato la generalità delle opere idrauliche (art. 96 cit.) e dall'altro la speciale disciplina dei corsi d'acqua funzionali alla bonifica ed al miglioramento fondiario.
Infatti, con l'avvento della legge n. 36/1994, poi trasfusa nel Codice dell'Ambiente (DLGS cit.), sarebbe stata generalizzata la genetica inerenza pubblicistica della totalità dei corpi idrici, superando del tutto sia il previgente regime di catalogazione, sia l'attrazione delle acque di bonifica ad un regime d'impronta tendenzialmente privatistica, come quello consortile. Sicché, l'originaria demanialità dell'indistinto "bene-acqua" e delle sue pertinenze renderebbe inevitabilmente recessiva la specialità disciplinare delle rete idriche minori, ossia i canali di bonifica.
In conclusione, sarebbe applicabile e cogente la sola regola di polizia idraulica di maggior tutela di cui all'art. 96, lett. f), RD n. 523/1904.
Il motivo è infondato.
A norma dell'art. 133, lett. a), del RD n. 268 del 1904 (inserito nei Capo I "Disposizioni per la conservazione delle opere di bonificamento e loro pertinenze"), "Sono lavori, atti o fatti vietati in modo assoluto rispetto ai sopraindicati corsi d'acqua, strade, argini ed altre opere d'una bonificazione: a) le piantagioni di alberi e siepi, le fabbriche, e lo smovimento del terreno dal piede interno ed esterno degli argini e loro accessori o dal ciglio delle sponde dei canali non muniti di argini o dalle scarpate delle strade, a distanza minore di metri 2 pelle piantagioni, di metri i a 2 per le siepi e smovimento del terreno, e di metri 4 a 10 per i fabbricati, secondo l'importanza del corso d'acqua".
A norma dell'art. 96, lett. f), del RD n. 523 del 1904, "Sono lavori ed atti vietati in modo assoluto sulle acque pubbliche, loro alvei, sponde e difese ... le piantagioni di alberi e siepi, le fabbriche, gli scavi e lo smovimento del terreno a distanza dal piede degli argini e loro accessori come sopra, minore di quella stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse località, ed in mancanza di tali discipline, a distanza minore di metri quattro per le piantagioni e smovimento del terreno e di metri dieci per le fabbriche e per gli scavi".
Dalle menzionate disposizioni scaturiscono due diversi regimi: il primo, concerne le opere di bonifica e le loro pertinenze e prevede, secondo la loro importanza, una distanza minima per i fabbricati che può essere fissata da 4 a 10 metri; il secondo concerne, invece, tutte le altre acque pubbliche, le loro sponde, alvei e difese e fissa la distanza minima di 10 metri per le fabbriche.
Ora, che i due summenzionati regimi siano tuttora in vigore è questione indiscussa nella giurisprudenza e nell'applicazione amministrativa. Né l'avvento della disposizione dell'art. 144 del DLGS n. 152 del 2006 ("Tutte le acque superficiali e sotterranee, ancorché non estratte dal sottosuolo, appartengono al demanio dello Stato") consente di ritenerli implicitamente abrogati, posto che l'oggetto e le esigenze posti a fondamento di ciascuno continuano a giustificarne il vigore. Sicché, legittimamente il Comune ha trasposto nella propria normativa urbanistica i diversi regimi per ciascuno dei diversi corsi d'acqua (Corte di Cassazione, Sezz. unite civili, sentenza 01.07.2016 n. 13532).

PUBBLICO IMPIEGO: Le regole sul riparto di giurisdizione sono fissate dall’art. 63 del t.u. sul pubblico impiego (d.lgs. 165 del 2001), che attribuisce al giudice ordinario “tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2,…incluse le controversie concernenti… il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali…”.
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14. Con la sentenza impugnata, il Consiglio di Stato ha ritenuto sussistente la giurisdizione del giudice amministrativo, ritenendo:
--che la posizione giuridica azionata sia un interesse legittimo e non un diritto soggettivo;
--che la materia rientri nell'art. 119, lett. d), c.p.a. che assegna al giudice amministrativo la giurisdizione di legittimità sui "provvedimenti di nomina adottati previa delibera del consiglio dei ministri", regola estensibile ai provvedimenti di revoca;
--che il TAR, dichiarando la giurisdizione ordinaria, avesse "indebitamente equiparato le posizioni dirigenziali generali, o apicali, alle altre che tale connotazione non rivestono".
15. La soluzione non è condivisibile per i seguenti motivi.
16. Il dott. An. era direttore generale dell'ICE (Istituto per il commercio estero).
17. L'Istituto fu soppresso con d.l. 06.07.2011, n. 98, convertito con modificazioni nella legge 15.07.2011, n. 111, che, contestualmente, trasferì le relative competenze, insieme con risorse umane, finanziarie e strumentali, in parte al Ministero dello sviluppo economico, in altra parte al Ministero degli esteri.
18. Successivamente ampia parte di tali competenze fu trasferita, con d.l. 06.12.2011, n. 201 convertito nella legge 22.12.2011, n. 214, ad una Agenzia, di nuova istituzione.
19. Il Ministero dello sviluppo economico, a seguito del decreto legge di luglio 2011, nominò il dirigente delegato alle attività di gestione transitoria, in persona del dott. Lu..
20. A seguito del decreto legge del dicembre 2011, con d.p.r. 18.04.2012 vennero nominati i componenti del consiglio di amministrazione del nuovo ente e con d.p.r. del 18.06.2012 il dott. Lu. venne nominato direttore generale del nuovo ente.
21. Con provvedimento del 19.06.2012 venne disposta la risoluzione anticipata del rapporto di lavoro con il dott. An. per impossibilità sopravvenuta avendo l'ente ricoperto la posizione di direttore generale con altro dirigente.
22. Come si è visto, il dott. An. agi in giudizio dinanzi al TAR del Lazio chiedendo l'annullamento della revoca dell'incarico di direttore generale dell'ICE. e l'annullamento di atti che riguardano il dott. Lu. e i nuovi componenti del consiglio di amministrazione dell'Istituto, nonché dei verbali di riunione e di tutti i provvedimenti emessi dal nuovo consiglio di amministrazione,
23.
Le regole sul riparto di giurisdizione sono fissate dall'art. 63 del tu. sul pubblico impiego (d.lgs. 165 del 2001), che attribuisce al giudice ordinario "tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, ... incluse le controversie concernenti ... il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali ...".
24. La norma prosegue specificando che eventuali atti amministrativi presupposti rilevanti ai fini della decisione, se illegittimi, devono essere disapplicati dallo stesso giudice ordinario che ha giurisdizione sulla controversia.
25. Con riferimento alle controversie riguardanti il rapporto di lavoro di alti dirigenti, le Sezioni unite hanno affermato che
la giurisdizione ordinaria va affermata "indipendentemente dalla natura subordinata o autonoma del rapporto" e, quel che più conta in questa sede, "indipendentemente dal livello dirigenziale e dalla natura dell'organo che conferisce l'incarico" (Cass., sez. un., 12.06.2006, n. 13538).
26. Tale assetto non ha subito modifiche a seguito della riscrittura dell'art. 19 e ss. del t.u. sul pubblico impiego in materia di dirigenza, operato dalla legge 145 del 2002 (si rinvia alle puntuali spiegazioni di Cass., sez. un., 07.07.2005, n. 14252).
27. Deve inoltre valutarsi
se l'atto impugnato sia un atto di macro organizzazione, perché in tal caso la giurisdizione è del giudice amministrativo (cfr. Cass., sez. un., 09.02.2009, n. 3052).
Tuttavia,
se l'atto di macro-organizzazione costituisce il presupposto del provvedimento adottato nei confronti del dirigente, esso, qualora sia illegittimo deve essere disapplicato dal giudice ordinario che ha giurisdizione sulla controversia (Cass., sez. un., 07.11.2008, n. 26799 e 09.02.2009, n. 3054).
28. Nel caso in esame l'oggetto del ricorso rimane rutto interno alla giurisdizione del giudice ordinario: si chiede l'annullamento dell'atto di revoca dell'incarico del ricorrente e l'annullamento dell'atto di nomina del dott. Lu., nonché dei componenti del consiglio di amministrazione del nuovo ente. Non si impugnano atti di macro- organizzazione e comunque eventuali atti macro-organizzativi a monte potrebbero, se illegittimi, essere disapplicati dal giudice ordinario.
29. Né può giungersi ad una conclusione diversa sulla base di quanto disposto dalla norma del codice del processo amministrativo richiamata dal Consiglio di Stato per fondare la sua diversa conclusione, e cioè l'art. 119, lett. d).
30. A parte la considerazione che essa fa riferimento solo ai provvedimenti di nomina, deve rilevarsi che si tratta di una norma che non regola la giurisdizione, ma il rito, rientrando nel titolo "Riti abbreviati relativi a speciali controversie" ed occupandosi del rito abbreviato comune a determinate materie, soggette a quel rito se ed in quanto rientranti nella giurisdizione amministrativa, in base alle diverse regole che disciplinano la giurisdizione.
31.
Nel caso in esame, come si è detto, tali regole sono dettate dall'art. 63 del d.lgs. 165 del 2001, che attribuisce specificamente al giudice ordinario la giurisdizione sulle controversie in materia di conferimento e revoca degli incarichi dirigenziali, di cui agli artt. 19 e ss. del medesimo decreto legislativo, senza operare distinzioni, come hanno messo in evidenza le Sezioni unite nelle sentenze prima richiamate.
32. Deve, in conclusione, essere dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario (Corte di Cassazione, Sezz. unite civili, sentenza 01.07.2016 n. 13530).

EDILIZIA PRIVATARispetto distanza ex art. 890 c.c.: anche per le canne fumarie vale la presunzione di nocività.
Cassazione: la presunzione assoluta di nocività e pericolosità prescinde da ogni accertamento concreto nel caso in cui vi sia un regolamento edilizio comunale che stabilisca la distanza.
L'articolo 890 del Codice civile dispone che "Chi presso il confine, anche se su questo si trova un muro divisorio, vuole fabbricare forni, camini, magazzini di sale, stalle e simili, o vuol collocare materie umide o esplodenti o in altro modo nocive, ovvero impiantare macchinari, per i quali può sorgere pericolo di danni, deve osservare le distanze stabilite dai regolamenti e, in mancanza, quelle necessarie a preservare i fondi vicini da ogni danno alla solidità, salubrità e sicurezza".
Nel caso in esame, oggetto della sentenza 30.06.2016 n. 13449 della Corte di Cassazione, Sez. II civile, la corte territoriale ha evidenziato che non era prevista, dai vigenti strumenti urbanistici, una distanza orizzontale minima tra le canne fumarie e le proprietà aliene.
In proposito, la suprema Corte ricorda che la costante giurisprudenza di legittimità “afferma che il rispetto della distanza prevista per fabbriche e depositi nocivi e pericolosi dall'articolo 890 c.c., nella cui regolamentazione rientrano anche i comignoli con canna fumaria, è collegato ad una presunzione assoluta di nocività e pericolosità che prescinde da ogni accertamento concreto nel caso in cui vi sia un regolamento edilizio comunale che stabilisca la distanza medesima, mentre, in difetto di una disposizione regolamentare, si ha una presunzione di pericolosità relativa, che può essere superata ove la parte interessata al mantenimento del manufatto dimostri che, mediante opportuni accorgimenti, può ovviarsi al pericolo od al danno del fondo vicino”.
Quindi, conclude la Cassazione, “la corte di merito ha correttamente accertato che, alla luce della lacuna contenuta nel regolamento edilizio locale, dovesse essere imposto un arretramento della canna fumaria per scongiurare ogni pericolo per il fondo confinante (la cui concreta esistenza era stata acclarata), assumendo, altresì, che l'installazione di accorgimenti con funzione di separazione risultava del tutto inidonea. A tal fine ha evidenziato che l'installazione di un siffatto dispositivo non poteva considerarsi risolutivo visto che l'art. 890 c.c. presume la pericolosità dei camini anche se tra questi ed il fondo del vicino vi sia un muro divisorio” (commento tratto da www.casaeclima.com).
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MASSIMA
Quanto alla violazione dell'articolo 890 c.c., esso dispone: "Chi presso il confine, anche se su questo si trova un muro divisorio, vuole fabbricare forni, camini, magazzini di sale, stalle e simili, o vuol collocare materie umide o esplodenti o in altro modo nocive, ovvero impiantare macchinari, per i quali può sorgere pericolo di danni, deve osservare le distanze stabilite dai regolamenti e, in mancanza, quelle necessarie a preservare i fondi vicini da ogni danno alla solidità, salubrità e sicurezza".
La corte territoriale ha evidenziato che, nella specie, non era prevista, dai vigenti strumenti urbanistici, una distanza orizzontale minima tra le canne fumarle e le proprietà aliene.
La costante giurisprudenza di legittimità afferma che
il rispetto della distanza prevista per fabbriche e depositi nocivi e pericolosi dall'articolo 890 c.c., nella cui regolamentazione rientrano anche i comignoli con canna fumaria, è collegato ad una presunzione assoluta di nocività e pericolosità che prescinde da ogni accertamento concreto nel caso in cui vi sia un regolamento edilizio comunale che stabilisca la distanza medesima, mentre, in difetto di una disposizione regolamentare, si ha una presunzione di pericolosità relativa, che può essere superata ove la parte interessata al mantenimento del manufatto dimostri che, mediante opportuni accorgimenti, può ovviarsi al pericolo od al danno del fondo vicino (per tutte: Cass. 22.10.2009, n. 22389; Cass. 06.03.2002, n. 3199).
La corte di merito ha correttamente accertato, quindi, che,
alla luce della lacuna contenuta nel regolamento edilizio locale, dovesse essere imposto un arretramento della canna fumaria per scongiurare ogni pericolo per il fondo confinante (la cui concreta esistenza era stata acclarata), assumendo, altresì, che l'installazione di accorgimenti con funzione di separazione risultava del tutto inidonea.
A tal fine ha evidenziato che
l'installazione di un siffatto dispositivo non poteva considerarsi risolutivo visto che l'art. 890 c.c. presume la pericolosità dei camini anche se tra questi ed il fondo del vicino vi sia un muro divisorio. Proposizione, questa, senz'altro congrua, come tale incensurabile in questa sede.

EDILIZIA PRIVATA: La normativa applicabile all’istanza del rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, in sanatoria o meno, non può che essere quella del momento in cui l’autorizzazione deve essere rilasciata e non quella vigente al momento della domanda.
Ciò in conformità al noto principio del tempus regit actum che disciplina la successione di norme nel tempo nell’ambito del procedimento amministrativo, sancendo il principio secondo cui ogni atto deve essere adottato in base alla disciplina vigente al momento della sua adozione.
Tale principio generale è applicabile anche in materia di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica (Cons. Stato n. 6878/2011 e Cons. Stato n. 3886/2012, secondo le quali laddove la conclusione del procedimento per il rilascio dell'autorizzazione paesaggistica sia avvenuta successivamente all'entrata in vigore dell'art. 146 comma 10, lett. c), d.lgs. 22.01.2004 n. 42 non può che applicarsi l'art. 146, comma 10, lett. c), citato, secondo il principio tempus regit actum, per il quale la legittimità degli atti amministrativi deve essere rapportata alla situazione di diritto riscontrabile alla data della relativa emanazione).
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Nel caso di specie, iancorché sia passato un lasso di tempo lunghissimo dalla domanda di sanatoria la normativa applicabile non poteva che essere quella vigente al momento dell’adozione dell’atto, non potendosi ammettere un rilascio dell’autorizzazione con riferimento alla disciplina vigente al momento della domanda, secondo il principio dell’“ora per allora”, invocato da parte ricorrente.
Il ritardo nell’adozione del provvedimento potrebbe, infatti, assumere rilevanza solo al fine di produrre eventuali conseguenze a livello risarcitorio, al ricorrere dei necessari presupposti per la sussistenza di un illecito risarcibile, di cui si tratterà nel prosieguo.
D’altra parte il privato avrebbe avuto un valido strumento per compulsare l’amministrazione a provvedere, quale l’azione per il silenzio, eventualmente riproponendo la domanda alla scadenza del termine per la sua proposizione.

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1) Il ricorso si rivela infondato.
Con il primo motivo di ricorso parte ricorrente lamenta l’illegittimità del provvedimento di diniego del nulla osta paesaggistico in sanatoria, per l’erroneità della motivazione di rigetto dell’amministrazione che ha ritenuto come, a fronte del sopravvenuto art. 27 del D.Lgs. n. 157/2006, non sarebbe ormai più possibile il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica per immobili già realizzati.
Parte ricorrente deduce al riguardo che il suddetto nulla osta paesaggistico era stato chiesto nel 1991 e, quindi, in un periodo in cui l’ordinamento ammetteva l’autorizzazione paesaggistica postuma. Il rilascio dello stesso è stato impedito solo dall’inerzia della p.a. che ha violato il suo obbligo di provvedere entro i termini di legge, pronunciandosi oltre venti anni dopo.
La medesima autorizzazione, sempre secondo parte ricorrente, potrebbe quindi essere rilasciata ora per allora, essendo peraltro il manufatto in questione perfettamente conforme al piano paesaggistico della Comunità Montana di “Monte Santa Croce”.
La censura è infondata.
Attualmente l’art. 146, comma 4, l’art. 159, comma 5, e l’art. 167, comma 4 e 5, del d.lgs. 22/01/2004, n. 42 (Codice dei beni culturali) non consentono la sanatoria edilizia di interventi realizzati in assenza o in difformità dall'autorizzazione paesaggistica, ammettendo il rilascio di un provvedimento di compatibilità soltanto nel caso di abusi minori (Cons. Stato Sez. VI, 26.03.2014, n. 1472; Sez. VI, 30.05.2014, n. 2806)
In particolare, l’art. 146, comma 4, del d.lgs. n. 42 del 22.01.2004, recante il Codice dei beni culturali e del paesaggio, ha vietato, salvo casi eccezionali, il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica postuma, stabilendo che al di fuori dei limitati casi «di cui all’articolo 167, commi 4 e 5, l’autorizzazione non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi».
La normativa applicabile all’istanza del rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, in sanatoria o meno, non può che essere quella del momento in cui l’autorizzazione deve essere rilasciata e non quella vigente al momento della domanda.
Ciò in conformità al noto principio del tempus regit actum che disciplina la successione di norme nel tempo nell’ambito del procedimento amministrativo, sancendo il principio secondo cui ogni atto deve essere adottato in base alla disciplina vigente al momento della sua adozione.
Tale principio generale è applicabile anche in materia di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica (Cons. Stato, sez. VI 28.12.2011 n. 6878 e Cons. Stato Sez. V, 03.07.2012, n. 3886, secondo le quali laddove la conclusione del procedimento per il rilascio dell'autorizzazione paesaggistica sia avvenuta successivamente all'entrata in vigore dell'art. 146 comma 10, lett. c), d.lgs. 22.01.2004 n. 42 non può che applicarsi l'art. 146, comma 10, lett. c), citato, secondo il principio tempus regit actum, per il quale la legittimità degli atti amministrativi deve essere rapportata alla situazione di diritto riscontrabile alla data della relativa emanazione).
L’atto di diniego si rivela, quindi, legittimo, in forza dell’ormai vigente divieto di autorizzazione paesaggistica postuma.
Nel caso di specie, infatti, ancorché sia passato un lasso di tempo lunghissimo dalla domanda di sanatoria la normativa applicabile non poteva che essere quella vigente al momento dell’adozione dell’atto, non potendosi ammettere un rilascio dell’autorizzazione con riferimento alla disciplina vigente al momento della domanda, secondo il principio dell’“ora per allora”, invocato da parte ricorrente.
Il ritardo nell’adozione del provvedimento potrebbe, infatti, assumere rilevanza solo al fine di produrre eventuali conseguenze a livello risarcitorio, al ricorrere dei necessari presupposti per la sussistenza di un illecito risarcibile, di cui si tratterà nel prosieguo.
D’altra parte il privato avrebbe avuto un valido strumento per compulsare l’amministrazione a provvedere, quale l’azione per il silenzio, eventualmente riproponendo la domanda alla scadenza del termine per la sua proposizione (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 30.06.2016 n. 3312 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTINelle gare pubbliche il punteggio numerico assegnato ai vari elementi di valutazione dell'offerta integra di per sé una sufficiente motivazione, allorché siano prefissati con chiarezza ed adeguato grado di dettaglio.
Per consolidato orientamento giurisprudenziale, nelle gare pubbliche, il punteggio numerico assegnato ai vari elementi di valutazione dell'offerta, integra di per sé una sufficiente motivazione, allorché, come nel caso di specie, siano prefissati con chiarezza ed adeguato grado di dettaglio i criteri in base ai quali la Commissione deve esprimere il proprio apprezzamento, di modo che sia consentito ripercorrere il percorso valutativo compiuto e quindi controllare la logicità e la congruità del giudizio tecnico.
Pertanto, nel caso di specie non sussisteva alcun dovere di motivare, e ciò ancorché, in relazione a taluni parametri, la Commissione, pur non essendovi tenuta e quindi ad abundantiam, abbia ritenuto, per un qualunque motivo, di dover spiegare le ragioni delle proprie scelte.
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Affinché la censura di sviamento di potere possa ritenersi fondata occorre che gli elementi emersi rivelino in modo indubbio il dissimulato scopo dell'atto, condizione questa, che nella specie, non si rinviene. In particolare, non costituisce, di per se solo, sintomo di sviamento di potere, il fatto che nell'ambito di una commissione di gara uno dei suoi componenti si esprima con giudizi divergenti da quelli degli altri e sempre a favore di uno solo dei concorrenti.
Per un verso, l'eventualità di giudizi differenti all'interno di un organo collegiale è connaturale alla sua stessa composizione pluripersonale, per altro verso, la circostanza che uno dei componenti si esprima sempre a favore di uno dei concorrenti, non è sintomo, in assenza di ulteriori elementi di riscontro, di un vizio della valutazione.
Né l'irragionevolezza di quest'ultima può trarsi dal fatto che una consulenza di parte abbia diversamente giudicato le proposte dei concorrenti in gara, essendo l'apprezzamento tecnico-discrezionale di queste riservato in via esclusiva alla Commissione, il cui giudizio non può essere sostituito, né da quello del giudice, né tanto meno da quello di un perito di parte (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.06.2016 n. 2912 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATAIn giurisprudenza è largamente prevalente il principio secondo il quale il provvedimento di annullamento di concessione edilizia illegittima è da ritenersi in re ipsa correlato alla necessità di curare l’interesse pubblico concreto ed attuale al ripristino della legalità violata, atteso che il rilascio del titolo edilizio comporta la sussistenza di una permanente situazione contra legem e di conseguenza ingenera nell’Amministrazione il potere-dovere di annullare in ogni tempo la concessione illegittimamente assentita.
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Quanto alla lamentata violazione delle c.d garanzie partecipative, per non essere state riscontrate dall’Amministrazione le prodotte osservazioni, vale osservare che il dovere di esame delle memorie prodotte dall’interessato a seguito di comunicazione dell’avvio del procedimento non comporta la necessità di confutazione analitica delle allegazioni presentate essendo sufficiente che il provvedimento amministrativo sia corredato da una motivazione che renda nella sostanza percepibile la ragione del mancato adeguamento da parte della P.A. alle deduzioni difensive del privato.

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L’attività di repressione degli abusi edilizi, dopo il loro accertamento, deve reputarsi vincolata per l’Amministrazione senza che quest’ultima debba di propria iniziativa valutare la possibilità della sanzione alternativa.
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8. L’appello (volto a veder riformata la parte sfavorevole del decisum) è infondato e va conseguentemente respinto.
Preliminarmente il Collegio osserva che:
a) l’oggetto della controversia è il provvedimento n. 9/2008 con cui il Comune di Castellammare di Stabia ha annullato in via di autotutela la concessione edilizia n. 18/85 avente ad oggetto la realizzazione di un campo sportivo e di locali adibiti a spogliatoio e servizi su terreni siti in zona destinata a verde pubblico attrezzato e agricola, in quanto non conforme alla normativa urbanistica vigente;
b) con la sentenza oggetto dell’odierna impugnativa il TAR ha statuito che il campo di calcio in sé è compatibile con le su indicate destinazioni d’uso impresse alla zona, mentre altrettanto non può dirsi per le opere murarie costituiti dai locali adibiti a spogliatoio e servizi che mal si conciliano con la zona agricola;
c) in sintonia con la relativa eccezione sollevata dal controinteressato (pagina 9 della memoria conclusionale) che le censure sollevate per la prima volta in questo grado sono inammissibili per violazione del divieto dei nova sancito dall’art. 345 c.p.c. ratione temporis vigente (oggi art. 104 c.p.a.).
8.1. Con il primo, articolato motivo parte appellante censura in primo luogo il potere di autotutela come esercitato dall’Amministrazione comunale sotto vari profili così riassumibili:
a) manca nella specie un interesse concreto ed attuale all’annullamento tenuto conto in particolare che la struttura sportiva sarebbe comunque conforme alle sopravvenute prescrizioni urbanistiche (B3);
b) l’autoannullamento non è accompagnato dalla necessaria motivazione sull’interesse pubblico all’esercizio del potere discrezionale ;
c) è stata obliterata la pur rilevante posizione del privato e in particolare l’affidamento di quest’ultimo costituito dalla legittimità del titolo all’epoca della realizzazione delle opere e dagli investimenti effettuati al riguardo;
d) i provvedimenti gravati non recano alcuna valutazione dell’apporto partecipativo del privato formulato con le prodotte osservazioni.
Inoltre si lamenta la mancata applicazione della sanzione pecuniaria ai sensi dell’art. 38 del DPR n. 380/2001 in luogo della irrogata demolizione.
8.1.1. I profili di doglianza non appaiono condivisibili.
Le suddette censure, da esaminarsi congiuntamente, sono rivolte non già a criticare l’an dell’esercitato potere di autotutela, bensì la motivazione su cui si fonda lo ius poenitendi posto in essere dal Comune.
Ebbene, si osserva che in giurisprudenza è largamente prevalente il principio secondo il quale il provvedimento di annullamento di concessione edilizia illegittima è da ritenersi in re ipsa correlato alla necessità di curare l’interesse pubblico concreto ed attuale al ripristino della legalità violata, atteso che il rilascio del titolo edilizio comporta la sussistenza di una permanente situazione contra legem e di conseguenza ingenera nell’Amministrazione il potere-dovere di annullare in ogni tempo la concessione illegittimamente assentita (Cons. Stato, Sez. V, n. 2060 del 2014 sulla limitata portata dell’obbligo di motivazione dell’autotutela in materia edilizia; Sez. IV, 8291 del 2010 e 05/02/1998 n. 198, circa il rilievo dell’interesse pubblico all’interno dei presupposti generali in tema di autotutela edilizia).
Ciò detto, anche a voler “scendere” per assurdo sul piano argomentativo fatto valere dalla parte appellante, non può condividersi l’assunto che le opere de quibus sarebbero conformi all’attuale destinazione urbanistica di zona (B3) e tale compatibilità farebbe venir meno ogni esigenza di tutela del pubblico interesse sottesa all’adottato provvedimento di autotutela.
Invero, al di là del fatto che l’istituto dell’annullamento d’ufficio a differenza della revoca è ancorato al passato, nel senso che il giudizio di illegittimità è collegato al momento del rilascio del titolo illegittimamente rilasciato, nondimeno non sussiste conformità urbanistica nemmeno all’attualità posto che l’area ricade per la gran parte in zona F16 “zona a parcheggi a raso” e solo in parte in B3 per la quale sussistono le limitazioni imposte dalla L.R. Campania n. 35/1987 (c.d. PUT Area Costiera Sorrentino- Amalfitana).
Quanto poi alla lamentata violazione delle c.d. garanzie partecipative, per non essere state riscontrate dall’Amministrazione le prodotte osservazioni, vale osservare che il dovere di esame delle memorie prodotte dall’interessato a seguito di comunicazione dell’avvio del procedimento non comporta la necessità di confutazione analitica delle allegazioni presentate essendo sufficiente che il provvedimento amministrativo sia corredato da una motivazione che renda nella sostanza percepibile la ragione del mancato adeguamento da parte della P.A. alle deduzioni difensive del privato (Cons. Stato Sez. V, 10/12/2012 n. 2701; 05/10/2005 n. 5365; 10/09/2009 n. 5424), cosa che nel caso di specie emerge agevolmente dalla lettura dell’atto impugnato.
Gli esponenti poi a proposito dell’ordinanza di riduzione in pristino stato, lamentano la violazione dell’art. 38 del testo unico sull’edilizia, in quanto l’Amministrazione anziché disporre la riduzione in pristino avrebbe dovuto valutare l’applicabilità della norma invocata che pure prevede in taluni casi a seguito dell’annullamento del titolo edilizio l’irrogazione della sanzione pecuniaria in luogo di quella ripristinatoria.
La doglianza non ha pregio, posto che l’attività di repressione degli abusi edilizi, dopo il loro accertamento, deve reputarsi vincolata per l’Amministrazione senza che quest’ultima debba di propria iniziativa valutare la possibilità della sanzione alternativa.
In ogni caso siamo in presenza di una difformità in senso sostanziale che impedisce il mantenimento delle opere illegittimamente assentite ed eseguite, non essendo, in particolare rimuovibili i vizi del titolo
ad aedificandum (cfr. sul punto specifico Cons. Stato, Sez. V, n. 2194 del 2014; Sez. V, n. 1687 del 2007 circa la prevalenza dell’interesse alla tutela dell’ambiente e del paesaggio; Sez. V, n. 5926 del 2001, circa la doverosità dell’autotutela edilizia in caso di contrasto con la destinazione di zona) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.06.2016 n. 2885 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANello schema normativo di cui all’art. 34 del d.P.R. n. 380/2001, l’ingiunzione di demolizione rivolta nei riguardi dei responsabili dell’abuso costituisce la prima ed obbligatoria fase del procedimento repressivo, in quanto ha natura di diffida e presuppone solo un giudizio di tipo analitico-ricognitivo dell’abuso commesso, mentre il giudizio sintetico-valutativo, di natura discrezionale, circa la rilevanza dell’abuso e la possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione pecuniaria (disciplinato dal comma 2 della disposizione citata) può essere effettuato soltanto in una seconda fase, cioè quando il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente alla demolizione e l’organo competente emana l’ordine (questa volta non indirizzato all’autore dell’abuso, ma ai competenti uffici comunali in materia di sanzioni edilizie) di esecuzione in danno della demolizione delle opere realizzate in parziale difformità dal permesso di costruire.
Alla luce di quanto sopra, è evidente che il gravato atto di accertamento di inottemperanza all’ordinanza di demolizione -dell’Area Tecnica del Comune- costituisce lo spartiacque delle suddette due fasi procedimentali ed assume portata semplicemente ricognitiva, al pari di un comune verbale della Polizia Municipale di accertamento di infrazione alle norme edilizie, dell’inottemperanza all’impartita diffida a demolire in funzione preparatoria dell’eventuale demolizione in danno.

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E' applicabile al caso di specie il consolidato principio secondo il quale il verbale di accertamento di infrazione alle norme edilizie ha valore di atto endoprocedimentale, strumentale alle successive determinazioni dell’ente comunale, ed ha efficacia meramente dichiarativa delle operazioni effettuate dalla Polizia Municipale, alla quale per l’occasione non sono attribuite prerogative di adozione di atti di amministrazione attiva, all’uopo occorrendo che la competente autorità amministrativa faccia proprio l’esito delle predette operazioni attraverso un formale atto di repressione dell’illecito.
Ne discende che, in quanto tale, detto verbale non assume quella portata lesiva che sia in grado di attualizzare l’interesse alla tutela giurisdizionale, portata lesiva invece ravvisabile soltanto nella successiva ordinanza demolitoria, con cui l’autorità amministrativa recepisce gli esiti dei sopralluoghi effettuati dalla Polizia Municipale e forma il provvedimento ripristinatorio dell’ordine giuridico violato.
Ne deriva che l’atto quivi impugnato (nota di accertamento di inottemperanza all’ordinanza di demolizione), attesa la sua natura eminentemente dichiarativa, accentuata dalla ulteriore qualificazione dello stesso quale atto di avvio del procedimento demolitorio d’ufficio, non è in grado di apportare alcuna lesione della posizione giuridica dei ricorrenti.
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... per l'annullamento della nota dell’Area Tecnica del Comune di Marano di Napoli n. 02/16 del 10.03.2016, recante l’accertamento di inottemperanza all’ordinanza di demolizione n. 13/13 del 03.05.2013 emessa nei confronti dei ricorrenti per la realizzazione di una tettoia in legno in parziale difformità dal permesso di costruire, nonché di ogni atto ad essa preordinato, connesso e conseguente.
...
Premesso che:
- con il presente gravame è impugnato un atto di accertamento di inottemperanza ad un’ordinanza di demolizione, emessa nei confronti dei ricorrenti ai sensi dell’art. 34 del d.P.R. n. 380/2001 per la realizzazione di una tettoia in legno in parziale difformità dal permesso di costruire;
- tale atto è qualificato dall’amministrazione emittente anche quale “avvio del procedimento per la procedura di demolizione a cura del Comune”;
Rilevato che:
- nello schema normativo di cui all’art. 34 del d.P.R. n. 380/2001, l’ingiunzione di demolizione rivolta nei riguardi dei responsabili dell’abuso costituisce la prima ed obbligatoria fase del procedimento repressivo, in quanto ha natura di diffida e presuppone solo un giudizio di tipo analitico-ricognitivo dell’abuso commesso, mentre il giudizio sintetico-valutativo, di natura discrezionale, circa la rilevanza dell’abuso e la possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione pecuniaria (disciplinato dal comma 2 della disposizione citata) può essere effettuato soltanto in una seconda fase, cioè quando il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente alla demolizione e l’organo competente emana l’ordine (questa volta non indirizzato all’autore dell’abuso, ma ai competenti uffici comunali in materia di sanzioni edilizie) di esecuzione in danno della demolizione delle opere realizzate in parziale difformità dal permesso di costruire (cfr. TAR Lazio Roma, Sez. I, 04.04.2012 n. 3105);
- alla luce di quanto sopra, è evidente che il gravato atto di accertamento dell’Area Tecnica del Comune costituisce lo spartiacque delle suddette due fasi procedimentali ed assume portata semplicemente ricognitiva, al pari di un comune verbale della Polizia Municipale di accertamento di infrazione alle norme edilizie, dell’inottemperanza all’impartita diffida a demolire in funzione preparatoria dell’eventuale demolizione in danno;
Considerato che:
- pertanto, è applicabile al caso di specie il consolidato principio secondo il quale il verbale di accertamento di infrazione alle norme edilizie ha valore di atto endoprocedimentale, strumentale alle successive determinazioni dell’ente comunale, ed ha efficacia meramente dichiarativa delle operazioni effettuate dalla Polizia Municipale, alla quale per l’occasione non sono attribuite prerogative di adozione di atti di amministrazione attiva, all’uopo occorrendo che la competente autorità amministrativa faccia proprio l’esito delle predette operazioni attraverso un formale atto di repressione dell’illecito; ne discende che, in quanto tale, detto verbale non assume quella portata lesiva che sia in grado di attualizzare l’interesse alla tutela giurisdizionale, portata lesiva invece ravvisabile soltanto nella successiva ordinanza demolitoria, con cui l’autorità amministrativa recepisce gli esiti dei sopralluoghi effettuati dalla Polizia Municipale e forma il provvedimento ripristinatorio dell’ordine giuridico violato (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 17.06.2014 n. 3097);
- ne deriva che l’atto quivi impugnato, attesa la sua natura eminentemente dichiarativa, accentuata dalla ulteriore qualificazione dello stesso quale atto di avvio del procedimento demolitorio d’ufficio, non è in grado di apportare alcuna lesione della posizione giuridica dei ricorrenti;
Ritenuto, in conclusione, che:
- l’appurata non lesività del gravato atto di accertamento non può non determinare l’inammissibilità del ricorso per carenza di interesse (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 24.06.2016 n. 3242 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Il segretario non fa parte della commissione. Consiglio di Stato.
Il segretario di una commissione giudicatrice di un appalto non fa parte della commissione e non altera il numero dei suoi componenti, sempre dispari. Possibile nominare presidente il Responsabile unico del procedimento.

Lo precisa il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 23.06.2016 n. 2812 con riguardo a una gara di appalto, svolta con il metodo del prezzo più basso, per l'affidamento dei servizi di trasporto e smaltimento di varie tipologie di rifiuti, suddivisa in 12 lotti.
Nel ricorso era stato preliminarmente eccepito che i plichi contenenti la documentazione amministrativa degli offerenti fossero stati aperti dal responsabile del procedimento con l'ausilio di due testimoni, in difformità da quanto prescritto dalla legge e della lex specialis.
I giudici rilevano che la commissione di gara, poi costituita, ha preso che si è trattato di attività preliminare e propedeutica ha convalidato le operazioni materiali svolte in precedenza, con ciò dimostrando l'insussistenza di irregolarità priva di valenza invalidante. Un altro punto riguardava la nomina del presidente nella persona del responsabile del procedimento.
La sentenza precisa che nel caso specifico erano le norme di gara a prevedere che la commissione sia presieduta di norma da un dirigente della stazione appaltante e che i commissari diversi dal presidente non devono aver svolto né possono svolgere alcun'altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto da affidare.
Pertanto, a contrario, la funzione di presidente della commissione può ben essere assunta da chi abbia svolto o svolga attività o funzioni afferenti il contratto cui la gara si riferisce. Come era nel caso esaminato in cui presidente era il Rup «che fisiologicamente svolge attività o funzioni afferenti il contratto cui la gara si riferisce». Anche su questo la giurisprudenza aveva affermato che nessuna norma impedisce il cumulo di compiti di Rup e di presidente della commissione.
Diversamente il nuovo codice dei contratti (art. 77) stabilisce che il presidente della commissione giudicatrice sia individuato dalla stazione appaltante tra i commissari sorteggiati da un apposito elenco Anac da costituire ai sensi dell'articolo 78 dello stesso codice, escludendo implicitamente il Rup (articolo ItaliaOggi dell'01.07.2016).
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MASSIMA
4. Per quanto riguarda la composizione della commissione di gara, non sussiste la violazione del principio generale che impone un numero dispari di membri.
Essa, infatti, è stata costituita con tre membri effettivi, titolari del potere di voto, e da un segretario verbalizzante, il quale non fa parte del collegio, non potere di voto e svolge mere attività di supporto burocratico ai compiti valutativi e decisionali appartenenti esclusivamente alla Commissione.
Come ha chiarito da tempo la giurisprudenza di questo Consiglio (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 22.10.2007, n. 5502; Sez. II, 12.07.1995, n. 1772; Sez. II, 27.09.1989, n. 894; Sez. V, 07.07.1987, n. 463; Sez. II, 18.02.1981, n. 1307),
il segretario verbalizzante, in quanto tale, è privo di diritto di voto e non va computato nel novero dei membri della commissione giudicatrice, che costituisce un collegio perfetto con riferimento esclusivamente ai suoi membri effettivi.
5. Per quanto riguarda la funzione di Presidente della Commissione di gara, si deve rilevare che la tesi dell’appellante è confutata dal dato testuale di cui all’art. 84, commi 3 e 4, d.lgs. n. 163 del 2006 che dispone che “La commissione è presieduta di norma da un dirigente della stazione appaltante” e che “I commissari diversi dal Presidente non devono aver svolto né possono svolgere alcun’altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta”.
Pertanto, a contrario,
tale norma (segnatamente il comma 4) consente espressamente che la funzione di Presidente della Commissione sia assunta da chi abbia svolto o svolga attività o funzioni afferenti il contratto cui la gara si riferisce, ammettendo così che tale posizione possa essere assunta anche dal RUP che fisiologicamente svolge attività o funzioni afferenti il contratto cui la gara si riferisce.
Peraltro, la giurisprudenza amministrativa ha chiarito che
nessuna norma impedisce il cumulo di compiti di RUP e di Presidente della commissione proprio sulla base del predetto comma 4 del citato art. 84 cit. che conferma indirettamente la legittimità di tale cumulo prevedendo limiti solo per i commissari diversi dal presidente (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 23.10.2012, n. 5408; Sez. V, 27.04.2012, n. 2445).

APPALTI: Chi ha pendenze accede alle gare. Sentenza Tar Lecce referenze e appalti.
Può ancora concorrere all'appalto l'impresa che pure ha vecchie pendenze con altri comuni, rimasti insoddisfatti dei suoi servigi. E ciò perché l'esclusione dalla gara per «gravi negligenze» può essere disposta soltanto per comprovati motivi, mentre l'amministrazione non può decretare lo stop senza considerare che invece l'azienda partecipante alla procedura ha ricevuto di recente un certificato di regolare esecuzione del servizio da un altro ente.

È quanto emerge dalla sentenza 23.06.2016 n. 1021, pubblicata dalla I Sez. del TAR Puglia-Lecce.
Referenze ignorate. L'articolo 38, comma 1, lettera f), del codice dei contratti pubblici parla chiaro. Può restare fuori dalla procedura di affidamento soltanto l'impresa in malafede o che commette un grave errore nell'eseguire la prestazione. La stazione appaltante che opta per l'estromissione può dimostrare l'inadempienza con qualsiasi mezzo di prova, ma deve motivare la sua decisione. E nella specie risulta troppo avventato lo stop imposto all'azienda interessata all'affidamento del servizio di igiene urbana.
Il fatto è che l'ente locale non si fida: tre comuni campani con cui ha lavorato l'impresa hanno riscontrato inadempienze nel servizio. Ma fra l'azienda e le amministrazioni locali pendono ancora cause in proposito. E per tre interlocutori che si lamentano ce ne sono altrettanti che si dicono soddisfatti della raccolta dei rifiuti curata dalla società, per di più in epoca più recente rispetto agli altri. Chi ha ragione? Chissà.
Certo è che l'estromissione risulta illegittima perché l'amministrazione prima di ricorrere a provvedimenti definitivi deve verificare l'entità delle inadempienze contestate e soprattutto tenere conto delle giustificazioni portate dall'impresa interessata.
Impossibile, insomma, decretare il game over senza effettuare la comparazione con le referenze positive che arrivano da un altro comune, che attesta la diligenza dell'azienda nei lavori. All'amministrazione locale non resta che pagare le spese di giudizio alla società (articolo ItaliaOggi del 02.07.2016).
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MASSIMA
2. Con i vari motivi di gravame, che possono essere trattati congiuntamente, per comunanza delle relative censure, deduce la ricorrente l’illegittimità dell’atto impugnato, per avere l’Amministrazione escluso la prima della gara sulla base di presupposti –la sussistenza di gravi errori nell’esercizio dell’attività professionale, ai sensi dell’art. 38, co. 1, lett. f), d.lgs. n. 163/2006– non rispondenti all’obiettiva realtà fattuale.
Le censura è fondata.
2.1. Ai sensi dell’art. 38, co. 1, lett. f), cod. appalti, sono esclusi dalla partecipazione alla procedura di affidamento gli operatori economici: “che secondo motivata valutazione della stazione appaltante, hanno commesso grave negligenza o malafede nell'esecuzione delle prestazioni affidate dalla stazione appaltante che bandisce la gara; o che hanno commesso un errore grave nell'esercizio della loro attività professionale, accertato con qualsiasi mezzo di prova da parte della stazione appaltante”.
2.2. Tanto premesso, si legge nell’impugnato provvedimento che la ricorrente è stata esclusa dalla partecipazione alla gara in esame per asserite inadempienze riscontrate in relazione a servizi analoghi resi dalla ricorrente nei confronti dei Comuni di Vico del Gargano e di Afragola.
Sennonché, vi sono in atti attestazioni di regolare espletamento del servizio oggetto di appalto rilasciate dai Comuni di Lizzano, Catanzaro e Squillace, per periodi assai prossimi a quello attuale, e sotto altro profilo, vi è contestazione delle inadempienze riscontrate dai Comuni di Vico del Gargano e Afragola (inadempienze poste a base dell’impugnata esclusione), con instaurazione, da parte della ricorrente, dei relativi giudizi, tuttora pendenti.
Alla luce dei tali emergenze documentali,
è evidente l’illegittimità dell’impugnato provvedimento, avendo l’Amministrazione posto a base dell’impugnata esclusione presunte gravi negligenze della ricorrente nell’esecuzione di altri appalti, ben lungi dall’essere provate, senza operare alcuna verifica circa l’entità delle stesse e le giustificazioni addotte dalla ricorrente, e soprattutto, senza effettuare alcuna comparazione con altra documentazione –certificato di regolare esecuzione del servizio rilasciato dal Comune di Catanzaro per periodo prossimo a quello in esame– parimenti riguardante la diligenza della ricorrente nell’espletamento del servizio affidato.
3. Alla luce di tali considerazioni, il ricorso è fondato.

EDILIZIA PRIVATAIl cambio di destinazione, da capannone industriale ad immobile commerciale impone di norma la ristrutturazione ed il frazionamento dei preesistenti locali, con aumento del loro numero e conseguenti ricadute sull’assetto urbanistico locale.
Ne consegue che, in virtù delle previsioni di cui agli articoli 10 e 22 menzionato d.p.r. n. 380/2001, trattandosi di cambio di destinazione d’uso che incide sul carico urbanistico, si rende necessario quale titolo autorizzatorio il permesso di costruire.
Come chiarito infatti da condivisibile giurisprudenza, anche della Suprema corte di Cassazione, solo il cambio di destinazione d'uso fra categorie edilizie omogenee non necessita di permesso di costruire (in quanto non incide sul carico urbanistico), mentre, allorché intervenga tra categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, integra una modificazione edilizia con effetti incidenti sul carico urbanistico, con conseguente assoggettamento al regime del permesso di costruire, indipendentemente dall'esecuzione di opere.

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L’art. 23-ter d.p.r. 380/2001 -inserito nel testo unico dell’edilizia, dall'articolo 17, comma 1, lett. n), del D.L. n. 133 del 2014, convertito con modificazioni dalla Legge n. 164 del 2014- chiarisce che l’utilizzo di un immobile da categoria funzionale “produttiva e direzionale” (comma 1, lett. b) a “commerciale” (comma 1, lett. c) rientra tra i casi in cui, “Salva diversa previsione da parte delle leggi regionali, si verifica un “mutamento rilevante della destinazione d'uso … dell'immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata dall'esecuzione di opere edilizie”.
Il legislatore statale ha quindi escluso, e non poteva essere diversamente, carattere di omogeneità tra la destinazione commerciale e quella industriale produttiva di un immobile, considerate categorie funzionali tra loro diverse e non assimilabili a fronte delle evidenti diverse implicazioni in termini di carichi urbanistici ed impatto complessivo sul territorio.
E’ sufficiente considerare -a tacere delle inevitabili modificazioni in termini di volumi, superfici e prospetti- che il cambio di destinazione, da capannone industriale ad immobile commerciale, richiesto dalla Cooperativa al Ri., imponga di norma la ristrutturazione ed il frazionamento dei preesistenti locali, con aumento del loro numero e conseguenti ricadute sull’assetto urbanistico locale.
Ne consegue che, in virtù delle previsioni di cui agli articoli 10 e 22 menzionato d.p.r. n. 380/2001, trattandosi di cambio di destinazione d’uso che incide sul carico urbanistico, si rende necessario quale titolo autorizzatorio il permesso di costruire.
Come chiarito infatti da condivisibile giurisprudenza, anche della Suprema corte di Cassazione, solo il cambio di destinazione d'uso fra categorie edilizie omogenee non necessita di permesso di costruire (in quanto non incide sul carico urbanistico), mentre, allorché intervenga tra categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, integra una modificazione edilizia con effetti incidenti sul carico urbanistico, con conseguente assoggettamento al regime del permesso di costruire, indipendentemente dall'esecuzione di opere (in questo senso, ex multis, Cass. pen., Sez. III, 24.06.2014, n. 39897; cfr. anche, TAR Lazio Roma Sez. I-quater, 04.04.2012, n. 3096)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 22.06.2016 n. 3206 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il certificato di destinazione urbanistica ha carattere meramente dichiarativo e non costitutivo degli effetti giuridici che dallo stesso risultano, atteso che la situazione giuridica attestata nel predetto certificato è la conseguenza di altri precedenti provvedimenti che hanno contribuito a determinarla.
La natura meramente dichiarativa del certificato urbanistico, dunque, non preclude all'amministrazione comunale, una volta accertato che la certificazione contiene un'attestazione incompleta o non veritiera, di annullare in autotutela un titolo edilizio basato su un presupposto erroneo.
Da quanto sopra, consegue che nessun rilievo assume la circostanza che l'Amministrazione comunale abbia assentito interventi edilizi sulla base di certificati di destinazione urbanistica che non rispecchiano le prescrizioni contenute negli atti di programmazione urbanistica.

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In via preliminare, come chiarito dalla dominante giurisprudenza amministrativa: “Il certificato di destinazione urbanistica ha carattere meramente dichiarativo e non costitutivo degli effetti giuridici che dallo stesso risultano, atteso che la situazione giuridica attestata nel predetto certificato è la conseguenza di altri precedenti provvedimenti che hanno contribuito a determinarla.”.
La natura meramente dichiarativa del certificato urbanistico, dunque, non preclude all'amministrazione comunale, una volta accertato che la certificazione contiene un'attestazione incompleta o non veritiera, di annullare in autotutela un titolo edilizio basato su un presupposto erroneo (in questo senso, TAR Campania, Napoli, Sez. I, 16.09.2015, n. 4553; Consiglio di Stato, Sez. IV, 26.08.2014 n. 4306 e 04.02.2014 n. 505).
Da quanto sopra, consegue che nessun rilievo assume la circostanza che l'Amministrazione comunale abbia assentito interventi edilizi sulla base di certificati di destinazione urbanistica che non rispecchiano le prescrizioni contenute negli atti di programmazione urbanistica
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 22.06.2016 n. 3206 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Così la Pa deve rispettare le sentenze. Consiglio di Stato. I confini del giudizio di ottemperanza del giudicato quando gli uffici sono inerti o elusivi.
Il Consiglio di Stato ribadisce i rimedi concessi al cittadino per far valere nei confronti dell’Amministrazione soccombente il rispetto delle sentenze e ne traccia con maggiore precisione i confini.

Con la sentenza 22.06.2016 n. 2769, la III Sez. del Consiglio di Stato ha nuovamente affrontato i confini del giudizio per l’ottemperanza del giudicato, ovvero del rimedio garantito a chi intenda far valere in giudizio il mancato rispetto, da parte della Pubblica amministrazione, di precedenti decisioni del giudice amministrativo.
In primo luogo, il Consiglio di Stato ha ribadito che il giudizio di ottemperanza del giudicato è esperibile non solo da parte di chi lamenti la completa inerzia dell’Amministrazione nel dare attuazione a una precedente pronuncia giurisdizionale ma anche da parte di chi voglia far accertare il carattere elusivo del giudicato dei provvedimenti emessi dalla Pa in seguito ad una sentenza del giudice amministrativo.
In secondo luogo, i supremi giudici amministrativi hanno statuito che il ricorrente non ha l’onere di impugnare espressamente i provvedimenti ritenuti elusivi del giudicato in quanto il loro eventuale annullamento rientra comunque nella cognizione del giudice dell’ottemperanza, anche se attivato per far valere l’inerzia dell’amministrazione.
Pertanto, qualora un soggetto ricorra al giudice, in sede di ottemperanza, per far accertare il mancato rispetto del giudicato dell’amministrazione rimasta inerte, può estendere l’oggetto della sua domanda anche all’accertamento della nullità del provvedimento eventualmente emesso dalla Pa nel corso del giudizio anche con semplice memoria, senza onere di impugnazione né di notifica.
Qualora invece il provvedimento ritenuto elusivo -e quindi affetto da nullità- venga emesso prima dell’instaurazione del giudizio di ottemperanza, il soggetto che si assuma leso può attivare due rimedi: o l’azione di ottemperanza oppure l’actio nullitatis, entro il termine di 180 giorni dall’emissione dell’atto ritenuto nullo.
Tuttavia, è importante tenere presente che, qualora l’atto ritenuto elusivo del giudicato sia viziato sotto profili che esulano dal decisum della sentenza da eseguire, il rimedio da attivare non è il giudizio di ottemperanza ma il giudizio ordinario di impugnazione entro il termine perentorio di 60 giorni
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.07.2016).

EDILIZIA PRIVATA: Contributo per il rilascio del permesso di costruire – Fideiussione – Possibilità di infliggere la sanzione pecuniaria in assenza di preventiva escussione della garanzia – Contrasto di giurisprudenza – Rimessione alla Adunanza plenaria.
Va rimessa alla Adunanza plenaria del Consiglio di Stato la questione se una volta costituita, ai sensi dell’art. 16, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (t.u. edilizia), una garanzia per il pagamento del contributo per il rilascio del permesso di costruire, il comune, avendo omesso di escutere la garanzia, possa, oltre che chiedere il pagamento del dovuto al debitore principale, infliggere comunque la sanzione pecuniaria (nella misura massima) prevista dalla disciplina regionale e comunale per i casi di mancato versamento del contributo.
La sez. IV del Consiglio di Stato rimette all'Adunanza plenaria la questione relativa alla possibilità di infliggere la sanzione pecuniaria in assenza di preventiva escussione della garanzia in favore del soggetto che ha chiesto ed ottenuto il permesso di costruire.
L’ordinanza in commento –nell’affidare ai sensi dell’art. 99 c.p.a. all’organo di nomofilachia della Giustizia amministrativa la soluzione della questione di diritto di cui in massima– sintetizza puntualmente (anche in chiave storica) le tre tesi che si contendono il campo:
   a) secondo la prima (maggioritaria nella giurisprudenza del Consiglio di Stato), il comune non perde la potestà di infliggere la sanzione pecuniaria (nella misura massima) anche se non ha tempestivamente escusso la garanzia costituita in favore del soggetto che ha chiesto ed ottenuto il permesso di costruire;
   b) secondo la tesi opposta (largamente minoritaria), il comune non potrebbe aggravare con la sua condotta le conseguenze dell’inadempimento dell’obbligazione principale assunta dal titolare del permesso di costruire e pertanto non potrebbe mai infliggere alcuna sanzione;
   c) secondo una terza più recente impostazione, infine, il comune non perderebbe il potere di sanzionare l’inadempimento del titolare del permesso di costruire ma dovrebbe infliggere, nell’ottica del contemperamento equitativo dei contrapposti interessi, la sanzione pecuniaria nella misura minima (commento tratto da www.giustizia-amministrativa.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, ordinanza 22.06.2016 n. 2766).
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MASSIMA
2. Con il primo e centrale motivo di impugnazione la società appellante deduce che il comune non avrebbe potuto legittimamente applicare le sanzioni previste per il ritardato pagamento di contributi concessori.
Infatti la società aveva prestato a garanzia del pagamento del contributo apposita polizza fideiussoria ( priva del beneficio di preventiva escussione del debitore principale ex art. 1944 comma secondo cod. civ.) cosicché il comune ben poteva riscuotere per tempo le varie rate dei contributi direttamente dal garante.
In sostanza, secondo l’appellante, il comune, una volta accertato il mancato pagamento, avrebbe potuto senza particolari difficoltà escutere il fideiussore, così evitando di aggravare la posizione della parte debitrice.
Replica il comune di Ayas che la prestazione della garanzia non esonera il debitore dall’obbligo di adempiere in modo diligente.
Al riguardo il Collegio osserva quanto segue.
Come è noto, l’art. 1 della legge n. 10 del 1977 ha introdotto nell’ordinamento il principio fondamentale secondo cui ogni attività comportante trasformazione urbanistico/edilizia del territorio partecipa agli oneri da essa derivanti.
Tale principio dell’onerosità del permesso di costruire è oggi confermato dall’art. 11, comma 2, del T.U. n. 380 del 2001, il quale poi precisa all’art. 16, comma 1, che il relativo contributo è costituito da due quote, commisurate rispettivamente all’incidenza delle spese di urbanizzazione e al costo di costruzione dell’edificio assentito.
Ai sensi del comma 2 dello stesso art. 16 la quota di contributo relativa agli oneri di urbanizzazione è di norma (salvo eventuale rateizzazione a richiesta dell’interessato) corrisposta all’atto del rilascio del permesso.
Invece, ai sensi del successivo comma 3, la quota relativa al costo di costruzione è corrisposta in corso d’opera, con le modalità e le garanzie stabilite dal comune, non oltre sessanta giorni dall’ultimazione della costruzione.
Di fatto, come appunto l’art. 16, comma 3, consente e come avvenuto nel caso in esame, gli enti locali all’atto della quantificazione e rateizzazione del contributo richiedono sempre al beneficiario la prestazione di una garanzia nei modi indicati dall’art. 2 della legge n. 348 del 1982 e succ. modif..
Infine, nel caso di ritardato od omesso pagamento del contributo di costruzione, l’art. 42 del T.U. (il quale riprende sostanzialmente le previsioni già contenute nell’art. 3 della legge n. 47 del 1985) così prevede nel testo oggi vigente: “1. Le regioni determinano le sanzioni per il ritardato o mancato versamento del contributo di costruzione in misura non inferiore a quanto previsto nel presente articolo e non superiore al doppio.
2. Il mancato versamento, nei termini stabiliti, del contributo di costruzione di cui all'articolo 16 comporta:
   a) l'aumento del contributo in misura pari al 10 per cento qualora il versamento del contributo sia effettuato nei successivi centoventi giorni;
   b) l'aumento del contributo in misura pari al 20 per cento quando, superato il termine di cui alla lettera a), il ritardo si protrae non oltre i successivi sessanta giorni;
   c) l'aumento del contributo in misura pari al 40 per cento quando, superato il termine di cui alla lettera b), il ritardo si protrae non oltre i successivi sessanta giorni.
3. Le misure di cui alle lettere precedenti non si cumulano.
4. Nel caso di pagamento rateizzato le norme di cui al secondo comma si applicano ai ritardi nei pagamenti delle singole rate.
5. Decorso inutilmente il termine di cui alla lettera c) del comma 2, il comune provvede alla riscossione coattiva del complessivo credito nei modi previsti dall'articolo 43.
6. In mancanza di leggi regionali che determinino la misura delle sanzioni di cui al presente articolo, queste saranno applicate nelle misure indicate nel comma 2.
”.
Da quanto sopra discende che il sistema di pagamento del contributo è caratterizzato dalla compresenza di una garanzia prestata per l’adempimento del debito principale e di un parallelo strumento sanzionatorio progressivo a carico del debitore che resti inadempiente, cosicché il comune allo scadere del termine originario di pagamento della rata può alternativamente rivalersi immediatamente sul fideiussore ed ottenere il soddisfacimento del suo credito oppure insistere per riscuotere (anche in via coattiva) dal debitore principale il contributo da questi non pagato e le sanzioni commisurate al ritardo.
In tale contesto,
la questione che si pone consiste propriamente nello stabilire se in realtà la prima opzione operativa (l’incameramento della garanzia con conseguente preclusione all’applicazione delle sanzioni) sia necessitata o facoltativa.
Secondo un
indirizzo giurisprudenziale, peraltro minoritario, il problema interpretativo all’esame non può che risolversi facendo coerente applicazione dei principi civilistici in tema di obbligazioni, primo fra tutti quello che impone al creditore in buona fede di collaborare con il debitore ai fini del puntuale adempimento dell’obbligazione.
In tal senso fin da epoca risalente è stato osservato che “Poiché il credito vantato dal comune per il contributo di costruzione nei confronti del titolare di una concessione edilizia è assistito da garanzia fideiussoria, una siffatta obbligazione di garanzia, priva di beneficium excussionis ed al di là della solidarietà tra debitore principale e fideiussore, esclude che il comune stesso possa far ricorso alle sanzioni ex art. 3 l. 28.02.1985 n. 47 senza esercitare la predetta garanzia che nel limitare anche il danno per il concessionario, permette all'ente il pronto soddisfacimento del proprio credito. Infatti, la natura giuridica della concessione edilizia o delle sanzioni ex art. 3 legge n. 47 del 1985 non può esimere il comune dall'osservanza degli obblighi posti dalla legge in capo al creditore in materia di adempimento delle obbligazioni, ivi compreso quello della necessaria cooperazione con il debitore in tale fase dell'adempimento“ (ad es. V Sez. n. 1001 del 1995).
Nella stessa linea, in epoca più recente, è stato ribadito che “Qualora il titolare di una concessione edilizia abbia stipulato, a garanzia del versamento dei contributi, una polizza fideiussoria priva del beneficio di preventiva escussione dell'obbligato principale, ai sensi dell'art. 1227, secondo comma, c.c., che pone a carico del creditore i danni che questi avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza, non possono essere applicate le sanzioni previste dall'art. 3 della l. 28.02.1985, n. 47, per il caso di omesso o ritardato versamento dei contributi, ove l'amministrazione creditrice, violando i doveri di correttezza e buona fede, non si sia attivata per tempo nel chiedere al garante il pagamento delle somme dovute" (ad es. V Sez. n. 32 del 2003, V Sez. n. 571 del 2003 e I Sez. parere n. 11663 del 17.05.2013).
A sostegno del richiamato indirizzo sta il rilievo che l’ente locale, ove il suo credito sia assistito da garanzia incondizionata, ha uno specifico dovere, ai sensi degli artt. 1175, 1375 e 1227, comma 2, cod. civ., di richiedere quanto dovutogli al garante, con la conseguenza che l’ente stesso –omettendo tale ben esigibile adempimento- viola appunto l’obbligo per il creditore di non aggravare inutilmente la posizione del debitore.
Parallelamente, sul piano funzionale, si rileva che la previsione legislativa delle sanzioni per il mancato pagamento degli oneri concessori trova ragione nella necessità per l'amministrazione di disporre tempestivamente delle somme dovute dai privati onde poter procedere alla realizzazione delle necessarie infrastrutture di urbanizzazione: in tale contesto, un ente locale che sceglie di non incamerare subito la fideiussione non persegue la finalità di interesse pubblico per cui la sanzione è appunto predisposta (assicurare la tempestiva disponibilità delle somme per l’urbanizzazione), bensì altro scopo, ossia far lievitare la somma dovuta dal privato anche a rischio di un consistente differimento nell’incasso.
Questa impostazione non è condivisa dall’
indirizzo giurisprudenziale maggioritario il quale inquadra la fattispecie in una prospettiva pubblicistica, significativamente caratterizzata dalla presenza di strumenti –le sanzioni e la riscossione coattiva– tipici di un procedimento autoritativo e non paritetico.
In questa prospettiva la fideiussione –che il comune è facoltizzato a richieder in caso di rateizzazione del versamento- non ha affatto la finalità di agevolare l'adempimento del soggetto obbligato al pagamento, bensì costituisce una garanzia personale prestata unicamente nell'interesse dell'amministrazione, sulla quale non incombe alcun obbligo di preventiva escussione del fideiussore.
In sostanza, la garanzia sussidiaria serve a scongiurare che il Comune possa irrimediabilmente perdere una entrata di diritto pubblico, ma non alleggerisce affatto la posizione del soggetto tenuto al pagamento, né attenua le conseguenze previste nel caso di un eventuale suo inadempimento, conseguenze appunto riconducibili all’applicazione delle sanzioni e alla riscossione coattiva dell’intera somma dovuta (ex multis IV Sez. n. 5818 del 2012).
Del resto, tale maggioritario orientamento (cfr. per tutte IV Sez. n. 4320 del 2012 e V Sez. n. 777 del 2016) puntualizza che, anche volendo aver riguardo al regime ordinario delle obbligazioni tra privati, in materia di obbligazione "portable" quale quella pecuniaria, e con termine di adempimento che esonera dalla costituzione in mora del debitore, il creditore è soltanto facultato ad attivare la solidale responsabilità del fideiussore, senza che possa invece ritenersi tenuto ad escutere il coobbligato piuttosto che attendere il pagamento, ancorché tardivo, salva l'esistenza di apposita clausola in tal senso accettata dal creditore stesso.
Né sarebbe pertinente il richiamo all'art. 1227, secondo comma cod. civ. -che riguarda l'esonero di responsabilità per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza– in primo luogo perché l'obbligazione relativa alle sanzioni pecuniarie ex art. 3 l. 28.02.1985 n. 47 non ha, certo, natura risarcitoria configurandosi come obbligazione legale, con finalità chiaramente e univocamente "sanzionatorie".
In secondo luogo, l'onere di diligenza che l’art. 1227, comma secondo, fa gravare sul creditore non si estende alla sollecitudine nell'agire a tutela del proprio credito onde evitare maggiori danni, i quali viceversa sono da imputare esclusivamente alla condotta del debitore, tenuto al tempestivo adempimento della sua obbligazione (v. Corte cost. n. 308 del 1999 in tema di maggiorazione delle sanzioni amministrative per ritardato pagamento).
Alla luce delle considerazioni sin qui esaminate questo Collegio ritiene preferibile l’orientamento maggioritario, in quanto più coerente con la disciplina concretamente applicabile alla fattispecie.
Sennonché, in tempi recenti, è andato emergendo un
ulteriore indirizzo giurisprudenziale il quale, pur tenendo conto della cogenza della previsione legale relativa all’applicazione delle sanzioni in caso di ritardato pagamento, ritiene però illegittima l’applicazione delle sanzioni in misura massima.
In tale ottica, e con riferimento a controversie sovrapponibili a quella ora in esame, è stato infatti rilevato -valorizzando il principio di leale collaborazione tra cittadino e comune, che ha valenza pubblicistica e rientra nell'ambito dei principi di imparzialità di cui all'art. 97 Cost.,- che il ritardo con cui l’ente locale procede alla richiesta di pagamento e l'assenza di qualsivoglia tentativo di escussione della fideiussione, comportano, all'evidenza, una violazione del dovere di correttezza che dovrebbe improntare il comportamento dell'Amministrazione comunale, in considerazione del fatto che l'Amministrazione non è un soggetto che agisce per massimizzare il suo profitto ma è un soggetto che agisce per realizzare nel modo migliore possibile un interesse pubblico che le è stato affidato dalla legge e che consiste, appunto, nella celere realizzazione delle opere di urbanizzazione (e, quindi, nella pronta disponibilità delle somme ad esse relative).
Pertanto, secondo il richiamato indirizzo, il ritardo con cui il comune agisce per riscuotere le somme a titolo di oneri di urbanizzazione dovuti, se non può impedire del tutto l'applicazione delle sanzioni, atteso il loro carattere automatico, scaturente dal disposto di legge, impedisce tuttavia l'applicazione delle sanzioni massime (cfr. V Sez. n. 5734 del 2014 e 5287 del 2015).
In sostanza, secondo tale innovativo orientamento, appare compatibile con l'interesse pubblico azionato, con il tenore della norma e con i principi costituzionali di buona fede che ispirano i rapporti tra cittadino e P.A. la riscossione della sanzione soltanto nella limitata misura di cui alla lett. a), mentre le maggiori sanzioni sono da ritenersi illegittime, poiché verosimilmente, escutendo la fideiussione, il comune avrebbe ottenuto la somma e non avrebbe potuto quindi applicare alcuna ulteriore sanzione.
Ne consegue che l’ente locale –una volta decorsi 120 giorni dallo scadere del termine originario di pagamento– deve valersi della garanzia ( per riscuotere quanto dovuto per oneri) e contestualmente irrogare al debitore inadempiente la sanzione minima normativamente prevista.
A giudizio di questo Collegio sembra potersi affermare che la soluzione “intermedia” ora in rassegna, nella misura in cui si muove in prospettiva eminentemente pragmatica, perviene ad un approdo senza dubbio assai equilibrato ma ermeneuticamente forse non del tutto appagante.
Infatti sul piano concettuale –dal momento che la legge prevede proprio sanzioni crescenti in relazione al perdurare dell’inadempimento- non è chiaro per quale ragione l’obbligo legale di applicare appunto le sanzioni possa prevalere solo fino al primo periodo di ritardo (centoventi giorni) mentre a fronte dei ritardi successivi si riespande il principio collaborativo.
Al tempo stesso appare però evidente che tale impostazione, nella misura in cui tiene conto delle diverse esigenze sin qui messe in rilievo dai contrapposti indirizzi giurisprudenziali di cui si è sopra dato conto, potrebbe comportare un ragionato superamento delle contrapposizioni interpretative sin qui registrate.
Alla luce del contrasto giurisprudenziale rilevato, e considerato il significativo rilievo pratico della questione controversa, il Collegio ritiene opportuno sottoporre il ricorso all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato
, a norma dell’art. 99, comma 1, c.p.a.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
non definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe,
ne dispone il deferimento all'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato.

APPALTISulle c.d. misure interdittive antimafia a cascata.
Riguardo le c.d. informative interdittive antimafia a cascata, a fronte della costituzione di una nuova società, tra un'impresa legittimamente colpita da un'interdittiva e un altro soggetto imprenditoriale, si può ragionevolmente presumere l'estensione del giudizio di pericolo di inquinamento mafioso sia alla nuova società, sia alla seconda impresa, divenuta socia di quest'ultima, insieme a quella inizialmente ritenuta esposta al rischio di permeabilità alle influenze criminali.
La costituzione di una società tra un'impresa già destinataria di una interdittiva antimafia e un'altra sola impresa (che detiene una quota significativa della nuova società) integra senz'altro gli estremi di quella situazione che consente (anzi: impone) di reputare automaticamente estesa a quest'ultima la valutazione sulla permeabilità mafiosa già posta a fondamento dell'informativa ostativa nei riguardi della prima.
La costituzione di un vincolo stabile e qualificato, come quello ravvisabile tra i due soci di una società, fonda, in particolare, la presunzione che la seconda impresa (quella, cioè, non già attinta da un'interdittiva), sia stata scelta per la condivisione degli interessi inquinati e illeciti già ravvisati nella gestione della prima. Appare, segnatamente, del tutto plausibile inferire dalla scelta del partner per la costituzione di una nuova società la presupposta (e logica) comunanza di interessi illeciti tra le due imprese.
Mentre risulta, invero, del tutto improbabile che un'impresa già attinta da sospetti di permeabilità mafiosa selezioni, come socio, un'impresa del tutto estranea al circuito criminoso nel quale essa orbita o che, in ogni caso, accetti la proposta di collaborazione di un operatore del tutto impermeabile ad interessi contigui alla criminalità organizzata, appare, al contrario, del tutto verosimile che l'intesa di sinergie imprenditoriali ascrivibile a un'impresa certamente 'mafiosa' obbedisca al medesimo disegno illecito di asservimento agli interessi delle organizzazioni criminali.
Risulta, in altri termini, estremamente probabile che, secondo l'id quod plerumque accidit, il legame societario trasmodi, nella fattispecie considerata, in sodalizio criminale o che, addirittura, quest'ultimo costituisca la causa della costituzione del vincolo associativo.
L'elevata verosimiglianza che la nuova società sia costituita al fine di perseguire più efficacemente gli scopi illeciti delle organizzazioni criminali con cui una delle due imprese risulta collusa e l'estrema improbabilità che l'operazione societaria resti immune da condizionamenti mafiosi e impermeabile a qualsivoglia tentativo di condizionamento consentono, in definitiva, di utilizzare la relativa presunzione quale fondamento di un'interdittiva che colpisca sia la nuova società, in via autonoma, sia il nuovo socio (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 22.06.2016 n. 2274 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: La contestazione dello stop alle rate riammette in gara. Appalti. Imprese e piani respinti.
L’impresa può partecipare ad appalti pubblici anche se ha un consistente debito tributario, purché abbia proposto ricorso di urgenza al giudice ordinario contro il diniego di rateizzazione.
Lo sottolinea il TAR Campania-Salerno, Sez. I, con la sentenza 22.06.2016 n. 1552.
Un Comune aveva escluso dalla gara per la messa in sicurezza di edifici scolastici un’impresa che risultava avere un debito tributario per il quale aveva inutilmente chiesto la rateizzazione.
Di norma, l’impresa fiscalmente non in regola va esclusa (articolo 38, comma 1, lettera g, Dlgs 163/2006, oggi articolo 80, comma 4, legge 50/2016, Codice appalti), ma se il debito è contestato la pretesa dell’erario non può ritenersi «definitivamente accertata». Lo stesso principio si applica anche a valle della pretesa tributaria, cioè quando il debito fiscale è certo, ma si discute delle modalità di pagamento. Poiché la rateazione è considerata fisiologica, basta diluire il debito nel tempo per rimanere in regola e partecipare a gare. Ma, se l’agente di riscossione non accetta la domanda, riecco l’ostacolo alla partecipazione a gare.
Ora il Tar Salerno precisa che un ente pubblico non può escludere da gare l’impresa che, pur non contestando il debito, si veda negare una dilazione e si rivolga al giudice: anche in tal caso il debito va considerato «non definitivamente accertato» e quindi permane la capacità di contrattare con la Pa. Sul tema, il Consiglio di Stato (21.12.2015, n. 5802) ha ritenuto che il concetto di definitività del debito (o delle violazioni in genere) nell’ambito delle gare pubbliche si focalizza al momento della scadenza del termine di presentazione dell’offerta, nel senso che il dubbio sulla regolarità del concorrente (e quindi sul suo debito) deve venir meno al momento della gara.
Alla scadenza del termine per presentare l’offerta deve cioè risultare accolta l’istanza di rateizzazione o almeno deve essere stato presentato e risultare pendente un ricorso amministrativo o giurisdizionale contro il diniego di rateizzazione. Quindi non basta che vi sia ancora tempo utile per contestare il debito tributario: la contestazione del debito (o del diniego di rateizzazione) deve avvenire entro la scadenza per presentare l’offerta.
Il giudizio avverso la rateizzazione del debito è oggi affidato alle Commissioni tributarie, dopo un periodo di incertezza tra giudice amministrativo, civile e tributario, con la pronuncia delle Sezioni unite della Cassazione. (5928/2011). Il Tar Salerno va oltre e ritiene utile, per mantenere il diritto a partecipare alla gara, anche una lite dinanzi al Tribunale civile in via di urgenza (articolo 700 del Codice di procedura civile).
Probabilmente il giudice civile in materia fiscale si dichiarerà carente di giurisdizione, ma l’ammissione alla gara può avvenire già solo in base alla seria contestazione giudiziaria, indipendentemente dalla competenza del giudice: dal 2009 (Cassazione 4109/2007, Corte Costituzionale 77/2009) opera il principio che consente lo spostamento automatico della lite (traslatio iudicii), poiché è unica la funzione giurisdizionale. Una lite può quindi iniziare dinanzi un giudice non competente, per poi essere affidata a diversa giurisdizione, senza che si perdano i diritti collegati alla contestazione
 (articolo Il Sole 24 Ore del 02.07.2016).
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MASSIMA
Il ricorso è fondato.
Parte ricorrente ha documentato che, con nota pec del 30.03.2016, ha comunicato al Comune di Flumeri di aver proposto ricorso ex art. 700 c.p.c. avverso il provvedimento di diniego di rateizzazione, ricorso ancora pendente presso Tribunale di Salerno.
Questo Tribunale (Sez. II, n. 172 del 21.01.20169, in analoga vicenda, ha già avuto modo di affermare quanto segue: “Il provvedimento di esclusione risulta, invero, assunto in violazione del dettato normativo di cui all'art. 38, comma I, lett. g.) del D.Lgs. n. 163/2006 in virtù del quale
l'esclusione si applica solo nei confronti dei concorrenti che hanno commesso violazioni gravi, definitivamente accertate, rispetto agli obblighi relativi al pagamento delle imposte e tasse. Il requisito della definitività dell'accertamento deve ritenersi esclusa, per comune intendimento, allorché siano ancora pendenti i termini per la presentazione del rimedio giurisdizionale ed a maggior ragione quando questo, come nel caso di specie, sia stato ritualmente formalizzato (in termini generali, cfr. (Cons. Stato, sez. VI, 27.02.2008 n. 716; Id., sez. V, 20.04.2010, n. 2213; TAR Puglia Lecce sez. III 20/05/2011 n. 883; TAR Calabria Reggio Calabria 22/10/2008 n. 537)”.
In conclusione, come anticipato, la domanda di annullamento proposta dalla parte ricorrente è meritevole di accoglimento, nei limiti necessari a realizzare l’interesse da essa perseguito principaliter, ovvero con riguardo al provvedimento di esclusione dalla gara adottato nei suoi confronti.
Il Collegio, ritiene, infatti di non doversi pronunciare sulla efficacia del contratto, non risultando che lo stesso sia stato stipulato nelle more del presente giudizio, così come sulla domanda subordinata di condanna al risarcimento del danno per equivalente.

ENTI PUBBLICI - PUBBLICO IMPIEGO: Niente concorsi se ci sono idonei. Tar Lazio sulle graduatorie della p.a..
Addio alle delibere con cui l'ente pubblico dà il via a un nuovo concorso senza prima pescare fra gli idonei con lo scorrimento delle graduatorie ancora in vigore, peraltro già utilizzate con l'instaurazione di rapporti di lavoro a termine. E ciò perché il decreto «razionalizzazione p.a.» punta a evitare nuove procedure selettive quando nel «bacino» dell'ente esistono profili equivalenti cui attingere: sbaglia allora l'istituto quando lancia il nuovo concorso sostenendo che non c'è una «perfetta identità» fra le professionalità necessarie e quelle già sussistenti, dal momento che l'equivalenza risulta sufficiente in proposito.

È quanto emerge dalla sentenza 21.06.2016 n. 7254 della Sez. III-bis del TAR Lazio-Roma.
Controllori perplessi
Accolto il ricorso di due ricercatori a tempo determinato difesi dagli avvocati Sergio Fiorenzano e Paolo Mauriello.
Nel 2010 i due lavoratori partecipano a un concorso nazionale per soli tre posti e risultano idonei non vincitori, piazzandosi al sedicesimo e al diciassettesimo posto. Ma poi il consiglio d'amministrazione dell'istituto dà il via a un mega-piano di assunzioni sulla base del dl istruzione, il decreto legge 104/2013.
Il punto è che l'ente avrebbe dovuto guardare alle professionalità già ritenute idonee prima di emanare bandi per la selezione di profili che risultano in sostanza analoghi. La scelta del nuovo concorso, infatti, non convince fino in fondo anche i controllori interni ed esterni, vale a dire il collegio dei revisori e lo stesso dipartimento della Funzione pubblica.
Effettiva carenza
Dopo il dl 101/2013, invero, l'ente deve motivare l'effettiva carenza di profili lavorativi prima di mettere in moto ulteriori e onerose selezioni. Oggi i due ricercatori con il contratto a termine risultano adibiti in pratica a mansioni equivalenti a quelle messe a concorso con il piano assunzioni.
E in effetti, osservano i giudici amministrativi, la decisione di aprire un'ulteriore tornata di selezione si rivela «sostanzialmente non motivabile» visto che le figure richieste e quelle disponibili appaiono «tendenzialmente» prevalente sovrapponibili (articolo ItaliaOggi del 25.06.2016).

PUBBLICO IMPIEGO: Sul decreto di nomina di incarichi dirigenziali.
Il decreto di nomina di incarichi dirigenziali rientra nel genus degli atti di natura strettamente organizzativa, preordinati alla costituzione del rapporto d'impiego di livello dirigenziale disciplinati dal diritto privato ai sensi dell'art. 63 del d.lgs. n. 165 del 2001 ed esorbita dalla giurisdizione del giudice amministrativo (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 21.06.2016 n. 2728 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTINelle gare d'appalto non sono consentite regolarizzazioni postume della posizione previdenziale, dovendo l'impresa deve essere in regola con l'assolvimento degli obblighi previdenziali ed assistenziali fin dalla presentazione dell'offerta.
Nelle gare d'appalto, anche dopo l'entrata in vigore dell'art. 31, c. 8, d.l. 21.06.2013, n. 69, convertito con modificazioni dalla l. 09.08.2013 n. 98, non sono consentite regolarizzazioni postume della posizione previdenziale, dovendo l'impresa deve essere in regola con l'assolvimento degli obblighi previdenziali ed assistenziali fin dalla presentazione dell'offerta e conservare tale stato per tutta la durata della procedura di aggiudicazione e del rapporto con la stazione appaltante, con l'irrilevanza di un eventuale adempimento tardivo dell'obbligazione contributiva, tenendo presente che l'istituto dell'invito alla regolarizzazione -il c.d. preavviso di documento unico di regolarità contributiva negativo- già previsto dall'art. 7, c. 3, d.m. 24.10.2007 e ora recepito a livello legislativo dall'art. 31, c. 8, d.l. 21.06.2013, n. 69 può operare solo nei rapporti tra impresa ed Ente previdenziale, ossia con riferimento al d.u.r.c. chiesto dall'impresa e non anche al d.u.r.c. richiesto dalla stazione appaltante per la verifica della veridicità dell'autodichiarazione resa ai sensi dell'art. 38, c. 1, lett. i) ai fini della partecipazione alla gara d'appalto (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 21.06.2016 n. 2727 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: Dall’esame del combinato disposto degli artt. 29, comma primo, e 31, comma secondo, del DPR n. 380/2001 (T.U.ED.), emerge che la prima disposizione qualifica come “responsabili dell’abuso”, ai fini e per gli effetti del Capo I del Titolo IV, il titolare del permesso di costruire, il committente, il costruttore e, in talune ipotesi, anche il direttore dei lavori.
Pertanto, il proprietario dell’area che non risulti altresì committente o costruttore (o in concorso con gli stessi) non può tecnicamente qualificarsi come responsabile dell’abuso e non può essere, quindi, soggetto al trattamento sanzionatorio previsto a carico delle suddette figure.
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Il secondo comma dell’art. 31 prevede, tuttavia, che l’ordinanza di demolizione debba essere notificata, oltre che al soggetto o ai soggetti responsabili dell’abuso, anche al proprietario dell’area.
In proposito la giurisprudenza consolidata afferma che in materia di abusi edilizi commessi da persona diversa dal proprietario la posizione di quest’ultimo può ritenersi neutra rispetto alle sanzioni previste dal T.U.ED. del 2001, e ciò con particolare riguardo all’acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area di sedime sulla quale insiste il bene «quando risulti, in modo inequivocabile, l’estraneità del proprietario stesso rispetto al compimento dell'opera abusiva ovvero risulti che, essendone venuto a conoscenza, il proprietario si sia poi adoperato per impedirlo con gli strumenti offertigli dall'ordinamento.
Il motivo per cui il proprietario è contemplato tra i destinatari dell’ordine di demolizione, pur in assenza di ogni coinvolgimento nella realizzazione delle opere non autorizzate, sta nel fatto che la legge pone a suo carico non una responsabilità (che sarebbe oggettiva e, come tale, contraria ai principi dell’ordinamento) ma un obbligo di cooperazione nella rimozione delle opere abusive il cui mancato adempimento può anche comportare la sanzione dell’acquisizione gratuita del terreno (ciò si dice qui a fini di completezza e di ricostruzione della disciplina in esame, essendo esclusa la possibilità di sanzionare la ricorrente con l’acquisizione dallo stesso Comune che espressamente lo afferma nel provvedimento impugnato, in considerazione del fatto che il proprietario non coincide, nella specie, con gli autori dell’abuso).
Sempre in linea generale, non può essere detto in astratto in cosa debba consistere la predetta cooperazione del proprietario nella rimozione degli abusi. Il contenuto della cooperazione dipende infatti dalle singole fattispecie: è chiaro che il proprietario che non abbia riacquisito la detenzione del fondo non potrà materialmente provvedere alla demolizione delle opere ivi insistenti ma solo diffidare il conduttore al ripristino dello status quo ante. Diversamente, qualora egli al momento della notifica dell’ordinanza che ingiunge la demolizione abbia riacquisito la materiale disponibilità dell’area dovrà farsi carico della demolizione delle opere, con possibilità di rivalsa sui responsabili in base ai principi civilistici.

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... per l'annullamento dell'ordinanza P.G. 87983/2010 del 09.10.2010, nella parte in cui il Direttore del Settore Urbanistica del Comune di Bologna, ordina alla ricorrente, in qualità di comproprietaria del terreno sito in Bologna, di demolire le opere edilizie, nonché di ogni altro atto e/o provvedimento presupposto, connesso e/o consequenziale.
...
3. Con unico articolato motivo di censura parte ricorrente denuncia l’illegittimità dell’ordinanza impugnata sotto i profili della violazione dell’art. 31 del DPR n. 380/2001 e dell’eccesso di potere per travisamento dei fatti, errore nei presupposti, difetto di motivazione, illogicità manifesta, perplessità.
La ricorrente ritiene di non dover essere destinataria dell’ordine di demolizione in quanto soggetto non responsabile degli abusi edilizi di cui trattasi e in quanto si è attivata per far cessare la situazione abusiva.
Il Comune di Bologna, dal canto suo, sostiene che:
a) vi è una presunzione di responsabilità per gli abusi edilizi a carico del proprietario dell’immobile sul quale le opere abusive sono state realizzate;
b) il proprietario ha comunque l’obbligo della riduzione in pristino e della demolizione in quanto ha la disponibilità dell’immobile;
c) nella specie, si è tenuto conto delle motivazioni addotte dai proprietari dell’area a dimostrazione dell’impossibilità di intervento;
d) occorreva in ogni caso comunicare ai proprietari il provvedimento in questione;
e) è stata espressamente esclusa l’acquisizione dell’area proprio in considerazione della posizione dei proprietari.
Orbene, dall’esame del combinato disposto degli artt. 29, comma primo, e 31, comma secondo, del DPR n. 380/2001 (T.U.ED.), emerge che la prima disposizione qualifica come “responsabili dell’abuso”, ai fini e per gli effetti del Capo I del Titolo IV, il titolare del permesso di costruire, il committente, il costruttore e, in talune ipotesi, anche il direttore dei lavori.
Pertanto, il proprietario dell’area che non risulti altresì committente o costruttore (o in concorso con gli stessi) non può tecnicamente qualificarsi come responsabile dell’abuso e non può essere, quindi, soggetto al trattamento sanzionatorio previsto a carico delle suddette figure.
Il secondo comma dell’art. 31 prevede, tuttavia, che l’ordinanza di demolizione debba essere notificata, oltre che al soggetto o ai soggetti responsabili dell’abuso, anche al proprietario dell’area.
In proposito la giurisprudenza consolidata afferma che in materia di abusi edilizi commessi da persona diversa dal proprietario la posizione di quest’ultimo può ritenersi neutra rispetto alle sanzioni previste dal T.U.ED. del 2001, e ciò con particolare riguardo all’acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area di sedime sulla quale insiste il bene «quando risulti, in modo inequivocabile, l’estraneità del proprietario stesso rispetto al compimento dell'opera abusiva ovvero risulti che, essendone venuto a conoscenza, il proprietario si sia poi adoperato per impedirlo con gli strumenti offertigli dall'ordinamento (sul punto – ex multis – Cons. Stato, VI, 04.05.2015, n. 2211; Idem, 30.03.2015, n. 1650» (Cons. Stato, VI, n. 358/2016).
Il motivo per cui il proprietario è contemplato tra i destinatari dell’ordine di demolizione, pur in assenza di ogni coinvolgimento nella realizzazione delle opere non autorizzate, sta nel fatto che la legge pone a suo carico non una responsabilità (che sarebbe oggettiva e, come tale, contraria ai principi dell’ordinamento) ma un obbligo di cooperazione nella rimozione delle opere abusive il cui mancato adempimento può anche comportare la sanzione dell’acquisizione gratuita del terreno (ciò si dice qui a fini di completezza e di ricostruzione della disciplina in esame, essendo esclusa la possibilità di sanzionare la ricorrente con l’acquisizione dallo stesso Comune che espressamente lo afferma nel provvedimento impugnato, in considerazione del fatto che il proprietario non coincide, nella specie, con gli autori dell’abuso).
In ogni caso, la controversia attiene all’ordinanza di demolizione in epigrafe, sicché dell’acquisizione può parlarsi soltanto in quanto, appunto, essa è stata esclusa dallo stesso provvedimento impugnato, altrimenti questo giudicante dovrebbe esimersi dall’esaminare la questione, stante il divieto di azioni di accertamento preventivo inerenti poteri pubblicistici non ancora esercitati di cui al comma secondo dell’art. 34 c.p.a. (secondo il quale «In nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati»).
La richiamata disposizione processuale costituisce filiazione del principio di separazione dei poteri ed è conforme al modello costituzionale di giustizia amministrativa delineato dall’art. 103 della Carta, che prevede un sindacato giurisdizionale ex post sull’attività dell’amministrazione (cfr.: TAR Toscana, III, n. 1577/2015).
Sempre in linea generale, non può essere detto in astratto in cosa debba consistere la predetta cooperazione del proprietario nella rimozione degli abusi. Il contenuto della cooperazione dipende infatti dalle singole fattispecie: è chiaro che il proprietario che non abbia riacquisito la detenzione del fondo non potrà materialmente provvedere alla demolizione delle opere ivi insistenti ma solo diffidare il conduttore al ripristino dello status quo ante (TAR Lazio - Roma, I, 04.04.2012 n. 3103). Diversamente, qualora egli al momento della notifica dell’ordinanza che ingiunge la demolizione abbia riacquisito la materiale disponibilità dell’area dovrà farsi carico della demolizione delle opere, con possibilità di rivalsa sui responsabili in base ai principi civilistici (cfr.: TAR Toscana, III, n. 126/2016).
Nel caso in esame, da oltre un trentennio, come emerge dal complesso della documentazione in atti, gli occupanti si comportano come proprietari del terreno in questione (tant’è che, come risulta dagli atti di causa, pende dinanzi al giudice civile un giudizio dagli stessi intentato al fine di far valere l’usucapione), tra loro suddiviso e utilizzato con coltivazione a orto, avendo essi provveduto dapprima alla delimitazione con paletti e recinzioni e successivamente con l’apposizione di cancelli chiusi con lucchetti.
In questo quadro l’ordinanza di demolizione è stata legittimamente notificata anche ai proprietari, i quali sono tenuti ad attivarsi, nei limiti di ciò che è consentito dalla situazione di fatto, per sollecitare la demolizione da parte degli occupanti. D’altra parte, detta ordinanza non è suscettibile di arrecare alcun pregiudizio alla ricorrente, stante l’esclusione dell’acquisizione da parte dello stesso Comune.
Il ricorso va pertanto respinto (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 21.06.2016 n. 613 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Gazebo per l’ombra all’auto: abusivo se con materiali pesanti.
Pergolato o gazebo che sia, ci vuole il permesso di costruire se la struttura, in legno e ferro, serve per dare ombra all’automobile e non è facilmente rimovibile.
Inutile sostenere che la finalità del gazebo è quella di fornire ombra all’auto: non è questo che fa venire meno la necessità del permesso di costruire se la struttura non è facilmente amovibile. Così scatta la sanzione tutte le volte che il pergolato è costruito con materiali come legno e ferro.

A dirlo è una recente sentenza del TAR Emilia Romagna-Bologna.
Quando il pergolato richiede il permesso di costruire?
Tre sono sostanzialmente le condizioni affinché un gazebo possa essere considerato “edilizia libera” e, pertanto, sottratto agli obblighi di autorizzazione e concessione amministrativa:
• esso deve avere una struttura ornamentale e di modeste dimensioni: è il caso, ad esempio, di una struttura che serve per dare minimo ricovero ad attrezzi o ad altri piccoli strumenti, che serve come appoggio per piante rampicanti, ecc.;
• la sua struttura deve essere leggera, fatta con materiale di minimo peso;
• deve essere facilmente amovibile e privo di fondamenta. Solo per le strutture rimovibili si esclude, infatti, l’aumento di volumi e dunque la necessità del titolo edilizio.
Pergolato o gazebo –comunque lo si voglia chiamare– se costruito con materiali pesanti e non facilmente amovibili, come ad esempio il ferro e il legno, richiede sempre il permesso di costruire. Un conto infatti è una struttura leggera che serve solo per creare un po’ d’ombra, un altro è una in legno e ferro non facilmente rimovibile realizzata per mettere l’auto ben al coperto e ripararla dalla pioggia o dal caldo del sole. In quest’ultimo caso si crea un incremento dei volumi, al pari di un piccolo box auto, ed è dunque necessario un vero e proprio titolo edilizio prima di realizzare l’opera.
Il tribunale amministrativo non ha dubbi: se il presunto “gazebo” ha travi in materiale pesante non può essere reputato un semplice arredo di spazi esterni. Non c’è bisogno di permesso di costruire quando la struttura funge da sostegno per piante rampicanti o per teli in modo da dare sollievo dal sole: se la sua dimensione è modesta, essa non crea nuova volumetria e il suo scopo può dirsi del tutto momentaneo. Invece, una struttura solida e robusta fa desumere la destinazione del pergolato a una permanenza prolungata nel tempo (commento tratto da www.laleggepertutti.it).
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MASSIMA
4. Con il terzo motivo di ricorso parte ricorrente rappresenta che della consistenza esatta dell’opera indicata come «posto auto coperto con pergolato» (pergolato sul quale, per un certo periodo, erano state installate lastre di policarbonato, poi rimosse, come risulta dalla documentazione fotografica in atti, a seguito di comunicazione inviata all’interessato dal Comune il 30.11.2007) la stessa Commissione provinciale aveva chiara contezza, come emergerebbe dal fatto che nella deliberazione impugnata detta Commissione precisa che «la dicitura “posto auto coperto con pergolato” (indicato nel punto 2 del verbale del 18/11/2002) prendeva atto della situazione documentata dal Comune, con particolare riferimento alle foto allegate all’istanza, e dell’esistenza della struttura delle travi che compongono il pergolato e non della copertura».
Si chiede allora parte ricorrente perché la realizzazione della struttura sia stata sanzionata come posto auto coperto con pergolato; la tesi difensiva sostenuta è che nessun posto auto è stato realizzato, in quanto la struttura realizzata ha natura di gazebo che nulla aggiunge alla normale utilizzabilità del terreno come parcheggio pertinenziale a raso.
Con riguardo alla realizzazione di pergolati, la giurisprudenza del TAR Bologna condivide il diffuso orientamento secondo il quale «
può considerarsi un semplice pergolato, non comportante aumento di volumetria o superficie utile, solo quel manufatto realizzato in struttura leggera di legno che funge da sostegno per piante rampicanti o per teli, idonea a realizzare in tal modo una ombreggiatura di superfici di modeste dimensioni, destinate ad un uso del tutto momentaneo, con la conseguenza che perché possa qualificarsi come mero arredo di uno spazio esterno, che non comporta realizzazione di superfici utili o volume, è necessario che l’opera consista in una struttura precaria, facilmente rimovibile, non costituente trasformazione urbanistica del territorio, laddove –al contrario– va qualificata come un intervento di nuova costruzione la realizzazione di una struttura di importanti dimensioni, ancorché contraddistinta da materiali leggeri quali legno e ferro, che rendono la stessa solida e robusta e che fanno desumere una permanenza prolungata nel tempo del manufatto stesso (v. TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 14.05.2012 n. 2204)» (TAR Emilia Romagna–Bologna, I, n. 276/2015.
Orbene, la documentazione fotografica in atti dimostra che la struttura oggetto di controversia non ha natura precaria, è ancorata al suolo e appare destinata alla stabile permanenza nel tempo, in quanto costituisce una nicchia con elementi anche in muratura; è stata pertanto realizzata una superficie utile con funzione permanente di posto auto.
Il motivo in esame risulta quindi infondato e va respinto (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 21.06.2016 n. 612 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn relazione alla questione riguardante il rispetto del termine perentorio di 60 giorni, assegnato, dall’art. 82, comma 9, del D.P.R. n. 616 del 1977, vigente all’epoca dei fatti, per l’eventuale esercizio, da parte del Ministero per i Beni Culturali, del potere di annullamento (per vizi di legittimità) dell’autorizzazione paesaggistica rilasciata da un Comune, ai sensi dell’art. 7 della legge n. 1497 del 1939, la giurisprudenza è oramai pacifica nel ritenere che il termine entro cui l'Amministrazione statale può annullare l'autorizzazione paesaggistica rilasciata dal Comune decorre soltanto dal momento in cui la documentazione perviene completa all'organo competente ad esercitare la funzione di controllo, potendo quest'ultimo chiedere le integrazioni documentali all’uopo necessarie.
Si è peraltro anche precisato che, in forza del principio di leale collaborazione, tale termine non può essere sospeso, interrotto o prorogato arbitrariamente al di fuori di reali esigenze istruttorie, per finalità puramente pretestuose o dilatorie avanzate al fine di eludere la perentorietà del termine posto all'Amministrazione statale ai fini dell'esercizio del proprio potere di controllo di legalità.
La giurisprudenza amministrativa ha poi anche chiarito che, entro il termine di 60 giorni assegnato, l’eventuale provvedimento di annullamento del nulla osta paesaggistico deve essere adottato e non anche comunicato agli interessati.

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Nello specifico settore paesaggistico, la motivazione può ritenersi adeguata quando risponde a un modello che contempli, in modo dettagliato, la descrizione:
   a) dell'edificio mediante indicazione delle dimensioni, delle forme, dei colori e dei materiali impiegati;
   b) del contesto paesaggistico in cui esso si colloca, anche mediante l’indicazione di eventuali altri immobili esistenti, della loro posizione e dimensioni;
   c) del rapporto tra edificio e contesto, anche mediante l'indicazione dell'impatto visivo al fine di stabilire se esso si inserisca in maniera armonica nel paesaggio.
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6.- Con il primo motivo gli appellanti hanno insistito nel sostenere che la Soprintendenza per i Beni Ambientali ed Architettonici di Verona aveva emesso il provvedimento di annullamento dell’autorizzazione paesaggistica rilasciata dal Comune oltre il termine di sessanta giorni stabilito (all’epoca) dall’art. 82, comma 9, del D.P.R. n. 616 del 1977.
6.1.- Il motivo non è fondato, come ha correttamente ritenuto il TAR per il Veneto nella sentenza appellata e contrariamente a quanto ritenuto dallo stesso TAR molti anni prima, in sede cautelare.
6.2.- In relazione alla questione riguardante il rispetto del termine perentorio di 60 giorni, assegnato, dall’art. 82, comma 9, del D.P.R. n. 616 del 1977, vigente all’epoca dei fatti, per l’eventuale esercizio, da parte del Ministero per i Beni Culturali, del potere di annullamento (per vizi di legittimità) dell’autorizzazione paesaggistica rilasciata da un Comune, ai sensi dell’art. 7 della legge n. 1497 del 1939, la giurisprudenza è oramai pacifica nel ritenere che il termine entro cui l'Amministrazione statale può annullare l'autorizzazione paesaggistica rilasciata dal Comune decorre soltanto dal momento in cui la documentazione perviene completa all'organo competente ad esercitare la funzione di controllo, potendo quest'ultimo chiedere le integrazioni documentali all’uopo necessarie (fra le tante, Consiglio di Stato Sezione VI, n. 727 del 23.02.2016, Sezione VI, n. 5101 del 10.11.2015).
6.3.- Si è peraltro anche precisato che, in forza del principio di leale collaborazione, tale termine non può essere sospeso, interrotto o prorogato arbitrariamente al di fuori di reali esigenze istruttorie, per finalità puramente pretestuose o dilatorie avanzate al fine di eludere la perentorietà del termine posto all'Amministrazione statale ai fini dell'esercizio del proprio potere di controllo di legalità (Consiglio di Stato Sezione VI, n. 727 del 23.02.2016, cit.).
6.4.- La giurisprudenza amministrativa ha poi anche chiarito che, entro il termine di 60 giorni assegnato, l’eventuale provvedimento di annullamento del nulla osta paesaggistico deve essere adottato e non anche comunicato agli interessati (fra le tante, Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 235 del 22.01.2015).
7.- Facendo applicazione di tali principi non può considerarsi tardivo, nella fattispecie, l’esercizio del potere di annullamento, da parte della Soprintendenza per i Beni Ambientali ed Architettonici di Verona, dell’autorizzazione paesaggistica rilasciata dal Comune di Sovizzo e ritenuta illegittima, considerato che, come si rileva dagli atti:
- l’autorizzazione paesaggistica è pervenuta alla Soprintendenza in data 11.03.1998;
- la Soprintendenza ha richiesto, in data 05.05.1998, una integrazione documentale;
- tale integrazione è pervenuta alla Soprintendenza in data 15.05.1998;
- il provvedimento di annullamento impugnato è stato adottato in data 10.07.1998.
7.1.- Peraltro la richiesta di integrazione documentale fatta dall’organo statale non risulta manifestamente ingiustificata e dilatoria tenuto conto che la Soprintendenza ha richiesto notizie più approfondite sulla relazione geologica e una documentazione fotografica dell’area con la sovrapposizione della sagoma del fabbricato e quindi elementi che possono ritenersi utili per l’esercizio del potere esercitato.
7.2.- Si deve, in proposito ricordare che, questa Sezione (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 2176 del 24.05.2016, n. 727 del 23.02.2016) ha affermato che, nello specifico settore paesaggistico, la motivazione può ritenersi adeguata quando risponde a un modello che contempli, in modo dettagliato, la descrizione:
a) dell'edificio mediante indicazione delle dimensioni, delle forme, dei colori e dei materiali impiegati;
b) del contesto paesaggistico in cui esso si colloca, anche mediante l’indicazione di eventuali altri immobili esistenti, della loro posizione e dimensioni;
c) del rapporto tra edificio e contesto, anche mediante l'indicazione dell'impatto visivo al fine di stabilire se esso si inserisca in maniera armonica nel paesaggio.
7.3.- Considerato che l’autorizzazione paesaggistica rilasciata dal Comune di Sovizzo in favore degli appellanti non risulta che avesse tutti gli elementi e i requisiti che si sono indicati, non può ritenersi ingiustificata e dilatoria la richiesta di integrazione documentale (all’epoca) fatta dalla Soprintendenza (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 20.06.2016 n. 2704 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' jus receptum che qualora un titolo ad aedificandum non venga eseguito a causa del crollo dell’edificio –ove anche dovuto a cause esterne e non imputabili ai lavori intrapresi dal concessionario- esso perde efficacia e non può essere invocato per legittimare, neanche parzialmente, un successivo intervento di integrale demolizione e ricostruzione dell’edificio medesimo.
Pertanto risulta evidente che, una volta verificatosi il crollo parziale, l’interessato che intendesse provvedere alla integrale ricostruzione dell’edificio, previa sua demolizione, deve munirsi di nuovo ed apposito titolo abilitativo, e non limitarsi a comunicare al Comune l’effettuazione dei necessari e urgenti interventi di messa in sicurezza.
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E' pacifico in giurisprudenza che gli interventi di “risanamento conservativo” per loro natura non possono comprendere variazioni di sagome e volumetrie rispetto all’assetto preesistente.

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7. Le questioni poste col primo, col secondo e col terzo dei motivi di appello possono essere esaminate congiuntamente, afferendo a profili giuridici connessi, inerenti alla natura unitaria (o meno) degli abusi edilizi connessi, alla loro conseguente sanabilità (o meno) ed alla possibilità (o meno) di formazione del silenzio-assenso sulle istanze di condono.
7.1. Ed invero, parte appellante assume l’erroneità della valutazione “di fondo” compiuta dal primo giudice, circa la realizzazione dell’opera in totale assenza di titolo edilizio, dalla quale discendono tutte le successive conclusioni in punto di accoglibilità o meno delle domande di condono.
A parere degli istanti, infatti, sussisteva in origine un provvedimento abilitativo legittimante gli interventi sull’immobile de quo, costituito dall’autorizzazione edilizia a suo tempo rilasciata al promissario venditore, e della quale gli stessi odierni appellanti si sono poi avvalsi.
Sulla scorta di ciò, si assume che il Comune, nell’istruire le domande di condono per cui è causa, avrebbe dovuto in sostanza raffrontare le opere realizzate non già all’assetto dei luoghi preesistente, bensì a quanto previsto e assentito con la predetta autorizzazione; in tal modo, si sarebbe dovuto differenziare, nell’ambito dei lavori realizzati, quanto asseritamente corrispondente al titolo edilizio del 1993 da quanto eseguito in difformità dallo stesso, qualificando come abusivi ai fini della sanatoria solo tali ultimi interventi.
In forza di tale impostazione, gli unici abusi di cui tener conto ai fini del condono sarebbero consistiti nella realizzazione del piano interrato adibito ad autorimessa, nel cambio di destinazione d’uso al piano terra e nella suddivisione degli interni in più unità immobiliari (peraltro non portata a compimento a causa del sopravvenuto sequestro penale); invece, non si sarebbe dovuto tener conto delle ulteriori variazioni di sagoma e volumetria, siccome ricomprese nel precitato titolo autorizzatorio del 1993.
Siffatta ricostruzione, pur ingegnosa, è però priva di pregio giuridico.
7.1.1. Ed invero, non risulta contestato fra le parti –ed è anzi allegato dagli stessi istanti- che, dopo l’avvio dei lavori autorizzati nel 1993, l’edificio fu interessato da un crollo parziale, costringendo il promissario acquirente dapprima a intraprendere interventi urgenti di messa in sicurezza (debitamente comunicati al Comune) e quindi a procedere a totale demolizione e ricostruzione dell’immobile: e fu appunto in tale fase che furono accertati gli abusi, con l’adozione di provvedimenti repressivi in sede penale e amministrativa (sequestro preventivo, ordinanza di sospensione dei lavori).
Tale vicenda risulta rilevante ai fini dei successivi sviluppi amministrativi, dal momento che, come evidenziato dall’Amministrazione comunale, è jus receptum che qualora un titolo ad aedificandum non venga eseguito a causa del crollo dell’edificio –ove anche dovuto a cause esterne e non imputabili ai lavori intrapresi dal concessionario- esso perde efficacia e non può essere invocato per legittimare, neanche parzialmente, un successivo intervento di integrale demolizione e ricostruzione dell’edificio medesimo (cfr. Cons. Stato, sez. V, 05.10.2001, nr. 5253; id., 23.03.2000, nr. 1610).
Pertanto risulta evidente che, una volta verificatosi il crollo parziale di cui si è detto, l’interessato che intendesse provvedere alla integrale ricostruzione dell’edificio, previa sua demolizione, avrebbe dovuto munirsi di nuovo ed apposito titolo abilitativo, e non limitarsi –come avvenuto– a comunicare al Comune l’effettuazione dei necessari e urgenti interventi di messa in sicurezza.
7.1.2. Peraltro, anche a voler seguire la tesi degli appellanti circa la perdurante efficacia del titolo abilitativo summenzionato, occorre comunque tenere conto di ciò che con esso era stato effettivamente assentito dal Comune.
Infatti, dal tenore testuale del provvedimento –laddove si parla di “rimaneggiamento parziale di tegole”, di “consolidamento della sottostante struttura di appoggio verticale”, di “apposizione di gronde e canali”, di “sostituzione del solaio”- si desume una natura sostitutiva-conservativa degli interventi assentiti, incompatibile con quanto di fatto realizzato dagli appellanti, consistente nella non contestata totale demolizione del preesistente fabbricato e nella successiva ricostruzione ex novo di un’unità differente per sagoma e volumetria.
E, d’altra parte, è pacifico in giurisprudenza che gli interventi di “risanamento conservativo”, del tipo di quelli assentiti con l’autorizzazione de qua, per loro natura non possono comprendere variazioni di sagome e volumetrie rispetto all’assetto preesistente (sul punto, cfr. Cons. Stato, sez. V, 28.04.2014, nr. 2194; id., 11.11.2004, nr. 7325) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 17.06.2016 n. 2693 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In giurisprudenza è ormai pacifico che la facoltà di instare per la sanatoria non può essere più attribuita esclusivamente al titolare del diritto dominicale, ma deve essere estesa anche a soggetti portatori di interessi qualificati e tutelati dalla legge (titolari di diritti reali minori e/o personali di godimento, creditori, soci), e, secondo una lettura più largheggiante, anche ai titolari di un interesse di mero fatto.
E però, anche nella più ampia e “liberale” delle prospettive, l’interesse legittimante la richiesta di condono deve pur sempre essere oggettivamente apprezzabile alla stregua di una situazione di collegamento con l’abuso oggetto di condono, e non essere semplicemente affermato da chi propone l’istanza sulla base di una propria visione soggettiva.
L’orientamento estensivo della giurisprudenza, in definitiva, mira a garantire e rafforzare la posizione di individui che siano comunque titolari di una posizione giuridica “qualificata”, e non anche solamente apprezzabile dal punto di vista familiare-affettivo.

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8. L’infondatezza dell’appello, per le evidenziate ragioni sostanziali, esonererebbe il Collegio dall’esame dell’ulteriore questione, evocata dal terzo motivo di impugnazione, in ordine alla sussistenza o meno di legittimazione degli odierni appellanti signori Ir.Sc. e Ci.Si. a formulare la domanda di condono.
Tuttavia, anche ai fini di eventuali future nuove determinazioni dell’Amministrazioni comunali all’esito del presente giudizio, non è fuori luogo rilevare l’infondatezza del gravame anche sotto tale profilo.
In particolare, gli appellanti sostengono che la titolarità del potere di presentare l’istanza di condono edilizio, ex art. 31 della legge nr. 47/1985 (laddove, con formula generica “di chiusura”, fra i soggetti legittimati è ricompreso anche “ogni altro soggetto interessato al conseguimento della sanatoria medesima”), debba ormai essere intesa in senso estensivo, ricomprendendo fra i legittimati anche i portatori di interessi di mero fatto.
Tuttavia, della disposizione testé richiamata occorre dare una lettura improntata a canoni di ragionevolezza: in particolare, in giurisprudenza è ormai pacifico che la facoltà di instare per la sanatoria non può essere più attribuita esclusivamente al titolare del diritto dominicale, ma deve essere estesa anche a soggetti portatori di interessi qualificati e tutelati dalla legge (titolari di diritti reali minori e/o personali di godimento, creditori, soci), e, secondo una lettura più largheggiante, anche ai titolari di un interesse di mero fatto (per un quadro panoramico delle tesi esistenti in giurisprudenza in subiecta materia, cfr. Cons. Stato, sez. V, 08.11.2011, nr. 5894).
E però, anche nella più ampia e “liberale” delle prospettive, l’interesse legittimante la richiesta di condono deve pur sempre essere oggettivamente apprezzabile alla stregua di una situazione di collegamento con l’abuso oggetto di condono, e non essere semplicemente affermato da chi propone l’istanza sulla base di una propria visione soggettiva.
L’orientamento estensivo della giurisprudenza, in definitiva, mira a garantire e rafforzare la posizione di individui che siano comunque titolari di una posizione giuridica “qualificata”, e non anche solamente apprezzabile dal punto di vista familiare-affettivo (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 17.06.2016 n. 2693 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Condanne per reati. La valutazione delle condanne riportate dai concorrenti spetta all'amministrazione appaltante.
E’ noto che nelle gare d’appalto la valutazione in ordine alla gravità delle eventuali condanne riportate dai concorrenti e alla loro incidenza sulla moralità professionale spetta esclusivamente all’Amministrazione appaltante, nell’ambito dell’esercizio del potere discrezionale ad essa attribuito e deve essere effettuata mediante la disamina in concreto delle caratteristiche dell’appalto, del tipo di condanna, della natura e delle concrete modalità di commissione del reato.
Nell’ipotesi in cui l’Amministrazione, dopo aver eseguito le dette valutazioni –che, si ribadisce, sono di sua esclusiva competenza nell’ambito dell’esercizio di una attività discrezionale- non ritenga il precedente penale grave ovvero incisivo della moralità professionale del concorrente, non è tenuta ed esplicitare in maniera analitica le ragioni di siffatto convincimento, potendo la motivazione di non gravità del reato risultare anche implicita o per facta concludentia, ossia con l’ammissione alla gara dell’impresa, mentre è la valutazione di gravità che richiede l’assolvimento di un particolare onere motivazionale.
Invero, "Laddove si applicasse in modo sostanzialmente automatico l'esclusione dalle gare di cui al citato art. 38, comma 1, del codice dei contratti, fuori dei casi previsti, ovvero a prescindere da ogni valutazione circa la gravità del comportamento colpevole del soggetto, il quadro ricostruttivo in tal modo delineato si porrebbe in contrasto con l’articolo 45, par. 2, della direttiva 2004/18/CE, secondo cui può essere escluso dalla partecipazione alla gara ogni operatore economico quando il reato "incida" sulla sua moralità professionale (lett. c) oppure quando "non sia in regola" con gli obblighi contributivi (lett. e)".
L'art. 38 del codice dei contratti va dunque letto nel senso che costituiscono condizioni, perché l'esclusione consegua alla condanna, la gravità del reato e il riflesso dello stesso sulla moralità professionale di modo che, al fine di apprezzare il grado di moralità del singolo concorrente, in applicazione del principio comunitario di proporzionalità, assumono rilevanza la natura del reato ed il contenuto del contratto oggetto della gara, senza eccedere quanto è necessario a garantire l'interesse dell'amministrazione di non contrarre obbligazioni con soggetti che non garantiscano l'adeguata moralità professionale, come ricorre nel caso di "falso innocuo".
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Con il secondo motivo di doglianza la ricorrente ha censurato la mancata valutazione della condanna riportata da uno degli amministratori della ricorrente quale causa di inidoneità morale della società, lamentando, in subordine, la mancata esplicitazione delle ragioni per le quali la condanna non è stata ritenuta ostativa.
Anche tale doglianza è infondata.
E’ noto che nelle gare d’appalto la valutazione in ordine alla gravità delle eventuali condanne riportate dai concorrenti e alla loro incidenza sulla moralità professionale spetta esclusivamente all’Amministrazione appaltante (da ultimo, Consiglio di Stato, sez. V, 25.02.2015, n. 927), nell’ambito dell’esercizio del potere discrezionale ad essa attribuito e deve essere effettuata mediante la disamina in concreto delle caratteristiche dell’appalto, del tipo di condanna, della natura e delle concrete modalità di commissione del reato (Consiglio di Stato, sez. III, 03.12.2015, n. 5481).
Nell’ipotesi in cui l’Amministrazione, dopo aver eseguito le dette valutazioni –che, si ribadisce, sono di sua esclusiva competenza nell’ambito dell’esercizio di una attività discrezionale- non ritenga il precedente penale grave ovvero incisivo della moralità professionale del concorrente, non è tenuta ed esplicitare in maniera analitica le ragioni di siffatto convincimento, potendo la motivazione di non gravità del reato risultare anche implicita o per facta concludentia, ossia con l’ammissione alla gara dell’impresa, mentre è la valutazione di gravità che richiede l’assolvimento di un particolare onere motivazionale (TAR Veneto, sez. I, 01.09.2015, n. 953, con ampi riferimenti giurisprudenziali e richiamo a Consiglio di Stato, sez. VI, 22.11.2013, n. 5558, che ha osservato come “Laddove si applicasse in modo sostanzialmente automatico l'esclusione dalle gare di cui al citato art. 38, comma 1, del codice dei contratti, fuori dei casi previsti, ovvero a prescindere da ogni valutazione circa la gravità del comportamento colpevole del soggetto, il quadro ricostruttivo in tal modo delineato si porrebbe in contrasto con l’articolo 45, par. 2 della direttiva 2004/18/CE, secondo cui può essere escluso dalla partecipazione alla gara ogni operatore economico quando il reato "incida" sulla sua moralità professionale (lett. c) oppure quando "non sia in regola" con gli obblighi contributivi (lett. e).
L'art. 38 del codice dei contratti va dunque letto nel senso che costituiscono condizioni, perché l'esclusione consegua alla condanna, la gravità del reato e il riflesso dello stesso sulla moralità professionale di modo che, al fine di apprezzare il grado di moralità del singolo concorrente, in applicazione del principio comunitario di proporzionalità, assumono rilevanza la natura del reato ed il contenuto del contratto oggetto della gara, senza eccedere quanto è necessario a garantire l'interesse dell'amministrazione di non contrarre obbligazioni con soggetti che non garantiscano l'adeguata moralità professionale, come ricorre nel caso di "falso innocuo
".
Nel caso in esame non è dubbio che la conoscenza dell’intervenuta condanna fosse stata acquisita agli atti del procedimento, ciò che è effettivamente imprescindibile al fine di ritenere la consapevole valutazione da parte dell’amministrazione, tanto più che la medesima valutazione di irrilevanza dei precedenti penali dichiarati da uno degli amministratori di Si. e di consequenziale sussistenza del requisito di carattere generale di cui all’art. 38 D.Lgs. n. 163/2006 -peraltro non illogica né irragionevole alla luce, quantomeno, del tempo trascorso dalla commissione e dell’entità della pena inflitta- era già stata compiuta dall’amministrazione in precedenti gare (cfr. documentazione versata in atti dalla controinteressata in data 07.03.2016) (TAR Lazio-Roma, Sez. I, sentenza 16.06.2016 n. 6923 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: In tema di gare per l’affidamento di pubblici appalti, “la sottoscrizione dell’offerta ha la funzione di ricondurre al suo autore l’impegno di effettuare la prestazione oggetto del contratto verso il corrispettivo richiesto ed assicurare, contemporaneamente, la provenienza, la serietà e l’affidabilità dell’offerta stessa”.
Da tale premessa, pur essendo la sottoscrizione della domanda di partecipazione un elemento essenziale, che attiene propriamente alla manifestazione di volontà di partecipare alla gara, poiché la stessa non impatta sul contenuto e sulla segretezza dell’offerta, la sua eventuale carenza deve ritenersi sanabile.
Ed, infatti, “ferma restando la riconducibilità dell’offerta al concorrente (che escluda l’incertezza assoluta sulla provenienza), dal combinato disposto dell’art. 38, comma 2-bis e 46, comma 1-ter del Codice, risulta ora sanabile ogni ipotesi di mancanza, incompletezza o irregolarità (anche) degli elementi che devono essere prodotti dai concorrenti in base alla legge (al bando o al disciplinare di gara), ivi incluso l’elemento della sottoscrizione, dietro pagamento della sanzione prevista nel bando” (nel senso della necessaria interpretazione funzionale del requisito del “difetto di sottoscrizione”, cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 10.09.2014 n. 4595, che rileva come la suddetta carenza “...per comportare la necessaria ed automatica esclusione del concorrente, debba determinare "l'incertezza assoluta...... sulla provenienza dell'offerta", risolvendosi altrimenti in una mancanza di natura formale inidonea a produrre l'effetto sanzionatorio disposto dalla norma”).
Tale tipologica di vizi, tuttavia, in forza dei principi generali, opera sul piano della efficacia e non su quello della validità (nel senso della non operatività sul piano della validità degli atti posti in essere in violazione o in carenza dei limiti del potere rappresentativo, ancorché con riferimento alle società di capitali, cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 14.02.2012, n. 726, secondo cui in tali ipotesi non ricorre “un’invalidità del negozio deducibile dalla controparte, ma la mera inefficacia del medesimo nei confronti della società falsamente rappresentata, la quale soltanto è legittimata ad eccepirla”).

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Con il primo motivo di doglianza la ricorrente ha sostenuto l’illegittimità del provvedimento di aggiudicazione alla controinteressata in quanto sia la domanda di partecipazione alla gara che l’offerta economica sono state sottoscritte ciascuna da uno solo dei due amministratori, in violazione dalle norme statutarie che prevedevano l’attribuzione della rappresentanza della società ai due amministratori a firma congiunta.
La prospettazione non può essere condivisa.
L’art. 46, comma 1-bis, del codice dei contratti pubblici, vigente al momento dello svolgimento del procedimento, disponeva che “La stazione appaltante esclude i candidati o i concorrenti in caso di mancato adempimento alle prescrizioni previste dal presente codice e dal regolamento e da altre disposizioni di legge vigenti, nonché nei casi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell'offerta, per difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali ovvero in caso di non integrità del plico contenente l'offerta o la domanda di partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura dei plichi, tali da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato violato il principio di segretezza delle offerte”.
Ritiene il collegio che di tale disposizione occorre dare un’interpretazione sostanziale, tenendo presente sia la funzione della sottoscrizione, sia la finalità generale della norma, introdotta nel 2011 in una generale ottica di deformalizzazione del procedimento.
Come recentemente osservato in proposito anche dall’Anac (determinazione n. 1 dell’08.01.2015), in tema di gare per l’affidamento di pubblici appalti, “la sottoscrizione dell’offerta ha la funzione di ricondurre al suo autore l’impegno di effettuare la prestazione oggetto del contratto verso il corrispettivo richiesto ed assicurare, contemporaneamente, la provenienza, la serietà e l’affidabilità dell’offerta stessa”.
Da tale premessa, l’Autorità trae la condivisibile conseguenza che, pur essendo la sottoscrizione della domanda di partecipazione un elemento essenziale, che attiene propriamente alla manifestazione di volontà di partecipare alla gara, poiché la stessa non impatta sul contenuto e sulla segretezza dell’offerta, la sua eventuale carenza deve ritenersi sanabile.
Ed, infatti, “ferma restando la riconducibilità dell’offerta al concorrente (che escluda l’incertezza assoluta sulla provenienza), dal combinato disposto dell’art. 38, comma 2-bis e 46, comma 1-ter del Codice, risulta ora sanabile ogni ipotesi di mancanza, incompletezza o irregolarità (anche) degli elementi che devono essere prodotti dai concorrenti in base alla legge (al bando o al disciplinare di gara), ivi incluso l’elemento della sottoscrizione, dietro pagamento della sanzione prevista nel bando” (nel senso della necessaria interpretazione funzionale del requisito del “difetto di sottoscrizione”, cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 10.09.2014 n. 4595, che rileva come la suddetta carenza “...per comportare la necessaria ed automatica esclusione del concorrente, debba determinare "l'incertezza assoluta...... sulla provenienza dell'offerta", risolvendosi altrimenti in una mancanza di natura formale inidonea a produrre l'effetto sanzionatorio disposto dalla norma”).
Nel caso in esame, peraltro, non ricorre un caso di omessa sottoscrizione in senso proprio, avendo un amministratore sottoscritto la domanda di partecipazione alla gara e un altro l’offerta economica, così da non risultare dubbia la riferibilità dell’offerta alla società, il cui timbro è presente in entrambi i documenti.
La fattispecie va quindi correttamente inquadrata in un’ipotesi di non corretta spendita del potere rappresentatativo.
Tale tipologica di vizi, tuttavia, in forza dei principi generali, opera sul piano della efficacia e non su quello della validità (nel senso della non operatività sul piano della validità degli atti posti in essere in violazione o in carenza dei limiti del potere rappresentativo, ancorché con riferimento alle società di capitali, cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 14.02.2012, n. 726, secondo cui in tali ipotesi non ricorre “un’invalidità del negozio deducibile dalla controparte, ma la mera inefficacia del medesimo nei confronti della società falsamente rappresentata, la quale soltanto è legittimata ad eccepirla”).
La già rilevata peculiarità della vicenda, e cioè la circostanza per cui ciascun amministratore ha sottoscritto uno degli atti con i quali la società ha chiesto di partecipare alla gara rende, in ogni caso, inapplicabile al caso in esame il diverso indirizzo giurisprudenziale invocato dalla controinteressata -e formatosi in massima parte con riferimento a casi in cui, pur in presenza di previsioni normative o statutarie di firma congiunta, l’atto era stato firmato da uno solo dei soggetti muniti di potere rappresentativo– atteso che non vengono qui in rilievo quelle esigenze di affidamento della stazione appaltante e di preventivo vaglio della serietà e validità dell’impegno a tutela delle quali sono stati affermati la efficacia viziante e la non sanabilità dei vizi derivanti dalla non corretta spendita del potere rappresentativo (TAR Lazio-Roma, Sez. I, sentenza 16.06.2016 n. 6923 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZILicenziati esclusi dalla clausola sociale. Appalti. Il bando di gara non può prevedere l’obbligo di gestire i lavoratori estromessi dalla precedente azienda.
La clausola sociale non può ribaltare sul nuovo appaltatore le pretese dei dipendenti che siano in lite con il precedente gestore.

Lo ha sottolineato il TAR Puglia-Lecce, Sez. III, con la sentenza 16.06.2016 n. 983, relativa a un appalto per la raccolta di rifiuti solidi urbani.
L’amministrazione aveva previsto, in un bando di gara, che i concorrenti formulassero la loro offerta tenendo conto del costo di 24 lavoratori da reintegrare. Non si trattava quindi di una usuale clausola sociale, che garantisse il passaggio dei dipendenti da un appaltatore all’altro, bensì di una garanzia più ampia e indeterminata. Si discuteva, infatti, dei costi del reintegro reale di dipendenti licenziati e del costo di eventuali arretrati per pretese risarcitorie.
Secondo l’impresa ricorrente, la situazione rendeva impossibile il calcolo di convenienza tecnico-economica dell’offerta di gara, perché mancavano dati essenziali per la formulazione dell’offerta stessa. Al futuro gestore, infatti, si addossavano, come rischio d’impresa, le voci di costo inerenti eventuali nuove assunzioni (ventiquattro unità) con i relativi, eventuali arretrati. Tali oneri risultavano indeterminati e, allo stato, indeterminabili, impedendo la corretta formulazione di un’offerta.
L’orientamento dei giudici amministrativi è coerente a quello del Consiglio di Stato (2433/2016) che di recente ha esaminato il caso di una concessione del servizio distribuzione gas, ritenendo valido l’impegno dell’impresa subentrante ad assumere tutto il personale impiegato nella precedente gestione, anche senza confermare l’integrale destinazione al medesimo servizio, con possibilità cioè di destinare i dipendenti ad altri servizi in aree limitrofe per ragioni di economia di gestione.
Infatti la clausola sociale va interpretata conformemente ai principi nazionali e comunitari in materia di libertà di iniziativa imprenditoriale garantita dall’articolo 41 della Costituzione per cui, fermo l’obbligo di riassorbimento dei lavoratori alle proprie dipendenze, il nuovo gestore del servizio può collocarne alcuni in altri contratti da esso eseguiti (e anche ricorrere agli ammortizzatori sociali previsti dalla legge allorché in esubero), quando nell’organizzazione prefigurata gli stessi risultino superflui.
Quindi la clausola sociale funge da strumento per favorire la continuità e la stabilità occupazionale dei lavoratori, ma nel contempo non può esser tale da comprimere le esigenze organizzative dell’impresa subentrante che ritenga di potere ragionevolmente svolgere il servizio utilizzando una minore componente di lavoro rispetto al precedente gestore, e dunque ottenendo in questo modo economie di costi da valorizzare a fini competitivi nella procedura di affidamento.
Solo per i call center l’articolo 1, comma 10, della legge 11/2016 prevede la clausola sociale come obbligo di legge, mentre nei nuovi appalti la clausola sociale potrà (a scelta dell’ente) essere imposta nel bando (articolo 38 del Dlgs 50/2016) oppure (articolo 1, lettera ddd, della legge 11/2016) essere utilizzata come requisito premiale nel calcolo dei punteggi
(articolo Il Sole 24 Ore del 28.06.2016).

PUBBLICO IMPIEGO: Posizioni organizzative, il Tar boccia il conferimento.
Per gli incarichi ai funzionari posti ai vertici degli uffici infraprovinciali dell'Agenzia delle entrate occorre una vera e propria procedura comparativa e selettiva, dalla quale far emergere i titoli di merito e professionali alla base della designazione.

Non c'è pace per l'Agenzia delle entrate nella definizione dei vertici organizzativi dei propri uffici. L'ordinanza cautelare 16.06.2016 n. 214 del TAR Piemonte, Sez. I, scrive un altro capitolo della complicatissima e lunghissima fase di riorganizzazione dell'Agenzia, che si aggiunge alla saga degli incarichi dirigenziali conferiti senza concorso ai propri funzionari, considerati illegittimi dalla Corte costituzionale (sentenza 37/2015).
Il nuovo «caso» deriva dall'affidamento dell'incarico di direzione alla direzione provinciale di Cuneo. In questo caso, non si tratta di un incarico di funzione dirigenziale, perché il vertice dell'ufficio è coperto da un funzionario, ai sensi della riorganizzazione e riduzione dei ruoli dirigenziali dell'Agenzia, disposti dall'articolo 23-quinquies, comma 5, lettera a), n. 3, del decreto legge 95/2012, convertito con legge 135/2012.
Tuttavia, il problema affrontato dal Tar è analogo: le modalità con le quali attribuire gli incarichi di vertice e la legittimità di assegnazioni di natura sostanzialmente fiduciaria.
Trattandosi di un'ordinanza cautelare, la questione non può dirsi risolta. Tuttavia, il Tar, sia pure sulla base dell'esame sommario della vertenza finalizzato a verificare la sussistenza del fumus boni iuris, ha ritenuto che a una prima valutazione possa considerarti fondato il vizio eccepito da un funzionario che ambiva all'incarico, ma scartato dalla scelta finale.
Il vizio evidenziato dall'ordinanza consiste nella carenza di motivazione nella scelta del controinteressato, con particolare riferimento alle valutazioni e ai punteggi di merito da utilizzare ai fini della scelta. Non solo: l'ordinanza rileva ulteriormente «l'assenza di qualsiasi giudizio di natura comparativa nelle successive valutazioni operate sia dal direttore regionale sia dal direttore dell'Agenzia».
In sostanza, dunque, l'incarico è avvenuto senza rispettare i canoni selettivi pur necessari, perché, rileva il Tar, di fatto si tratta di una progressione di carriera dalla qualifica di funzionario a quella di «quadro», potenzialmente a tempo indeterminato, visto la rinnovabilità ad libitum degli incarichi direttivi, per quanto ciascuno di essi possa durare tre anni.
L'ordinanza ha anche considerato la sussistenza del «periculum in mora», dando rilievo all'interesse professionale ed economico del ricorrente «di ambire a ottenere, entro tempi ragionevoli, l'incarico per cui è causa».
Pertanto, l'ordinanza indica all'Agenzia di riesaminare il provvedimento di attribuzione dell'incarico oggetto della vertenza, imponendo di tenere conto degli esiti delle prove selettive espletate, «in un'ottica necessariamente comparativa tra i vari candidati già segnalati» (articolo ItaliaOggi del 02.07.2016).

TRIBUTITasse locali anche senza Prg. Imu e Tasi dovute anche se il piano regolatore è decaduto. Per la Cassazione bisogna fare riferimento alla destinazione urbanistica originaria.
Ici, Imu e Tasi sono dovute sulle aree edificabili anche se il piano regolatore generale è decaduto per mancata approvazione della regione. Per determinare la natura dei terreni compresi in un piano di sviluppo industriale decaduto è necessario far riferimento alla destinazione urbanistica originaria.
Quindi, le aree sono soggette a imposizione se inserite nel preesistente programma di fabbricazione, a prescindere dall'esistenza o dalla validità degli strumenti urbanistici attuativi. Va invece tenuto conto della maggiore o minore potenzialità edificatoria delle aree in sede di determinazione del loro valore di mercato, nonché della possibile incidenza degli oneri di urbanizzazione sul valore delle stesse.

L'importante principio è stato affermato dalla Corte di Cassazione, Sez. VI civile, con l'ordinanza 15.06.2016 n. 12379.
 Secondo i giudici di legittimità, per qualificare i terreni compresi in un piano Asi decaduto «occorre fare riferimento alla destinazione urbanistica originaria, con la conseguenza che gli stessi sono da qualificare edificabili se inseriti nel preesistente programma di fabbricazione, a prescindere dall'esistenza o dalla validità degli strumenti urbanistici attuativi».
Precisa inoltre la Cassazione che sussiste l'esigenza di tenere concretamente conto nella determinazione della base imponibile «della maggiore o minore attualità delle sue potenzialità edificatorie, nonché della possibile incidenza degli ulteriori oneri di urbanizzazione sul valore dello stesso in comune commercio».
Quello che rileva per qualificare giuridicamente la natura del terreno, ai fini dell'imposizione tributaria, è la «mera potenzialità edificatoria», che permane anche se il Prg (o il piano di fabbricazione, che è la stessa cosa) decade per mancata approvazione. Del resto, in base all'articolo 2 del decreto legislativo 504/1992 per area fabbricabile s'intende l'area utilizzabile a scopo edificatorio in base agli strumenti urbanistici «generali o attuativi».
Mentre per la caratteristica dell'edificabilità è sufficiente che essa risulti da un piano regolatore generale, la potenzialità di edificazione è maggiore quando l'area è ricompresa in un piano particolareggiato e ciò ha effetti nella determinazione del valore dell'area stessa e della quantificazione della base imponibile Ici, Imu e Tasi. Tra l'altro, l'edificabilità di un'area non può essere esclusa neppure dalla presenza di vincoli o di particolari destinazioni urbanistiche. In questi casi l'area è comunque soggetta al pagamento delle imposte locali (Cassazione, sentenza 5161/2014).
Al riguardo, la Corte costituzionale (sentenza 41/2008) ha stabilito che non si possono distinguere le aree edificabili in concreto da quelle edificabili in astratto (cioè considerate edificabili da strumenti urbanistici non approvati o non attuati). L'astratta edificabilità del suolo giustifica di per sé la valutazione del terreno secondo il suo valore venale e differenzia radicalmente tale tipo di suoli da quelli agricoli non fabbricabili.
L'articolo 36 del dl 223/2006, richiamato nell'ordinanza, ha chiarito che un'area sia da considerare fabbricabile se utilizzabile a scopo edificatorio in base allo strumento urbanistico generale deliberato dal comune, indipendentemente dall'approvazione della regione e dall'adozione di strumenti attuativi (articolo ItaliaOggi del 24.06.2016).

EDILIZIA PRIVATA: E' insegnamento della giurisprudenza consolidata che l’ordine di demolizione deve essere rivolto nei confronti di chi abbia la disponibilità dell’opera, indipendentemente dal fatto che tale soggetto si sia reso responsabile dell’abuso per averlo concretamente realizzato, rilevando detto profilo esclusivamente sotto il profilo della responsabilità penale, ma non già ai fini della legittimità dell’ordine di demolizione.
Infatti, l’ordinanza di demolizione di una costruzione abusiva può essere legittimamente emanata nei confronti del proprietario attuale, anche se non responsabile dell’abuso, poiché l’abuso edilizio costituisce illecito permanente e l’ordinanza ha carattere ripristinatorio e non prevede l’accertamento del dolo o della colpa del soggetto al quale è imputata la trasgressione.
Anche questo Tribunale ha in più occasioni sottolineato che, affinché il proprietario possa essere destinatario dell’ordinanza di demolizione, non occorre stabilire se egli sia responsabile dell’abuso, poiché l’art. 31, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001 prevede espressamente la legittimazione passiva del proprietario non responsabile all’esecuzione dell’ordine di demolizione: ciò si spiega con la possibilità che ha il proprietario –in virtù del suo diritto dominicale– di eseguire l’ordine ripristinatorio.

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Considerato che le opere di cui si ingiunge la demolizione, ubicate sul terreno distinto in catasto al fg. n. 192, mapp. n. 2034, vengono identificate nel provvedimento impugnato attraverso il richiamo ai rapporti della Polizia Locale n. 228/2000, prot. n. 5949/VII, del 25.07.2000, n. 239/2000, prot. n. 6390/VII, dell’11.08.2000, e n. 112/PG/2008, prot. n. 6305/VII “del 25.07.2000” (rectius, del 05.09.2008) e consistono:
   - in un prefabbricato in legno di circa mq. 30, con annessa veranda di mt. 6,00x1,50 circa, avente copertura in ondulina, di altezza da mt. 2,10 a mt. 2,30 circa, poggiato su ruote centrali e piedini in ferro sui lati alti circa cm. 50, il tutto poggiato su mattoni di cemento posti a secco con sabbia. Tale manufatto è tramezzato internamente in tre vani con bagno provvisto di sanitari e con cucina fornita di pensili, frigo e piano cottura;
   - nel proseguimento dei lavori relativi al manufatto di cui al punto precedente e perciò nell’allaccio alla rete idrica e fognaria, nell’impianto elettrico, in un mattonato a secco di mt. 6,00x2,00 e nella tamponatura della veranda;
   - nell’ulteriore proseguimento dei lavori relativi al manufatto in discorso e perciò nella tamponatura della base rialzata per circa cm. 50, in precedenza posizionata su mattoni di cemento poggiati a terra su sabbia, e nel rifacimento della veranda mediante travi in legno con tavole lamellari a due falde e completa di guaina, tegole e grondaia, il tutto poggiante su pali in legno impiantati sulla sottostante pavimentazione.
In più, nell’ampliamento del manufatto, tramite una nuova porzione (aderente, ma non comunicante con la precedente opera), realizzata in muratura e vetrata, adibita a locale cucina e delle dimensioni di mt. 4,20x4,90, con altezza da mt. 2,35 a mt. 2,60. Infine, in un muro divisorio in blocchetti di cemento con sovrastante rete metallica, costruito per dividere il lotto appartenente in comproprietà (indivisa) alle ricorrenti, con separati cancelli d’ingresso;
Considerato che a supporto del ricorso le sigg.re Es. ed El., pur senza articolare specifici motivi, deducono le seguenti doglianze:
   - violazione degli artt. 6 e 7 della l. n. 47/1985, per violazione dei criteri di imputazione soggettiva dell’illecito edilizio previsti dalla legge, giacché l’ordinanza impugnata prefigurerebbe in capo alle ricorrenti una presunzione di responsabilità, non qualificata, però, da alcuna causalità rispetto alla condotta sanzionata, e poiché la P.A. non individuerebbe nessun elemento in grado di qualificare la condotta delle citate ricorrenti come illecito edilizio;
   - illegittimità dell’ordine di demolizione perché le opere eseguite non necessiterebbero di permesso di costruire, trattandosi di manufatti precari, perché facilmente amovibili e non infissi al suolo (ma poggianti su ruote e su mattoni di cemento sistemati a secco sulla sabbia). Per di più, le proprietarie risiederebbero a Napoli ed avrebbero una normale abitazione. Infine, il lotto nel quale si trovano le opere ricadrebbe in Zona C4 (di espansione e ristrutturazione residenziale), con indice fondiario di 0,50 mc./mq., in un’area dotata di opere di urbanizzazione primaria e secondaria;
Rilevato che il Comune di Terracina, pur ritualmente e tempestivamente evocato, non si è costituito in giudizio;
Ritenuta la sussistenza degli estremi per pronunciare sentenza cd. semplificata, ai sensi dell’art. 74 c.p.a., attesa la manifesta infondatezza del ricorso;
Considerato, infatti, che la palese infondatezza del gravame emerge dai seguenti elementi:
   - in ordine alla prima doglianza, osserva il Collegio che le ricorrenti lamentano, in sostanza, di non essere indicate dall’ordinanza impugnata quali soggetti responsabili dell’abuso, ma non contestano in alcun modo, ed anzi rivendicano, di essere comproprietarie del lotto di terreno su cui ricadono le opere abusive, nonché proprietarie di dette opere;
   - tanto premesso, è insegnamento della giurisprudenza consolidata che l’ordine di demolizione deve essere rivolto nei confronti di chi abbia la disponibilità dell’opera, indipendentemente dal fatto che tale soggetto si sia reso responsabile dell’abuso per averlo concretamente realizzato, rilevando detto profilo esclusivamente sotto il profilo della responsabilità penale, ma non già ai fini della legittimità dell’ordine di demolizione; infatti, l’ordinanza di demolizione di una costruzione abusiva può essere legittimamente emanata nei confronti del proprietario attuale, anche se non responsabile dell’abuso, poiché l’abuso edilizio costituisce illecito permanente e l’ordinanza ha carattere ripristinatorio e non prevede l’accertamento del dolo o della colpa del soggetto al quale è imputata la trasgressione (cfr., tra le ultime, TAR Lazio, Roma, sez. I, 24.02.2016, n. 2588; TAR Campania, Napoli, Sez. III, 08.01.2016, n. 14);
   - anche questo Tribunale ha in più occasioni sottolineato che, affinché il proprietario possa essere destinatario dell’ordinanza di demolizione, non occorre stabilire se egli sia responsabile dell’abuso, poiché l’art. 31, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001 prevede espressamente la legittimazione passiva del proprietario non responsabile all’esecuzione dell’ordine di demolizione (v. TAR Lazio, Roma, Sez. I, 18.01.2011, n. 381; id., 10.05.2010, n. 10470): ciò si spiega con la possibilità che ha il proprietario –in virtù del suo diritto dominicale– di eseguire l’ordine ripristinatorio (v. TAR Lazio, Latina, Sez. I, 22.12.2014, n. 1096; id., 11.12.2013, n. 963);
   - da quanto ora visto si desume l’infondatezza della doglianza appena esaminata (la prima formulata nel gravame): doglianza che deve, perciò, essere respinta;
   - è, altresì, priva di fondamento la doglianza incentrata sulla non necessità del permesso di costruire (e, per conseguenza, sull’inapplicabilità alla fattispecie della sanzione demolitoria), in ragione della precarietà e facile amovibilità del prefabbricato, in quanto privo di basi infisse al suolo;
   - in contrario, infatti, è agevole evidenziare che, secondo un orientamento giurisprudenziale oramai consolidato (cfr., ex plurimis, Cass. pen., Sez. III, 24.03.2010, n. 24241), a cui ha aderito anche questa Sezione (cfr. TAR Lazio, Latina, Sez. I, 11.12.2014, n. 1056; id., 28.10.2014, n. 895; id., 22.09.2014, n. 727), hanno natura di opere precarie le opere che, in disparte le loro modalità costruttive, risultino destinate a soddisfare esigenze contingenti, improvvise e transeunti e ad essere presto eliminate, con il corollario che neppure la facile amovibilità dei manufatti eseguiti basta, di per sé, a farli ritenere provvisti del carattere della precarietà (v. TAR Campania, Salerno, Sez. I, 13.11.2013, n. 2240);
   - ancora recentemente la giurisprudenza ha precisato che, per l’accertamento del carattere precario o meno di una data opera, è necessario verificare la destinazione funzionale e l’interesse finale, al cui soddisfacimento la stessa è destinata: possono, pertanto, dirsi di carattere precario solo le opere che (oltre ad essere agevolmente rimuovibili) siano funzionali a soddisfare un’esigenza obiettivamente temporanea, mentre non si possono considerare tali i manufatti che risultino destinati ad un utilizzo perdurante nel tempo (C.d.S., Sez. III, 12.09.2012, n. 4850);
   - anche la Cassazione penale (oltre al precedente indicato più sopra, cfr. Sez. III, 10.10.2002, n. 38073) ha evidenziato che nella materia edilizia, al fine del riscontro del requisito della precarietà di un’opera, non sono rilevanti le caratteristiche costruttive, i materiali impiegati e la rimovibilità più o meno agevole, bensì le esigenze temporanee a cui l’opera sia eventualmente destinata;
   - da quanto esposto si ricava facilmente che, nel caso di specie, i manufatti di cui è stata ingiunta la demolizione non hanno per nulla il carattere della precarietà, non essendo in alcun modo destinati a soddisfare esigenze temporanee e transeunti, né ad essere rapidamente rimossi. All’opposto, il fatto che, in prosieguo di tempo, siano stati via via completati e forniti di accessori (dagli allacci alle reti all’impianto elettrico, dal rifacimento della veranda all’ampliamento tramite una nuova cucina, fino alla realizzazione di un muro divisorio e di cancelli separati) dimostra senza ombra di dubbio che si tratta di manufatti stabili e destinati a soddisfare esigenze perduranti nel tempo. Ne discende il loro assoggettamento alla disciplina in tema di permesso di costruire ex art. 10 del d.P.R. n. 380/2001, la cui mancanza rende pienamente legittimo l’ordine di demolizione;
   - per la medesima ragione, è altresì irrilevante che le ricorrenti risiedano a Napoli e vi abbiano una loro abitazione, così come non ha alcun valore che l’area di ubicazione dei manufatti ricada in Zona C4 e sia dotata delle urbanizzazioni primarie e secondarie. Ciò che conta è solo che il prefabbricato, avente specifica rilevanza ed autonomamente utilizzabile, e gli altri manufatti presenti in loco siano stati realizzati in assenza di idoneo titolo edilizio e siano, pertanto, abusivi;
Ritenuto in definitiva, alla luce di quanto si è esposto, di dover dichiarare il ricorso manifestamente infondato ai sensi dell’art. 74 c.p.a., in ragione della palese infondatezza di tutte le doglianze con lo stesso formulate (
TAR Lazio-Latina, sentenza 15.06.2016 n. 389 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo un orientamento giurisprudenziale oramai consolidato, hanno natura di opere precarie le opere che, in disparte le loro modalità costruttive, risultino destinate a soddisfare esigenze contingenti, improvvise e transeunti e ad essere presto eliminate, con il corollario che neppure la facile amovibilità dei manufatti eseguiti basta, di per sé, a farli ritenere provvisti del carattere della precarietà.
Ancora recentemente la giurisprudenza ha precisato che, per l’accertamento del carattere precario o meno di una data opera, è necessario verificare la destinazione funzionale e l’interesse finale, al cui soddisfacimento la stessa è destinata: possono, pertanto, dirsi di carattere precario solo le opere che (oltre ad essere agevolmente rimuovibili) siano funzionali a soddisfare un’esigenza obiettivamente temporanea, mentre non si possono considerare tali i manufatti che risultino destinati ad un utilizzo perdurante nel tempo.
Anche la Cassazione penale ha evidenziato che nella materia edilizia, al fine del riscontro del requisito della precarietà di un’opera, non sono rilevanti le caratteristiche costruttive, i materiali impiegati e la rimovibilità più o meno agevole, bensì le esigenze temporanee a cui l’opera sia eventualmente destinata.
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Nel caso di specie, i manufatti di cui è stata ingiunta la demolizione non hanno per nulla il carattere della precarietà, non essendo in alcun modo destinati a soddisfare esigenze temporanee e transeunti, né ad essere rapidamente rimossi.
All’opposto, il fatto che, in prosieguo di tempo, siano stati via via completati e forniti di accessori (dagli allacci alle reti all’impianto elettrico, dal rifacimento della veranda all’ampliamento tramite una nuova cucina, fino alla realizzazione di un muro divisorio e di cancelli separati) dimostra senza ombra di dubbio che si tratta di manufatti stabili e destinati a soddisfare esigenze perduranti nel tempo. Ne discende il loro assoggettamento alla disciplina in tema di permesso di costruire ex art. 10 del d.P.R. n. 380/2001, la cui mancanza rende pienamente legittimo l’ordine di demolizione.
Per la medesima ragione, è altresì irrilevante che le ricorrenti risiedano a Napoli e vi abbiano una loro abitazione, così come non ha alcun valore che l’area di ubicazione dei manufatti ricada in Zona C4 e sia dotata delle urbanizzazioni primarie e secondarie. Ciò che conta è solo che il prefabbricato, avente specifica rilevanza ed autonomamente utilizzabile, e gli altri manufatti presenti in loco siano stati realizzati in assenza di idoneo titolo edilizio e siano, pertanto, abusivi.

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Considerato che le opere di cui si ingiunge la demolizione, ubicate sul terreno distinto in catasto al fg. n. 192, mapp. n. 2034, vengono identificate nel provvedimento impugnato attraverso il richiamo ai rapporti della Polizia Locale n. 228/2000, prot. n. 5949/VII, del 25.07.2000, n. 239/2000, prot. n. 6390/VII, dell’11.08.2000, e n. 112/PG/2008, prot. n. 6305/VII “del 25.07.2000” (rectius, del 05.09.2008) e consistono:
   - in un prefabbricato in legno di circa mq. 30, con annessa veranda di mt. 6,00x1,50 circa, avente copertura in ondulina, di altezza da mt. 2,10 a mt. 2,30 circa, poggiato su ruote centrali e piedini in ferro sui lati alti circa cm. 50, il tutto poggiato su mattoni di cemento posti a secco con sabbia. Tale manufatto è tramezzato internamente in tre vani con bagno provvisto di sanitari e con cucina fornita di pensili, frigo e piano cottura;
   - nel proseguimento dei lavori relativi al manufatto di cui al punto precedente e perciò nell’allaccio alla rete idrica e fognaria, nell’impianto elettrico, in un mattonato a secco di mt. 6,00x2,00 e nella tamponatura della veranda;
   - nell’ulteriore proseguimento dei lavori relativi al manufatto in discorso e perciò nella tamponatura della base rialzata per circa cm. 50, in precedenza posizionata su mattoni di cemento poggiati a terra su sabbia, e nel rifacimento della veranda mediante travi in legno con tavole lamellari a due falde e completa di guaina, tegole e grondaia, il tutto poggiante su pali in legno impiantati sulla sottostante pavimentazione.
In più, nell’ampliamento del manufatto, tramite una nuova porzione (aderente, ma non comunicante con la precedente opera), realizzata in muratura e vetrata, adibita a locale cucina e delle dimensioni di mt. 4,20x4,90, con altezza da mt. 2,35 a mt. 2,60. Infine, in un muro divisorio in blocchetti di cemento con sovrastante rete metallica, costruito per dividere il lotto appartenente in comproprietà (indivisa) alle ricorrenti, con separati cancelli d’ingresso;
Considerato che a supporto del ricorso le sigg.re Es. ed El., pur senza articolare specifici motivi, deducono le seguenti doglianze:
   - violazione degli artt. 6 e 7 della l. n. 47/1985, per violazione dei criteri di imputazione soggettiva dell’illecito edilizio previsti dalla legge, giacché l’ordinanza impugnata prefigurerebbe in capo alle ricorrenti una presunzione di responsabilità, non qualificata, però, da alcuna causalità rispetto alla condotta sanzionata, e poiché la P.A. non individuerebbe nessun elemento in grado di qualificare la condotta delle citate ricorrenti come illecito edilizio;
   - illegittimità dell’ordine di demolizione perché le opere eseguite non necessiterebbero di permesso di costruire, trattandosi di manufatti precari, perché facilmente amovibili e non infissi al suolo (ma poggianti su ruote e su mattoni di cemento sistemati a secco sulla sabbia). Per di più, le proprietarie risiederebbero a Napoli ed avrebbero una normale abitazione. Infine, il lotto nel quale si trovano le opere ricadrebbe in Zona C4 (di espansione e ristrutturazione residenziale), con indice fondiario di 0,50 mc./mq., in un’area dotata di opere di urbanizzazione primaria e secondaria;
Rilevato che il Comune di Terracina, pur ritualmente e tempestivamente evocato, non si è costituito in giudizio;
Ritenuta la sussistenza degli estremi per pronunciare sentenza cd. semplificata, ai sensi dell’art. 74 c.p.a., attesa la manifesta infondatezza del ricorso;
Considerato, infatti, che la palese infondatezza del gravame emerge dai seguenti elementi:
   - in ordine alla prima doglianza, osserva il Collegio che le ricorrenti lamentano, in sostanza, di non essere indicate dall’ordinanza impugnata quali soggetti responsabili dell’abuso, ma non contestano in alcun modo, ed anzi rivendicano, di essere comproprietarie del lotto di terreno su cui ricadono le opere abusive, nonché proprietarie di dette opere;
   - tanto premesso, è insegnamento della giurisprudenza consolidata che l’ordine di demolizione deve essere rivolto nei confronti di chi abbia la disponibilità dell’opera, indipendentemente dal fatto che tale soggetto si sia reso responsabile dell’abuso per averlo concretamente realizzato, rilevando detto profilo esclusivamente sotto il profilo della responsabilità penale, ma non già ai fini della legittimità dell’ordine di demolizione; infatti, l’ordinanza di demolizione di una costruzione abusiva può essere legittimamente emanata nei confronti del proprietario attuale, anche se non responsabile dell’abuso, poiché l’abuso edilizio costituisce illecito permanente e l’ordinanza ha carattere ripristinatorio e non prevede l’accertamento del dolo o della colpa del soggetto al quale è imputata la trasgressione (cfr., tra le ultime, TAR Lazio, Roma, sez. I, 24.02.2016, n. 2588; TAR Campania, Napoli, Sez. III, 08.01.2016, n. 14);
   - anche questo Tribunale ha in più occasioni sottolineato che, affinché il proprietario possa essere destinatario dell’ordinanza di demolizione, non occorre stabilire se egli sia responsabile dell’abuso, poiché l’art. 31, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001 prevede espressamente la legittimazione passiva del proprietario non responsabile all’esecuzione dell’ordine di demolizione (v. TAR Lazio, Roma, Sez. I, 18.01.2011, n. 381; id., 10.05.2010, n. 10470): ciò si spiega con la possibilità che ha il proprietario –in virtù del suo diritto dominicale– di eseguire l’ordine ripristinatorio (v. TAR Lazio, Latina, Sez. I, 22.12.2014, n. 1096; id., 11.12.2013, n. 963);
   - da quanto ora visto si desume l’infondatezza della doglianza appena esaminata (la prima formulata nel gravame): doglianza che deve, perciò, essere respinta;
   - è, altresì, priva di fondamento la doglianza incentrata sulla non necessità del permesso di costruire (e, per conseguenza, sull’inapplicabilità alla fattispecie della sanzione demolitoria), in ragione della precarietà e facile amovibilità del prefabbricato, in quanto privo di basi infisse al suolo;
   - in contrario, infatti, è agevole evidenziare che, secondo un orientamento giurisprudenziale oramai consolidato (cfr., ex plurimis, Cass. pen., Sez. III, 24.03.2010, n. 24241), a cui ha aderito anche questa Sezione (cfr. TAR Lazio, Latina, Sez. I, 11.12.2014, n. 1056; id., 28.10.2014, n. 895; id., 22.09.2014, n. 727), hanno natura di opere precarie le opere che, in disparte le loro modalità costruttive, risultino destinate a soddisfare esigenze contingenti, improvvise e transeunti e ad essere presto eliminate, con il corollario che neppure la facile amovibilità dei manufatti eseguiti basta, di per sé, a farli ritenere provvisti del carattere della precarietà (v. TAR Campania, Salerno, Sez. I, 13.11.2013, n. 2240);
   - ancora recentemente la giurisprudenza ha precisato che, per l’accertamento del carattere precario o meno di una data opera, è necessario verificare la destinazione funzionale e l’interesse finale, al cui soddisfacimento la stessa è destinata: possono, pertanto, dirsi di carattere precario solo le opere che (oltre ad essere agevolmente rimuovibili) siano funzionali a soddisfare un’esigenza obiettivamente temporanea, mentre non si possono considerare tali i manufatti che risultino destinati ad un utilizzo perdurante nel tempo (C.d.S., Sez. III, 12.09.2012, n. 4850);
   - anche la Cassazione penale (oltre al precedente indicato più sopra, cfr. Sez. III, 10.10.2002, n. 38073) ha evidenziato che nella materia edilizia, al fine del riscontro del requisito della precarietà di un’opera, non sono rilevanti le caratteristiche costruttive, i materiali impiegati e la rimovibilità più o meno agevole, bensì le esigenze temporanee a cui l’opera sia eventualmente destinata;
   - da quanto esposto si ricava facilmente che, nel caso di specie, i manufatti di cui è stata ingiunta la demolizione non hanno per nulla il carattere della precarietà, non essendo in alcun modo destinati a soddisfare esigenze temporanee e transeunti, né ad essere rapidamente rimossi. All’opposto, il fatto che, in prosieguo di tempo, siano stati via via completati e forniti di accessori (dagli allacci alle reti all’impianto elettrico, dal rifacimento della veranda all’ampliamento tramite una nuova cucina, fino alla realizzazione di un muro divisorio e di cancelli separati) dimostra senza ombra di dubbio che si tratta di manufatti stabili e destinati a soddisfare esigenze perduranti nel tempo. Ne discende il loro assoggettamento alla disciplina in tema di permesso di costruire ex art. 10 del d.P.R. n. 380/2001, la cui mancanza rende pienamente legittimo l’ordine di demolizione;
   - per la medesima ragione, è altresì irrilevante che le ricorrenti risiedano a Napoli e vi abbiano una loro abitazione, così come non ha alcun valore che l’area di ubicazione dei manufatti ricada in Zona C4 e sia dotata delle urbanizzazioni primarie e secondarie. Ciò che conta è solo che il prefabbricato, avente specifica rilevanza ed autonomamente utilizzabile, e gli altri manufatti presenti in loco siano stati realizzati in assenza di idoneo titolo edilizio e siano, pertanto, abusivi;
Ritenuto in definitiva, alla luce di quanto si è esposto, di dover dichiarare il ricorso manifestamente infondato ai sensi dell’art. 74 c.p.a., in ragione della palese infondatezza di tutte le doglianze con lo stesso formulate (
TAR Lazio-Latina, sentenza 15.06.2016 n. 389 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Obbligatorio pagare il contributo all'Anac. Nelle gare per lavori e servizi.
Il versamento del contributo all'Anac per partecipare alle gare pubbliche è obbligatorio e l'omissione del versamento legittima l'esclusione.

Lo ha affermato il TAR Lazio-Roma, Sez. III-quater con la sentenza 14.06.2016 n. 6776 sull'omesso versamento del contributo per la partecipazione alle gare per l'affidamento di contratti pubblici previsto dall'articolo 1, comma 67, della legge n. 266/2005.
La disposizione prevede che il versamento del contributo all'Autorità sia obbligatorio e costituisca «condizione di ammissibilità dell'offerta». In passato, la giurisprudenza aveva sostenuto che il mancato pagamento del contributo costituiva elemento così rilevante in quanto collegato alla violazione di disposizioni imperative di legge, che comportava la violazione del principio di tassatività delle cause di esclusione di cui all'art. 46, comma 1-bis, dell'abrogato codice De Lise.
Nella controversia esaminata dal collegio laziale era stato sostenuto che in base alla legge del 2005 il contributo doveva essere reso soltanto per le gare di appalto di lavori e non per quelle di servizi. Questa tesi viene ritenuta «manifestamente infondata» perché la disposizione del 2005 «era rivolta all'Autorità di vigilanza sui lavori pubblici che, nata nel 1994 con la legge Merloni sugli appalti di lavori pubblici, venne modificata assumendo la denominazione di Autorità di vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (Avcp) nel 2006».
Pertanto, quando nel 2014 «ha determinato il contributo ad essa spettante per le gare in materia di lavori, servizi e forniture, ratione temporis, ne aveva tutte le competenze». Quindi era palese che il contributo richiesto per gli appalti di servizi fosse assolutamente coperto dalla norma di legge.
Il Tar del Lazio ha confermato la legittimità e l'obbligo di corrispondere il contributo e chiarisce che la giurisprudenza ha soltanto esaminato casi di ritardato pagamento e non di completa omissione dello stesso. Nello specifico, poi, al concorrente era stato segnalata l'irregolarità e era stata disposta l'ammissione con riserva. Pur avendo avuto tutto il tempo per regolarizzare la sua posizione, invece, nella successiva seduta di gara il concorrente si era nuovamente presentato senza avere effettuato il pagamento, di modo che la commissione di gara non ha avuto altra possibilità che escluderla, legittimamente (articolo ItaliaOggi del 24.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTISull'incameramento della cauzione provvisoria nelle gare pubbliche di appalto: funzione e presupposti.
L'incameramento della cauzione provvisoria è una conseguenza automatica della esclusione e, come tale, è non suscettibile di valutazione discrezionale con riguardo al caso concreto e, in particolare, alle ragioni meramente formali o sostanziali che l'amministrazione abbia posto a giustificazione dell'esclusione medesima.
Infatti, per consolidata giurisprudenza, nelle gare pubbliche di appalto l'incameramento della cauzione è una misura a carattere latamente sanzionatorio, che costituisce conseguenza ex lege dell'esclusione per riscontrato difetto dei requisiti da dichiarare ai sensi dell'art. 38 d.lgs. 12.04.2006, n. 163, senza che sia necessaria la prova di colpa nella formazione delle dichiarazioni presentate.
Inoltre, la presenza di dichiarazioni non corrispondenti al vero altera di per sé la gara, quantomeno per aggravio di lavoro della stazione appaltante, chiamata a vagliare anche concorrenti inidonei o offerte prive di tutte le qualità promesse, con relative questioni derivate.
L'escussione costituisce dunque conseguenza automatica della violazione dell'obbligo di diligenza gravante sull'offerente, considerato anche che gli operatori economici, con la domanda di partecipazione, impegnano ad osservare le regole della procedura delle quali hanno piena contezza.
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L'incameramento della cauzione provvisoria costituisce una misura autonoma e ulteriore rispetto all'esclusione dalla gara ed alla segnalazione all'Autorità di vigilanza, che si riferisce, mediante l'anticipata liquidazione dei danni subiti dall'Amministrazione, a un distinto per quanto connesso rapporto giuridico fra quest'ultima e l'imprenditore (tanto che si ammette l'impugnabilità della sola escussione se ritenuta realmente ed esclusivamente lesiva dell'interesse dell'impresa).
In definitiva, l'incameramento della cauzione provvisoria è una misura di carattere strettamente patrimoniale, senza un carattere sanzionatorio amministrativo nel senso proprio: non ha infatti né carattere reintegrativo o ripristinatorio di un ordine violato, né di punizione per un illecito amministrativo previsto a tutela di un interesse generale).
Essa ha il suo titolo e la sua causa nella violazione di regole e doveri contrattuali già espressamente accettati negli stretti confronti dell'amministrazione appaltante. La lata funzione sanzionatoria, dunque, inerisce al solo rapporto che si è costituito inter partes con l'amministrazione appaltante per effetto della domanda di partecipazione alla gara: si riferisce perciò all'interesse pubblico della stazione appaltante e non all'interesse generale.
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Ai sensi dell'art. 75, c. 6, d.lgs. n. 163 del 2006, nelle gare pubbliche l'incameramento della cauzione provvisoria va disposto in ogni caso in cui la mancata sottoscrizione del contratto sia dipesa da circostanze imputabili all'affidatario. Infatti, la cauzione provvisoria ha la funzione di garantire la complessiva solidità e serietà dell'offerta: del resto, la consolidata giurisprudenza ritiene l'art. 75, c. 6, una norma di chiusura dell'ordinamento.
Inoltre l'incameramento della cauzione provvisoria non è condizionato dall'intervenuta aggiudicazione provvisoria dell'appalto, perché essa, in ragione dell'essenziale funzione di garanzia della serietà e attendibilità dell'offerta e del patto d'integrità, copre tutte le ipotesi i cui sono addebitati al concorrente la mancata sottoscrizione del contratto e il mancato perfezionamento dei suoi presupposti procedimentali, quali l'aggiudicazione provvisoria e quella definitiva (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 13.06.2016 n. 2531 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI SERVIZISulla legittimità dell'attività extra moenia di una società in house (fattispecie inerente l'assegnazione del servizio di gestione delle aree di parcheggio a pagamento nel territorio del comune di Rapallo).
E' assente nella legislazione italiana un obbligo di esclusiva in capo alle società in house. A tal riguardo l'art. 13 d.l. n. 223/2006, conv. nella l. n. 248/2006, non positivizza simile obbligo con correlativo divieto di operazioni extra moenia.
La norma introduce piuttosto un obbligo di esclusiva a carico delle società pubbliche ma tale obbligo investe esclusivamente "le società costituite o partecipate dalle amministrazioni pubbliche regionali e locali per la produzione di beni e servizi strumentali all'attività di tali enti in funzione della loro attività" ed esclude espressamente quelle destinate allo svolgimento di servizi pubblici locali.
Anche la giurisprudenza, ammette che le società in house costituite per lo svolgimento di servizi pubblici locali possono svolgere servizi per enti diversi da quelli costituenti, partecipanti o affidanti purché si tratti di soggetti erogatori di servizi pubblici locali.
I predetti servizi potrebbero, di conseguenza, essere svolti anche a favore di soggetti diversi da quelli "costituenti, partecipanti o affidanti", sempre però che si tratti di soggetti erogatori degli stessi. La normativa UE è intervenuta sul problema, prevedendo all'art. 12 della direttiva 24/2014 che la società in house deve svolgere più dell'80% della propria attività a favore dell'amministrazione controllante (si cfr. Parere C.S. Commissione speciale 21.04.2016 n. 968).
Ne consegue, a contrario, che è legittima nei limiti sopraindicati la attività extra moenia di una società in house (TAR Liguria, Sez. II, sentenza 10.06.2016 n. 606 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGODecisamente consolidato è l'orientamento giurisprudenziale che qualifica come rilevante per la sussistenza del reato di abuso di ufficio la violazione delle norme che disciplinano i compiti degli amministratori pubblici in materia di edilizia e di urbanistica, ossia, dapprima, il Sindaco ai sensi dell'art. 4 legge n. 47 del 1985; e poi, il responsabile dell'Ufficio tecnico comunale, a partire dall'entrata in vigore dell'art. 107, comma 3, lettera g), del decreto legislativo n. 267 del 2000, stabilendo che tutti gli interventi in materia di violazioni edilizie sono di competenza del Dirigente responsabile dell'Ufficio tecnico comunale, nel solco del disegno complessivo che ha inteso separare, nelle amministrazioni locali, l'attività di indirizzo e controllo, spettante agli organi elettivi, dai compiti di gestione amministrativa affidati ai dirigenti.
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Nel procedimento amministrativo di rilascio di un titolo abilitativo alla realizzazione di opere o allo svolgimento di attività coinvolgenti immobili, l'indagine sulla conformità dell'immobile alla disciplina urbanistica costituisce un momento istruttorio ineludibile «espressamente previsto dal legislatore, sicché solo l'acquisizione di dati positivi nel senso favorevole al richiedente consente il legittimo rilascio» del provvedimento abilitativo, con la conseguenza che «l'inosservanza di tale procedimento concreta (...) il vizio di violazione di legge rilevante ai sensi dell'art. 323 codice penale, trattandosi di norme che impongono all'amministrazione comportamenti specifici e puntuali la cui omissione ha l'effetto di procurare un vantaggio al beneficiario».
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Pacifico è che, nel delitto di abuso d'ufficio, non è richiesta la prova della collusione tra p.u. e privato. Si è infatti affermato più volte che in tema di abuso d'ufficio, la prova del dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie criminosa, può essere desunta anche da elementi sintomatici come la macroscopica illegittimità dell'atto compiuto, non essendo richiesto l'accertamento dell'accordo collusivo con la persona che si intende favorire, in quanto l'intenzionalità del vantaggio ben può prescindere dalla volontà di favorire specificamente quel privato interessato alla singola vicenda amministrativa.

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3. Il ricorso è manifestamente infondato e dev'essere dichiarato inammissibile.
4. Anzitutto, osserva il Collegio, il primo motivo si appalesa del tutto inammissibile.
La Corte d'appello, infatti, spiega le ragioni per le quali l'intervento edilizio non avrebbe potuto essere condonato, atteso che lo stesso tecnico istruttore della pratica aveva evidenziato la mancanza dei previsti elaborati grafici formulando parere negativo all'accoglimento dell'istanza di condono; la stessa Corte d'appello chiarisce (v. pagg. 5/6) che proprio l'esame di tale documentazione planimetrica avrebbe consentito di accertare che il sottotetto non era condonabile, in particolare trattandosi di sanatoria per ristrutturazione edilizia funzionale a modifiche della destinazione d'uso da deposito ad abitazione; era quindi necessario accertare che i volumi fossero tali da consentire detto mutamento, atteso che la variazione avveniva tra categorie non omogenee.
La Corte d'appello, quindi, perviene ad affermare che, rilasciando il titolo abilitativo, il ricorrente aveva abusato del suo ufficio (e che l'architetto Di. avesse presente che si trattava di rilascio di titolo abilitativo in sanatoria e non di certificato di abitabilità-agibilità risultava pacificamente dagli atti); quanto al dolo viene spiegato dalla corte d'appello perché lo stesso ben poteva essere ritenuto sussistente (v. pagg. 6 e 7), sicché il rilascio del titolo avvenne in mancanza di quei dati che si assumevano come esistenti ed acquisiti (non potendosi nemmeno trascurare il fatto che il dubbio sulla ritualità della pratica era oltremodo stato evidenziato anche dagli esposti dei condomini dello stabile, sicché era evidente come fosse sicuramente opportuno un comportamento dell'imputato improntato a maggior prudenza); detto comportamento, si spiega nella sentenza d'appello, ha determinato un incremento del valore economico dell'unità immobiliare del Pi. con conseguente integrazione della cosiddetta doppia ingiustizia.
5. Infine, e conclusivamente, deve peraltro evidenziarsi che il condono non avrebbe potuto essere rilasciato perché la relativa istanza era stata ritenuta inveritiera in quanto l'immobile non era stato ultimato entro il 31.03.2003 (non va, infatti, dimenticato che il proprietario era stato condannato per violazione dell'art. 483 cod. pen.), e l'Am., quale pubblico ufficiale addetto alla valutazione delle relative pratiche, aveva il dovere di controllarne la rispondenza al vero prima di rilasciare il condono e comunque dovendo procedere alle verifiche imposte dall'art. 35, legge n. 47 del 1985.
Con specifico riguardo al tema d'indagine, si osserva che
decisamente consolidato è l'orientamento giurisprudenziale che qualifica come rilevante per la sussistenza del reato di abuso di ufficio la violazione delle norme che disciplinano i compiti degli amministratori pubblici in materia di edilizia e di urbanistica, ossia, dapprima, il Sindaco ai sensi dell'art. 4 legge n. 47 del 1985; e poi, il responsabile dell'Ufficio tecnico comunale, a partire dall'entrata in vigore dell'art. 107, comma 3, lettera g), del decreto legislativo n. 267 del 2000 (testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali), che ha recepito e unificato le normative precedenti (a partire dall'art. 51 legge n. 142 del 1990), stabilendo che tutti gli interventi in materia di violazioni edilizie sono di competenza del Dirigente responsabile dell'Ufficio tecnico comunale, nel solco del disegno complessivo che ha inteso separare, nelle amministrazioni locali, l'attività di indirizzo e controllo, spettante agli organi elettivi, dai compiti di gestione amministrativa affidati ai dirigenti.
Nello specifico, ai sensi degli artt. 27 e 31 del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, contenuto nel decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, il Dirigente o il responsabile dell'Ufficio tecnico comunale è attualmente titolare della posizione di garantire il corretto assetto dello sviluppo urbanistico del Comune, esercitando la vigilanza «sull'attività urbanistico-edilizia nel territorio comunale per assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi», ed avendo l'obbligo di intervenire «ogni qualvolta venga accertato l'inizio o l'esecuzione di opere eseguite senza titolo o in difformità della normativa urbanistica, attraverso l'emanazione di provvedimenti interdittivi e cautelari».
Sin dalle prime pronunce intervenute dopo l'entrata in vigore della legge n. 234 del 1997, si è affermato che,
nel procedimento amministrativo di rilascio di un titolo abilitativo alla realizzazione di opere o allo svolgimento di attività coinvolgenti immobili, l'indagine sulla conformità dell'immobile alla disciplina urbanistica costituisce un momento istruttorio ineludibile «espressamente previsto dal legislatore, sicché solo l'acquisizione di dati positivi nel senso favorevole al richiedente consente il legittimo rilascio» del provvedimento abilitativo, con la conseguenza che «l'inosservanza di tale procedimento concreta (...) il vizio di violazione di legge rilevante ai sensi dell'art. 323 codice penale, trattandosi di norme che impongono all'amministrazione comportamenti specifici e puntuali la cui omissione ha l'effetto di procurare un vantaggio al beneficiario» (v. ad es., Sez. 6, n. 9116 del 01/07/1998 - dep. 04/08/1998, Egidi C, Rv. 211579).
6. Tenuto conto di quanto sopra, il ricorrente svolge censure che -lungi dal prospettare un vizio motivazionale- si propongono di pervenire ad un obiettivo diverso, ossia chiedere a questa Corte di sostituire la valutazione operata dai giudici di merito con una propria "rivalutazione" dei fatti, operazione vietata in questa sede.
Le deduzioni difensive si risolvono, all'evidenza -lungi dal prospettare un vizio di motivazione- nella manifestazione del dissenso rispetto alla ricostruzione del fatto ed alla valutazione probatoria operata dai giudici di merito, operazione, come detto, non consentita in questa sede.
Si ribadisce, e non potrebbe essere altrimenti, che l'indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato -per espressa volontà del legislatore- a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l'adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali. Esula, infatti, dai poteri della Corte di cassazione quello di una "rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (per tutte., v.: Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997 - dep. 02/07/1997, Dessimone e altri, Rv. 207944).
A ciò si aggiunge -con particolare riferimento alle doglianze riguardanti il preteso vizio motivazionale- che gli accertamenti (giudizio ricostruttivo dei fatti) e gli apprezzamenti (giudiziovalutativo dei fatti) cui il giudice del merito sia pervenuto attraverso l'esame delle prove, sorretto da adeguata motivazione esente da errori logici e giuridici, sono sottratti al sindacato di legittimità e non possono essere investiti dalla censura di difetto o contraddittorietà della motivazione solo perché contrari agli assunti del ricorrente; ne consegue che tra le doglianze proponibili quali mezzi di ricorso, ai sensi dell'art. 606, lett. e), cod. proc. pen., non rientrano quelle relative alla valutazione delle prove, specie se implicanti la soluzione di contrasti testimoniali, la scelta tra divergenti versioni ed interpretazioni, l'indagine sull'attendibilità dei testimoni e sulle risultanze peritali, salvo il controllo estrinseco della congruità e logicità della motivazione (tra le tante: Sez. 4, n. 87 del 27/09/1989 - dep. 11/01/1990, Bianchesi, Rv. 182961).
Controllo, in questa sede, agevolmente superato dalla sentenza impugnata.
Quanto, alla sussistenza del dolo normativamente richiesto, infine,
pacifico è che, nel delitto di abuso d'ufficio, non è richiesta la prova della collusione tra p.u. e privato. Si è infatti affermato più volte che in tema di abuso d'ufficio, la prova del dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie criminosa, può essere desunta anche da elementi sintomatici come la macroscopica illegittimità dell'atto compiuto, non essendo richiesto l'accertamento dell'accordo collusivo con la persona che si intende favorire, in quanto l'intenzionalità del vantaggio ben può prescindere dalla volontà di favorire specificamente quel privato interessato alla singola vicenda amministrativa (Sez. 6, n. 36179 del 15/04/2014 - dep. 27/08/2014, Dragotta, Rv. 260233; Sez. F, n. 38133 del 25/08/2011 - dep. 21/10/2011, P.G. e p.c. in proc. Farina, Rv. 251088; Sez. 6, n. 21085 del 28/01/2004 - dep. 05/05/2004, P.C.in proc. Sodano e altri, Rv. 229806) (Corte di cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.06.2016 n. 23682).

EDILIZIA PRIVATA: L'extracorsa dell’ascensore, indiscutibilmente qualificato come volume tecnico, esclude qualsiasi rilevanza paesaggistica ai sensi dell’art. 164, comma 4, lett. a del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42 rendendo assentibile l’autorizzazione in sanatoria ex art. 167.
La giurisprudenza del Tribunale ha già affermato il principio per il quale la stessa ratio che in materia urbanistica porta ad escludere i volumi tecnici dal calcolo della volumetria edificabile, induce ugualmente ad escludere gli stessi dal divieto di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria.
Rileva al riguardo l’art. 167, comma 4, lett. a), del d.lgs. n. 42/2004, a norma del quale l’autorità competente accerta la compatibilità paesaggistica “per i lavori realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano comportato creazione di superfici utili o di volumi”.
Orbene, il Tribunale ha ritenuto di accreditare dell’inciso “o di volumi”, un’interpretazione risolventesi in un’endiadi, espressione di un concetto unitario, per cui anche i volumi e non solo le superfici, soggiacciono al divieto di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria solo se sono utili, di talché quelli non utili, ossia i volumi tecnici, sfuggono dal divieto de quo.
Più in particolare, «l'interpretazione teleologica induce a ritenere che —nonostante l'utilizzo della particella disgiuntiva “o” nella frase “che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi”— il duplice riferimento alle nuove superfici utili e ai nuovi volumi costituisca un'endiadi, ossia una modalità di esprimere un concetto unitario con due termini coordinati"».
Deve peraltro doverosamente darsi atto che più di recente la giurisprudenza, anche d’appello, ha espresso un’esegesi più rigorosa dell’art. 167, co. 4, lett. a), del d.lgs. n. 42/2004 ritenendo ostativa all’accertamento di compatibilità paesaggistica la creazione di nuovi volumi ancorché non utili.
Si è di recente statuito infatti che “Il vigente art. 167, comma 4, del codice dei beni culturali e del paesaggio preclude il rilascio di autorizzazioni in sanatoria, quando siano stati realizzati volumi di qualsiasi natura (anche ’interrati'). Il divieto di incremento dei volumi esistenti, imposto ai fini di tutela del paesaggio, si riferisce a qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di volume, senza che sia possibile distinguere tra volume tecnico e altro tipo di volume, sia esso interrato o meno”.
Anche la giurisprudenza di prime cure aveva già enunciato la medesima esegesi affermando che “La giurisprudenza nazionale è pacifica nel ritenere che l'art. 167, comma 4, lett. a), d.lgs. n. 42 del 2004 preclude l'autorizzazione paesaggistica in sanatoria, e quindi anche la sanatoria edilizia che presuppone l'avvenuto rilascio del titolo paesaggistico, per abusi edilizi concretanti nuova superficie utile o nuovo volume realizzato, senza che sia necessario, ai fini dell'assentibilità, valutarne in concreto la compatibilità paesaggistica mediante un giudizio tecnico-discrezionale”.
...
Segnala peraltro il Collegio che larga parte della giurisprudenza si è mossa nel solco dell’orientamento secondo cui è possibile l'accertamento di compatibilità paesaggistica ex art. 167, comma 4, lett. a), nel caso di volumi tecnici.
Secondo quest’orientamento, infatti, i volumi tecnici, proprio in ragione dei caratteri che li contraddistinguono e che riposano sostanzialmente nelle loro ridotte dimensioni e nella loro funzione accessoria e servente la res principalis, sono inidonei ad introdurre un impatto sul territorio eccedente la costruzione principale e, come tali, sono ininfluenti ai fini del calcolo degli indici di edificabilità.
Anche il TAR Lazio ha espresso suggerita lo stesso avviso sancendo che “È possibile l'accertamento di compatibilità paesaggistica ex art. 167, lett. a), d.lgs. n. 42 del 2004 nel caso di volumi tecnici”.
Del pari il Consiglio di Stato si è espresso nel medesimo senso con specifico e pertinente riguardo ai vani ascensore, con pronuncia dunque calzante alla fattispecie per cui è causa.
Confermando TAR Campania–Napoli, Sez. III, 25.05.2010 n. 8748 che aveva riconosciuto natura di volume tecnico a un vano siffatto, il Consiglio ha chiaramente anche escluso che un volume tecnico sia idoneo ad impattare il territorio e l’ambiente.
Ha infatti precisato che “Occorre osservare che la nozione di ‘volume tecnico', non computabile nella volumetria ai fini in questione, corrisponde a un'opera priva di qualsivoglia autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché è destinata a solo contenere, senza possibilità di alternative e comunque per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali della medesima. In sostanza, si tratta di impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione che non possono essere in alcun modo ubicati all'interno di questa, come possono essere —e sempre in difetto dell'alternativa— quelli connessi alla condotta idrica, termica o all'ascensore e simili, i quali si risolvono in semplici interventi di trasformazione senza generare aumento alcuno di carico territoriale o di impatto visivo”.
Opzione ribadita dal giudice d’appello che confermando la sentenza della VII Sezione del Tribunale n. 1748 del 2009 invocata dal ricorrente, ha riaffermato che “La nozione di "volume tecnico", non computabile nella volumetria, corrisponde a un'opera priva di qualsivoglia autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché è destinata a solo contenere, senza possibilità di alternative e comunque per una consistenza volumetrica circoscritta, impianti serventi di una costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali della medesima. In sostanza, si tratta di impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione che non possono essere in alcun modo ubicati all'interno di questa, come possono essere —e sempre in difetto dell'alternativa— quelli connessi alla condotta idrica, termica o all'ascensore e simili, i quali si risolvono in semplici interventi di trasformazione senza generare aumento alcuno di carico territoriale o di impatto visivo”.
In altro precedente la medesima Sezione del Consiglio aveva enunciato il principio opposto, sancendo l’indifferenza della natura del volume edilizio nel giudizio di compatibilità paesaggistica, ritenuto da escludere ogni qualvolta sia stato creato nuovo volume, utile o tecnico che sia: “È "ius receptum" il principio onde la natura del volume edilizio realizzato, sia o meno qualificabile come volume tecnico, non rileva sul giudizio di compatibilità paesaggistica ex post delle opere, essendo in radice precluse autorizzazioni postume per le opere abusive che abbiano comportato la realizzazione di nuovi volumi”).
Ritiene la Sezione che a fronte del delineato contrasto giurisprudenziale la soluzione possa essere individuata nell’affermare che gli impianti tecnici, e i contenitori degli stessi, sono sottratti al divieto di accertamento della compatibilità paesaggistica stabilito per i nuovi volumi, stante la funzione strettamente servente e strumentale degli impianti stessi, in quanto non utilmente collocabili all’interno della esistente volumetria del fabbricato e destinati ad arrecare una utilità funzionale all’edificio principale.
La nozione di impianti tecnici va quindi rigorosamente ricostruita tenendo conto della natura strettamente necessaria degli stessi e della loro attitudine a costituire un accessorio esclusivamente tecnico dell’immobile principale, che non possa essere allocato all’interno della volumetria assentita.
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La giurisprudenza ha condivisibilmente affermato la necessità di una adeguata motivazione del parere in ordine alla compatibilità paesaggistica dell’intervento, avendo precisato che “Nell'adozione del suddetto parere, la Soprintendenza esercita valutazioni che sono espressione di discrezionalità tecnica, soggetta comunque al sindacato del g.a., seppure nei ristretti limiti del difetto di motivazione, illogicità manifesta ed errore di fatto, in altri termini sotto il profilo dell'eccesso di potere, sub specie delle figure sintomatiche dell'arbitrarietà, dell'irragionevolezza, irrazionalità e travisamento dei fatti.
Il parere negativo della Soprintendenza deve, infatti, essere supportato dalla circostanziata dimostrazione della valutazione dei relativi elementi fattuali a sostegno, per cui la sanatoria dell'opera vincolata comprometterebbe irrimediabilmente, e in rilevante misura, gli interessi che il vincolo mira a tutelare, dovendo essere esplicitato per quale ragione, materiale e specifica, le opere per le quali si sta chiedendo la sanatoria siano incompatibili con il vincolo”.
Motivazione richiesta anche in caso di parere favorevole: “L'accertamento di compatibilità paesaggistica deve essere rilasciato unitamente ad una congrua motivazione, che descriva i criteri e le regole seguite per ritenere la compatibilità o meno dell'opera con il vincolo imposto sull'area”.

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1.1. Con il ricorso in epigrafe depositato il 02.02.2010 il ricorrente, in proprio e quale amministratore unico dell’Hotel Ce. s.r.l., impugna il provvedimento n. 22613 del 29.10.2009 con cui il responsabile del competente servizio del Comune di Somma Vesuviana, sulla scorta della nota della Soprintendenza di Napoli del 19.11.2008, prot. 24665, parimenti impugnata, ha respinto la richiesta di permesso di costruire in sanatoria relativamente a talune opere ritenute integranti il divieto di accertamento della compatibilità paesaggistica in forza dell’art. 167, co. 4, lett. a), del d.lgs. n. 42/2004, nella specie consistenti in un vano extra corsa dell’ascensore inglobato in un torrino scala posto al di sopra della copertura a tetto inclinato dell’edificio.
Tale opera faceva parte di un più ampio insieme di interventi che sono stati invece assentiti con il provvedimento all’esame, lesivo e quindi gravato solo relativamente alla denegata sanatoria del predetto vano extracorsa dell’ascensore.
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2.1. Premette nella narrativa in fatto e nell’introduzione del primo motivo il ricorrente che il torrino scale oggetto dell’impugnato diniego di accertamento di conformità per effetto del negativo parere della Soprintendenza e posto al di sopra della copertura a tetto inclinato dell’edificio, è stato realizzato per alloggiarvi la fine corsa dell’ascensore e fuoriesce di soli 70 cm. dal colmo del tetto e deriva dall’esigenza di allocare all’interno della scala un ascensore che richiede, per poter essere in funzione, un’altezza maggiore appunto di soli 70 cm. rispetto alla falda inclinata del tetto.
Senza dunque tale tratto finale (c.d. fine corsa, ovvero extracorsa dell’ascensore) l’impianto non può funzionare.
Allega l’esponente che già la Circolare del Ministero L.P. n. 2474 del 31.03.1973 dispone che “sono da considerarsi volumi tecnici quelli strettamente necessari per contenere…l’extra corsa degli ascensori”, al pari dell’art. 5 delle NTA comunali.
La indiscutibile qualificazione di volume tecnico del vano in questione, per il ricorrente esclude qualsiasi rilevanza paesaggistica ai sensi dell’art. 164, comma 4, lett. a del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42 rendendo assentibile l’autorizzazione in sanatoria.
Invoca al riguardo la giurisprudenza del Tribunale (TAR Campania–Napoli, Sez. VII, 03.04.2009, n. 1748) che ha sancito l’illegittimità dell’operato della soprintendenza confermando che i volumi quali quello di specie sono sicuramente suscettibili di accertamento della compatibilità paesaggistica.
2.2. Il motivo è fondato, al lume di una lettura delle norme adeguata e ritagliata sulla peculiarità della fattispecie controversa.
Non ignora il collegio l’orientamento del Tribunale, confortato da Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 151/2014 e Consiglio di Stato, Sez. VI, 5932/2014 che ha confermato la sentenza di questo TAR n. 1748/2009 invocata dal deducente.
Orbene, la giurisprudenza del Tribunale, ha già affermato il principio per il quale la stessa ratio che in materia urbanistica porta ad escludere i volumi tecnici dal calcolo della volumetria edificabile, induce ugualmente ad escludere gli stessi dal divieto di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria (TAR Campania–Napoli, Sez. VII, 15.12.2010, n. 27380; ID, n. 1748/2009; più di recente, TAR Sardegna, Sez. II, 07.03.2012, n. 249).
Rileva al riguardo l’art. 167, comma 4, lett. a), del d.lgs. n. 42/2004, a norma del quale l’autorità competente accerta la compatibilità paesaggistica “per i lavori realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano comportato creazione di superfici utili o di volumi”.
Orbene, il Tribunale ha ritenuto di accreditare dell’inciso “o di volumi”, un’interpretazione risolventesi in un’endiadi, espressione di un concetto unitario, per cui anche i volumi e non solo le superfici, soggiacciono al divieto di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria solo se sono utili, di talché quelli non utili, ossia i volumi tecnici, sfuggono dal divieto de quo (TAR Campania–Napoli, Sez. VII, n. 27380/2010).
Più in particolare, secondo TAR Campania, Napoli, Sez. VII, 01.09.2011 n. 4267, «l'interpretazione teleologica induce a ritenere che —nonostante l'utilizzo della particella disgiuntiva “o” nella frase “che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi”— il duplice riferimento alle nuove superfici utili e ai nuovi volumi costituisca un'endiadi, ossia una modalità di esprimere un concetto unitario con due termini coordinati"
». Negli stessi termini TAR Campania, Napoli, Sez. VII, 01.09.2011 n. 4263; Id., 03.04.2009 n. 1748.
Deve peraltro doverosamente darsi atto che più di recente la giurisprudenza, anche d’appello, ha espresso un’esegesi più rigorosa dell’art. 167, co. 4, lett. a), del d.lgs. n. 42/2004 ritenendo ostativa all’accertamento di compatibilità paesaggistica la creazione di nuovi volumi ancorché non utili.
Si è di recente statuito infatti che “Il vigente art. 167, comma 4, del codice dei beni culturali e del paesaggio preclude il rilascio di autorizzazioni in sanatoria, quando siano stati realizzati volumi di qualsiasi natura (anche ’interrati'). Il divieto di incremento dei volumi esistenti, imposto ai fini di tutela del paesaggio, si riferisce a qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di volume, senza che sia possibile distinguere tra volume tecnico e altro tipo di volume, sia esso interrato o meno” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 02.07.2015 n. 3289). Tale decisione ha riformato TAR Campania, Napoli, sez. VII, n. 6827/2009.
Anche la giurisprudenza di prime cure aveva già enunciato la medesima esegesi affermando che “La giurisprudenza nazionale è pacifica nel ritenere che l'art. 167, comma 4, lett. a), d.lgs. n. 42 del 2004 preclude l'autorizzazione paesaggistica in sanatoria, e quindi anche la sanatoria edilizia che presuppone l'avvenuto rilascio del titolo paesaggistico, per abusi edilizi concretanti nuova superficie utile o nuovo volume realizzato, senza che sia necessario, ai fini dell'assentibilità, valutarne in concreto la compatibilità paesaggistica mediante un giudizio tecnico-discrezionale” (TAR Sicilia-Palermo, Sez. I , 10.04.2013 n. 802).
2.3. Segnala peraltro il Collegio che larga parte della giurisprudenza si è mossa nel solco dell’orientamento secondo cui è possibile l'accertamento di compatibilità paesaggistica ex art. 167, comma 4, lett. a), nel caso di volumi tecnici (cfr. TAR Campania-Napoli Sez. VII 10/05/2012 n. 2173; TAR Emilia Romagna-Parma, 15/09/2010 n. 435; TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, 05/03/2009 n. 1762).
Secondo quest’orientamento, infatti, i volumi tecnici, proprio in ragione dei caratteri che li contraddistinguono e che riposano sostanzialmente nelle loro ridotte dimensioni e nella loro funzione accessoria e servente la res principalis, sono inidonei ad introdurre un impatto sul territorio eccedente la costruzione principale e, come tali, sono ininfluenti ai fini del calcolo degli indici di edificabilità.
Anche il TAR Lazio ha espresso suggerita lo stesso avviso sancendo che “È possibile l'accertamento di compatibilità paesaggistica ex art. 167, lett. a), d.lgs. n. 42 del 2004 nel caso di volumi tecnici” (TAR Lazio–Roma, Sez. I, 15.07.2013 n. 6997) .
Del pari il Consiglio di Stato si è espresso nel medesimo senso con specifico e pertinente riguardo ai vani ascensore, con pronuncia dunque calzante alla fattispecie per cui è causa.
Confermando TAR Campania–Napoli, Sez. III, 25.05.2010 n. 8748 che aveva riconosciuto natura di volume tecnico a un vano siffatto, il Consiglio ha chiaramente anche escluso che un volume tecnico sia idoneo ad impattare il territorio e l’ambiente.
Ha infatti precisato che “Occorre osservare che la nozione di ‘volume tecnico', non computabile nella volumetria ai fini in questione, corrisponde a un'opera priva di qualsivoglia autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché è destinata a solo contenere, senza possibilità di alternative e comunque per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali della medesima. In sostanza, si tratta di impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione che non possono essere in alcun modo ubicati all'interno di questa, come possono essere —e sempre in difetto dell'alternativa— quelli connessi alla condotta idrica, termica o all'ascensore e simili, i quali si risolvono in semplici interventi di trasformazione senza generare aumento alcuno di carico territoriale o di impatto visivo” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 31.03.2014 n. 1512) .
Opzione ribadita dal giudice d’appello che confermando la sentenza della VII Sezione del Tribunale n. 1748 del 2009 invocata dal ricorrente, ha riaffermato che “La nozione di "volume tecnico", non computabile nella volumetria, corrisponde a un'opera priva di qualsivoglia autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché è destinata a solo contenere, senza possibilità di alternative e comunque per una consistenza volumetrica circoscritta, impianti serventi di una costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali della medesima. In sostanza, si tratta di impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione che non possono essere in alcun modo ubicati all'interno di questa, come possono essere —e sempre in difetto dell'alternativa— quelli connessi alla condotta idrica, termica o all'ascensore e simili, i quali si risolvono in semplici interventi di trasformazione senza generare aumento alcuno di carico territoriale o di impatto visivo” (Consiglio di Stato sez. VI, 01.12.2014 n. 5932).
In altro precedente la medesima Sezione del Consiglio aveva enunciato il principio opposto, sancendo l’indifferenza della natura del volume edilizio nel giudizio di compatibilità paesaggistica, ritenuto da escludere ogni qualvolta sia stato creato nuovo volume, utile o tecnico che sia: “È "ius receptum" il principio onde la natura del volume edilizio realizzato, sia o meno qualificabile come volume tecnico, non rileva sul giudizio di compatibilità paesaggistica ex post delle opere, essendo in radice precluse autorizzazioni postume per le opere abusive che abbiano comportato la realizzazione di nuovi volumi” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 28.10.2013 n. 4257).
3.1. Ritiene la Sezione che a fronte del delineato contrasto giurisprudenziale la soluzione possa essere individuata nell’affermare che gli impianti tecnici, e i contenitori degli stessi, sono sottratti al divieto di accertamento della compatibilità paesaggistica stabilito per i nuovi volumi, stante la funzione strettamente servente e strumentale degli impianti stessi, in quanto non utilmente collocabili all’interno della esistente volumetria del fabbricato e destinati ad arrecare una utilità funzionale all’edificio principale.
La nozione di impianti tecnici va quindi rigorosamente ricostruita tenendo conto della natura strettamente necessaria degli stessi e della loro attitudine a costituire un accessorio esclusivamente tecnico dell’immobile principale, che non possa essere allocato all’interno della volumetria assentita.
Calando dunque nella fattispecie al vaglio della Sezione quest’ultimo principio, risulta rafforzato il convincimento in ordine all’illegittimità dell’impugnato diniego ove si rifletta alla natura di impianto tecnico dell’ascensore per cui è causa e del relativo vano extra corsa nonché alla minima o anche solo trascurabile incidenza del piccolo volume creato dalla ricorrente, consistente in una sporgenza di soli 70 cm (dato non contestato da controparte) sulla falda del tetto di un edificio multipiano, ossia in definitiva in un piccolo corpo di fabbrica che determina una modificazione dell’aspetto esteriore dell’immobile complessivo, scarsamente ovvero totalmente non percepibile.
Discende quindi dalle considerazioni finora volte la fondatezza del primo motivo di ricorso che va pertanto accolto.
3.1. Da quanto argomentato consegue anche la fondatezza del terzo motivo di ricorso, con il quale il deducente si duole che la P.A. e in particolare la soprintendenza di Napoli abbia del tutto omesso di specificare quali fossero le ragioni assunte a base del negativo parere pronunciato, essendosi limita ad affermare che “le opere hanno comportato la realizzazione di un torrino scala e che pertanto si è determinato un incremento delle volumetrie esistenti”.
Rimarca per contro il Collegio che la giurisprudenza ha condivisibilmente affermato la necessità di una adeguata motivazione del parere in ordine alla compatibilità paesaggistica dell’intervento, avendo precisato che “Nell'adozione del suddetto parere, la Soprintendenza esercita valutazioni che sono espressione di discrezionalità tecnica, soggetta comunque al sindacato del g.a., seppure nei ristretti limiti del difetto di motivazione, illogicità manifesta ed errore di fatto, in altri termini sotto il profilo dell'eccesso di potere, sub specie delle figure sintomatiche dell'arbitrarietà, dell'irragionevolezza, irrazionalità e travisamento dei fatti. Il parere negativo della Soprintendenza deve, infatti, essere supportato dalla circostanziata dimostrazione della valutazione dei relativi elementi fattuali a sostegno, per cui la sanatoria dell'opera vincolata comprometterebbe irrimediabilmente, e in rilevante misura, gli interessi che il vincolo mira a tutelare, dovendo essere esplicitato per quale ragione, materiale e specifica, le opere per le quali si sta chiedendo la sanatoria siano incompatibili con il vincolo” (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, 27.01.2015 n. 303).
Motivazione richiesta anche in caso di parere favorevole: “L'accertamento di compatibilità paesaggistica deve essere rilasciato unitamente ad una congrua motivazione, che descriva i criteri e le regole seguite per ritenere la compatibilità o meno dell'opera con il vincolo imposto sull'area” (TAR Liguria, Sez. I, 15.05.2010 n. 2584).
Ne consegue che secondo tali considerazioni in punto allo spessore e ai contorni della motivazione che deve invece assistere le valutazioni dell’autorità preposta riguardo alla ritenuta assenza di compatibilità paesaggistica di un intervento consistente in volume meramente tecnico, la Soprintendenza avrebbe dovuto adeguatamente ed attentamente esternare i fattori motivazionali, ancorati all’analisi degli elementi ontologici dell’opera de qua, sulla cui scorta sarebbe stato da escludere il vaglio di compatibilità della stessa con il contesto paesistico ed ambientale alla cui tutela e salvaguardia l’ordinamento commette all’organo statale la funzione consultiva in materia.
Il difetto di una simile valutazione affligge il parere impugnato colorandolo di illegittimità (
TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 08.06.2016 n. 2902 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTISull'esclusione da una gara d'appalto per mancato possesso di un requisito di partecipazione.
La cognizione incidentale del giudice amministrativo, ai sensi dell'art. 8 c.p.a., non può sindacare i fatti che la parte ha deliberatamente omesso di sottoporre alla cognizione principale del giudice civile.
L'esclusione da una gara, disposta in esito al riscontro negativo circa il possesso di un requisito di partecipazione, non postula la previa comunicazione di avvio del procedimento, per costante giurisprudenza di questo Consiglio, attenendo ad un segmento necessario di un procedimento della cui pendenza l'interessato è già necessariamente a conoscenza.

La disposizione contenuta nell'art. 38, lett. f), del d.lgs. 12.04.2006 n. 163, prevedendo che sono esclusi dalla partecipazione alla gara gli operatori economici che, secondo motivata valutazione della stazione appaltante, hanno commesso grave negligenza o malafede nell'esecuzione delle prestazioni affidate in pregressi rapporti, contempla in realtà un fatto complesso che impone la distinzione tra il giudizio afferente alla fase negoziale del pregresso rapporto e il giudizio relativo all'esercizio di poteri amministrativi.
Il primo giudizio è riservato all'Amministrazione che, quale parte di un pregresso rapporto, può ritenere che l'altra parte abbia posto in essere, nell'esecuzione delle prestazioni, un comportamento connotato da grave negligenza o malafede e decidere di risolvere il contratto stipulato.
In questo caso, qualora insorgano contestazioni, la competenza a dirimerle spetta al giudice ordinario che esercita un controllo pieno sulle cause interne che hanno condotto alla interruzione del rapporto negoziale. Il secondo giudizio spetta all'Amministrazione che, considerati i pregressi rapporti negoziali, adotta, nell'esercizio di un potere pubblico, la determinazione con la quale esclude una impresa da una gara ovvero annulla una aggiudicazione già disposta.
Si tratta di un potere discrezionale che deve valutare se il fatto pregresso abbia concretamente reso inaffidabile l'operatore economico con possibile pregiudizio dell'interesse pubblico connesso alla realizzazione di determinati servizi e in questo caso, se insorgono contestazioni, la competenza a dirimerle spetta al giudice amministrativo, che esercita un controllo sulle cause esterne che hanno determinato la rottura del rapporto fiduciario al fine di accertare se esiste una figura sintomatica dell'eccesso di potere idonea a comportare l'illegittimità degli atti amministrativi.
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La cognizione incidentale del giudice amministrativo, ai sensi dell'art. 8 c.p.a., non può sindacare i fatti -nel caso di specie la gravità dell'inadempimento contrattuale dell'impresa aggiudicataria che giustifichi la risoluzione del contratto ai sensi degli artt. 1453 e 1455 c.c.- che la parte ha deliberatamente omesso di sottoporre alla cognizione principale del giudice civile, pur avendo essa l'onere processuale di farlo, poiché le strategie opportunistiche della parte, che ha deciso di non contestare tali fatti davanti al giudice munito di apposita potestas iudicandi, non possono condizionare né aggirare il riparto di giurisdizione con lo strumentale ricorso all'esercizio della cognizione incidentale da parte del giudice amministrativo (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 08.06.2016 n. 2450 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATAIl Collegio richiama un precedente analogo (in quel caso la copertura era stata aumentata di 30 cm), sul quale la Sezione ha ritenuto che “il rialzamento riscontrato non sia in realtà idoneo a escludere l’accertamento di compatibilità paesaggistica richiesto, non integrando la fattispecie preclusiva correlata all’aumento di volume di cui all’art. 167, comma 4, invocato dall’amministrazione.”
A tale conclusione la Sezione è pervenuta non soltanto sulla base di considerazioni fondante sulle disposizioni urbanistiche del Comune resistente in quella controversia (che evidentemente qui non rilevano), bensì tenendo conto anche “…che l’ulteriore altezza realizzata è stata posta in essere, pacificamente, per realizzare un intervento di “risparmio energetico”; tale tipologia di interventi risulta fortemente incoraggiata dall’ordinamento, realizzando finalità pubblicistiche di sicura rilevanza” e che “… norme di legge statale e regionale perseguono l’obiettivo della realizzazione di edifici che garantiscano un superiore indice di prestazione energetica (art. 11 del d.lgs. n. 115 del 2008, art. 146 della legge regionale n. 1 del 2005).”
È stato stabilito quindi, sulla base di tali premesse, che “In tal quadro è da escludere, al fine di evitare che l’ordinamento entri in contraddizione con sé stesso, che un intervento edilizio … ispirato al perseguimento di finalità che sono riconosciute anche di valenza pubblicistica (non essendo contestato che l’intervento in parola è funzionale a perseguire obiettivi di risparmio energetico), possa invece essere ritenuto illegittimo da un punto di vista paesaggistico, dovendo in senso contrario la preclusione di cui all’art. 167, comma 4, del d.lgs. n. 42 del 2004 essere ritenuta non applicabile in presenza di un intervento che non costituisce aumento di volume … e che è ispirato a finalità di contenimento di risparmio energetico" .

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2. Innanzitutto la società ricorrente contesta la legittimità dell’ordinanza impugnata nella parte in cui con essa si sanziona l’aumento di volume derivante dai 25 cm di altezza eccedenti la misura autorizzata con i titoli edilizi. La ricorrente sostiene che, essendosi reso necessario l’inspessimento dei solai al fine di realizzare gli impianti di riscaldamento a pavimento, come previsto in convenzione, l’aumento di volume e di altezza non costituiscono difformità totale e neppure variazione essenziale, potendosi al più parlare di volumi tecnici (in relazione alla maggiore altezza dell’edificio); si veda la relazione redatta da un tecnico incaricato dalla società ricorrente (21.03.2016, depositata il 22.03.2016), che registra variazioni complessive ancora minori di 25 cm.
Il Comune di Monteriggioni, dal canto suo, oltre a ricordare la natura vincolante del parere soprintendentizio, osserva che l’incremento di volume va non soltanto ricondotto all’aumento di 25 cm di altezza (con conseguente modifica della sagoma degli edifici), bensì anche nella realizzazione di un volume interrato, eccedente il limite consentito dal permesso di costruire del 2012 (13,70 mc). Da ciò parte resistente trae la conseguenza che, ai sensi dell’art. 167, comma quarto, lettera a), del d.lgs. n. 42/2004, che vieta ogni incremento di volume in zona paesaggisticamente vincolata, non sarebbe possibile per la società ricorrente ottenere l’accertamento di compatibilità in sanatoria.
Orbene, deve osservarsi che nel provvedimento impugnato non si menziona espressamente un aumento di volume localizzato nel seminterrato, ma –al punto e) dell’elenco delle opere da demolire– si parla della “chiusura di una porta, tra l’altro non riportata negli elaborati grafici di cui alla richiesta di accertamento di conformità in esame, di accesso a un locale interrato posto sotto il corsello di distribuzione ai posti auto e garage.”
Nella relazione dei funzionari tecnici del Comune –incaricati di effettuare un sopralluogo (23.08.2014) ai fini dell’accertamento di conformità– si legge che con riguardo ai due edifici denominati G e D, per quel che qui rileva (aumento di volume), il maggiore spessore di tutti i solai (fino a raggiungere i 25 cm di altezza in più dell’edificio) ha comportato modifica della sagoma ma non variazione dell’altezza utile interna dei singoli piani.
La Sezione in analoghi casi ha aderito all’interpretazione rigorosa dell’art. 167, comma quarto, lettera a) del d.lgs. n. 42/2004 (sent. n. 1216/2014, non appellata), e ciò anche nei casi in cui i volumi realizzati in incremento rispetto ai titoli edilizi siano da qualificare volumi tecnici o siano interrati, secondo la giurisprudenza la predetta disposizione del Codice dei Beni culturali impedisce la sanatoria (cfr. TAR Campania – Napoli, VI, n. 1814/2016; Cons. di Stato, VI, n. 3289/2015; TAR Toscana, III, n. 1216/2014, in una fattispecie che prevedeva modificazioni della sagoma, ha aderito a tale orientamento).
Le questioni sostanziali da affrontare nella controversia in esame, come si è accennato, sono essenzialmente due:
a) l’aumento di altezza degli edifici D e G e la sua rilevanza ostativa al rilascio della sanatoria paesaggistica;
b) la realizzazione di un volume interrato, sempre ai fini della possibilità per la società ricorrente di ottenere siffatta sanatoria.
Quanto al primo aspetto, il Collegio richiama un precedente analogo (in quel caso la copertura era stata aumentata di 30 cm), sul quale, con sentenza n. 124/2015, la Sezione ha ritenuto che “il rialzamento riscontrato non sia in realtà idoneo a escludere l’accertamento di compatibilità paesaggistica richiesto, non integrando la fattispecie preclusiva correlata all’aumento di volume di cui all’art. 167, comma 4, invocato dall’amministrazione.”
A tale conclusione la Sezione è pervenuta non soltanto sulla base di considerazioni fondante sulle disposizioni urbanistiche del Comune resistente in quella controversia (che evidentemente qui non rilevano), bensì tenendo conto anche “…che l’ulteriore altezza realizzata è stata posta in essere, pacificamente, per realizzare un intervento di “risparmio energetico”; tale tipologia di interventi risulta fortemente incoraggiata dall’ordinamento, realizzando finalità pubblicistiche di sicura rilevanza” e che “… norme di legge statale e regionale perseguono l’obiettivo della realizzazione di edifici che garantiscano un superiore indice di prestazione energetica (art. 11 del d.lgs. n. 115 del 2008, art. 146 della legge regionale n. 1 del 2005).”
È stato stabilito quindi, sulla base di tali premesse, che “In tal quadro è da escludere, al fine di evitare che l’ordinamento entri in contraddizione con sé stesso, che un intervento edilizio … ispirato al perseguimento di finalità che sono riconosciute anche di valenza pubblicistica (non essendo contestato che l’intervento in parola è funzionale a perseguire obiettivi di risparmio energetico), possa invece essere ritenuto illegittimo da un punto di vista paesaggistico, dovendo in senso contrario la preclusione di cui all’art. 167, comma 4, del d.lgs. n. 42 del 2004 essere ritenuta non applicabile in presenza di un intervento che non costituisce aumento di volume … e che è ispirato a finalità di contenimento di risparmio energetico.”
Alle su riportate considerazioni, dalle quali il Collegio non ha motivo di discostarsi, si aggiungano le condivisibili considerazioni svolte da parte ricorrente sia in ricorso sia nella memoria depositata il 30.03.2016, in cui si richiama anche il d.lgs. n. 56/2010, recante modifiche e integrazioni alla disciplina di cui al decreto n. 115/2008 su menzionato, in attuazione della direttiva 2006/32/CE.
Orbene, l’art. 11 del d.lgs. da ultimo citato, come modificato dal pure citato successivo d.lgs. del 2010 e vigente al momento dell’istanza di accertamento di conformità, prevede, al comma primo, che “Nel caso di edifici di nuova costruzione, lo spessore delle murature esterne, delle tamponature o dei muri portanti, superiori ai 30 centimetri, il maggior spessore dei solai e tutti i maggiori volumi e superfici necessari ad ottenere una riduzione minima del 10 per cento dell'indice di prestazione energetica previsto dal decreto legislativo 19.08.2005, n. 192, e successive modificazioni, certificata con le modalità di cui al medesimo decreto legislativo, non sono considerati nei computi per la determinazioni dei volumi, delle superfici e nei rapporti di copertura, con riferimento alla sola parte eccedente i 30 centimetri e fino ad un massimo di ulteriori 25 centimetri per gli elementi verticali e di copertura e di 15 centimetri per quelli orizzontali intermedi. Nel rispetto dei predetti limiti è permesso derogare, nell'ambito delle pertinenti procedure di rilascio dei titoli abitativi di cui al titolo II del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, a quanto previsto dalle normative nazionali, regionali o dai regolamenti edilizi comunali, in merito alle distanze minime tra edifici, alle distanze minime dai confini di proprietà, alle distanze minime di protezione del nastro stradale, nonché alle altezze massime degli edifici.”
Il su riportato art. 11 è stato infine abrogato dall’art. 18 del d.lgs. n. 102/2014; l’art. 14 di detto testo normativo (vigente dal 19.07.2014 ai sensi dell’art. 20, comma primo) prevede, al comma sesto, che “6. Nel caso di edifici di nuova costruzione, con una riduzione minima del 20 per cento dell'indice di prestazione energetica previsto dal decreto legislativo 19.08.2005, n. 192, e successive modificazioni, certificata con le modalità di cui al medesimo decreto legislativo, lo spessore delle murature esterne, delle tamponature o dei muri portanti, dei solai intermedi e di chiusura superiori ed inferiori, eccedente ai 30 centimetri, fino ad un massimo di ulteriori 30 centimetri per tutte le strutture che racchiudono il volume riscaldato, e fino ad un massimo di 15 centimetri per quelli orizzontali intermedi, non sono considerati nei computi per la determinazione dei volumi, delle altezze, delle superfici e nei rapporti di copertura. Nel rispetto dei predetti limiti è permesso derogare, nell'ambito delle pertinenti procedure di rilascio dei titoli abitativi di cui al titolo II del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, a quanto previsto dalle normative nazionali, regionali o dai regolamenti edilizi comunali, in merito alle distanze minime tra edifici, alle distanze minime dai confini di proprietà, alle distanze minime di protezione del nastro stradale e ferroviario, nonché alle altezze massime degli edifici. Le deroghe vanno esercitate nel rispetto delle distanze minime riportate nel codice civile.”
Al di là dalla sussistenza in concreto di tutte le condizioni previste dalla disposizione testé riportata, ciò che appare certo è che non può ritenersi legittimo un diniego di accertamento di conformità basato puramente e semplicemente sull’aumento dell’altezza dovuto alla realizzazione di un impianto di riscaldamento a pavimento (come previsto dalla Convenzione: si veda, in atti, il capitolato esecutivo delle opere previste, allegato B1, punto 39; si vedano anche, nel permesso di costruire n. 9/2009 e in quello n. 12/2012, la lettera f) del punto 18 delle avvertenze e prescrizioni generali, che fa obbligo alla ditta di rispettare la l. n. 10/1991, il cui art. 8 prevede incentivi per il miglioramento, fra l’altro, dell’efficienza energetica) con conseguente necessità di aumentare lo spessore dei solai. Oltretutto, l’aumento di altezza di 25 cm corrisponde al 2% dell’altezza assentita (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 08.06.2016 n. 945 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La Sezione ha ritenuto di discostarsi dalla giurisprudenza dominante con riguardo ai volumi interrati, rilevando che “se è del tutto ragionevole che gli incrementi volumetrici che interessino la superficie siano ex lege considerati insanabili in quanto, nella normalità, pregiudizievoli rispetto all’assetto riconoscibile del territorio antropizzato, altrettanto non lo è il fatto che allo stesso modo vengano considerati gli spazi ricavati nel sottosuolo a cui non può essere riconosciuto il medesimo valore culturale dei luoghi su cui ordinariamente si svolge la vita umana.”
La Sezione ha quindi aderito, sotto il profilo considerato, “all’orientamento giurisprudenziale secondo cui la nozione di volume presa in considerazione dall’art. 167, comma 4, lett. a), del D.Lgs. 42/2004 non coincide con quella urbanistica (che implica il consumo di indici e non si correla necessariamente con una trasformazione visibile ab externo) ma ha una propria connotazione implicante la creazione di manufatti fuori terra o la alterazione della sagoma di quelli già esistenti; con la conseguenza che le trasformazioni che avvengono nel sottosuolo non possono essere considerate tout court insuscettibili di sanatoria, dovendo la relativa rilevanza paesaggistica essere vagliata caso per caso dagli organi competenti. Peraltro, affermare la assoluta insanabilità di volumi o superfici interrate può condurre a risultati incongrui…”.
La circolare del MIBAC n. 33 del 26.06.2009, nel fornire –al fine dell’applicazione dell’art. 167, comma quarto e comma quinti, del codice dei Beni culturali– alcune definizioni sulle quali l’Ufficio legislativo di detto Ministero ha espresso parere favorevole, chiarisce che per “volumi” si intende “qualsiasi manufatto costituito da parti chiuse emergente dal terreno o dalla sagoma di un fabbricato preesistente indipendentemente dalla destinazione d’uso del manufatto, ad esclusione dei volumi tecnici”. La nozione così delineata è formulata in modo da escludere chiaramente i volumi non emergenti dal terreno.

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4. Per quanto attiene al volume interrato, osserva il Collegio che la Sezione ha ritenuto (con sentenza n. 338/2015) di discostarsi dalla giurisprudenza dominante con riguardo ai volumi interrati, rilevando che “se è del tutto ragionevole che gli incrementi volumetrici che interessino la superficie siano ex lege considerati insanabili in quanto, nella normalità, pregiudizievoli rispetto all’assetto riconoscibile del territorio antropizzato, altrettanto non lo è il fatto che allo stesso modo vengano considerati gli spazi ricavati nel sottosuolo a cui non può essere riconosciuto il medesimo valore culturale dei luoghi su cui ordinariamente si svolge la vita umana.”
La Sezione ha quindi aderito, sotto il profilo considerato, “all’orientamento giurisprudenziale secondo cui la nozione di volume presa in considerazione dall’art. 167, comma 4, lett. a), del D.Lgs. 42/2004 non coincide con quella urbanistica (che implica il consumo di indici e non si correla necessariamente con una trasformazione visibile ab externo) ma ha una propria connotazione implicante la creazione di manufatti fuori terra o la alterazione della sagoma di quelli già esistenti (TAR Brescia sez. I, 08/01/2015 n. 14; v. TAR Brescia Sez. I 15.10.2014 n. 1057; TAR Napoli Sez. VII 10.02.2014 n. 930; TAR Torino Sez. II 17.12.2011 n. 1310; circolare del Ministero per i Beni e le Attività Culturali n. 33 del 26.06.2009); con la conseguenza che le trasformazioni che avvengono nel sottosuolo non possono essere considerate tout court insuscettibili di sanatoria, dovendo la relativa rilevanza paesaggistica essere vagliata caso per caso dagli organi competenti. Peraltro, affermare la assoluta insanabilità di volumi o superfici interrate può condurre a risultati incongrui…”.
La circolare del MIBAC n. 33 del 26.06.2009, nel fornire –al fine dell’applicazione dell’art. 167, comma quarto e comma quinti, del codice dei Beni culturali– alcune definizioni sulle quali l’Ufficio legislativo di detto Ministero ha espresso parere favorevole, chiarisce che per “volumi” si intende “qualsiasi manufatto costituito da parti chiuse emergente dal terreno o dalla sagoma di un fabbricato preesistente indipendentemente dalla destinazione d’uso del manufatto, ad esclusione dei volumi tecnici”. La nozione così delineata è formulata in modo da escludere chiaramente i volumi non emergenti dal terreno.
In applicazione dei su esposti principi, la doglianza in esame va accolta.
5. La fondatezza delle censure esaminate comporta l’illegittimità del diniego di accertamento di compatibilità paesaggistica e contestuale ordine di demolizione, con assorbimento delle ulteriori doglianze formulate, stante l’assenza del presupposto (aumento di volumetria e altre difformità rilevanti) sul quale l’amministrazione ha basato l’applicazione dell’art. 167, comma quarto, del codice dei Beni culturali.
È superfluo sottolineare che le altre difformità (diverso posizionamento di alcuni elementi esterni), pur indicate nel provvedimento impugnato, non sono tali da impedire la sanatoria paesaggistica, come per altro sembra aver ritenuto la stessa Soprintendenza che ha motivato il provvedimento in autotutela (nota del 17.06.2015) con riguardo al solo aumento di volumetria.
In conclusione, il ricorso va accolto e, per l’effetto, l’ordinanza e gli altri atti impugnati devono essere annullati (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 08.06.2016 n. 945 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTI: Tarsu con verifica in loco e contraddittorio.
La procedura di accertamento della tassa sui rifiuti deve essere ancorata, in primis, a criteri fattuali, che presuppongono verifiche in loco e concreto appuramento delle condizioni reali; di contro, il potere comunale di avvalersi di presunzioni semplici ai fini del predetto accertamento deve essere utilizzato in via residuale, nel caso in cui il contribuente si dimostri scarsamente collaborativo con l'ente.
All'uopo, è onere dell'ente comunale stesso attivare un confronto preventivo con il contribuente, allorché intenda accertare una maggiore imponibilità di talune aree ai fini dell'imposta sui rifiuti, in difformità rispetto a quanto dichiarato spontaneamente dalla parte; il confronto preventivo è necessario proprio per rispettare la procedura di accertamento prevista dall'articolo 73 del Dlgs 507/1993, volta a parametrare la pretesa tributaria alle reali ed effettive condizioni delle aree su cui viene esercitata.

Sono le conclusioni che si leggono nella sentenza 03.06.2016 n. 451/02/16 della Ctp di Frosinone (Presidente Costantino Ferrara, Relatore Giorgio Pacetti).
La vertenza prende le mosse dal ricorso proposto da una srl del frusinate, contro degli avvisi di accertamento Tarsu relativi alle annualità dal 2010 al 2013, emessi dal concessionario del servizio di accertamento e riscossione tributi per conto del comune di Ferentino (Fr).
La società lamentava il fatto che, nonostante le ripetute istanze rivolte all'ente, invitandolo a disporre una verifica diretta in loco, si era vista recapitare direttamente gli accertamenti, basati su elementi presuntivi e non fattuali. In tal senso, deve tenersi presente che l'articolo 73 del dlgs 507/1993, rubricato proprio «poteri dei comuni», individua una sequenza procedimentale che l'ente deve seguire per condurre l'accertamento.
Al co. 1, la norma concede all'ufficio comunale la possibilità di «rivolgere al contribuente motivato invito a esibire o trasmettere atti e documenti, comprese le planimetrie dei locali e delle aree scoperte, e a rispondere a questionari, relativi a dati e notizie specifici, da restituire debitamente sottoscritti». L'accertamento presuntivo, di contro, è previsto al co. 3 della stessa norma, da utilizzarsi tuttavia «in caso di mancata collaborazione del contribuente od altro impedimento alla diretta rilevazione».
Per tali ragioni, la Ctp ha ritenuto che la mancata attivazione di un confronto preventivo col contribuente, unitamente all'inerzia dell'amministrazione a effettuare verifiche in loco, dovessero leggersi come questioni invalidanti.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
( ) Appare dirimente, ai fini della soluzione della presente controversia, analizzare il comportamento tenuto dall'amministrazione e dal contribuente nella formazione della pretesa tributaria, alla luce delle menzionate norme che regolano i poteri degli enti comunali (o di chi agisca per lor conto) nell'ambito dell'accertamento della Tarsu.
In particolare, l'articolo 73 del dlgs 507/1993, rubricato proprio «poteri dei comuni», individua una sequenza procedimentale che l'ente deve seguire «ai fini del controllo dei dati contenuti nelle denunce o acquisiti in sede di accertamento d'ufficio tramite rilevazione della misura e destinazione delle superfici imponibili».
( )
Da ultimo, al comma 3, la norma concede un'ulteriore possibilità all'ente, da utilizzarsi «in caso di mancata collaborazione del contribuente o altro impedimento alla diretta rilevazione, l'accertamento può essere effettuato in base a presunzioni semplici aventi i caratteri previsti dall'articolo 2729 del codice civile».
Nel caso di specie, tuttavia, è stato lo stesso contribuente a sollecitare più volte l'amministrazione, affinché fosse disposta una verifica diretta, volta ad accertare l'effettiva (ed eventuale) imponibilità delle aree in parola; all'uopo, al ricorso vengono allegate le varie istanze presentate, a cui non è stato dato alcun seguito e, sul punto, nulla controdeduce la società concessionaria, che non contesta né smentisce tale fatto, limitandosi a dire che la norma invocata utilizza il termine «può», indicando dunque una «facoltà» per l'ente comunale e non anche un obbligo.
Invero, la tesi del concessionario sul punto appare pretestuosa, poiché se fosse possibile per il comune disattendere in toto le modalità accertative «ordinarie», basate su una effettiva verifica e valutazione dei locali e delle aree, per virare automaticamente sull'accertamento «per presunzioni», stabilito dal comma 3 del citato articolo 73, il contribuente si troverebbe di fatto ingabbiato in una situazione in cui dover sottostare alla pretesa comunale, così come determinata in maniera unilaterale e automatica dall'ente stesso.
( )
In ragione di tale premessa, devono ritenersi fondate le doglianze relative alla mancata attivazione di un confronto preventivo tra la società e l'amministrazione, volta all'accertamento della reale ed effettiva consistenza della materia imponibile da ricondurre a tassazione, alla carenza di motivazione degli avvisi, invero sforniti di elementi sufficienti a sorreggere la pretesa, e violazione delle norme che regolano le modalità di accertamento della Tarsu, in particolare del citato articolo 73. ( ) (articolo ItaliaOggi Sette del 27.06.2016).

APPALTI: La Corte di Giustizia interviene ancora in tema di requisiti di partecipazione: estensione dell’avvalimento e rigorosa predeterminazione delle cause di esclusione.
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Appalti pubblici – Requisiti di partecipazione – Soggetto terzi – Avvalimento – Estensione.
Appalti pubblici – Requisiti di partecipazione – Esclusione – Obblighi – Rigorosa predeterminazione – Necessità.
Gli artt. 47 e 48 della direttiva 2004/18/CE, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, devono essere interpretati nel senso che non ostano ad una normativa nazionale che autorizza un operatore economico a fare affidamento sulle capacità di uno o più soggetti terzi per soddisfare i requisiti minimi di partecipazione ad una gara d'appalto che tale operatore soddisfa solo in parte.
Il principio di parità di trattamento e l'obbligo di trasparenza devono essere interpretati nel senso che ostano all'esclusione di un operatore economico da una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico in seguito al mancato rispetto, da parte di tale operatore, di un obbligo che non risulta espressamente dai documenti relativi a tale procedura o dal diritto nazionale vigente, bensì da un'interpretazione di tale diritto e di tali documenti nonché dal meccanismo diretto a colmare, con un intervento delle autorità o dei giudici amministrativi nazionali, le lacune presenti in tali documenti. In tali circostanze, i principi di parità di trattamento e di proporzionalità devono essere interpretati nel senso che non ostano al fatto di consentire all'operatore economico di regolarizzare la propria posizione e di adempiere tale obbligo entro un termine fissato dall'amministrazione aggiudicatrice.

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Nell’affrontare una questione sollevata dal Consiglio di giustizia amministrativa del 10.12.2014, la sesta sezione della Corte europea ribadisce due indicazioni di apertura in tema di avvalimento nonché di estensione del favor partecipationis, contrario al proliferare delle cause di esclusione nei diversi bandi.
Sotto il primo profilo secondo la giurisprudenza comunitaria, ribadita dalla sentenza e conforme all’obiettivo dell’apertura degli appalti pubblici alla concorrenza nella misura più ampia possibile, la direttiva 2004/18 consente il cumulo delle capacità di più operatori economici per soddisfare i requisiti minimi di capacità imposti dall’amministrazione aggiudicatrice, purché alla stessa si dimostri che il candidato o l’offerente che si avvale delle capacità di uno o di svariati altri soggetti disporrà effettivamente dei mezzi di questi ultimi che sono necessari all’esecuzione dell’appalto. Ciò viene ribadito anche nell’ottica di facilitare l’accesso delle piccole e medie imprese agli appalti pubblici.
In termini delimitativi di tale regola generale la stessa Corte ha tuttavia rilevato che non si può escludere l’esistenza di lavori che presentino peculiarità tali da richiedere una determinata capacità che non si ottiene associando capacità inferiori di più operatori. Solo in un’ipotesi del genere l’amministrazione aggiudicatrice potrebbe legittimamente esigere che il livello minimo della capacità in questione sia raggiunto da un operatore economico unico o, eventualmente, facendo riferimento ad un numero limitato di operatori economici, laddove siffatta esigenza sia connessa e proporzionata all’oggetto dell’appalto di cui trattasi. La Corte (nella giurisprudenza richiamata in sentenza) ha peraltro precisato che, poiché tale ipotesi costituisce una situazione eccezionale, i requisiti in questione non possono assurgere a regola generale nella normativa nazionale. Il caso di specie, secondo la Cge, fuoriesce da tali ristretti ambiti derogatori della regola generale.
Sotto il secondo profilo, la Corte coglie l’occasione per ribadire che tutte le condizioni e le modalità della procedura di aggiudicazione debbono essere formulate in maniera chiara, precisa e univoca nel bando di gara o nel capitolato d’oneri, così da permettere, da un lato, a tutti gli offerenti ragionevolmente informati e normalmente diligenti di comprenderne l’esatta portata e d’interpretarle allo stesso modo e, dall’altro, all’amministrazione aggiudicatrice di essere in grado di verificare effettivamente se le offerte degli concorrenti rispondano ai criteri che disciplinano l’appalto in questione.
In tale ottica, gli stessi principi di trasparenza e di parità di trattamento che disciplinano tutte le procedure di aggiudicazione di appalti pubblici richiedono che le condizioni sostanziali e procedurali relative alla partecipazione ad un appalto siano chiaramente definite in anticipo e rese pubbliche, in particolare gli obblighi a carico degli offerenti, affinché questi ultimi possano conoscere esattamente i vincoli procedurali ed essere assicurati del fatto che gli stessi requisiti valgono per tutti i concorrenti.
Si tratta di una sostanziale conferma della bontà della regola, contenuta nell’art. 46, comma 1-bis, del codice appalti previgente (d.lgs. 12.04.2006, n. 163), che ha formalizzato tali indicazioni in termini più facilmente applicabili (Corte di giustizia U.E., Sez. VI, sentenza 02.06.2016 C-27/15 - commento tratto da www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In base alla normativa e allo stato della giurisprudenza al tempo dell’atto impugnato, la ricostruzione di un rudere non costituisce mai un intervento di restauro e risanamento conservativo ma invece:
   a) una ristrutturazione edilizia allorché il manufatto sia completo di copertura e strutture orizzontali in modo che sia possibile definirne esattamente la consistenza;
   b) un intervento di nuova costruzione nell'ipotesi in cui l’organismo edilizio sia dotato di sole mura perimetrali ma privo di copertura, poiché in tal caso mancano gli elementi necessari e sufficienti a stabilire le dimensioni e le caratteristiche dell'edificio da recuperare.

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Il ricorso è infondato.
Va premesso che le questioni che il Collegio è chiamato a risolvere si identificano, da un lato, nella individuazione del tipo di intervento per il quale è stato chiesto il permesso di costruire e del regime urbanistico-edilizio dell’area di intervento e, dall’altro, nella conseguente verifica della compatibilità del tipo di intervento previsto con il regime urbanistico dell’area così come individuato.
Il tutto nel presupposto che:
a) il rilascio del permesso di costruire costituisce per l’amministrazione comunale l’oggetto di un vero e proprio atto dovuto subordinato alla sola preventiva (positiva) verifica della conformità del progetto presentato alla normativa urbanistico-edilizia disciplinante l’edificazione nell’area di intervento (e in questa prospettiva sono inammissibili le censure di disparità di trattamento o eccesso di potere in senso proprio, che presuppongono un’attività amministrativa discrezionale, così come infondate risultano le censure relative al difetto di motivazione e all’omissione di garanzie partecipative formulate sia in riferimento alla norma generale dell’articolo 3 della legge 07.08.1990, n. 241 che in rapporto alla norma dell’articolo 10-bis, dato che, a prescindere dalla maggiore o minore ampiezza degli enunciati motivatori, se risulta la contrarietà del progetto alla normativa di riferimento, il diniego costituisce atto dovuto con tutte le relative conseguenze);
b) il comune di Formia ha denegato il permesso nel presupposto che l’intervento progettato, che esso ha qualificato come di “nuova costruzione”, fosse incompatibile con la disciplina dettata dagli articoli 19 e 36 delle n.t.a. del P.R.G. comunale che nella area di intervento consentirebbe esclusivamente interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria.
Ciò premesso può darsi risposta alla questioni sopra sintetizzate.
La prima attiene –come accennato– alla qualificazione dell’intervento proposto dalla ricorrente.
Al riguardo in estrema sintesi va rilevato che la qualificazione di tale intervento come di “nuova costruzione” prospettata dall’atto impugnato è corretta, non essendo condivisibile l’assunto del ricorso secondo cui si tratterebbe di intervento di restauro e risanamento conservativo.
Secondo la definizione dell’articolo 3, lettera c) del D.P.R. 06.06.2001, n. 380 il restauro e risanamento conservativo comprende “gli interventi edilizi rivolti a conservare l'organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell'organismo stesso, ne consentano destinazioni d'uso con essi compatibili. Tali interventi comprendono il consolidamento, il ripristino e il rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio, l'inserimento degli elementi accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze dell'uso, l'eliminazione degli elementi estranei all'organismo edilizio”. Da questa definizione si ricava agevolmente che il presupposto di un intervento di restauro e risanamento conservativo è un manufatto edilizio (“l’organismo edilizio”) completo di tutti i suoi elementi costitutivi, primi tra tutti la muratura perimetrale e la copertura, che permettono di stabilire superfici, volumi e sagoma.
Dalla relazione tecnica allegata alla istanza di permesso di costruire risulta che il manufatto è stato distrutto dall’esercito tedesco durante la sua ritirata nella seconda guerra mondiale (in tal periodo il manufatto fu adattato a uso caserma per la sua favorevole posizione) ed esso è descritto come segue: “l’antico fabbricato rurale si presenta alla stato attuale come una costruzione dell’altezza di circa un piano, priva di copertura e con alcune porzioni delle murature verticali crollate per il passare del tempo e l’incuria, cui è addossato il piccolo manufatto bellico in cemento armato coperto con una pesante soletta piena in stato di avanzato degrado”. I relativi elaborati grafici e la documentazione fotografica (allegati 4 e 5 al ricorso) confermano che la qualificazione del manufatto della ricorrente come “rudere” da parte dell’atto impugnato è perfettamente rispondente alla realtà.
In base alla normativa e allo stato della giurisprudenza al tempo dell’atto impugnato, la ricostruzione di un rudere non costituisce mai un intervento di restauro e risanamento conservativo ma invece:
a) una ristrutturazione edilizia allorché il manufatto sia completo di copertura e strutture orizzontali in modo che sia possibile definirne esattamente la consistenza;
b) un intervento di nuova costruzione nell'ipotesi in cui l’organismo edilizio sia dotato di sole mura perimetrali ma privo di copertura, poiché in tal caso mancano gli elementi necessari e sufficienti a stabilire le dimensioni e le caratteristiche dell'edificio da recuperare (Consiglio di Stato, IV, 17.02.2014 n. 735).
Nella fattispecie, quindi, quanto progettato dalla ricorrente costituiva indiscutibilmente un intervento di nuova costruzione dato che il manufatto era privo non solo di copertura ma anche in parte della muratura perimetrale.
La ricorrente nella memoria depositata in prossimità dell’udienza pubblica ha invocato le modifiche dell’articolo 3 D.P.R. n. 380 citato introdotte, in epoca successiva ai fatti di causa, dall'art. 30, comma 1, lett. a), D.L. 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 09.08.2013, n. 98, che qualificano come interventi di ristrutturazione “quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza”.
Va però rilevato che queste modifiche confermano la correttezza dell’inquadramento dell’intervento da parte dell’atto impugnato, dato che esse sono intervenute successivamente al medesimo e quindi non solo sono inapplicabili alla controversia all’esame ma confermano che, prima di esse, la ricostruzione di un rudere, cioè dei resti di un organismo edilizio privo in tutto o in parte di copertura e/o strutture perimetrali, costituisse un intervento di nuova costruzione.
Per quanto concerne il regime urbanistico dell’area, l’atto impugnato reca un riferimento agli articoli 19 e 36 delle n.t.a. del P.R.G. comunale.
La prima previsione stabilisce testualmente che “nel presente testo vengono recepite le previsioni e le norme di destinazione d’uso … relative alla salvaguardia delle coste ai sensi della legge 02.07.1974, n. 30 e successive modifiche e integrazioni …”. La seconda si riferisce alle sottozone F; in particolare da quel che è dato comprendere l’area di progetto è classificata come sottozona F3, parco pubblico e parco pubblico di interesse paesaggistico e archeologico, in cui non è ammessa nuova edificazione ma soltanto la manutenzione ordinaria e straordinaria delle costruzioni esistenti.
In ricorso si afferma che l’articolo 19 delle n.t.a. deve ritenersi ormai abrogato dato che richiama una normativa, quella sulla tutela delle coste, che è stata superata dalle disposizioni della cd. Legge Galasso e dalla disciplina recata dai piani paesistici regionali (che ammettono nella aree costiere gli interventi di restauro e risanamento conservativo).
Quanto all’articolo 36 si afferma che i relativi vincoli da un lato sono decaduti, risalendo il P.R.G. comunale al 1980, e dall’altro che gli stessi si porrebbero in contrasto con le previsioni del piano territoriale paesistico regionale adottato nel 2007.
Le argomentazioni della ricorrente sono infondate.
Va premesso che la circostanza che l’articolo 5, comma 42, della legge regionale 13.08.2011, n. 10 abbia abrogato la legge regionale n. 30 del 1974 non rileva nel giudizio dato che si tratta di abrogazione successiva alla data dell’atto impugnato.
Ciò premesso va rilevato che anche se si ritenesse corretta la tesi della ricorrente secondo cui le previsioni di tale legge (o meglio quelle della legge regionale 25.10.1976, n. 52, integrative e modificative della legge n. 30 del 1974) non sarebbero applicabili in quanto dovrebbero trovare invece applicazione quelle del piano paesaggistico del 1998 che consentirebbero un intervento del tipo di quello progettato, quest’ultimo sarebbe comunque inammissibile perché non consentito dall’articolo 36 delle n.t.a. al P.R.G., cioè delle previsioni che in zona F3 vietano nuove edificazioni.
Il vincolo dell’articolo 36 deve d’altra parte intendersi tuttora efficace dato che il vincolo a parco non costituisce un vincolo di preordinazione all’esproprio ma un vincolo conformativo (Consiglio di Stato, sez. V, 11/06/2013, n. 3234, Consiglio di Stato, sez. IV, 28/12/2012, n. 6700) come tale non soggetto a decadenza ed efficace a tempo indeterminato.
L’affermazione secondo cui l’articolo 36 sarebbe stato reso inefficace dal piano territoriale paesistico adottato nel 2007 o con esso si porrebbe in contrasto risulta poco chiara. L’articolo 23-bis della legge regionale 06.08.1998, n. 24 infatti nelle more della definitiva approvazione del P.T.P.R. si limita a vietare “interventi che siano in contrasto con le prescrizioni di tutela previste nel PTPR adottato” ma non prevede certo una indiscriminata decadenza delle previsioni dei piani comunali e della normativa da questi ultimi prevista relativa all’edificazione che pertanto continua ad applicarsi salvo che si ponga in contrasto (cioè risulti meno restrittiva) con la normativa di tutela del P.T.P.R.; nella fattispecie non sussiste all’evidenza alcun contrasto dato che la normativa comunale è più restrittiva di quella del P.T.P.R. (che infatti la ricorrente invoca per sostenere l’inapplicabilità di quella comunale).
In definitiva, quindi, il diniego di permesso di costruire impugnato è giustificato dalla contrarietà del progetto della ricorrente alle previsioni dell’articolo 36 n.t.a. P.R.G. che vietano in zona F3 interventi di nuova costruzione.
Il ricorso va quindi respinto. Le spese di giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo
(TAR Lazio-Latina, sentenza 01.06.2016 n. 355 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Mutamento di destinazione d'uso giuridicamente rilevante.
Il mutamento di destinazione d'uso giuridicamente rilevante è soltanto quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, da individuarsi tenendo conto della destinazione indicata nell'ultimo titolo abilitativo relativo all'immobile ovvero della sua tipologia, nonché delle attitudini funzionali che il bene stesso viene ad acquisire in caso di esecuzione di nuovi lavori.
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6. Con riguardo, poi, al mutamento di destinazione d'uso, il gravame denuncia una sovrapposizione che il Tribunale avrebbe effettuato tra questo ed i lavori di manutenzione ordinaria di cui alla comunicazione del 06/11/2008; orbene, la tesi non può essere accolta.
Premesso che, anche in questo caso, la doglianza si risolve in un inammissibile vizio di motivazione, osserva comunque il Collegio che lo stesso non trova fondamento; l'ordinanza, infatti, ha prima rilevato che i lavori, denunciati come di manutenzione ordinaria, tali non erano attesa la loro portata (già richiamata e, peraltro, non contestata), quindi ha sottolineato che i medesimi interventi costituivano -almeno in termini di fumus- un ulteriore momento di quella trasformazione d'uso che i ricorrenti stavano ponendo in essere.
Trasformazione che poi gli stessi contestano, in questa sede, sul presupposto che l'isola di Palmarola sarebbe priva di ogni opera di urbanizzazione, sì da rendere impossibile ogni aggravio del carico urbanistico; tesi palesemente inammissibile, poiché -ancora- fondata su elementi di fatto che questa Corte non è chiamata a valutare.
Al riguardo, peraltro, occorre ribadire che, per costante e condiviso indirizzo di questa Corte, «
la destinazione d'uso è un elemento che qualifica la connotazione dell'immobile e risponde agli scopi di interesse pubblico perseguiti dalla pianificazione. Essa, infatti, individua il bene sotto l'aspetto funzionale, specificando le destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici in considerazione della differenziazione infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata dalla normativa sugli standard, diversi per qualità e quantità proprio a seconda della diversa destinazione di zona. Soltanto gli strumenti di pianificazione, generali ed attuativi, possono decidere, fra tutte quelle possibili, la destinazione d'uso dei suoli e degli edifici, poiché alle varie e diverse destinazioni, in tutte le loro possibili relazioni, devono essere assegnate -proprio in sede pianificatoria- determinate qualità e quantità di servizi. L'organizzazione del territorio comunale e la gestione dello stesso vengono quindi realizzate attraverso il coordinamento delle varie destinazioni d'uso e le modifiche non consentite di queste incidono negativamente sull'organizzazione dei servizi, alterando appunto la possibilità di una gestione ottimale del territorio» (Sez. 3, n. 38005 del 16/05/2013, Farieri, Rv. 257689).
Ciò dato,
il mutamento di destinazione d'uso giuridicamente rilevante è soltanto quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, da individuarsi tenendo conto della destinazione indicata nell'ultimo titolo abilitativo relativo all'immobile ovvero della sua tipologia, nonché delle attitudini funzionali che il bene stesso viene ad acquisire in caso di esecuzione di nuovi lavori (Sez. 3, n. 39897 del 24/06/2014, Filippi, Rv. 260422); esattamente quel che è dato ravvisare -quantomeno in questa fase cautelare- nella trasformazione di un locale da grotta ipogea ad immobile abitabile, come ben evidenziato ancora nell'ordinanza impugnata (tratto da www.lexambiente.it - Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 27.05.2016 n. 22269).

APPALTI: Interdittiva antimafia sprint. La misura può anticipare l'accertamento penale. Lo hanno ribadito i giudici del Consiglio di stato: bastano rilievi sintomatici.
La misura dell'interdittiva antimafia può essere emessa dalla Amministrazione in una logica di anticipazione della soglia di difesa dell'ordine pubblico economico e non postula, come tale, l'accertamento in sede penale di uno o più reati che attestino il collegamento o la contiguità dell'impresa con associazioni di tipo mafioso.

È quanto hanno ribadito i giudici della III Sez. del Consiglio di Stato con la sentenza 26.05.2016 n. 2232.
Secondo i supremi giudici amministrativi, anche in ossequio ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, la misura dell'interdittiva può perciò, basarsi «anche sul solo rilievo di elementi sintomatici che dimostrino il concreto pericolo (anche se non la certezza) di infiltrazioni della criminalità organizzata nell'attività imprenditoriale (Cons. st., sez. III, 01.09.2014, n. 4441)».
Nel caso sottoposto all'attenzione del Consiglio di stato emergeva che l'impresa con la quale si era associata la Alfa era gestita di fatto da un soggetto il quale, come accertato in sede penale, concordava con presunti gruppi criminali le offerte da presentare, al fine di favorire gli interessi di quel sodalizio mafioso, nell'ambito di relazioni illecite e inquinate dallo scopo di alterare le aste e di indirizzare l'assegnazione degli appalti a imprese contigue alla predetta organizzazione.
Ciò attestava, secondo i giudici, con valenza indiziaria particolarmente significativa, la partecipazione al vincolo collusivo accertato in sede penale a carico della prima impresa, o, in ogni caso, il rischio che la società destinataria dell'interdittiva in esame venisse condizionata o inquinata da illeciti accordi intesi a favorire la criminalità.
Ai giudici di palazzo Spada veniva chiesto di esprimersi, quindi, circa la legittimità dell'interdittiva antimafia emessa dalla Prefettura nei confronti della società Alfa, in virtù della sopravvenuta assoluzione di Caio il cui ruolo, quale titolare dell'omonima impresa individuale, era stato giudicato, nell'originaria valutazione di contiguità mafiosa della Alfa, significativo del presupposto pericolo di permeabilità dell'impresa alle infiltrazioni della criminalità organizzata.
Il Tar aveva giudicato legittima l'interdittiva controversa, sulla base della valorizzazione del ruolo assunto dal fratello di Caio «quale soggetto condannato, nel medesimo processo, per il reato di associazione mafiosa e identificato quale effettivo amministratore dell'impresa (solo) formalmente intestata al fratello ed implicato, come tale, in un vincolo di collusione con il “clan dei casalesi”, finalizzato all'alterazione delle procedure per l'affidamento di appalti pubblici» (articolo ItaliaOggi Sette del 04.07.2016).
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MASSIMA
3.- Deve premettersi che
la misura dell’interdittiva antimafia può essere emessa dalla Amministrazione in una logica di anticipazione della soglia di difesa dell’ordine pubblico economico e non postula, come tale, l’accertamento in sede penale di uno o più reati che attestino il collegamento o la contiguità dell’impresa con associazioni di tipo mafioso (Cons. St., sez. III, 03.05.2016, n. 1743; sez. III, 15.09.2014, n. 4693), potendo, perciò, basarsi anche sul solo rilievo di elementi sintomatici che dimostrino il concreto pericolo (anche se non la certezza) di infiltrazioni della criminalità organizzata nell’attività imprenditoriale (Cons. St., sez. III, 01.09.2014, n. 4441).
4.- In considerazione dei principi già affermati da questa Sezione (cfr. sent. 03.05.2016, n. 1743), rileva il Collegio che l’interdittiva controversa risulta emanata in conformità ai relativi parametri valutativi e deve intendersi immune dai vizi ad essa ascritti dalla società appellante.

ESPROPRIAZIONE: La p.a. ristora sempre l'espropriato. Tar Piemonte: illegittimità non elimina dovere.
La declaratoria di illegittimità dell'art. 43 dpr 08.06.2001 n. 327, non elimina il dovere dell'Amministrazione di ristorare i proprietari espropriati del pregiudizio cagionato dall'occupazione sine titulo e dalla irreversibile trasformazione dell'ente.

A rimarcarlo sono stati i giudici della I Sez. del TAR Piemonte con la sentenza 26.05.2016 n. 747.
Secondo i giudici amministrativi torinesi resta pertanto fermo il dovere dell'Amministrazione o di raggiungere un accordo transattivo con gli interessati che determini il definitivo trasferimento della proprietà dell'immobile, accompagnandosi esso anche al doveroso risarcimento del danno da occupazione illegittima, o di procedere all'adozione di un nuovo provvedimento di acquisizione sanante ai sensi del sopravvenuto art. 42-bis T.u. approvato con dpr n. 327 del 2001.
Il Tar ha, poi, affermato che l'obbligo giuridico delle amministrazioni intimate consiste nel far venir meno l'occupazione sine titulo dei terreni di proprietà di un soggetto privato e di adeguare la situazione di fatto a quella di diritto, «restituendo l'immobile al legittimo titolare dopo aver demolito quanto ivi realizzato, atteso che la realizzazione dell'opera pubblica sul fondo illegittimamente occupato costituisce un mero fatto, non in grado di assurgere a titolo dell'acquisto e come tale inidoneo a determinare il trasferimento della proprietà, che come detto può dipendere solo da un formale atto di acquisizione dell'Amministrazione (sul punto, da ultimo Tar Palermo sez. II, 11.01.2013, n. 24; Consiglio di stato, sez. IV, n. 4833/2009 e n. 676/2011)».
Altro obbligo della p.a. sarà quello di risarcire al proprietario il danno da questi sofferto per il mancato godimento dell'immobile di sua proprietà per tutto il periodo di occupazione illegittima, decorrente dal giorno successivo a quello di scadenza del termine di occupazione temporanea d'urgenza fino all'effettivo rilascio.
Nel caso sottoposto all'attenzione dei giudici piemontesi, poiché il Comune aveva comunque manifestato in giudizio l'intento di acquisire le aree, è sembrato ai giudici indispensabile, pronunciare una condanna che imponga innanzitutto all'amministrazione di determinarsi in tempi certi, facendo così cessare l'illecito permanente.
È stato, quindi, ordinato all'amministrazione, entro sessanta giorni dalla comunicazione della sentenza, di provvedere alla restituzione delle aree, previa riduzione in pristino delle medesime, ovvero alla loro definitiva acquisizione ai sensi dell'art. 42-bis del dpr 327/2001 (articolo ItaliaOggi Sette del 04.07.2016).
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MASSIMA
2) Ritiene il Collegio di dover precisare, in relazione alle domande formulate da parte ricorrente, che il presente ricorso rientra nella giurisdizione del Giudice Amministrativo: la Corte di Cassazione ha infatti affermato che “
rientrano nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie, anche di natura risarcitoria, relative ad occupazioni illegittime preordinate all'espropriazione, attuate in presenza di un concreto esercizio del potere ablatorio, riconoscibile per tale in base al procedimento svolto ed alle forme adottate, in consonanza con le norme che lo regolano, pur se poi l'ingerenza nella proprietà privata e la sua utilizzazione, nonché l'irreversibile trasformazione della stessa, siano avvenute senza alcun titolo che le consentiva.” (Cass. SSUU 7938/2013).
Nel caso di specie è indubbio che vi sia stata una ben chiara (e persino legittima) iniziale manifestazione di potere ablatorio, non portata a termine secondo i tempi prescritti nell’ambito del procedimento; è quindi evidente che si è protratta una ingerenza nella proprietà privata, nonché realizzata una trasformazione delle aree, senza titolo, e tuttavia come conseguenza di una procedura ablatoria debitamente iniziata e di un successivo mancato esercizio delle prerogative pubblicistiche, indispensabili al completamento della stessa.
La controversia, infine, oltre ad appartenere, per le ragioni evidenziate, quanto all’occupazione illegittima alla giurisdizione del GA, rientra tra le ipotesi di giurisdizione esclusiva di quest’ultimo, prevista dall’art. 133 lett. g) del c.p.a., nel cui ambito è dato al giudice anche pronunciare le cosiddette “condanne pubblicistiche”, e quindi condannare l’amministrazione ad adottare, ove necessario, un provvedimento, con l’unico limite, di cui all’art. 34, co. 2, c.p.a., di non potersi esprimere su poteri non ancora esercitati.
3) I ricorrenti hanno chiesto, in via principale, l’annullamento del decreto di acquisizione ex art. 43 DPR 327/2001. Proprio perché ad essere dichiarata incostituzionale è stata la stessa disposizione di legge che fonda ed attribuisce il potere sfociato nell'adozione del provvedimento impugnato, il vizio che ne scaturisce è quello previsto dall'art. 21-septies della legge n. 241 del 1990, ossia il difetto assoluto di attribuzione, presidiato dalla sanzione della nullità dell'atto adottato a tutela di un interesse generale all'eliminazione dall'ordinamento di fattispecie pubblicistiche radicalmente in contrasto con lo stesso.
In tale senso deve pertanto concludersi per l'accoglimento della domanda, con declaratoria tuttavia non della sola illegittimità, ma della nullità del provvedimento impugnato.
4) Vengono quindi in esame la domanda restitutoria e di risarcimento dei danni.
4.1 La declaratoria di illegittimità dell'art. 43 d.p.r. 08.06.2001 n. 327, non elimina il dovere dell'Amministrazione di ristorare i proprietari espropriati del pregiudizio cagionato dall'occupazione sine titulo e dalla irreversibile trasformazione dell'ente.
Resta pertanto fermo il dovere dell'Amministrazione o di raggiungere un accordo transattivo con gli interessati che determini il definitivo trasferimento della proprietà dell'immobile, accompagnandosi esso anche al doveroso risarcimento del danno da occupazione illegittima, o di procedere all'adozione di un nuovo provvedimento di acquisizione sanante ai sensi del sopravvenuto art. 42-bis T.U. approvato con D.P.R. n. 327 del 2001.
Va affermato l’obbligo giuridico delle amministrazioni intimate:
- in primo luogo,
di far venir meno l'occupazione sine titulo dei terreni di proprietà del ricorrente e di adeguare la situazione di fatto a quella di diritto, restituendo l'immobile al legittimo titolare dopo aver demolito quanto ivi realizzato, atteso che la realizzazione dell'opera pubblica sul fondo illegittimamente occupato costituisce un mero fatto, non in grado di assurgere a titolo dell'acquisto e come tale inidoneo a determinare il trasferimento della proprietà, che come detto può dipendere solo da un formale atto di acquisizione dell'Amministrazione (sul punto, da ultimo TAR Palermo sez. II, 11.01.2013, n. 24; Consiglio di Stato, sez. IV, n. 4833/2009 e n. 676/2011);
- in secondo luogo,
di risarcire al proprietario il danno da questi sofferto per il mancato godimento dell’immobile di sua proprietà per tutto il periodo di occupazione illegittima, decorrente dal giorno successivo a quello di scadenza del termine di occupazione temporanea d’urgenza fino all’effettivo rilascio.
Nel caso di specie, avendo il Comune comunque manifestato in giudizio l’intento di acquisire le aree, pare al Collegio indispensabile, pronunciare una condanna che imponga innanzitutto all’amministrazione di determinarsi in tempi certi, facendo così cessare l’illecito permanente.
Deve quindi essere ordinato all’amministrazione, entro sessanta giorni dalla comunicazione della presente sentenza, di provvedere alla restituzione delle aree, previa riduzione in pristino delle medesime, ovvero alla loro definitiva acquisizione ai sensi dell’art. 42-bis del d.p.r. 327/2001.
4.2 Quanto alle voci risarcitorie e indennitarie si profilano due diverse ipotesi: l’eventuale adozione del provvedimento ex art. 42-bis del d.p.r. 327/2001 comporterà il diritto per i ricorrenti alla corresponsione di un indennizzo, secondo i parametri dettati da quella medesima disposizione.
Sussiste tuttavia un danno da illegittima occupazione delle aree (che cesserà solo con la restituzione ovvero con l’adozione del provvedimento di acquisizione), conseguente ad un mancato o comunque cattivo esercizio del potere.
Per la quantificazione di questo danno, il Collegio ritiene di seguire il proprio precedente orientamento (si veda la sentenza di questa Sezione n. 236 del 07.02.2014), in cui si è stabilito che ai fini della quantificazione del danno, si può fare applicazione, in via analogica, ai criteri di liquidazione previsti e disciplinati dall’art. 42-bis del D.P.R. 08.06.2001 n. 327 per il caso di “Utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico”.
Tali criteri prevedono, in particolare:
- la liquidazione del pregiudizio patrimoniale commisurato all’interesse del “cinque per cento annuo” sul valore venale attuale del bene determinato sulla base delle disposizioni dell’art. 37, commi 3, 4, 5, 6 e 7, dello stesso D.P.R. 327/2001, nonché
- la liquidazione di un indennizzo per il pregiudizio non patrimoniale forfettariamente determinato nella misura del “dieci per cento del valore venale del bene”.

È stato precisato nella sopra citata decisione che “
l’utilizzo in via analogica di tali criteri appare al collegio ragionevole:
- sia per evitare che la liquidazione di un medesimo evento di danno possa condurre ad esiti illogicamente diversi a seconda che la quantificazione sia operata dal giudice nel processo, oppure dall’amministrazione in sede di emanazione del provvedimento di acquisizione ex art. 42-bis D.P.R. 327/2001;
- sia perché, trattandosi di criteri equitativi e forfettari di liquidazione del danno, essi consentono di ritenere ricompresa nella somma complessivamente determinata dal giudice anche quella diretta a ristorare il ricorrente del danno derivante dalla diminuzione di valore e dal diminuito godimento della residua porzione di terreno non occupata dall’opera pubblica;
- sia infine perché, basandosi su valori attualizzati, essi consentono di prescindere dal calcolo della rivalutazione monetaria e degli interessi compensativi sulla somma capitale determinata a titolo risarcitorio, altrimenti doverosa alla luce della peculiare natura (di “valore”) della relativa obbligazione
”.
Ai fini dell’esatta quantificazione del danno risulta quindi necessaria l’individuazione del valore venale del terreno occupato, sia con riferimento alla data di inizio dell’occupazione illegittima, sia con riferimento agli attuali valori di mercato.
Parte ricorrente ha depositato come doc. 15 una perizia di stima del 24.07.2009, mentre l’Amministrazione ha depositato in data 09.03.2016 una perizia di stima del valore di mercato al 2009 delle aree incluse nel PEEP. I valori esposti nei documenti divergono tra loro in misura significativa.
Ritiene pertanto il collegio necessario, fermo l’ordine di restituzione o acquisizione nei sovraesposti tempi certi, disporre verificazione volta alla stima del valore venale (attuale, in modo da comprendere già rivalutazione del credito risarcitorio ed essere anche idoneo parametro per l’eventuale indennizzo dovuto in seguito all’acquisizione) delle aree, tenendo tuttavia conto delle reali caratteristiche delle medesime, come sussistenti già prima della realizzazione delle opere.
A tal fine viene incaricato il Direttore dell’Agenzia del Territorio – Ufficio Provinciale di Torino, con facoltà di delega, di determinare il valore venale attuale delle aree oggetto di occupazione di proprietà dei ricorrenti, raffrontando anche le perizie di parte.
Tale verificazione tecnica potrà esplicarsi mediante sopralluogo in contraddittorio con le parti ed esame di tutta la documentazione e del materiale istruttorio in atti.
In particolare, il verificatore dovrà:
- accertare il predetto valore venale alla data del 30.10.1991 (data di inizio della occupazione illegittima), tenendo conto delle caratteristiche e della destinazione dei terreni secondo la disciplina urbanistica comunale vigente a quella data;
- accertare il predetto valore venale con riferimento agli attuali valori di mercato, senza considerare l’avvenuta realizzazione sui predetti terreni dell’opera pubblica;
La verificazione dovrà svolgersi nel rispetto dei seguenti termini:
a) entro 10 giorni dalla comunicazione della presente ordinanza, il direttore della predetta Agenzia comunicherà a questo Tribunale il nominativo del verificatore designato;
b) entro i 20 giorni successivi alla predetta comunicazione, il verificatore comunicherà ai difensori di tutte le parti costituite, anche mediante fax o e-mail, la data, l’orario e il luogo di inizio delle operazioni peritali;
c) le parti potranno designare propri consulenti tecnici fino a quella data;
d) entro i 30 giorni successivi alla data di inizio delle operazioni peritali, il verificatore trasmetterà uno schema della propria relazione ai difensori delle parti, ovvero, se nominati, ai consulenti tecnici di parte;
e) entro i 15 giorni successivi alla ricezione dello schema di relazione, le parti o i rispettivi consulenti trasmetteranno al verificatore le proprie eventuali osservazioni e conclusioni;
f) entro i 15 giorni successivi al ricevimento dell’ultima delle comunicazioni di cui sub e), il verificatore depositerà presso la Segreteria della 1^ Sezione di questo TAR la propria relazione finale, nella quale darà conto delle osservazioni e delle conclusioni dei consulenti di parte e prenderà specificamente posizione su di esse, formulando conclusioni chiare e sintetiche sui quesiti formulati.
Per eventuali richieste di proroga dei termini e di chiarimenti, il verificatore formulerà istanza scritta al Presidente, il quale provvederà con atto monocratico.
Il collegio si riserva di disporre eventuali supplementi istruttori in esito al deposito della relazione peritale.
La segreteria metterà a disposizione del verificatore, a sua richiesta ed ai fini di consultazione, il fascicolo di causa con facoltà di estrarre copia degli atti.
Il verificatore potrà altresì accedere presso uffici pubblici per prendere visione ed estrarre copia di atti e documenti rilevanti ai fini dell’espletamento dell’incarico.
Su richiesta scritta dell’ente verificatore, le spese della verificazione saranno determinate e liquidate con la sentenza che definirà il giudizio.

VARI: Revoca della patente al giudice ordinario.
Nel caso in cui la revoca della patente di guida costituisca mero atto di esecuzione di una sanzione accessoria disposta con sentenza penale di condanna e la controversia si incentri sulla concreta individuazione degli effetti della sanzione, la giurisdizione sarà del giudice ordinario.

Lo hanno ribadito i giudici della I Sez. del TAR Abruzzo-Pescara con la sentenza 26.
05.2016 n. 200.
La giurisprudenza precedente (cfr. da ultimo, Tar Emilia-Romagna, sede Bologna, sez. I, 06.05.2016, n. 500, e sez. Parma, 02.03.2016, n. 72, Tar Trentino-Alto Adige, sede Trento, 24.03.2016, n. 164, Tar Lombardia, sede Milano, sez. I, 13.11.2015, n. 2400, e Tar Lazio, sede Roma, sez. III, 05.03.2015 n. 3817) aveva già avuto modo di evidenziare che quanto al periodo ostativo di tre anni previsto dall'art. 219, comma 3-ter, del codice della strada, la posizione azionata dal privato avrà i caratteri del diritto soggettivo perché non si correla a poteri discrezionali/autoritativi dell'Amministrazione, e pertanto la cognizione della questione spetta al giudice ordinario secondo i comuni canoni sul riparto della giurisdizione.
Con l'atto impugnato da Tizio veniva respinta la richiesta volta ad ottenere il conseguimento di nuova patente di guida e ciò in quanto il richiedente era stato condannato con sentenza del Tribunale per i reati di cui agli artt. 186, comma 2, lett. e), e 187 del codice della strada con revoca della patente di guida, e non erano ancora decorsi tre anni dal passaggio in giudicato di tale sentenza.
Tizio, nell'impugnare con il ricorso sottoposto all'attenzione dei giudici amministrativi abruzzesi il provvedimento in esame, lamentava il fatto che il periodo ostativo di tre anni previsto dall'art. 219, comma 3-ter, del dlgs n. 285 del 1992 («Quando la revoca della patente di guida è disposta a seguito delle violazioni di cui agli articoli 186, 186-bis e 187, non è possibile conseguire una nuova patente di guida prima di tre anni a decorrere dalla data di accertamento del reato») si sarebbe dovuto computare dalla data di trasmissione della notizia di reato da parte dell'autorità e che avrebbe dovuto essere computato nei tre anni anche il periodo di sospensione della sentenza, antecedente alla revoca (c.d. presofferto).
Tale questione, così come proposta, però esulava, in base a quanto sopra detto dalla giurisdizione del giudice amministrativo, in quanto la situazione giuridica fatta valere in giudizio aveva evidente natura di diritto soggettivo (articolo ItaliaOggi Sette del 04.07.2016).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Raggruppamento e abbruciamento.
Le attività di raggruppamento e abbruciamento in piccoli cumuli in quantità giornaliere non superiori a 3 m steri per ettaro dei materiali vegetali di cui al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 185, comma 1, lett. f), effettuate nel luogo di produzione, non sono sanzionate penalmente ai sensi del D.Lgs. n. 152 del 2006, artt. 256 e 256-bis.
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4. Il ricorso è fondato.
Per effetto di modifiche succedutesi al D.lgs. 152 del 2006, trova applicazione, nella fattispecie in esame, l'art. 185, comma 1, lett. f) del medesimo decreto, richiamato dal nuovo comma 6-bis dell'art. 182, introdotto dall'art. 14, comma 8, lettera bb), del decreto-legge 24.06.2014, n. 91, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.08.2014, n. 116.
Il citato comma 6-bis stabilisce che le attività di raggruppamento e abbruciamento in piccoli cumuli e in quantità giornaliere non superiori a tre metri steri per ettaro dei materiali vegetali di cui all'articolo 185, comma 1, lettera f), effettuate nel luogo di produzione, costituiscono normali pratiche agricole consentite per il reimpiego dei materiali come sostanze concimanti o ammendanti, e non attività di gestione dei rifiuti.
A sua volta la richiamata lettera f) dell'art. 185, comma 1, prevede che non rientrano nel campo di applicazione della parte quarta del D.Lgs. n. 152 del 2006, tra l'altro, la paglia, gli sfalci e potature, nonché l'altro materiale agricolo-forestale naturale non pericoloso utilizzato in agricoltura, nella silvicoltura o per la produzione di energia da tale biomassa mediante processi e con metodi che non danneggiano l'ambiente ne mettono in pericolo la salute umana.
Nell'interpretare tale disposizione, questa Corte aveva già affermato che
la combustione degli sfalci e dei residui di potatura rientrava nella normale pratica agricola, con la conseguenza che i materiali in questione dovevano essere ritenuti esclusi dal novero dei rifiuti  (Sez. 3, n. 16474 del 07.03.2013).
Ora, ai sensi del richiamato comma 6-bis,
le attività di raggruppamento e abbruciamento in piccoli cumuli e in quantità giornaliere non superiore a 3 m steri per ettaro, dei materiali vegetali di cui all'art. 185, comma 1, lett. f), effettuate nel luogo di produzione, costituiscono normali pratiche agricole consentite per il reimpiego dei materiali come sostanze concimanti o ammendanti e non attività di gestione dei rifiuti.
La stessa disposizione aggiunge che, in ogni caso, nei periodi di massimo rischio per gli incendi boschivi, dichiarati dalle regioni, la combustione di residui vegetali agricoli e forestali è sempre vietata e che i comuni e le amministrazioni competenti in materia ambientale hanno la facoltà di sospendere, differire o vietare la combustione del materiale in caso di condizioni sfavorevoli o rischi per l'incolumità e la salute umana.
Il quadro normativo si completa con l'art. 256-bis, comma 6, secondo periodo, aggiunto dallo stesso decreto, e in vigore dal 21.08.2014, secondo cui, fermo restando quanto previsto dall'art. 182, comma 6-bis, medesimo decreto,
le sanzioni penali per la combustione illecita di rifiuti non si applicano all'abbruciamento di materiale agricolo forestale naturale, anche derivato dal verde pubblico o privato.
Dunque, dal sistema normativo come sopra delineato, deve desumersi che
ora gli scarti vegetali sono esclusi dal novero dei rifiuti e che l'abbruciamento in piccoli cumuli e in quantità giornaliere non superiori a tre metri steri per ettaro dei materiali vegetali di cui all'articolo 185, comma 1, lettera f), effettuate nel luogo di produzione, costituiscono normali pratiche agricole e non attività di gestione dei rifiuti e ad essi non sono di conseguenza applicabili sanzioni di cui all'art. 256-bis.
Deve, in conclusione, affermarsi il principio secondo cui
le attività di raggruppamento e abbruciamento in piccoli cumuli in quantità giornaliere non superiori a 3 m steri per ettaro dei materiali vegetali di cui al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 185, comma 1, lett. f), effettuate nel luogo di produzione i non sono sanzionate penalmente ai sensi del D.Lgs. n. 152 del 2006, artt. 256 e 256-bis (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 25.05.2016 n. 21936 - tratto da www.lexambiente.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La copia conforme è un diritto. L'agente della riscossione non può dire no sulle cartelle. Secondo il Tar Campania non ammessa alcuna scusa se non la perdita dell'originale.
Non può negarsi, in astratto, il diritto d'acquisire copia conforme delle cartelle di pagamento e l'agente della riscossione avrà l'obbligo di ricercarle nei propri archivi e di consentirne l'accesso al richiedente, salvo che lo stesso agente della riscossione (non il suo difensore in giudizio) non dichiari, fornendone prova certa, che per alcune, o tutte, di esse, non è più in possesso dell'originale o di eventuali copie.

Lo hanno affermato i giudici della I Sez. del Tar Campania-Salerno con la sentenza 25.05.2016 n. 1305.
A parere dei giudici amministrativi campani nel caso in cui l'agente della riscossione non fosse più in possesso dell'originale della cartella o di qualche copia, evidentemente, non potrà seguire l'accesso, ma ciò non per un ostacolo giuridico, rappresentato dalla disposizione dell'art. 26 del dpr 29.09.1973, n. 602, bensì in applicazione del principio generale espresso dal noto brocardo: «Ad impossibilia nemo tenetur».
Inoltre circa, poi, l'esibizione delle cartelle esattoriali da parte dell'agente per la riscossione, un ormai costante orientamento della giurisprudenza (si veda: Tar Bari (Puglia), sez. III, 27/2/2015, n. 381), messo in evidenza dai giudici salernitani, in conformità al principio enunciato dall'art. 26 del dpr n. 602/1973, ha osservato che: «Non è sufficiente il mero deposito in semplice copia degli estratti di ruolo, perché vanno esibiti gli atti in copia integrale e conforme all'originale, allo scopo di consentire la piena conoscenza del loro contenuto».
Estratti di ruolo e cartelle esattoriali: differenza e note giurisprudenziali
Nella medesima sentenza in commento, poi il Tar ha evidenziato che gli estratti di ruolo sono, senza ombra di dubbio, qualcosa d'ontologicamente diverso dalle cartelle esattoriali, delle quali replicano il ruolo, e che l'esibizione dei primi non può quindi tener luogo dell'ostensione delle seconde, anche alla luce delle seguenti massime richiamate dagli stessi giudici campani: «L'accesso ai documenti non può essere soddisfatto dall'esibizione di un documento che l'Amministrazione, e non il privato ricorrente, giudica equipollente, atteso che elemento fondamentale dell'actio ad exhibendum è la conformità del documento esibito dal privato all'originale; è, quindi, obbligo dell'esattore conservare le cartelle di pagamento elevate nei confronti dei contribuenti, che conservano il diritto ad ottenerne visione, non potendo, d'altra parte, essere considerati equipollenti gli eventuali estratti di ruolo messi a disposizione dagli uffici del Concessionario ovvero gli avvisi di ricevimento delle cartelle di pagamento, dalle quali non può in alcun modo desumersi la pretesa erariale portata ad esecuzione, con una significativa lesione delle prerogative riservate al contribuente dal nostro ordinamento» (Consiglio di stato, sez. IV, n. 317/2016).
Ed ancora: «L'estratto di ruolo non può essere considerato alla stregua delle cartelle di pagamento. In particolare, la cartella esattoriale è prevista dall'art. 25, dpr 29.09.1973 n. 602, quale documento per la riscossione degli importi contenuti nei ruoli e deve essere predisposta secondo il modello approvato con decreto del Ministero delle finanze. Gli estratti di ruolo sono invece degli elaborati informatici formati dall'ente impositore contenenti, in sintesi, gli elementi della pretesa creditoria.
La differenza ontologica tra i due documenti nemmeno può essere superata dalla tendenziale omogeneità contenutistica dei due atti. Non è, infatti, permesso all'Amministrazione e al privato che eserciti funzioni pubbliche di sostituire arbitrariamente il documento richiesto con altro, sebbene equipollente
» (Tar Campania, sez. VI, n. 5071/2015) (articolo ItaliaOggi Sette del 04.07.2016).

APPALTI: Solo norme tecniche per appalti doc. Tar di Salerno. Per i giudici le linee guida non sono idonee a garantire i requisiti di qualità.
Nelle certificazioni di qualità, le norme tecniche sono diverse dalle linee guida: lo sottolinea il TAR Campania-Salerno, nella sentenza 25.05.2016 n. 1295, Sez. I.
La questione ha rilievo in quanto sia nel regime del Codice appalti antecedente l’aprile 2016 (Dlgs 163/2006), sia per le gare attuali (Dlgs 50/2016, articoli 87 e 90), per forniture o servizi l’amministrazione può chiedere concorrenti certificazioni di qualità su norme tecniche. Ad ogni certificazione corrisponde una garanzia qualitativa di un determinato livello di esecuzione: chi possiede una certificazione è infatti ritenuto idoneo a prestare il servizio o la fornitura, perché un organismo esterno di certificazione attesta che il prodotto, processo produttivo o il servizio, sono conformi a requisiti fissati appunto da norme tecniche.
L’organismo certificatore si impegna poi ad effettuare un’adeguata, ciclica vigilanza esterna su tale conformità (Tar Lazio 923/2007). Nel caso specifico, si discuteva di certificazioni relative ad una fornitura di distributori automatici per bevande e alimenti in una scuola: il bando di gara imponeva ai concorrenti varie certificazioni di qualità, individuate con specifiche sigle: Iso 9000, relativa alla qualità del servizio offerto; Iso 14001, sulla sensibilità alle tematiche ambientali; Sa 8000, in tema di responsabilità sociale e, infine, Iso 22000 come certificazione alimentare. Erano anche ammesse certificazioni equivalenti. Il problema è sorto per la certificazione Sa 8000, relativa alla responsabilità sociale, perché un’impresa riteneva di aver soddisfatto la richiesta della scuola (certificato Sa 8000), fornendo un certificato Iso 26000, a suo parere equivalente.
Questa opinione non è stata condivisa dal Tar, perché Iso 26000 non è un sistema di gestione certificabile, non può cioè essere verificato il rispetto dei diritti umani del lavoro da parte dell’azienda: chi ha un certificato SA 8000, presumibilmente rispetta i diritti umani e del lavoro; chi invece ha una documentazione Iso 26000, si impegna nel campo della responsabilità sociale. Ambedue gli ambiti riguardano l’organizzazione del lavoro, trattandosi di qualità etica (quindi, non caratteristiche dello specifico prodotto quale, ad esempio, la sua igiene), ma la documentazione Sa 8000 e quella Iso 26000 non sono equivalenti.
Sottolinea infatti il giudice amministrativo che la certificazione di qualità garantisce l’efficace affidabilità aziendale ed imprenditoriale con standard uniformi (norme tecniche), mentre la conformità a linee guida sulla responsabilità sociale non è certificabile: Iso 26000, come linea guida, è solo una norma internazionale, una guida a concetti, principi e pratiche connesse alla responsabilità sociale d’impresa, fonte di confronto con le parti interessate (prima fra tutte il sindacato, per quanto attiene i rapporti e le condizioni di lavoro). Di conseguenza, la certificazione di conformità alla norma tecnica Sa 8000 non può essere sostituita da una dichiarazione di conformità alla linea guida Iso 26000.
Questo principio avrà rilevanza anche per l’imminente adozione delle linee guida in materia di rating d’impresa da parte dell’autorità anticorruzione: infatti, le imprese che vorranno ottenere rating elevati, dovranno certificare anche la social accountability 8000, come già accade (articolo 93 del Dlgs 50/2016) per ottenere riduzioni sulle garanzie (cauzioni) da fornire per partecipare alle gare
(articolo Il Sole 24 Ore del 23.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
Il punto di partenza dell’analisi è rappresentato dalla posizione della giurisprudenza amministrativa, secondo cui “
il principio di tassatività in materia di esclusione dalla gara per l’affidamento di un pubblico appalto non preclude all’amministrazione appaltante la facoltà di richiedere, a pena di esclusione, tutti i documenti e gli elementi ritenuti necessari o utili per identificare e selezionare i partecipanti ad una procedura concorsuale, fermo restando il rispetto del principio di proporzionalità, ai sensi degli artt. 73 e 74, d. lg. n. 163 del 12.04.2006” (TAR Cagliari (Sardegna), Sez. I, 10/05/2013, n. 390); per un’applicazione in tema di certificazione etica SA 8000:2008, cfr. TAR Catania (Sicilia), Sez. III, 21/11/2013, n. 2784.
Conformemente all’indirizzo testé espresso, nel bando–disciplinare di gara dell’appalto in esame, a pag. 3, è stato previsto che: “Per la distribuzione di sostanze alimentari con attrezzature automatiche e semiautomatiche è necessario il possesso delle seguenti certificazioni di qualità: (…) 3. SA 8000 o equivalenti (Responsabilità sociale)”.
Nella specie, peraltro, non viene affatto in rilievo (il mancato esercizio del)la facoltà espulsiva della concorrente, risultata priva della suddetta certificazione etica, bensì semplicemente –giusta il tenore delle censure sollevate– l’attribuzione –in favore dell’aggiudicataria– da parte del seggio di gara, di cinque punti, per il possesso della suddetta certificazione (conformemente alla griglia dei punteggi, contenuta nel modulo, predisposto dalla stazione appaltante, per la presentazione dell’offerta tecnica); poiché, in particolare, il divario tra l’aggiudicataria Un. s.r.l., prima graduata, e la ricorrente Fo.Se. s.a.s., seconda graduata, è risultato pari ad appena 4,50 punti, è evidente che la mancata assegnazione dei cinque punti in questione, per effetto dell’accertato mancato possesso, in capo alla resistente, del certificato “SA 8000” o equivalente, determinerebbe la conseguenza della riformulazione della graduatoria conclusiva, nel senso auspicato dalla ricorrente medesima, con aggiudicazione dell’appalto di servizi de quo, in suo favore.
Posto, infatti, che, per il possesso della certificazione di qualità etica in oggetto, era prevista l’attribuzione di cinque punti, in maniera standardizzata, appare al Collegio evidente come l’acclarata mancanza, nel curriculum dell’aggiudicataria, di detto certificato o di altro “equivalente”, comporta necessariamente (l’accertamento dell’illegittimità di detta attribuzione, e quindi) la sottrazione del punteggio, alla stessa ascritto, in relazione al medesimo, con conseguente riposizionamento in graduatoria dell’Un. s.r.l., al secondo posto, e ascensione al primo posto –comportante l’effetto dell’aggiudicazione della gara– in favore della ricorrente.
Tanto stabilito, la res in iudicium deducta s’è focalizzata sulla questione, se l’aver provato, la ditta aggiudicataria, di aver conseguito –dalla Si.Cert.SAGL– “la certificazione del sistema di gestione sociale secondo la linea guida ISO 26000: 2010”, per il seguente campo d’attività: “commercializzazione mediante distributori automatici di bevande e prodotti alimentari confezionati”, fosse, o meno, equivalente al possesso della certificazione SA 8000, richiesta dalla lex specialis di gara.
Detta equivalenza è stata affermata, dallo stesso responsabile della sede operativa di Salerno della Si.Cert.SAGL, su richiesta del dirigente scolastico del Liceo “Medi” di Battipaglia, nella nota del 25.02.2016, in copia agli atti, alla quale erano allegati, sempre in copia, estratti:
A) della “norma italiana” UNI ISO 26000 – Guida alla responsabilità sociale, edizione novembre 2010, dell’UNI (Ente Nazionale Italiano di Unificazione – Milano);
B) dello standard internazionale SA 8000 – 2014, del SAI (Social Accountability International – New York).
Dalla lettura di detti documenti, emerge che mentre l’ISO 26000 è una “norma” (internazionale), in tema di responsabilità sociale delle organizzazioni, lo SA 8000 è definito “uno standard volontario, verificabile attraverso audit di terza parte, che definisce i requisiti che devono essere soddisfatti dalle organizzazioni (…) in ogni caso la certificazione può essere rilasciata solo per ogni specifico luogo di lavoro”; e, più avanti: “Anche se SA 8000 è universalmente applicabile, e in linea di principio la certificazione è disponibile in qualsiasi Paese o settore (…)”.
Dalla stessa documentazione in questione appare evidente la ragione di fondo, per la quale ISO 26000 e SA 8000 non possono essere (a dispetto dell’opinione espressa dalla Si. Cert. SAGL, e fatta propria dall’Avvocatura Erariale), “equivalenti”: mentre SA 8000 costituisce, a tutti gli effetti, una “certificazione di qualità” (che attesta, nello specifico, il rispetto dei diritti umani e del lavoro, da parte di una determinata azienda), l’ISO 26000 viene, bensì qualificata come “norma internazionale”, senza, peraltro, che se ne garantisca la possibilità di certificarla (da parte di organismi accreditati).
La ragione di ciò emerge, con estrema chiarezza, dalla pagina, dedicata all’ISO 26000, sul sito CSR (Corporate Social Responsibility, in italiano RSI Responsabilità Sociale d’Impresa) dell’Unioncamere (http://www.csr.unioncamere.it/), ove si legge quanto segue: “Innanzi tutto ISO 26000 è un Linea Guida e non una norma: ciò significa che essa non sarà certificabile da una terza parte sul modello dei sistemi di gestione qualità, ambiente salute sicurezza, o, per rimanere al tema della CSR, SA8000, ma (è) una guida a concetti, principi e pratiche connesse alla Responsabilità Sociale d’Impresa. Questo significa, in pratica, che un’azienda o un’organizzazione che volessero adottare queste nuove Linee Guida non possono affidarsi a una società esterna che ne certifichi l’impegno nel campo della responsabilità sociale, ma devono confrontarsi con le proprie parti interessate, prima fra tutte il sindacato per quanto attiene i rapporti e le condizioni di lavoro, affinché siano loro a valutare se rispettano o meno i contenuti di Iso 26000”.
Nel sito “Responsabilità sociale d’impresa” (http://www.rsi.cittametropolitana.milano.it/), sotto la voce “ISO 26000 – Caratteristiche generali”, in maniera del tutto analoga, si legge: “È applicabile a qualsiasi Organizzazione. Riconosce nel rispetto delle leggi la base della RS ed incoraggia azioni che vadano oltre la legge. Promuove la comprensione comune della RS. È complementare ad altri strumenti ed iniziative. Tiene conto delle differenze sociali, ambientali, legali, economiche. Non è certificabile da una terza parte indipendente”.
Del resto, la società ricorrente ha prodotto, in allegato all’atto introduttivo del giudizio, la pagina del sito LinkedIn dedicata al Si.Cert.SAGL, ovvero all’ente di certificazione, che ha rilasciato la censurata attestazione del possesso, da parte dell’aggiudicataria, della “linea guida” ISO 26000, nella quale sono indicati gli schemi di certificazione, per i quali lo stesso Si.Cert.SAGL è “lead auditor” (ISO 9001, ISO 14001, OHSAS 18001, ISO 22000, ISO 27001, ISO 13485 e ISO 50001), tra i quali non è affatto compreso quello in contestazione.
Ciò per la semplice, ma decisiva, ragione, che –giusta quanto affermato anche in sede cautelare– lo stesso non è passibile di certificazione, per una precisa scelta, in tal senso, della stessa organizzazione che l’ha ideato, ricavabile, con chiarezza, dalla lettura del documento 16, prodotto da parte ricorrente (ovvero del dossier “UNI ISO 26000: la responsabilità sociale in concreto”, a cura dell’UNI), dove –a pag. 31– si legge: “Come è noto, la ISO 26000 non è un sistema di gestione e non è una norma certificabile. In questo risiede, a mio giudizio, uno degli aspetti maggiormente innovativi dello standard. Il gruppo di lavoro mondiale dell’ISO sulla responsabilità sociale prese la decisione di redigere delle linee guida non certificabili sostanzialmente per due motivi.
In primo luogo, si intendeva puntare su un coinvolgimento attivo dei portatori di interesse di un’organizzazione. Affidare a terzi la certificazione delle iniziative sostenibili attuate da un’organizzazione avrebbe significato, infatti, trascurare il valore fondamentale che ha l’identificazione e il coinvolgimento degli stakeholder nella ISO 26000.
Un secondo motivo all’origine della decisione di non certificare questa norma è stata la necessità di favorirne la diffusione fra le piccole e medie organizzazioni, che hanno minori possibilità finanziarie rispetto alle grandi. Chiedere una certificazione comporta, infatti, dei costi che spesso non sono alla portata di aziende e organizzazioni di minori dimensioni.
Questa decisione non è stata, tuttavia, unanimemente accolta con favore dai consulenti e dagli esperti di responsabilità sociale e, a dir la verità, anche dagli enti di normazione. Alcuni di questi ultimi –come il danese DS, il portoghese NP e il brasiliano ABNT– hanno, infatti, pubblicato come standard nazionali dei sistemi di gestione sulla responsabilità sociale, che si richiamano in larga parte ai contenuti della ISO 26000.
In occasione della revisione della norma, negli ultimi mesi le voci di quanti chiedono la modifica della ISO 26000 in uno standard certificabile hanno ripreso a levarsi con forza. L’ISO ha correttamente segnalato che il processo di revisione non prevede uno stravolgimento della norma, anche nel caso in cui la maggioranza dei votanti ne chiedesse la trasformazione in uno standard certificabile.
In quest’ultimo caso, la strada sarebbe quella della presentazione da parte dell’ISO di un nuovo progetto di norma (New Work Item Proposal) certificabile in materia di responsabilità sociale, avviando ex novo un percorso normativo e costituendo un Comitato tecnico o un Project Committee. I sindacati e le associazioni imprenditoriali si sono già da tempo espressi contro ogni tentativo di rendere certificabile la norma e hanno sostenuto questa posizione presso gli enti di normazione nazionali durante il processo di revisione.
I risultati del voto saranno, comunque, oggetto di discussione fra l’ISO e il PPO (Post Publication Organization), l’organismo mondiale consultivo sulla ISO 26000, del quale fanno parte quattro rappresentanti per ciascuna delle sei categorie di stakeholder che hanno partecipato al gruppo di lavoro ISO sulla responsabilità sociale. Al PPO sarà, infatti, chiesto di formulare una propria raccomandazione ai vertici ISO sul futuro della norma (…)
”.
In definitiva, pur non potendosi escludere, giusta quanto espresso dall’UNI, un’evoluzione della norma in argomento, nel senso della sua parificazione ad uno standard internazionale certificabile, allo stato esso rappresenta un’entità, irriducibile alla nozione di certificazione; di conseguenza, esso non può ritenersi “equivalente” al certificato SA 8000, richiesto dal disciplinare di gara, atteso che non può istituirsi alcuna equivalenza, già sul piano logico, prima ancora che giuridico, tra ciò che è certificabile, e ciò che non lo è.
Le ragioni dianzi espresse fondano, pertanto, l’accoglimento del ricorso, con annullamento dell’atto gravato e riformulazione della graduatoria, nei sensi sopra precisati, e conseguente aggiudicazione dell’appalto, in favore della ricorrente, già seconda classificata.

APPALTI: Aggiudicazioni, botte di ferro. Revoca: non si può invocare il principio d'affidamento. Tar Puglia interviene in materia di gare pubbliche richiamando ampia giurisprudenza.
La valutazione dell'interesse pubblico alla revoca di un provvedimento di aggiudicazione non può essere incisa dalla situazione oggettiva di affidamento in capo al soggetto privato e, pertanto, non potrà ritenersi illegittima la revoca in relazione alla dedotta supremazia del principio di affidamento.

È quanto ribadito dai giudici della II Sez. del TAR Puglia-Bari con la sentenza 20.05.2016 n. 694.
Il thema decidendum vedeva la società Tizia spa sostenere che la revoca dell'aggiudicazione di una gara sarebbe illegittima per la mancanza della comunicazione di avvio del procedimento.
Più nello specifico, la Tizia spa affermava che, essendo intervenuta a suo favore l'aggiudicazione definitiva, essa avrebbe avuto un interesse a partecipare al procedimento di revoca dell'aggiudicazione suddetta.
La lesione degli interessi procedimentali, a parere di Tizia, sarebbe tanto più grave in considerazione dell'avvenuto consolidamento in capo a Tizia stessa dell'affidamento legittimo circa l'intenzione della p.a. di procedere alla stipula del contratto di appalto.
L'amministrazione resistente, in merito, eccepiva che il provvedimento impugnato, alla luce delle risultanze della nuova istruttoria, non poteva comunque avere un contenuto diverso e che pertanto, l'eventuale apporto partecipativo della ricorrente, ove reso praticabile dalla comunicazione di avvio del procedimento, non avrebbe portato ad esiti diversi da quelli cui è pervenuta la stazione appaltante.
La giurisprudenza richiamata dai giudici di Bari. I giudici baresi hanno, quindi, richiamato sul punto, la giurisprudenza del Consiglio di stato in merito all'art. 21-octies, secondo comma, della legge n. 241 del 1990, secondo cui: «Tale norma distingue due diverse fattispecie. La prima è generale e riguarda il caso in cui l'attività amministrativa è vincolata e l'amministrazione ha violato una norma che contempla un requisito formale o procedimentale. La seconda ha carattere particolare e riguarda il caso in cui è violata la norma che contempla il requisito procedimentale della comunicazione di avvio del procedimento. Tale ultima fattispecie, contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice, si applica in presenza di attività sia vincolata che discrezionale» (Cds, sez. VI, 27.04.2015, n. 2127).
E ancora: «La più recente giurisprudenza del Consiglio di stato, facendo riferimento, per ragioni di efficienza e speditezza, a un'accezione sostanzialistica della violazione dell'art. 7, legge n. 241 del 1990, ha affermato che l'interessato che lamenta la violazione dell'obbligo di comunicazione dell'avvio del procedimento ha anche l'onere di allegare e dimostrare che, grazie alla comunicazione, egli avrebbe potuto sottoporre all'amministrazione elementi che avrebbero potuto condurla a una diversa determinazione da quella che invece ha assunto».
Infatti «è vero che tale norma pone in capo all'amministrazione (e non del privato) l'onere di dimostrare, in caso di mancata comunicazione dell'avvio, che l'esito del procedimento non poteva essere diverso. E tuttavia, onde evitare di gravare la p.a. di una probatio diabolica (quale sarebbe quella consistente nel dimostrare che ogni eventuale contributo partecipativo del privato non avrebbe mutato l'esito del procedimento), risulta preferibile interpretare la norma in esame nel senso che il privato non possa limitarsi a dolersi della mancata comunicazione di avvio, ma debba anche quantomeno indicare o allegare quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbe introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la comunicazione. Solo dopo che il ricorrente ha adempiuto questo onere di allegazione (che la norma implicitamente pone a suo carico), la p.a. sarà gravata dal ben più consistente onere di dimostrare che, anche ove quegli elementi fossero stati valutati, il contenuto dispositivo del provvedimento non sarebbe mutato. Ne consegue che ove il privato si limiti a contestare la mancata comunicazione di avvio, senza nemmeno allegare le circostanze che intendeva sottoporre all'amministrazione, il motivo con cui si lamenta la mancata comunicazione deve ritenersi inammissibile» (Cons. stato, VI, 29.07.2008, n. 3786; nello stesso senso Cons. stato, V, 18.04.2012, n. 2257) (Consiglio di stato, sez. VI, 04.03.2015, n. 1060; Tar Bari, sez. II, 06.10.2015, n. 1283) (articolo ItaliaOggi Sette del 27.06.2016).
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MASSIMA
3. – Con il primo motivo del ricorso R.G. n. 1505/2014 la società Ai.Me.Sy. S.p.A. sostiene che la revoca dell’aggiudicazione sarebbe illegittima per la mancanza della comunicazione di avvio del procedimento.
Più nello specifico, la ricorrente sostiene che, essendo intervenuta a suo favore l’aggiudicazione definitiva, essa avrebbe avuto un interesse a partecipare al procedimento di revoca dell’aggiudicazione suddetta.
La lesione degli interessi procedimentali, a parere della ricorrente, sarebbe tanto più grave in considerazione dell’avvenuto consolidamento in capo all’Ai.Li. dell’affidamento legittimo circa l’intenzione dell’Azienda Ospedaliera di procedere alla stipula del contratto di appalto.
L’amministrazione resistente, in merito, ha eccepito che il provvedimento impugnato, alla luce delle risultanze della nuova istruttoria, non poteva comunque avere un contenuto diverso e che pertanto, l’eventuale apporto partecipativo della ricorrente, ove reso praticabile dalla comunicazione di avvio del procedimento, non avrebbe portato ad esiti diversi da quelli cui è pervenuta la stazione appaltante.
Sul punto, si riporta quanto osservato recentemente dal Consiglio di Stato in merito all’art. 21-octies, secondo comma, della l. n. 241 del 1990 “
…Tale norma distingue due diverse fattispecie. La prima è generale e riguarda il caso in cui l’attività amministrativa è vincolata e l’amministrazione ha violato una norma che contempla un requisito formale o procedimentale. La seconda ha carattere particolare e riguarda il caso in cui è violata la norma che contempla il requisito procedimentale della comunicazione di avvio del procedimento. Tale ultima fattispecie, contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice, si applica in presenza di attività sia vincolata che discrezionale” (Consiglio di Stato, sez. VI, 27.04.2015, n. 2127); e ancora “La più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato, facendo riferimento –per ragioni di efficienza e speditezza- a un’accezione sostanzialistica della violazione dell’art. 7 l. n. 241 del 1990, ha affermato che l’interessato che lamenta la violazione dell’obbligo di comunicazione dell’avvio del procedimento ha anche l’onere di allegare e dimostrare che, grazie alla comunicazione, egli avrebbe potuto sottoporre all’amministrazione elementi che avrebbero potuto condurla a una diversa determinazione da quella che invece ha assunto". Infatti «è vero che tale norma pone in capo all’Amministrazione (e non del privato) l’onere di dimostrare, in caso di mancata comunicazione dell’avvio, che l’esito del procedimento non poteva essere diverso. E tuttavia, onde evitare di gravare la p.a. di una probatio diabolica (quale sarebbe quella consistente nel dimostrare che ogni eventuale contributo partecipativo del privato non avrebbe mutato l’esito del procedimento), risulta preferibile interpretare la norma in esame nel senso che il privato non possa limitarsi a dolersi della mancata comunicazione di avvio, ma debba anche quantomeno indicare o allegare quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbe introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la comunicazione. Solo dopo che il ricorrente ha adempiuto questo onere di allegazione (che la norma implicitamente pone a suo carico), la p.a. sarà gravata dal ben più consistente onere di dimostrare che, anche ove quegli elementi fossero stati valutati, il contenuto dispositivo del provvedimento non sarebbe mutato. Ne consegue che ove il privato si limiti a contestare la mancata comunicazione di avvio, senza nemmeno allegare le circostanze che intendeva sottoporre all’Amministrazione, il motivo con cui si lamenta la mancata comunicazione deve ritenersi inammissibile» (Cons. Stato, VI, 29.07.2008, n. 3786; nello stesso senso Cons. Stato, V, 18.04.2012, n. 2257…) (Consiglio di Stato, sez. VI, 04.03.2015, n. 1060; TAR Bari, sez. II, 06.10.2015, n. 1283).
Nel motivo di ricorso de quo la ricorrente si è limitata a contestare il mancato avvio della fase partecipativa, senza allegare le circostanze che intendeva sottoporre alla stazione appaltante e che avrebbero condotto all’adozione di un provvedimento diverso (cfr. I motivo del ricorso principale); ne consegue che tale censura deve ritenersi inammissibile.
In ogni caso, l’amministrazione sul punto ha evidenziato che: “la gravata revoca dell’aggiudicazione costituiva atto dovuto, stante l’accertamento istruttorio circa il “non allineamento della precedente gara rispetto alle attuali esigenze di risultato clinico”, di talché l’eventuale apporto partecipativo della “Ai.Li.Me.Sy. s.p.a.”, ove reso praticabile dalla comunicazione di avvio del procedimento, non avrebbe portato ad esiti diversi da quelli cui è pervenuta la stazione appaltante”.
Per completezza e con specifico riferimento alla addotta lesione del legittimo affidamento come fonte di illegittimità del provvedimento di revoca impugnato si richiamano:
- la sentenza del TAR Roma, sez. III, 10.01.2007, n. 76: “
il Collegio non può che ritenere infondata la censura dedotta dalla ricorrente e relativa all'inadeguata valutazione del legittimo affidamento rispetto al provvedimento di revoca oggetto di impugnazione. La valutazione dell'interesse pubblico alla revoca del provvedimento di aggiudicazione, infatti, non può essere incisa dalla situazione oggettiva di affidamento in capo al soggetto privato e, pertanto, non può ritenersi la illegittimità della revoca in relazione alla dedotta supremazia del principio di affidamento”;
- nonché la sentenza n. 2602 del 14.05.2013 della V Sezione del Consiglio di Stato secondo la quale: “
…deve essere condivisa la tesi del primo giudice secondo la quale ai sensi dell'art. 21-octies della legge 07.08.1990, n. 241, il carattere doveroso della determinazione di annullamento d'ufficio esclude la rilevanza delle censure di incompetenza e di insufficienza della comunicazione di avvio del procedimento di annullamento e di quello di revoca del finanziamento (in termini C. di S., V, 15.11.2012, n. 5772). In tale situazione, nemmeno può essere dato rilievo all'affidamento ingenerato nell'appellante, in quanto al momento dell'adozione del provvedimento di autotutela il contratto definitivo non era stato stipulato, per cui le rispettiva posizioni non si erano ancora definitivamente consolidate”.
Tale motivo di ricorso deve pertanto essere integralmente respinto perché infondato.

APPALTI: La revoca degli atti di gara può integrare un illecito precontrattuale, ove si ponga in contrasto con le regole di buona fede e correttezza di cui all’art. 1337 cod. civ. riferite ad una Pubblica Amministrazione, in quanto la responsabilità precontrattuale prescinde dall’eventuale illegittimità del provvedimento amministrativo di autotutela che formalizza la volontà dell’Amministrazione di annullare o revocare gli atti di gara.
Essa non discende dalla violazione delle norme di diritto pubblico che disciplinano l’agire autoritativo della P.A., ma deriva dalla violazione delle regole comuni (in particolare del principio generale di buona fede in senso oggettivo dell’art. 1337 Cod. civ.) che trattano del “comportamento” precontrattuale, ponendo in capo alla pubblica amministrazione doveri di correttezza e di buona fede analoghi a quelli che gravano su un comune soggetto nel corso delle trattative precontrattuali.

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E' noto il principio secondo cui in caso di responsabilità precontrattuale sia risarcibile il solo interesse negativo, sotto la duplice veste di danno emergente e lucro cessante; lì dove il danno emergente coincide con le spese sostenute per la partecipazione alla gara e in previsione della conclusione del contratto e il lucro cessante con la perdita di ulteriori occasioni contrattuali, vanificate a causa dell'impegno derivante dall'aggiudicazione non sfociata nella stipulazione.
Diversamente, non si ritiene risarcibile il mancato utile, né il danno da perdita di chance (legata alla impossibilità di far valere nelle future contrattazioni il requisito economico) né il danno curriculare, voci che invece sarebbero state in astratto valutabili ai fini del risarcimento per equivalente nel caso di revoca illegittima.
Siffatto orientamento è stato confermato dalla recente sentenza del Consiglio di Stato, sez. III, del 10.03.2015, n. 1228: “Osserva il collegio, in linea generale e sulla scorta di consolidati principi, che:
   a) il danno precontrattuale è riconducibile al solo interesse negativo, include il danno emergente (per le spese sostenute per la partecipazione alla gara e in previsione della conclusione del contratto) e il lucro cessante (dovuto alla perdita di ulteriori occasioni contrattuali, vanificate a causa dell'impegno derivante dall'aggiudicazione non sfociata nella stipulazione);
   b) non rientra nel prisma del danno precontrattuale l'interesse positivo, sub specie di utile di impresa, ossia i vantaggi economici che sarebbero derivati dall'esecuzione del contratto non venuto ad esistenza;
   c) non è altresì risarcibile il danno c.d. curriculare (ovvero il pregiudizio subìto dall'impresa a causa del mancato arricchimento del curriculum professionale per non poter indicare in esso l'avvenuta esecuzione dell'appalto), trattandosi di danno-evento ex art. 1223 c.c., conseguente alla mancata aggiudicazione e stipulazione del contratto, dunque incompatibile con la struttura della responsabilità precontrattuale; invero, la responsabilità precontrattuale della p.a. non è responsabilità da provvedimento, ma da comportamento, e presuppone la violazione dei doveri di correttezza e buona fede nella fase delle trattative, in quanto l'art. 1337 c.c. pone in capo alla p.a. obblighi analoghi a quelli che gravano su un comune soggetto nel corso delle trattative; in tal caso, spetta il solo interesse negativo non essendosi verificata la lesione del contratto; pertanto, il danno risarcibile è unicamente quello consistente nella perdita derivata dall'aver fatto affidamento nella conclusione del contratto e nei mancati guadagni conseguenti alle altre occasioni contrattuali perdute; il c.d. danno curriculare, ontologicamente non diverso da quello legato al mancato perseguimento dell'interesse positivo, non è pertanto risarcibile, derivando dalla mancata esecuzione dell'appalto e non dall'inutilità della trattativa”.
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Sulla necessità che il soggetto richiedente il risarcimento del danno fornisca adeguata prova sulla consistenza dello stesso, la giurisprudenza ha affermato che: “Tali danni devono essere, tuttavia, adeguatamente provati nell’an e nel quantum dall’interessato in base alla regola generale dell’onere probatorio, secondo cui spetta a chi agisce in giudizio indicare e provare i fatti su cui fonda la pretesa avanzata; la suddetta regola trova piena applicazione nel giudizio risarcitorio in sede amministrativa, nel quale non si riscontra quella disuguaglianza di posizioni tra amministrazione e privato che giustifica l’applicazione del principio dispositivo con metodo acquisitivo”.
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MASSIMA
8. - Resta da valutare se nel caso in esame, nonostante sia stata esclusa l’illegittimità della revoca sotto i profili addotti dalla ricorrente, residuino margini di responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione; ciò in quanto la Ai.Li.Me.Sy. S.p.A., a pagina 21 del ricorso introduttivo, rinvia alla responsabilità ai sensi dell’art. 1337 c.c., nella denegata ipotesi in cui questo Tribunale non avesse riconosciuto alla ricorrente il diritto al risarcimento in forma specifica.
Appare opportuno preliminarmente richiamare i principi generali elaborati dalla giurisprudenza amministrativa in subiecta materia, in relazione a vicende analoghe a quella ora in esame, nelle quali l’atto di revoca era intervenuto in fase avanzata del procedimento di scelta del contraente (cfr. Cons. St., sez. VI, 01.02.2013 n. 633, e sez. IV, 07.02.2012, n. 662).
E’ stato in proposito statuito che la revoca degli atti di gara può integrare un illecito precontrattuale, ove si ponga in contrasto con le regole di buona fede e correttezza di cui all’art. 1337 cod. civ. riferite ad una Pubblica Amministrazione, in quanto la responsabilità precontrattuale prescinde dall’eventuale illegittimità del provvedimento amministrativo di autotutela che formalizza la volontà dell’Amministrazione di annullare o revocare gli atti di gara; essa non discende dalla violazione delle norme di diritto pubblico che disciplinano l’agire autoritativo della P.A., ma deriva dalla violazione delle regole comuni (in particolare del principio generale di buona fede in senso oggettivo dell’art. 1337 Cod. civ.) che trattano del “comportamento” precontrattuale, ponendo in capo alla pubblica amministrazione doveri di correttezza e di buona fede analoghi a quelli che gravano su un comune soggetto nel corso delle trattative precontrattuali (cfr. TAR Abruzzo, Pescara, sez. I, 24.06.2013, n. 347. In merito vedasi anche Cons. Stato, Ad. Plen., 05.09.2005, n. 6; Cons. St., sez. V, 07.09.2009 n. 5245).
In relazione al caso in esame si evidenzia che:
- l’aggiudicazione alla Ai.Li.Me.Sy. S.p.A. non era stata sospesa in sede cautelare;
- dopo l’Ordinanza di questo Tribunale n. 644 del 15.11.2013 (di rigetto dell’istanza cautelare formulata dalla El. S.r.l. nel ricorso R.G. n. 1091/2013) la stazione appaltante avrebbe potuto stipulare il contratto;
- l’Ai.Li. ha più volte sollecitato la stazione appaltante (cfr. nota del 03.02.2014, allegato n. 11 al ricorso);
- la revoca riporta la data del 27.10.2014.
A pagina 12 del ricorso, si evidenzia che durante questo periodo la stazione appaltante non ha mai manifestato l’intenzione di revocare l’aggiudicazione; ciò che sarebbe stato invece imposto dal rispetto dei canoni di buona fede e buona amministrazione. Ed anzi, in data 23.09.2013 si è costituita innanzi a questo Tribunale sostenendo la legittimità dell’aggiudicazione all’Ai.li.Me.Sy. S.p.A..
Alla luce di quanto sopra evidenziato e in applicazione dei su richiamati principi, potrebbe in astratto ravvisarsi nella fattispecie la lesione dell’affidamento ingenerato in capo all’aggiudicataria dal provvedimento di aggiudicazione medesimo e la violazione da parte della pubblica amministrazione dei canoni di correttezza e buona fede che integra, ai sensi dell’art. 1337 c.c., gli estremi della responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione.
Tuttavia, parte ricorrente non allega alcun principio di prova in relazione ad alcuna delle voci di danno risarcibili nel caso in esame.
Ed invero, è noto il principio secondo cui in caso di responsabilità precontrattuale sia risarcibile il solo interesse negativo, sotto la duplice veste di danno emergente e lucro cessante; lì dove il danno emergente coincide con le spese sostenute per la partecipazione alla gara e in previsione della conclusione del contratto e il lucro cessante con la perdita di ulteriori occasioni contrattuali, vanificate a causa dell'impegno derivante dall'aggiudicazione non sfociata nella stipulazione (in merito si richiama altresì TAR Roma, sez. III, 10.01.2007, n. 76).
Diversamente, non si ritiene risarcibile il mancato utile, né il danno da perdita di chance (legata alla impossibilità di far valere nelle future contrattazioni il requisito economico) né il danno curriculare, voci che invece sarebbero state in astratto valutabili ai fini del risarcimento per equivalente nel caso di revoca illegittima (ipotesi diversa –si ribadisce- da quella in esame).
Siffatto orientamento è stato confermato dalla recente sentenza del Consiglio di Stato, sez. III, del 10.03.2015, n. 1228: “Osserva il collegio, in linea generale e sulla scorta di consolidati principi (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 15.09.2014, n. 4674; Sez. IV, 20.02.2014, n. 790; Sez. VI, 01.02.2013, n. 633; Sez. V, 26.10.2009, n. 6529, Sez. V, 07.01.2009, n. 7; Ad. plen., 05.09.2005, n. 6), che:
   a) il danno precontrattuale è riconducibile al solo interesse negativo, include il danno emergente (per le spese sostenute per la partecipazione alla gara e in previsione della conclusione del contratto) e il lucro cessante (dovuto alla perdita di ulteriori occasioni contrattuali, vanificate a causa dell'impegno derivante dall'aggiudicazione non sfociata nella stipulazione);
   b) non rientra nel prisma del danno precontrattuale l'interesse positivo, sub specie di utile di impresa, ossia i vantaggi economici che sarebbero derivati dall'esecuzione del contratto non venuto ad esistenza;
   c) non è altresì risarcibile il danno c.d. curriculare (ovvero il pregiudizio subìto dall'impresa a causa del mancato arricchimento del curriculum professionale per non poter indicare in esso l'avvenuta esecuzione dell'appalto), trattandosi di danno-evento ex art. 1223 c.c., conseguente alla mancata aggiudicazione e stipulazione del contratto, dunque incompatibile con la struttura della responsabilità precontrattuale; invero, la responsabilità precontrattuale della p.a. non è responsabilità da provvedimento, ma da comportamento, e presuppone la violazione dei doveri di correttezza e buona fede nella fase delle trattative, in quanto l'art. 1337 c.c. pone in capo alla p.a. obblighi analoghi a quelli che gravano su un comune soggetto nel corso delle trattative; in tal caso, spetta il solo interesse negativo non essendosi verificata la lesione del contratto; pertanto, il danno risarcibile è unicamente quello consistente nella perdita derivata dall'aver fatto affidamento nella conclusione del contratto e nei mancati guadagni conseguenti alle altre occasioni contrattuali perdute; il c.d. danno curriculare, ontologicamente non diverso da quello legato al mancato perseguimento dell'interesse positivo, non è pertanto risarcibile, derivando dalla mancata esecuzione dell'appalto e non dall'inutilità della trattativa
” (in merito si richiama altresì TAR Roma, sez. III, 10.01.2007, n. 76).
Si ribadisce, tuttavia, che la ricorrente non ha allegato alcuna documentazione utile a comprovare l’esistenza del lamentato danno; non ha comprovato le spese sostenute per partecipare alla gara (limitandosi ad indicarle in un prospetto dalla stessa redatto ed allegato al ricorso) né il lucro cessante (perdita di ulteriori occasioni contrattuali, vanificate a causa dell'impegno derivante dall'aggiudicazione non sfociata nella stipulazione).
Sulla necessità che il soggetto richiedente il risarcimento del danno fornisca adeguata prova sulla consistenza dello stesso si richiama TAR Sicilia, Catania, sez. III, 16.02.2012, n. 436; TAR Bari, sez. I, 02.09.2014, n. 1048; TAR Roma, sez. III, 10.01.2007, n. 76.
Anche il TAR Napoli in merito ha affermato che: “Tali danni devono essere, tuttavia, adeguatamente provati nell’an e nel quantum dall’interessato in base alla regola generale dell’onere probatorio, secondo cui spetta a chi agisce in giudizio indicare e provare i fatti su cui fonda la pretesa avanzata; la suddetta regola trova piena applicazione nel giudizio risarcitorio in sede amministrativa, nel quale non si riscontra quella disuguaglianza di posizioni tra amministrazione e privato che giustifica l’applicazione del principio dispositivo con metodo acquisitivo” (TAR Napoli, sez. I, 07.06.2010, n. 12676; TAR Campania Napoli, Sez. I, 08.02.2006 n. 1794).
Alla luce di quanto sopra evidenziato la richiesta risarcitoria de qua deve essere dichiarata inammissibile (TAR Puglia-Bari, Sez. II,
sentenza 20.05.2016 n. 694 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Le valutazioni delle offerte tecniche da parte delle commissioni di gara sono espressione di ampia discrezionalità tecnica e, come tali, sono sottratte al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, salvo che non siano manifestamente illogiche, irrazionali, irragionevoli, arbitrarie ovvero fondate su di un altrettanto palese e manifesto travisamento dei fatti.
Ovvero ancora salvo che non venga censurata la plausibilità dei criteri valutativi o la loro applicazione, non essendo sufficiente che la determinazione assunta sia, sul piano del metodo e del procedimento seguito, meramente opinabile, in quanto il giudice amministrativo non può sostituire -in attuazione del principio costituzionale di separazione dei poteri- proprie valutazioni a quelle effettuate dall'autorità pubblica, quando si tratti di regole (tecniche) attinenti alle modalità di valutazione delle offerte.

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Orbene, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, le valutazioni delle offerte tecniche da parte delle commissioni di gara sono espressione di ampia discrezionalità tecnica e, come tali, sono sottratte al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, salvo che non siano manifestamente illogiche, irrazionali, irragionevoli, arbitrarie ovvero fondate su di un altrettanto palese e manifesto travisamento dei fatti (ex multis, Cons. St., sez. V, 30.04.2015, n. 2198; 23.02.2015, n. 882; 26.03.2014, n. 1468); ovvero ancora salvo che non venga censurata la plausibilità dei criteri valutativi o la loro applicazione, non essendo sufficiente che la determinazione assunta sia, sul piano del metodo e del procedimento seguito, meramente opinabile, in quanto il giudice amministrativo non può sostituire -in attuazione del principio costituzionale di separazione dei poteri- proprie valutazioni a quelle effettuate dall'autorità pubblica, quando si tratti di regole (tecniche) attinenti alle modalità di valutazione delle offerte (Cfr. Consiglio di Stato sez. V, 28.10.2015, n. 4942 e Cons. Stato, sez. V, 26.05.2015, n. 2615) (TAR Puglia-Bari, Sez. II, sentenza 20.05.2016 n. 694
- link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: I parcheggi pertinenziali, in quanto espressamente individuati dal legislatore quali opere di urbanizzazione, non soggiacciono al contributo di costruzione.
Deve ribadirsi che la legge n. 122/1989 nell'innovare la disciplina dei parcheggi (anche ex art. 2, comma 2, incrementando la misura minima obbligatoria di parcheggi pertinenziali nei nuovi edifici -il rapporto di 1 mq./20 mc. stabilito inizialmente dall’art. 41-sexies, comma 1, della legge 1150/1942 nel testo aggiunto dall’art. 18 della legge 06.08.1967 n. 765 è stato portato a 1 mq./10mc.- e nello stabilire all'art. 9, comma 1, il principio secondo cui i parcheggi pertinenziali possono essere realizzati anche in deroga agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi vigenti), all'art. 11, comma 1, ha equiparato i parcheggi pertinenziali alle opere di urbanizzazione anche per quanto riguarda la gratuità del titolo edilizio.
Invero, i parcheggi pertinenziali vanno complessivamente qualificati come opere di urbanizzazione e, quindi, a tutti (e non già soltanto a quelli previsti per la fruizione collettiva) è stato riconosciuto un rilievo pubblico: può concordarsi in proposito con la tesi per cui la gratuità non va estesa anche ai parcheggi pertinenziali che eccedono la misura minima di legge, atteso che, in carenza di una espressa disposizione di legge in tal senso (e pur nella opinabilità della questione) la interpretazione teleologica consente di affermare che la qualificazione dei parcheggi pertinenziali come opere di urbanizzazione ex art. 11, comma 1, della legge 122/1989 debba rimanere circoscritta entro i confini tracciati dall'art. 41-sexies, comma 1, della legge 1150/1942 (di guisa che per i parcheggi eccedenti il “tetto” di dotazione obbligatoria trova applicazione il disposto di cui al D.M più volte citato).
Per le chiarite ragioni, quindi, non può accedersi alla tesi del Comune secondo cui a cagione della assenza di espressa abrogazione del citato dm 10.05.1977, n. 312400 i parcheggi "equiparati" alle opere di urbanizzazione e conseguentemente esenti dal contributo di costruzione siano soltanto quelli destinati ad uso collettivo.
E' agevole replicare, sul punto, che nulla prova la mancata abrogazione in parte qua del D.M. 10.05.1977 in quanto la equiparazione di cui all'art. 11, comma 1, della legge n. 122/1989 dei parcheggi pertinenziali alle opere di urbanizzazione non opera per quelli eccedenti la dotazione obbligatoria che quindi risultano normati dal citato D.M. (da interpretarsi nel senso comprensivo dei tornelli di manovra cui si è fatto in precedenza riferimento).
Le considerazioni che precedono valgono anche, e a maggiore ragione, per gli spazi di manovra e di accesso ai garages, dovendosi conseguentemente e del tutto logicamente assoggettare anche tali superfici allo stesso regime giuridico dei parcheggi pertinenziali, in questo caso esenti dal riferito contributo di costruzione, in quanto che senza i corselli di accesso le autorimesse non sarebbero tali.
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La Sezione, come già affermato in altre pronunce, non condivide affatto le pur autorevoli argomentazioni di una parte della giurisprudenza, invocata dalla ricorrente, sulla autoresponsabilità della amministrazione per l’affidamento riposto dal privato sulla prima liquidazione (ndr: del contributo di costruzione), che pertanto sarebbe modificabile, negli ordinari termini prescrizionali, solo se viziata da errori così evidenti da essere immediatamente riconoscibili, perché l’equilibrio finanziario dell'intervento costruttivo deve essere noto all'interessato prima di iniziarlo, affinché possa fondarvi a ragion veduta le sue scelte e valutazioni imprenditoriali.
In contrario, il Collegio osserva che, poiché la determinazione dell'onere appartiene, pacificamente, all'area delle attività paritetiche e non provvedimentali ed è regolata, fin nel dettaglio, da fonti di rango normativo, il relativo credito non è nella disponibilità dell'Amministrazione, che non ha alcun potere di imporre e pretendere un contributo diverso da quello dovuto.
Pertanto, ove avvenga, l’errore potrà (anzi dovrà) sempre essere rettificato entro l'ordinario termine prescrizionale e, al più, potrebbe eventualmente determinare una responsabilità per danni, ove ne ricorrano tutti i presupposti soggettivi (colpa) e oggettivi (es. non remuneratività dell'intervento costruttivo), ma non certo un contributo minore di quello dovuto.

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... per l'annullamento, previa sospensiva:
   a) del provvedimento in data 23.04.2009, con cui il comune di Vignola ha rideterminato in €. 61.482,42 il contributo di costruzione relativo al permesso di costruire n. 12549 rilasciato alla società ricorrente in data 16.09.2005 e con cui ha inoltre inviato la stessa a pagare la somma di €. 40.502,15;
   b) del provvedimento in pari data con cui lo stesso Comune ha rideterminato in €. 126.480,00 il contributo di costruzione relativo al permesso di costruire 12553 rilasciato alla ricorrente il 20/07/2005 e con cui, inoltre, ha inviato la ricorrente a pagare la somma di 44.782,46.
E per l’accertamento dell’insussistenza del debito della ricorrente verso il Comune per le predette somme, con conseguente condanna del Comune a restituire le somme di cui è causa, qualora le stesse debbano essere versate o siano iscritte a ruolo in esecuzione delle determinazioni impugnate.
...
Il Collegio osserva che già in precedenti sentenze questa Sezione si è pronunciata sulla rideterminazione dei contributi urbanistici da parte del comune di Vignola, anche con specifico riferimento al sopravvenuto assoggettamento a tale contribuzione degli interventi edilizi concernenti la realizzazione sia dei parcheggi pertinenziali sia delle superfici relative ai corselli di manovra e di accesso ai garage interrati (TAR Emilia Romagna sez. II, n. 939 del 2014 e 16/4/2010 n. 3533).
I corrispondenti motivi di ricorso (quinto motivo relativo ai corselli di accesso ai garages e sesto motivo relativo ai parcheggi pertinenziali interrati) sono fondati e vanno pertanto accolti, conformandosi alle puntuali determinazioni del Consiglio di Stato (Cons. Stato, 28/11/2012 n. 6033) il quale ha rilevato, in parziale riforma della sentenza di questo TAR (Tar BO, sez. II, 16.04.2010, n. 3533), che i parcheggi pertinenziali, in quanto espressamente individuati quali opere di urbanizzazione, non soggiacciono al contributo di costruzione.
Il Consiglio di Stato ha precisato quanto segue: "Deve sul punto ribadirsi, infatti, che la legge n. 122/1989 nell'innovare la disciplina dei parcheggi (anche ex art. 2, comma 2, incrementando la misura minima obbligatoria di parcheggi pertinenziali nei nuovi edifici -il rapporto di 1 mq./20 mc. stabilito inizialmente dall’art. 41-sexies, comma 1, della legge 1150/1942 nel testo aggiunto dall’art. 18 della legge 06.08.1967 n. 765 è stato portato a 1 mq./10mc.- e nello stabilire all'art. 9, comma 1, il principio secondo cui i parcheggi pertinenziali possono essere realizzati anche in deroga agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi vigenti), all'art. 11, comma 1, ha equiparato i parcheggi pertinenziali alle opere di urbanizzazione anche per quanto riguarda la gratuità del titolo edilizio.
Tale decisione del Consiglio di Stato è stata di recente condivisa da questo TAR con la già citata sentenza di questa Sezione n. 939 del 2014, ove si è osservato che i parcheggi pertinenziali vanno quindi complessivamente qualificati come opere di urbanizzazione e quindi che a tutti (e non già soltanto a quelli previsti per la fruizione collettiva) è stato riconosciuto un rilievo pubblico: può concordarsi in proposito con la tesi per cui la gratuità non va estesa anche ai parcheggi pertinenziali che eccedono la misura minima di legge, atteso che, in carenza di una espressa disposizione di legge in tal senso (e pur nella opinabilità della questione) la interpretazione teleologica consente di affermare che la qualificazione dei parcheggi pertinenziali come opere di urbanizzazione ex art. 11, comma 1, della legge 122/1989 debba rimanere circoscritta entro i confini tracciati dall'art. 41-sexies, comma 1, della legge 1150/1942 (di guisa che per i parcheggi eccedenti il “tetto” di dotazione obbligatoria trova applicazione il disposto di cui al D.M più volte citato).
Per le chiarite ragioni, quindi, non può accedersi alla tesi del Comune secondo cui a cagione della assenza di espressa abrogazione del citato dm 10.05.1977, n. 312400 i parcheggi "equiparati" alle opere di urbanizzazione e conseguentemente esenti dal contributo di costruzione siano soltanto quelli destinati ad uso collettivo.
E' agevole replicare, sul punto, che nulla prova la mancata abrogazione in parte qua del D.M. 10.05.1977 in quanto la equiparazione di cui all'art. 11, comma 1, della legge n. 122/1989 dei parcheggi pertinenziali alle opere di urbanizzazione non opera per quelli eccedenti la dotazione obbligatoria che quindi risultano normati dal citato D.M. (da interpretarsi nel senso comprensivo dei tornelli di manovra cui si è fatto in precedenza riferimento). Le considerazioni che precedono valgono anche, e a maggiore ragione, per gli spazi di manovra e di accesso ai garages, dovendosi conseguentemente e del tutto logicamente assoggettare anche tali superfici allo stesso regime giuridico dei parcheggi pertinenziali, in questo caso esenti dal riferito contributo di costruzione, in quanto che senza i corselli di accesso le autorimesse non sarebbero tali
" (TAR Emilia Romagna –BO- sez. II, n. 3533 del 2010 cit.).
Per quanto concerne, invece, i primi tre motivi di ricorso, tutti incentrati, in concreto, sul preteso effetto auto vincolante della primigenia liquidazione effettuata dal Comune e successivamente integrata con il computo, anche, degli ulteriori mq. di S.U. convenzionata, e di ulteriori mq. di superficie non residenziale, la Sezione, come già affermato nelle più volte citate pronunce, non condivide affatto le pur autorevoli argomentazioni di una parte della giurisprudenza, invocata dalla ricorrente, sulla autoresponsabilità della amministrazione per l’affidamento riposto dal privato sulla prima liquidazione, che pertanto sarebbe modificabile, negli ordinari termini prescrizionali, solo se viziata da errori così evidenti da essere immediatamente riconoscibili, perché l’equilibrio finanziario dell'intervento costruttivo deve essere noto all'interessato prima di iniziarlo, affinché possa fondarvi a ragion veduta le sue scelte e valutazioni imprenditoriali.
In contrario, il Collegio osserva che, poiché la determinazione dell'onere appartiene, pacificamente, all'area delle attività paritetiche e non provvedimentali ed è regolata, fin nel dettaglio, da fonti di rango normativo, il relativo credito non è nella disponibilità dell'Amministrazione, che non ha alcun potere di imporre e pretendere un contributo diverso da quello dovuto.
Pertanto, ove avvenga, l’errore potrà (anzi dovrà) sempre essere rettificato entro l'ordinario termine prescrizionale e, al più, potrebbe eventualmente determinare una responsabilità per danni, ove ne ricorrano tutti i presupposti soggettivi (colpa) e oggettivi (es. non remuneratività dell'intervento costruttivo), ma non certo un contributo minore di quello dovuto (vedi altresì ampiamente il punto 2.1. sent. Cons. Stato, 28/11/2012 n, 6033).
Parimenti deve essere respinto il quarto motivo di gravame, non essendo condivisibile la tesi della ricorrente secondo la quale la ulteriore S.U. corrispondente all’incremento della capacità edificatoria del lotto, riconosciuta per l'edilizia convenzionata ai sensi dell'articolo 64 delle N.T.A. del P.R.G., non avrebbe dovuto essere computata.
Infatti, come chiarito dal precedente specifico di questo TAR (Tar BO, sez. II, 16.04.2010, n 3533, confermato sul punto dal Consiglio di Stato (Cons. Stato, 28/11/2012 n. 6033 e anche dalla successiva sentenza di questa Sezione n. 939 del 2014 cit.), l’incremento è dovuto in base all'esplicita previsione dell'art. 16 della convenzione attuativa, la quale prevede che il convenzionamento "non determina riduzione di oneri", oneri che nella terminologia corrente in materia sono tutti quelli necessari ad ottenere il permesso di costruire e cioè sia quelli corrispettivi alla fruizione delle opere di urbanizzazione (oneri di urbanizzazione in senso stretto) che quelli commisurati al costo di costruzione, entrambi contributi che il privato deve corrispondere per ottenere il titolo.
Del resto l'art.16, nello stabilire, per il maggiore indice riconosciuto per edilizia convenzionata, un prezzo a mq. pari a euro 516, pone a carico del Comune il solo obbligo di erogare i buoni casa per l'acquisto, senza prevedere alcun ulteriore beneficio o forma di compensazione (ma anzi escludendo espressamente qualsiasi "riduzione di oneri").
In conclusione il ricorso deve essere parzialmente accolto, entro i limiti indicati in sede di esame del quinto e del sesto motivo di ricorso, con conseguente obbligo dell'amministrazione di ricalcolare il contributo dovuto in applicazione dei criteri sopra indicati e di restituire alla ricorrente tutte le somme da essa versate in eccedenza, maggiorate degli interessi al tasso legale (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 20.05.2016 n. 539 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sull'accertamento se, a séguito del versamento del contributo di costruzione (a mezzo di assegno bancario, con quietanza del Comune del 12/10/2005 apposta sulla scheda oneri) nelle mani di funzionario che si è poi appropriato della relativa somma di denaro –sì da patteggiare successivamente in sede penale per il reato di “peculato”–, i ricorrenti siano o meno tenuti a corrispondere all’Amministrazione quanto viene loro imputato di non avere a suo tempo versato in tesoreria comunale.
la peculiare situazione determinatasi nel caso di specie –con il Responsabile dello Sportello Unico per l’Edilizia del Comune di Zocca che ha incassato, senza averne titolo, quanto dovuto dalla ricorrente a titolo di contributo per il costo di costruzione e di oneri di urbanizzazione e ha poi distratto quella somma a proprio profitto– integra un’ipotesi riconducibile alla fattispecie di cui all’art. 1189 cod. civ. (“Il debitore che esegue il pagamento a chi appare legittimato a riceverlo in base a circostanze univoche, è liberato se prova di essere stato in buona fede. Chi ha ricevuto il pagamento è tenuto alla restituzione verso il vero creditore, secondo le regole stabilite per la ripetizione dell’indebito”), posto che il titolare dell’impresa individuale instante adduce la buona fede circa le modalità di versamento della somma di denaro spettante all’Amministrazione comunale, e imputa alla stessa di avere omesso di vigilare sulla condotta del funzionario, colpevolmente favorendo la formazione di un legittimo affidamento del privato (sia esso persona fisica o impresa) in ordine alla regolarità di detta condotta, oltretutto contraddistinta da numerosi episodi analoghi.
La buona fede, in particolare, appare agevolmente rinvenibile in un caso in cui il debitore, proprio per la natura pubblica del soggetto che funge da controparte, ha valide ragioni per ritenere che il comportamento di quest’ultimo sia improntato a correttezza e al rispetto della legalità, tenuto anche conto della circostanza che, a norma dell’art. 180, comma 1, del «testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali» (d.lgs. n. 267/2000), la “riscossione costituisce la successiva fase del procedimento dell’entrata, che consiste nel materiale introito da parte del tesoriere o di altri eventuali incaricati della riscossione delle somme dovute all’ente”, sicché non appare ragionevolmente esigibile dal cittadino comune (o da un’impresa privata, come è avvenuto nella specie) la conoscenza analitica dei soggetti di volta in volta autorizzati in tal senso dall’Amministrazione comunale, e non è dunque ascrivibile a tali soggetti una insufficiente diligenza o comunque un affidamento “colpevole” se essi hanno accolto la richiesta di pagamento diretto rivolta loro da funzionario che non aveva in realtà titolo all’incasso del denaro.
Né, poi, è significativo che l’assegno bancario sia stato consegnato al funzionario infedele senza l’indicazione dell’intestatario –nel dichiarato presupposto che l’ufficio comunale avrebbe in séguito provveduto ad integrarlo in parte qua–, in quanto la contestuale restituzione della c.d. “scheda oneri” con il timbro “pagato” (situazione richiamata anche dal giudice penale quale prassi osservata dal funzionario infedele per ingannare gli interessati) rappresentava circostanza in sé convincente, secondo un parametro di diligenza media, della correttezza della procedura in atto e dell’incasso della somma da parte dell’ente, in un contesto ambientale riconducibile alla medesima Amministrazione ed in relazione ad un funzionario investito della funzione di Responsabile dello Sportello Unico per l’Edilizia, quindi in condizioni che ragionevolmente escludevano la sussistenza di motivi per dubitare della liceità della condotta dell’interlocutore pubblico.
Con specifico riferimento al caso ora in trattazione, va ulteriormente osservato che il ricorrente ha avuto un’ulteriore ragione per fare affidamento sulla regolarità del pagamento effettuato relativamente a detto contributo, poiché la relativa quietanza, oltre ad essere stata rilasciata, come si è detto, sulla scheda oneri, risulta anche espressamente riportata sul permesso di costruire n. 48 rilasciato dal Comune il 10/10/2005.
Quanto, poi, alla responsabilità del creditore nel determinarsi delle circostanze univoche e concludenti che hanno dato luogo all’insorgere della situazione apparente per il privato, si presenta decisiva la circostanza che il comportamento illecito del funzionario si sia svolta all’interno della sfera di sorveglianza dell’Amministrazione e in occasione dell’esercizio dei compiti a lui assegnati, con la conseguenza che l’omessa adozione di misure organizzative adeguate, e quindi l’insufficienza dei controlli, ha favorito la condotta ingannevole del funzionario nonché il legittimo convincimento del privato, derivante da errore scusabile, che lo stato di fatto rispecchiasse la realtà giuridica.

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La presente controversia ha quale oggetto l’accertamento dell’esistenza o meno di un debito della impresa individuale di cui il ricorrente è titolare nei confronti del comune di Zocca a titolo di contributi urbanistici (costo di costruzione e oneri di urbanizzazione primaria e secondaria) connessi al rilascio del permesso costruire n. 48 del 2005 per l’importo complessivo di € 12.215,39 che l’odierno ricorrente afferma di avere corrisposto all’amministrazione comunale e che questa, all’opposto, nega di avere ricevuto.
Nel peculiare caso di specie, il Collegio è chiamato ad accertare se, a séguito del versamento dei suddetti oneri (a mezzo di assegno bancario, con quietanza del Comune del 12/10/2005 apposta sulla scheda oneri v. doc. n. 6 del ricorrente) nelle mani di funzionario che si è poi appropriato della relativa somma di denaro –sì da patteggiare successivamente in sede penale per il reato di “peculato”–, i ricorrenti siano o meno tenuti a corrispondere all’Amministrazione quanto viene loro imputato di non avere a suo tempo versato in tesoreria comunale.
Come è noto, l’art. 1189 cod. civ., che riconosce efficacia liberatoria al pagamento effettuato dal debitore in buona fede a chi appare legittimato a riceverlo, si applica, per identità di ratio, sia all’ipotesi di pagamento effettuato al creditore apparente, sia all’ipotesi in cui il pagamento viene effettuato a persona che appaia autorizzata a riceverlo per conto del creditore effettivo, ove quest’ultimo abbia determinato o concorso a determinare l’errore del solvens, facendo sorgere nel soggetto in buona fede una ragionevole presunzione circa la rispondenza alla realtà dei poteri rappresentativi dell’accipiens (v. tra le altre, Cass. civ., Sez. II, 13.09.2012 n. 15339).
La norma deroga al principio generale stabilito dall’art. 1188 cod. civ., secondo cui il pagamento è liberatorio solo se effettuato al creditore o al suo rappresentante, ed è collegata all’istituto dell’apparenza giuridica, configurabile solo se l’apparenza risulti giustificata da circostanze univoche e concludenti riferibili al creditore, sì da far sorgere nel debitore un ragionevole affidamento, esente da colpa, sull’effettiva sussistenza della facoltà apparente dell’accipiens di ricevere il pagamento; in presenza di tale prova –a carico del debitore–, incombe sul creditore l’onere di provare a sua volta che il solvens non ignorasse la reale situazione, ovvero che l’affidamento dello stesso fosse determinato da colpa.
Questo TAR si è già pronunciato su questione uguale a quella attualmente in esame con la sentenza della prima sezione n. 380 del 2014, ivi svolgendo considerazioni e pervenendo ad un esito, dai quali il Collegio non ravvisa motivo alcuno per discostarsi nel decidere la presente causa.
Orbene, la peculiare situazione determinatasi nel caso di specie –con il Responsabile dello Sportello Unico per l’Edilizia del Comune di Zocca che ha incassato, senza averne titolo, quanto dovuto dalla ricorrente a titolo di contributo per il costo di costruzione e di oneri di urbanizzazione e ha poi distratto quella somma a proprio profitto– integra un’ipotesi riconducibile alla fattispecie di cui all’art. 1189 cod. civ. (“Il debitore che esegue il pagamento a chi appare legittimato a riceverlo in base a circostanze univoche, è liberato se prova di essere stato in buona fede. Chi ha ricevuto il pagamento è tenuto alla restituzione verso il vero creditore, secondo le regole stabilite per la ripetizione dell’indebito”), posto che il titolare dell’impresa individuale instante adduce la buona fede circa le modalità di versamento della somma di denaro spettante all’Amministrazione comunale, e imputa alla stessa di avere omesso di vigilare sulla condotta del funzionario, colpevolmente favorendo la formazione di un legittimo affidamento del privato (sia esso persona fisica o impresa) in ordine alla regolarità di detta condotta, oltretutto contraddistinta da numerosi episodi analoghi.
La buona fede, in particolare, appare agevolmente rinvenibile in un caso in cui il debitore, proprio per la natura pubblica del soggetto che funge da controparte, ha valide ragioni per ritenere che il comportamento di quest’ultimo sia improntato a correttezza e al rispetto della legalità, tenuto anche conto della circostanza che, a norma dell’art. 180, comma 1, del «testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali» (d.lgs. n. 267/2000), la “riscossione costituisce la successiva fase del procedimento dell’entrata, che consiste nel materiale introito da parte del tesoriere o di altri eventuali incaricati della riscossione delle somme dovute all’ente”, sicché non appare ragionevolmente esigibile dal cittadino comune (o da un’impresa privata, come è avvenuto nella specie) la conoscenza analitica dei soggetti di volta in volta autorizzati in tal senso dall’Amministrazione comunale, e non è dunque ascrivibile a tali soggetti una insufficiente diligenza o comunque un affidamento “colpevole” se essi hanno accolto la richiesta di pagamento diretto rivolta loro da funzionario che non aveva in realtà titolo all’incasso del denaro; né, poi, è significativo che l’assegno bancario sia stato consegnato al funzionario infedele senza l’indicazione dell’intestatario –nel dichiarato presupposto che l’ufficio comunale avrebbe in séguito provveduto ad integrarlo in parte qua–, in quanto la contestuale restituzione della c.d. “scheda oneri” con il timbro “pagato” (situazione richiamata anche dal giudice penale quale prassi osservata dal funzionario infedele per ingannare gli interessati) rappresentava circostanza in sé convincente, secondo un parametro di diligenza media, della correttezza della procedura in atto e dell’incasso della somma da parte dell’ente, in un contesto ambientale riconducibile alla medesima Amministrazione ed in relazione ad un funzionario investito della funzione di Responsabile dello Sportello Unico per l’Edilizia, quindi in condizioni che ragionevolmente escludevano la sussistenza di motivi per dubitare della liceità della condotta dell’interlocutore pubblico.
Con specifico riferimento al caso ora in trattazione, va ulteriormente osservato che il ricorrente ha avuto un’ulteriore ragione per fare affidamento sulla regolarità del pagamento effettuato relativamente a detto contributo, poiché la relativa quietanza, oltre ad essere stata rilasciata, come si è detto, sulla scheda oneri, risulta anche espressamente riportata sul permesso di costruire n. 48 rilasciato dal Comune il 10/10/2005 (v. doc. n. 5 del ricorrente).
Quanto, poi, alla responsabilità del creditore nel determinarsi delle circostanze univoche e concludenti che hanno dato luogo all’insorgere della situazione apparente per il privato, si presenta decisiva la circostanza che il comportamento illecito del funzionario si sia svolta all’interno della sfera di sorveglianza dell’Amministrazione e in occasione dell’esercizio dei compiti a lui assegnati, con la conseguenza che l’omessa adozione di misure organizzative adeguate, e quindi l’insufficienza dei controlli, ha favorito la condotta ingannevole del funzionario nonché il legittimo convincimento del privato, derivante da errore scusabile, che lo stato di fatto rispecchiasse la realtà giuridica.
Di qui la fondatezza della pretesa del ricorrente a vedersi dichiarare liberato dall’obbligo di pagamento di una somma di denaro che l’Amministrazione comunale assume ancora dovuta, posto che il pregresso pagamento nelle mani del funzionario infedele –in virtù del principio dell’apparenza giuridica– aveva determinato l’estinzione dell’obbligazione e la necessità che l’ente locale si rivalesse a quel punto sul proprio dipendente. Pertanto, nei termini indicati il ricorso va accolto, con accertamento dell’insussistenza di alcun debito del ricorrente nei confronti del comune di Zocca relativamente ai contributi per costo di costruzione e per oneri di urbanizzazione di cui al permesso di costruire n. 48 del 10/10/2005 e conseguente annullamento degli atti impugnati.
Quale ulteriore conseguenza del suddetto accertamento, deve essere accolta anche la domanda con cui il ricorrente, a seguito della rideterminazione, da parte del Comune, dei contributi urbanistici (per un minore importo rispetto a quello originariamente preteso), chiede la restituzione dell’importo differenziale tra quanto originariamente corrisposto a tale titolo e l’importo ora ricalcolato dal Comune.
In ragione di ciò l’Amministrazione comunale deve essere condannata alla restituzione della differenza tra l’importo a suo tempo versato in eccedenza dall’interessato, avendo il permesso di costruire n. 48/2005 allora quantificato in € 12.215,98 l’importo complessivo dovuto e avendo ora il Comune di Zocca rideterminato quell’importo in € 8.116,74, con l’effetto di dover essere resa al ricorrente la somma di € 4.099,24, con l’aggiunta degli interessi legali dalla domanda giudiziale (data di notificazione del ricorso) al saldo –dovendosi presumere, per il calcolo erroneo, la buona fede dell’accipiens, in assenza di prova contraria–, mentre non compete la rivalutazione monetaria trattandosi di pagamento di indebito oggettivo ex art. 2033 cod. civ. (v., ex multis, TAR Sicilia, Catania, Sez. I, 28.06.2013 n. 1921) e difettando d’altronde la dimostrazione dell’eventuale maggior danno subito.
Va respinta, infine, la domanda di risarcimento dei danni, nessuna prova essendo stata fornita in tal senso dal ricorrente (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 20.05.2016 n. 538 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il cittadino non deve pagare due volte. Versamento nelle mani di funzionario infedele.
Il cittadino è libero dall'obbligo di pagamento di una somma di denaro che l'Amministrazione comunale assume ancora dovuta, anche se il pregresso pagamento sia avvenuto nelle mani di un funzionario infedele, che ha intascato quanto dovuto.
E ciò in virtù del principio dell'apparenza giuridica che determina l'estinzione dell'obbligazione e la necessità che l'ente locale si rivalga sul proprio dipendente.
Lo hanno affermato i giudici della II Sez. del TAR Emilia Romagna-Bologna con la sentenza 20.05.2016 n. 537.
Il thema decidendum. La questione sottoposta all'attenzione dei giudici bolognesi aveva quale oggetto l'accertamento dell'esistenza o meno di un debito di una società ricorrente nei confronti di un comune a titolo di contributo relativo al costo di costruzione connesso al rilascio del permesso costruire. Nel peculiare caso di specie, i giudici amministrativi sono stati chiamati ad accertare se, a seguito del versamento degli oneri di urbanizzazione (a mezzo di assegno bancario) nelle mani di funzionario che si è poi appropriato della relativa somma di denaro –sì da patteggiare successivamente in sede penale per il reato di «peculato»– la ricorrente sia o meno tenuta a corrispondere all'Amministrazione quanto viene loro imputato di non avere a suo tempo versato in tesoreria comunale.
Il codice civile ed il pagamento in buona fede. I giudici bolognesi hanno richiamato l'art. 1189 cod. civ. che riconosce efficacia liberatoria al pagamento effettuato dal debitore in buona fede a chi appare legittimato a riceverlo, si applica, per identità di ratio, sia all'ipotesi di pagamento effettuato al creditore apparente, sia all'ipotesi in cui il pagamento viene effettuato a persona che appaia autorizzata a riceverlo per conto del creditore effettivo, ove quest'ultimo abbia determinato o concorso a determinare l'errore del solvens.
Tale norma, è stato osservato dal Tar, deroga al principio generale stabilito dall'art. 1188 cod. civ., secondo cui il pagamento è liberatorio solo se effettuato al creditore o al suo rappresentante, ed è collegata all'istituto dell'apparenza giuridica, configurabile solo se l'apparenza risulti giustificata da circostanze univoche e concludenti riferibili al creditore, sì da far sorgere nel debitore un ragionevole affidamento.
La buona fede. Secondo il Tar per l'Emilia Romagna, quindi, la peculiare situazione determinatasi nel caso di specie integra un'ipotesi riconducibile alla fattispecie di cui all'art. 1189 cod. civ. posto che la società instante adduce la buona fede circa le modalità di versamento della somma di denaro spettante all'Amministrazione comunale (articolo ItaliaOggi Sette del 04.07.2016).

EDILIZIA PRIVATA: Opera senza titolo da demolire. Violazione fasce di rispetto, la multa non è sufficiente. Sentenza del Tar Veneto sui limiti derivanti dall'applicazione del codice della strada.
Non si può applicare una semplice sanzione pecuniaria in caso di violazione delle disposizioni sulle fasce di rispetto previste dal codice della strada, ma in ogni caso le opere eseguite senza titolo dovranno essere demolite.

Lo hanno affermato i giudici della Sez. II del TAR Veneto con la sentenza 19.05.2016 n. 543.
La società Alfa era ricorsa ai giudici amministrativi in quanto proprietaria di uno stabilimento industriale e con denuncia di inizio attività comunicava l'avvio dei lavori per la costruzione di una recinzione sul fronte strada sui lati sud ed ovest del fondo di proprietà e sul lato est.
Il comune inibiva in autotutela gli effetti della denuncia di inizio attività perché l'altezza della recinzione era contrastante con quanto prescritto dal regolamento edilizio e la distanza della recinzione dalla strada contrastava con quanto previsto dalle norme tecniche di attuazione e dal regolamento edilizio per quanto concerne la fascia di rispetto stradale.
Successivamente la medesima società presentava una ulteriore denuncia di inizio attività per la costruzione di un muro di contenimento su uno scolo con il parere favorevole del Consorzio di bonifica che tuttavia aveva espressamente prescritto di non realizzare alcuna recinzione sovrastante il muro di contenimento.
Nel corso di sopralluoghi effettuati il comune accertava la presenza di una recinzione nell'alveo dello scolo in contrasto con il parere espresso dal Consorzio di bonifica, e una recinzione sul fronte strada apposta a 40 cm dalla sede stradale, in fascia di rispetto.
Con ordinanza il comune disponeva la demolizione e la riduzione in pristino della recinzione realizzata all'interno della fascia di rispetto stradale. Secondo i giudici veneziani l'ordine di rimozione della recinzione costituisce esercizio di un'attività vincolata a tutela della sicurezza stradale ai sensi dell'art. 16, comma 5, del codice della strada, per il quale (cfr. Tar Toscana, sez. III, 12.03.2013, n. 405; Consiglio di stato, sez. IV, 14.04.2010, n. 2076) la violazione delle disposizioni sulle fasce di rispetto comporta comunque la sanzione amministrativa accessoria dell'obbligo per l'autore della violazione stessa del ripristino dei luoghi a proprie spese, fermo restando il contrasto della recinzione anche con gli strumenti urbanistici che recano puntuali prescrizioni sulla costruzione delle recinzioni che risultavano violate dall'intervento (articolo ItaliaOggi Sette del 27.06.2016).
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MASSIMA
Le censure proposte avverso l’ordinanza n. 33 prot. n. 10049 del 23.12.2009, che ha disposto la rimozione della recinzione realizzata all’interno della fascia di rispetto stradale, sono invece infondate e devono essere respinte.
Infatti come chiarito dal Comune nella memoria di replica senza che sul punto vi siano state contestazione dalla parte ricorrente neppure in sede di trattazione orale, le censure proposte muovo dall’erroneo assunto che la recinzione sia ricompresa all’interno del perimetro del centro abitato.
Invece la stessa si trova al di fuori del centro abitato così come delimitato dalla deliberazione della Giunta comunale n. 78 del 28.11.2003, con la conseguenza che trovano applicazione l’art. 16, comma 1, lett. c), del Dlgs. 30.04.1992, n. 285, e l’art. 26, comma 8, del DPR 16.12.1992, n. 495, i quali rispettivamente vietano “impiantare alberi lateralmente alle strade, siepi vive o piantagioni ovvero recinzioni” disponendo che “la distanza dal confine stradale, fuori dai centri abitati, da rispettare per impiantare lateralmente alle strade, siepi vive o piantagioni di altezza superiore ad 1 m sul terreno, non può essere inferiore a 3 m. Tale distanza si applica anche per le recinzioni di altezza superiore ad 1 m sul terreno costituite come previsto al comma 7, e per quelle di altezza inferiore ad 1 m sul terreno se impiantate su cordoli emergenti oltre 30 cm dal suolo”.
E’ pertanto evidente che
l’ordine di rimozione della recinzione che ha un’altezza di 167 cm ed è posta a 40 cm dal ciglio stradale (cfr. la documentazione fotografica che accompagna il verbale di sopralluogo del 28.10.2009, di cui al doc. 8 allegato al primo elenco di documenti delle difese del Comune) costituisce esercizio di un’attività vincolata a tutela della sicurezza stradale ai sensi dell’art. 16, comma 5, del codice della strada, per il quale (cfr. Tar Toscana, Sez. III, 12.03.2013, n. 405; Consiglio di Stato, Sez. IV, 14.04.2010, n. 2076) la violazione delle disposizioni sulle fasce di rispetto comporta comunque la sanzione amministrativa accessoria dell'obbligo per l'autore della violazione stessa del ripristino dei luoghi a proprie spese, fermo restando il contrasto della recinzione anche con gli strumenti urbanistici, e segnatamente l’art. 72 del regolamento edilizio e dell’art. 7, comma 1, lett. b) del prontuario per la qualità architettonica che recano puntuali prescrizioni sulla costruzione delle recinzioni che risultano violate dall’intervento.
Ne discende l’infondatezza anche della pretesa della Società ricorrente di veder applicata una semplice sanzione pecuniaria si sensi dell’art. 37 del DPR 06.06.2001, n. 380, fondata sull’argomento che si tratterebbe di un intervento assoggettato ad una denuncia di inizio attività anziché ad un permesso di costruire, perché
la violazione delle disposizioni sulle fasce di rispetto previste dal codice della strada e la difformità dalle prescrizioni edilizie ed urbanistiche comporta in ogni caso che le opere eseguite senza titolo debbano essere demolite (ex pluribis cfr. Tar Piemonte, Sez. II, 25.03.2016, n. 391).
In definitiva deve essere dichiarata l’improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse relativamente all’impugnazione dell’ordinanza n. 32 prot. n. 10037 del 23.12.2009, perché le opere per le quali la medesima ingiungeva la demolizione sono state regolarizzate in corso di causa, mentre il ricorso deve essere respinto relativamente alle censure proposte avverso l’ordinanza n. 33 prot. n. 10049 del 23.12.2009, che ha disposto la rimozione della recinzione realizzata all’interno della fascia di rispetto stradale.

AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVIVerde pubblico aperto a Fido. Sproporzionato il divieto di accesso imposto dal comune. Il Tar Lazio: ad assicurare l'igiene è sufficiente la norma statale che impone la paletta.
Verde pubblico cittadino aperto a Fido. È annullata l'ordinanza del comune che proibisce in modo indiscriminato l'accesso al parco ai cani perché il divieto risulta sproporzionato: ad assicurare l'igiene nelle aree, infatti, deve ritenersi sufficiente la legislazione statale che impone a proprietari e detentori di munirsi di guinzaglio e paletta per gli amici a quattro zampe.
Compete invece all'amministrazione locale garantire i controlli più adeguati affinché sia mantenuto il decoro nelle strutture. E l'associazione animalista ha piena legittimazione a far rimuovere il provvedimento illegittimo perché l'ordinanza del sindaco ha effetti dannosi sui piccoli amici dell'uomo, mentre lo statuto del sodalizio ne prevede la tutela.

È quanto emerge dalla sentenza 17.05.2016 n. 5836, pubblicata dalla Sez. II-bis del TAR Lazio-Roma.
Normativa e cogenza. È compito dell'amministrazione locale punire i padroni quando i cani sono lasciati liberi di scorrazzare nei parchi pubblici, magari vicino ai bambini, e gli escrementi non vengono raccolti. Il punto è che il sindaco del comune ha già i poteri per reprimere le condotte incivili senza ricorrere a ordinanze ad hoc: la normativa generale impone la museruola oltre che il guinzaglio e la paletta nelle aree verdi pubbliche e gli strumenti offerti dalla legge risultano sufficienti a garantire la pulizia dei parchi accanto alla sicurezza delle persone, laddove è il comune a dover rendere cogenti le norme. Inutile dunque contestare la legittimazione dell'associazione animalista, visto che l'ordinanza illegittima adottata dall'ente incide in modo diretto sul suo scopo istituzionale.
Le spese di giudizio sono compensate per la peculiarità della controversia.
Zona riservata. L'ingresso di Fido nelle aree verdi delle città è una questione che genera un grosso contenzioso. Il comune, per esempio, non può vietare l'ingresso ai cani se i parchi cittadini sono abbastanza grandi per creare una zona riservata dove i bambini possono giocare in tutta sicurezza e pulizia. Troppo gravoso il sacrificio dello stop imposto agli amici di Fido: fra gli obiettivi della pianificazione urbanistica, infatti, c'è anche la necessità di assicurare il benessere degli animali d'affezione. È quanto emerge dall'ordinanza 2098/15, pubblicata dalla prima sezione del Tar Lombardia, sede staccata di Brescia.
Oasi da dividere. Accolto il ricorso dell'Enpa, la protezione nazionale animali: sospesa la delibera consiliare. Sussistono i presupposti per concedere la tutela cautelare richiesta dall'ente. Il parco proibito a Fido è il più esteso della città, con una superficie pari al 24% di tutte le aree verdi pubbliche. Ma soprattutto risulta grande abbastanza per essere suddiviso in settori in modo da soddisfare le esigenze di tutti i tipi di utenti.
E fra l'altro risulta ben controllabile perché è a pagamento, anche se i residenti e i minori di dodici anni possono entrare senza biglietto: si tratta di una struttura particolarmente prestigiosa e lo stop non può essere compensato con l'accesso a altre «oasi», non parimenti attrezzate. E se i proprietari non rimuovono gli escrementi dei piccoli amici può intervenire di nuovo il comune con la chiusura. Per le aree più piccole, invece, va bene l'off limits.
Ingresso libero. Oltre che ai giardini pubblici il cane ben può entrare nelle strutture sportive o nei cortili delle scuole per accompagnare i bambini a lezione: è infatti illegittima l'ordinanza del comune motivata su esigenze di igiene che impone di lasciare Fido fuori dal parco laddove obbliga nel contempo l'accompagnatore a munirsi di paletta. È quanto emerge dalla sentenza 611/2013, pubblicata dal Tar Basilicata.
Libertà di movimento. Anche qui è accolto il ricorso dell'associazione animalista che lamenta la violazione dell'articolo 50 del decreto legislativo 267/2000 in tema di ordinanze contingibili e urgenti del sindaco. Il provvedimento del comune limita troppo la libertà di circolazione delle persone ed è comunque emesso in violazione dei principi di adeguatezza e proporzionalità: a soddisfare le esigenze di pulizia, che tanto stanno a cuore alla giunta del piccolo paese lucano, basta la disposizione che obbliga l'accompagnatore del cane «rimuovere le eventuali deiezioni con apposite palette, sacchetti di plastica o qualsiasi altro strumento idoneo predisposte all'uso e di provvedere al loro smaltimento nei rifiuti indifferenziati». E la disposizione dell'ordinanza resta in vigore. Le spese seguono la soccombenza: l'associazione ha ottenuto il gratuito patrocinio.
Eccesso di potere. Infine. È impossibile vietare l'accesso al parco ai cani con guinzaglio senza motivare sui rischi per i cittadini. Viene annullata per «eccesso di potere» l'ordinanza del comune che prescrive l'off limits dal verde pubblico ai cani, anche se portati al guinzaglio. Il sindaco è preoccupato per gli escrementi delle bestiole: possono diventare un rischio per la salute dei cittadini, oltre che un problema per il decoro urbano.
Ma non è possibile porre un divieto tout court laddove il provvedimento non motiva i pericoli per i residenti sulla base di accertamenti sanitari. È quanto emerge dalla sentenza 593/2012, pubblicata dalla seconda sezione del Tar Piemonte, che conferma lo stop deciso in via cautelare.
Sindaco anti-deiezioni. L'unico dovere che la legge impone ai padroni di Fido è quello di condurre gli animali al guinzaglio con l'obbligo di un'adeguata museruola, quando si trovano nelle vie o in altri luoghi pubblici (articolo 83 del dpr 320/1954). E il sindaco non può tuttavia bandire gli animali dai parchi pubblici senza il provvedimento risulti fondato su dati o accertamenti medico-veterinari. Accolto il ricorso dell'articolazione ambientalista dell'associazione dei consumatori: l'ordinanza è annullata nella misura in cui limita la libertà di passeggiare nei parchi, creando disagi agli animali e ai loro proprietari.
Rischio-salute. Il comune si limita ad affermare che la presenza dei cani potrebbe avere conseguenze dannose per la salubrità dei cittadini, ma non spiega quali siano i rischi, mentre l'esercizio del potere sindacale non può prescindere dalla sussistenza di una situazione di effettivo e concreto pericolo per la salute pubblica.
Insomma: se la preoccupazione dell'amministrazione, pure legittima, è rappresentata dagli escrementi degli animali non raccolti dai proprietari «il sindaco», osservano i giudici amministrativi, «anziché vietare l'ingresso dei cani nelle aree verdi, avrebbe potuto potenziare il controllo da parte della polizia municipale, sanzionando i trasgressori dell'obbligo» (articolo ItaliaOggi Sette del 20.06.2016).
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MASSIMA
Positivamente delibata la sussistenza della legittimazione ad agire in capo all’associazione ricorrente, ritiene il Collegio, in adesione al costante orientamento giurisprudenziale formatosi su fattispecie analoghe (ex plurimis: TAR Potenza, 17.10.2013, n. 611; TAR Reggio Calabria, 28.05.2014, n. 225; TAR Milano, 22.10.2013 n. 2431; TAR Sardegna, 27.02.2016 n, 128; TAR Venezia, 12.04.2012, n. 502), che debba ritenersi la fondatezza del ricorso in esame.
L’ordinanza sindacale che rechi il divieto assoluto di introdurre cani, anche se custoditi, nelle aree destinate a verde pubblico -pur se in ragione delle meritevoli ragioni di tutela dei cittadini in considerazione della circostanza che i cani vengono spesso lasciati senza guinzaglio e non ne vengono raccolte le deiezioni- risulta essere eccessivamente limitativa della libertà di circolazione delle persone ed è comunque posta in violazione dei principi di adeguatezza e proporzionalità, atteso che lo scopo perseguito dall'Ente locale di mantenere il decoro e l'igiene pubblica, nonché la sicurezza dei cittadini, può essere soddisfatto attraverso l’attivazione dei mezzi di controllo e di sanzione rispetto all’obbligo per gli accompagnatori o i custodi di cani di rimuovere le eventuali deiezioni con appositi strumenti e di condurli in aree pubbliche con idonee modalità di custodia (guinzaglio e museruola) trattandosi di obblighi imposti dalla disciplina generale statale, cosicché il Sindaco può fronteggiare comportamenti incivili da parte dei conduttori di cani, al fine di prevenire le negative conseguenze di tali condotte, con l'esercizio degli ordinari poteri di prevenzione, vigilanza, controllo e sanzionatori di cui dispone l'Amministrazione.
Ed invero,
le esigenze poste a fondamento della gravata ordinanza risultano già compiutamente salvaguardate dalla disciplina vigente in materia, che impone di condurre i cani al guinzaglio e di rimuovere le eventuali deiezioni, dovendo quindi l’Amministrazione Comunale adoperarsi –in luogo dell’indiscriminato divieto di accesso dei cani alle aree verdi pubbliche– al fine di rendere cogenti tali misure mediante una efficace azione di controllo e di repressione, in tal modo rendendo possibile il raggiungimento del pubblico interesse attraverso strumenti idonei e nel rispetto del principio di proporzionalità dei mezzi rispetto ai fini perseguiti.
La gravata ordinanza, pertanto, in relazione ai dichiarati scopi perseguiti, appare essere posta in violazione dei principi di adeguatezza e di proporzionalità dell’azione amministrativa, atteso che lo scopo di mantenere il decoro e l’igiene pubblica, nonché la sicurezza dei cittadini, è già adeguatamente soddisfatto attraverso l’imposizione, di cui alla disciplina statale, agli accompagnatori o custodi di cani di rimuovere le eventuali deiezioni con appositi strumenti e di condurli al guinzaglio.
In conclusione, il ricorso in esame deve essere accolto, con conseguente annullamento, in parte qua, della gravata ordinanza, nei limiti di interesse.

APPALTI: Garanzie valide se la banca non contesta. Tar del Lazio. Per i giudici le referenze non vanno interpretate formalisticamente.
Poiché per il principio della «massima partecipazione alle gare pubbliche», la sostanza prevale sulla forma, se le referenze bancarie provano di fatto la capacità economico-finanziaria per stare in gara, le loro differenti diciture riflettono solo logiche proprie delle emittenti e non implicano che siano false e irregolari.

Il TAR Lazio-Roma, I Sez. - sentenza 17.05.2015 n. 5812, ha dato ragione a un’impresa che era stata esclusa da un bando per non aver presentato valide garanzie bancarie e ha così annullato le sanzioni che l’Anticorruzione le aveva inflitto per infrazione dolosa (accesso alle gare sospeso per tre mesi, multa e annotazione nel casellario informatico), dopo che le banche nei controlli successivi le avevano ritenute solo attestazioni generiche.
Per la ricorrente, invece, le tre referenze presentate –il bando ne chiedeva due– erano tutte idonee al netto delle formule dichiarative e l’Anac aveva violato le norme su sanzioni e controlli di tali requisiti (Dlgs 163/2006, articoli 6 e 48) poiché questi ultimi erano dimostrabili già dai bilanci societari, essendo le prime solo lettere di affidabilità e non requisito «rigido» (Consiglio di Stato, sentenza 5542/2013).
Stando ai rilievi ex-post delle banche, per i giudici la ditta era economicamente affidabile al momento della gara: la prima referenza, pur se «mera certificazione», era stata accettata dalla Pa, anche se non richiamava l’«attestazione di capacità economico-finanziaria»; la seconda, pur se l’istituto non confermava l’affidabilità d’impresa per la successiva chiusura del conto, era «senza alcun dubbio» valida al rilascio; la terza, «non veritiera» per un rapporto estinto già due anni prima del bando, non era mai stata smentita, né contestata e poteva riferirsi pure a rapporti debitori-creditori.
Per il Tar, infatti, queste referenze vanno «interpretate liberamente e non formalisticamente, quali meri elementi indiziari della necessaria capacità economico-finanziaria (non si spiegherebbe, altrimenti, perché ne venivano chieste due), in tal senso sottoposte alla ragionevole valutazione della stazione appaltante (anche mediante richieste istruttorie e di integrazioni documentali...)».
Le imprese in questi casi restano «di regola estranee -e quindi indenni da responsabilità- rispetto ai contenuti ed alle forme delle medesime dichiarazioni, in quanto provenienti da meri operatori economici privati, mossi da pur legittime finalità di lucro, pur abilitati all’esercizio del credito, operanti a loro volta in un regime concorrenziale riconosciuto come asimmetrico rispetto alle imprese proprie clienti, ed intrattenenti possibili rapporti contrattuali anche con più operatori partecipanti alla medesima gara».
Riaffidando alla ditta la possibilità di partecipare agli appalti, il collegio ha chiarito che le garanzie bancarie sono incontestabili se, come in questo caso, al di là di formali distinzioni tra «certificazione» e «attestazione» per il valore di gara, «nessun istituto bancario ha espressamente sconfessato» la veridicità e il contenuto degli atti, posto che, per le stesse ragioni, viene meno non solo il dolo o la colpa grave riconosciuta dall’Anac, «bensì lo stesso presupposto di fatto e di diritto per l’irrogazione delle impugnate sanzioni»
(articolo Il Sole 24 Ore del 30.06.2016).

VARI: Dati personali, consenso orale. C'è una differenza rispetto alle informazioni sensibili. Una sentenza della Corte di cassazione sull'invio di sms di natura pubblicitaria.
Esiste una sostanziale distinzione tra il trattamento di dati personali comuni e quello di dati sensibili. In quest'ultimo caso, infatti, affinché il trattamento possa essere considerato legittimo, deve necessariamente sussistere il relativo consenso rilasciato in forma scritta, requisito che, invece, non risulta necessario al fine del trattamento di dati personali comuni, per i quali il consenso può essere anche espresso oralmente, purché sia possibile fornirne prova «documentale».
È quanto riaffermato dalla Corte di Cassazione -Sez. I civile- nella sentenza 16.05.2016 n. 9982 (pres. Di Palma, est. Giancola), con la quale ha messo la parola fine a un lungo procedimento avviatosi nel febbraio 2008 quando un avvocato, titolare di tre utenze di telefonia mobile aveva fatto ricorso, ai sensi dell'art. 152 e 7, comma 4, lett. b), del dlgs n. 196 del 2003, al tribunale di Milano chiedendo che fossero ordinati alla convenuta l'interruzione di ogni illegittimo trattamento ed uso per finalità promozionali dei suoi dati personali e che la medesima società fosse condannata al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali arrecati alla sua vita lavorativa e sociale dai continui messaggi di contenuto promozionale e pubblicitario.
Il tribunale di Milano, nel contraddittorio delle parti, dichiarava cessata la materia del contendere sulla domanda inibitoria (intimare alla società convenuta l'immediata cessazione del trattamento dati personali per finalità promozionali, invio materiale pubblicitario e altro) mentre rigettava l'ulteriore domanda di risarcimento del danno proposta dal ricorrente e lo condannava al pagamento in favore del gestore convenuto delle spese del giudizio.
Ora, al termine del successivo gradi di appello, la Cassazione, sancendo che il gestore telefonico può provare il consenso del cliente alla ricezione di sms pubblicitari anche attraverso registrazioni e riproduzioni informatiche, ha chiarito che il Codice della privacy, laddove si riferisce alla categoria dei cosiddetti documenti, non contempli solamente gli atti pubblici e le scritture private, ma «fa riferimento a qualsiasi oggetto idoneo e destinato a fissare in qualsiasi forma, anche non grafica, la percezione di un fatto storico al fine di rappresentarlo in avvenire».
Secondo i supremi giudici, infatti, in tema di trattamento dei dati personali comuni per finalità promozionali e commerciali, valgono tre regole. In primo luogo la previsione introdotta dall'articolo 23, comma 3, del dlgs n. 196 del 2003 (Codice privacy), secondo cui il consenso al trattamento è validamente prestato, tra l'altro, se è documentato per iscritto, «attiene non alla forma di manifestazione del consenso in questione, come, invece, stabilito per il trattamento dei dati sensibili di cui al comma 4 dello stesso art. 23, ma al contenuto dell'onere probatorio gravante sul titolare dei dati personali».
In secondo luogo «al titolare dei dati personali è imposto di dare documentazione per iscritto dell'assenso anche orale esplicitato dall'utente del servizio, al trattamento dei medesimi suoi dati per scopi pubblicitari e promozionali aggiuntivi rispetto al fornito servizio di telefonia mobile».
Infine la documentazione per iscritto «può essere integrata anche da riproduzioni meccaniche o informatiche di cui all'articolo 2712 c.c., effettuate dal titolare del trattamento, salva l'eventuale, successiva verifica dell'idoneità, adeguatezza e sufficienza del contenuto dell'acquisita annotazione».
Al riguardo, giova anche ricordare che secondo i giudici in tema di efficacia probatoria delle riproduzioni meccaniche di cui all'art. 2712 c.c., il «disconoscimento» che fa perdere alle riproduzioni stesse la loro qualità di prova, e che va distinto dal «mancato riconoscimento», diretto o indiretto, il quale, invece, non esclude che il giudice possa liberamente apprezzare le riproduzioni legittimamente acquisite, pur non essendo soggetto ai limiti e alle modalità di cui all'art. 214 c.p.c., deve tuttavia essere chiaro, circostanziato ed esplicito, dovendo concretizzarsi nell'allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra realtà fattuale e realtà riprodotta (principio già recentemente affermato dalla Cass. n. 2117 del 2011; n. 33122 del 2015).
Nella specie, il giudice di merito ha ritenuto che il ricorrente non avesse contestato il dato annotato ma infondatamente la validità di un consenso espresso in forma non scritta e trasposto nel sistema informatico interno al gestore convenuto (articolo ItaliaOggi Sette del 20.06.2016).

TRIBUTI: Canoni concessori, un rebus. Imposizione limitata alla durata della chiusura stradale. Il Consiglio di stato ha cambiato idea sul pagamento creando confusione nei comuni.
Continua a essere dibattuta la questione dell'applicazione da parte dei comuni del canone concessorio non ricognitorio per l'utilizzo della sede stradale da parte delle aziende erogatrici di pubblici servizi, che rappresenta un'entrata importante per i bilanci locali.

I contrasti sui presupposti di legge per richiedere il pagamento del canone sono emersi di recente anche all'interno del Consiglio di Stato che con la sentenza 1926/2016, contrariamente a quanto sostenuto con la pronuncia 6459/2014, ha affermato che non può essere richiesto per qualsiasi utilizzo della sede stradale da parte delle aziende erogatrici di acqua, luce e gas, ma solo per lo spazio soprastante ad essa e a condizione che limiti il suo tipico uso pubblico.
In senso contrario, invece, con una decisione precedente, si era espresso lo stesso giudice amministrativo, riconoscendo al canone la sua natura di corrispettivo per l'uso particolare del suolo e del sottosuolo da parte del concessionario.
Con la recente sentenza 12.05.2016 n. 1926 i giudici di palazzo Spada hanno precisato che quello che rileva, al fine di fondare la pretesa dell'ente locale, «non è un qualunque utilizzo della sede stradale (nonché dello spazio soprastante e sottostante ad essa), bensì un utilizzo singolare che incida in modo significativo sull'uso pubblico della risorsa viaria».
Ciò che conta è l'uso della sede stradale, che l'articolo 3 del Codice della strada (decreto legislativo 285/1992) definisce come la superficie compresa entro i confini stradali. Questa comprende la carreggiata e le fasce di pertinenza. Dunque, secondo il giudice d'appello, la norma di legge esclude che il presupposto per l'imposizione di un canone possa essere costituito dall'uso del sottosuolo, con la posa di cavi e tubi interrati.
L'imposizione è da ritenere «legittima per il tratto di tempo durante il quale le lavorazioni di posa e realizzazione dell'infrastruttura a rete impediscono la piena fruizione della sede stradale». Del resto, osservano i giudici, per l'assoggettamento al canone anche l'occupazione del soprasuolo deve essere esclusiva e tale da impedire l'uso pubblico della strada.
Questa pronuncia, che ha un'incidenza negativa sui bilanci comunali, non è condivisibile e fornisce un'interpretazione meramente letterale e non coordinata delle varie norme contenute nel suddetto Codice.
Si ritiene corretta, invece, la tesi espressa dallo stesso Consiglio di stato laddove non ha escluso dall'esigibilità del canone l'utilizzo del sottosuolo stradale. In effetti, mentre il citato articolo 27 del Codice della strada fa riferimento all'uso o all'occupazione delle strade e delle loro pertinenze, il successivo articolo 28, che disciplina gli obblighi dei concessionari di linee elettriche, telefoniche, di servizi di oleodotti, metanodotti, distribuzione di acqua potabile o gas, dispone che le concessioni possono essere sia «aeree che sotterranee» e che i concessionari hanno l'obbligo di osservare le condizioni e le prescrizioni imposte dall'ente proprietario per la conservazione della strada e per la sicurezza della circolazione.
Le domande rivolte a conseguire provvedimenti di autorizzazione o concessione che riguardano strade non statali devono essere presentate all'ente proprietario, che è competente a concedere all'azienda di servizi (acqua, luce, gas) anche l'occupazione del sottosuolo. Va rilevato che queste aziende utilizzano il soprasuolo stradale solo per il tempo necessario a eseguire i lavori, mentre è l'occupazione del sottosuolo che ha una lunga durata (29 anni). E questa occupazione costituisce ex lege il presupposto per il pagamento del canone concessorio (articolo ItaliaOggi del 28.06.2016).

CONDOMINIOAscensore difettoso, danni risarciti dallo stabile. Sicurezza impianti. Responsabilità per gli incidenti.
Non si scherza con la sicurezza degli ascensori: non solo per chi li usa, ma anche per i risvolti giuridici: il condominio può essere chiamato a rispondere dei danni. Soprattutto se l’amministratore non avverte che il mezzo può essere pericoloso.

Lo ha detto il TRIBUNALE di Larino, con la sentenza 07.05.2016, affrontando il caso di alcuni inquilini di un appartamento in condominio vittime di un ascensore “impazzito” che, dopo aver velocemente raggiunto il secondo piano si bloccava e, quindi, riprendeva bruscamente la discesa, fermandosi repentinamente tra il primo e il secondo piano.
Dopo essere stati liberati dai Vigili del fuoco ricorrevano al Pronto soccorso, dove ad uno veniva diagnosticato un trauma distorsivo del rachide cervicale e all’altro anche un trauma distrattivo della regione lombare.
I due inquilini trascinavano in giudizio il condominio per vedersi riconosciuto il risarcimento dei danni fisici patiti, invocandone la responsabilità per il danno cagionato dalle cose in custodia (articolo 2051 del Codice civile), in considerazione del fatto che l’insidia proveniente dall’ascensore non risultava segnalata e neppure visibile.
Il condominio replicava che l’ascensore risultava esclusivamente accessibile ai condòmini ai quali erano state consegnate le chiavi di accesso e non, pertanto, ai loro inquilini, e che all’interno dell’ascensore era ben visibile la targhetta con il peso massimo consentito (240 chilogrammi), concludendo pertanto per il rigetto della domanda. In ogni caso, chiamava in giudizio la propria assicuratrice, dalla quale pretendeva di essere “manlevata” in caso di condanna. Quest’ultima, costituendosi in giudizio, attribuiva la responsabilità dell’evento dannoso alla società incaricata della manutenzione .
Il Tribunale di Larino ha dato però ragione agli inquilini, ritenendo, in particolare, che «nella sfera di applicazione dell’articolo 2051 Codice civile ricadono, secondo l’orientamento giurisprudenziale ormai prevalente, una molteplicità di eventi e una ricca casistica nella quale sono variegate le ipotesi di fatti riconducibili ai danni causati dalle res in custodia del condominio».
Ciò posto, ha considerato come «le chiavi dell’ascensore erano legittimamente detenute dagli inquilini i quali, come riferito in sede di deposizione testimoniale, pur avendo già registrato il contratto di locazione ed avendo effettuato dei pagamenti al condominio convenuto, non erano a conoscenza del malfunzionamento dell’ascensore» e che, pertanto, la tutela di cui all’articolo 2051 del Codice civile doveva anche essere apprestata in favore degli anzidetti inquilini, titolari di regolare contratto di locazione.
Infine, sulla mancata prova in merito all’apposizione di un cartello di pericolo da parte dell’amministratore, il Tribunale diceva che «anche a voler ammettere l’esistenza di un cartello della portata di quello riferito dall’amministratore di condominio, esso non era comunque idoneo a segnalare adeguatamente il malfunzionamento dell’ascensore». Non sono state prese in considerazione le presunte manchevolezze della ditta che curava la manutenzione dell’impianto considerato che «la responsabilità ex articolo 2051 Codice civile non è elisa dall’incarico di manutenzione dell’ascensore affidato ad un’apposita ditta, in quanto l’impianto resta nella sfera di disponibilità e controllo dell’amministratore dello stabile che continua a mantenere il potere-dovere di controllarne il funzionamento e di intervenire allo scopo di eliminare situazioni di pericolo».
Per il Tribunale la persistente responsabilità dell’amministratore, pur in presenza di un manutentore, risulta «essenziale al fine di evitare che si determini un vuoto nella vigilanza e custodia nel caso di affidamento della manutenzione di beni o servizi comuni ad un’impresa specializzata ove quest’ultima ometta di effettuare le dovute opere di manutenzione, o non sia autorizzata dal condominio a effettuare lavori di straordinaria manutenzione».
La recentissima sentenza 27.06.2016 n. 26581 della Corte di Cassazione, Sez. IV penale, mostra, nella motivazione, di andare nella stessa direzione, cassando con rinvio una sentenza di assoluzione da lesione colpose in circostanze analoghe perché nella motivazione non era stato dimostrato che i lavori di manutenzione e messa in sicurezza fossero stati adeguati e sufficienti a escludere responsabilità degli imputati assolti (amministratore ma anche, in questo caso, tecnici-manutentori)
(articolo Il Sole 24 Ore del 28.06.2016).

VARIMolestatore della strada rifà l'esame. Tar Emilia Romagna.
Il molestatore seriale degli automobilisti può essere destinatario di un provvedimento di revisione della patente anche se non ha ancora provocato incidenti. Ma solo esasperato le persone.

Lo ha chiarito il TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, con la sentenza 04.05.2016 n. 467.
Un automobilista agitato ha collezionato una serie di denunce per molestie a seguito di ripetute manovre pericolose. Contro il conseguente provvedimento di revisione della patente ha proposto ricorso ma senza successo al Tar. Se numerosi cittadini, in tempi e luoghi diversi, richiedono l'intervento delle forze di polizia per il comportamento anomalo di un soggetto, è lecito adottare un provvedimento di revisione della licenza di guida, a tutela della sicurezza della circolazione.
Nel caso esaminato dal collegio l'automobilista ha ripetutamente litigato senza motivo con altri automobilista costringendoli alla richiesta di intervento delle forze dell'ordine. Con la revisione della patente si potrà verificare il mantenimento dell'idoneità tecnica dell'autista attaccabrighe (articolo ItaliaOggi Sette del 04.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: Responsabile dei danni anche il direttore lavori. Difetti di costruzione. Le condizioni per la «chiamata in causa».
Tutti responsabili per i difetti di costruzione del condominio: lo stabilisce l’articolo 1669 del Codice civile in materia di rovina e difetti di cose immobili, che presuppone un genere di responsabilità nella quale incorre certamente l’appaltatore che ha materialmente edificato il fabbricato, ma anche tutti quei soggetti che, a vario titolo, hanno concorso alla realizzazione dell’opera, in particolare, il progettista e il direttore dei lavori che hanno concorso alla determinazione dell’evento dannoso.

Un principio richiamato dalla Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la sentenza 03.05.2016 n. 8700.
Con specifico riferimento a quest’ultima figura professionale, infatti, per il direttore dei lavori -nominato dal committente o dall’appaltatore- la responsabilità assume i contorni di quella extracontrattuale, pertanto, può anche concorrere con quella di questi ultimi ma solo quando le rispettive azioni o omissioni, costituiscono autonomi fatti illeciti che hanno contribuito causalmente a produrre l’evento dannoso.
Il direttore dei lavori, quindi, in particolare quando viene nominato dall’appaltatore, risponde del fatto dannoso cagionato sia qualora non si accorga del pericolo, sulla scorta dell’esigibile capacità tecnica e perizia applicabile al caso concreto, ma anche qualora ometta di assegnare le dovute direttive, eventualmente esprimendo anche il suo dissenso nella prosecuzione dei lavori qualora non venissero concretamente seguite.
Tali principi sono stati espressi dalla II sezione civile della Corte di Cassazione, nella sentenza n. 8700, pubblicata in data 03.05.2016, relatore Orilia.
Il condominio citava in giudizio l’impresa costruttrice, nonché venditrice dell’immobile in condominio, per ottenere il risarcimento dei danni da infiltrazioni d’acqua e umidità. Nel costituirsi in giudizio, questa negava ogni responsabilità ritenendo che i danni, ove effettivamente esistenti, fossero imputabili in via esclusiva al progettista nonché direttore dei lavori, chiedeva pertanto la sua chiamata in causa.
Dopo i gradi di merito la causa arriva in Cassazione, che afferma: «Costituisce obbligazione del direttore dei lavori l’accertamento della conformità sia della progressiva realizzazione dell’opera al progetto, sia delle modalità dell’esecuzione di essa al capitolato e/o alle regole della tecnica e pertanto egli non si sottrae a responsabilità ove ometta di vigilare e di impartire le opportune disposizioni al riguardo, nonché di controllarne l’ottemperanza da parte dell’appaltatore ed, in difetto, di riferirne al committente».
E queste responsabilità sarebbero emerse chiaramente dalla Ctu, né il direttore dei lavori si sarebbe potuto avvalere del «principio dell’esclusione di responsabilità per danni in caso di soggetto ridotto a mero esecutore di ordini (...) si attaglia, ricorrendone determinate condizioni, alla figura dell’appaltatore, ma non a quella del direttore dei lavori il quale -come si è visto- assume, per le sue peculiari capacità tecniche, precisi doveri di vigilanza correlati alla particolare diligenza richiestagli: ragionare diversamente significa negare in radice la figura del direttore dei lavori».
Inoltre, prosegue la Cassazione, con riferimento al direttore dei lavori nominato dall’appaltatore «è stato altresì precisato che egli risponde del fatto dannoso verificatosi sia se non si è accorto del pericolo, percepibile in base alle norme di perizia e capacità tecnica esigibili nel caso concreto, che sarebbe potuto derivare dall’esecuzione delle opere, sia se ha omesso di impartire le opportune direttive al riguardo nonché di controllarne l’ottemperanza, al contempo manifestando il proprio dissenso alla prosecuzione dei lavori stessi ed astenendosi dal continuare la propria opera di direttore se non venissero adottate le cautele disposte».
Siamo, quindi, davanti a una responsabilità extracontrattuale da valutare alla stregua della diligenza e competenza professionale esigibile in questi casi, che può anche concorrere con quella del committente e dell’appaltatore «se le rispettive azioni o omissioni, costituenti autonomi fatti illeciti, hanno contribuito causalmente a produrlo»
(articolo Il Sole 24 Ore del 21.06.2016).

EDILIZIA PRIVATA: Opere edili, il tempismo è tutto. Serve un vero cantiere. Non bastano sbancamento o muri. La giurisprudenza recente: decade chi non dimostra di realizzare i lavori entro un anno.
Decaduta. L'impresa di costruzioni non ha più titolo per realizzare i quattro edifici previsti nell'ambito del piano di lottizzazione. E ciò perché non ha davvero dato inizio ai lavori entro un anno dal rilascio del titolo edilizio: è escluso che possa fare testo la sola attività di sbancamento compiuta; invece serve anche un'adeguata organizzazione del cantiere per dimostrare che la società titolare della concessione ha intenzione di realizzare l'opera assentita dal comune, vale a dire il lotto di edilizia residenziale.
È quanto emerge dalla sentenza 02.05.2016 n. 1187, pubblicata dalla I Sez. del TAR Sicilia-Catania.
Atto dovuto. Stando all'azienda, le foto depositate in giudizio dimostrerebbero che le attività sono cominciate perché, si sostiene nel ricorso, sono state gettate le fondamenta dei fabbricati e le immagini ritraggono i mezzi necessari allo scavo, il fabbricato realizzato per il deposito degli attrezzi e perfino il sistema di videosorveglianza.
Fa fede viceversa il sopralluogo svolto dai tecnici dell'ufficio di staff politica del territorio del comune: le foto prodotte dall'impresa edile risalgono a un'epoca precedente alla comunicazione di avvio dei lavori, mentre la decadenza decretata dall'ente si rivela «un atto consequenziale e vincolato» perché manca ogni indizio di un vero e proprio via libera alle ruspe nel termine annuale di cui all'articolo 15 del Testo unico dell'edilizia.
Senza indizi. Non basta aver costruito il muro al confine per ritenere avviato l'intervento.
È quanto emerge dalla sentenza 21.12.2015 n. 1382, pubblicata dalla II Sez. del TAR Veneto, uno dei precedenti in termini.
Niente da fare per il proprietario del fondo che ha sottoscritto con il confinante un preliminare di vendita del suo terreno, autorizzandolo da subito a costruire. Il punto è che nei dodici mesi successivi alla concessione del permesso non risulta svolta alcuna attività che consenta di riconoscere l'intendimento di portare a termine il progetto edilizio autorizzato: non tornano infatti utili lavori fittizi e simbolici per eludere l'avvio dei lavori e dunque sfuggire alla successiva decadenza.
L'unica opera presente sul terreno è riferibile al cantiere aperto dalla società confinante sul lotto vicino: sono gli operai della società ad avere realizzato la muratura rinvenuta dagli ispettori mandati dall'amministrazione. Insomma: «appaiono condivisibili», osservano i giudici, le conclusioni cui è pervenuto il comune sulla mancanza di indizi di un serio inizio dei lavori.
Assunto infondato. Neppure chi spianato o soltanto picchettato il terreno dove si vuole edificare l'opera evita la decadenza annuale dal permesso ottenuto dal comune. E l'amministrazione locale per stanare chi non ha cominciato in tempo i lavori ricorre alle immagini scaricate da Google Maps in modo da provare in modo certo l'intervenuta «prescrizione».
È quanto emerge dalla sentenza 03.10.2014 n. 1515 pubblicata dalla III sez. del TAR Toscana.
Niente da fare per l'ex titolare dell'autorizzazione non sfruttata dopo che il comune ha dichiarato la decadenza per mancato tempestivo avvio dei lavori ai sensi dell'art. 15 del testo unico dell'edilizia. Non risultano sufficienti a evitare la «tagliola» dell'ente le mere «verifiche del caso», vale a dire un semplice picchettamento per determinare l'esatta posizione del capannone da realizzare.
In realtà dopo aver rimosso il terreno vengono fuori le rocce, e gli operai sono costretti a fermarsi: troppo presto per poter invocare un regolare inizio dei lavori in base all'articolo 15 del dpr 380/2001, che esclude la sussistenza di effetti interruttivi anche in caso di meri scavi di sondaggio. E altrettanto vale nell'ipotesi di livellamento.
L'amministrazione locale porta in giudizio le foto tratte da Google Maps per dimostrare che nell'ottobre 2011 i lavori di cui al permesso di costruire in considerazione non erano ancora stati avviati. Ma prima ancora delle immagini scaricate dal motore di ricerca pesa l'infondatezza dell'assunto del titolare del permesso.
Sul fronte penale, infine, è intervenuta la Corte di Cassazione con la sentenza 03.03.2016 n. 25806 (data udienza) ricordando che configurano l'abuso edilizio i lavori realizzati dopo la decadenza dal permesso di costruire per il mancato avvio dei lavori.
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Al comune sta riconoscere la forza maggiore.
Addio lavori se non si dà corso alla Dia entro un anno né viene richiesta all'amministrazione locale una proroga ad hoc del titolo edilizio. Passa infatti l'orientamento di giurisprudenza più restrittivo secondo cui serve un provvedimento espresso del comune che riconosce i motivi di forza maggiore per i quali non sono cominciati in modo tempestivo gli interventi previsti dalla denuncia di inizio attività.
È quanto emerge dalla sentenza 29.01.2016 n. 201, pubblicata dalla II Sez. del TAR Lombardia-Milano.
Non bastano i lavori già realizzati entro un anno dalla presentazione della Dia a dimostrare che l'impresa abbia davvero la seria intenzione di realizzare l'opera: risultano a tal proposito insufficienti l'abbattimento della tettoia, la rimozione della pavimentazione antistante, la deviazione della fognatura e la chiusura delle finestre.
E ciò perché non soltanto è escluso che si tratti di attività previste dalla denuncia presentata ma soprattutto non risultano assolutamente necessarie per costruire l'edificio che è oggetto della segnalazione all'autorità. Quanto alle cause di forza maggiore, serve un provvedimento esplicito, diversamente da quanto capita con l'accertamento dell'intervenuta decadenza dalla possibilità di svolgere i lavori.
Non si può infatti osservare che la sussistenza di cause di forza maggiore di per sé impediscano la decadenza dalla Dia perché serve un esercizio di discrezionalità da parte dell'amministrazione, che deve verificare l'esistenza di un impedimento oggettivo (articolo ItaliaOggi Sette del 27.06.2016).

TRIBUTI: Cabine fotografiche, no imposta sulla pubblicità.
Le affissioni sulle cabine fotografiche, all'interno delle quali è possibile fare le fototessere automatiche, rappresentano l'insegna dell'azienda e hanno lo scopo di indicare il luogo (o i luoghi succursali) ove viene in concreto svolta l'attività: di conseguenza, se dette affissioni rispettano il limite dimensionale di 5 mq, per le stesse non è dovuta alcuna imposta comunale sulla pubblicità.

È quanto afferma la Ctp di Brescia nella sentenza 21.04.2016 n. 331/02/16 .
La società incaricata della riscossione delle imposte per il comune di Lonato (in provincia di Brescia) avanzava una richiesta relativa all'imposta sulla pubblicità, diretta a un contribuente operante nel campo della fototessere. In particolare, l'imposta veniva richiesta per i manifesti, ritenuti a scopo pubblicitario, affissi sulle cabine per le fototessere, solitamente ubicate in luoghi di transito (tipo stazioni ferroviarie o uffici pubblici).
Il contribuente, impugnando l'avviso dinanzi alla Ctp di Brescia, invocava l'esenzione di cui all'articolo 17, comma 1-bis, dl n. 507/1993, secondo cui l'imposta non è dovuta per le insegne di esercizio di attività commerciali che contraddistinguono la sede in cui viene svolta l'attività, a condizione che l'affissione rispetti il limite di 5 mq.
Il collegio di primo grado ha annullato l'atto, osservando che la cabina fotografica, benché renda un servizio automaticamente attivato dall'utente, costituisce una sorta di sede succursale dell'azienda e, comunque, un luogo dove è possibile fruire dei servizi resi da questa. Così che, le affissioni, a prescindere dal messaggio pubblicitario, hanno lo scopo di indicare il luogo di svolgimento dell'attività e, nei limiti dimensionali predetti, debbono considerarsi insegna esente dall'imposta sulla pubblicità.
Nelle motivazioni della sentenza, la Ctp ha anche richiamato l'orientamento della Corte di Cassazione, secondo cui la norma invocata «non consente di introdurre distinzioni in relazione al concorso dello scopo pubblicitario con la funzione propria dell'insegna, purché la stessa, oltre a essere installata nella sede dell'attività a cui si riferisce o nelle pertinenze accessorie, e ad avere la funzione di indicare il luogo di svolgimento dell'attività, si mantenga nel predetto limite dimensionale» (Cass. n. 5337/2013).
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] Con ricorso spedito in data 29/07/2015 e ricevuto in data 03/08/2015, ... srl impugnava l'avviso di accertamento n.., notificato in data 14/05/2015, con il quale veniva richiesta la somma complessiva di 189,00, comprensiva di interessi e accessori, per l'anno 2015, per imposta comunale sulla pubblicità in relazione a insegne pubblicitarie su cabine per l'effettuazione di fotografie, ubicate nel comune di ...
Sostiene la società ricorrente che dette insegne sono esenti dal tributo, atteso che esse rientrano nel concetto di insegna di esercizio, ex art. 2-bis, comma 1, legge n. 75/2002 e art. 10, legge 448/2001, trattandosi di insegne finalizzate a indicare il luogo ove viene svolta l'attività commerciale e la cui superficie è inferiore mq 5.
A tal fine richiama la sentenza della Corte di cassazione n. 5337/2013, che stabilisce come la cabina fotografica costituisca luogo di esercizio dell'attività e quindi l'insegna vada identificata a insegna di esercizio, concludendo per l'annullamento dell'atto impugnato. Costituendosi in giudizio la concessionaria ribadiva la legittimità dell'accertamento e del recupero fiscale, concludendo per il rigetto del ricorso.
All'esito dell'udienza di discussione, osserva la Commissione come l'esenzione invocata dalla società ricorrente sia disciplinata dall'art. 17, comma 1-bis, dl n. 507/1993, che prevede che l'imposta non sia dovuta per le insegne di esercizio di attività commerciali e di produzione di beni o servizi che contraddistinguono la sede ove si svolge l'attività cui si riferiscono, con il limite di una superficie complessiva che non superi i 5 mq. (disposizione riprodotta nell'art. 2-bis, dl n. 13/2002.
Afferma la Suprema corte nella sentenza sopra riportata (Cass. Sezione VI civile n. 5337/2013) che la norma di cui al dl 507/1993 «non consente di introdurre distinzioni in relazione a concorso dello scopo pubblicitario con la funzione propria dell'insegna stessa, purché la stessa, oltre a essere installata nella sede dell'attività a cui si riferisce o nelle pertinenze accessorie e avere la funzione di indicare al pubblico il luogo di svolgimento dell'attività, si mantenga nel predetto limite dimensionale» (mq 5).
Nella fattispecie, non può dubitarsi che la cabina fotografica, come riconosciuto dalla Cassazione, benché renda un servizio automaticamente attivato dall'utente, costituisca una sorta di sede succursale dell'azienda e, comunque, un luogo dove si svolge l'attività di quest'ultima. Se così è e se, come nel nostro caso, si rientra nelle metrature previste dalla norma, la società ricorrente aveva diritto all'esenzione di imposta, per cui il ricorso va ritenuto fondato e va accolto. ritenendo, comunque, la Commissione, di dover compensare le spese di causa, in ragione dell'esiguità del valore della stessa e della relativa novità del principio enunciato dalla Suprema corte (articolo ItaliaOggi Sette del 20.06.2016).

EDILIZIA PRIVATA: Le controversie in tema di oneri di urbanizzazione e di costo di costruzione introducono un giudizio sul rapporto, sicché le questioni concernenti l’esistenza e l’entità del debito involgono posizioni di diritto soggettivo e sottintendono atti amministrativi di natura non autoritativa ma paritetica.
Non opera, dunque, in simili casi l’istituto del silenzio-assenso di cui all’art. 20 della legge n. 241 del 1990, espressamente circoscritto dalla norma ai “procedimenti ad istanza di parte per il rilascio di provvedimenti amministrativi”.

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Quanto alla pretesa esenzione dal contributo di costruzione, la questione riguarda l’àmbito di operatività dell’art. 17, comma 3, lett. a), del d.P.R. n. 380 del 2001, secondo cui il contributo non è dovuto “per gli interventi da realizzare nelle zone agricole, ivi comprese le residenze, in funzione della conduzione del fondo e delle esigenze dell’imprenditore agricolo a titolo principale, ai sensi dell’articolo 12 della legge 09.05.1975, n. 153”, norma già contenuta nell’art. 9, comma 1, lett. a), della legge n. 10 del 1977, e poi fatta propria anche dall’art. 30, comma 1, lett. a), della legge reg. n. 31 del 2002 (applicabile alla fattispecie ratione temporis).
A tal proposito la giurisprudenza ha evidenziato che:
- il beneficio presuppone il concomitante concorso di due requisiti: sul piano soggettivo la qualitas di imprenditore agricolo, sul piano oggettivo il nesso di preordinazione funzionale delle opere alla conduzione del fondo;
- la sussistenza di tale duplice condizione deve ricorrere al momento in cui l’interessato produce la relativa istanza, che deve essere corredata da una sufficiente prova documentale circa il possesso dei relativi presupposti, onde la sussistenza di una soltanto di esse non può ritenersi requisito sufficiente per la gratuità nell’intervento edilizio;
- per quel che concerne, in particolare, il requisito oggettivo, la mera indicazione dell’impiego del bene e della sua localizzazione non soddisfa la dimostrazione del nesso di strumentalità tra l’opera per cui è chiesto il titolo edilizio e l’attività agricola, atteso che non tutte le opere realizzate in zona agricola sono, per tale solo fatto, funzionali alla conduzione del fondo, sicché spetta al privato fornire un riscontro documentale di tale destinazione.
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... per l’annullamento e/o declaratoria di nullità del provvedimento del Comune di Monteveglio prot. n. 5145/UTC/CP/fb del 25.05.2007, recante il diniego di esonero del ricorrente dal contributo di costruzione per imprenditore agricolo, con conseguente rigetto della domanda di rimborso avanzata dall’interessato;
per l’accertamento del diritto del ricorrente al rimborso della somma di € 15.858,58, oltre agli interessi legali dalla domanda al saldo.
...
Il ricorso è infondato.
Quanto, innanzi tutto, all’invocata formazione del silenzio-accoglimento sulla richiesta di riconoscimento dell’esenzione dal contributo di costruzione a norma dell’art. 17, comma 3, lett. a), del d.P.R. n. 380 del 2001 e alla denunciata conseguente tardiva e illegittima adozione dell’atto comunale di diniego, il Collegio rileva che, per costante giurisprudenza, le controversie in tema di oneri di urbanizzazione e di costo di costruzione introducono un giudizio sul rapporto, sicché le questioni concernenti l’esistenza e l’entità del debito involgono posizioni di diritto soggettivo e sottintendono atti amministrativi di natura non autoritativa ma paritetica (v., ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 14.10.2014 n. 5072). Non opera, dunque, in simili casi l’istituto del silenzio-assenso di cui all’art. 20 della legge n. 241 del 1990, espressamente circoscritto dalla norma ai “procedimenti ad istanza di parte per il rilascio di provvedimenti amministrativi”.
Quanto, poi, alla pretesa esenzione dal contributo di costruzione, la questione riguarda l’àmbito di operatività dell’art. 17, comma 3, lett. a), del d.P.R. n. 380 del 2001, secondo cui il contributo non è dovuto “per gli interventi da realizzare nelle zone agricole, ivi comprese le residenze, in funzione della conduzione del fondo e delle esigenze dell’imprenditore agricolo a titolo principale, ai sensi dell’articolo 12 della legge 09.05.1975, n. 153”, norma già contenuta nell’art. 9, comma 1, lett. a), della legge n. 10 del 1977, e poi fatta propria anche dall’art. 30, comma 1, lett. a), della legge reg. n. 31 del 2002 (applicabile alla fattispecie ratione temporis).
A tal proposito la giurisprudenza (v. TAR Sicilia, Palermo, Sez. II, 13.04.2012 n. 770) ha evidenziato che:
- il beneficio presuppone il concomitante concorso di due requisiti: sul piano soggettivo la qualitas di imprenditore agricolo, sul piano oggettivo il nesso di preordinazione funzionale delle opere alla conduzione del fondo;
- la sussistenza di tale duplice condizione deve ricorrere al momento in cui l’interessato produce la relativa istanza, che deve essere corredata da una sufficiente prova documentale circa il possesso dei relativi presupposti, onde la sussistenza di una soltanto di esse non può ritenersi requisito sufficiente per la gratuità nell’intervento edilizio;
- per quel che concerne, in particolare, il requisito oggettivo, la mera indicazione dell’impiego del bene e della sua localizzazione non soddisfa la dimostrazione del nesso di strumentalità tra l’opera per cui è chiesto il titolo edilizio e l’attività agricola, atteso che non tutte le opere realizzate in zona agricola sono, per tale solo fatto, funzionali alla conduzione del fondo, sicché spetta al privato fornire un riscontro documentale di tale destinazione.
Legittimamente, allora, l’Amministrazione comunale si è nella circostanza espressa per la mancata dimostrazione della sussistenza del requisito oggettivo. Il richiamo al «piano di sviluppo aziendale» era invero meramente esemplificativo di uno degli atti utili a comprovare la spettanza del beneficio (si è aggiunto “senza documentare in alcun modo siffatta asserita destinazione”), peraltro privo di riscontro anche nel presente giudizio, nulla avendo a tal fine esibito il ricorrente, il quale si limita a ribadire l’utilizzazione dell’immobile ristrutturato quale residenza per i dipendenti della sua azienda agricola ma di tale intento non fornisce riprova documentale alcuna.
Il ricorso, pertanto, va respinto
(TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 20.04.2016 n. 426 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTI: Niente Tari in aree di produzione rifiuti.
Nella determinazione della superficie su cui calcolare la Tari non si deve tener conto delle aree in cui si producono in via prevalente e continuativa rifiuti speciali; devono considerarsi speciali i c.d. rifiuti di imballaggio, in ogni caso se «terziari», mentre quelli «secondari» solo nel caso in cui non venga disposta apposita raccolta differenziata.

È quanto si legge nella sentenza 19.04.2016 n. 148/02/16 della Ctp di Como, con la quale sono stai annullati degli avvisi di pagamento emessi dal comune di Senna Comasco, in relazione a una pretesa Tari per aree su cui vengono prodotti esclusivamente rifiuti di imballaggio.
La Ctp fa espresso riferimento, nella propria decisione al Decreto Ronchi (dlgs 22/1997); in base a tale norma, i rifiuti vanno distinti in tre categorie: 1) rifiuti urbani, 2) rifiuti speciali, 3) rifiuti pericolosi. I primi sono sempre soggetti a tassazione, i terzi sono sempre esclusi, mentre i secondo sono tassabili solo laddove il comune li abbia assimilati ai rifiuti urbani.
La legge 147/2013 istitutiva della Tari ha stabilito che, nel computo della superficie tassabile, non si debba tener conto di quella parte dove si formano i rifiuti speciali al cui smaltimento sono tenuti a provvedere a proprie spese i produttori stessi. Per quanto riguarda gli imballaggi, essi si distinguono in: 1) imballaggi primari, ovvero il primo involucro o contenitore del prodotto che riveste direttamente l'articolo per la vendita; 2) imballaggi secondari, che costituiscono, nel punto di vendita, il raggruppamento di un certo numero di unità di vendita; 3) imballaggi terziari, ossia imballaggio per il trasporto, concepiti in modo da facilitare la manipolazione e il trasporto di un certo numero di unità di vendita per evitare la loro manipolazione e i danni connessi al trasporto.
In tema di smaltimento, si considerano sempre rifiuti «speciali» i rifiuti di imballaggio «terziari», mentre per quelli secondari occorre valutare se sia stata adottata una specifica raccolta differenziata: altrimenti, anche tali rifiuti si considerano speciali e sono esclusi dalla Tari.
È illegittima, dunque, l'assimilazione ai rifiuti urbani dei rifiuti di imballaggio terziari (e anche secondari, ove il comune non abbia predisposto l'apposta differenziata), così come è illegittima l'imposta pretesa sulle aree ove tali rifiuti vengono prodotti in via prevalente e continuativa.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] E invero come fondatamente eccepisce il ricorrente la nuova normativa sulla Tari introdotta dalla legge di stabilità n. 147/2014 prevede che «nella determinazione della superficie assoggettabile a Tari non si tiene conto di quella parte di essa ove si formano in via continuativa e prevalente rifiuti speciali al cui smaltimento sono tenuti a provvedere a proprie spese i relativi produttori a condizione che dimostrino l'avvenuto trattamento in conformità con la normativa vigente».
La nuova imposta non è dovuta sulle aree industriali ove si formano in via continuativa e prevalente rifiuti speciali non assimilabili ai rifiuti urbani. Pertanto essendo stato introdotto il divieto di assimilazione ai rifiuti urbani la delibera del comune che determina gli acconti da versare anche in relazione a tale tipologia di rifiuti è priva di base normativa e va disapplicata.
Come affermato dalla sentenza della Corte di cassazione n. 627 del 2012, «dall'esame del Titolo II del decreto Ronchi si ricava che i rifiuti di imballaggio costituiscono oggetto di un regime speciale rispetto a quello dei rifiuti in genere, regime caratterizzato essenzialmente dall'attribuzione ai produttori e agli utilizzatore della loro «gestione» (termine che comprende tutte le fasi, dalla raccolta allo smaltimento) (art 38 cit); ciò, vale in assoluto per gli imballaggi terziari, per i quali è stabilito il divieto di immissione nel normale circuito di raccolta dei rifiuti urbani cioè in sostanza il divieto di assoggettamento al regime di privativa comunale, mentre gli imballaggi secondari è ammessa solo raccolta differenziata da parte dei commercianti al dettaglio che non li abbiano restituiti agli utilizzatori (art. 43).
Ne deriva che i rifiuti degli imballaggi terziari, nonché quelli degli imballaggi secondari ove non sia attivata la raccolta differenziata, non possono essere assimilati dai comuni ai rifiuti urbani, nell'esercizio del potere a essi restituito dall'art. 21 del decreto Ronchi e dalla successiva abrogazione dell'art. 39 della legge n. 146 del 1994 e i regolamenti che una tale assimilazione abbiano previsto vanno perciò disapplicati in parte qua dal giudice tributario
».
L'esclusione dalla tassa riguarda solo la parte di superficie in cui per struttura e destinazione si formano esclusivamente rifiuti speciali con onere della prova a carico del contribuente.
Onere della prova che nella specie può ritenersi assolto attraverso la presentazione di distinta denuncia per le aree adibite ad attività industriali dalle aree adibite a uffici, con le planimetrie dello stabilimento e con i formulari di smaltimento tramite operatori autorizzati. [omissis] (articolo ItaliaOggi Sette del 04.07.2016).

EDILIZIA PRIVATAOve gli interventi edilizi ricadano in zona assoggettata a vincolo paesaggistico, stante l'alterazione dell'aspetto esteriore, gli stessi risultano soggetti alla previa acquisizione dell'autorizzazione paesaggistica, con la conseguenza che, quand'anche si ritenessero le opere pertinenziali o precarie e, quindi, assentibili con mera D.I.A., l'applicazione della sanzione demolitoria è, comunque, doverosa ove non sia stata ottenuta alcuna autorizzazione paesistica.
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L'onere di fornire la prova dell'epoca di realizzazione di un abuso edilizio incombe sull'interessato, e non sull'amministrazione, che, in presenza di un'opera edilizia non assistita da un titolo edilizio che la legittimi, ha solo il potere-dovere di sanzionarla ai sensi di legge e di adottare, ove ricorrano i presupposti, il provvedimento di demolizione.
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E’ irrilevante la dedotta circostanza che la ricorrente non avrebbe realizzato alcun intervento edilizio sull’immobile successivamente al suo acquisto avvenuto solo nel 2005.
L'ordinanza di demolizione, infatti, può legittimamente essere emanata nei confronti del proprietario dell'opera abusiva, anche se non responsabile della relativa esecuzione, trattandosi di illecito permanente sanzionato in via ripristinatoria, a prescindere dall'accertamento del dolo o della colpa del soggetto interessato.
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In presenza di un abuso edilizio “l’ordinanza di demolizione non richiede, in linea generale, una specifica motivazione; l’abusività costituisce di per sé motivazione sufficiente per l’adozione della misura repressiva in argomento. Ne consegue che, in presenza di un’opera abusiva, l’autorità amministrativa è tenuta ad intervenire affinché sia ripristinato lo stato dei luoghi, non sussistendo alcuna discrezionalità dell’amministrazione in relazione al provvedere”.
Infatti “l’ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è atto dovuto e vincolato e non necessita di motivazione ulteriore rispetto all’indicazione dei presupposti di fatto e all’individuazione e qualificazione degli abusi edilizi”.
Ed, ancora, “presupposto per l'emanazione dell'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è soltanto la constatata esecuzione di queste ultime in assenza o in totale difformità del titolo concessorio, con la conseguenza che, essendo l’ordinanza atto dovuto, essa è sufficientemente motivata con l’accertamento dell’abuso, essendo “in re ipsa” l’interesse pubblico alla sua rimozione” .
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Nel vagliare un intervento edilizio consistente in una pluralità di opere, deve effettuarsene una valutazione globale atteso che “la considerazione atomistica dei singoli interventi non consente di comprendere l'effettiva portata dell'operazione” ovvero di “scomporla in distinte fasi, cosicché possano individuarsi interventi soggetti ad autorizzazione ed altri soggetti a concessione, ma va valutata nella sua unitarietà e risulta soggetta al regime concessorio”.
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La giurisprudenza ha ritenuto rilevante, dal punto di vista della tutela del paesaggio, anche la realizzazione di volumi interrati.
Invero, "Il vigente art. 167, comma 4, del Codice dei beni culturali e del paesaggio preclude il rilascio di autorizzazioni in sanatoria, quando siano stati realizzati volumi di qualsiasi natura, anche interrati. Il divieto di incremento dei volumi esistenti, imposto ai fini di tutela del paesaggio, si riferisce a qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di volume, senza che sia possibile distinguere tra volume tecnico e altro tipo di volume, sia esso interrato o meno”.
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Priva di pregio risulta la censura incentrata sulla omissione della fase partecipativa al procedimento (violazione dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990) in quanto i provvedimenti repressivi degli abusi edilizi sono provvedimenti tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime.
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Quanto alla mancata individuazione dell’oggetto dell’eventuale successiva acquisizione al patrimonio comunale, la costante giurisprudenza di questo Tribunale, ha affermato l’irrilevanza di tale omissione che deve essere colmata, pena la sua illegittimità, con il successivo atto di acquisizione.
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Infine, alla luce della giurisprudenza pacifica, alcun obbligo ricade sull’amministrazione di far luogo a previe valutazione di “sanabilità” dell’intervento ex art. 36 del D.P.R. 380 del 2001, sol perché “proponibile” la relativa istanza.
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Il ricorso è in parte inammissibile e in parte infondato.
Oggetto della presente controversia sono i provvedimenti adottati dal Comune di Anacapri (di sospensione dei lavori prima, e di demolizione poi) a fronte della realizzazione di numerose opere negli stessi descritte realizzate dalla ricorrente in assenza di alcun titolo edilizio in area paseaggisticamente vincolata.
Il ricorso è inammissibile (cfr. avviso dato alle parti in udienza ai sensi dell’art. 73, comma 3, c.p.a.) nella parte in cui si rivolge avverso i provvedimenti di sospensione dei lavori in quanto ai sensi dell’art. 27, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001 l’ordine di sospensione ha effetto fino all’adozione dei provvedimenti definitivi di cui ai successivi articoli da adottarsi nel termine (non perentorio) di 45 gg..
Nella fattispecie, il Comune ha emesso, ai sensi dell’art. 31, il provvedimento di demolizione n. 4844 dell’11.04.2011 il che ha fatto venire meno l’efficacia degli atti di sospensione dei lavori (peraltro, adottati lo stesso giorno).
Venendo al merito, deve osservarsi come l’interessata non abbia fornito alcun elemento atto a smentire le risultanze istruttorie del Comune relativamente a un intervento edilizio che, per come descritto nell’ingiunzione impugnata (si tratta, in particolare, di opere, che come meglio si dirà, hanno comportato la realizzazione di nuovi volumi e superfici, sbancamenti di terreno e modifica dei prospetti), ha indubitabilmente determinato nel suo complesso una duratura trasformazione edilizia e urbanistica del territorio in zona assoggettata a vincolo paesaggistico (giusta D.M. 20.03.1951) e ciò avrebbe richiesto per lo meno la previa acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica con la conseguenza che la sanzione demolitoria era doverosa.
In proposito, la giurisprudenza ha statuito che ove gli interventi edilizi ricadano in zona assoggettata a vincolo paesaggistico, stante l'alterazione dell'aspetto esteriore, gli stessi risultano soggetti alla previa acquisizione dell'autorizzazione paesaggistica, con la conseguenza che, quand'anche si ritenessero le opere pertinenziali o precarie e, quindi, assentibili con mera D.I.A., l'applicazione della sanzione demolitoria è, comunque, doverosa ove non sia stata ottenuta alcuna autorizzazione paesistica (questo Trib., sez. IV, 23.10.2013, n. 4676).
In particolare, la ricorrente non ha esibito alcun titolo legittimamente le opere realizzate, limitandosi ad affermare che l’immobile non ha subito modifiche da tempo immemorabile. In argomento la giurisprudenza ha affermato che l'onere di fornire la prova dell'epoca di realizzazione di un abuso edilizio incombe sull'interessato, e non sull'amministrazione, che, in presenza di un'opera edilizia non assistita da un titolo edilizio che la legittimi, ha solo il potere-dovere di sanzionarla ai sensi di legge e di adottare, ove ricorrano i presupposti, il provvedimento di demolizione (TAR Campania Napoli, sez. VIII, 02.07.2010, n. 16569).
E’, altresì, irrilevante la dedotta circostanza che la ricorrente non avrebbe realizzato alcun intervento edilizio sull’immobile successivamente al suo acquisto avvenuto solo nel 2005. L'ordinanza di demolizione, infatti, può legittimamente essere emanata nei confronti del proprietario dell'opera abusiva, anche se non responsabile della relativa esecuzione, trattandosi di illecito permanente sanzionato in via ripristinatoria, a prescindere dall'accertamento del dolo o della colpa del soggetto interessato (cfr. questo Trib. Sez. III, 08.01.2016, n. 14).
Il Comune nell’ingiungere la demolizione delle opere in questione ha legittimamente applicato l’art. 31 del D.P.R. n. 380 del 2001 essendo state realizzate delle variazioni essenziali su un organismo edilizio preesistente ricadente in zona assoggettata a vincolo paesaggistico (a tale riguardo il successivo art. 32 stabilisce che ogni intervento definito come variazione essenziale ai sensi del comma 1, è valutato e sanzionato, ai sensi degli artt. 31 e 44, come eseguito in totale difformità dal permesso qualora riguardi un bene collocato in area protetta).
In relazione ai dedotti vizi motivazionali dell’atto, il Collegio evidenzia come la giurisprudenza abbia da tempo affermato che in presenza di un abuso edilizio “l’ordinanza di demolizione non richiede, in linea generale, una specifica motivazione; l’abusività costituisce di per sé motivazione sufficiente per l’adozione della misura repressiva in argomento. Ne consegue che, in presenza di un’opera abusiva, l’autorità amministrativa è tenuta ad intervenire affinché sia ripristinato lo stato dei luoghi, non sussistendo alcuna discrezionalità dell’amministrazione in relazione al provvedere” (TAR Lazio Roma, sez. I, 19.07.2006, n. 6021); infatti “l’ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è atto dovuto e vincolato e non necessita di motivazione ulteriore rispetto all’indicazione dei presupposti di fatto e all’individuazione e qualificazione degli abusi edilizi” (TAR Marche Ancona, sez. I, 12.10.2006, n. 824) ed, ancora, “presupposto per l'emanazione dell'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è soltanto la constatata esecuzione di queste ultime in assenza o in totale difformità del titolo concessorio, con la conseguenza che, essendo l’ordinanza atto dovuto, essa è sufficientemente motivata con l’accertamento dell’abuso, essendo “in re ipsa” l’interesse pubblico alla sua rimozione” (Consiglio di Stato, sez. V, 29.05.2006 n. 3270).
Il provvedimento è, pertanto, sorretto, contrariamente a quanto dedotto, da idonea motivazione considerato che nella fattispecie la ricorrente, da un lato, non ha contestato la consistenza delle opere realizzate (che sono state puntualmente descritte nell’atto), dall’altro, non è stata in grado di esibire alcun titolo autorizzativo idoneo.
Deve, inoltre, rilevarsi che l’intervento edilizio realizzato, pur riguardando una pluralità di opere deve essere globalmente considerato.
Questa Sezione ha affermato che nel vagliare un intervento edilizio consistente in una pluralità di opere, come qui accade, deve effettuarsene una valutazione globale atteso che “la considerazione atomistica dei singoli interventi non consente di comprendere l'effettiva portata dell'operazione” (cfr. in tali sensi, Tar Campania, Napoli, questa sezione sesta, sentenze n. 5835 del 18.12.2013, n. 1114 del 05.03.2012; n. 26787 del 03.12.2010; 16.04.2010, n. 1993; 25.02.2010, n. 1155; 09.11.2009, n. 7053; Tar Lombardia, Milano, sezione seconda, 11.03.2010, n. 584), ovvero di “scomporla in distinte fasi, cosicché possano individuarsi interventi soggetti ad autorizzazione ed altri soggetti a concessione, ma va valutata nella sua unitarietà e risulta soggetta al regime concessorio” (così la giurisprudenza sopra riportata e così già Tar Puglia, Bari, sezione seconda, 16.07.2001, n. 2955).
In ogni caso, dalla sola descrizione dell’intervento edilizio eseguito si evince che la ricorrente ha realizzato nuovi volumi e superfici (così l’ampliamento della superficie di 10,15 mq. per 31,26 mc. e la creazione del piano seminterrato), nonché, alterato il prospetto del fabbricato preesistente e ciò avrebbe richiesto il previo rilascio del permesso di costruire e dell’autorizzazione paesaggistica.
Deve, inoltre, osservarsi, che la giurisprudenza ha ritenuto rilevante, dal punto di vista della tutela del paesaggio, anche la realizzazione di volumi interrati (cfr. censura sul punto e C.d.S., sez. VI, 02.07.2015, n. 3289 che ha affermato che “Il vigente art. 167, comma 4, del Codice dei beni culturali e del paesaggio preclude il rilascio di autorizzazioni in sanatoria, quando siano stati realizzati volumi di qualsiasi natura, anche interrati. Il divieto di incremento dei volumi esistenti, imposto ai fini di tutela del paesaggio, si riferisce a qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di volume, senza che sia possibile distinguere tra volume tecnico e altro tipo di volume, sia esso interrato o meno”).
Priva di pregio risulta la censura incentrata sulla omissione della fase partecipativa al procedimento (violazione dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990) in quanto i provvedimenti repressivi degli abusi edilizi sono provvedimenti tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime.
E’, altresì, infondato il motivo di ricorso con il quale si deduce l’incompetenza del dirigente che ha adottato l’atto in favore del Sindaco (in mancanza di una apposita normativa statutaria e regolamentare attributiva del potere).
La Sezione ha avuto modo di ripercorrere i percorsi normativi avviati dall'art. 51, comma 3, l. 08.06.1990 n. 142, proseguiti dalla l. 127 del 1997 e dalla l. n. 191 del 1998 che, da ultimo, ha modificato l'art. 6 della l. 127/97 introducendo la lettera f-bis secondo la quale spettano ai dirigenti "tutti i provvedimenti di sospensione dei lavori, abbattimento e riduzione in pristino di competenza comunale, nonché i poteri di vigilanza edilizia e di irrogazione delle sanzioni amministrative previsti dalla vigente legislazione statale e regionale in materia di prevenzione e repressione dell'abusivismo edilizio e paesaggistico-ambientale", così espressamente attribuendo alla dirigenza la competenza anche in materia di applicazione di sanzioni.
Percorsi di cui è traccia anche all'interno del Testo unico sull'edilizia, emanato con il d.P.R. 380 del 2001, che attribuisce le misure sanzionatorie in subjecta materia sempre "al dirigente o al responsabile del competente ufficio comunale" facendo in tal modo venir meno la competenza sindacale, già affermata dalla legge n. 47 del 1985, e percorsi che -"in presenza dell'assestamento nell'ordinamento della summa divisio di competenze fra organi politici ed amministrativi"- non possono essere oltre posti in discussione, quanto a portata e cogenza immediata, dalla (peraltro qui solo) eventuale mancanza di emanazione della normativa secondaria (cfr., da ultimo, Tar Campania, questa VI sezione, sentenza n. 2293 del 18.05.2012 e, amplius ex multis in precedenza, sentenze n. 1107 del 05.03.2012 e n. 1464 del 15.03.2010).
Quanto alla mancata individuazione dell’oggetto dell’eventuale successiva acquisizione al patrimonio comunale, la costante giurisprudenza di questo Tribunale, ha affermato l’irrilevanza di tale omissione che deve essere colmata, pena la sua illegittimità, con il successivo atto di acquisizione (ex multis, TAR, Campania, Napoli, sez. IV, 21.09.2002, n. 5429).
Infine, alla luce della giurisprudenza pacifica, alcun obbligo ricade sull’amministrazione di far luogo a previe valutazione di “sanabilità” dell’intervento ex art. 36 del D.P.R. 380 del 2001, sol perché “proponibile” la relativa istanza (che, peraltro, non risulta nemmeno presentata).
In conclusione, il ricorso deve essere respinto nella parte in cui si dirige avverso l’ordine di demolizione mentre deve essere dichiarato inammissibile relativamente alle ingiunzioni di sospensione dei lavori (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 13.04.2016 n. 1814 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAL’«interesse pubblico» non salva l’ingresso abusivo. Violazioni edilizie. Non serve valutare le situazioni coinvolte.
Viola il Testo Unico per l’Edilizia e legittima l’ordine di demolizione la realizzazione di un ingresso indipendente in condominio difforme alla licenza, a nulla rilevando la valutazione delle ragioni d’interesse pubblico o la comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti o sacrificati.

Lo precisa il TAR Basilicata, con sentenza 26.03.2016 n. 297.
Il caso parte dalla richiesta di ottenere l’annullamento, previa sospensione dell’efficacia, dell’ordinanza con cui il responsabile del Settore tecnico aveva ordinato la remissione in pristino di un appartamento.
Secondo gli accertamenti e il sopralluogo disposto dall’ente, nell’immobile erano state rinvenute opere difformi alla licenza edilizia a suo tempo concessa. Il bene, compresa l’apertura contestata –rileva il proprietario– era stato edificato in maniera più che legittima.
In realtà, replica il Comune, di ciò non vi era prova agli atti. Anzi, proprio dal progetto allegato alla concessione, emergeva l’irregolarità: la porta di accesso all’appartamento in questione era stata prevista in corrispondenza della scala condominiale. L’attuale ingresso, invece, risulta situato su un altro lato dell’edificio. A confermarlo, anche i grafici e le riproduzioni fotografiche.
Quanto, poi, alla circostanza –addotta dalla difesa dei ricorrenti– inerente il fatto che l’elaborato grafico non sarebbe utilizzabile, in quanto “progetto di massima”, avente mera finalità descrittiva dell’opera, anch’essa non può avere alcun pregio. A ben vedere, prosegue il Tar, è la stessa concessione edilizia a fare obbligo in capo ai destinatari di “attenersi al progetto presentato”. E non evita la demolizione neppure il fatto che l’amministrazione non abbia contestato gli abusi edilizi compiuti dagli altri condòmini.
Del resto –conclude il Tribunale– l’ordine di demolizione di opere abusive, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia «è atto vincolato e non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione»
(articolo Il Sole 24 Ore del 21.06.2016).
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MASSIMA
6. Col secondo motivo, si è sostenuto che l'ordinanza di demolizione n. 13/2015 sarebbe illegittima per carenza di motivazione e per violazione dei principi di diritto, primo tra tutti quello dell’affidamento incolpevole del ricorrente, in quanto:
- le opere contestate come abusive risulterebbero essere state edificate da notevole lasso di tempo;
- l’Amministrazione resistente non avrebbe mai contestato e/o eccepito alcuna irregolarità per il passato;
- il sig. Gi.An.Do., al momento della realizzazione delle opere, non sarebbe stato né proprietario, né esecutore e né committente dei lavori, avendo acquistato l’appartamento in questione nello stato di fatto e di diritto in cui oggi si trova.
6.1. La doglianza va disattesa.
In senso contrario, va richiamato il condivisibile orientamento, secondo cui
l’ordine di demolizione di opere abusive, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato e non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione; non vi è un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il mero decorso del tempo non sana, e l’interessato non può dolersi del fatto che l’Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi (cfr., ex multis, TAR Lazio - sez. I, 27.11.2015, n. 13449; TAR Basilicata, 10.03.2015, n. 164; id. 29.11.2014, n. 813; C.d.S., sez. IV, 11.01.2011, n. 79).
Peraltro,
l’ordinanza di demolizione di una costruzione abusiva può legittimamente essere emanata nei confronti del proprietario attuale, anche se non responsabile dell’abuso, atteso che l’abuso edilizio costituisce illecito permanente e l’ordinanza stessa ha carattere ripristinatorio e non prevede l’accertamento del dolo o della colpa del soggetto cui si imputa la trasgressione; l’ordine di demolizione e gli altri provvedimenti repressivi, quindi, devono considerarsi legittimamente rivolti nei confronti di chi abbia la disponibilità materiale dell’opera, indipendentemente dal fatto che l'abbia concretamente realizzata (cfr. TAR Lazio, sez. I, 14.08.2015, n. 10829).
7. Col terzo motivo, parte ricorrente ha dedotto la violazione degli artt. 31, 32 e 37 del citato d.P.R. n. 380/2001, e degli artt. 2 e 3 della legge regionale n. 28/1991. In particolare, nessuna delle presunte violazioni accertate dall'amministrazione rientrerebbe legittimamente nelle previsioni del citato art. 31, né le stesse costituirebbero variazioni essenziali ai sensi del successivo art. 32 d.P.R. n. 380/2001.
7.1.
Ritiene, in senso contrario, il Collegio che l’intervento realizzato, ovverosia la chiusura del varco di accesso all’appartamento in questione dalla scala condominiale, e la realizzazione di una porta in un diverso prospetto dell’edificio, in difformità rispetto a tutti gli altri appartamenti del condominio, costituisca quantomeno un mutamento delle caratteristiche dell’intervento edilizio assentito, ovverosia una “variazione essenziale” ai sensi dell’art. 32, n. 1, lett. d) d.P.R. n. 380/2001, venendo in rilievo la modificazione di elementi costitutivi dell’edificio ed un’alterazione dell'originaria fisionomia e consistenza fisica dell’immobile.
7.2. Non persuade, poi il richiamo all’art. 3, n. 1, della legge regionale 28/1991, il quale non esclude affatto dal novero delle variazioni essenziali l’apertura di porte, bensì i soli balconi.
7.3. Neppure convince l’assimilazione dell’opera realizzata ad una c.d. “porta-finestra”, in quanto nella fattispecie in trattazione non viene in considerazione il mero ampliamento di una finestra, bensì la realizzazione dell’accesso principale all’appartamento in modo del tutto difforme rispetto al progetto assentito.
8.
E’ destituita di fondamento in fatto, alla luce delle considerazioni innanzi svolte, ed in disparte ogni valutazione circa la sua ammissibilità, l’ulteriore censura secondo cui l’ordinanza impugnata avrebbe dovuto essere notificata anche agli altri condomini, versando le pareti dei piani superiori dello stesso edificio condominiale nella stessa identica situazione. Infatti, l’apertura del varco d’accesso su altro prospetto dell’edificio caratterizza il solo appartamento di proprietà degli odierni ricorrenti.
8.1. Del pari, non si ravvisano né la dedotta impossibilità giuridica della rimessione in pristino, trattandosi appunto di ripristinare le condizioni dell’immobile secondo le specifiche del progetto assentito, né le pretese lesioni “del decoro architettonico dell’edificio”, semmai recate dall’opera abusiva.
9. Con l’ultimo motivo, i ricorrenti hanno lamentato che “l'Amministrazione resistente ha impartito contestualmente (e contraddittoriamente) sia l'ordine di demolizione ex art. 31-32 TUED e sia l'ordine di pagamento della sanzione pecuniaria di cui all'art. 37, comma 4, TUED. […]".
Si tratta di un'evidente ed insanabile contraddizione:
mentre, infatti, l'art. 31 TUED sanziona con la demolizione le opere che siano totalmente abusive ovvero eseguite in totale difformità e/o con variazioni essenziali rispetto al progetto assentito, l'art. 37, comma 4, TUED commina la sola sanzione pecuniaria, tra il minimo di Euro 516 ed il massimo di Euro 5164, ogni violazione di minore entità che "risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dell'intervento, sia al momento della presentazione della domanda”.
9.1 La censura coglie nel segno.
A ben vedere, il Comune intimato, pur avendo qualificato le opere realizzate come abusive, perché realizzate in difformità rispetto alla ripetuta concessione edilizia n. 30/1997, ha poi ingiunto la rimessione in pristino dello stato dei luoghi ai sensi dell’art. 37 del d.P.R. n. 380/2001, concernente le opere eseguite in assenza o in difformità dalla denuncia di inizio di attività o segnalazione certificata di inizio di attività, ed ha, altresì, espressamente applicato “l’indennità pecuniaria” di cui all’art. 37, n. 4, del medesimo decreto, concernente la sanatoria dell’intervento realizzato in conformità alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dell’intervento, sia al momento della presentazione della domanda.
9.2. In tal senso, quindi, deve ritenersi che l’atto contestato sia affetto da contraddittorietà, posto che l’Amministrazione ha disposto misure tra loro diverse ed alternative, tali da fare insorgere seri dubbi sull’effettiva volontà sottesa al provvedimento impugnato.

ATTI AMMINISTRATIVIServizi idrici, documenti accessibili. Tar Lazio. Il condominio ha diritto di visionare gli atti per tutelare i propri interessi e ottenere il rimborso dei danni.
Il condominio, in persona del suo amministratore, ha diritto ad avere accesso ai documenti amministrativi relativi alle rilevazioni e monitoraggi effettuati dalla società che gestisce il servizio idrico delle fognature, in relazione a eventi di sversamento di acque nere.
È questo il principio affermato dalla II Sez. del TAR Lazio-Roma con la sentenza 15.03.2016 n. 3287, in un caso in cui un condominio aveva promosso ricorso contro il silenzio del gestore della rete fognaria comunale all’istanza di accesso agli atti per il rilascio di copia delle rilevazioni dei monitoraggi e delle relazioni tecniche relativi a prolungati e ripetuti sversamenti di acque nere fuoriuscenti dal manto stradale antistante l’edificio condominiale.
Il condominio aveva fondato il proprio ricorso sulla necessità di conoscere il contenuto dei documenti al fine di tutelare i propri diritti (rimessione in pristino e risarcimento del danno), tenuto conto del danno ingiusto subito a seguito dell’omessa manutenzione della rete fognaria comunale che aveva cagionato gli sversamenti.
Il tribunale amministrativo ha specificato che l’interesse che deve sottendere l’istanza di accesso agli atti va inteso in senso ampio, in quanto la documentazione richiesta deve essere, genericamente, mezzo utile per la difesa dell’interesse giuridicamente rilevante.
Con riferimento al soggetto destinatario dell’istanza di accesso agli atti, il giudice amministrativo ha specificato che, ai sensi della legge 241/1990, si intendono per pubbliche amministrazioni tutti i soggetti di diritto pubblico e i soggetti di diritto privato che svolgono attività di pubblico interesse e limitatamente a tale attività (per esempio, le società partecipate). Quanto all’oggetto dell’istanza, invece, si deve trattare di atti amministrativi, cioè atti e documenti detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse.
Sulla scorta di queste considerazioni, il Tar Lazio ha accolto il ricorso del condominio, in quanto appariva evidente il suo interesse ad esaminare la documentazione richiesta al fine di tutelare i propri diritti (consistenti nel diritto di richiedere la rimozione della causa degli sversamenti, nonché il risarcimento dei danni), e ha dunque ordinato al gestore del servizio idrico di consentire la visione e l’estrazione di copia dei documenti richiesti
(articolo Il Sole 24 Ore del 28.06.2016).
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MASSIMA
2. Il ricorso è fondato alla luce delle seguenti considerazioni.
2.1. Parte ricorrente censura nella sostanza la violazione dei principi generali in materia di accesso per il comportamento inerte della società Acea Ato 2 Spa, che gestisce il servizio idrico integrato nell’Ambito territoriale della città di Roma, sull’istanza di accesso alla documentazione richiesta, come sopra indicata, per la visione da parte del Condominio ricorrente.
2.2. Al riguardo l'art. 22 della legge n. 241 del 1990 individua i soggetti interessati all'accesso ai documenti amministrativi in tutti coloro che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione tutelata e collegata al documento al quale si chiede l'accesso (comma 1); ai sensi del successivo art. 25, il diritto di accesso si esercita mediante esame ed estrazione di copia dei documenti amministrativi, nei modi e con i limiti indicati dalla legge (comma 1), e la richiesta di accesso ai documenti deve essere motivata e va rivolta all’Ente che ha formato il documento o che lo detiene stabilmente (comma 2).
Alla stregua della richiamata disciplina sul procedimento amministrativo,
i portatori di un interesse specifico hanno diritto di accesso ai documenti amministrativi per la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti, intendendo per tali le situazioni giuridiche soggettive che presentino un collegamento diretto e attuale con il procedimento amministrativo cui la richiesta di accesso si riferisce.
In particolare,
deve ritenersi che la nozione di interesse giuridicamente rilevante sia più ampia rispetto a quella dell’interesse all’impugnazione, caratterizzato dall’attualità e concretezza dell’interesse medesimo, e consenta la legittimazione all’accesso a chiunque possa dimostrare che il provvedimento o gli atti endoprocedimentali abbiano dispiegato o siano idonei a dispiegare effetti diretti o indiretti nei suoi confronti, indipendentemente dalla lesione di una posizione giuridica. D’altra parte, tale concetto di interesse giuridicamente rilevante non è tale da consentire a chiunque l’accesso agli atti amministrativi: l'esercizio del diritto di accesso è autorizzato solo se sostenuto dall'esigenza di tutelare un interesse giuridicamente rilevante, intendendosi per tale un interesse serio, effettivo, concreto, attuale e, in definitiva, ricollegabile all'istante da un preciso e ben identificabile nesso funzionale alla realizzazione di esigenze di giustizia. L'interesse all'accesso e la sua rilevanza ai fini della proposizione di un eventuale giudizio, va inteso in senso ampio, in quanto la documentazione richiesta deve essere, genericamente, mezzo utile per la difesa dell'interesse giuridicamente rilevante, e non strumento di prova diretta della lesione di tale interesse (cfr Cons. Stato, sez. V, 20.01.2015, n. 166; idem, sez. V, 23.09.2015, n. 4452; idem, sez. III, 27.10.2015, n. 4903; Tar Lazio, Roma, sez. I, 10.11.2015, n. 12703; Tar Veneto, sez. III , 10.12.2015, n. 1318).
A ciò va aggiunto che il citato art. 22 individua i documenti amministrativi in quelli "detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale" (comma 1, lett. d) e per pubblica amministrazione “tutti i soggetti di diritto pubblico e i soggetti di diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario” (comma 1, lett. e).
In conformità alla predetta norma,
l'Ente destinatario dell'esercizio del diritto di accesso va individuato nel soggetto pubblico o privato che, in relazione alla propria attività amministrativa di pubblico interesse detiene -o comunque è tenuta a detenere- i documenti amministrativi che ineriscono alle predette attività ad essa riconducibili.
Del resto, diversamente opinando, il diritto di accesso, riconosciuto dalla legge come posizione strumentale alla partecipazione procedimentale e alla imparzialità e trasparenza dell'azione amministrativa, risulterebbe facilmente vanificato nel suo esercizio concreto, dalla mera asserzione di irreperibilità del documento richiesto presso un soggetto che per la tipologia dell’attività esercitata invece sarebbe stata tenuta alla sua detenzione, ai sensi di legge: “l'istituto dell'accesso trova applicazione nei confronti di ogni tipologia di attività della p.a., compresi gli atti di diritto privato, gli atti posti in essere dal soggetto gestore di pubblico servizio” (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen. n. 4 del 1999; Cons. Stato, sez. VI, 12.01.2011, n. 116; idem, sez. VI, 28.03.2013, n. 1835; Tar Calabria, Reggio Calabria, 06.07.2011, n. 552).

EDILIZIA PRIVATALa mera esecuzione di lavori di sbancamento è, di per sé, inidonea per ritenere soddisfatto il presupposto dell'effettivo "inizio dei lavori" entro il termine di un anno dal rilascio del permesso di costruire a pena di decadenza del titolo abilitativo (art. 15, d.P.R. 06.06.2001, n. 380), essendo necessario, al fine di escludere la configurabilità del reato di costruzione abusiva, che lo sbancamento sia accompagnato dalla compiuta organizzazione del cantiere e da altri indizi idonei a confermare l'effettivo intendimento del titolare del permesso di costruire di realizzare l'opera assentita (in motivazione la Corte ha precisato che detti indizi consistono nell'impianto del cantiere, nell'innalzamento di elementi portanti, nell'elevazione di muri e nell'esecuzione di scavi coordinati al gettito delle fondazioni del costruendo edificio).
Dopo l'inutile scadenza dei termini di inizio e fine lavori edilizi contenuti nella concessione ad edificare (e che decorrono dal rilascio della concessione e non dal ritiro della stessa da parte dell'interessato), la concessione è "tamquam non esset", con la conseguenza che i lavori edilizi iniziati o ultimati dopo la scadenza sono realizzati in assenza di titolo abilitativo, e vanno soggetti alla sanzione penale di cui all'art. 20 della legge 28.02.1985 n. 47 (ora art. 44 del D.P.R. 06.06.2001).
Il d.P.R. n. 380 del 2001, art. 15, comma 2, sancisce la decadenza del permesso di costruire per decorso del termine di inizio o di ultimazione dei lavori.
La legge non precisa la nozione di "inizio dei lavori": tale nozione, però, secondo l'interpretazione giurisprudenziale costante, deve intendersi riferita a concreti lavori edilizi. In questa prospettiva i lavori debbono ritenersi "iniziati" quando consistano nel concentramento di mezzi e di uomini, cioè nell'impianto del cantiere, nell'innalzamento di elementi portanti, nella elevazione dì muri e nella esecuzione di scavi coordinati al gettito delle fondazioni del costruendo edificio.
Va salvaguardata, in effetti, l'esigenza di evitare che il termine prescritto possa essere eluso con ricorso ad interventi fittizi e simbolici.
I soli lavori di sbancamento, non accompagnati dalla compiuta organizzazione del cantiere e da altri indizi idonei a confermare l'effettivo intendimento del titolare del permesso di costruire di addivenire al compimento dell'opera assentita, attraverso un concreto, continuativo e durevole impiego di risorse finanziarie e materiali, non possono ritenersi idonei a dare dimostrazione dell'esistenza dei presupposti indispensabili per configurare un effettivo inizio dei lavori.

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3. Il ricorso in Cassazione del Procuratore della Repubblica, presso il Tribunale di Asti è fondato e deve accogliersi.
Per il capo A) la contestazione è relativa alla costruzione del capannone con strutture in cemento armato di dimensioni di m. 21,30x48,90, altezza di 4,40, con il permesso di costruire dichiarato decaduto con provvedimento del 27.09.2011 dell'autorità amministrativa. Il permesso di costruzione era stato rilasciato il giorno 11.10.2007; nel settembre 2011 -dopo la scadenza dei 36 mesi dal permesso- in un sopralluogo si accertava il mancato inizio dei lavori.
Il 27.09.2011 il Comune di Asti dichiarava decaduto il permesso di costruire rilasciato all'imputato. Il 28 ottobre ad un nuovo sopralluogo si rilevava la costruzione dì cui all'imputazione.
Il giudice del merito ritiene che le "operazioni di tracciamento e di spianamento del terreno ... propedeutiche alla realizzazione del capannone" costituiscono inizio dei lavori, con conseguente illegittimità del provvedimento di decadenza adottato dal Comune dì Asti.
Tale argomentazione non è conforme alla costante giurisprudenza della Corte di Cassazione, che ha ritenuto irrilevanti gli scavi ai fini dell'inizio di una costruzione.
La mera esecuzione di lavori di sbancamento è, di per sé, inidonea per ritenere soddisfatto il presupposto dell'effettivo "inizio dei lavori" entro il termine di un anno dal rilascio del permesso di costruire a pena di decadenza del titolo abilitativo (art. 15, d.P.R. 06.06.2001, n. 380), essendo necessario, al fine di escludere la configurabilità del reato di costruzione abusiva, che lo sbancamento sia accompagnato dalla compiuta organizzazione del cantiere e da altri indizi idonei a confermare l'effettivo intendimento del titolare del permesso di costruire di realizzare l'opera assentita (in motivazione la Corte ha precisato che detti indizi consistono nell'impianto del cantiere, nell'innalzamento di elementi portanti, nell'elevazione di muri e nell'esecuzione di scavi coordinati al gettito delle fondazioni del costruendo edificio) (Sez. 3, n. 7114 del 27/01/2010 - dep. 23/02/2010, Viola e altro, Rv. 246220).
Dopo l'inutile scadenza dei termini di inizio e fine lavori edilizi contenuti nella concessione ad edificare (e che decorrono dal rilascio della concessione e non dal ritiro della stessa da parte dell'interessato), la concessione è "tamquam non esset", con la conseguenza che i lavori edilizi iniziati o ultimati dopo la scadenza sono realizzati in assenza di titolo abilitativo, e vanno soggetti alla sanzione penale di cui all'art. 20 della legge 28.02.1985 n. 47 (ora art. 44 del D.P.R. 06.06.2001) (Sez. 3, n. 21022 del 19/03/2003 - dep. 13/05/2003, Ruggia, Rv. 225302).
Il d.P.R. n. 380 del 2001, art. 15, comma 2, sancisce la decadenza del permesso di costruire per decorso del termine di inizio o di ultimazione dei lavori.
La legge non precisa la nozione di "inizio dei lavori": tale nozione, però, secondo l'interpretazione giurisprudenziale costante, deve intendersi riferita a concreti lavori edilizi. In questa prospettiva i lavori debbono ritenersi "iniziati" quando consistano nel concentramento di mezzi e di uomini, cioè nell'impianto del cantiere, nell'innalzamento di elementi portanti, nella elevazione dì muri e nella esecuzione di scavi coordinati al gettito delle fondazioni del costruendo edificio.
Va salvaguardata, in effetti, l'esigenza di evitare che il termine prescritto possa essere eluso con ricorso ad interventi fittizi e simbolici.
I soli lavori di sbancamento, non accompagnati dalla compiuta organizzazione del cantiere e da altri indizi idonei a confermare l'effettivo intendimento del titolare del permesso di costruire di addivenire al compimento dell'opera assentita, attraverso un concreto, continuativo e durevole impiego di risorse finanziarie e materiali, non possono ritenersi idonei a dare dimostrazione dell'esistenza dei presupposti indispensabili per configurare un effettivo inizio dei lavori.

Nella fattispecie in esame non risulta, in particolare, che gli scavi, come descritti in Sentenza, possano qualificarsi come scavi di fondazione, caratterizzati da quel "cospicuo movimento di terra, anche in profondità, idoneo a contenere la platea di fondazione" (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.03.2016 n. 25806 - data udienza).

EDILIZIA PRIVATA: La norma di cui all'artt. 96, sub f), del R.D. 25.07.1904 n. 523 recita "Sono lavori ed atti vietati in modo assoluto sulle acque pubbliche, loro alvei, sponde e difese i seguenti...le piantagioni di alberi e di siepi, le fabbriche, gli scavi e lo smovimento del terreno a distanza del piede degli argini e loro accessori come sopra, minore di quella stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse località, ed in mancanza di tali discipline a distanza minore di metri quattro per le piantagioni e smovimento del terreno e di metri dieci per le fabbriche e gli scavi".
Il reato ha natura di pericolo sicché, per la sussistenza della fattispecie contravvenzionale, non occorre l'ulteriore verifica che l'azione illecita abbia recato nocumento all'alveo del corso d'acqua o alle sue sponde.

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1. Per illustrare la sua censura, il ricorrente muove dal presupposto del reato contestato, relativo allo spostamento dell'area di sedime del manufatto. Secondo l'imputato, non rientrerebbe nel divieto posto dall'art. 96, comma 1, lett. f), RD n. 523/1904 il comportamento consistente nell'allontanamento di un manufatto dall'argine, quando realizzato nel limite dei 10 metri.
Infatti, la diversa interpretazione sarebbe contraria alla lettera della norma ed all'interesse pubblico ed, in ogni caso, contrasterebbe con lo spirito dell'art. 1 della Legge Regionale Toscana n. 21/2012, che consente gli interventi volti a garantire la fruibilità pubblica all'interno delle fasce di larghezza di dieci metri dal piede dell'argine, ove non compromettano l'efficacia e l'efficienza dell'opera idraulica e non alterino il buon regime delle acque.
Aggiunge il Severi che la norma a lui contestata, se ponesse un divieto assoluto, dovrebbe sempre prescindere dalla preventiva valutazione delle amministrazioni competenti, sicché gli stessi giudici di merito avrebbero in qualche modo ammesso che la fattispecie non potesse essere riferita al divieto di cui all'art. 96 citato. Ciò anche perché lo spostamento dell'area di sedime non sarebbe elemento sufficiente a qualificare l'intervento come nuova costruzione.
2. Il motivo è infondato, ma il reato si è medio tempore prescritto.
La norma di cui all'artt. 96, sub f), del R.D. 25.07.1904 n. 523 recita "Sono lavori ed atti vietati in modo assoluto sulle acque pubbliche, loro alvei, sponde e difese i seguenti...le piantagioni di alberi e di siepi, le fabbriche, gli scavi e lo smovimento del terreno a distanza del piede degli argini e loro accessori come sopra, minore di quella stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse località, ed in mancanza di tali discipline a distanza minore di metri quattro per le piantagioni e smovimento del terreno e di metri dieci per le fabbriche e gli scavi".
Il reato ha natura di pericolo sicché, per la sussistenza della fattispecie contravvenzionale, non occorre l'ulteriore verifica che l'azione illecita abbia recato nocumento all'alveo del corso d'acqua o alle sue sponde
[Sez. 3, Sentenza n. 36502 del 21/09/2006 Ud. (dep. 03/11/2006) Rv. 235531].
Nella specie, come ammette lo stesso ricorrente, l'originario manufatto è stato demolito e successivamente ricostruito in luogo fisicamente diverso, ancorché adiacente. Si tratta dunque naturalisticamente di una nuova costruzione, come tale rientrante nella nozione astratta di "costruzione di fabbriche" prevista dal reato contestato. La violazione è assoluta -dunque non condizionata alla preventiva valutazione dell'autorità amministrativa- sicché in tal senso va emendata la motivazione del giudice d'appello.
Tuttavia, tale non corretto riferimento non inficia la ratio decidendi della Corte d'Appello, laddove puntualizza chiaramente che la violazione in parola rileva essenzialmente sul piano penale (ed a prescindere da quello edilizio), giacché la norma incriminatrice, a tutela delle acque pubbliche e pertanto dell'interesse collettivo, impone limiti e regole molto più cogenti di quelle dettate a presidio delle norme urbanistiche, per ciò solo insuscettibili di deroghe (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.01.2016 n. 4376 - data udienza).

AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI: Dati ambientali a disposizione.
Con la tutela del verde non si scherza. La trasparenza nella protezione dell'ambiente è ancora più incisiva rispetto alle misure garantite dalla legge 241/1990 che disciplina i rapporti fra cittadini e amministrazioni. E ciò sia per i soggetti legittimati a chiedere sia per la qualità degli atti.
E così se qualcuno si accorge che all'interno del parco sono stati tagliati alberi di alto fusto la regione non può negare l'accesso agli atti per sapere chi e perché ha autorizzato l'operazione.

È quanto emerge dalla sentenza 19.11.2015 n. 1747, pubblicata dal TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I.
L'ente ha trenta giorni per dare accesso alle carte. L'ostensione delle informazioni ambientali, infatti, è garantita dall'articolo 3, comma 1, del decreto legislativo 195/2005, che a sua volta dà attuazione alla direttiva europea 2003/4/Ce (articolo ItaliaOggi Sette del 20.06.2016).
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MASSIMA
2. Il ricorso deve trovare accoglimento.
Nel caso di specie si tratta di un’informazione ambientale attinente cioè allo stato degli elementi ambientali e il d.lgs. 195/2005 introduce una disciplina particolare estendendo la conoscenza delle informazioni relative all’ambiente a chiunque ne faccia richiesta senza che questi debba dimostrare il proprio interesse.
In particolare, ai sensi degli artt. 1 e 2 del d.lgs. citato
deve essere garantito il diritto all’informazione per garantire ai fini della più ampia trasparenza che l’informazione ambientale sia sistematicamente e progressivamente messa a disposizione del pubblico e diffusa in forma o formati consultabili. La pubblica amministrazione è tenuta a rendere l’informazione ambientale detenuta a chiunque ne faccia richiesta senza che questi debba dichiarare e dimostrare il proprio interesse.
Nel caso di specie, alla luce della rappresentazione fornita dalle parti, l’informazione richiesta ha carattere ambientale riguardando il taglio di alberi avvenuto in zona protetta e le ragioni a fondamento degli atti autorizzativi, con la conseguenza che la ricorrente ha diritto di accedere agli atti richiesti.
È sufficiente evidenziare sul punto (Cons. St. 4636/2015) che
l’art. 3, comma 1, d.lgs. n. 195 del 2005, ha previsto un accesso facilitato (rispetto a quello disciplinato dall'art. 22 della legge n. 241 del 1990) per le informazioni ambientali, al fine di assicurare, per la rilevanza della materia, la maggiore trasparenza possibile dei relativi dati.
Il regime di pubblicità in materia ambientale ha carattere tendenzialmente integrale, sia per ciò che concerne la legittimazione attiva, con un ampliamento dei soggetti legittimati all'accesso, e sia per il profilo oggettivo, prevedendosi un'area di accessibilità alle informazioni ambientali svincolata dai più restrittivi presupposti dettati in via generale dagli artt. 22 e segg. della legge n. 241 del 1990.

La richiesta è pertanto adeguatamente formulata e circostanziata.
Deve pertanto essere accertata l’illegittimità del diniego opposto da parte resistente e deve contestualmente essere ordinato alla pubblica amministrazione resistente di esibire a parte ricorrente i documenti richiesti entro il termine di 30 giorni dalla comunicazione in via amministrativa o notificazione, se anteriore, della presente sentenza.

INCARICHI PROFESSIONALIAvvocati, pubblicità nei limiti. Indicabile l'attività prevalente ma niente autocelebrazione. La sentenza del Cnf delimita i confini all'interno dei quali può muoversi il professionista.
È deontologicamente scorretto il comportamento dell'avvocato che si «pavoneggia» sulla stampa. La pubblicità professionale, infatti, non può essere né comparativa né autocelebrativa, ma esclusivamente di natura conoscitiva. Il professionista, in sostanza, può provvedere alla sola indicazione delle attività prevalenti o del proprio curriculum.

È il principio che emerge dalla sentenza 11.11.2015 n. 163 del Consiglio nazionale forense, pubblicata il 25 giugno scorso sul portale dedicato.
Nel dettaglio, la colpa dell'avvocato in questione sarebbe quella di aver rilasciato un articolo-intervista per un periodico mensile dove viene enfatizzata più volte la sua capacità professionale utilizzando frasi dal contenuto autoelogiativo come: «la sua grande soddisfazione è quella di aver fondato uno studio che, oltre ad essere diventato un punto di riferimento per i suoi clienti, è una fucina di professionisti»; ancora, un secondo virgolettato attribuito all'avvocato in questione, e nel mirino dell'ordine, è: «io sono sempre in giro per il mondo, passo da un consiglio di amministrazione all'altro, da un collegio sindacale all'altro, mi muovo in continuazione, mi informo e mi documento su ogni cosa, sono curioso di tutto e tengo la mente in perenne ebollizione». Infine: «la stima e il rispetto che si rispecchia in questo studio associato che non è mai stato e non sarà mai un condominio di avvocati, ma una fucina di professionisti dove ognuno dà il meglio di se stesso».
In particolare, il Cnf richiama l'art. 18 del codice deontologico forense, laddove prevede, nel disciplinare i rapporti con la stampa, che l'avvocato debba «ispirarsi a criteri di equilibrio e misura nel rilasciare interviste, per il rispetto dei doveri di discrezione e di riservatezza» e che «è fatto divieto di enfatizzare la propria capacità professionale». L'art. 17, invece, stabilisce che l'informazione debba «essere conforme a verità e correttezza», deve «rispettare la dignità e il decoro della professione» e non deve «assumere i connotati della pubblicità ingannevole, elogiativa, comparativa».
La sentenza è anche l'occasione, per il Cnf, di tornare sul decreto Bersani, che se da un lato ha abrogato le disposizioni che non consentivano la pubblicità informativa relativamente alle attività professionali, dall'altro «non ha affatto abrogato l'art. 38, comma 1, del rdl n. 1578/1933, il quale punisce comportamenti non conformi alla dignità e al decoro professionale» (articolo ItaliaOggi del 28.06.2016).
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La “pubblicità” professionale non deve essere comparativa né autocelebrativa.
L’informazione sull’attività professionale, ai sensi degli artt. 17 e 17-bis cod. deont. (ora, 17 e 35 ncdf), deve essere rispettosa della dignità e del decoro professionale e quindi di tipo semplicemente conoscitivo, potendo il professionista provvedere alla sola indicazione delle attività prevalenti o del proprio curriculum, ma non deve essere mai né comparativa né autocelebrativa (nel caso di specie, in una intervista ad un quotidiano, il professionista dichiarava di distinguersi dagli altri avvocati, a suo dire non altrettanto informati e documentati).
Consiglio Nazionale Forense (pres. Alpa, rel. Pasqualin), sentenza 11.11.2015 n. 163.
NOTA:
In senso conforme, tra le altre, Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Salazar, rel. Sica), sentenza del 19.12.2014, n. 194, Consiglio Nazionale Forense (Pres. f.f. Vermiglio, Rel. Pasqualin), sentenza del 15.10.2012, n. 152 (link a www.codicedeontologico-cnf.it).

TRIBUTIImposta comunali sugli immobili. È dovuta sul bene sequestrato. Il chiarimento contenuto in una sentenza della Suprema corte di cassazione.
È tenuto a pagare l'Ici il contribuente al quale viene notificato il sequestro giudiziario di un immobile di cui risulti titolare, ancorché non abbia più la disponibilità del bene. Il pagamento dell'imposta comunale deve essere effettuato fino all'emanazione del decreto di confisca dell'immobile.

Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, con la sentenza 30.10.2015 n. 22216.
Per i giudici di piazza Cavour, «il sequestro non comporta, al contrario della confisca, la perdita della titolarità dei beni ad esso sottoposti». Precisa la Cassazione, inoltre, che «fino al sopravvenire del decreto di confisca deve intendersi sussistente il requisito del possesso quanto alla soggettività passiva ai fini Ici».
Del resto, «sostenere la perdita della soggettività passiva d'imposta sin dall'adozione della misura del sequestro poggia sul concetto di “disponibilità” del bene, che è estraneo alla delimitazione della soggettività passiva d'imposta, quale desumibile dal combinato disposto del dlgs n. 504 del 1992, art. 1, comma 2, e dell'art. 3».
In effetti, il possesso o meno di fatto di un immobile o la mancanza di disponibilità del bene non hanno alcuna rilevanza ai fini dell'assoggettamento a imposizione. La stessa regola vale per l'Imu. Non caso nella pronuncia viene richiamato l'articolo 3 della disciplina Ici, che si applica anche all'Imu, il quale per il riconoscimento della soggettività passiva richiede la titolarità del bene.
L'Ici e l'Imu sono dovute dai contribuenti per anni solari, proporzionalmente alla quota di possesso, di diritto, dell'immobile e in relazione ai mesi dell'anno per i quali il bene è stato posseduto. Se il possesso si è protratto per almeno 15 giorni, il mese deve essere computato per intero.
Va evidenziato, poi, che la prova della proprietà o della titolarità dell'immobile non è data dalle iscrizioni catastali, ma dalle risultanze dei registri immobiliari. In caso di difformità è tenuto al pagamento dell'imposta il soggetto che risulti titolare da questi registri (commissione tributaria regionale del Lazio, prima sezione, sentenza 90/2006). Quindi, per l'assoggettamento agli obblighi tributari non è probante quello che risulti iscritto in catasto.
Oltre al proprietario e all'usufruttuario, sono soggetti passivi anche il superficiario, l'enfiteuta, il locatario finanziario, i titolari dei diritti di uso e abitazione, nonché il concessionario di aree demaniali. Rientra tra i diritti reali, poi, il diritto di abitazione che spetta al coniuge superstite, in base all'articolo 540 del codice civile (articolo ItaliaOggi Sette del 20.06.2016).
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MASSIMA
... deve osservarsi che la tesi esposta dalla ricorrente, al fine di sostenere la perdita della soggettività passiva d'imposta sin dall'adozione della misura del sequestro poggia sul concetto di "disponibilità" del bene, che è estraneo alla delimitazione della soggettività passiva d'imposta, quale desumibile dal combinato disposto dell'art. 1 comma 2, e dell'art. 3 del D. Lgs. n. 504/1992.
Come, infatti, più volte statuito da questa Corte (cfr. Cass. civ. sez. V 09.10.2009, n. 21541; Cass. civ. sez. V 26.02.2010, n. 4753 e Cass. civ. sez. V 09.05.2013, n. 10987), dalla lettura congiunta delle citate norme si desume che
soggetto passivo dell'imposta comunale sugli immobili può essere soltanto il proprietario o il titolare di un diritto reale di godimento sull'immobile, di modo che la nozione di possesso di fabbricati, aree fabbricabili e di terreni agricoli, di cui al comma 2 dell'art. 1 del D.Lgs. n. 504/1992, va riferita propriamente a quella corrispondente alla titolarità del diritto di proprietà o di diritto reale minore sull'immobile (art. 3, 1° comma, del D.Lgs. n. 504/1992).
Tale interpretazione ha trovato conferma nella giurisprudenza di questa Corte anche con specifico riferimento alla problematica inerente al riconoscimento dell'indennità di esproprio a seguito di procedura espropriativa, pur in ipotesi di omessa o infedele dichiarazione ICI da parte del soggetto sottoposto a detta procedura (cfr. Cass. civ. sez. I 12.10.2007, n. 21433; Cass. civ. sez. I 03.01.2008, n. 19), essendosi affermato che
l'occupazione d'urgenza, per il suo carattere coattivo, non priva il proprietario del possesso dell'immobile, in quanto il bene continua ad appartenergli finché non interviene il decreto di esproprio, mentre nell'occupante, che riconosce la proprietà in capo all'espropriando, manca l'animus rem sibi habendi, sicché lo stesso deve essere qualificato come mero detentore.
1.2.1. Né detto orientamento è contraddetto dalla più recente pronuncia di questa Corte, Cass. civ. sez. V 20.03.2015, n. 5626, che
ha ritenuto il proprietario non tenuto al pagamento dell'ICI in caso di occupazione temporanea d'urgenza seguita da effettiva immissione della Pubblica Amministrazione nel possesso del bene, avuto riguardo alla natura del tutto peculiare della fattispecie, evidenziata dalla pronuncia richiamata, fattispecie nella quale, ancora applicabile l'istituto dell'occupazione acquisitiva, sin dal momento dell'occupazione d'urgenza si era pacificamente realizzata l'irreversibile trasformazione del fondo.

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