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AGGIORNAMENTO AL 29.07.2016 |
ã |
Pregiudizio della pubblica incolumità:
non sulla
pubblica via ma su area privata coinvolgente diritti
di terzi.
SINO A CHE
PUNTO IL COMUNE PUO'/DEVE SPINGERSI -ovvero
astenersi- NELL'INTIMARE AL PRIVATO CITTADINO DI
RIMUOVERE LA CAUSA DI PERICOLO?? |
Ecco, di seguito, un'interessantissima sentenza che
può soccorrere l'UTC nell'affrontare la classica "bega"
fra confinanti. Per la segnalazione, su richiesta
d'aiuto, è doveroso un ringraziamento all'Avv. G.G.
di Milano. |
ATTI AMMINISTRATIVI: In
linea generale, il potere sindacale di ordinanza
contingibile e urgente, previsto dall’articolo 54 del TUEL
al fine di prevenire ed eliminare gravi pericoli che
minacciano l'incolumità dei cittadini, costituisce un
rimedio giuridico straordinario, dagli effetti
particolarmente incisivi e penetranti nella sfera riservata
di liberà e proprietà dei privati.
Il suo esercizio richiede, pertanto, una verifica
particolarmente rigorosa della sussistenza, nel singolo caso
concreto, dei presupposti previsti dalla legge per la sua
applicazione, sia sotto il profilo della ricorrenza di
situazioni di oggettivo pericolo per la privata e/o la
pubblica incolumità, sia sotto il profilo della
inevitabilità del ricorso a tale rimedio straordinario
sussidiario per l’accertata insufficienza, agli effetti del
conseguimento del fine perseguito, dei mezzi giuridici
ordinari messi a disposizione dall’ordinamento.
---------------
Più in particolare, se è vero che nella nozione di
incolumità dei cittadini può includersi anche il caso di
minaccia grave e attuale alla incolumità di soggetti privati
che si verifichi esclusivamente entro ambiti di proprietà
privata, senza riflessi diretti sulla pubblica incolumità,
vale a dire senza che il pericolo minacci anche aree di
pubblico transito e accesso, è altresì vero che, in
siffatte, eccezionali evenienze, il pericolo deve presentare
una consistenza e una evidenza particolarmente gravi e
univoche, tali in definitiva da non consentire neppure la
prosecuzione dell’uso o dell’abitazione dello spazio o del
volume di pertinenza privata interessato dallo stato di
pericolo, sì da giustificare piuttosto lo sgombero, e non il
mero ordine di esecuzione dei lavori.
Quando si tratti, dunque, di un caso di pericolo gravante
esclusivamente su beni privati sottratti a qualsiasi forma
di uso e transito pubblici, il vaglio di legittimità
dell’esercizio del suddetto potere di ordinanza ex art. 54
cit. deve essere ancor più penetrante e severo, soprattutto
al fine di impedire che il ricorso a tale invasivo strumento
imperativo, sviando dalla funzione pubblica, si risolva in
una inutile e indebita interferenza in liti tra privati
(magari già incardinate dinanzi al competente giudice
civile).
---------------
Venendo alla fattispecie concreta che occupa il Collegio, la
vicenda in esame ricade appieno nell’ipotesi, testé
tratteggiata, di illegittima interferenza
dell’amministrazione, con abusivo ricorso all’invasivo
strumento sussidiario dell’ordinanza contingibile e urgente,
in una lite in corso tra privati, in un’ipotesi
sostanzialmente priva dei caratteri di urgenza e
indifferibilità di intervento a tutela della pubblica e
provata incolumità, atteso che nella fattispecie concreta
all’esame del Collegio il pericolo per l’incolumità dei
cittadini è circoscritto ad un immobile di proprietà privata
e risulta eventualmente causato da fatti di carente o
cattiva manutenzione e dalla conseguente lite condominiale
sulla responsabilità e sulla spettanza dell’esecuzione dei
connessi lavori di ordinaria o di straordinaria
manutenzione;
Il fatto su cui è intervenuto il commissario prefettizio del
Comune con il provvedimento impugnato va in definitiva a
inserirsi in una lite, priva di ogni rilevanza di interesse
pubblico, tra privati proprietari in merito al possesso di
un viottolo di accesso alla proprietà della ricorrente,
confinante appunto con il fondo dei sig.ri Sa.-Ca., donde
l’avvenuta proposizione di un apposito giudizio civile
innanzi alla Corte di Appello di Napoli, nel corso del quale
sarebbe stata disposta una consulenza tecnica, tuttora in
corso di espletamento.
In conclusione, l’assorbente fondatezza del profilo di
censura volto a evidenziare la rilevanza puramente
civilistica della controversia e la sua inidoneità a
costituire il presupposto per la misura contingibile ed
urgente impugnata, rende naturalmente del tutto irrilevante,
in questa sede, ogni questione relativa alle responsabilità
nella causazione di danni attuali o eventuali, ciò che
invece è e deve restare materia riservata al giudice civile,
non trasferibile dinanzi al giudice della legittimità,
nemmeno attraverso l’impugnativa dell’atto amministrativo
che illegittimamente interferisca nella controversia tra
privati.
---------------
... per l’annullamento, previa sospensione, <<a)
dell’ordinanza n. 1 del 04.01.2007 del Comune di Tufino, a
firma del Commissario prefettizio sindaco ai sensi dell’art.
54, comma 2, del d.lgs. 267/2000, con la quale disponeva a
carico della ricorrente l’analisi dei manufatti
verosimilmente contenenti amianto, in ottemperanza al punto
1 del d.m. 06.09.1994, ad opera dell’ARPA Campania o di
laboratorio avente i requisiti del Piano Regionale Amianto;
ed, ad eventuale esito positivo delle analisi, ottemperare
ai punti 2 e 4 del d.m. innanzi citato, fissando per
l’espletamento di analisi in 30 giorni consecutivi e
naturali e termini per lo smaltimento in ulteriori 15
giorni, notificata in data 09.01.2007;
b) dell’avviso che in caso di inottemperanza si provvederà
ad eseguire d’ufficio quanto disposto con la presente
ordinanza, a spese del destinatario dell’atto stesso;
c) di ogni altro atto connesso, preordinato, sotteso e
conseguente, ivi compreso, in ogni caso e tra l’altro, se ed
in quanto lesivi dei diritti del ricorrente, i verbali di
ispezione ASL NA 4 Dipartimento di prevenzione del
07.08.2006 e del 20.10.2006, la relazione di sopralluogo del
Responsabile UTC Comune di Tufino prot. n. 651 del
06.11.2006, citati nell’ordinanza innanzi indicata e di ogni
altra relazione di cui non si conosce data e numero>>.
...
●
CONSIDERATO che, con il ricorso in trattazione –ritualmente
notificato in data 12.03.2007 e depositato nella Segreteria
del Tribunale il successivo 5 aprile– la ricorrente,
comproprietaria di un fabbricato per civile abitazione sito
in Tufino alla via ... 17, confinante con fondi di proprietà
dei signori Sa.-Ca., ha impugnato l’ordinanza in epigrafe
indicata, con la quale il Comune di Tufino le ha ordinato di
provvedere ad horas all’analisi dei manufatti “verosimilmente
contenenti amianto”, insistenti sulla facciata esterna
–lato nord– del fabbricato di sua proprietà, ad opera dell’A.R.P.A.C.
o di altro laboratorio avente i requisiti previsti dal Piano
Regionale Amianto e, in caso di esito positivo delle
analisi, di provvedere alla esecuzione dei lavori necessari
allo smaltimento del materia inquinante;
●
CHE, a seguito della comunicazione di avvio del procedimento
volto all’emissione dell’ordinanza ex art. 54, comma 2, del
d.lgs. 267 del 2000, effettuata in data 13.12.2006, la
sig.ra Mu. ha fatto pervenire una nota all’amministrazione
comunale intimata, con la quale ha fatto presente che, in
riferimento alla sostituzione degli elementi esistenti sulla
“facciata esterna –lato nord– del fabbricato”, la
suddetta area non risulta essere in suo possesso, bensì
detenuta dai sig.ri Sa.-Ca., proprietari dei fondi
confinanti, e con i quali è in corso un’annosa vertenza
giudiziaria presso la Corte di Appello di Napoli;
●
CONSIDERATO in diritto, in linea generale, che il potere
sindacale di ordinanza contingibile e urgente, previsto
dall’articolo 54 del TUEL al fine di prevenire ed eliminare
gravi pericoli che minacciano l'incolumità dei cittadini,
costituisce un rimedio giuridico straordinario, dagli
effetti particolarmente incisivi e penetranti nella sfera
riservata di liberà e proprietà dei privati.
Il suo esercizio richiede, pertanto, una verifica
particolarmente rigorosa della sussistenza, nel singolo caso
concreto, dei presupposti previsti dalla legge per la sua
applicazione, sia sotto il profilo della ricorrenza di
situazioni di oggettivo pericolo per la privata e/o la
pubblica incolumità, sia sotto il profilo della
inevitabilità del ricorso a tale rimedio straordinario
sussidiario per l’accertata insufficienza, agli effetti del
conseguimento del fine perseguito, dei mezzi giuridici
ordinari messi a disposizione dall’ordinamento;
●
CHE, più in particolare, se è vero che nella nozione di
incolumità dei cittadini può includersi anche il caso di
minaccia grave e attuale alla incolumità di soggetti privati
che si verifichi esclusivamente entro ambiti di proprietà
privata, senza riflessi diretti sulla pubblica incolumità,
vale a dire senza che il pericolo minacci anche aree di
pubblico transito e accesso, è altresì vero che, in
siffatte, eccezionali evenienze, il pericolo deve presentare
una consistenza e una evidenza particolarmente gravi e
univoche, tali in definitiva da non consentire neppure la
prosecuzione dell’uso o dell’abitazione dello spazio o del
volume di pertinenza privata interessato dallo stato di
pericolo, sì da giustificare piuttosto lo sgombero, e non il
mero ordine di esecuzione dei lavori;
●
CHE quando si tratti, dunque, di un caso di pericolo
gravante esclusivamente su beni privati sottratti a
qualsiasi forma di uso e transito pubblici, il vaglio di
legittimità dell’esercizio del suddetto potere di ordinanza
ex art. 54 cit. deve essere ancor più penetrante e severo,
soprattutto al fine di impedire che il ricorso a tale
invasivo strumento imperativo, sviando dalla funzione
pubblica, si risolva in una inutile e indebita interferenza
in liti tra privati (magari già incardinate dinanzi al
competente giudice civile);
●
RITENUTO, venendo alla fattispecie concreta che occupa il
Collegio, che la vicenda in esame ricade appieno
nell’ipotesi, testé tratteggiata, di illegittima
interferenza dell’amministrazione, con abusivo ricorso
all’invasivo strumento sussidiario dell’ordinanza
contingibile e urgente, in una lite in corso tra privati, in
un’ipotesi sostanzialmente priva dei caratteri di urgenza e
indifferibilità di intervento a tutela della pubblica e
provata incolumità, atteso che nella fattispecie concreta
all’esame del Collegio il pericolo per l’incolumità dei
cittadini è circoscritto ad un immobile di proprietà privata
e risulta eventualmente causato da fatti di carente o
cattiva manutenzione e dalla conseguente lite condominiale
sulla responsabilità e sulla spettanza dell’esecuzione dei
connessi lavori di ordinaria o di straordinaria
manutenzione;
●
CHE il fatto su cui è intervenuto il commissario prefettizio
del Comune di Tufino con il provvedimento impugnato va in
definitiva a inserirsi in una lite, priva di ogni rilevanza
di interesse pubblico, tra privati proprietari in merito al
possesso di un viottolo di accesso alla proprietà della
ricorrente, confinante appunto con il fondo dei sig.ri
Sa.-Ca., donde l’avvenuta proposizione di un apposito
giudizio civile innanzi alla Corte di Appello di Napoli, nel
corso del quale sarebbe stata disposta una consulenza
tecnica, tuttora in corso di espletamento;
●
CHE, in conclusione, l’assorbente fondatezza del profilo di
censura volto a evidenziare la rilevanza puramente
civilistica della controversia e la sua inidoneità a
costituire il presupposto per la misura contingibile ed
urgente impugnata, rende naturalmente del tutto irrilevante,
in questa sede, ogni questione relativa alle responsabilità
nella causazione di danni attuali o eventuali, ciò che
invece è e deve restare materia riservata al giudice civile,
non trasferibile dinanzi al giudice della legittimità,
nemmeno attraverso l’impugnativa dell’atto amministrativo
che illegittimamente interferisca nella controversia tra
privati;
●
RITENUTO, per tutti gli esposti motivi, che il ricorso deve
giudicarsi fondato e merita come tale di essere accolto
(TAR Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 19.04.2007 n. 4992 - udienza).
---------------
Si legga anche un relativo commento:
-
Delle c.d. “ordinanze di necessità” (20.06.2007
- link a www.altalex.com). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 30 del 29.07.2016, "Approvazione
elenco Regionale delle fattorie didattiche aggiornato al
30.06.2016, ai sensi del d.d.u.o. n. 6460 del 30.07.2015"
(decreto
D.S. 26.07.2016 n. 7321). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 30 del 29.07.2016, "Aggiornamento
albo regionale delle imprese boschive (l.r. 31/2008, art.
57): iscrizione ditta Cagliani Marco" (decreto
D.S. 26.07.2016 n. 7320). |
APPALTI: G.U.
27.07.2016 n. 170 "Linee guida per la compilazione del
modello di formulario di Documento di gara unico europeo (DGUE)
approvato dal Regolamento di esecuzione (UE) 2016/7 della
Commissione del 05.01.2016" (Ministero delle
Infrastrutture e dei Trasporti,
circolare 18.07.2016 n. 3). |
INCARICHI PROGETTUALI: G.U.
27.07.2016 n. 170 "Approvazione delle tabelle dei
corrispettivi commisurati al livello qualitativo delle
prestazioni di progettazione adottato ai sensi dell’articolo
24, comma 8, del decreto legislativo n. 50 del 2016"
(Ministero della Giustizia,
decreto 17.06.2016). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: G.U.
27.07.2016 n. 170 "Regolamento dell’albo degli idonei
all’esercizio dell’attività di direttore di ente parco
nazionale, ai sensi dell’articolo 2, comma 26, della legge
09.12.1998, n. 426" (Ministero dell'Ambiente e della
Tutela del Territorio e del Mare,
decreto 15.06.2016 n. 143). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. del 27.07.2016,
"Recepimento dell’accordo del 07.05.2015 tra il Governo,
le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano
concernente la qualificazione dei laboratori pubblici e
privati che effettuano attività di campionamento ed analisi
sull’amianto sulla base dei programmi di controllo di
qualità, di cui all’articolo 5 e all’allegato 5 del decreto
14.05.1996 e individuazione del centro di riferimento
regionale" (deliberazione
G.R. 18.07.2016 n. 5416). |
LAVORI PUBBLICI:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. del 27.07.2016, "Opere
di pronto intervento di cui alla l.r. n. 34/1973 sui corsi
d’acqua di competenza regionale - Disposizioni in materia di
affidamenti in somma urgenza e di manutenzione urgente"
(deliberazione
G.R. 18.07.2016 n. 5407). |
QUESITI & PARERI |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Personale degli enti locali. Responsabile Servizio
finanziario e parere sfavorevole di regolarità contabile.
L'Osservatorio per la finanza e la
contabilità degli enti locali ha rilevato come, pur essendo
un atto procedimentale obbligatorio che va inserito nella
deliberazione, il parere di regolarità contabile non è
vincolante, per cui si potrebbe verificare il caso in cui la
Giunta o il Consiglio deliberino in presenza di un parere
sfavorevole, assumendosene tutte le responsabilità.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine ad alcune
problematiche derivanti dall'adozione ed esecuzione di un
atto deliberativo giuntale sul quale si era espresso, da
parte del funzionario competente, parere di regolarità
contabile non favorevole.
In particolare, l'Ente si è posto le seguenti questioni
attinenti l'iter della determina di attuazione della
delibera giuntale:
-se il Responsabile del Servizio Finanziario può registrare
l'impegno di spesa (dopo aver espresso parere di regolarità
contabile non favorevole) a valere sul bilancio comunale;
- se il Responsabile di Area competente può procedere con il
pagamento;
- se il Segretario comunale può emettere un ordine di
servizio per dare esecuzione alla determina conseguente
all'adozione dell'atto deliberativo;
- se il Responsabile del Servizio Finanziario può
disattendere l'ordine di servizio e con quali motivazioni.
Sentito il Servizio finanza locale, si esprimono le seguenti
considerazioni.
Com'è noto, l'art. 49, comma 1, del d.lgs. 267/2000, come
novellato dal d.lgs. 174/2012, prevede che su ogni proposta
di deliberazione sottoposta alla Giunta e al Consiglio che
non sia mero atto di indirizzo deve essere richiesto il
parere, in ordine alla sola regolarità tecnica, del
responsabile del servizio interessato e, qualora comporti
riflessi diretti o indiretti sulla situazione
economico-finanziaria o sul patrimonio dell'ente, del
responsabile di ragioneria in ordine alla regolarità
contabile.
Il comma 3 del citato articolo precisa che i soggetti di cui
al comma 1 rispondono in via amministrativa e contabile dei
pareri espressi.
Infine, il successivo comma 4 dispone che, ove la Giunta o
il Consiglio non intendano conformarsi ai pareri previsti
dallo stesso articolo, devono darne adeguata motivazione nel
testo della deliberazione.
La Corte dei conti [1]
ha evidenziato che le modifiche apportate da ultimo dal
legislatore al richiamato articolo 49 del TUEL hanno
certamente ampliato la casistica delle fattispecie in cui è
necessario il parere di regolarità contabile, con la
conseguente assegnazione al responsabile di ragioneria di un
ruolo centrale nella tutela degli equilibri di bilancio
dell'ente. Tale interpretazione è rafforzata
dall'introduzione del comma 4 dell'art. 49 che, ferma
rimanendo la valenza non vincolante del parere, ha
significativamente previsto un onere di motivazione
specifica del provvedimento approvato in difformità dal
parere contrario reso dai responsabili dei servizi.
La Magistratura contabile ha comunque ricordato -nel
predetto contesto- che l'accuratezza dell'istruttoria
tecnica costituisce un elemento da verificare e riscontrare
ai fini del rilascio di parere positivo, sia di regolarità
tecnica che di regolarità contabile. Si è pertanto ritenuto,
anche alla luce dei rafforzati vincoli di salvaguardia degli
equilibri di bilancio, che il responsabile del servizio
interessato avrà l'onere di valutare gli aspetti sostanziali
della deliberazione dai quali possano discendere effetti
economico-patrimoniali per l'ente. Il responsabile di
ragioneria, pur senza assumere una diretta responsabilità in
ordine alla correttezza dei dati utilizzati per le predette
valutazioni, dovrà verificare che il parere di regolarità
tecnica si sia fatto carico di compiere un esame
metodologicamente accurato [2].
Si osserva che l'art. 191, comma 1, del TUEL dispone che gli
enti locali possono effettuare spese solo se sussiste
l'impegno contabile registrato sul competente programma del
bilancio di previsione e l'attestazione della copertura
finanziaria di cui all'articolo 153, comma 5, del medesimo
decreto.
L'Osservatorio per la finanza e la contabilità degli enti
locali [3]
ha rilevato come, pur essendo un atto procedimentale
obbligatorio che va inserito nella deliberazione, il parere
di regolarità contabile non è vincolante, per cui si
potrebbe verificare il caso in cui la Giunta o il Consiglio
deliberino in presenza di un parere sfavorevole,
assumendosene tutte le responsabilità.
Consiglio e Giunta, quindi, approvando comunque la proposta
di deliberazione in presenza di pareri negativi espressi dai
funzionari competenti, si addossano una rilevante
responsabilità, amministrativa e contabile.
Si è inoltre precisato che, nel deliberare in difformità
rispetto al parere di regolarità contabile, la Giunta o il
Consiglio assumono inevitabilmente anche responsabilità
amministrative e contabili che sono proprie della figura del
responsabile del servizio finanziario.
Premesso un tanto, il predetto responsabile deve comunque
portare a termine l'iter esecutivo dell'atto deliberativo,
procedendo all'adozione degli atti conseguenti, tenuto conto
che si tratta di adempimenti attuativi di scelte approvate
dall'amministrazione [4].
Si rammenta che l'art. 153, comma 5, del TUEL dispone che il
regolamento di contabilità disciplina le modalità con le
quali vengono resi i pareri di regolarità contabile sulle
proposte di deliberazione ed apposto il visto di regolarità
contabile sulle determinazioni dei soggetti abilitati. Il
responsabile del servizio finanziario effettua le
attestazioni di copertura della spesa in relazione alle
disponibilità effettive esistenti negli stanziamenti di
spesa e, quando occorre, in relazione allo stato di
realizzazione degli accertamenti di entrata vincolata
secondo quanto previsto dal regolamento di contabilità.
L'art. 183, comma 7, del predetto decreto stabilisce inoltre
che i provvedimenti dei responsabili dei servizi che
comportano impegni di spesa sono trasmessi al responsabile
del servizio finanziario e sono esecutivi con l'apposizione
del visto di regolarità contabile attestante la copertura
finanziaria.
Va considerato che il parere di regolarità contabile
espresso dal responsabile del servizio, secondo la
giurisprudenza contabile prevalente, è un vero e proprio
parere di legittimità del provvedimento di spesa, implicante
la valutazione sulla correttezza sostanziale della spesa.
Esso, pertanto, non si limita alla sola verifica della
copertura finanziaria, della corretta imputazione al
capitolo di spesa, della competenza dell'organo che l'ha
assunta, del rispetto dei principi contabili e della
completezza della documentazione. Il parere di regolarità
contabile, quindi, diventa rilevante anche ai fini della
ricerca e dell'individuazione delle responsabilità per
illeciti amministrativi [5].
L'assenza del visto di regolarità contabile, pur in presenza
dell'attestazione di copertura finanziaria rende l'atto non
esecutivo e conseguentemente nullo o inefficace.
[6]
Per quanto concerne, da ultimo, la possibilità per il
dipendente interessato di disattendere un eventuale ordine
di servizio [7],
che lo solleciti a dare esecuzione ad una determina, si
rappresenta che l'art. 13, comma 3, lett. h., del CCRL del
26.11.2004 impone al dipendente degli enti locali del
comparto unico del pubblico impiego regionale e locale
l'obbligo di eseguire le disposizioni inerenti
all'espletamento delle proprie funzioni o mansioni che gli
siano impartite dai superiori. Se ritiene che l'ordine sia
palesemente illegittimo, il dipendente deve farne
rimostranza a chi l'ha impartito, dichiarandone le ragioni.
Se l'ordine è rinnovato per iscritto, ha il dovere di darvi
esecuzione. Il dipendente non deve, comunque, eseguire
l'ordine quando l'atto sia vietato dalla legge penale o
costituisca illecito amministrativo [8].
Tale principio è stato affermato anche dalla giurisprudenza
amministrativa [9],
che ha statuito che non sussiste un obbligo incondizionato
del pubblico dipendente di eseguire le disposizioni
impartite dai superiori o dagli organi sovraordinati, posto
che il c.d. 'dovere di obbedienza' incontra un limite
nella ragionevole obiezione circa l'illegittimità
dell'ordine ricevuto. Qualora ricorra un'evenienza del
genere, il pubblico impiegato ha tuttavia l'obbligo di fare
una immediata e motivata contestazione a chi ha impartito
l'ordine.
Tuttavia se l'ordine stesso è ribadito per iscritto, il
dipendente non può esimersi dall'eseguirlo, a meno che la
sua esecuzione configuri un'ipotesi di reato o illecito
amministrativo, come specificato dalla norma contrattuale,
che ha limitato quindi ulteriormente tale dovere rispetto
alle originarie previsioni dettate dal d.p.r. 3/1957.
---------------
[1] Cfr. sez. reg. di controllo per le Marche,
deliberazione n. 51/2013/PAR.
[2] Si segnala che già in precedenza la Corte dei conti
(cfr. sez. giurisd. per la Regione siciliana, sentenza n.
1058/2011) aveva rilevato che nel parere di regolarità
contabile è da comprendere, oltre che la verifica
dell'esatta imputazione della spesa al pertinente capitolo
di bilancio ed il riscontro della capienza dello
stanziamento relativo, anche la valutazione sulla
correttezza sostanziale della spesa proposta.
[3] Cfr. parere del 05-06.06.2003.
[4] Cfr. parere ANCI del 15.10.2011.
[5] In 'Natura del parere di regolarità contabile sulle
determine di impegno: è un parere di legittimità Cdc Sent.
n. 1058 del 23/03/2011 - Sez. giurisdiz. per la Regione
Sicilia' di Pino Terracciano, a cui si rinvia per i numerosi
riferimenti giurisprudenziali.
[6] Sentenza Corte dei Conti Sez. Giurisdiz. Per la Regione
Sicilia n. 1337/2012.
[7] L'ordine di servizio è una disposizione impartita da un
dirigente o suo delegato, in esecuzione del potere di
organizzazione che la legge conferisce loro. In linea
generale e ferme restando le disposizioni regolamentari
adottate dall'Ente, si osserva che, a mente di quanto
disposto dall'art. 97 del TUEL, il segretario comunale
sovrintende allo svolgimento delle funzioni dei
dirigenti/titolari di p.o. e ne coordina l'attività. In tale
ottica, il segretario comunale, per raggiungere obiettivi
comuni, ha il potere di indirizzare l'attività dei
dirigenti/titolari di p.o. -con le modalità ritenute
opportune- verso risultati di interesse comune, fornendo
concreto sostegno agli organi elettivi e burocratici (cfr.
Angela Bruno, Il Segretario generale: funzioni,
costituzionalità del sistema dello spoil system,
mantenimento della figura dopo la riforma del titolo V della
Costituzione, in: www.diritto.it.).
[8] Per illecito amministrativo deve intendersi la
violazione di una norma di legge (per condotta attiva od
omissiva) cui consegue la irrogazione di una sanzione
amministrativa pecuniaria (cfr. l. 689/1981, in particolare
gli artt. 1-31 che definiscono i caratteri dell'illecito
amministrativo pecuniario, e anche la disciplina del
procedimento d'irrogazione delle sanzioni amministrative).
[9] Cfr. Cons. di Stato, sez. V, sentenza n. 6208 del 2008
(27.07.2016 -
link a
www.regione.fvg.it). |
ENTI LOCALI:
Concessioni cimiteriali perpetue. Revoca.
Al momento attuale non si registrano
novità normative che consentano di revocare le concessioni
cimiteriali perpetue e di trasformarle in concessioni a
tempo determinato, ma la risoluzione ex lege della
problematica potrebbe concretizzarsi in un prossimo futuro,
atteso che il disegno di legge n. 1611, in corso di esame
presso la 12a Commissione permanente (Igiene e sanità) del
Senato contiene, all'art. 13, comma 3, lett. e), un'espressa
previsione in tal senso.
Quanto alla giurisprudenza, notoriamente divisa, si segnala
il costante rafforzamento dell'orientamento che ritiene
legittima la trasformazione delle concessioni perpetue in
concessioni 'di durata', posto che l'assoggettamento dei
cimiteri al regime del demanio comunale (ex art. 824 cod.
civ.), implica l'impossibilità di configurare atti
dispositivi, in via amministrativa, senza limiti di tempo.
Il Comune chiede di conoscere se siano intervenute novità
normative che consentano di revocare le concessioni
cimiteriali perpetue e di trasformarle in concessioni a
tempo determinato.
La risposta è negativa.
Si segnala, comunque, che la risoluzione ex lege
della problematica in argomento potrebbe concretizzarsi in
un prossimo futuro, atteso che il disegno di legge n. 1611
(«Disciplina delle attività funerarie»), in corso di
esame presso la 12a Commissione permanente (Igiene e sanità)
del Senato [1]
contiene, all'art. 13, comma 3, lett. e)
[2], l'espressa
previsione di cessazione della perpetuità della concessioni
cimiteriali esistenti e la loro trasformazione in
concessioni a tempo determinato.
Benché il quesito posto risulterebbe così riscontrato,
questo Ufficio ha ritenuto opportuno -al fine di fornire
all'Ente elementi di valutazione utili ad assumere,
eventualmente, le proprie determinazioni sin da ora-
verificare come la giurisprudenza, già discordante all'epoca
della formulazione del parere reso, su analoga questione,
all'Ente medesimo [3],
abbia nel frattempo statuito.
Mentre allora risultava prevalente l'orientamento secondo il
quale le concessioni perpetue esulano dall'ambito di
applicazione dell'art. 92, comma 2, primo periodo
[4], del
decreto del Presidente della Repubblica 10.09.1990, n. 285
e, non essendo soggette alla revoca ivi prevista, mantengono
il carattere di perpetuità, attualmente si registra il
costante rafforzamento del filone che ritiene legittima la
trasformazione delle concessioni perpetue in concessioni 'di
durata', nella considerazione che l'assoggettamento dei
cimiteri al regime del demanio comunale, disposto dall'art.
824 [5],
secondo comma, del codice civile, implica l'impossibilità di
configurare atti dispositivi, in via amministrativa, senza
limiti di tempo [6].
[7]
---------------
[1] La materia forma oggetto di altri due disegni di
legge: l'atto della Camera n. 3189 («Disciplina delle
attività funerarie, della cremazione e della conservazione o
dispersione delle ceneri»), assegnato il 16.12.2015 alla 12a
Commissione permanente della Camera (Affari sociali) e del
quale non è ancora iniziato l'esame e l'atto del Senato n.
447 («Disciplina delle attività nel settore funerario e
disposizioni in materia di dispersione e conservazione delle
ceneri»), congiunto il 19.04.2016 al DDL n. 1611 e con esso
in corso di esame in commissione.
[2] «3. In ogni ATOC i comuni appartenenti a quel territorio
costituiscono una Autorità d'ambito, la quale provvede ad
emanare, entro due anni dalla costituzione:
[...]
e) la cessazione della perpetuità della concessioni
cimiteriali esistenti, con la loro trasformazione in
concessioni cimiteriali a tempo determinato, decorrenti
dalla data di entrata in vigore della presente legge, di
durata pari a novantanove anni, salvo rinnovo, previo
versamento della tariffa corrispondente ai servizi per i
novantanove anni, decurtata di un terzo se vi è la
contemporanea trasformazione in tumulazione aerata. I
concessionari interessati possono richiedere, al momento
della trasformazione da perpetuo a tempo determinato della
concessione, la riduzione della durata fino ad un minimo di
trenta anni, fruendo egualmente della decurtazione
tariffaria di un quarto se vi è la trasformazione in
tumulazione aerata. In caso di mancato versamento della
tariffa dovuta, la concessione cessa trascorsi venti anni
dalla data di entrata in vigore della presente legge;
[...]».
[3] Parere 06.08.2014, prot. n. 21653.
[4] «2. Le concessioni a tempo determinato di durata
eventualmente eccedente i 99 anni, rilasciate anteriormente
alla data di entrata in vigore del decreto del Presidente
della Repubblica 21.10.1975, n. 803, possono essere
revocate, quando siano trascorsi 50 anni dalla tumulazione
dell'ultima salma, ove si verifichi una grave situazione di
insufficienza del cimitero rispetto al fabbisogno del comune
e non sia possibile provvedere tempestivamente
all'ampliamento o alla costruzione di nuovo cimitero.».
[5] «I beni della specie di quelli indicati dal secondo
comma dell'articolo 822, se appartengono alle province o ai
comuni, sono soggetti al regime del demanio pubblico. Allo
stesso regime sono soggetti i cimiteri e i mercati
comunali.».
[6] V. TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sent. 07.11.2014, n.
2732; TAR Toscana-Firenze, Sez. I, sent. 24.03.2015, n. 462;
CGARS sent. 16.04.2015, n. 321 (conferma TAR Sicilia-Palermo,
Sez. II, sent. 18.01.2012, n. 70); TAR Sicilia-Palermo, Sez.
III, sent. 22.01.2016, n. 187; TAR Sicilia-Palermo, Sez. III,
sent. 29.06.2016, n. 1532.
[7] Anche S. Scolaro, noto esperto nella materia, in un
recentissimo intervento (14.07.2016), ha rilevato che
«si sta formando, ormai abbastanza numeroso ed uniforme, un
indirizzo giurisprudenziale da parte di numerosi T.A.R.
(Palermo, Napoli, Lecce, Firenze, Venezia, Potenza, Salerno,
ed altri, ma anche del Consiglio di Stato) che valuta come
concessioni cimiteriali caratterizzate da un'assenza di un
termine finale contrastino con la natura demaniale propria
delle concessioni cimiteriali, demanialità che, per
definizione, esclude sia l'alienabilità, sia l'usucapibilità
dei beni, per cui l'assenza di un limite temporale rischia
di celare un'inammissibile alienazione» (27.07.2016
-
link a
www.regione.fvg.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Parere in merito all'applicazione dell'art. 39, comma
10-bis, della legge 724/1994 in tema di condono edilizio -
Comune di Gaeta (Regione Lazio,
parere 22.07.2016 n. 388728 di prot.). |
ENTI LOCALI:
Azione indebito arricchimento verso ente pubblico.
In ordine all'azione di indebito
arricchimento ex art. 2041 c.c. nei confronti della p.a., la
giurisprudenza di legittimità ha espresso nel corso degli
anni due orientamenti differenti: un orientamento
maggioritario ha sostenuto che l'azione verso la p.a. fosse
subordinata alla condizione del riconoscimento -anche
implicito- dell'utilitas da parte della p.a., promanante dai
suoi organi rappresentativi; un altro orientamento,
minoritario, ha invece sostenuto che quando il
riconoscimento dell'utilitas non sia esplicito non è
richiesto che provenga da organi qualificati della p.a. e
può essere altresì compiuto, in sostituzione della p.a., dal
Giudice.
Il contrasto è stato risolto di recente dalle Sezioni Unite
della Corte di cassazione, che hanno espresso il principio
per cui '... poiché il riconoscimento dell'utilità non
costituisce requisito dell'azione di indebito arricchimento,
il privato attore ex art. 2041 c.c., nei confronti della
p.a. deve provare -il giudice accertare- il fatto oggettivo
dell'arricchimento, senza che l'amministrazione possa
opporre il mancato riconoscimento dello stesso, potendo
essa, piuttosto, eccepire e dimostrare che l'arricchimento
non fu voluto o non fu consapevole'.
Il Comune chiede un parere in ordine alla possibilità di
esperire azione di indebito arricchimento nei confronti
degli enti pubblici.
Ai sensi dell'art. 2041 c.c., chi senza una giusta causa, si
è arricchito a danno di un'altra persona è tenuto, nei
limiti dell'arricchimento, a indennizzare quest'ultima della
correlativa diminuzione patrimoniale. Per il successivo art.
2042 c.c. l'azione di arricchimento non è proponibile quando
il danneggiato può esercitare un'altra azione per farsi
indennizzare del pregiudizio subito.
Presupposti dell'azione di arricchimento sono
l'arricchimento di un soggetto e la diminuzione patrimoniale
di un altro soggetto in conseguenza di un medesimo fatto
[1], in
mancanza di una causa giustificativa dell'arricchimento
dell'un soggetto e impoverimento dell'altro.
Caratteristiche dell'azione di arricchimento sono la
generalità, nel senso che potenzialmente può derivare da un
numero illimitato di fatti giuridici, e la sussidiarietà,
nel senso che detta azione non è proponibile quando il
danneggiato può esercitare un'altra azione per farsi
indennizzare del pregiudizio subito (art. 2042 c.c.)
[2].
Per quanto concerne l'azione di arricchimento nei confronti
della p.a., la giurisprudenza di legittimità ha espresso nel
corso degli anni due orientamenti differenti, composti, da
ultimo, dall'arresto delle Sezioni Unite della Corte di
Cassazione 26.05.2015, n. 10798.
Si ritiene dunque utile riportare le considerazioni espresse
dalla Suprema Corte in sede di molteplici giudizi per
indebito arricchimento instaurati da soggetti privati nei
confronti di soggetti pubblici, per l'utilità che le stesse
possono apportare all'esame, in generale, della
proponibilità dell'azione di arricchimento nei confronti di
un ente pubblico.
L'orientamento prevalente, fino alla sentenza delle Sezioni
Unite, ha sostenuto che l'azione di arricchimento verso la
p.a. differisce da quella ordinaria, in quanto presuppone
non solo il fatto materiale dell'esecuzione di un'opera o di
una prestazione vantaggiosa per la p.a., ma anche il
riconoscimento da parte di questa dell'utilità dell'opera o
della prestazione, in relazione alle proprie finalità
istituzionali. Tale riconoscimento, che sostituisce il
requisito dell'arricchimento previsto dall'art. 2041 c.c.
nei rapporti tra privati, può avvenire in maniera esplicita,
cioè con un atto formale, ma può anche risultare per
implicito mediante utilizzazione della prestazione
consapevolmente attuata dagli organi rappresentativi
dell'ente [3].
In particolare, proprio la configurazione del riconoscimento
dell'utilità dell'opera o della prestazione come un atto di
volontà della P.A. comporta, per questo orientamento, che il
relativo giudizio resti affidato esclusivamente alla p.a.,
l'unica legittimata ad esprimere l'apprezzamento circa la
rispondenza diretta della cosa o della prestazione al
pubblico interesse [4].
Il Giudice ordinario può essere solo chiamato ad accertare
l'esistenza del riconoscimento, in qualunque modo si sia
manifestato, ed in quale misura l'opera o la prestazione del
terzo siano state effettivamente utilizzate
[5].
Sulla base di questa impostazione, l'orientamento richiamato
ritiene che, in caso di instaurazione di giudizio, nel
termine decennale di prescrizione dell'azione decorrente dal
riconoscimento dell'utilitas da parte della p.a.
[6],
competa alla parte attorea fornire la prova del duplice
presupposto dell'azione di indebito arricchimento verso la
p.a. (fatto materiale [7]
e riconoscimento -anche implicito- dell'utilitas da parte
della p.a. [8]).
Un altro orientamento della Suprema corte, invero
minoritario, ha invece sostenuto che quando il
riconoscimento dell'utilitas non sia esplicito non è
richiesto che provenga formalmente da organi qualificati
della p.a., e può essere altresì compiuto, in sostituzione
della p.a., dal Giudice, il quale ha il potere di accertare
se e in che misura l'opera o la prestazione siano state
effettivamente utilizzate dall'ente pubblico
[9].
A dirimere il contrasto giurisprudenziale, sono intervenute
di recente le Sezioni Unite della Corte di cassazione
[10], le
quali hanno ritenuto l'erroneità, ai fini dell'azione di
arricchimento, del necessario riconoscimento dell'utilità
dell'opera da parte dell'ente pubblico e, in specie, dei
suoi organi rappresentativi, sostenuto dalla Corte
territoriale, ed hanno affermato il principio di diritto
secondo cui: '...poiché il riconoscimento dell'utilità
non costituisce requisito dell'azione di indebito
arricchimento, il privato attore ex art. 2041 c.c., nei
confronti della p.a. deve provare -e il giudice accertare-
il fatto oggettivo dell'arricchimento, senza che
l'amministrazione possa opporre il mancato riconoscimento
dello stesso, potendo essa, piuttosto, eccepire e dimostrare
che l'arricchimento non fu voluto o non fu consapevole'.
---------------
[1] Ad es., aver reso un servizio o aver realizzato
un'opera in favore di altri, che se ne sono avvalsi, senza
essere remunerato.
[2] E così, se il depauperamento deriva da fatto illecito,
trova applicazione l'art. 2043 c.c., in tema di
responsabilità extracontrattuale. Così come, la titolarità
di un'azione contrattuale in capo alla p.a., in forza di uno
schema negoziale idoneo ad impegnarla contrattualmente,
rende inammissibile l'azione di indebito arricchimento (v.
Cass. civ., sez. I, 12.02.2010, n. 3322; Cass. civ., sez.
III, 25.01.1994, n. 715). In particolare, dalla nullità di
un contratto di cui sia parte una p.a., per mancanza del
requisito della forma scritta, pacificamente richiesto ad
substantiam, discende la proponibilità della sussidiaria
azione generale di arricchimento (Cass. civ., sez. I,
17.05.1986, n. 3268; Cass. civ., sez. I, 12.05.1995, n.
5179).
[3] Tra le tante, v. Cass. civ., sez. I, 18.04.2013, n.
9486; Cass. civ., sez. I, 24.10.2011, n. 21962 e Cass. civ.,
sez. II, 31.01.2008, n. 2312, secondo cui il riconoscimento
dell'utilitas postula un'inequivoca, ancorché implicita,
manifestazione di volontà consapevole promanante da organi
rappresentativi dell'amministrazione interessata, non
potendo il riconoscimento dell'utilitas desumersi dalla mera
acquisizione della prestazione e dalla successiva
utilizzazione della stessa; Cass. civ., sez. I, 20.04.2004,
n. 16348; Cass. civ., sez. I, 07.03.2014, n. 5397; Cass.
civ., sez. III, 27.07.2002, n. 11133; Cass. civ., sez. III,
14.10.2008, n. 25156; Cass. civ. n. 3322/2010, cit.; Cass.
civ., sez. II, 27.02.1991, n. 2111; Cass. civ., sez. I,
12.09.1992, n. 10433; Cass. civ., sez. I, 11.09.1999, n.
9690; Cass. Civ., sez. III, 11.11.1994, n. 9458; Cass. civ.,
sez. I, 12.11.2003, n. 17028; Cass. civ., sez. III,
23.07.2003, n. 11454, Cass. civ., sez. I, 02.09.2005, n.
17703 e Cass. civ., sez. I, 20.08.2004, n. 16348, secondo
cui il vantaggio goduto dalla p.a. non deve avere
necessariamente un contenuto di diretto incremento
patrimoniale, ma può consistere in qualsiasi forma di
utilizzazione della prestazione consapevolmente attuata
dalla p.a.; Cass. civ. sez. III, 27.06.2002, n. 9348.
[4] Cass. civ., sez. I, 18.04.2013, n. 9486; Cass. civ.,
sez. I, 23.04.2002, n. 5900; Cass. civ. n. 3322/2010, cit.;
Cass. civ., sez. I, 10.12.1994, n. 10567; Cass. Civ., sez.
III, 25.02.2004, n. 3811; Cass. civ., sez. II, 31.01.2008,
n. 2312; Cass. Civ., Sez. lav., 18.03.2004, n. 5506, secondo
cui l'apprezzamento della p.a. sull'utilitas della
prestazione al pubblico interesse non può essere sostituito
da un accertamento del Giudice ordinario, il quale verrebbe
indebitamente a sovrapporsi alla valutazione della p.a.
circa l'utilità di un bene in senso lato in vista dei suoi
fini pubblici istituzionali.
[5] Cass. Civ., n. 3811/2004, cit.; Cass. civ., n.
10567/1994, cit.; Cass. civ., n. 25156/2008, cit..
[6] Cass. civ., sez. I, 14.04.2011, n. 8537.
[7] Esecuzione di un'opera o di una prestazione in favore
dell'ente pubblico.
[8] Cass. civ., sez. I, 26.04.1999, n. 4125; Cass. civ.,
sez. II, 02.04.1999, n. 3222.
[9] Cfr. Cass. civ., sez. III, 16.05.2006, n. 11368; Cass.
civ., sez. I, 24.09.2007, n. 19572; Cass. civ., sez. III,
21.04.2011, n. 9141. Più mite sul riconoscimento implicito
dell'utilitas da parte della p.a. anche da organi non
rappresentativi, Cass. civ., sez. I, 09.03.2006, n. 5069,
secondo cui, se, di regola, il riconoscimento, anche
implicito, dell'utilità deve provenire dagli organi
rappresentativi dell'ente pubblico, non può escludersi
un'attenuazione di tale esigenza in considerazione, da una
parte, della natura o del modesto contenuto economico del
rapporto e, dall'altra della eventuale complessa
organizzazione dell'ente. In tali casi, ben può ritenersi
legittima un'iniziativa lasciata ai soggetti che presiedono
all'esecuzione dell'opera della cui utilità si tratta.
[10] Cass. civ., sez. un., 26.05.2015, n. 10798/2015, cit.
(14.07.2016 -
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PATRIMONIO:
Acquisizione immobile.
La disposizione di cui all'art. 12,
comma 1-ter, D.L. n. 98/2011, prevede per le pubbliche
amministrazioni un regime di limitazione per gli acquisti di
immobili a decorrere dall'01.01.2014.
La Corte dei conti ha di recente affermato la sottrazione
delle acquisizioni di immobili mediante procedura
espropriativa per pubblica utilità dal campo di applicazione
del comma 1-ter, argomentando, tra l'altro dall'art. 10-bis,
DL n. 35/2013, che ha escluso le procedure espropriative dal
divieto di acquisto di immobili previsto dal comma 1-quater
del suddetto art. 12, per l'anno 2013, e dall'essere i
presupposti dell'indispensabilità e indilazionabilità,
richiesti dal comma 1-ter per la legittimazione degli
acquisti, insiti all'interno della disciplina delle
espropriazioni.
Altro orientamento della Corte dei conti ha invece osservato
come dall'art. 10-bis richiamato non risultino individuate
eccezioni alle previsioni del comma 1-ter, affermando
peraltro la sottrazione al divieto di acquisto di immobili
ivi previsto delle procedure espropriative già in corso.
Il Comune, interessato ad acquistare un immobile vincolato
ai sensi della D.Lgs. n. 42/2004 [1]
e attualmente posto all'asta dal curatore fallimentare,
chiede se può procedere, tenuto conto dei limiti in materia
posti dalla normativa statale vigente [2],
ipotizzando in particolare la possibilità di ricorrere alla
procedura espropriativa (D.P.R. n. 327/2001
[3]) o
all'acquisto in via di prelazione, da attuarsi ai sensi del
D.Lgs. n. 42/2004 [4].
L'art. 12, comma 1-ter, D.L. n. 98/2011 [5],
prevede che, a decorrere dall'01.01.2014, al fine di
pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli
già previsti dal patto di stabilità interno, gli enti
territoriali (e gli enti del Servizio sanitario nazionale)
effettuano operazioni di acquisto di immobili solo ove ne
siano comprovate documentalmente l'indispensabilità e l'indilazionabilità
[6]
attestate dal responsabile del procedimento. La congruità
del prezzo è attestata dall'Agenzia del demanio
[7].
A fronte del quadro normativo richiamato, l'Ente ipotizza
l'acquisizione dell'immobile mediante procedura
espropriativa, ai sensi del D.P.R. n. 327/2001, o
esercitando il diritto di prelazione, ai sensi dell'art. 60,
D.Lgs. n. 42/2004.
La procedura espropriativa, come modalità di acquisizione di
immobili da parte delle p.a., è stata posta dal legislatore
come fattispecie derogatoria alla previgente norma di
divieto di acquisto di immobili di cui al comma 1-quater
dell'art. 1 del D.L. n. 98/2011.
Con l'art. 10-bis, del D.L. n. 35/2013, inserito dalla legge
di conversione 06.06.2013, n. 64, il legislatore ha,
infatti, dettato una norma di interpretazione autentica
dell'art. 12, comma 1-quater, D.L. n. 98/2011, escludendo
dal divieto di acquisto ivi previsto, tra l'altro, le 'procedure
relative all'acquisto a titolo oneroso di immobili o terreni
effettuate per pubblica utilità ai sensi del testo unico di
cui al decreto del Presidente della Repubblica 08.06.2001,
n. 327' [8].
Sulla riconducibilità dell'istituto dell'espropriazione per
pubblica utilità nell'ambito di applicazione del comma 1-ter
vigente non vi è ad oggi un orientamento univoco in seno
alla magistratura contabile.
Al riguardo, si è pronunciata espressamente, di recente, la
Corte dei conti Lombardia [9],
nel senso di escludere la procedura espropriativa per
pubblica utilità dal campo di applicazione del comma 1-ter,
argomentando da una serie di considerazioni.
In particolare: dal tenore letterale della norma, che fa
riferimento alle sole ipotesi in cui sia contemplata la
previsione di un prezzo di acquisto e quindi ai soli
acquisti a titolo derivativo in esito a un procedimento
contrattuale e non si applica quindi alle procedure
espropriative; dal fatto che l'indennizzo riconosciuto al
proprietario espropriato e il prezzo di acquisto non sono
sovrapponibili; dall'art. 10-bis, D.L. n. 35/2013,
richiamato che attesta la volontà del legislatore di
escludere dalla disciplina limitativa dell'acquisto di beni
immobili da parte, tra l'altro, degli enti territoriali, le
procedure espropriative; dal fatto che l'applicazione del
comma 1-ter alle procedure espropriative verrebbe a
modificare una disciplina speciale rispetto alla generale
disciplina degli acquisti di beni delle p.a. ed a introdurre
delle limitazioni a funzioni fondamentali dell'ente, quali
quelle della programmazione del territorio e della
pianificazione urbanistica; dal fatto che limiti alla
potestà espropriativa pubblica avrebbero dovuto essere
espressamente individuati dal legislatore, in virtù della
riserva di legge in materia di cui all'art. 42 della
Costituzione.
Considerazioni, queste, che portano la Corte dei conti
Lombardia ad escludere dal campo di applicazione della norma
vincolistica di cui al comma 1-ter le procedure di
espropriazione per pubblica utilità. Con la precisazione,
peraltro, dell'essere i presupposti dell'indispensabilità e
indilazionabilità insiti all'interno della disciplina delle
espropriazioni [10].
Peraltro, va segnalato anche l'orientamento della Corte dei
conti Piemonte, la quale, successivamente alla norma di
interpretazione autentica del comma 1-quater recata
dall'art. 10-bis, D.L. n. 35/2013, osserva che per quanto
riguarda la previsione del comma 1-ter non risultano essere
state identificate eccezioni, alle condizioni ivi indicate,
in sede d'interpretazione autentica. Ed invero, nel caso
sottoposto al suo esame, la Corte dei conti ritiene escluso
dall'applicazione del comma 1-ter il procedimento ablativo,
per la circostanza specifica di essere questo già in corso e
già nello stadio successivo all'approvazione del progetto
definitivo e alla dichiarazione di pubblica utilità, in una
fase cioè, in cui risulta in re ipsa integrato il
requisito di indispensabilità e indilazionabilità richiesto
dal comma 1-ter citato [11].
Venendo all'istituto del diritto di prelazione, in mancanza
di una norma o di indicazioni ministeriali che valgano a
conciliare il suo esercizio con l'acquisto di immobili
vincolato al rispetto delle condizioni previste dal comma
1-ter, ci si rifà ancora alle riflessioni offerte dalla
giurisprudenza.
Prima dell'intervento della norma di interpretazione
autentica del comma 1-quater recata dall'art. 10-bis
richiamato, la Corte dei conti ha ritenuto che tale comma
introducesse una fattispecie di impossibilità giuridica
sopravvenuta per factum principis preclusiva
all'esercizio dei diritti di prelazione per l'anno 2013 e
che, negli esercizi successivi, anche questa tipologia di
acquisti immobiliari dovesse soggiacere al requisito
dell'indispensabilità e indilazionabilità
[12].
Successivamente all'introduzione dell'art. 10-bis, la Corte
dei conti ha affermato che l'esercizio del diritto di
prelazione in favore degli enti pubblici territoriali,
dettato dall'art. 60 del D.Lgs. n. 42/2004, 'deve
ritenersi sottratto dal campo di applicazione della norma
introdotta dal comma 138 della legge di stabilità 2013 che
vieta l'acquisto di immobili a titolo oneroso poiché
espressione di una potestà autoritativa di preminente
rilevanza pubblica dell'amministrazione che non si colloca
in posizione di parità con i privati'
[13].
Peraltro, la pronuncia di apertura della Corte dei conti
sembra essere riferita al solo comma 1-quater, mentre con
specifico riferimento al vigente comma 1-ter non si
rinvengono deliberazioni specifiche nel senso di ritenere
escluso dal suo ambito di applicazione gli acquisti in via
di prelazione.
---------------
[1] D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, recante: 'Codice dei beni
culturali e del paesaggio, ai sensi dell'art. 10 della legge
06.07.2002, n. 137'.
[2] Il Comune precisa di non disporre di contributo
regionale per l'acquisto di detto immobile, sicché non può
venire in considerazione la normativa regionale di cui
all'art. 11, comma 11, L.R. n. 5/2013, secondo cui le
disposizioni di cui all'art. 12, D.L. n. 98/2011, come
modificato dall'art. 1, comma 138, L. n. 228/2012, non si
applicano agli enti locali della Regione per gli acquisti di
immobili finanziati in tutto o in parte con legge regionale.
[3] D.P.R. 08.06.2001, n. 327, recante: 'Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia di
espropriazione per pubblica utilità. (Testo A)'.
[4] L'art. 60 del D.Lgs. n. 42/2004 disciplina l'acquisto in
via di prelazione degli enti territoriali.
[5] Attualmente non è più vigente la norma imperativa che
vietava l'acquisto di beni immobili, nell'anno 2013, da
parte delle pp.aa., contenuta nel comma 1-quater dell'art.
12, D.L. n. 98/2011, introdotto dall'art. 1, c. 138, L. n.
228/2012 (cfr. Corte dei conti, sez. reg. contr., Lombardia,
deliberazione 05.03.2014, n. 97) e su cui era intervenuta
una norma di interpretazione autentica (art. 10-bis, c. 1,
D.L. n. 35/2013), di cui si dirà nel prosieguo.
[6] Sul piano della casistica, la Corte dei conti ha
ritenuto legittimi gli acquisti di immobili, ai sensi del
comma 1-ter, ove realizzati a conclusione di procedimenti
espropriativi in corso, sul presupposto che la loro
instaurazione sia stata giustificata proprio dalla necessità
di soddisfare interessi pubblici assolutamente primari (Cfr.
Corte dei conti, sez. reg. contr. Liguria, 25.01.2013, n. 9;
Corte dei conti, sez. reg. contr. Piemonte, 21.11.2013, n.
402).
[7] Con la previsione dell'attestazione del prezzo da parte
dell'Agenzia del demanio, il legislatore ha inteso tutelare
l'Amministrazione procedente con riferimento alla puntuale
determinazione del prezzo d'acquisto, affidando la congruità
dell'importo ad un soggetto terzo e altamente qualificato in
materia di attività tecnico-estimali (Cfr. Agenzia del
demanio, circolare n. 29348 del 09.12.2013).
[8] Si riporta il testo dell'art. 10-bis in commento: 'Nel
rispetto del patto di stabilità interno, il divieto di
acquistare immobili a titolo oneroso, di cui all'articolo
12, comma 1-quater, del decreto-legge 06.07.2011, n. 98,
convertito, con modificazioni, dalla legge 15.07.2011, n.
111, non si applica alle procedure relative all'acquisto a
titolo oneroso di immobili o terreni effettuate per pubblica
utilità ai sensi del testo unico di cui al decreto del
Presidente della Repubblica 08.06.2001, n. 327, nonché alle
permute a parità di prezzo e alle operazioni di acquisto
programmate da delibere assunte prima del 31.12.2012 dai
competenti organi degli enti locali e che individuano con
esattezza i compendi immobiliari oggetto delle operazioni e
alle procedure relative a convenzioni urbanistiche previste
dalle normative regionali e provinciali'.
[9] Corte dei conti Lombardia, 05.03.2014, n. 97, che
richiama in tal senso Corte dei conti Veneto deliberazione
12 giugno 2013, n. 148, che già si era espressa nel senso di
escludere dal campo di applicazione del comma 1-ter le
procedure espropriative.
[10] La Corte dei conti Lombardia osserva, al riguardo, che
all'interno del procedimento espropriativo trovano adeguata
considerazione le prerogative enunciate dal comma 1-ter
dell'indispensabilità e indilazionabilità, quali
legittimanti le operazioni di acquisto di beni immobili. Ai
sensi dell'art. 42, co. 3, Cost., infatti, l'espropriazione
è consentita nei casi previsti dalla legge, per motivi di
interesse generale: interesse pubblico che deve essere
attuale e 'indispensabile per far fronte a bisogni che, pure
se destinati a concretarsi in futuro e a essere soddisfatti
soltanto col decorso del tempo, presentino tuttavia fin dal
momento attuale quel sufficiente punto di concretezza che
valga a far considerare necessario e tempestivo il
sacrificio della proprietà privata nell'ora presente' (Corte
costituzionale 06.07.1996, n. 90, richiamata dal magistrato
contabile lombardo).
[11] Corte dei conti, sez. reg. contr. Piemonte, 21.11.2013,
n. 402, la quale osserva che la ratio della deroga,
espressamente disposta per il 2013, dall'art. 10-bis, D.L.
n. 35/2013, a favore delle procedure espropriative,
risulterebbe vanificata se poi, per la prosecuzione delle
stesse nell'esercizio 2014, fossero richieste le restrittive
condizioni di cui al comma 1-ter.
[12] Corte dei conti, sez. reg. contr., Liguria, 25.01.2013,
n. 9, richiamata da Corte dei conti, sez. reg. contr.,
Basilicata 05.03.2013, n. 36.
[13] Corte dei conti, sez. reg. contr., Puglia,
deliberazione 19.09.2013, n. 143, la quale ricorda di avere
ritenuto escluse dal divieto di acquisto di immobili a
titolo oneroso, per l'anno 2013, le procedure espropriative
ancor prima che lo esplicitasse il legislatore, proprio
sostenendo il riferimento di detta norma ai soli casi in cui
le amministrazioni pubbliche agiscono iure privatorum al
pari dei soggetti privati (il riferimento è a Corte dei
conti, sez. reg. contr., Puglia, 03.05.2013, n. 89) (06.07.2016
-
link a
www.regione.fvg.it). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Il Comune ha violato le garanzie previste
dall’art. 19, comma 4, legge n. 241 del 1990 che in presenza
di una s.c.i.a. illegittima, consente certamente
all’Amministrazione di intervenire anche oltre il termine
perentorio di 60 giorni (30 giorni in materia edilizia)
previsto dal comma 3, ma solo alle condizioni -e seguendo il
procedimento- cui la legge subordina l’esercizio del potere
di annullamento d’ufficio dei provvedimenti amministrativi
e, quindi, tenendo conto, oltre che degli eventuali profili
di illegittimità dell’attività assentita per effetto della
s.c.i.a. ormai perfezionatasi, dell’affidamento ingeneratosi
in capo al privato per effetto del decorso del tempo, e,
comunque, esternando le ragioni di interesse pubblico a
sostegno del provvedimento repressivo.
Invero, la d.i.a./s.c.i.a., una volta decorsi i termini per
l’esercizio del potere inibitorio-repressivo, costituisce un
titolo abilitativo valido ed efficace (sotto tale profilo
equiparabile quoad effectum al rilascio del provvedimento
espresso), che può essere rimosso, per espressa previsione
legislativa, solo attraverso l’esercizio del potere di
autotutela decisoria nel rispetto delle prescrizioni recate
dall’art. 19, comma 4, della legge n. 241/1990.
Pertanto, scaduto il termine perentorio previsto dalla legge
per verificare la sussistenza dei relativi presupposti, deve
considerarsi illegittima l’adozione di un provvedimento
repressivo/ripristinatorio o di autotutela adottato senza le
garanzie e i presupposti richiesti dall’art. 21-nonies l. n.
241/1990 per l’esercizio del potere di annullamento
d’ufficio.
---------------
Con ricorso, integrato da motivi aggiunti, la società
ricorrente ha impugnato gli atti con i quali il Comune di
Venezia ha rimosso in autotutela gli effetti legittimanti
della s.c.i.a. presentata, in data 18.03.2015, in relazione
all'attività di affittacamere esercitata in Venezia, Via...
n. ..., e le ha intimato la chiusura dell’attività
ricettiva.
Resiste il Comune di Venezia contrastando le avverse
pretese.
Il ricorso e i motivi aggiunti meritano accoglimento per una
duplice e assorbente ragione.
In primo luogo perché gli atti impugnati, ovvero il
cd. annullamento in autotutela della s.c.i.a. e la
successiva diffida alla chiusura dell’attività di
affittacamere, diversamente da quanto sostenuto dal Comune
nei propri scritti difensivi, non appaiono fondati sui
verbali di accertamento conseguenti ai sopralluoghi
effettuati dalla Polizia Municipale in data 9 luglio e
26.11.2015 (neppure menzionati nei provvedimenti impugnati),
bensì su violazioni minori, molte delle quali risalenti al
2007.
Vi è dunque una sfasatura tra la struttura argomentativa dei
provvedimenti impugnati, che non risultano incentrati sulle
violazioni riscontrate dalla Polizia Municipale in data 9
luglio e 26.11.2015, e le difese svolte in giudizio
dall’Ente Locale, che cercano di giustificare l’operato del
Comune richiamando le violazioni accertate in esito a tali
sopralluoghi.
In secondo luogo -e il rilievo è dirimente, comunque
s’interpretino i provvedimenti impugnati- perché l’atto del
05.02.2016, che ha rimosso in autotutela gli effetti
legittimanti della s.c.i.a. presentata dalla ricorrente il
18.03.2015, non contiene una puntuale e specifica
motivazione in ordine alle ragioni d’interesse pubblico,
attuale e concreto, diverse dal ripristino della legalità
violata, poste a fondamento dell’esercizio del potere di
autotutela decisoria.
Il Comune ha violato le garanzie previste dall’art. 19,
comma 4, legge n. 241 del 1990 che in presenza di una
s.c.i.a. illegittima, consente certamente
all’Amministrazione di intervenire anche oltre il termine
perentorio di 60 giorni (30 giorni in materia edilizia)
previsto dal comma 3, ma solo alle condizioni -e seguendo il
procedimento- cui la legge subordina l’esercizio del potere
di annullamento d’ufficio dei provvedimenti amministrativi
e, quindi, tenendo conto, oltre che degli eventuali profili
di illegittimità dell’attività assentita per effetto della
s.c.i.a. ormai perfezionatasi, dell’affidamento ingeneratosi
in capo al privato per effetto del decorso del tempo, e,
comunque, esternando le ragioni di interesse pubblico a
sostegno del provvedimento repressivo.
La d.i.a./s.c.i.a., una volta decorsi i termini per
l’esercizio del potere inibitorio-repressivo, costituisce un
titolo abilitativo valido ed efficace (sotto tale profilo
equiparabile quoad effectum al rilascio del
provvedimento espresso), che può essere rimosso, per
espressa previsione legislativa, solo attraverso l’esercizio
del potere di autotutela decisoria nel rispetto delle
prescrizioni recate dall’art. 19, comma 4, della legge n.
241/1990. Pertanto, scaduto il termine perentorio previsto
dalla legge per verificare la sussistenza dei relativi
presupposti, deve considerarsi illegittima l’adozione di un
provvedimento repressivo/ripristinatorio o di autotutela
adottato senza le garanzie e i presupposti richiesti
dall’art. 21-nonies l. n. 241/1990 per l’esercizio del
potere di annullamento d’ufficio (cfr., in questi termini,
Cons. Stato, sez. VI, 22.09.2014, n. 4780; TAR Lazio-Roma,
08.01.2015, n. 192; TAR Veneto, Sez. III, 10.09.2015, n.
958).
All’accoglimento del ricorso e dei motivi aggiunti consegue
l’annullamento degli atti impugnati (TAR Veneto, Sez. III,
sentenza 26.07.2016 n. 893 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Il Tar Milano si pronuncia sulle conseguenze della mancata
adesione al soccorso istruttorio in materia di appalti
pubblici nell'applicazione della disciplina abrogata e del
nuovo codice dei contratti.
Appalti pubblici – Soccorso istruttorio
- Mancata adesione – Conseguenze.
Appalti pubblici – Soccorso istruttorio - Mancata adesione -
Disciplina interna ed euro unitaria – Art. 38, comma 2-bis,
d.lgs. n. 163 del 2006 – Contrasto con la disciplina europea
– Esclusione – Ratio.
Appalti pubblici – Soccorso istruttorio - Art. 83, comma 9,
d.lgs. n. 50 del 2016 – Adesione alla disciplina europea.
...
Ai sensi dell’art. 38, comma 2-bis,
d.lgs. 12.04.2006, n. 163, l’essenzialità dell’irregolarità
determina in sé per sé l’obbligo del concorrente di pagare
la sanzione pecuniaria prevista dal bando, a prescindere
dalla circostanza che questi aderisca o meno all’invito, che
la stazione appaltante deve necessariamente fargli, di
sanare detta irregolarità.
L’art. 38, comma 2-bis, d.lgs. 12.04.2006, n. 163, non si
pone in contrasto con l’ordinamento dell’Unione Europea, in
quanto la direttiva 2014/24/UE, non rivestendo la qualifica
di “self executing”, non poteva trovare applicazione diretta
nell’ordinamento giuridico prima del suo recepimento
nell’ordinamento interno.
La nuova disciplina del soccorso istruttorio in materia di
appalti pubblici, di cui all’art. 83, comma 9, d.lgs.
18.04.2016, n. 50, nella parte in cui non prevede l’obbligo
del pagamento della sanzione nel caso di mancata
regolarizzazione, risulta del tutto conforme alla direttiva
2014/24/UE.
---------------
La sentenza in commento formula i principi di diritto di cui
in massima, pronunciandosi sulle conseguenze della mancata
adesione al soccorso istruttorio in materia di appalti
pubblici nell'applicazione della disciplina abrogata e del
nuovo codice dei contratti pubblici.
Il Tar Milano, con la sentenza segnalata, ha aderito
all’orientamento maggioritario formatosi in relazione
all’interpretazione dell’art. 38, comma 2-bis, d.lgs.
12.04.2006, n. 163, come inserito dall'art. 39, comma 1,
d.l. 24.06.2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla
l. 11.08.2014, n. 114, testo non più in vigore, ma
applicabile alla fattispecie in questione, secondo il quale
le carenze di qualsiasi elemento formale della domanda
possono essere sanate attraverso la procedura di soccorso
istruttorio ed implicano, comunque, il pagamento della
sanzione pecuniaria, anche nel caso di mancata adesione al
medesimo soccorso istruttorio e di conseguente esclusione
dalla procedura concorsuale.
Tale conclusione si ricava, innanzitutto, dalla lettera
della disposizione normativa, per la quale l’essenzialità
dell’irregolarità determina in sé e per sé l’obbligo del
concorrente di pagare la sanzione pecuniaria prevista dal
bando, a prescindere dalla circostanza che questi aderisca o
meno all’invito, che la stazione appaltante deve
necessariamente fargli, di sanare detta irregolarità.
Solamente quando l’irregolarità non è essenziale, il
concorrente non è tenuto al pagamento della sanzione
pecuniaria e la stazione appaltante al soccorso istruttorio.
Tale conclusione è giustificata anche dalla ratio di
garantire la serietà delle offerte presentate, per favorire
la responsabilizzazione dei concorrenti, per evitare spreco
di risorse. Il nuovo comma 2-bis dell’art. 38 citato ha,
invero, introdotto una sanzione pecuniaria, che non è
alternativa e sostitutiva rispetto all’esclusione, ma
colpisce l’irregolarità essenziale, in sé per sé
considerata, indipendentemente dal fatto che essa venga
successivamente sanata o meno dall’impresa interessata.
L’introduzione della sanzione pecuniaria, in caso di
irregolarità essenziali nelle dichiarazioni sostitutive,
quindi, contribuisce a garantire la celere e sicura verifica
del possesso dei requisiti di partecipazione in capo ai
concorrenti, in un’ottica di buon andamento ed economicità
dell’azione amministrativa, a cui devono concorrere anche i
partecipanti alla gara, in ossequio ai principi di leale
cooperazione, di correttezza e di buona fede. L’esclusione,
invece, consegue all’effettiva mancanza dei requisiti di
partecipazione o, comunque, alla mancata regolarizzazione e
integrazione delle dichiarazioni carenti (Tar L’Aquila
25.11.2015, n. 784).
Ha aggiunto il Tar Milano che, in relazione al paventato
contrasto della norma con il diritto comunitario, la
direttiva 2014/24/UE sugli appalti pubblici, né al
considerando n. 84, né agli artt. 56, comma 3 e 59,
paragrafo 4, subordina l’esercizio del soccorso istruttorio
al pagamento di una sanzione pecuniaria, ma solamente
all’osservanza dei principi di parità di trattamento e
trasparenza; introdurre un tale obbligo significherebbe,
dunque, violare il divieto di gold plating, stabilito
dall’art. 1, l. 28.01.2016, n. 11 tra i criteri e principi
direttivi per l’attuazione delle deleghe in materia di
attuazione delle direttive europee sui contratti e sulle
concessioni pubbliche, che impone il divieto di introdurre
livelli di regolazione superiori a quelli imposti dalle
direttive europee da recepire.
Il Tar ha ritenuto, tuttavia, che tale contrasto non potesse
ancora ravvisarsi al momento degli accadimenti di cui è
causa, atteso che la direttiva 2014/24/UE, adottata il
26.02.2014 e secondo quanto disposto dall’art. 92, entrata
in vigore il ventesimo giorno successivo alla pubblicazione
nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea, avvenuta il
17.04.2014, doveva essere recepita negli ordinamenti
interni, ai sensi dell’art. 90 della medesima direttiva,
entro il 18.04.2016.
Come chiarito dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato
(sez. III, 25.11.2015, n. 5359; sez. V, 11.09.2015, n. 4253;
sez. VI, 26.05.2015, n. 2660) la stessa, non rivestendo la
qualifica di self executing, non poteva trovare
applicazione diretta nell’ordinamento giuridico. Pur essendo
dotata di giuridica rilevanza, essa non avrebbe potuto,
dunque, imporre un vincolo di interpretazione conforme del
diritto nazionale tale da stravolgerne il significato
letterale.
La nuova disciplina del soccorso istruttorio in materia di
appalti pubblici di cui all’art. 83, comma 9, d.lgs.
18.04.2016, n. 50, risulta emendata proprio nel senso di non
prevedere più l’obbligo del pagamento della sanzione nel
caso di mancata regolarizzazione.
In tale parte la stessa risulta, dunque, del tutto conforme
alla direttiva 2014/24/UE (TAR
Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 14.07.2016 n. 1423 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
Il collegio, dopo un’approfondita delibazione degli atti
della controversia, ritiene di aderire al maggioritario
orientamento formatosi in relazione all’interpretazione
dell’art. 38, comma 2-bis, del d.lgs. n. 163/2006, come
inserito dall'art. 39, comma 1, del d.l. 24.06.2014, n.
90, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.08.2014, n. 114, testo non più in vigore, ma applicabile alla
fattispecie in questione, che così recitava: “La mancanza,
l'incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale degli
elementi e delle dichiarazioni sostitutive di cui al comma 2
obbliga il concorrente che vi ha dato causa al pagamento, in
favore della stazione appaltante, della sanzione pecuniaria
stabilita dal bando di gara, in misura non inferiore all'uno
per mille e non superiore all'uno per cento del valore della
gara e comunque non superiore a 50.000 euro, il cui
versamento è garantito dalla cauzione provvisoria. In tal
caso, la stazione appaltante assegna al concorrente un
termine, non superiore a dieci giorni, perché siano rese,
integrate o regolarizzate le dichiarazioni necessarie,
indicandone il contenuto e i soggetti che le devono rendere.
Nei casi di irregolarità non essenziali, ovvero di mancanza
o incompletezza di dichiarazioni non indispensabili, la
stazione appaltante non ne richiede la regolarizzazione, né
applica alcuna sanzione. In caso di inutile decorso del
termine di cui al secondo periodo il concorrente è escluso
dalla gara (…)”.
Ed invero, secondo tale maggioritario orientamento
giurisprudenziale: “In primo luogo, soccorre l’argomento
testuale. Il comma 2-bis dell’art. 38 del d.lgs. n. 163 del
2006, infatti, chiarisce che è la mancanza, l'incompletezza
e ogni altra irregolarità essenziale nelle dichiarazioni
sostitutive volte ad accertare i requisiti di partecipazione
alle procedure di gara, in sé per sé considerate, ad
obbligare il concorrente che vi ha dato causa al pagamento,
in favore della stazione appaltante, della sanzione
pecuniaria stabilita dal bando di gara.
Qualora l’irregolarità in cui è incorso il concorrente sia
essenziale, infatti, la disposizione prevede, da un lato, il
pagamento della sanzione pecuniaria nell’importo stabilito
dal bando di gara e garantito dalla cauzione provvisoria,
dall’altro, che la stazione appaltante assegni al
concorrente un termine, non superiore a dieci giorni, perché
siano rese, integrate o regolarizzate le dichiarazioni
necessarie, indicandone il contenuto e i soggetti che le
devono rendere. Se poi il termine decorre inutilmente, senza
che il concorrente provveda alla regolarizzazione o
integrazione richiesta, questi verrà altresì escluso dalla
procedura di gara".
In conclusione, appare evidente dalla lettera della
disposizione che
l’essenzialità dell’irregolarità determina
in sé per sé l’obbligo del concorrente di pagare la sanzione
pecuniaria prevista dal bando, a prescindere dalla
circostanza che questi aderisca o meno all’invito, che la
stazione appaltante deve necessariamente fargli, di sanare
detta irregolarità.
Solamente quando l’irregolarità non è essenziale, il
concorrente non è tenuto al pagamento della sanzione
pecuniaria e la stazione appaltante al soccorso istruttorio.
L’esclusione, invece, è una conseguenza sanzionatoria
diversa e in parte autonoma da quella pecuniaria, nel senso
che il concorrente vi incorrerà solamente in caso di mancata
ottemperanza all’invito alla regolarizzazione da parte della
stazione appaltante.
In secondo luogo,
ritiene il Collegio che questa lettura
ermeneutica sia avvalorata dalla ratio della disposizione
esaminata, la quale, come si è detto, è da ravvisare,
indubbiamente, nell’esigenza di superare le incertezze
interpretative e applicative del combinato disposto degli
artt. 38 e 46 del d.lgs. n. 163 del 2006, mediante la
procedimentalizzazione del potere di soccorso istruttorio,
che è diventato doveroso per ogni ipotesi di mancanza o di
irregolarità delle dichiarazioni sostitutive, anche
“essenziale”.
Il legislatore, insomma, ha voluto evitare, nella fase del
controllo delle dichiarazioni e, quindi, dell'ammissione
alla gara delle offerte presentate, esclusioni dalla
procedura per mere carenze documentali, imponendo
un'istruttoria veloce, preordinata ad acquisire la
completezza delle dichiarazioni, e autorizzando la sanzione
espulsiva solo quale conseguenza dell’inosservanza, da parte
dell'impresa concorrente, all'obbligo di integrazione
documentale entro il termine perentorio accordato, a tal
fine, dalla stazione appaltante.
In tal modo, si è proceduto alla dequalificazione delle
irregolarità dichiarative da fattori escludenti a carenze
regolarizzabili.
Proprio per questo –e in particolare per garantire la
serietà delle offerte presentate, per favorire la
responsabilizzazione dei concorrenti, per evitare spreco di
risorse–
il nuovo comma 2-bis dell’art. 38 citato ha
introdotto una sanzione pecuniaria, che non è alternativa e
sostitutiva rispetto all’esclusione, ma colpisce
l’irregolarità essenziale, in sé per sé considerata,
indipendentemente dal fatto che essa venga successivamente
sanata o meno dall’impresa interessata (in tal senso si veda
anche la relazione del Procuratore Generale della Corte dei
Conti all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2015, secondo
cui appunto “la sanzione è dovuta anche ove il concorrente
decida di non rispondere all’invito a regolarizzare”).
L’introduzione della sanzione pecuniaria, in caso di
irregolarità essenziali nelle dichiarazioni sostitutive,
quindi, contribuisce a garantire la celere e sicura verifica
del possesso dei requisiti di partecipazione in capo ai
concorrenti, in un’ottica di buon andamento ed economicità
dell’azione amministrativa, a cui devono concorrere anche i
partecipanti alla gara, in ossequio ai principi di leale
cooperazione, di correttezza e di buona fede.
L’esclusione, invece, consegue all’effettiva mancanza dei
requisiti di partecipazione o, comunque, alla mancata
regolarizzazione e integrazione delle dichiarazioni carenti”
(TAR Abruzzo, 25.11.2015, n. 784).
In relazione al paventato contrasto della norma con il
diritto comunitario, deve precisarsi che, sul punto, l’ANAC
era intervenuta con la delibera n. 1 dell’08.01.2015,
fornendo un’interpretazione difforme rispetto a quella
appena descritta.
Come chiarito dal suo Presidente con il
successivo comunicato del 23.03.2015 affrontando
nuovamente il tema del giusto raccordo tra l’affermazione
contenuta nella determinazione n. 1/2015, secondo cui “la
sanzione individuata negli atti di gara sarà comminata nel
caso in cui il concorrente intenda avvalersi del nuovo
soccorso istruttorio” e la lettera dell’art. 38, comma
2-bis, d.lgs. 163/2006, laddove questo prevede che
l’operatore economico “è obbligato al pagamento della
sanzione”, la lettura interpretativa fornita dalla
determinazione n. 1 del 2015 “si è imposta come doverosa sia
per evitare eccessive ed immotivate vessazioni delle imprese
sia in ossequio al principio di primazia del diritto
comunitario, che impone di interpretare la normativa interna
in modo conforme a quella comunitaria anche in corso di
recepimento. La direttiva 2014/24/UE sugli appalti pubblici,
infatti, prevede all’art. 59, paragrafo 4, secondo
capoverso, la possibilità di integrare o chiarire i
certificati presentati relativi al possesso sia dei
requisiti generali sia di quelli speciali, senza il
pagamento di alcuna sanzione”.
Ed invero, né al considerando n. 84, secondo cui:
“l’offerente al quale è stato deciso di aggiudicare
l’appalto dovrebbe tuttavia essere tenuto a fornire le prove
pertinenti e le amministrazioni aggiudicatrici non
dovrebbero concludere appalti con offerenti che non sono in
grado di produrre le suddette prove. Le amministrazioni
aggiudicatrici dovrebbero anche avere la facoltà di
richiedere in qualsiasi momento tutti i documenti
complementari o parte di essi se ritengono che ciò sia
necessario per il buon andamento della procedura”,
né
all’art. 56, comma 3, secondo il quale: “Se le informazioni
o la documentazione che gli operatori economici devono
presentare sono o sembrano essere incomplete o non corrette,
o se mancano documenti specifici, le amministrazioni
aggiudicatrici possono chiedere, salvo disposizione
contraria del diritto nazionale che attua la presente
direttiva, agli operatori economici interessati di
presentare, integrare, chiarire o completare le informazioni
o la documentazione in questione entro un termine adeguato,
a condizione che tale richiesta sia effettuata nella piena
osservanza dei principi di parità di trattamento e
trasparenza”,
né, infine, all’art. 59, comma 4, secondo cui:
“l’amministrazione aggiudicatrice può chiedere a offerenti e
candidati, in qualsiasi momento nel corso della procedura,
di presentare tutti i documenti complementari o parte di
essi, qualora questo sia necessario per assicurare il
corretto svolgimento della procedura”,
la direttiva
2014/24/UE subordina l’esercizio del soccorso istruttorio al
pagamento di una sanzione pecuniaria, ma solamente
all’osservanza dei principi di parità di trattamento e
trasparenza.
Introdurre un tale obbligo significherebbe,
dunque, violare il divieto di “gold plating”, stabilito
dall’art. 1 della legge 28.01.2016, n. 11 tra i criteri
e principi direttivi per l’attuazione delle deleghe in
materia di attuazione delle direttive europee sui contratti
e sulle concessioni pubbliche, che impone il divieto di
introdurre livelli di regolazione superiori a quelli imposti
dalle direttive europee da recepire.
Il collegio ritiene, tuttavia, che tale contrasto non
potesse ancora ravvisarsi al momento degli accadimenti di
cui è causa, atteso che la direttiva 2014/24/UE, adottata il
26.02.2014 e secondo quanto disposto dall’art. 92,
entrata in vigore il ventesimo giorno successivo alla
pubblicazione nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea,
avvenuta il 17.04.2014, doveva essere recepita negli
ordinamenti interni, ai sensi dell’art. 90 della medesima
direttiva, entro il 18.04.2016.
Come chiarito dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato
(cfr. Cons. Stato, sez. III, 25.11.2015, n. 5359; sez.
V, 11.09.2015, n. 4253; sez. VI, 26.05.2015, n.
2660) la stessa, non rivestendo la qualifica di “self executing”, non poteva trovare applicazione diretta
nell’ordinamento giuridico.
Pur essendo dotata di giuridica rilevanza, essa non avrebbe
potuto, dunque, imporre un vincolo di interpretazione
conforme del diritto nazionale tale da stravolgerne il
significato letterale.
Deve osservarsi, invero, che il nuovo codice degli appalti
(d.lgs. n. 50/2016), adottato in attuazione delle direttive
2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull'aggiudicazione dei
contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle
procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori
dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi
postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in
materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e
forniture, e pubblicato in Gazz. Uff., S.O., 19.04.2016,
n. 91, prevede, ora, all’art. 83, comma 9, che: “Le carenze
di qualsiasi elemento formale della domanda possono essere
sanate attraverso la procedura di soccorso istruttorio di
cui al presente comma. In particolare, la mancanza,
l'incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale degli
elementi e del documento di gara unico europeo di cui
all'articolo 85, con esclusione di quelle afferenti
all'offerta tecnica ed economica, obbliga il concorrente che
vi ha dato causa al pagamento, in favore della stazione
appaltante, della sanzione pecuniaria stabilita dal bando di
gara, in misura non inferiore all'uno per mille e non
superiore all'uno per cento del valore della gara e comunque
non superiore a 5.000 euro. In tal caso, la stazione
appaltante assegna al concorrente un termine, non superiore
a dieci giorni, perché siano rese, integrate o
regolarizzate le dichiarazioni necessarie, indicandone il
contenuto e i soggetti che le devono rendere, da presentare
contestualmente al documento comprovante l'avvenuto
pagamento della sanzione, a pena di esclusione. La sanzione
e' dovuta esclusivamente in caso di regolarizzazione. Nei
casi di irregolarità formali, ovvero di mancanza o
incompletezza di dichiarazioni non essenziali, la stazione
appaltante ne richiede comunque la regolarizzazione con la
procedura di cui al periodo precedente, ma non applica
alcuna sanzione. In caso di inutile decorso del termine di
regolarizzazione, il concorrente e' escluso dalla gara.
Costituiscono irregolarità essenziali non sanabili le
carenze della documentazione che non consentono
l'individuazione del contenuto o del soggetto responsabile
della stessa”.
La nuova disciplina del soccorso istruttorio in materia di
appalti pubblici risulta, dunque, emendata proprio nel senso
di non prevedere più l’obbligo del pagamento della sanzione
nel caso di mancata regolarizzazione.
In tale parte, quindi,
la norma risulta del tutto conforme alla direttiva
succitata.
Tale testo normativo non può, peraltro, ricevere
applicazione nella fattispecie all’esame del collegio,
atteso che la procedura concorsuale in questione è stata
bandita prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 50/2016. |
AGGIORNAMENTO AL 27.07.2016 |
ã |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE (ex incentivo
progettazione):
ecco il 1°
parere (che si conosca) dopo il varo del "nuovo
codice dei contratti pubblici" ex d.lgs. n.
50/2006 |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE (ex incentivo
progettazione):
Gli incentivi per attività tecniche non
possono essere riconosciuti in favore di dipendenti
interni che svolgano attività di direzione lavori o
di collaudo quando dette attività sono connesse a “lavori
pubblici da realizzarsi da parte di soggetti
privati, titolari di permesso di costruire o di un
altro titolo abilitativo, che assumono in via
diretta l'esecuzione delle opere di urbanizzazione a
scomputo totale o parziale del contributo previsto
per il rilascio del permesso, ai sensi dell'articolo
16, comma 2, del decreto del Presidente della
Repubblica 06.06.2001, n. 380, e dell'articolo 28,
comma 5, della legge 17.08.1942, n. 1150, ovvero
eseguono le relative opere in regime di convenzione”.
---------------
Il Sindaco del Comune di Carate Brianza (MB),
con la nota indicata in epigrafe, ha formulato una
richiesta di parere in merito all'applicabilità
degli incentivi per attività tecniche relative a
opere pubbliche derivanti da opere di
urbanizzazione.
In particolare, chiede a questa Sezione di
esprimere un parere sul seguente quesito: “se
alla luce del combinato disposto dell'art. 1, comma
2, lettera e), e dell'art. 113 sia possibile
prevedere nell'apposito regolamento una forma di
incentivazione almeno per le attività relative alla
direzione lavori e del collaudo per opere pubbliche
derivanti da convenzioni urbanistiche sottoscritte
con soggetti privati per opere di urbanizzazione che
implicano, comunque, l’approvazione dei relativi
progetti da parte degli organi collegiali comunali”.
...
In particolare, il Sindaco del Comune di Carate
Brianza formula il seguente quesito: “se alla
luce del combinato disposto dell'art. 1, comma 2,
lettera e) e dell'art. 113 sia possibile prevedere
nell'apposito regolamento una forma di
incentivazione almeno per le attività relative alla
direzione lavori e del collaudo per opere pubbliche
derivanti da convenzioni urbanistiche sottoscritte
con soggetti privati per opere di urbanizzazione che
implicano, comunque, l’approvazione dei relativi
progetti da parte degli organi collegiali comunali”.
In buona sostanza, l’amministrazione locale istante
chiede se il regolamento comunale possa prevedere
che possano godere degli incentivi previsti
dall’art. 113 d.lgs. n. 50/2016 anche in favore dei
“tecnici interni” che svolgono attività di
direzione lavori e di collaudo per lavori pubblici
realizzati “da parte di soggetti privati,
titolari di permesso di costruire o di un altro
titolo abilitativo, che assumono in via diretta
l'esecuzione delle opere di urbanizzazione a
scomputo totale o parziale del contributo previsto
per il rilascio del permesso”.
Prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 50/2016
(19.04.2016), la disciplina era regolamentata
dall’art. 93, commi 7-ter e ss. del d.lgs. 163/2006,
come introdotti dagli artt. 13 e 13-bis, del d.l.
24.06.2014, n. 90 conv. con modificazioni dalla
legge 11.08.2014, n. 114. Sull’interpretazione del
precedente quadro normativo, tra l’altro, si era
pronunciata più volte la Sezione delle Autonomie con
la
deliberazione 24.03.2015 n. 11,
deliberazione 23.03.2016 n. 10 e, da
ultimo,
deliberazione 13.05.2016 n. 18.
Il d.lgs. n. 50/2016 (in linea con l’art. 1, comma
1, lett. rr della legge-delega 28.01.2016, n. 11)
abolisce gli incentivi alla progettazione previsti
dal previgente art. 93, comma 7-ter, ed introduce,
all’art. 113, nuove forme di “incentivazione per
funzioni tecniche”.
Disposizione, quest’ultima, rinvenibile al Tit. IV
del d.lgs. n. 50/2016 rubricato “Esecuzione”,
che disciplina gli incentivi per funzioni tecniche
svolte da dipendenti esclusivamente per le attività
di programmazione della spesa per investimenti e per
la verifica preventiva dei progetti e, più in
generale, per le attività tecnico-burocratiche,
prima non incentivate, tese ad assicurare
l’efficacia della spesa e la realizzazione corretta
dell’opera.
Il richiamato art. 113 del nuovo codice degli
appalti (d.lgs. n. 50/2016), ai primi tre commi,
alla rubrica “incentivi per funzioni tecniche”
recita: «1. Gli oneri inerenti alla
progettazione, alla direzione dei lavori ovvero al
direttore dell'esecuzione, alla vigilanza, ai
collaudi tecnici e amministrativi ovvero alle
verifiche di conformità, al collaudo statico, agli
studi e alle ricerche connessi, alla progettazione
dei piani di sicurezza e di coordinamento e al
coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione
quando previsti ai sensi del decreto legislativo
09.04.2008 n. 81, alle prestazioni professionali e
specialistiche necessari per la redazione di un
progetto esecutivo completo in ogni dettaglio fanno
carico agli stanziamenti previsti per la
realizzazione dei singoli lavori negli stati di
previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni
appaltanti.
2. A valere sugli stanziamenti di cui al comma 1 le
amministrazioni pubbliche destinano a un apposito
fondo risorse finanziarie in misura non superiore al
2 per cento modulate sull'importo dei lavori posti a
base di gara per le funzioni tecniche svolte dai
dipendenti pubblici esclusivamente per le attività
di programmazione della spesa per investimenti, per
la verifica preventiva dei progetti di
predisposizione e di controllo delle procedure di
bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di
responsabile unico del procedimento, di direzione
dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di
collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica
di conformità, di collaudatore statico ove
necessario per consentire l'esecuzione del contratto
nel rispetto dei documenti a base di gara, del
progetto, dei tempi e costi prestabiliti.
3. L'ottanta per cento delle risorse finanziarie del
fondo costituito ai sensi del comma 2 è ripartito,
per ciascuna opera o lavoro, servizio, fornitura con
le modalità e i criteri previsti in sede di
contrattazione decentrata integrativa del personale,
sulla base di apposito regolamento adottato dalle
amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti,
tra il responsabile unico del procedimento e i
soggetti che svolgono le funzioni tecniche indicate
al comma 1 nonché tra i loro collaboratori. Gli
importi sono comprensivi anche degli oneri
previdenziali e assistenziali a carico
dell'amministrazione. L'amministrazione
aggiudicatrice o l'ente aggiudicatore stabilisce i
criteri e le modalità per la riduzione delle risorse
finanziarie connesse alla singola opera o lavoro a
fronte di eventuali incrementi dei tempi o dei costi
non conformi alle norme del presente decreto. La
corresponsione dell'incentivo è disposta dal
dirigente o dal responsabile di servizio preposto
alla struttura competente, previo accertamento delle
specifiche attività svolte dai predetti dipendenti.
Gli incentivi complessivamente corrisposti nel corso
dell'anno al singolo dipendente, anche da diverse
amministrazioni, non possono superare l'importo del
50 per cento del trattamento economico complessivo
annuo lordo. Le quote parti dell'incentivo
corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi
dipendenti, in quanto affidate a personale esterno
all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero
prive del predetto accertamento, incrementano la
quota del fondo di cui al comma 2. Il presente comma
non si applica al personale con qualifica
dirigenziale».
Come emerge dal dato letterale della norma
richiamata, non vi è dubbio che l’attività di
direzione lavori e quella di collaudo rientrino tra
quelle “incentivate” (si veda in questo senso
il comma 1 dell’art. 113 cit.). In altri termini,
sia l’attività di direzione lavori sia quella di
collaudo rientrano tra gli incarichi tassativamente
indicati dalla norma per le quali spetta in astratto
il diritto del dipendente all’erogazione
dell’incentivo per l’espletamento di attività
tecniche.
Diversamente, bisogna affrontare la questione
ermeneutica se gli incentivi in questione possano
essere erogati per dette attività quando le stesse
sono comportino “lavori pubblici da realizzarsi
da parte di soggetti privati, titolari di permesso
di costruire o di un altro titolo abilitativo, che
assumono in via diretta l'esecuzione delle opere di
urbanizzazione a scomputo totale o parziale del
contributo previsto per il rilascio del permesso, ai
sensi dell'articolo 16, comma 2, del decreto del
Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, e
dell'articolo 28, comma 5, della legge 17.08.1942,
n. 1150, ovvero eseguono le relative opere in regime
di convenzione” [art. 1, comma 2, lett. e)
d.lgs. 50/2016].
La norma di legge da ultimo richiamata precisa che
con riferimento a detta ipotesi di lavori appaltati
da un soggetto privato che deve realizzare opere a
scomputo di oneri di urbanizzazione si applicano le
disposizioni del codice degli appalti relative
all'aggiudicazione dei contratti. Detto ciò bisogna,
quindi, stabilire se tra dette norme sia ricompreso
anche l’art. 113 che disciplina gli “incentivi
per funzioni tecniche”.
Questa Sezione osserva che il quesito debba essere
risolto alla luce del tenore letterale del primo e
secondo comma dell’art. 113 cit.. In particolare, le
disposizioni di legge richiamate indicano
chiaramente che per la costituzione del fondo
incentivante ci debbano essere “stanziamenti
previsti per la realizzazione dei singoli lavori”
nel bilancio dell’ente locale-stazione appaltante.
Ne consegue che, poiché i lavori pubblici realizzati
da parte di soggetti privati ex art. 1, comma 2,
lett. e), d.lgs. n. 50/16 non preventivano una spesa
a carico dell’ente locale, non ricorre il
presupposto per la costituzione del fondo
incentivante.
Dunque, alla luce del tenore letterale dell’art. 113
del d.lgs. n. 50/2016, si deve concludere che
gli incentivi per attività tecniche non
possono essere riconosciuti in favore di dipendenti
interni che svolgano attività di direzione lavori o
di collaudo quando dette attività sono connesse a “lavori
pubblici da realizzarsi da parte di soggetti
privati, titolari di permesso di costruire o di un
altro titolo abilitativo, che assumono in via
diretta l'esecuzione delle opere di urbanizzazione a
scomputo totale o parziale del contributo previsto
per il rilascio del permesso, ai sensi dell'articolo
16, comma 2, del decreto del Presidente della
Repubblica 06.06.2001, n. 380, e dell'articolo 28,
comma 5, della legge 17.08.1942, n. 1150, ovvero
eseguono le relative opere in regime di convenzione”
[art. 1, comma 2, lett. e), d.lgs. 50/2016]
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 05.07.2016 n. 184). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
Oggetto: Regione Lombardia - viabilità speciale di
Segrate - realizzazione della c.d. “Cassanese-bis” –
applicabilità art. 20 d.lgs. 50/2016 - richiesta di parere
(parere
sulla normativa n. 763 del 16.07.2016 - rif. AG 25/2016/AP
- link a www.anticorruzione.it).
Art. 20 d.lgs. 50/2016 – realizzazione
di opere pubbliche a cura e spese del privato
L’istituto contemplato nell’art. 20 del Codice non può
trovare applicazione nel caso in cui la convenzione
stipulata tra amministrazione e privato abbia ad oggetto la
realizzazione di opere pubbliche da parte di quest’ultimo in
cambio del riconoscimento in suo favore di una utilità, con
conseguente carattere oneroso della convenzione stessa.
Il carattere oneroso della convenzione deve ritenersi
sussistere in qualunque caso in cui, a fronte di una
prestazione, vi sia il riconoscimento di un corrispettivo
che può essere, a titolo esemplificativo, in denaro, ovvero
nel riconoscimento del diritto di sfruttamento dell’opera
(concessione) o ancora mediante la cessione in proprietà o
in godimento di beni.
In tal caso la convenzione ha natura contrattuale,
disciplinando il rapporto tra le parti con valore
vincolante, sulla base di uno scambio sinallagmatico. Simili
fattispecie sono da ricondurre nella categoria dell’appalto
pubblico di lavori, da ciò derivando, come necessario
corollario, il rispetto delle procedure ad evidenza pubblica
previste nel Codice.
---------------
Con nota pervenuta in data 18.05.2016 ed acquisita al prot.
n. 79134, la Regione Lombardia –Direzione Generale
Infrastrutture e Mobilità- ha sottoposto all’attenzione
dell’Autorità una richiesta di parere in ordine alla
possibilità di affidare direttamente ad un operatore
economico la realizzazione della viabilità speciale di
Segrate, c.d. “Cassanese–bis”, mediante il ricorso
all’istituto previsto dall’art. 20 (opera realizzata a spese
del privato) del d.lgs. n. 50/2016.
...
Alla luce di quanto sopra, l’Amministrazione richiedente ha
formulato i seguenti quesiti:
1. applicabilità dell’art. 20 del d.lgs. 50/2016 nel caso in cui,
come nella fattispecie, si tratti di un progetto di
interesse strategico ai sensi della legge n. 443/2001,
approvato dal CIPE con deliberazione n. 62/2013;
2. applicabilità dell’art. 20 citato nel caso in cui i costi di
acquisizione delle aree necessarie per la realizzazione
dell’opera vengano sostenuti dagli Enti pubblici
sottoscrittori dell’Accordo di Programma, tenuto conto del
fatto che la disposizione prevede che l’opera deve essere
realizzata a totale cura e spese del soggetto privato;
3. possibilità di ricorrere all’istituto in esame nel caso in cui
sia stato già redatto il progetto esecutivo, posto che la
norma prevede, prima della stipula della convenzione, la
valutazione del progetto di fattibilità delle opere da
eseguire;
4. se tra gli schemi di contratto da valutare ai sensi del comma 2,
dell’art. 20, sono ricompresi anche quelli relativi
all’affidamento dei servizi tecnici (direzione lavori,
collaudo, coordinatore sicurezza in corso d’opera, etc.).
...
Sulla base delle considerazioni che precedono, in relazione
ai quesiti formulati dall’Amministrazione regionale, è
possibile affermare in linea generale che ai fini
dell’applicazione della disciplina di cui all’art. 20 del
d.lgs. 50/2016, mentre appare ininfluente che il progetto da
valutare sia relativo ad un’opera di interesse strategico
(ai sensi della legge obiettivo n. 443/2001) posto che la
norma nulla dispone al riguardo, la predetta applicabilità
sembra invece dubbia nel caso in cui sia stato già redatto
il progetto esecutivo dell’opera, posto che la disposizione
prevede che prima della stipula della convenzione deve
essere valutato il “progetto di fattibilità delle opere
da eseguire”.
Appare altresì dubbio, ai fini del ricorso all’istituto
de quo, che i costi di acquisizione delle aree per la
realizzazione dell’opera debbano necessariamente restare a
carico del privato proponente, posto che l’art. 20 fa
espresso riferimento esclusivamente alla realizzazione
dell’opera a totale cura e spese dello stesso, senza
specificare nulla in ordine ai predetti costi di
acquisizione delle aree; pertanto, non sembrerebbe esclusa
la possibilità che tali costi restino a carico della
competente Amministrazione, salvo diverso accordo con il
privato proponente.
Con riferimento agli schemi di contratto che devono essere
valutati ai sensi dell’art. 20, comma 2, del Codice, stante
la genericità della previsione, si ritiene che debbano
essere ricompresi in tale novero tutti gli schemi di
contratto relativi alla realizzazione dell’opera, inclusi
quelli relativi all’affidamento dei servizi tecnici
(direzione lavori, collaudo, coordinatore sicurezza in corso
d’opera, etc.).
Infine, occorre ribadire che dal riferimento contenuto nella
norma alla convenzione da stipulare (“prima della stipula
della convenzione…”) ed alla previa valutazione del
progetto di fattibilità -anche alla luce della disciplina
transitoria contenuta nell’art. 216 del Codice- sembra
derivare l’applicabilità delle disposizioni di cui all’art.
20 solo alle convenzioni in relazione alle quali sia
effettivamente possibile una valutazione preventiva da parte
dell’Amministrazione della fattibilità dell’opera, ossia in
un momento anteriore rispetto alla conclusione di un accordo
in tal senso.
Resta fermo che il ricorso all’istituto previsto dall’art.
20 citato, contemplante l’esclusione dell’applicazione del
Codice alle operazioni ivi previste, dunque di stretta
interpretazione, potrebbe giustificarsi esclusivamente nel
caso in cui non sussista in favore del proponente alcuna
controprestazione e l’operazione si configuri come atto di
liberalità e gratuità nei termini indicati in motivazione;
il ricorso all’istituto de quo è, invece, da escludere
laddove la convenzione abbia i caratteri dell’appalto
pubblico, secondo le indicazioni dell’Autorità contenute
nella citata determinazione n. 4/2008 e secondo l’indirizzo
del giudice comunitario (sentenza 12.07.2001, causa C399-98)
e del Consiglio di Stato (parere n. 855/2016 cit.) sopra
richiamati.
Da ultimo, pur nel silenzio della norma sul punto, occorre
richiamare la necessità che il soggetto esecutore dell’opera
“pubblica” realizzata gratuitamente ai sensi
dell’art. 20, sia comunque in possesso di adeguati requisiti
di qualificazione, quale principio di carattere generale,
sancito nell’art. 84 del d.lgs. 50/2016, ai sensi del quale
i soggetti esecutori a qualsiasi titolo di lavori pubblici
devono essere in possesso di adeguata qualificazione. |
IN EVIDENZA |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Albo Pretorio, la Funzione Pubblica bacchetta i
Comuni: il caso Augusta.
Una nota dalla Presidenza del Consiglio -
dipartimento della funzione pubblica, inviata al
Segretario Comunale, bacchetta il Comune di Augusta
relativamente all’albo pretorio:
l’albo del Comune è privo di autenticità del
documento, conformità all’originale, inalterabilità
e sottoscrizione con firma digitale.
L’albo online del Comune è una
raccolta di copie informatiche di documenti
analogici (per intenderci scansioni non sempre
corrette e leggibili) in contrapposizione a quello
previsto dalla legge, e cioè che la pubblicazione
sia autentica, integra ed immodificabile, cosa che
può farsi solo attraverso l’apposizione della firma
digitale del responsabile
Secondo la Funzione Pubblica si evidenzia che
per gli atti per il quale è obbligatoria la
pubblicazione, ai sensi del D.lgs. n. 33/2013, i
dati devono essere inseriti sul web in formato non
modificabile da terzi e sottoscritti con firma
elettronica qualificata o firma digitale da parte
del Responsabile che ha generato la pubblicazione
del documento o del responsabile del procedimento
che ha generato l’atto.
“Il legislatore è stato esplicito circa la
necessità –secondo il consigliere comunale di
Augusta– di sottoscrizione digitale dei documenti
pubblicati per dare pieno valore legale agli stessi,
per evitare brutte sorprese e per rispettare il
principio di trasparenza mi auguro che chi di
competenza ponga immediato rimedio, al problema
delle mancate risposte entro i termini di legge già
denunciate dal sottoscritto si aggiunge anche questo
fatto e la trasparenza e chi la deve fare rispettare
nel Comune di Augusta continuano ad avere macchie
sempre più evidenti”.
L’albo pretorio (detto talvolta anche albo
municipale se presso un comune italiano) indica, in
Italia un apposito spazio presso il quale le
pubbliche amministrazioni italiane affiggono per
legge notizie ed avvisi di interesse pubblico per la
collettività.
Dal punto di vista materiale, consiste generalmente
in una tavola o vetrina esistente presso ogni ente
pubblico, solitamente collocata presso la porta
della casa comunale o in un luogo pubblico.
La legge del 18.06.2009 n. 69, all’art 32 ha
disposto che: «a far data dal 01.01.2010 gli
obblighi di pubblicazione di atti e provvedimenti
amministrativi aventi effetto di pubblicità legale
si intendono assolti con la pubblicazione sui propri
siti informatici da parte delle amministrazioni e
degli enti pubblici obbligati».
Viene tuttavia garantita l’efficacia legale della
pubblicazione a mezzo degli spazi e forme
tradizionali dell’Albo pretorio sino al 31.12.2010:
infatti il comma 5 dello stesso art. 32 statuisce
invece che a decorrere dal 01.01.2011 che le
pubblicità effettuate in forma cartacea non hanno
effetto di pubblicità legale, di fatto riconoscendo
tale caratteristica solo alle affissioni online.
Nell’albo pretorio vengono pubblicate le
deliberazioni, le ordinanze, i manifesti e gli atti
che devono essere portati a conoscenza del pubblico
per disposizione di legge (ad esempio il "Testo
Unico delle leggi sugli ordinamenti locali”
all’articolo 6 prevede che lo statuto comunale o
provinciale entri in vigore trascorsi 30 giorni
dall’affissione nell’albo pretorio) o di apposito
regolamento dell’amministrazione. Vengono inoltre
esposti all’albo pretorio gli atti destinati a
singoli cittadini quando i destinatari risultano
irreperibili al momento della consegna.
Ogni tipologia di documento deve essere consultabile
pubblicamente e liberamente, per un numero di giorni
considerato congruo, cioè sufficiente perché i
cittadini vengano a conoscenza della decisione,
dell’evento ecc. La pubblicazione ha ordinariamente
durata pari a gg. 15, qualora non sia indicata dalla
legge o da un regolamento ovvero dal soggetto
richiedente la pubblicazione una durata specifica e
diversa.
La legge stabilisce per alcune tipologie di atto il
periodo di affissione (con i termini di “affissione”
e “defissione” va inteso l’inserimento e la
rimozione di un documento nell’albo pretorio)
(commento tratto da e link a www.lentepubblica.it -
nota 18.03.2016 n. 14705 di prot.). |
SINDACATI |
PUBBLICO IMPIEGO:
LEGGE DI STABILITA’ - AL PERSONALE DELLA POLIZIA
LOCALE NESSUN CONTRIBUTO STRAORDINARIO PER IL 2016
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 15.02.2016). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
COMUNE DI PONTE SAN PIETRO (BG): QUANTI ATTI
ILLEGITTIMI ADOTTATI DA ORGANI INCOMPETENTI?
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 15.12.2015). |
DIPARTIMENTO
FUNZIONE PUBBLICA |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto:
Decreto del Presidente della Repubblica del 09.05.2016, n.
105 recante "Regolamento di disciplina delle funzioni del
Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del
Consiglio dei Ministri in materia di misurazione e
valutazione della performance delle pubbliche
amministrazioni" (G.U. 17.06.2016, serie generale n. 140) -
Interpretazione articolo 6, comma 5 - Nomina OIV - organismi
indipendenti di valutazione nella fase transitoria (nota-circolare
14.07.2016 n. 37249 di prot.). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: G.U.
26.07.2016 n. 173 "Definizione delle caratteristiche
essenziali delle prestazioni principali costituenti oggetto
delle convenzioni stipulate da Consip S.p.a." (Ministero
dell'Economia ed elle Finanze,
decreto 21.06.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
G.U. 25.07.2016 n. 172 "Disposizioni integrative al
decreto legislativo 04.07.2014, n. 102, di attuazione della
direttiva 2012/27/UE sull’efficienza energetica, che
modifica le direttive 2009/125/CE e 2010/30/UE e abroga le
direttive 2004/8/CE e 2006/32/CE"
(D.Lgs.
18.07.2016 n. 141). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
G.U. 22.07.2016 n. 170 "Contratto collettivo
nazionale quadro per la definizione dei comparti e delle
aree di contrattazione collettiva nazionale (2016-2018)" (ARAN,
comunicato). |
APPALTI:
G.U. 22.07.2016 n. 170 "Linee guida per la compilazione
del modello di formulario di Documento di gara unico europeo
(DGUE) approvato dal regolamento di esecuzione (UE) 2016/7
della Commissione del 05.01.2016" (Ministero delle
Infrastrutture e dei Trasporti,
comunicato). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, supplemento n. 29 del 22.07.2016, "Modifica
dell’articolo 9 del regolamento regionale 15.06.2012, n. 2
(Attuazione dell’articolo 21 della legge regionale
12.12.2003, n. 26 “Disciplina dei servizi locali di
interesse economico generale. Norme in materia di gestione
dei rifiuti, di energia, di utilizzo del sottosuolo e di
risorse idriche”, relativamente alle procedure di bonifica e
ripristino ambientale dei siti inquinati)" (regolamento
regionale 20.07.2016 n. 6). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 29 del 21.07.2016, "Quarto
aggiornamento 2016 dell’elenco degli enti locali idonei
all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005,
art. 80)" (deliberazione
G.R. 14.07.2016 n. 6891). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 29 del 21.07.2016, "Linee
guida per la protezione delle acque dall’inquinamento
provocato dai nitrati provenienti da fonti agricole nelle
zone non vulnerabili ai sensi della direttiva nitrati
91/676/CEE" (deliberazione
G.R. 18.07.2016 n. 5418). |
ENTI LOCALI:
G.U. 19.07.2016 n. 167 "Censimento della popolazione e
archivio nazionale dei numeri civici e delle strade urbane"
(D.P.C.M.
12.05.2016). |
SICUREZZA LAVORO:
Disposizioni per il miglioramento sostanziale della
salute e sicurezza dei lavoratori
(Atto
Senato n. 2489 - presentato in data 19.07.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
G.U. 16.07.2016 n. 165 "Norme sul divieto di utilizzo e
di detenzione di esche o di bocconi avvelenati"
(Ministero della Salute,
ordinanza 13.06.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
G.U. 16.07.2016 n. 165 "Recepimento della direttiva
2014/80/UE della Commissione del 20.06.2014 che modifica
l’allegato II della direttiva 2006/118/CE del Parlamento
europeo e del Consiglio sulla protezione delle acque
sotterranee dall’inquinamento e dal deterioramento"
(Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del
Mare,
decreto 06.07.2016). |
APPALTI:
G.U. 15.07.2016 n. 164 "Comunicato relativo al decreto
legislativo 18.04.2016, n. 50, recante: «Attuazione delle
direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE
sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli
appalti pubblici e sulle procedure d’appalto degli enti
erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei
trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino
della disciplina vigente in materia di contratti pubblici
relativi a lavori, servizi e forniture» - (Decreto
legislativo pubblicato nel Supplemento ordinario N. 10/L
alla Gazzetta Ufficiale - Serie generale - n. 91 del
19.04.2016)" (avviso
di rettifica). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
G.U. 13.07.2016 n. 162 "Norme per il riordino della
disciplina in materia di conferenza di servizi, in
attuazione dell’articolo 2 della legge 07.08.2015, n. 124"
(D.Lgs.
30.06.2016 n. 127).
---------------
Ex
Atto del Governo n. 293: si leggano anche i
relativi "Dossier
di documentazione". |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
G.U. 13.07.2016 n. 162 "Attuazione della delega in
materia di segnalazione certificata di inizio attività
(SCIA), a norma dell’articolo 5 della legge 07.08.2015, n.
124" (D.Lgs.
30.06.2016 n. 126).
---------------
Ex
Atto del Governo n. 291: si leggano anche i
relativi "Dossier
di documentazione". |
EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO:
B.U.R. Lombardia, supplemento n. 28 del 12.07.2016, "Disciplina
regionale dei servizi abitativi" (L.R.
08.07.2016 n. 16). |
EDILIZIA PRIVATA:
Intesa sullo schema di decreto del Presidente della
Repubblica recante regolamento, proposto dal Ministro dei
beni e delle attività culturali e del turismo, relativo
all’individuazione degli interventi esclusi
dall’autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura
autorizzatoria semplificata, ai sensi dell’articolo 12 del
decreto legge 31.05.2014, n. 83, convertito, con
modificazioni, dalla legge 29.07.2014, n. 106, come
modificato dall’articolo 25 del decreto-legge 12.09.2014, n.
133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.11.2014,
n. 164 (Conferenza Unificata,
repertorio atti n. 90/CU del 07/07/2016). |
ENTI LOCALI: G.U.
24.06.2016 n. 146 "Misure finanziarie urgenti per gli
enti territoriali e il territorio"
(D.L. 24.06.2016 n. 113). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI:
M. Alesio,
L'inattesa resurrezione del regolamento nei contratti sotto
soglia (21.07.2016 - tratto da
www.upel.va.it). |
SICUREZZA LAVORO:
Testo unico sicurezza (Dlgs n. 81/2008), depositato al
Senato disegno di legge di semplificazione (Atto Senato
n. 2489).
L'attività di supporto garantita dai medici del lavoro o da
altri professionisti esperti in materia di salute e
sicurezza sul lavoro, che sotto la propria responsabilità
certificheranno la correttezza delle misure di prevenzione e
protezione in azienda
(21.07.2016 - link a www.casaeclima.com). |
APPALTI:
R. de Nictolis,
Servizio idrico integrato, green economy e appalti pubblici
(19.07.2016 - tratto da
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
Sommario: 1. Appalti pubblici come strumento delle
politiche pubbliche: sviluppo sostenibile e tutela
ambientale – 2. La governance del servizio idrico è fuori
dal codice dei contratti pubblici - 3. Il servizio idrico
ricade nei c.d. settori speciali - 4. Le disposizioni
“verdi” nel codice dei contratti pubblici quadro di insieme
- 5. La qualificazione delle stazioni appaltanti - 6. Il
dibattito pubblico – 7. La progettazione - 8. I criteri
ambientali minimi - 9. I requisiti generali e di
qualificazione degli operatori economici - 10. I requisiti
dell’offerta: le specifiche tecniche e le etichettature -
11. I criteri di valutazione dell’offerta – 12. Le
condizioni di esecuzione degli appalti – 13. Le garanzie
dell’offerta e dell’esecuzione: gli incentivi “verdi” – 14.
Conclusioni. |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
Appalti di servizi e forniture, esclusi dall'incarico di RUP
i diplomati liceali: in crisi le PA locali.
Le Linee guida Anac stabiliscono che per i servizi e le
forniture di importo pari o inferiore alle soglie di cui
all’art. 35 del Codice il Rup deve avere un diploma tecnico
(18.07.2016 - link a www.casaeclima.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
Modulo unico SCIA: in Gazzetta il decreto legislativo.
Il Dlgs n. 126/2016 entrerà in vigore il prossimo 28 luglio
(14.07.2016 - link a www.casaeclima.com). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Nuova Conferenza di servizi, il decreto in G.U.: in vigore
dal 28 luglio.
Introdotta la conferenza semplificata che non prevede
riunioni fisiche ma solo l’invio di documenti per via
telematica. La conferenza simultanea con riunione (anche
telematica) si svolge solo quando è strettamente necessaria
(14.07.2016 - link a www.casaeclima.com). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Silenzio-assenso, il parere del Consiglio di Stato sulla
riforma Madia.
Chiarimenti sull'ambito di applicazione del nuovo istituto,
sui rapporti con la conferenza di servizi, sulle modalità di
formazione e sull’esercizio del potere di autotutela (14.07.2016
- link a www.casaeclima.com). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
PEC, posta elettronica certificata: se perdo la ricevuta di
consegna (13.07.2016 - link a
www.laleggepertutti.it).
---------------
Il sistema di posta elettronica certificata consente di
ottenere la prova certa della spedizione dell’e-mail e della
data in cui ciò avviene grazie a una PEC inviata dal
gestore: ma in caso di perdita accidentale delle ricevute di
consegna è possibile ottenere un duplicato? (...continua). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Avvocato responsabile per consulenze e pareri (12.07.2016
- link a www.laleggepertutti.it).
---------------
Responsabilità professionale: l’avvocato che sbaglia il
parere, fornendo al cliente delle indicazioni non corrette
ancor prima della causa o a prescindere dall’esistenza di un
giudizio in tribunale, deve risarcire i danni (...continua). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Furbetti del cartellino. Schema di Ordine di sospensione
cautelare ed avvio procedimento disciplinare (11.07.2016
- link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI: M.
Alesio,
Modelli e procedure di scelta del contraente
(11.07.2016 - link a
tratto da www.upel.va.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
È legge il Collegato agricoltura: le potature del verde
urbano non sono più rifiuti.
Potranno essere utilizzate a fini energetici (Atto
Senato n. 1328-B) (08.07.2016 - link a
www.casaeclima.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
Autorizzazione paesaggistica semplificata: ok dalla
Conferenza Unificata.
Via libera al silenzio-assenso per i pareri obbligatori e
vincolanti delle soprintendenze per gli interventi edilizi
di lieve entità ammessi alla procedura semplificata di
autorizzazione paesaggistica
(07.07.2016 - link a www.casaeclima.com). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA:
Fideiussioni - Nota di approfondimento
e avvertenze ai Comuni (IFEL, 04.07.2016).
---------------
La nota si propone di fornire ai Comuni un quadro per
quanto possibile completo dell’istituto della fideiussione e
della relativa disciplina normativa, evidenziando gli
elementi utili per operatori e amministratori comunali
nell’analisi e valutazione delle garanzie fideiussorie della
più varia natura.
...
Sommario: Premessa - I casi tipici del ricorso
alle garanzie fideiussorie da parte dei Comuni - Contesto
normativo - I soggetti abilitati al rilascio delle garanzie
fideiussorie - Banche e intermediari finanziari -
Assicurazioni - Particolari cautele per i Comuni. |
APPALTI:
M. Alesio,
Regolamento disciplinante gli “affidamenti diretti” -
(ARTICOLO 36, COMMA 2°, LETTERA “A” NUOVO CODICE CONTRATTI
PUBBLICI – D.LGS N. 50/2016) (12.05.2016 - tratto
da www.upel.va.it). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Approvazione della nuova normativa sulle
gestione delle terre e rocce da scavo (ANCE di Bergamo,
circolare 15.07.2016 n. 141). |
PUBBLICO IMPIEGO:
OGGETTO: art. 25, commi 4 e 6-bis, del D.L. 24.06.2014,
n. 90, convertito con modificazioni nella legge n. 114
dell’11.08.2014. Semplificazioni per i soggetti con
disabilità grave: proroga degli effetti del verbale
rivedibile fino al completamento dell’iter di revisione ai
fini dei permessi e congedi riconosciuti ai lavoratori
dipendenti in caso di disabilità grave. Istruzioni operative
(INPS,
circolare 08.07.2016 n. 127 - link a
www.inps.it).
---------------
SOMMARIO:
L’articolo 25 del decreto legge n. 90/2014, ai commi 4 e 6,
introduce alcune novità finalizzate a semplificare gli
adempimenti sanitari ed amministrativi per i soggetti
invalidi civili o con disabilità grave. In particolare:
• il comma 6-bis prevede la proroga degli effetti del
verbale rivedibile oltre il termine di scadenza apposto, in
modo da consentire la fruizione anche dei benefici a tutela
della disabilità grave nelle more della definizione
dell’iter sanitario di revisione;
• il comma 4, lett. a), del citato art. 25, dimezza i
termini per il rilascio della certificazione provvisoria di
cui all’art. 2, comma 2, del decreto legge 27.08.1993, n.
324, convertito dalla legge 27.10.1993, n. 423 (tali termini
infatti sono portati da 90 a 45 giorni).
Premessa:
1. Richiamo alle disposizioni di cui all’art. 25, comma
6-bis, del decreto legge 24.06.2014, n. 90. Effetti sugli
istituti a tutela della disabilità.
2. Effetti sui provvedimenti di autorizzazione alla
fruizione dei permessi ex art. 33, commi 3 e 6 della legge
104/1992.
2.1. Verbale con esito di conferma dello stato di disabilità
in situazione di gravità del lavoratore che fruisce dei
benefici per se stesso (art. 33, comma 6, della legge
104/1992).
2.2. Verbale con esito di conferma dello stato di disabilità
in situazione di gravità della persona assistita dal
familiare lavoratore (art. 33, commi 3, della legge
104/1992.
2.3. Verbale con esito di mancata conferma dello stato di
disabilità in situazione di gravità del lavoratore che
fruisce dei benefici per se stesso o della persona assistita
dal familiare lavoratore (art. 33, commi 3 e 6, della legge
104/1992)
2.4. Assenza a visita di revisione del disabile grave.
3. Effetti sui benefici per i quali è necessario presentare
una nuova domanda di autorizzazione.
4. Istruzioni per il pagamento diretto.
5. Art. 25, comma 4: riduzione dei termini da 90 a 45 giorni
per la richiesta della certificazione provvisoria di cui
all’art. 2, comma 2, del decreto legge 27.08.1993, n. 324. |
AMBIENTE-ECOLOGIA - PATRIMONIO:
Oggetto: L. 10/2013, art. 7 “Disposizioni per la tutela e
la salvaguardia degli alberi monumentali, dei filari e delle
alberate di particolare pregio paesaggistico, naturalistico,
monumentale, storico e culturale” - Attività di competenza
comunale (Regione Lombardia, DIREZIONE GENERALE
AMBIENTE, ENERGIA E SVILUPPO SOSTENIBILE - PARCHI, TUTELA
DELLA BIODIVERSITA' E PAESAGGIO - VALORIZZAZIONE DELLE AREE
PROTETTE E BIODIVERSITA',
nota
07.03.2016 n. 11584 di prot.). |
A.N.AC. (già
AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI) |
APPALTI: Linee
guida contratti sottosoglia. Affidamenti diretti con più
preventivi e imprese a rotazione.
Sul sito dell'Autorità antïcorruzione le indicazioni per gli
appalti fino a 40 mila euro.
Appalti fino a 40 mila giuro affidabili
in via diretta ma con almeno due preventivi; rotazione delle
imprese scelte per le negoziazioni; requisiti adeguati per
le piccole, medie e micro imprese ma senza rinunciare alla
qualità delle prestazioni; criteri reputazionali applicabili
anche per contratti fino a 40 mila curo.
Sono queste alcune
delle principali indicazioni fornite dall'Autorità nazionale
anticorruzione (Anac) con la
proposta di linee guida
approvate nel consiglio del 28 giugno e messe sul proprio
sito martedì 5 luglio (Proposta di Linee guida
attuative del nuovo Codice degli Appalti e delle Concessioni
- deliberata dal Consiglio il 28.06.2016),relative alle procedure per
l'affidamento dei contratti pubblici di importo inferiore
alle soglie di rilevanza comunitaria, indagini di mercato e
formazione e gestione degli elenchi di operatori economici.
Il provvedimento è stato varato in base all'articolo 36,
comma 7, del nuovo codice dei contratti ed è stato
trasmesso, come le altre linee guida, alle commissioni
parlamentari competenti di camera e senato e al consiglio di
stato che invieranno i propri pareri, ancorché non previsti
dal nuovo codice dei contratti pubblici. Soltanto dopo i
pareri saranno approvate in via definitiva e diverranno
quindi operative, anche se nulla toglie alle stazioni
appaltanti di fare ad esse riferimento.
Nel documento si precisa che le stazioni appaltanti possono
comunque ricorrere, nell'esercizio della propria
discrezionalità, alle procedure ordinarie in luogo di quelle
negoziate o semplificate; «qualora le esigenze del
mercato suggeriscano di assicurare il massimo confronto
concorrenziale». Non c'è quindi un obbligo di utilizzare
le procedure più flessibili.
Fra le indicazioni generali date dall'Authority va segnalata
quella riguardante le «realtà imprenditoriali di minori
dimensioni»: in relazione a esse (le imprese) l'Anac ha
chiesto di fissare i «requisiti di partecipazione e
criteri di valutazione che, senza rinunciare al livello
qualitativo delle prestazioni, consentano la partecipazione
anche delle micro, piccole e medie imprese, valorizzandone
il potenziale».
Nei contratti di importo fino a 40 mila euro si prevede che
vi debbano essere almeno due preventivi, che si possano
richiedere requisiti economico-finanziari e
tecnico-organizzativi e che, in caso di soggetti «parimenti
qualificati sotto il profilo delle capacità
tecnico-professionali», la stazione appaltante possa
indicare, quale criterio preferenziale di selezione, indici
oggettivi basati su accertamenti definitivi concernenti il
rispetto dei tempi e dei costi nell'esecuzione dei contratti
pubblici, ovvero i criteri reputazionali di cui all'art. 83,
comma 10, del Codice. Non si applica ai contratti di modesta
entità il termine di «stand still» (35 giorni prima
di stipulare il contratto).
Per i contratti di lavori di importo pari o superiore a 40
mila curo e inferiore a 150 mila euro odi servizi e
forniture di importo pari o superiore a 40 mila giuro e
inferiore alle soglie europee, alla procedura negoziata si
devono chiamare almeno cinque operatori economici, ove
esistenti, individuati sulla base di indagini di mercato o
tramite elenchi di operatori economici nel rispetto del
criterio di rotazione degli inviti (10 per contratti fino a
un milione). In questi casi sono tre i momenti chiave della
procedura:
- lo svolgimento di indagini di mercato o consultazione di
elenchi per la selezione di operatori economici da invitare
al confronto competitivo; - il confronto competitivo tra gli
operatori economici selezionati e invitati; - la
stipulazione del contratto.
Per la pubblicità degli avvisi l'Anac ha precisato che la
stazione appaltante deve pubblicare un avviso sul profilo di
committente, nella sezione «amministrazione trasparente»
sotto la sezione «bandi e contratti», o ricorrere ad
altre forme di pubblicità (articolo ItaliaOggi dell'08.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
Anac, guida alla trasparenza negli appalti sotto
il milione. Regole per le indagini di mercato e gli elenchi
fornitori.
Codice. L’Authority approva il sesto documento attuativo di
supporto agli operatori.
Rotazione degli inviti e
composizione degli elenchi trasparente, sopra la soglia di
40mila euro e fino a un milione. Confronto di almeno due
preventivi, per assicurare un minimo di concorrenza, negli
affidamenti diretti sotto i 40mila euro. E obbligo di
motivare in maniera articolata la scelta di passare dalla
trattativa privata sopra il limite di 500mila euro.
Sono questi gli
elementi chiave delle
linee guida sul sottosoglia
(Proposta di Linee guida attuative del nuovo Codice degli
Appalti e delle Concessioni - deliberata dal Consiglio
il 28.06.2016), che l’Anac
ha appena approvato e che si prepara a inviare a Parlamento
e Consiglio di Stato.
Le linee guida nascono in applicazione dell’articolo 36,
comma 7, del Codice appalti (Dlgs n. 50 del 2016) e sono
improntate al criterio di elevare al massimo l’asticella
della trasparenza in tutte quelle gare poste al di sotto del
milione di euro, la soglia sotto la quale è stata
confermata, anche con il nuovo sistema, la possibilità di
assegnazioni senza una gara formale.
L’Anticorruzione,
allora, ricorda anzitutto che l’abuso dello strumento della
procedura negoziata non deve essere un criterio guida per le
amministrazioni: «Le stazioni appaltanti –spiega il
documento- possono ricorrere, nell’esercizio della propria
discrezionalità, alle procedure ordinarie, anziché a quelle
semplificate, qualora le esigenze del mercato suggeriscano
di assicurare il massimo confronto concorrenziale». Quindi,
anche sotto le soglie indicate dal Codice si possono
utilizzare gare normali.
Dando, però, per scontato che in molti casi le Pa
sceglieranno diversamente, l’Anac procede a mettere qualche
paletto. Partendo dai microappalti sotto i 40mila euro, per
i quali è possibile l’incarico diretto a ditte di fiducia
dell’amministrazione. In questo caso, le indicazioni
dell’Authority sono principalmente due. La prima è che le
stazioni appaltanti dovranno procedere «alla valutazione
comparativa dei preventivi di spesa forniti da due o più
operatori economici»: quindi, non sarà possibile un
affidamento diretto senza un minimo di confronto
concorrenziale. La seconda indicazione riguarda le
motivazioni: a carico della Pa sussiste sempre un obbligo di
motivare la sua scelta, «dando dettagliatamente conto del
possesso da parte dell’operatore economico selezionato dei
requisiti richiesti».
Ma è sugli appalti sopra la soglia di 40mila euro e fino a
un milione che si concentrano le attenzioni maggiori. Questa
fascia, infatti, costituisce una quota rilevante del
mercato. Per i lavori, fino a 150mila euro sarà possibile
l’affidamento tramite procedura negoziata con la
consultazione di cinque operatori economici. Tra i 150mila
euro e il milione è necessaria la consultazione di almeno
dieci imprese. Le regole, al di là del numero di
partecipanti, sono però sostanzialmente le stesse.
La
procedura si divide in tre fasi: indagine di mercato o
consultazione di elenchi per la selezione degli operatori,
confronto competitivo, stipula del contratto. La prima è
chiaramente quella più delicata. Per questo, le
amministrazioni dovranno dotarsi di un regolamento per
disciplinare la conduzione delle indagini di mercato e le
modalità di costituzione degli elenchi fornitori. Per le
indagini di mercato, è fondamentale che queste siano
pubblicizzate in maniera adeguata.
Sul fronte degli elenchi,
invece, questi andranno costituiti tramite avviso pubblico,
reso conoscibile nella sezione “amministrazione trasparente”
del portale della stazione appaltante. Nell’avviso devono
essere riportati «le eventuali categorie e fasce di importo
in cui l’amministrazione intende suddividere l’elenco e gli
eventuali requisiti minimi, richiesti per l’iscrizione, parametrati in ragione di ciascuna categoria o fascia di
importo». Gli elenchi andranno rivisti periodicamente, con
cadenze prefissate o al verificarsi di determinati eventi.
Altro punto strategico è la rotazione degli inviti, «al fine
di favorire la distribuzione temporale delle opportunità di
aggiudicazione tra tutti gli operatori potenzialmente
idonei». Insomma, per tutte le procedure sotto il milione
andrà garantita la trasparenza. Con una precisazione, al di
sopra dei 500mila euro: in questi casi, infatti, «la scelta
di una procedura negoziata deve essere adeguatamente
motivata in relazione alle ragioni di convenienza».
Ci dovrà essere, in sostanza, un supplemento di motivazione
che spieghi perché, per importi di una certa rilevanza, si
scelga la strada della trattativa privata (articolo Il Sole 24 Ore del 06.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
CORTE DEI CONTI |
EDILIZIA PRIVATA: Sul
rimborso spese ai membri della Commissione Comunale per il
Paesaggio.
La
Sezione ritiene che non rientri -in linea astratta- tra i
vincoli finanziari sanciti dal comma 3, dell’art. 183 del dlgs 42/2004 il divieto di “rimborso delle spese”
sostenute e documentate dai componenti le commissioni, e ciò
a condizione che sia garantita la neutralità –in termini di
impatto sugli equilibri economico-finanziari- della relativa
voce di bilancio.
A tale fine l’Ente potrà riallocare le
risorse ordinariamente utilizzate in relazione all’esercizio
di tale funzione ovvero utilizzare le maggiori entrate o le
minori spese derivanti dall’espletamento della funzione
medesima, e ciò anche alla luce delle risorse messe a
disposizione dall’ente delegante (la regione) ovvero
comunque percepite in ragione ed ai fini dell’esercizio
della suddetta funzione delegata.
Si rileva in proposito che nell’ambito
dell’istituzione e del funzionamento delle commissioni
locali per il paesaggio di cui all’art. 148 del dlgs
42/2004, le regioni assumono il ruolo fondamentale di “promotore”
che non può e non deve limitarsi alla disciplina in via
astratta dell’istituto in parola, ma deve connotarsi nei
termini prescritti dal legislatore nazionale, cioè come “supporto”
in concreto agli enti subdelegati nella composizione e nel
funzionamento delle suddette commissioni.
Per l’effetto si ritiene, altresì, che i
professionisti componenti le commissioni in parola debbano
essere "terzi” rispetto all’amministrazione delegata
ma “interni” al comparto pubblico, inteso come
soggetto macro aggregato.
Si ritiene che il legislatore, con il comma
3, dell’art. 183 del Codice, abbia effettuato una specifica
opzione a tale riguardo, e ciò alla luce della natura “istituzionale”
delle funzioni svolte e del divieto tombale di
remunerazione, requisiti che mal si conciliano con il
conferimento di incarichi a titolo onorifico a
professionisti privati, e ciò alla luce del generale
principio di “autosufficienza” e “valorizzazione”
delle risorse interne all’apparato pubblico, del generale
principio di onerosità della prestazione lavorativa e, non
ultimo, della peculiare connotazione di “zona rischio
corruzione” del settore in cui si trovano ad operare le
commissioni in esame, in termini di potenziale (ed
arbitrario) “ampliamento dei diritti dei privati” ed
in relazione al quale (rischio) occorre assicurare –almeno
in linea astratta- l’indipendenza ed imparzialità dei
componenti le commissioni de quibus, e ciò anche per
il tramite di una remunerazione sufficiente e proporzionata.
Tale elemento, visto il carattere tombale
del divieto di remunerazione di cui al comma 3, dell’art.
183 del Codice, può essere rintracciato esclusivamente con
riferimento a professionisti interni al comparto pubblico,
in relazione ai quali la prestazione –seppure gratuita in
seno alle commissioni de quibus– è già remunerato
nell’ambito della restribuzione “madre” ricevuta per
effetto del rapporto di servizio o del munus pubblico
che lega il professionista alla pubblica amministrazione,
complessivamente intesa.
Alla luce di quanto sopra, pertanto,
l’ente
delegato dovrà aver previamente “mappato” nell’ambito
del proprio piano triennale anticorruzione i rischi connessi
all’attività in questione ed averne individuate le misure
volte a prevenirlo.
In tale ottica, il carattere onorifico
della prestazione -in assenza di cause giustificatrici
ulteriori rispetto al vincolo finanziario in sé- non si
presenta –almeno in via astratta– come misura volta a
prevenire ovvero ad ovviare il rischio che tale attività “gratuita”
venga svolta nel perseguimento di interessi/vantaggi diversi
ed opposti rispetto al fine tutelato dalla norma, e ciò
proprio in ragione del peculiare assetto degli interessi
coinvolti nell’esercizio della funzione de qua, l’interesse
dei privati ad ampliare la propria sfera di diritti ed il
bene-paesaggio rispetto al quale tali interessi potrebbero
risultare recessivi.
---------------
Il Comune di Moliterno (PZ), premettendo:
- che una rilevante porzione del territorio comunale (oltre
il 90% del territorio) è compresa nel Parco Nazionale
Appenino Lucano-Val d’agri-Lagonegrese;
- che tale circostanza ha comportato la necessità di
acquisire “pareri obbligatori in merito alle domande
paesaggistiche”;
- che il decreto legislativo n. 42/2004 e successive
modifiche ed integrazioni “all’art. 146, attribuisce alla
Regione l’esercizio della funzione autorizzatoria in materia
di paesaggio, consentendo alla stessa tuttavia di delegarne
l’esercizio ad una pluralità di enti tra cui i Comuni purché
gli enti destinatari della delega dispongano di strutture in
grado di assicurare un adeguato livello di competenze
tecnico-scientifiche nonché di garantire la differenziazione
tra attività di tutela del paesaggistica ed esercizio di
funzioni amministrative in materia urbanistico-edilizia”;
- che il comma 3 dell’art. 183 del medesimo decreto
legislativo “dispone testualmente che <<la partecipazione
alle commissioni previste dal presente codice è assicurata
nell’ambito dei compiti istituzionali delle amministrazioni
interessate, non dà luogo alla corresponsione di alcun
compenso e comunque, da essa non derivano nuovi o maggiori
oneri a carico della finanza pubblica>>”;
- di non avere “al proprio interno personale idoneo per
l’espletamento delle funzioni demandate alla commissione
(...)” ;
- e che pertanto, al fine di istituire la commissione
prevista dalla legge, “si è reso necessario
ricorrere a professionisti esterni”, e ciò anche alla
luce della delibera n. 2002 del 29.12.2008, con cui la
Regione Basilicata ha previsto l’obbligo di “operare la
scelta dei propri componenti tra tecnici esterni
all’amministrazione”;
chiede di sapere se sia possibile “riconoscere ai
componenti esterni la commissione un rimborso delle spese
documentate (spese di viaggio) ancorandolo comunque ad un
limite massimo”.
A tale riguardo, l’Ente dichiara di essere consapevole che
un “eventuale rimborso andrebbe a gravare le finanze
comunali”, e ciò in quanto “se è vero che da un lato
il rimborso spese non integra gli estremi di un compenso, è
altrettanto vero che il dato normativo statuisce che non
debbano derivare nuovi o maggiori oneri a carico della
finanza pubblica”.
Il Comune rappresenta, altresì, che “la delega
dell’esercizio del potere da parte della Regione al Comune,
accelera l’istruttoria delle pratiche snellendo, di gran
lunga l’iter procedimentale e, quindi, riduce notevolmente
le lungaggini temporali”.
...
6. Inquadramento del quesito
6.1 L’istanza di parere in esame verte in tema di esercizio -per
delega regionale- della funzione autorizzatoria in materia di
paesaggio e, in particolare, di oneri finanziari connessi
alla composizione ed al funzionamento delle “commissioni
locali per il paesaggio” istituite nell’ambito dei
relativi procedimenti autorizzatori.
La normativa di riferimento è contenuta nel Dlgs 42/2004 (“Codice
dei Beni Culturali e del Paesaggio” ovvero per brevità “Codice”)
così come successivamente modificato ed integrato e, per
quanto qui di specifico interesse, negli artt. 146, comma 6
(che disciplina i presupposti della delega in materia di
autorizzazione paesaggistica), 148 (che disciplina
l’istituto delle commissioni locali per il paesaggio) e 183,
comma 3 (che dispone i vincoli di natura finanziaria sottesi
all’istituzione ed al funzionamento delle commissioni in
parola).
Nello specifico, il Comune istante chiede di conoscere la
portata e la latitudine applicativa della clausola di
invarianza finanziaria contenuta nel comma 3, dell’art. 183
del Dlgs 42/2004, ai sensi del quale “la partecipazione
alle commissioni previste dal presente codice è assicurata
nell’ambito dei compiti istituzionali delle amministrazioni
interessate, non dà luogo alla corresponsione di alcun
compenso e, comunque, da essa non derivano nuovi o maggiori
oneri a carico della finanza pubblica”.
In particolare, viene chiesto di sapere se, alla luce del
disposto in questione, il rimborso delle spese documentate a
favore dei componenti la commissione per il paesaggio (spese
di viaggio) –seppure non vietato esplicitamente- risulti
comunque inibito alla luce della clausola di invarianza
finanziaria ivi codificata, comportando comunque un aggravio
per le finanze comunali.
Nella formulazione del quesito, il Comune, dichiarando di
essere consapevole che l’attività dei componenti la
commissione “rientrando all’interno dei compiti
istituzionali, debba essere gratuita”, precisa di aver
fatto ricorso a professionisti esterni per mancanza al
proprio interno di “personale idoneo per l’espletamento
delle funzioni demandate alla commissione”, e ciò anche
in considerazione delle direttive contenute nella delibera
di Giunta regionale della Basilicata n. 2202 del 29.12.2008
ai sensi della quale “la commissione ha l’obbligo di
operare la scelta dei propri componenti tra tecnici esterni
all’amministrazione”.
Alla luce di quanto sopra ed al fine di rispondere al
quesito in esame, occorre analizzarne–seppure per linee
generali– il contesto normativo di riferimento.
7. Autorizzazione in materia di paesaggio: presupposti
per conferire la delega di funzione
7.1 Ai sensi dell’art. 146, comma 1, del Dlgs 42/2004 i
proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo di
immobili ed aree di interesse paesaggistico, tutelati dalla
legge, a termini dell'articolo 142, o in base alla legge, a
termini degli articoli 136, 143, comma 1, lettera d), e 157,
non possono distruggerli, né introdurvi modificazioni che
rechino pregiudizio ai valori paesaggistici oggetto di
protezione.
A tale fine, i suddetti soggetti hanno l'obbligo di
presentare alle amministrazioni competenti il progetto degli
interventi che intendano intraprendere, corredato della
prescritta documentazione, ed astenersi dall'avviare i
lavori fino a quando non ne abbiano ottenuta
l'autorizzazione.
Il comma 6, nell’attuale formulazione introdotta dal Dlgs
63/2008, prevede espressamente che sia la regione il
soggetto titolare dell’esercizio della funzione
autorizzatoria in materia di paesaggio e che la debba
espletare avvalendosi di propri uffici dotati di adeguate
competenze tecnico-scientifiche e di idonee risorse
strumentali .
Le regioni, però, hanno (conservato) la facoltà di
delegarne, a loro volta, l’esercizio, per i rispettivi
territori, a province, a forme associative e di cooperazione
fra enti locali come definite dalle vigenti disposizioni
sull'ordinamento degli enti locali, agli enti parco, ovvero
a comuni, al sussistere dei due presupposti essenziali, e
cioè “purché gli enti destinatari della delega dispongano
di di strutture in grado assicurare un adeguato livello di
competenze tecnico-scientifiche nonché di garantire la
differenziazione tra attività di tutela paesaggistica ed
esercizio di funzioni amministrative in materia
urbanistico-edilizia” (cfr. comma 6, seconda parte art.
146).
Alla luce del rinnovato assetto normativo, pertanto,
l’esercizio della funzione autorizzatoria in materia di
paesaggio potrà essere intestato (rectius conservato)
in capo agli enti locali, solo in via eventuale e, comunque,
condizionata alla sussistenza dei suddetti presupposti di “adeguatezza”
della struttura in termini di competenze professionali e di
effettiva capacità/possibilità di differenziare le attività
di tutela del paesaggio dalle funzioni (antagoniste) in
materia urbanistico-edilizia.
Si precisa, peraltro, che suddetti requisiti devono
sussistere in via continuativa per tutta la durata della
delega.
Ai sensi dell’art. 159, la verifica della loro sussistenza e
permanenza, in concreto ed in via continuativa, è rimessa
alla cura e alla responsabilità delle regioni, con la
conseguenza che, in caso di mancata verifica ovvero di esito
negativo della stessa, la funzione tornerà (ovvero resterà)
ad essere esercitata in via diretta dalla regione medesima .
Da ciò ne consegue che, una volta verificata la sussistenza
di tali condizioni, gli enti delegati dovranno essere in
grado di esercitare in concreto tale funzione.
In tale ottica, le regioni assumono un ruolo fondamentale.
Ci si riferisce in particolare all’istituzione ed al
funzionamento delle commissioni locali per il paesaggio
previste dall’art. 148 del Codice.
Ai sensi del suddetto articolato normativo “Le regioni
promuovono l'istituzione e disciplinano il funzionamento
delle commissioni per il paesaggio di supporto ai soggetti
ai quali sono delegate le competenze in materia di
autorizzazione paesaggistica, ai sensi dell'articolo 146,
comma 6.”
Dal combinato disposto del comma 6 dell’art. 146 e del comma
1 dell’art. 148, infatti, discende che gli enti delegati,
pur dotati “a monte” di una struttura “interna”
adeguata, ai fini dell’esercizio in concreto della funzione
devono essere “supportati” dalle commissioni locali
di paesaggio.
L’istituzione delle suddette commissioni è affidata, in
termini di “promozione”, alle regioni.
In quest’ottica, anche in considerazione della natura “delegata”
della funzione autorizzatoria nel cui ambito si innestano
tali commissioni, il termine “promozione” si pone
come sinonimo di “rendere fattibile”, riducendosi –in
caso contrario– ad una mera enunciazione di principio
svuotata di effettiva portata applicativa.
E ciò in quanto costituisce “principio fondamentale della
finanza pubblica quello secondo il quale, nella ipotesi in
cui l’esercizio di funzioni e servizi resi dalla pubblica
amministrazione all’utenza, o comunque diretti al
perseguimento di pubblici interessi collettivi, venga
trasferito o delegato da una ad altra amministrazione,
l’autorità che dispone il trasferimento o la delega è, pur
nell’ambito della sua discrezionalità, tenuta a disciplinare
gli aspetti finanziari dei relativi rapporti attivi e
passivi (…)” (cfr. Corte Costituzionale, sentenza
364/2010).
Ed è alla luce di tali coordinate che, a parere della
Sezione, occorre analizzare il quesito in esame, con
riferimento ai vincoli finanziari connessi all’istituzione
ed al funzionamento delle suddette commissioni.
8. Commissioni locali per il paesaggio: statuto giuridico
ed economico
Lo statuto giuridico ed economico delle suddette commissioni
è codificato –a livello di coordinate di principio- dal
combinato disposto degli artt. 148 e 183, comma 3, del dlgs
42/2004, mentre la disciplina di dettaglio è affidata al
potere normativo e regolamentare delle regioni.
L’art. 148 del Dlgs 42/2004 codifica i requisiti di
professionalità e di esperienza dei componenti le
commissioni, disponendo che debbano essere “soggetti con
particolare, pluriennale e qualificata esperienza nella
tutela del paesaggio”, e ne determina la funzione
svolta, e cioè il rilascio di pareri propedeutici al
rilascio dell’autorizzazione in materia di paesaggio.
A seguito della novella di cui al dlgs 63/2008, nell’attuale
formulazione dell’art. 148, comma 3, è venuta meno la natura
“vincolante” dei pareri resi dalle commissioni.
8.1 Il comma 3 dell’art. 183 oltre a disegnarne i vincoli
finanziari, ne connota la natura, facendo rientrare la
partecipazione alle commissioni de quibus nell’ambito
dei “compiti istituzionali” dell’amministrazione
interessata.
Tale articolato normativo è collocato nell’ambito delle “Disposizioni
finali” del Dlgs 42/2004 ed ha subito nel tempo alcune
modifiche ed integrazioni.
Nella sua originaria formulazione (vigente sino
all’11.05.2006), l’articolato in questione disponeva, oltre
al generico vincolo di invarianza finanziaria, uno specifico
vincolo di gratuità della partecipazione alle commissioni
previste nel Codice (i.e. “la partecipazione alle
commissioni previste nel presente codice si intende a titolo
gratuito e comunque da essa non derivano nuovi o maggiori
oneri a carico della finanza pubblica”).
Con il decreto legislativo n.157/2006 è stato modificato,
tra gli altri, anche il disposto di cui al comma 3,
dell’art. 183.
In particolare, nella proposta di modifica presentata dal
Governo, l’art. 30 dello schema di decreto legislativo
157/2006 non riportava più alcun riferimento al sopra citato
vincolo di gratuità, limitandosi a codificare (rectius
confermare) il divieto di “nuovi o maggiori oneri a
carico della finanza pubblica” discendente
dall’attuazione del complessivo articolato (i.e. “Dall’attuazione
del presente decreto non derivano nuovi o maggiori oneri a
carico della finanza pubblica”).
Sul punto la V Commissione Bilancio, tesoro e programmazione
(cfr. Atto 595 - Rilievi alla VIII Commissione), evidenziando
l’anomalia della circostanza e ricordando che “in casi
analoghi, in base alla prassi consolidata, si è previsto che
la partecipazione a Comitati non deve dare luogo ad alcun
compenso o rimborso spese”, aveva richiesto di
riformulare il disposto in questione, proponendone un
precetto più stringente ai sensi del quale “la
partecipazioni alle commissioni previste dal presente codice
non dà luogo alla corresponsione di alcun compenso o
rimborso spese e comunque da essa non devono derivare nuovi
o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”.
Rispetto a tale proposta di modifica, nella versione
definitivamente approvata ed oggi vigente dell’articolato in
questione, è stato espunto il riferimento al divieto di
rimborso spese ed è stato integrato il contenuto precettivo,
specificando la valenza “istituzionale” della
partecipazione alle commissioni codificate dal Codice (i.e.
“3. La partecipazione alle commissioni previste dal
presente codice è assicurata nell'ambito dei compiti
istituzionali delle amministrazioni interessate, non da'
luogo alla corresponsione di alcun compenso e, comunque, da
essa non derivano nuovi o maggiori oneri a carico della
finanza pubblica”.).
9. Vincoli finanziari contenuti nel comma 3, dell’art.
183 del Codice
Alla luce dell’attuale formulazione del disposto in esame,
quindi, occorre domandarsi se gli oneri derivanti dal “rimborso
delle spese”, seppure non esplicitamente vietati dal
dettato in questione (ed anzi, espressamente espunti dal
precetto), rientrino comunque nel perimetro di applicazione
della norma, in quanto compresi nel cono d’ombra del divieto
di corresponsione di “alcun compenso” ovvero,
comunque, nel perimetro applicativo del divieto di generare
“nuovi o maggiori oneri”, oppure non rientrino in
alcuni dei suddetti limiti e pertanto possono essere
sostenuti nei limiti delle prescrizioni della normativa
vigente.
A tale fine occorre precisare quanto segue.
Il comma 3, dell’art. 183 contiene due tipologie di vincolo:
uno di natura specifica, relativo al divieto di “compensare”
ossia remunerare, sotto qualsiasi forma, l’attività di
partecipazione alle commissioni de quibus; l’altro di
natura generica e residuale, inerente al divieto di “alterare”
il complessivo equilibrio economico-finanziario della
finanza pubblica allargata.
9.1 Con riferimento alla portata del vincolo di natura specifica,
si ritiene che con l’attuale formulazione della norma (“non
si dà luogo alla corresponsione di alcun compenso”)
s’intenda precludere ogni tipologia di onere finalizzato,
anche in via indiretta, alla remunerazione –sotto qualsiasi
forma ed “etichetta”- dell’attività svolta dal
componente la commissione.
In tale ottica, esulerebbero dal perimetro applicativo del
divieto esclusivamente gli oneri aventi natura e funzione
meramente “restitutorie”, come il rimborso delle
spese documentate.
Tale opzione peraltro sarebbe confermata dalla specifica
espunzione del divieto del “rimborso delle spese” dal
testo finale del disposto in esame e dalla circostanza che
in altre fattispecie assimilabili il legislatore abbia
espressamente incluso nel divieto tale voce di spesa.
Alla luce di quanto sopra, pertanto, si ritiene che esulino
dall’ambito di applicazione del vincolo di gratuità di cui
al comma 3, dell’art. 183 esclusivamente gli oneri di natura
“restitutoria”, come quelli relativi al “rimborso
delle spese”, purché la natura “non remunerativa”
né “indennitaria” di tali oneri sussista, in
concreto, al di là della sua etichetta formale.
9.2 Fermo quanto sopra, occorre verificare se il rimborso delle
spese –per quanto non precluso dal divieto di compensi sopra
citato- sia consentito alla luce del vincolo di invarianza
della spesa codificato dal medesimo articolato in esame.
Il vincolo di invarianza della spesa costituisce “l’alter
ego” dell’obbligo di copertura finanziaria codificato
dall’art. 81, comma 4, della Costituzione, in termini di
identità di obiettivo perseguito, e cioè la tutela degli
equilibri di finanza pubblica.
L’obbligo di copertura finanziaria (nella versione dell’art.
81, comma 3, Cost. post intervento riformatore del 2012 “ogni
legge che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi
per farvi fronte”) impone che la legge provveda, in
maniera adeguata ed effettiva, ai mezzi di sostegno dei
nuovi e/o maggiori oneri derivanti –in via esplicita ovvero
implicita- dall’attuazione della norma.
Il vincolo di invarianza finanziaria presuppone o comunque
codifica (e impone) la “neutralità” dell’impatto
degli oneri derivanti dall’attuazione della norma, in
termini di equilibrio economico-finanziario complessivo.
L’obiettivo perseguito è identico: la tutela degli equilibri
della finanza pubblica; ciò che differisce è lo strumento
utilizzato per raggiungerlo. Nel prima caso si agisce sulla
necessità di “dare copertura finanziaria” agli oneri
(nuovi o maggiori, anche in termini di minori entrate)
sopravvenuti per effetto della norma; nel secondo caso si
agisce sulla necessità che gli oneri, qualora sussistenti,
non abbiamo alcun impatto sugli equilibri di bilancio.
Il criterio di invarianza degli oneri finanziari è fissato,
infatti, con riguardo agli effetti complessivi della norma e
non comporta “in sé” la preclusione di un eventuale
aggravio di spesa purché tale aggravio sia “neutralizzato”
nei termini sopra precisati, “dal momento che ben
potrebbe un singolo aggravio di spesa trovare compensazione
in altre disposizioni produttive di risparmi o di maggiori
entrate” (cfr. ex pluribus Corte Costituzionale
sentenza n. 132/2014).
Ai sensi dell’art. 17, comma 7, della legge di contabilità e
finanza pubblica n. 196/2009, tale “neutralità
finanziaria” deve essere comprovata nell’ambito di una
relazione tecnica che riporta i dati e gli elementi idonei a
suffragare l'ipotesi di invarianza degli effetti sui saldi
di finanza pubblica, anche attraverso l'indicazione
dell'entità delle risorse già esistenti e delle somme già
stanziate in bilancio, utilizzabili per le finalità indicate
dalle disposizioni medesime.
In tale senso, il comma 3, dell’art. 183 del D.lgs. 42/2004
nel prevedere che dalla partecipazione alle commissioni
previste nel Codice non devono “comunque derivare nuovi o
maggiori oneri” non comporta un divieto assoluto di
sostenere nuovi o maggiori oneri, ma esclusivamente
l’obbligo di compensare tali oneri con entrate ovvero con
risparmi di spesa derivanti e/o connesse all’attuazione
della normativa in questione (cioè le disposizioni che
nell’ambito del Codice istituiscono le varie commissioni,
tra cui l’art. 148 in tema di commissioni locali per il
paesaggio).
10. Alla luce di quanto sopra e per rispondere all’oggetto
del quesito in esame, la Sezione ritiene che il comma 3,
dell’art. 183 del Dlgs 42/2004, per come formulato, non
precluda “in linea astratta” il rimborso delle spese
di viaggio sostenute dai componenti per la partecipazione
alle commissioni di riferimento, e ciò in quanto
l’articolato in questione non prevede uno specifico divieto
in tale senso, e, comunque, tale divieto non può ritenersi
compreso –per via implicita- nel divieto di “corrispondere
alcun compenso” sancito dal comma in questione, in
quanto non ne condivide i medesimi presupposti “remunerativi
o compensativi”.
Fermo quanto sopra, alla luce del vincolo di neutralità
finanziaria sancito dall’articolato in esame, gli oneri
derivanti dal “rimborso delle spese” potranno essere
legittimamente previsti e sostenuti dall’amministrazione
interessata solo ed esclusivamente all’esito della verifica
“a monte”, sin dalla fase di programmazione, della
possibilità di neutralizzare, in concreto, tali spese con le
nuove entrate (ovvero con i risparmi di spesa) derivanti
dall’esercizio della funzione delegata, di cui è parte
integrante e sostanziale la commissione locale per il
paesaggio in esame.
In caso contrario, tali oneri non potranno essere sostenuti,
pena la violazione del vincolo di invarianza finanziaria
come sopra codificato a norma del comma 3, dell’art. 183 in
esame.
Si ricorda, inoltre, che tale rimborso spese dovrà essere
effettuato in conformità ai vincoli della normativa vigente,
e ciò in termini di presupposti, tipologia e limiti
quantitativi ivi fissati, regolamentandone a monte la
fattispecie, pur sempre nella propria discrezionalità
gestoria.
Nel caso in esame, peraltro, trattandosi di istituzione e
funzionamento di un organo collegiale connesso all’esercizio
di una funzione “istituzionale” dell’amministrazione
interessata, tale vincolo di invarianza della spesa
comporterà –ai fini del suo rispetto- una diversa
allocazione delle ordinarie risorse (umane, strumentali ed
economiche) disponibili a legislazione vigente, ovvero
l’utilizzo delle eventuali maggiori entrate derivanti dalla
o per l’effetto dell’istituzione delle suddette commissioni,
il tutto avendo riguardo al fatto che si tratta di una
funzione “delegata” che le regioni hanno l’onere di “promuovere”
ai fini del suo esercizio, in concreto.
A tale fine occorrerà, pertanto, avere riguardo alla
normativa regionale emanata al fine di “promuovere” e
“disciplinare” il funzionamento delle suddette
commissioni.
10.1 I parametri di riferimento sono, da un lato, la legge
regionale n. 50/1993 e successive modifiche ed integrazioni,
tra cui la legge regionale n. 7/1999 emanata in attuazione
del dlgs 112/1998 per il “conferimento di funzioni e
compiti amministrativi al sistema delle autonomie locali”
e, dall’altro, la delibera di giunta regionale n. 2202/2008
che, alla luce delle innovazioni introdotte dal Dlgs
63/2008, ha provveduto a disciplinare, nel dettaglio, i
presupposti per l’esercizio della delega in questione da
parte degli enti delegati.
L’art. 7 della legge 50/1993, andando a modificare ed
integrare la legge regionale n. 20/1987 in materia di
paesaggio, dispone che sono subdelegate ai comuni le
funzioni amministrative esercitate dagli organi e uffici
regionali, concernenti il rilascio di nullaosta o divieti
relativi e connessi, tra l’altro, alla tutela del paesaggio.
A tale fine il competente ufficio comunale rilascia il
nullaosta, ovvero respinge l'istanza, sentita la commissione
comunale per la tutela del paesaggio.
Ai sensi dell’articolato in questione, cosi come modificato
dalla sopra citata legge n. 7/1999, la commissione in esame
è un “(...) organo collegiale imperfetto, istituita con
deliberazione del Consiglio comunale, è composta dal
responsabile dell'ufficio tecnico comunale, da un
architetto, un ingegnere edile, un geologo, un biologo
naturalista e un agronomo".
Nell’ambito delle direttive contenute nella sopra citata
delibera di Giunta regionale 2202/2008 vengono, invece,
esplicitati i presupposti per la delega dell’esercizio della
funzione autorizzatoria in parola.
A tale fine, la regione Basilicata assegna un ruolo “essenziale”
all’istituzione delle suddette commissioni locali paesaggio
(definita nel provvedimento regionale come “Commissione
per la qualità architettonica e per il paesaggio”),
ponendosi come strumento per il soddisfacimento di entrambi
i presupposti fissati dal comma 6, dell’art. 146, e
precisamente:
a) come strumento necessario per “assicurare la richiesta
adeguatezza delle istruttorie tecnico-amministrative
relative alle istanze di autorizzazione in materia
paesaggistica”, prescrivendo che “ogni Comune dovrà
garantire che il procedimento venga affidato a strutture che
siano in grado di esprimere la necessaria competenza dal
punto di vista tecnico scientifico. In particolare la
struttura comunale deve necessariamente avvalersi della
competenza tecnico-scientifica delle Commissioni per la
qualità architettonica e per il paesaggio, istituite in
attuazione dell'art. 7 della l.r. n. 50/1993, che dovrà
essere rinominata nella composizione prevista dalla l.r. n.
7/1999.” (cfr. punto 1, lett. a) Allegato A); nonché
b) come strumento per garantire la “differenziazione tra i
procedimenti paesaggistico e urbanistico-edilizio (...), in
quanto la Commissione comunale per la qualità architettonica
e per il paesaggio, è “composta da figure professionali
di elevata competenza e specializzazione, esterni alle
strutture amministrative comunali.” (cfr. punto 1, lett.
b) Allegato A).
Con riferimento ai requisiti “soggettivi” dei
componenti, oltre alla specifica tipologia di professionisti
richiesta ai sensi dell’art. 7 della legge 7/2009 sopra
richiamata (i.e. “(..) responsabile dell'ufficio tecnico
comunale, da un architetto, un ingegnere edile, un geologo,
un biologo naturalista e un agronomo”), viene ribadito
che la Commissione dovrà operare la scelta dei propri
componenti tra tecnici “esterni” all'amministrazione
e in ogni caso non facenti parte della Sportello unico per
edilizia e che i componenti dovranno dimostrare di aver
svolto attività attinenti a materie quali l'uso, la
pianificazione e la gestione del territorio e del paesaggio,
la progettazione edilizia e urbanistica, la tutela dei beni
architettonici e culturali e dovranno aver maturato una
qualificata esperienza, almeno quinquennale.
In tale contesto, il ruolo di “promotore” della
regione si sostanzierebbe unicamente nel consentire ai
comuni di costituire Commissioni intercomunali nell'ambito
delle forme associative previste dalle leggi regionali e
nazionali, con particolare riguardo alle Unioni di Comuni,
privilegiando Commissione tra Comuni contermini ovvero,
qualora abbiano già istituito una Commissione, ai sensi
dell'art. 7 della L.R. n. 50/1993, di non provvedere ad una
nuova istituzione qualora quella esistente risulti adeguata
e conforme ai criteri come sopra fissati.
Al fine di dare un contenuto “concreto” all’onere di
promozione codificato dall’art. 148, comma 1, si ritiene,
quindi, che debba aversi riguardo ai principi generali
fissati dal sistema in tema di delega di funzione, ed ai
sensi dei quali l’ente delegante deve intervenire al fine di
rendere in concreto possibile l’esercizio della funzione
delegata.
Nel caso di specie, pertanto, tale onere potrà sostanziarsi
nel coadiuvare gli enti delegati nella
istituzione/composizione delle commissioni de quibus.
11. A tale specifico riguardo, anche alla luce del peculiare
requisito di “terzietà” richiesto nelle direttive in
parola con riferimento ai componenti le commissioni in
esame, si ritiene necessario verificare se tali
professionisti debbano essere “esterni”
all’amministrazione interessata ma “interni” al
comparto pubblico complessivamente inteso ovvero possano
essere anche professioni privati, cioè “esterni” a
tale apparato pubblico.
Come noto, per i professionisti legati da un rapporto di
servizio con la pubblica amministrazione vige il tendenziale
principio di onnicomprensività della retribuzione alla luce
del quale gli importi percepiti per le funzioni svolte in
via principale s’intendono sufficienti e proporzionati a
remunerare tutti gli eventuali altri incarichi ricoperti
nell’ambito ed in ragione del rapporto di impiego alle
pubbliche dipendenze (cfr. parere Consiglio di Stato n.
173/2004) nonché il principio, oggi immanente al sistema ai
fini di tutela della finanza pubblica allargata, di divieto
di “cumulo” degli emolumenti percepiti (tra gli
altri, si vedano gli artt. 82 e 83 del TUEL).
In tale ottica, la gratuità delle prestazioni svolte in seno
ad organi collegiali, non si presenta come mancanza di
sinallagmaticità (e quindi di causa) e quindi eccezione al
principio di necessaria onerosità delle prestazioni
lavorative, in quanto il professionista s’intende remunerato
nell’ambito e per effetto della retribuzione ovvero degli
emolumenti già percepiti in virtù del rapporto di servizio
ovvero del munus pubblico rivestito nell’ambito della
pubblica amministrazione.
11.1 Nel caso in cui invece i professionisti fossero esterni al
complessivo apparato pubblico occorrerà verificare se il
tale vincolo di gratuità tombale sia compatibile con il
suddetto principio di onerosità delle prestazioni ai sensi
del quale “Ogni attività lavorativa è presunta a titolo
oneroso salvo che si dimostri la sussistenza di una finalità
di solidarietà in luogo di quella lucrativa (...)” (ex
pluribus Cass. sentenza 26.01.2009 n. 1833) e, comunque,
non vada ad inficiare –almeno in linea potenziale e
astratta– sull’indipendenza e sull’imparzialità dei
componenti le commissioni, alla luce proprio dell’assenza di
qualsiasi remunerazione per l’attività svolta.
In tale caso, infatti, si suole parlare di “funzionario
onorifico”, e cioè di professionista esterno che presta
la propria attività nell’ambito del comparto pubblico pur
non condividendone, neppure in parte, i connotati
essenziali, tra cui “la scelta del dipendente di
carattere prettamente tecnico-amministrativo effettuata
mediante procedure concorsuali (che, si contrappone, nel
caso del funzionario onorario, ad una scelta
politico-discrezionale), l'inserimento strutturale del
dipendente nell'apparato organizzativo della p.a. (rispetto
all'inserimento meramente funzionale del funzionario
onorario), lo svolgimento del rapporto secondo un apposito
statuto per il pubblico impiego (che si contrappone ad una
disciplina del rapporto di funzionario onorario derivante
pressoché esclusivamente dall'atto di conferimento
dell'incarico e dalla natura dello stesso), il carattere
retributivo -perché inserito in un rapporto sinallagmatico-
del compenso percepito dal pubblico dipendente (rispetto al
carattere indennitario rivestito dal compenso percepito dal
funzionario onorario), la durata tendenzialmente
indeterminata del rapporto di pubblico impiego (a fronte
della normale temporaneità dell'incarico onorario)”
(cfr. ex pluribus Corte di Cassazione, sentenza n.
5398/2007).
Nel caso di specie, si ritiene che il legislatore abbia
effettuato un’opzione, seppure implicita, a favore di
componenti “interni” all’apparato pubblico, in quanto
legati da un rapporto di dipendenza (nelle sue varie forme)
con la pubblica amministrazione, e ciò per le seguenti
ragioni:
a) in primo luogo alla luce del fatto che la partecipazione alle
suddette commissioni rientra –per espressa previsione di
legge– nei compiti “istituzionali”
dell’amministrazione interessata (cfr. comma 3, art. 186 del
Codice), con tutti i corollari a questo connessi, anche in
termini di sempre più incisiva valorizzazione delle risorse
professionali interne da adibire a tali scopi.
Sul punto,
peraltro, si segnala che ai sensi dell’ art. 6, comma 7, del DL 78/2010, a decorrere dall’esercizio 2011 il legislatore,
al fine di conseguire risparmi nei costi di apparato “valorizzando”
al contempo le figure professionali “interne”,
vincola la spesa per incarichi di studio e consulenza ad una
percentuale del 20% della spesa sostenuta per tale voce nel
2009, pena illecito disciplinare e responsabilità erariale
del dirigente responsabile;
b) per la rilevanza delle funzioni espletate dalle commissioni in
esame in termini di “zona a rischio corruzione”,
considerato il peculiare settore in cui i componenti si
trovano ad operare–quello delle autorizzazione
paesaggistiche- in cui si contrappongono interessi pubblici
ed interessi privati, con conseguente potenziale ampliamento
dei diritti dei privati in danno di quello pubblico di
tutela del paesaggio;
c) per la necessità, quindi, di garantire che le attività dei
componenti de quibus siano improntate ai principi di
indipendenza ed imparzialità, alla cui base non può non
assumere rilievo essenziale una retribuzione sufficiente e
proporzionata;
d) per il carattere tombale del divieto di corrispondere compensi
del comma 3, dell’art. 183 che, alla luce di quanto sopra,
mal si concilia –almeno in linea di principio- con la
necessità di remunerare i professionisti “altamente
specializzati” (privati) incaricati in via “onorifica”
;
e) per gli specifici vincoli imposti dai codici deontologici degli
ordini professionali di appartenenza dei professionisti
indicati nella normativa regionale (cfr. art. 7 legge
regionale Basilicata n. 7/1999), ai sensi dei quali la
regola generale vieta la gratuità della prestazione salvo
specifiche ipotesi motivate da ragioni di “solidarietà”
ovvero di “apprendistato”; ragioni che, nel caso di
specie, non è dato intravedere;
f) per la possibilità di rinvenire le suddette professionalità
nell’ambito del comparto organizzativo regionale che –quale
titolare della funzione– ha (o comunque dovrebbe avere) al
proprio interno le specifiche figure professionali richieste
ai fini della composizione delle commissioni in parola.
11.2 Ed è in quest’ottica che, a parere della Sezione, si ritiene
di dover interpretare il punto 2 dell’allegato A (“Requisiti
dei componenti della Commissione per la qualità
architettonica”) della delibera di giunta della regione
Basilicata (n. 2202/2008) ai sensi della quale le
commissioni in esame devono essere composte da “tecnici
esterni all'amministrazione e in ogni caso non facenti parte
della Sportello unico per edilizia”.
La ratio sottesa a tale disposizione –cioè la
necessità di garantire le competenze tecnico-scientifiche e
la differenziazione tra i due procedimenti, quello
paesaggistico e quello urbanistico-edilizio- si appalesa
comunque soddisfatta con l’utilizzo di professionisti
“esterni” all’amministrazione interessata ma “interni” al
comparto pubblico.
In questo caso, peraltro, il vincolo di gratuità tombale
previsto dal comma 3, dell’art. 183 si presenterebbe non
come deroga al principio immanente al sistema di onerosità
della prestazione, ma come diretta attuazione del principio
di onnicomprensività della retribuzione come sopra
enucleato.
A tale fine, peraltro, potrà essere la stessa regione –in
qualità di titolare della funzione autorizzatoria- a dotare
l’amministrazione interessata dei professionisti in possesso
dei necessari requisiti di competenza ed esperienza cui
affidare l’incarico di comporre le commissioni in parola, e
ciò in attuazione dell’obbligo di “promozione” delle
commissioni di cui al comma 1 dell’art. 148.
12. Per concludere, anche al fine di riepilogare gli esiti
del percorso motivazionale seguito, la
Sezione ritiene che non rientri -in linea astratta- tra i
vincoli finanziari sanciti dal comma 3, dell’art. 183 del dlgs 42/2004 il divieto di “rimborso delle spese”
sostenute e documentate dai componenti le commissioni, e ciò
a condizione che sia garantita la neutralità –in termini di
impatto sugli equilibri economico-finanziari- della relativa
voce di bilancio.
A tale fine l’Ente potrà riallocare le
risorse ordinariamente utilizzate in relazione all’esercizio
di tale funzione ovvero utilizzare le maggiori entrate o le
minori spese derivanti dall’espletamento della funzione
medesima, e ciò anche alla luce delle risorse messe a
disposizione dall’ente delegante (la regione) ovvero
comunque percepite in ragione ed ai fini dell’esercizio
della suddetta funzione delegata.
Si rileva in proposito che nell’ambito
dell’istituzione e del funzionamento delle commissioni
locali per il paesaggio di cui all’art. 148 del dlgs
42/2004, le regioni assumono il ruolo fondamentale di “promotore”
che non può e non deve limitarsi alla disciplina in via
astratta dell’istituto in parola, ma deve connotarsi nei
termini prescritti dal legislatore nazionale, cioè come “supporto”
in concreto agli enti subdelegati nella composizione e nel
funzionamento delle suddette commissioni.
Per l’effetto si ritiene, altresì, che i
professionisti componenti le commissioni in parola debbano
essere "terzi” rispetto all’amministrazione delegata
ma “interni” al comparto pubblico, inteso come
soggetto macro aggregato.
Si ritiene che il legislatore, con il comma
3, dell’art. 183 del Codice, abbia effettuato una specifica
opzione a tale riguardo, e ciò alla luce della natura “istituzionale”
delle funzioni svolte e del divieto tombale di
remunerazione, requisiti che mal si conciliano con il
conferimento di incarichi a titolo onorifico a
professionisti privati, e ciò alla luce del generale
principio di “autosufficienza” e “valorizzazione”
delle risorse interne all’apparato pubblico, del generale
principio di onerosità della prestazione lavorativa e, non
ultimo, della peculiare connotazione di “zona rischio
corruzione” del settore in cui si trovano ad operare le
commissioni in esame, in termini di potenziale (ed
arbitrario) “ampliamento dei diritti dei privati” ed
in relazione al quale (rischio) occorre assicurare –almeno
in linea astratta- l’indipendenza ed imparzialità dei
componenti le commissioni de quibus, e ciò anche per
il tramite di una remunerazione sufficiente e proporzionata.
Tale elemento, visto il carattere tombale
del divieto di remunerazione di cui al comma 3, dell’art.
183 del Codice, può essere rintracciato esclusivamente con
riferimento a professionisti interni al comparto pubblico,
in relazione ai quali la prestazione –seppure gratuita in
seno alle commissioni de quibus– è già remunerato
nell’ambito della restribuzione “madre” ricevuta per
effetto del rapporto di servizio o del munus pubblico
che lega il professionista alla pubblica amministrazione,
complessivamente intesa.
Alla luce di quanto sopra, pertanto, l’ente
delegato dovrà aver previamente “mappato” nell’ambito
del proprio piano triennale anticorruzione i rischi connessi
all’attività in questione ed averne individuate le misure
volte a prevenirlo.
In tale ottica, il carattere onorifico
della prestazione -in assenza di cause giustificatrici
ulteriori rispetto al vincolo finanziario in sé- non si
presenta –almeno in via astratta– come misura volta a
prevenire ovvero ad ovviare il rischio che tale attività “gratuita”
venga svolta nel perseguimento di interessi/vantaggi diversi
ed opposti rispetto al fine tutelato dalla norma, e ciò
proprio in ragione del peculiare assetto degli interessi
coinvolti nell’esercizio della funzione de qua, l’interesse
dei privati ad ampliare la propria sfera di diritti ed il
bene-paesaggio rispetto al quale tali interessi potrebbero
risultare recessivi
(Corte dei Conti, Sez. controllo Basilicata,
parere 07.07.2016 n. 29). |
QUESITI & PARERI |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI
La convenzione tra Comuni.
DOMANDA:
L’Ente capofila –stazione appaltante di un servizio fra più
Comuni, in virtù della convenzione stipulata con essi- ha
chiesto ad un Comune “gli interessi di mora previsti
dalla normativa vigente” per il ritardato pagamento di
alcune note informative nelle quali dichiara che esse non
costituiscono fatture commerciali in quanto trattasi di
trasferimento tra enti pubblici ai sensi della convenzione
per lo svolgimento di servizi associati.
Si chiede pertanto se, ai sensi del D.Lgs. n. 231/2002 così
come modificato dal D.Lgs. n. 192/2012, l’attività svolta
dall’ente capofila, in rapporto ai comuni convenzionati,
possa qualificarsi come “transazione commerciale” e
pertanto esso sia da considerarsi “impresa”.
Nel caso affermativo si chiede inoltre se siano dovuti gli
interessi di mora anche in assenza della relativa richiesta
da parte della ditta appaltatrice del servizio.
RISPOSTA:
Il D.Lgs. 231/2002, come modificato dal D.Lgs. 192/2012,
all’articolo 2 stabilisce che la normativa in questione si
applica alle “transazioni commerciali”, cioè ai
contratti, comunque denominati, tra imprese e pubbliche
amministrazioni, che comportano, in via esclusiva o
prevalente, la consegna di merci o la prestazione di servizi
contro il pagamento di un prezzo.
La circolare del Ministero dello sviluppo economico n. 1293
del 23/01/2013, nel commentare queste disposizioni, afferma
che “in conclusione, si ritiene che la nuova disciplina
dei ritardati pagamenti introdotta in attuazione della
normativa comunitaria 7/2011/UE, si applica ai contratti
pubblici relativi a tutti i settori produttivi, inclusi i
lavori, stipulati a decorrere dal 1/1/2013, ai sensi
dell’articolo 3, comma 1, del D.Lgs. 192/2012”. Si
ritiene che la convenzione stipulata tra i Comuni in
questione, sottoscritta sulla base di quanto stabilito
dall’articolo 30 del Tuel, non possa essere equiparata ad un
contratto che da luogo ad una transazione commerciale.
Infatti, il comune capo fila si ritiene che non assuma la
veste di “imprenditore”, cioè di un soggetto “esercente
un’attività economica organizzata o una libera professione”.
Pertanto, si ritiene che i rapporti finanziari che
conseguono ad una convenzione costituita sulla base
dell’articolo 30 del Tuel, non diano luogo a fatture
commerciali, con la conseguenza che in questo caso non sono
applicabili le disposizioni previste dal D.Lgs. 231/2002
(link
a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
APPALTI SERVIZI:
L'affidamento in concessione.
DOMANDA:
Dovendo procedere all'individuazione di un concessionario
per la gestione dei servizi pre e post scuola, in cui questa
Amministrazione non assumerà alcun impegno di spesa e il
concessionario incasserà le rette direttamente dagli utenti,
ma si limiterà all'individuazione della base d'asta sulla
quale viene richiesto un ribasso per determinare la retta a
carico degli utenti.
Come procedere all'affidamento in concessione alla luce del
D.Lgs. 50/2016 (l'importo è inferiore a € 40.000,00):
- è obbligatorio ricorrere al MEPA attraverso una RDO?
- le concessioni sono escluse dal MEPA?
- oppure dobbiamo fare una procedura negoziata invitando al
meno 5 operatori?
RISPOSTA:
Trattandosi di affidamento di importo inferiore a 40 mila
euro, trova luogo il comma 2 dell’art. 36 del nuovo codice
il quale prevede che “fermo restando quanto previsto
dagli articoli 37 e 38 e salva la possibilità di ricorrere
alle procedure ordinarie, le stazioni appaltanti procedono
all'affidamento di lavori, servizi e forniture di importo
inferiore alle soglie di cui all'articolo 35, secondo le
seguenti modalità: - a) per affidamenti di importo inferiore
a 40.000 euro, mediante affidamento diretto, adeguatamente
motivato o per i lavori in amministrazione diretta…”.
L’ANAC nelle proprie recenti linee guida (doc.
consultazione) ha tuttavia precisato che “come previsto
dall’art. 36, comma 2, lett. a), la scelta dell’affidatario
deve essere adeguatamente motivata. Si reputa che una
motivazione adeguata dà dettagliatamente conto del possesso
da parte dell’operatore economico selezionato dei requisiti
richiesti nella delibera a contrarre, della rispondenza di
quanto offerto alle esigenze della stazione appaltante, di
eventuali caratteristiche migliorative offerte dal
contraente e della convenienza del prezzo in rapporto alla
qualità della prestazione. A tal fine, si ritiene che le
stazioni appaltanti, anche per soddisfare gli oneri
motivazionali, possano procedere alla valutazione
comparativa dei preventivi di spesa forniti da due o più
operatori economici. In caso di affidamento all'operatore
economico uscente, è richiesto un onere motivazionale più
stringente, in quanto la stazione appaltante motiva la
scelta avuto riguardo al grado di soddisfazione maturato a
conclusione del precedente rapporto contrattuale (esecuzione
a regola d’arte nel rispetto dei tempi e dei costi pattuiti)
e, si ritiene, anche in ragione della competitività del
prezzo offerto rispetto alla media dei prezzi praticati nel
settore di mercato di riferimento, anche tenendo conto della
qualità della prestazione”.
L’applicazione obbligatoria del MEPA (comma 450 l. n.
296/2006) trova luogo, per regola generale, in relazione a
tutti gli acquisti della PA, come del resto ripetuto più
volte dalla Corte dei Conti (con particolare riferimento
anche agli acquisti in economia: cfr. tra le varie Sez.
Marche n. 17/2013; Sez. Lombardia n. 92/2013; v. anche CDS
n. 3/2013).
Ma per tale stessa ragione si è ritenuto che non trovi luogo
invece in relazione agli affidamenti in concessione di
servizi, dal momento che in tale ipotesi non si ravvisa un
vero e proprio “acquisto” di un servizio destinato al
comune poiché la prestazione è rivolta direttamente agli
utenti che ne sopportano anche i costi, mentre la
controprestazione è costituita dal diritto di gestire il
servizio in chiave produttiva (v. anche ANAC det. n.
11/2015).
La procedura negoziata con invito ad almeno n. 5 operatori
risulta invece obbligatoria qualora si tratti di affidamenti
di forniture e servizi di importo superiore a 40 mila euro e
fino alle soglie di cui all’art. 35 del codice (lett. b)
comma 2 art. 36 codice) (link
a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Giunte rosa nei mini-enti. La parità di genere non
conosce eccezioni. Anche sotto i 3 mila abitanti va
garantita la presenza femminile.
Quale disciplina deve essere applicata, in tema di parità di
genere nella composizione della giunta comunale, a un ente
locale che conta una popolazione inferiore a 3 mila
abitanti?
La legge n. 56 del 07.04.2014, all'art. 1, comma 137, ha
stabilito, per i soli comuni con popolazione superiore ai
3.000 abitanti, un preciso quorum del 40% affinché sia
rispettato il principio dell'equilibrio di genere; per i
comuni al di sotto di tale soglia demografica occorre
richiamare l'art. 6, comma 3, del decreto legislativo n.
267/2000.
L'articolo citato prevede che gli statuti comunali e
provinciali stabiliscano norme per assicurare condizioni di
pari opportunità tra uomo e donna e per garantire la
presenza di entrambi i sessi nelle giunte e negli organi
collegiali non elettivi del comune e della provincia, nonché
degli enti, aziende ed istituzioni da essi dipendenti.
Tale disposizione è stata modificata dall'art. 1, comma 1,
della legge n. 215 del 2012 che ha sostituito il verbo
«promuovere» con il verbo «garantire» e ha aggiunto alla
espressione «organi collegiali» la dicitura «non elettivi».
Ai sensi del comma 2 dell'art. 1 della citata legge n. 215
del 2012 è previsto che gli enti locali, entro sei mesi
dall'entrata in vigore della legge stessa, adeguino i propri
statuti e regolamenti alle disposizioni recate dell'art. 6,
comma 3, del richiamato Testo unico degli enti locali.
L'art. 2, comma 1, lett. b) della citata legge n. 215/12 ha
modificato l'art. 46, comma 2, del decreto legislativo n.
267/2000, disponendo che il sindaco e il presidente nella
provincia nominano i componenti della giunta «nel rispetto
del principio di pari opportunità tra donne e uomini,
garantendo la presenza di entrambi i sessi».
La normativa in parola va letta alla luce dell'art. 51 della
Costituzione, come modificato dalla legge costituzionale n.
1/2003, che ha riconosciuto dignità costituzionale al
principio della promozione delle pari opportunità tra donne
e uomini.
Nel caso dei comuni rientranti nella suddetta fascia
demografica, pertanto, devono trovare applicazione le
disposizioni contenute nei citati articoli 6, comma 3, e 46,
comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 e nella legge n.
215/2012. Tali disposizioni, recependo i principi sulle pari
opportunità dettati dall'art. 51 della Costituzione,
dall'art. 1 del decreto legislativo dell'11.04.2006, n.
198 (Codice delle pari opportunità) e dall'art. 23 della
Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, non
hanno un mero valore programmatico, ma carattere precettivo,
finalizzato a rendere effettiva la partecipazione di
entrambi i sessi in condizioni di pari opportunità, alla
vita istituzionale degli enti territoriali.
Peraltro, ferma restando la necessità dell'adeguamento
statutario da parte dell'ente interessato, le richiamate
disposizioni sulla parità di genere risultano immediatamente
applicabili, anche in carenza di una espressa previsione
statutaria
(articolo ItaliaOggi del 22.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Incompatibilità dipendente provinciale incaricato p.o. e
assessore presso Comune.
A norma dell'art. 12, comma 4, lett. b),
del d.lgs. 39/2013, nelle pubbliche amministrazioni, gli
incarichi dirigenziali, interni ed esterni, sono
incompatibili con la carica di componente della giunta di un
comune con popolazione superiore ai 15.000 abitanti o di una
forma associativa tra comuni avente la medesima popolazione,
ricompresi nella stessa regione dell'amministrazione locale
che ha conferito l'incarico.
Detta incompatibilità si verifica anche nella fattispecie di
dipendente incaricato di posizione organizzativa, vista
l'assimilazione di tale incarico a quello dirigenziale
operata dall'art. 2, comma 2, del citato decreto, e gli
orientamenti espressi in materia dall'ANAC.
L'incompatibilità potrebbe non sussistere solo nel caso in
cui l'incarico fosse stato conferito prima dell'entrata in
vigore del d.lgs. 39/2013, ovvero nel caso in cui non si
trattasse di delega di funzioni dirigenziali.
L'Ente ha chiesto un parere in ordine al sussistere di una
possibile incompatibilità tra due posizioni rivestite da un
funzionario dipendente della Provincia, incaricato di
posizione organizzativa. Si tratta, da un lato, della nomina
ad Assessore presso un Comune (con popolazione superiore ai
15.000 abitanti), e, dall'altro, di un funzionario (non
dirigente), cui è stato conferito un incarico di posizione
organizzativa con delega di funzioni dirigenziali.
Com' è noto, l'art. 12, comma 4, lett. b), del d.lgs.
39/2013 dispone che, nelle pubbliche amministrazioni, gli
incarichi dirigenziali, interni e esterni, sono
incompatibili con la carica di componente della giunta o del
consiglio di una provincia, di un comune con popolazione
superiore ai 15.000 abitanti o di una forma associativa tra
comuni avente la medesima popolazione, ricompresi nella
stessa regione dell'amministrazione locale che ha conferito
l'incarico.
Si osserva che l'art. 1, comma 2, lett. j), del citato
decreto qualifica come 'incarichi dirigenziali interni'
gli 'incarichi di funzione dirigenziale, comunque
denominati, che comportano l'esercizio in via esclusiva
delle competenze di amministrazione e gestione [.....]
conferiti a dirigenti o ad altri dipendenti [...]
appartenenti ai ruoli dell'amministrazione che conferisce
l'incarico ovvero al ruolo di altra pubblica amministrazione'.
Inoltre l'art. 2 [1],
comma 2 del d.lgs. 39/2013, prevede espressamente che, ai
fini applicativi dello stesso, al conferimento negli enti
locali di incarichi dirigenziali è assimilato quello di
funzioni dirigenziali a personale non dirigenziale.
L'ANAC [2],
con riferimento alla previsione normativa di cui si discute,
ha chiarito che sussiste l'incompatibilità tra l'incarico di
posizione organizzativa in un ente locale, conferito ai
sensi dell'art. 109, comma 2, del d.lgs. 267/2000, e la
carica di componente della giunta o dell'assemblea della
forma associativa di cui il medesimo ente locale fa parte,
in quanto tale incarico è qualificabile come incarico di
funzioni dirigenziali a personale non dirigenziale, fatta
salva l'ipotesi che il conferimento dello stesso sia
avvenuto prima dell'entrata in vigore del citato decreto
39/2013, secondo quanto stabilito dall'art. 29-ter del d.l.
69/2013.
La stessa ANAC [3]
ha osservato, più in generale, che 'il regime delle
incompatibilità di cui al d.lgs. n. 39 del 2013 fa esclusivo
riferimento agli incarichi dirigenziali e agli incarichi di
funzioni dirigenziali, onde l'annoverabilità tra i medesimi
degli incarichi di posizione organizzativa va valutata caso
per caso in ragione delle funzioni effettivamente svolte'.
In conclusione, il presupposto rilevante al fine della
sussistenza dell'incompatibilità è che al responsabile
delegato di posizione organizzativa siano attribuite le
funzioni dirigenziali di cui all'art. 107, commi 2 e 3, del
d.lgs. 267/2000.
Nella fattispecie prospettata emerge che l'interessato è
stato delegato allo svolgimento di determinate funzioni
dirigenziali rientranti nel predetto ambito, per cui si
ritiene che l'incompatibilità potrebbe non sussistere solo
qualora l'incarico fosse stato conferito prima dell'entrata
in vigore del d.lgs. 39/2013 e, in tal caso, fino alla
scadenza già stabilita per il medesimo incarico.
---------------
[1] Rubricato Ambito di applicazioni.
[2] Cfr. orientamento n. 4 del 15.05.2014.
[3] Cfr. FAC 7.19 Il d.lgs. n. 39 del 2013 si applica ai
titolari di posizioni organizzative? (19.07.2016
-
link a
www.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Amministratori locali. Utilizzo consigliere comunale in
cantiere di lavoro.
Non si ritiene sussistere nei confronti
del consigliere comunale che sta per essere avviato ad
un'attività di cantieri di lavoro presso il medesimo Ente la
causa di incompatibilità di cui al combinato disposto degli
articoli 60, comma 1, numero 7) e 63, comma 1, numero 7),
del d.lgs. 267/2000, in quanto tale utilizzo, improntato a
finalità di carattere assistenziale/previdenziale, non
implica la costituzione di un rapporto di lavoro.
Il Consigliere comunale ha chiesto un parere in ordine al
possibile sussistere di una causa di incompatibilità con
riferimento alla situazione di un soggetto, individuato
quale destinatario di un progetto 'cantieri di lavoro'
ex l.r. 27/2012 e che contestualmente ricopre la carica di
consigliere comunale presso il medesimo Ente.
Sentito il Servizio Consiglio autonomie locali ed
elettorale, si esprimono le seguenti considerazioni.
Si ritiene utile riportare innanzitutto le considerazioni
espresse a suo tempo in un precedente parere reso dallo
scrivente Servizio [1],
in cui si era esaminata la questione -analoga- della
sussistenza di una causa di incompatibilità per un
amministratore locale che si appresta a svolgere presso
l'amministrazione comunale nella quale esercita il suo
mandato un lavoro di pubblica utilità.
Preliminarmente, si è rilevato -in detto contesto- che la
valutazione della sussistenza delle cause di ineleggibilità
o di incompatibilità dei componenti di un organo elettivo
amministrativo è attribuita dalla legge all'organo medesimo.
È, infatti, principio di carattere generale del nostro
ordinamento che gli organi collegiali elettivi debbano
esaminare i titoli di ammissione dei propri componenti.
Così come, in sede di esame delle condizioni degli eletti
(art. 41 del D.Lgs. 267/2000), è attribuito al consiglio
comunale il potere-dovere di controllare se nei confronti
dei propri membri esistano condizioni ostative all'esercizio
delle funzioni, allo stesso modo, qualora venga
successivamente attivato il procedimento di contestazione di
una causa di incompatibilità, a norma dell'art. 69 del
decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, spetta al
consiglio medesimo, al fine di valutare la sussistenza di
detta causa, esaminare le osservazioni difensive formulate
dall'amministratore e, di conseguenza, adottare gli atti
ritenuti necessari.
Ciò premesso, la norma da prendere in esame, con riferimento
alla fattispecie in commento, è l'articolo 60, comma 1,
numero 7), del D.Lgs 267/2000, la quale stabilisce che non è
eleggibile a consigliere comunale, nel rispettivo consiglio,
il dipendente del Comune. In forza del disposto di cui
all'articolo 63, comma 1, numero 7), TUEL, infatti,
costituisce causa di incompatibilità per un amministratore
locale il venire a trovarsi, nel corso del mandato, in una
delle condizioni di ineleggibilità previste dal precedente
articolo 60.
La ratio della norma è quella di garantire il più
possibile la separazione tra attività politica e attività di
gestione e l'elemento di discrimine affermato dalla
giurisprudenza al riguardo è la sussistenza delle condizioni
tipiche del rapporto di impiego subordinato. Occorre, in
altri termini, per la configurabilità dell'ipotesi di
incompatibilità in esame, che nell'attività svolta per il
Comune siano rinvenibili i profili della subordinazione
tipici del rapporto di lavoro dipendente o ad esso
assimilati (sottoposizione ad ordini e direttive;
inserimento del lavoratore nella struttura dell'ente;
assenza di un rischio imprenditoriale; continuità della
prestazione; forma della retribuzione; non gratuità della
prestazione...[2]).
Tali requisiti paiono non ravvisarsi nel caso di
realizzazione di cantieri di lavoro di cui all'art. 9, comma
127 e seguenti, della l.r. 27/2012, volti a facilitare
l'inserimento lavorativo e sostenere il reddito di soggetti
disoccupati, residenti nella Regione Friuli Venezia Giulia,
e utilizzati in via temporanea e straordinaria da Province,
Comuni e loro forme associative.
Il comma 129 del citato articolo 9 specifica espressamente
che l'utilizzo dei predetti soggetti nei cantieri di lavoro
non costituisce rapporto di lavoro e il successivo comma 130
precisa altresì che i soggetti utilizzati, per la durata del
cantiere, mantengono lo stato di disoccupazione.
Trattasi di lavori da eseguire nell'ambito di attività
forestale e vivaistica, di rimboschimento, di sistemazione
montana e di costruzione di opere di pubblica utilità,
diretti al miglioramento dell'ambiente e degli spazi urbani.
Appaiono significative, al riguardo, le statuizioni
contenute nella sentenza della Suprema Corte, la quale, con
riferimento alla fattispecie dei L.S.U., recita che: 'Non
può qualificarsi come rapporto di lavoro subordinato
l'occupazione temporanea di lavoratori socialmente utili
alle dipendenze di un ente comunale per l'attuazione di un
apposito progetto, realizzandosi con essa, alla stregua
dell'apposita normativa in concreto applicabile, un rapporto
di lavoro speciale di matrice essenzialmente assistenziale'
[3]
Oltre all'espressa esclusione normativa della fattispecie in
esame dall'ambito dei rapporti di lavoro, si osserva ad ogni
modo che in relazione all'istituto dei 'cantieri di
lavoro' sussiste la medesima finalità
assistenziale/previdenziale che caratterizza i lavori
socialmente utili.
E' da rilevare inoltre che il Ministero dell'Interno si è
espresso in senso negativo con particolare riferimento alla
configurabilità di una causa di incompatibilità per un
amministratore locale che svolge un lavoro socialmente utile
presso il medesimo Ente [4].
La posizione assunta dal Ministero appare valida anche con
riferimento alla fattispecie dei cantieri lavoro,
conformemente, tra l'altro, all'orientamento espresso dalla
giurisprudenza, la quale ha avuto modo di rilevare, nello
specifico, che: 'l'istituzione dei cantieri-lavoro
risponde, infatti, ad una esigenza politico sociale di
carattere generale, avendo come finalità la lotta alla
disoccupazione, finalità cui la legge regionale......
abbina, quale ulteriore finalità di interesse generale, la
realizzazione o la sistemazione di opere di pubblica utilità
e di interesse pubblico o sociale che si pongono in
connessione diretta con il raggiungimento delle finalità
istituzionali degli enti pubblici ai quali è affidata la
gestione dei predetti cantieri'. [5]
Si consideri, infine, in aggiunta alle considerazioni sopra
svolte, che le cause ostative all'espletamento del mandato
elettivo, disciplinate dal TUEL, incidendo direttamente
sull'esercizio del diritto di elettorato passivo, sono di
stretta interpretazione e come tali non suscettibili di
estensione analogica [6],
con la conseguenza che anche situazioni di fatto che
accidentalmente dovessero evidenziare elementi del rapporto
subordinato non precluderebbero l'assunzione o il
mantenimento della carica elettiva [7].
In conclusione, salve le eventuali diverse valutazioni che
il Ministero dell'Interno dovesse esprimere specificamente
in relazione alla fattispecie dei 'cantieri di lavoro',
non si ritiene allo stato sussistere nei confronti del
consigliere comunale che sta per essere avviato ad
un'attività di cantieri di lavoro presso il medesimo Ente la
causa di incompatibilità di cui al combinato disposto degli
articoli 60, comma 1, numero 7), e 63, comma 1, numero 7),
del D.Lgs.267/2000.
---------------
[1] Cfr. prot. n. 6825 del 24.02.2012.
[2] Si vedano, al riguardo, tra le altre Cassazione civile,
sez. VI, sentenza del 19.10.2011, n. 21689 e Cassazione
civile, sez. lavoro, sentenza dell'08.07.2013, n. 16935.
[3] Cfr. Cassazione civile, sez. lavoro, sentenza del
05.02.2013, n. 2605.
[4] Ministero dell'Interno, parere del 02.03.2015.
[5] Cfr. TAR Catania, sez. IV, sentenza del 14.03.2011, n.
598.
[6] Così Cass. Civ., sez. I, sentenza 12.12.2011, n. 28504.
[7] In questi termini si è espresso il Ministero
dell'Interno con parere del 12.05.2011 (13.07.2016
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PATRIMONIO:
Validità contratto di affitto di fondo rustico.
Perché un contratto di cui è parte una
p.a. possa dirsi validamente concluso, occorre la
manifestazione di volontà dell'organo cui la legge
attribuisce la legale rappresentanza dell'ente pubblico,
previe le eventuali delibere di altri organi, nonché la
forma scritta ad substantiam.
In tal senso si esprime la giurisprudenza, muovendo dalla
disciplina generale della forma dei contratti pubblici
contenuta nel R.D. n. 2440/1923 (artt. 16, 17 e 18), che
impone la forma scritta anche quando la p.a. agisce iure
privatorum.
In particolare, in tema di contratti di affitto di fondi
rustici, pur dopo l'entrata in vigore della L. n. 203/1982,
art. 41, che ha deformalizzato i contratti di affitto a
coltivatore diretto, anche se ultranovennali, rendendoli a
forma libera, non può ritenersi concluso un contratto di
affitto agrario con la p.a. in forza di un comportamento
concludente, anche protrattosi per anni.
Il Comune riferisce di aver affittato, nell'anno 1993 e per
la durata di venti anni, un fondo rustico, sito nel proprio
territorio e oggetto di comproprietà con altro comune
[1], a
privato cittadino, che ha da allora realizzato diverse
costruzioni dietro rilascio dei necessari titoli abilitativi
edilizi.
Posto che nel dicembre 2013 è intervenuta la scadenza del
contratto in argomento, il Comune chiede come comportarsi di
fronte alle domande di permesso di costruire avanzate dal
privato affittuario, il quale sostiene che il contratto in
questione è da considerarsi prorogato ex lege, in
quanto si tratta di fondo rustico affittato ad imprenditore
agricolo.
La disamina del quesito postula la definizione dell'attuale
sussistenza o meno del contratto di affitto di fondo
rustico, considerato che, ai sensi della L.R. n. 19/2009, è
riconosciuto il diritto di eseguire opere edilizie, oltre
che al proprietario, tra gli altri, all'affittuario di fondo
rustico (art 21, comma 2, lett. b).
Per orientamento consolidato della giurisprudenza, espresso
anche in tema di contratti di affitto di fondi rustici, i
requisiti di validità dei contratti posti in essere dalla
p.a., anche iure privatorum, attengono alla
manifestazione della volontà e alla forma. In particolare,
occorre la manifestazione di volontà da parte dell'organo al
quale è attribuita la legale rappresentanza dell'ente,
previe eventuali deliberazioni dei propri organi
deliberativi che hanno valore di atti interni preparatori
della successiva manifestazione esterna, e la forma che deve
essere scritta, a pena di nullità, sicché nei confronti
della stessa p.a. non è configurabile il rinnovo tacito del
contratto [2].
Pertanto, ove faccia difetto sia una manifestazione di
volontà dell'ente pubblico, proveniente dall'organo al quale
dalla legge è attribuita la legale rappresentanza dell'ente
stesso, previe le eventuali delibere di altri organi, nonché
la forma scritta ad substantiam, non si è in presenza di un
contratto, mancando in radice l'accordo tra le parti,
presupposto dell'art. 1321 c.c. [3],
con la conseguenza che il contratto deve considerarsi
giuridicamente inesistente [4].
In particolare, in tema di contratti di affitto di fondi
rustici, la Corte di cassazione ha affermato che non rileva
che l'amministrazione richieda la restituzione del fondo
molto tempo dopo la scadenza del contratto
[5], non essendo
ipotizzabile una rinnovazione tacita del contratto, che
verrebbe ad eludere il requisito della forma scritta fissato
dall'art. 17 del R.D. 18.11.1923, n. 2440. La normativa
speciale dettata in tema di contratti della p.a. prevale,
infatti, sulla disciplina dei rapporti tra privati
[6].
E così, pur dopo l'entrata in vigore della L. n. 203/1982,
art. 41 [7],
che ha deformalizzato i contratti di affitto a coltivatore
diretto, anche se ultranovennali, rendendoli a forma libera,
non può ritenersi concluso un contratto di affitto agrario
con la p.a. in forza di un comportamento concludente, anche
protrattosi per anni [8].
E a nulla rileva la previsione dell'art. 6, D.Lgs. n.
228/2001, che estende le disposizioni della L. n. 203/1982
anche ai terreni degli enti pubblici che siano oggetto di
affitto o di concessione amministrativa, poiché questa norma
attiene, come risulta dalla stessa rubrica
all''utilizzazione agricola dei terreni demaniali e
patrimoniali indisponibili' e non al momento genetico del
rapporto [9].
Alla luce dell'orientamento giurisprudenziale riportato, non
sembrerebbe ad oggi potersi ritenere in corso di validità il
contratto di affitto di fondo rustico stipulato dal Comune
istante nel 1993 (anche in nome e per conto del comune
comproprietario), essendo scaduti i 20 anni di durata
pattuiti nell'accordo e non essendo intervenuta una nuova
manifestazione di volontà, nelle forme dovute, dei Comuni
proprietari.
---------------
[1] In base al regolamento disciplinante i rapporti tra i
due comuni per la gestione del bene in comproprietà di cui
si tratta, quello nel cui territorio è ubicato detto bene
(Comune istante) è competente alla gestione, e in
particolare può operare la gestione straordinaria solo su
espressa delega dell'altro comune comproprietario. Il
contratto di affitto in questione è stato stipulato dal
Comune istante, in rappresentanza anche dell'altro comune
comproprietario in virtù del suddetto regolamento, e previa
delega di quest'ultimo. In particolare, la durata
dell'affitto è stata pattuita 'di anni 20 a partire dalla
data di stipulazione del contratto'.
[2] Cfr. specificamente per i contratti di affitto di fondi
rustici, Cass. civ., sez. III, 16.01.2009, n. 976; Cass.
civ., sez. III, 15.12.2000, n. 15862; Cass. civ., sez. III,
08.05.2014, n. 9975.
[3] Cass. civ., sez. III, 15.12.2000, n. 2611.
[4] Cass. civ. sez. I, 21.05.2002, n. 7422.
[5] Nel caso in esame, la scadenza della durata ventennale
del contratto è avvenuta nel dicembre 2013.
[6] Cass. civ., n. 9975/2014.
In generale, è consolidato in giurisprudenza l'orientamento
che fa risalire agli artt. 16 e 17 del R.D. n. 2440/1923
l'obbligo della forma scritta ad substantiam per tutti i
contratti stipulati dalla p.a., anche iure privatorum. Tra
le tante, v. Cass. civ., sez. II, 18.05.2011, n. 10910 e
Cass. civ., sez. II, 30.07.2004, n. 14570. Conforme anche
Corte dei conti, sez. reg. contr. Regione Puglia,
22.01.2014, n. 16.
Anche l'ANAC (parere n. 43 del 27.01.2011) osserva che la
disciplina generale della forma dei contratti pubblici è
contenuta nel decreto sull'amministrazione del patrimonio e
sulla contabilità generale dello Stato (R.D. n. 2440/1923),
agli articoli 16 (forma pubblica amministrativa), 17
(contratti a trattativa privata) e 18 (contratti stipulati
con ditte e società commerciali). Secondo tale disciplina,
tutti i contratti stipulati dalla Pubblica Amministrazione,
anche quando quest'ultima agisce iure privatorum, richiedono
la forma scritta ad substantiam. V. anche Corte di Appello
di Napoli, Ufficio del Referente per la Formazione
decentrata, 12.12.2011, Il Contenzioso civile in tema di
locazioni,
secondo cui, a norma dell'art. 1350 n. 13 c.c., la forma
scritta è richiesta a pena di nullità 'per...gli altri atti
specialmente indicati dalla legge'. Le leggi che
disciplinano i contratti della p.a. prevedono per l'appunto
tale requisito formale.
[7] L'art. 41 della legge 03.05.1982, n. 203, (Norme sui
contratti agrari), prevede che 'i contratti agrari
ultranovennali, compresi quelli in corso, anche se verbali o
non trascritti, sono validi ed hanno effetto anche riguardo
ai terzi'.
[8] Cass. civ., n. 9975/2014 e Cass. civ., n. 15862/2000 su
contratto di affitto di fondo rustico. Conformi: Cass. civ.,
sez. vi, 23.06.2011, n. 13886 e Cass. civ., sez. III,
23.01.2006, n. 1223, su contratto di locazione. In
particolare quest'ultima, nell'escludere radicalmente la
rinnovazione tacita del contratto ex art. 1597 c.c. qualora
ne sia parte una p.a., precisa l'inidoneità di circostanze
quali la permanenza del conduttore nell'immobile, il
pagamento e la riscossione dei canoni, a determinare la
rinnovazione del contratto. Proprio perché la volontà della
p.a. non può desumersi da fatti concludenti, ma deve essere
espressa in forma scritta a pena di nullità.
[9] Cass. civ., n. 9975/2014 (17.06.2016 -
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NEWS |
APPALTI: Appalti, subentro con tutele limitate.
Al personale non sempre vanno garantiti retribuzioni, regole
e diritti già in vigore.
Contratti. Dal 23 luglio entra in vigore la legge
comunitaria che prevale su altre norme di legge e contratti
collettivi.
Dal 23 luglio
entreranno in vigore le nuove regole sulla gestione del
personale in caso di successione di appalti, per effetto
della pubblicazione in Gazzetta ufficiale della legge
comunitaria (la 122/2016), avvenuta l’8 luglio.
La normativa sostituisce il testo oggi vigente dell’articolo
29, comma 3, del Dlgs 276/2003 (la legge Biagi), che esclude
l’applicabilità delle regole del trasferimento di azienda ai
casi di subentro di un appaltatore all’altro nella gestione
del medesimo servizio, anche nei casi in cui tale subentro
sia accompagnato dall’assunzione del personale già impiegato
nell’appalto.
Lo scopo della norma attuale è di evitare di omologare il
fenomeno della successione degli appalti al trasferimento di
azienda, e fare in modo di non applicare le regole
(contenute nell’articolo 2112 del Codice civile) che
impongono al cessionario dell’impresa di acquisire senza
soluzione di continuità tutto il personale impiegato nel
ramo di azienda trasferito, garantendo il mantenimento dei
diritti acquisiti e l’applicazione dei trattamenti economici
e normativi già in essere.
Questa disciplina non è stata vista con favore dalla
Commissione europea, che ha avviato nei confronti del nostro
Paese una procedura di pre-infrazione, ritenendo che il
comma 3 dell’articolo 29 del Dlgs 276/2003 non sia conforme
ai principi della direttiva 2001/23/Ce del 12.03.2001 sul
trasferimento d’azienda. Secondo la Commissione non è
possibile escludere il mantenimento dei diritti dei
lavoratori in presenza di fattispecie (il cambio di appalto)
assimilabili al trasferimento di azienda.
La norma appena approvata -meno drastica della versione
inizialmente contenuta nel disegno di legge comunitaria, che
prevedeva l’abrogazione totale del 3 comma dell’articolo 29- tenta di rispondere alla procedura comunitaria pur facendo
salvo il principio per cui la successione di appalti e il
trasferimento di azienda costituiscono fattispecie distinte
e, come tali, meritevoli di regole differenti.
Per coniugare queste esigenze contrapposte, la modifica
inserisce nel testo normativo alcuni criteri volti a
individuare quando tale distinzione viene meno.
In particolare viene precisato che l’acquisizione di
personale già impiegato nell’appalto non comporta
l’applicazione delle regole del trasferimento di azienda
quando il subentro nella gestione del servizio avviene in
favore di un soggetto dotato di propria struttura
organizzativa e operativa e a condizione che sussistano
elementi di discontinuità con il precedente appaltatore che
determinino una specifica identità di impresa. In questi
casi, quindi, potrà per esempio essere applicato un
contratto diverso e/o ridotte le retribuzioni.
È troppo presto per stabilire come, in concreto, la
giurisprudenza identificherà questi elementi. Senza dubbio
non potranno beneficiare dell’esenzione (e quindi ricadranno
nell’ambito di applicazione delle norme dell’articolo 2112
sul trasferimento di azienda) tutte le ipotesi di
successione di appaltatori nelle quali l’impresa subentrante
non sarà dotata di una struttura imprenditoriale che sia
effettiva e reale, da un lato, e che si distingua in maniera
non solo formale ma anche sostanziale con l’impresa uscente,
dall’altro.
La nuova disposizione (come la precedente) si applica a
tutti i casi di acquisizione del personale, sia che questa
avvenga sulla base di una norma di legge (per esempio come
accade per i call center, dove è stata introdotta dal nuovo
codice appalti la cosiddetta clausola sociale) sia quando il
personale sia trasferito al soggetto subentrante in virtù di
una clausola di un contratto collettivo nazionale di lavoro
oppure di un contratto d’appalto (articolo Il Sole 24 Ore del 12.07.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO: Permessi
104 senza sospensione.
I lavoratori disabili possono continuare a fruire dei
permessi della 104 durante il periodo di attesa di revisione
dello stato invalidante. A stabilirlo è la legge n.
114/2014, con effetto dal 19 agosto 2014. Di conseguenza, i
datori di lavoro possono portare a conguaglio le somme
anticipate ai lavoratori (cioè le giornate di assenza
retribuite), anche se il provvedimento di autorizzazione è
scaduto e fino a compimento dell'iter sanitario di
revisione.
Lo spiega l'Inps nella
circolare
08.07.2016 n. 127.
Quali prestazioni.
La novità riguarda i benefici di cui sono destinatari i
lavoratori dipendenti con disabilità grave (ai sensi della
legge n. 104/1992) e quelli che prestano assistenza ai
familiari disabili gravi, vale a dire:
• permessi (art. 33 della legge n. 104/1992);
• prolungamento del congedo parentale (art. 33 del dlgs n.
151/2001);
• riposi orari, alternativi al prolungamento del congedo
parentale (art. 33 del dlgs n. 151/2001 e art. 33 della
legge n. 104/1992);
• congedo straordinario (art. 42 del dlgs n. n. 151/2001).
La novità, introdotta dall'art. 25 del dl n. 90/2014
convertito dalla legge n. 114/2014, ha il fine di
semplificare gli adempimenti sanitari e amministrativi per i
soggetti disabili per evitare che il costo della burocrazia
venga a ricadere sulle loro spalle.
La novità, in particolare, è questa: sono automaticamente
prorogati gli effetti del verbale rivedibile oltre il
termine stabilito per la revisione, in modo da consentire la
fruizione dei predetti benefici nelle more della definizione
dell'iter sanitario di revisione.
La novità.
Infatti i verbali di accertamento della disabilità in
situazione di gravità possono essere oggetto di revisione,
attraverso una successiva visita da parte della commissione
deputata al compito di rilasciare la certificazione di
«situazione di gravità» (art. 4 della legge n. 104/92).
Fino
alla legge n. 114/2014, il lavoratore autorizzato dall'Inps
a uno o più benefici correlati alla disabilità grave
accertata dal verbale soggetto a revisione non poteva
continuare a fruirne nel periodo compreso tra la data di
scadenza del verbale e la fine dell'iter sanitario di
revisione. Dopo la legge n. 114/2014, ossia a partire dal 19.08.2014, invece, possono continuare a fruire dei
benefici nelle more dell'iter sanitario di revisione.
Quando serve la domanda.
Pur riguardano tutti i benefici, la novità è disciplinata
con regole diverse. Infatti, l'Inps precisa che i lavoratori
non devono presentare una nuova domanda di autorizzazione
per continuare a fruire dei permessi 104 dalla data di
scadenza del verbale rivedibile e il completamento dell'iter
sanitario di revisione.
Mentre devono presentare nuova
domanda di autorizzazione per poter fruire, nello stesso
periodo, degli altri benefici (cioè prolungamento del
congedo parentale; riposi orari, alternativi al
prolungamento del congedo parentale; congedo straordinario),
in quanto si tratta di prestazioni richieste per periodi
determinati di tempo.
I permessi.
Il lavoratore titolare dei permessi legge 104 in base a un
verbale sottoposto a revisione alla data del 19.08.2014,
anche se è decorsa la data di scadenza riportata su tale
verbale, può dunque continuare a fruire dei permessi già
autorizzati dall'Inps.
Conseguentemente, anche il datore di
lavoro può continuare a portare a conguaglio le somme
anticipate per le prestazioni oltre la data di scadenza
riportata nel provvedimento di autorizzazione a suo tempo
rilasciato in base al verbale rivedibile e fino al
compimento dell'iter sanitario di revisione
(articolo ItaliaOggi del 12.07.2016). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Assenteisti Pa, sospensione sprint da mercoledì.
Entra in vigore dopodomani il decreto che prevede lo stop in
48 ore e il licenziamento in 30 giorni.
Per gli
assenteisti inguaribili della Pubblica amministrazione
domani è l’ultimo giorno per farsi cogliere sul fatto e
imboccare la strada ordinaria del procedimento disciplinare;
da mercoledì entrano infatti in vigore le regole scritte nel
decreto attuativo della riforma Madia, che dopo un dibattito
acceso e una serie di correttivi imbarcati in Parlamento è
pronto per provare a dispiegare i propri effetti: in teoria,
le prime sospensioni potrebbero arrivare già in settimana,
entro venerdì, ma comunque non ci vorrà molto a capire se il
calendario sprint e le super-sanzioni anche a carico di chi
non vigila saranno in grado di mettere davvero il freno a un
fenomeno che colpisce al cuore la credibilità della nostra
amministrazione pubblica.
A innescare l’ultima ondata del dibattito, che ha spinto il
governo ad accelerare nell’attuazione di questa parte della
delega (il decreto sugli assenteisti è stato il secondo,
dopo quello sulla trasparenza del Freedom of Information Act,
a finire in Gazzetta Ufficiale), è stato come si ricorderà
il caso del Comune di Sanremo, con 195 indagati su 528
dipendenti e una ricca cineteca con filmati di timbrature
“allegre” culminata nell’immagine del vigile in mutande
(perché la timbratrice era accanto a casa in un palazzo
chiuso al pubblico). La questione, però, è decisamente
nazionale, e produce nuovi casi a ritmi incessanti.
Le ultime notizie sul tema arrivano da Belluno, dove giovedì
sono finiti sotto inchiesta 12 forestali, e da Oppido
Mamertina, in provincia di Reggio Calabria, dove la Procura
ha indagato 24 dipendenti comunali (per 4 di loro ha chiesto
anche gli arresti domiciliari) che dopo aver timbrato si
dedicavano agli acquisti nel mercato locale anziché alle
pratiche del loro ufficio.
Lunedì scorso a Foggia un
sindacato autonomo ha scritto al sindaco e al dirigente
delle risorse umane del Comune per chiedere di evitare
«determinazioni intransigenti, inesorabili o, peggio,
esemplari» a carico dei 20 dipendenti coinvolti nel blitz
del 9 maggio (in 13 sono stati arrestati, e e liberati 11
giorni dopo ma sospesi per un anno dal servizio) colti sul
fatto a timbrare mazzi di badge per i colleghi assenti. A
fine giugno la Procura di Salerno ha messo sotto indagine
centinaia di lavoratori dell’ospedale Ruggi d’Aragona,
contestando anche l’associazione a delinquere per il
meccanismo oliato che delegava la timbratura ad altri e
provava ad eludere i controlli, e l’aneddotica potrebbe
continuare a lungo.
Intendiamoci: le norme anti-assenteismo esistevano già, e
dal 2009 con la riforma Brunetta già arrivavano
esplicitamente al licenziamento senza preavviso mentre prima
l’addio al lavoratore era riservato dai contratti ai casi di
«recidive plurime» (per questa ragione la Cassazione un mese
fa ha rimesso definitivamente al suo posto a un funzionario
di un Comune del Nord licenziato nel 2008 proprio per false
timbrature, come raccontato sul Sole 24 Ore dell’8 giugno).
Finora, però, i licenziamenti per assenteismo sono stati
limitati a poche decine di casi, e per cambiare registro il
nuovo decreto Madia punta su due strumenti: calendario
ultrarapido e sanzioni pesanti per i dirigenti che si girano
dall’altra parte. Quando un assenteista è colto sul fatto,
oppure viene filmato mentre timbra l’entrata e poi snobba la
scrivania, dovrà scattare un meccanismo che porta alla
sospensione in 48 ore e al contraddittorio entro 15 giorni
per arrivare al licenziamento, ovviamente se tutto è
confermato, nel giro di un mese dal fatto.
Entro 15 giorni
deve partire anche la segnalazione alle procure di
Repubblica e Corte dei conti, e i magistrati contabili
devono inviare l’invito a dedurre entro tre mesi per il
danno erariale comprensivo di danno all’immagine (minimo sei
mesi di stipendio, ma il conto cresce con la «rilevanza
mediatica» del caso), e sospensione, licenziamento e
segnalazione all’autorità giudiziaria riguarderanno anche il
dirigente che non fa partire subito il procedimento
disciplinare. Tutto questo basterà o si risolverà
nell’ennesimo effetto annuncio che ha caratterizzato tanti
interventi sul tema? Basteranno poche settimane per saperlo.
----------------
Nel passaggio parlamentare il decreto ha imbarcato alcuni
meccanismi di garanzia per i dipendenti accusati di
assenteismo. Il dipendente va convocato in contraddittorio
dopo 15 giorni, e il termine può essere rinviato di altri 5
giorni in caso di impedimento motivato. Durante la
sospensione si ha diritto all’assegno alimentare
Accanto al licenziamento, i dipendenti assenteisti devono
subire il procedimento davanti alla Corte dei conti per
danno all’immagine della Pa. La sanzione va modulata anche
in relazione alla «rilevanza mediatica» del caso, e
comunque non può essere inferiore a sei mensilità più
interessi e spese processuali.
Il decreto punta anche a responsabilizzare i dirigenti,
prevedendo sanzioni fino al licenziamento in caso di mancata
attivazione tempestiva del procedimento disciplinare.
L’inazione del dirigente fa partire anche la segnalazione
alla Procura della Repubblica per valutare il reato di
omissione di atti d’ufficio (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.07.2016
- tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
APPALTI: Indagini
autonome nelle mini-gare. Indicazioni Anac con ampi spazi
discrezionali per le verifiche di mercato.
Appalti/1. Le conseguenze operative delle Linee guida sulle
procedure sotto-soglia dopo la riforma del Codice.
Le stazioni
appaltanti devono regolamentare le modalità di svolgimento
delle indagini di mercato e di formazione degli elenchi di
operatori economici da invitare alle procedure semplificate
sottosoglia, specificando anche i criteri di scelta dei
soggetti da invitare alle mini-gare.
Le linee guida elaborate dall’Anac in attuazione
dell’articolo 36 del nuovo Codice dei contratti pubblici
(ora sottoposte al parere del consiglio di Stato e delle
commissioni parlamentari) sollecitano le amministrazioni ad
esercitare la loro potestà regolamentare per definire i
percorsi di individuazione delle imprese da coinvolgere nei
confronti competitivi.
L’Autorità delinea le caratteristiche principali delle
indagini di mercato, ma rimette alle stazioni appaltanti la
scelta delle modalità ritenute più convenienti per lo
svolgimento delle stesse, secondo una logica di
differenziazione per importo e complessità di affidamento,
dovendo tener conto dei principi di adeguatezza e
proporzionalità.
Le indagini possono essere realizzate anche tramite la
consultazione dei cataloghi elettronici del mercato
elettronico propri o delle altre stazioni appaltanti, nonché
di altri fornitori esistenti, formalizzandone i risultati,
eventualmente ai fini della programmazione e dell’adozione
della determina a contrarre.
L’attività di esplorazione del mercato deve essere
pubblicizzata con strumenti idonei in rapporto alla
rilevanza del contratto per il settore merceologico di
riferimento e alla sua contendibilità, da valutare sulla
base di parametri non solo economici.
In questa prospettiva la stazione appaltante pubblica un
avviso sul profilo di committente, ma può ricorrere anche ad
altre forme di pubblicità. La durata della pubblicazione è
stabilita in ragione della rilevanza del contratto, in un
periodo minimo identificabile in quindici giorni, salvo la
riduzione dello stesso termine per motivate ragioni di
urgenza a non meno di cinque giorni.
Per selezionare gli operatori economici da invitare alle
gare semplificate previste dall’articolo 36, comma 2, lett.
a) e b), del Dlgs 50/2016 le amministrazioni possono anche
costituire degli elenchi, evidenziandone le modalità di
formazione mediante un avviso pubblicato sul profilo di
committente del sito internet: gli operatori economici si
possono iscrivere sempre, dichiarando il possesso dei
requisiti di ordine generale e di capacità mediante
modulistica specifica o con il documento di gara unico
europeo (Dgue), ricevendo riscontro all’istanza entro trenta
giorni.
L’elenco deve inoltre essere sottoposto a revisione almeno
ogni sei mesi e dallo stesso sono escluse le imprese che
abbiano commesso gravi errori professionali, mentre possono
essere cancellati gli operatori economici che non abbiano
risposto ad almeno tre inviti nell’arco di due anni.
Una volta costituiti, gli elenchi sono pubblicati sul sito
internet della stazione appaltante: da tale obbligo discende
la necessaria prefigurazione di criteri, per l’estrazione
degli operatori economici da invitare alle procedure,
casuali (sorteggio) o per esperienze maturate negli ultimi
anni, evitando l’individuazione per “blocchi”, in quanto
determinerebbe il rischio di accordi collusivi tra le
imprese iscritte.
In relazione al confronto competitivo, la stazione
appaltante deve rispettare il criterio di rotazione degli
inviti, al fine di favorire la distribuzione temporale delle
opportunità di aggiudicazione tra tutti gli operatori
potenzialmente idonei e di evitare il consolidarsi di
rapporti esclusivi con alcune imprese.
La stazione appaltante può invitare, oltre al numero minimo
di cinque operatori, anche l’aggiudicatario uscente, dando
adeguata motivazione in relazione alla competenza e
all’esecuzione a regola d’arte del contratto precedente,
consentendo quindi un contemperamento tra il criterio di
rotazione e il principio di economicità.
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Affidamenti con un passaggio unico.
Appalti/2. Per gli acquisti di lavori, servizi e forniture
inferiori ai 40mila euro un solo documento che motiva la
scelta e l’idoneità del fornitore.
L’affidamento diretto per l’acquisizione di beni, servizi o
lavori di modico valore e per i quali sia certo il
fornitore, nonché in forma di ordine diretto nel mercato
elettronico, può essere formalizzato con un unico atto che
specifichi in modo semplificato le ragioni della scelta e
l’idoneità dell’affidatario.
La previsione, contenuta nelle linee guida dell’Anac sulle
acquisizioni sottosoglia che disciplinano gli affidamenti
entro i 40mila euro, si pone come eccezione rispetto al
percorso standard che deve essere avviato con una determina
a contrarre, nella quale devono essere specificati
l’interesse pubblico che si intende soddisfare con
l’acquisto e le principali caratteristiche dei lavori, delle
forniture o dei servizi, nonché i criteri che guideranno la
selezione degli operatori economici e la valutazione delle
offerte.
Confermando le indicazioni dettate nella prima versione del
documento, l’Anac sollecita infatti le stazioni appaltanti,
quando lo ritengano necessario, a svolgere un’indagine
preliminare, volta a identificare le soluzioni presenti sul
mercato per soddisfare i propri fabbisogni e la platea dei
potenziali affidatari.
Questa verifica può tradursi in una valutazione comparativa
dei preventivi di spesa forniti da due o più operatori
economici, con la quale possono essere soddisfatti gli oneri
motivazionali relativi all’economicità dell’affidamento e al
rispetto dei principi di concorrenza.
Da questo modello operativo scaturisce, quindi, un secondo
passaggio che configura un confronto super-semplificato,
gestibile in piena autonomia dall’amministrazione, secondo
le proprie esigenze, senza costituire alcun impegno nei
confronti degli operatori consultati, che può essere
sviluppato con riferimento al solo prezzo o a più elementi.
L’obbligo di motivazione dell’affidamento diretto, richiesto
esplicitamente dall’articolo 36, comma 2, lett. a), del Dlgs
50/2016, deve essere rispettato dalla stazione appaltante
specificando che l’offerta soddisfa l’interesse pubblico
all’acquisto e che è congrua, nonché evidenziando il
rispetto del principio di rotazione.
Proprio in ordine a quest’ultimo aspetto, l’Anac ammette la
possibilità che l’affidamento avvenga a favore
dell’operatore economico uscente, ma in tal caso la stazione
appaltante deve spiegare la scelta evidenziando il
precedente positivo e la competitività del prezzo offerto
rispetto alla media dei prezzi nel settore di riferimento,
anche tenendo conto della qualità della prestazione. Il
criterio di rotazione viene quindi ad essere contemperato
anche in tal caso dal principio di economicità e da quello
di efficacia.
L’Autorità non evidenzia nelle linee guida situazioni nelle
quali l’affidamento diretto possa derogare al
mini-confronto, ma è possibile che queste si verifichino: si
pensi agli affidamenti di prestazioni artistiche da parte
dei Comuni per le rassegne estive, per i quali ricorre
l’unicità del prestatore in base alla fattispecie delineata
dall’articolo 63, comma 2, lett. a), del Codice.
L’Autorità chiarisce che l’obbligo di motivazione può essere
attenuato per affidamenti di modico valore, ad esempio
inferiori a mille euro, o quando l’acquisizione avviene nel
rispetto del regolamento di contabilità
dell’amministrazione, ovvero nel caso in cui la stazione
appaltante adotti un proprio regolamento per acquisire
lavori, servizi e forniture in economia, redatto nel
rispetto del Codice.
L’indicazione sembra riferirsi alla regolamentazione delle
spese economali (note anche come spese minute e urgenti) o,
comunque, di quelle acquisizioni presso terzi effettuabili
con moduli contrattuali semplificati (come i buoni
d’ordine), riferiti a tipologie di beni e servizi
standardizzati e di utilizzo frequente (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
VARI:
Malattia, controlli mai esclusi. L'esonero da
visita fiscale non impedisce le verifiche Inps.
I casi che non prevedono l'intervento del
medico: dalle patologie gravi all'invalidità.
Esonero della visita fiscale per chi è
malato grave. Il dipendente affetto da una patologia grave
(pancreatite, infarto, polmoniti, ecc.) o da una malattia
invalidante (riduzione della capacità lavorativa di almeno
il 67%), infatti, non deve rispettare le fasce di
reperibilità per la cd visita fiscale. La deroga opera
soltanto nel settore privato e non esclude controlli da
parte dell'Inps, al quale non è mutato il potere-dovere di
accertare la correttezza, formale e sostanziale, della
certificazione medica e la congruità della prognosi.
Vediamo le nuove regole e soprattutto le malattie
esoneranti.
Le visite fiscali.
Le visite fiscali (cioè controlli medico legali dei
lavoratori assenti per malattia) sono effettuate dall'Inps
che ha la titolarità dei controlli per i lavoratori privati
e anche per quelli pubblici. Le richieste di controllo sono
generalmente richieste dal datore di lavoro, in qualunque
momento della giornata attraverso una procedura telematica.
Le richieste sono elaborate giornalmente dall'Inps e
smistate ai medici se pervenute entro le ore 9, per la
fascia antimeridiana, ed entro le ore 12 per quella
pomeridiana. Al fine di consentire i controlli, i lavoratori
sono obbligati a essere reperibili in alcune fasce orarie
della giornata e, in caso di inosservanza, sono soggetti a
sanzioni. Le discipline sono leggermente differenti nel caso
di lavoratori privati o pubblici.
Le regole per il settore privato.
Per tutti i lavoratori del settore privato gli orari delle
visite fiscali sono fissati dalle 10,00 alle 12,00 e dalle
17,00 alle 19,00. Gli orari di reperibilità devono essere
rispettati sin dal primo giorno di malattia e anche il
sabato, la domenica, nei festivi, comprese le festività di
Natale, Capodanno, Pasqua e del Patrono.
La disciplina
sull'obbligo di reperibilità durante i periodi di malattia
(art. 5 della legge n. 300/1970, lo Statuto dei lavoratori)
prevede la facoltà del datore di lavoro o dell'Inps di
richiedere il controllo fiscale sul dipendente che si
assenta dal lavoro per una patologia, per una visita o per
esami medici: il lavoratore assente per una tale ragione,
dunque, deve garantire la sua presenza in casa, nello
specifico presso il domicilio comunicato attraverso il
certificato medico di malattia, nei predetti orari e restare
a disposizione di un eventuale controllo, mentre può uscire
di casa al di fuori delle fasce orarie di garanzia.
Allora,
per fare un esempio, se occorre andare in farmacia per
acquistare medicinali bisogna farlo o prima delle 10 o dopo
le 12 oppure prima delle 17 o dopo le 19. Unica eccezione è
qualora ci sei deve recare dal medico urgentemente; in tal
caso si può uscire anche nelle fasce orarie di reperibilità,
ma occorrerà farsi rilasciare una certificazione dal medico
attestante, appunto, che in quel giorno e in quell'orario si
era a visita presso di lui e che la visita era
indifferibile.
È obbligatorio rispettare le fasce orarie?
Sì, anche perché la mancata reperibilità ingiustificata è
sanzionabile con sanzioni disciplinari, economiche e, per
estremo, anche con il licenziamento. In particolare,
l'assenza a visita di controllo, se non giustificata,
comporta l'applicazione della sanzione di non indennizzabilità delle giornate di malattia nel seguente
modo:
• fino a un massimo di 10 giorni di calendario, dall'inizio
dell'evento, in caso di 1° assenza a visita di controllo non
giustificata;
• per il 50% dell'indennità nel restante periodo di malattia
in caso di 2° assenza a visita di controllo non
giustificata;
• per il 100% dell'indennità dalla data della 3° assenza non
giustificata.
Il medico di controllo domiciliare che riscontra l'assenza
rilascio (in busta chiusa) un invito a effettuare la visita
medica di controllo presso l'ambulatorio.
Le ipotesi di esonero dalla reperibilità.
I lavoratori dipendenti del settore privato sono esentati
dall'obbligo di reperibilità se assenti per infortunio sul
lavoro. Accanto a questa ipotesi, l'art. 25 del dlgs n.
151/2015 (riforma Jobs act) ha introdotto la possibilità di
prevedere ulteriori casi di esenzioni dalla reperibilità, a
tal fine modificando il comma 13 dell'art. 5 del dl n.
463/1983 (convertito in legge n. 638/1983) per stabilire che
con decreto, appunto, possano essere «stabilite le esenzioni
dalla reperibilità per i lavoratori subordinati dipendenti
dai datori di lavoro privati». A tanto ha provveduto il dm
11.01.2016 fissando le prime ipotesi di esenzione in
riferimento alle assenze che «etiologicamente» sono
riconducibili alle seguenti circostanze:
a) patologie gravi che richiedono terapie salvavita;
b) stati patologici sottesi o connessi alla situazione
d'invalidità riconosciuta.
Nel primo caso, la patologia deve risultare da apposita
documentazione rilasciata da strutture sanitarie, attestante
la natura della patologia e la specifica terapia salvavita
da fare.
Nel secondo caso invece, per beneficiare dell'esclusione
dell'obbligo di reperibilità, l'invalidità deve aver
determinato una riduzione della capacità lavorativa nella
misura pari o superiore al 67%.
Le malattie.
Secondo l'Inps (circolare n. 95/2016), la normativa fornisce
solo una previsione astratta delle situazioni di esonero
senza dettagliare le concrete fattispecie che, oggetto di
valutazione da parte di vasta platea di medici (quelli che,
materialmente, sono gli estensori dei certificati medici),
potrebbero essere suscettibili di diverse interpretazioni.
Per evitare questo rischio e orientare correttamente e
univocamente i medici, l'Inps, con l'approvazione del
ministero della salute e del ministero del lavoro, ha
elaborato apposite linee guida che, tra l'altro, ne
precisano la casistica (in tabella). Di conseguenza, ha
aggiunto l'Inps, i medici che redigono i certificati di
malattia solo in presenza di una delle situazioni
patologiche elencate nelle linee guida devono: valorizzare i
campi del certificato telematico riferiti a «terapie
salvavita»/«invalidità»; nel caso di certificati redatti
su carta attestare esplicitamente la sussistenza di un caso
(precisandolo) che esclude il lavoratore dall'obbligo della
reperibilità.
L'esonero non esclude i controlli.
Attenzione. L'Inps ha ancora spiegato che, nelle due nuove
fattispecie di malattie gravi, il fatto che venga meno
l'onere della reperibilità alla visita medica di controllo
per i lavoratori non esclude anche la possibilità (per
l'istituto) di effettuare controlli sulla correttezza
formale e sostanziale della certificazione e sulla congruità
della prognosi. Stesso discorso ha fatto anche per i datori
di lavoro.
Questi, ha spiegato, non devono richiedere la visita fiscale
dei lavoratori per i quali sussistano certificati medici che
riportino i campi riferiti a terapie salvavita e invalidità;
tuttavia, resta loro la possibilità di segnalare, mediante
Pec istituzionale, alla sede Inps «possibili eventi ( ) per
i quali ravvisino la necessità di effettuare la verifica».
Sarà cura della sede Inps valutare, mediante il proprio
centro medico legale l'opportunità o meno di esercitare
l'azione di controllo, dandone conseguente notizia al datore
di lavoro richiedente
(articolo ItaliaOggi Sette dell'11.07.2016). |
ENTI LOCALI - VARI: Contrassegno
invalidi a maglie più larghe.
Hanno diritto a richiedere il rilascio del contrassegno
invalidi le persone che non possono disporre di una mobilità
autonoma. Anche se la problematica sanitaria non
interferisce direttamente con la capacità tecnica di
deambulazione del soggetto.
Lo ha chiarito il Ministero dei trasporti con il parere n.
1567/2016 di prot..
Il contrassegno invalidi, ai sensi del codice stradale, può
essere rilasciato alle persone con capacità di deambulazione
impedita o sensibilmente ridotta. Spetterà all'azienda
sanitaria certificare questo impedimento, con un ampio
margine di discrezionalità.
L'art. 381 del regolamento stradale infatti non fa esplicito
riferimento a una invalidità degli arti inferiori o
superiori. Per questo motivo a parere del Ministero lo
speciale contrassegno potrebbe essere rilasciato anche a
persone come il disabile psichico o invalido agli arti
superiori, laddove venga effettivamente dimostrato che tale
menomazione rende difficile l'autonoma mobilità del soggetto
(articolo ItaliaOggi Sette dell'11.07.2016). |
ENTI LOCALI - VARI: La
gara podistica impone di stoppare la circolazione.
Se il comune autorizza l'effettuazione di una gara podistica
per le strade del centro sarà necessario anche adottare una
ordinanza di sospensione della circolazione. Ovvero di
interruzione totale del traffico veicolare se necessaria per
assicurare l'incolumità dei partecipanti.
Lo ha chiarito il Ministero dei trasporti con il parere
03.05.2016 n.
2553 di prot..
I comuni hanno la facoltà di autorizzare lo svolgimento
delle competizioni sportive su strada ai sensi dell'art. 9
del dlgs 285/1992. Conseguentemente, salvo che sia
necessario chiudere completamente il traffico nella zona
interessata dall'evento, spetterà comunque al comune
adottare un'ordinanza di temporanea sospensione della
circolazione nei tratti di strada interessati dall'evento.
E anche prevedere itinerari alternativi per il traffico
locale, se disponibili. Solo in casi estremi, ovvero di
elevata partecipazione di atleti e spettatori, si potrà
chiudere completamente la strada
(articolo ItaliaOggi Sette dell'11.07.2016). |
VARI: Sponsorizzazione
costo deducibile. Corrispettivi a
società sportive dilettantistiche.
Il corrispettivo in denaro o in natura a società o
associazioni sportive dilettantistiche entro l'importo
previsto dalla legge 289/2002 (euro 200.000) volta alla
promozione dell'immagine o dei prodotti costituisce spese di
pubblicità per l'erogante e, quindi, costo deducibile.
Così ha deciso la Commissione tributaria provinciale di Pisa
con la sentenza 11.02.2016.
L'Agenzia delle entrate recuperava a tassazione la somma di
sponsorizzazione erogata a una società di calcio
dilettantistica dubitando dell'inerenza data la natura
antieconomica della spesa sostenuta (euro 19.500 su un
volume di ricavi di 127.000 euro) tenuto conto che la
società di calcio era collocata in un girone di scarso peso
sportivo che non consentirebbe alcun ritorno economicamente
apprezzabile.
Il contribuente proponeva rituale ricorso, producendo il
contratto di sponsorizzazione, e chiedeva l'annullamento
dell'accertamento con varie argomentazioni.
La Commissione tributaria riteneva che le motivazione
dell'accertamento erano totalmente apodittiche e, come tali,
soggettive, e che così ragionando si legittimerebbe la
sponsorizzazione soltanto delle associazioni sportive di
sicuro successo, frustrando la ratio legis che è proprio
quella di assicurare forme di finanziamento ad aggregazioni
sportive caratterizzate dal dilettantismo rispetto alle
quali la deduzione fiscale costituisce solo un mezzo
incentivante.
Ne consegue che una volta accertato che siano soddisfatti i
requisiti soggettivi e oggettivi scatta la presunzione
assoluta per cui entro l'importo previsto dalla legge
289/2002 (euro 200.000) l'erogazione deve essere considerata
«spesa di pubblicità» senza possibilità di ulteriore
sindacato anche in relazione alla congruità. Congruità che
può essere posta in discussione quando la sponsorizzazione è
diretta a soggetti diversi da quelli in discussione.
I giudici pisani hanno annullato l'atto di accertamento
impugnato e, secondo il principio della soccombenza,
condannato l'Agenzia delle entrate a rimborsare al
contribuente le spese del giudizio
(articolo ItaliaOggi Sette dell'11.07.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Permessi 104 «in deroga» senza domanda.
Welfare. Le indicazioni dell’Inps per i
periodi in cui viene effettuata una revisione.
Da ieri, giorno di
pubblicazione della
circolare
08.07.2016 n. 127 dell’Inps, le autorizzazioni per i
tre giorni di permesso mensili previsti dalla legge 104/1992
per i disabili gravi e rilasciate sulla base di un verbale
soggetto a revisione non riportano più una data di scadenza,
ma indicano che il provvedimento ha validità fino alla
conclusione dell’iter sanitario di revisione.
Con la circolare l’Inps è intervenuta nuovamente sulle
modifiche introdotte dal decreto legge 90/2014 che ha
previsto la possibilità di continuare a godere dei benefici
previsti anche durante l’iter di verifica a seguito di una
visita di revisione della condizione di disabilità grave.
In precedenza, infatti, durante il periodo di verifica,
l’interessato o i familiari perdevano la possibilità di
richiedere permessi, prolungare il congedo parentale, quello
straordinario o di fruire de i riposi alternativi.
La circolare 127/2016 precisa che, durante l’iter di
revisione, per i permessi non è necessario presentare una
nuova domanda, anche se il verbale sottoposto a revisione
riporta una data di scadenza che è stata superata.
Se la verifica si conclude con una conferma, il disabile o
il suo familiare non dovranno presentare una nuova domanda
di permessi, nemmeno se viene prevista un’ulteriore
revisione del nuovo verbale, a meno che nel frattempo sia
cambiato il datore di lavoro o l’orario (da full-time a
part-time o viceversa o se si deve modificare il tipo di
permesso).
Se l’esito è negativo, invece, il disabile, il familiare che
lo assiste e il datore di lavoro verranno informati
dall’Inps con effetto al giorno successivo alla data di
definizione del nuovo verbale.
Per quanto riguarda il prolungamento del congedo parentale,
i riposi alternativi a questo, o il congedo straordinario si
deve presentare domanda per continuare la fruizione nel
periodo dell’iter di revisione della disabilità. Questo
perché, precisa l’Inps, si tratta di prestazioni richieste
al bisogno per periodi determinati di tempo.
La circolare indica inoltre le procedure da seguire da parte
delle sedi territoriali in caso di mancata presenza al
controllo da parte dell’interessato e le relative
conseguenze.
Infine viene ricordato che sempre il Dl 90/2014 ha ridotto
da 90 a 45 giorni il tempo massimo entro cui deve essere
accertato dalle commissioni previste dalla legge 104/1992,
lo stato di disabilità su richiesta dell’interessato. Di
conseguenza, superato il nuovo termine, sono effettuati
accertamenti provvisori da medici specialisti in servizio
presso l’azienda sanitaria locale dove il disabile è
assistito (articolo Il Sole 24 Ore del 09.07.2016). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Contratti
pubblici, mercoledì la firma sui quattro comparti. Pubblico
impiego. Trattative al via.
I sindacati del pubblico impiego che non raggiungono le
dimensioni minime per essere considerati «rappresentativi»
nei nuovi comparti del pubblico impiego avranno tempo fino
alla vigilia di Ferragosto per aggregarsi e continuare a
sedersi ai tavoli delle trattative.
È questo il primo effetto del lento cammino che sta portando
alla ridefinizione della geografia della Pa. Ieri dall’Aran
è partita la convocazione per mercoledì prossimo, 13 luglio,
per la firma definitiva al contratto quadro che riduce a
quattro gli undici comparti in cui finora è stato diviso il
pubblico impiego.
Per sanità ed enti locali cambia poco,
quindi non sono necessarie alleanze, mentre la fusione di
istruzione, università e ricerca e la creazione del comparto
delle «funzioni centrali», che accorpa ministeri, agenzie
fiscali, enti pubblici e tutto il resto della Pa statale,
modifica parecchio le condizioni: per essere rappresentativi
i sindacati devono raggiungere il 5% nella media di iscritti
e voti nelle Rsu, per cui più si allargano i confini del
comparto più cresce il bisogno di iscritti e votanti per
superare la soglia.
L’intesa dà 30 giorni di tempo per le
alleanze. Questi problemi aiutano a spiegare i tempi lunghi
con cui l'accordo arriva al traguardo, dopo la prima intesa
del 5 aprile approvata con poche correzioni nel Consiglio
dei ministri del 15 giugno, dato che le conseguenze
politiche e pratiche superano di molto le questioni che
stanno a cuore agli addetti ai lavori sindacali.
La riduzione dei comparti pubblici è la premessa, imposta
dalla riforma Brunetta del 2009, per far ripartire la
trattativa sui contratti, sbloccati dalla sentenza della
Corte costituzionale pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del
29 luglio 2015 ma ancora in stallo.
Definito il numero dei contratti nazionali, però, restano da
deciderne i contenuti, e le premesse non indicano tempi
brevi. Alla Funzione pubblica si sta lavorando all’atto di
indirizzo, che dovrebbe chiedere ad Aran e sindacati di
prevedere ritocchi in busta paga inversamente proporzionali
ai livelli di reddito e indicare la strada di un
rafforzamento della contrattazione decentrata. I sindacati
continuano a giudicare insufficienti i 300 milioni messi a
disposizione dalla manovra (a cui si aggiungono circa 70
milioni a carico degli enti territoriali), e la partita si
intreccia con quella della riforma del pubblico impiego, in
attuazione della riforma Madia.
Per scrivere il Testo unico,
però, il governo ha tempo fino all’inizio del 2017, e
sembrano scendere le quotazioni dell’ipotesi che prevedeva
un’accelerazione, accorpando il decreto a quello sui
dirigenti da approvare in prima lettura entro fine mese. A
breve, dunque, dovrebbe arrivare la convocazione annunciata
dalla ministra della Pa, Marianna Madia, ma la strada è
ancora lunga (articolo Il Sole 24 Ore del 09.07.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
nulla-osta paesaggistico ora serve per meno opere.
Via libera della Conferenza unificata alla semplificazione
per i piccoli interventi paesaggistici. Gli interventi volti
al miglioramento dell'efficienza energetica, all'adeguamento
antisismico, all'eliminazione delle barriere architettoniche
(compresa l'installazione di un servoscala o ascensore
esterno) che non comportino elementi emergenti dalla sagoma
saranno esentati dall'autorizzazione paesaggistica.
La
Conferenza unificata del
07.07.2016 ha dato il via
libera definitivo al dpr che individua gli interventi
esclusi dall'autorizzazione paesaggistica o sottoposti a
procedura autorizzatoria semplificata.
Tra le opere «libere»
da nullaosta paesaggistico (disciplinate dall'allegato «A»
del dpr in commento) rientrano gli interventi di
coibentazione volti a migliorare l'efficienza energetica che
non comportino manufatti emergenti dalla sagoma, gli
interventi di consolidamento statico per l'adeguamento ai
fini antisismici che non modifichino la volumetria e
l'altezza dell'edificio, gli interventi indispensabili per
il supermanto di barriere architettoniche come ascensori
esterni o altri manufatti simili, le installazione di
pannelli solari o fotovoltaici su coperture piane non
visibili dagli spazi pubblici esterni, le sostituzione o
adeguamento di cancelli e recinzioni, gli interventi nel
sottosuolo come la realizzazione di volumi completamente
interrati che non comportino opere soprasuolo, le opere
temporanee che occupino suolo per non più di 120 giorni
nell'anno e le installazione di tende a protezione di
attività commerciali o in spazi pertinenziali a uso privato.
Nell'allegato «B» del dpr in commento invece viene
regolamentata l'autorizzazione semplificata e rapida per 42
tipologie di interventi considerati ad impatto lieve sul
territorio.
Tra questi rientrano le opere che comportano un
incremento di volume fino al 10% della volumetria che non
alterino le caratteristiche del fabbricato, gli interventi
antisismici, di miglioramento energetico o per il
superamento delle barriere architettoniche che comportino
innovazioni nelle caratteristiche morfologiche dell'edificio
o sulla sagoma, la realizzazione di tettoie, porticati,
chiostri da giardino permanenti, aventi una superficie non
superiore a 30 mq e l'installazione di impianti fotovoltaici
o termici visibili dall'esterno
(articolo ItaliaOggi del 09.07.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: I
mini rifiuti elettrici in negozio.
Dal 22 luglio scatta per le grandi strutture di vendita il
ritiro «uno contro zero» delle apparecchiature elettriche ed
elettroniche (Raee) di piccolissime dimensioni.
Tutto questo lo prevede il decreto del ministero
dell'ambiente del 31.05.2016 (pubblicato sulla Gazzetta
Ufficiale del 07.07.2016, n. 157) che regolamenta lo
svolgimento delle attività di ritiro gratuito da parte dei
distributori di rifiuti di apparecchiature elettriche ed
elettroniche di piccolissime dimensioni, nonché i requisiti
tecnici per lo svolgimento del deposito preliminare alla
raccolta presso i distributori e per il trasporto.
I
distributori possono rifiutare il ritiro di un Raee di
piccolissime dimensioni nel caso in cui questo rappresenti
un rischio per la salute e la sicurezza del personale per
motivi di contaminazione o qualora il rifiuto in questione
risulti in maniera evidente privo dei suoi componenti
essenziali e se contenga rifiuti diversi dai Raee.
I
distributori effettuano il ritiro dei Raee di piccolissime
dimensioni provenienti dai nuclei domestici a titolo
gratuito e senza obbligo di acquisto di Aee di tipo
equivalente (criterio dell'uno contro zero). I distributori
hanno l'obbligo di informare esplicitamente gli utilizzatori
finali della gratuità del ritiro e del fatto che esso non
comporta l'obbligo di acquistare altra o analoga merce, con
modalità chiare e di immediata percezione, anche tramite
avvisi facilmente leggibili collocati nei locali
commerciali.
Al fine di favorire il conferimento dei Raee di piccolissime
dimensioni provenienti dai nuclei domestici da parte degli
utilizzatori finali, i distributori promuovono campagne
informative e iniziative commerciali incentivanti o premiali
(articolo ItaliaOggi del 09.07.2016). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Via libera al «taglia-tempi» sulle opere
strategiche. Riforma Madia. Finito
l’esame parlamentare sul Dpr che dimezza i termini per le
autorizzazioni locali.
Con il via libera
ottenuto ieri in commissione Affari costituzionali alla
Camera si completa il percorso parlamentare del decreto
«taglia-tempi»
(Atto
del Governo n. 309),
il tassello della riforma Madia che punta a dimezzare il
calendario per le autorizzazioni delle opere considerate
strategiche e a commissariare le amministrazioni
territoriali che non si adeguano. L’obiettivo è di tagliare
da 180 a 90 giorni i tempi massimi per per gli assensi
locali ai progetti.
A questo punto al decreto, che mercoledì ha passato anche
l’esame del Senato, manca solo l’ultimo passaggio in
consiglio dei ministri. Potrebbe arrivare la prossima
settimana, e sul tavolo del governo è attesa per il via
libera definitivo anche la riforma delle partecipate, mentre
anche i decreti su autorità portuali e accorpamento della
Forestale nei Carabinieri.
Sull’accoglimento da parte del governo delle «condizioni»
che sia alla Camera sia al Senato hanno accompagnato i
pareri favorevoli non ci dovrebbero essere troppi problemi,
perché le richieste parlamentari collimano con i contenuti
dell’intesa già raggiunta con gli enti territoriali in
conferenza unificata (si veda Il Sole 24 Ore del 13 maggio).
Il punto fondamentale è legato alla richiesta di un altro
provvedimento attuativo, da sbrigare entro due mesi
attraverso un decreto nel quale governo e regioni si
accordino, sempre in conferenza unificata, sui «criteri per
selezionare i progetti» a cui applicare i tempi accelerati
«in relazione alla rilevanza strategica degli interventi per
il sistema Paese». Questo passaggio serve a disinnescare i
rischi di conflitto costituzionale, evocati anche dal
Consiglio di Stato quando ha esaminato il provvedimento,
perché, allo stato attuale, le regioni potrebbero invocare
l’intervento della Consulta sulle “invasioni di campo” da
parte del governo.
In pratica, il decreto anticipa nei fatti gli obiettivi alla
base della riforma del Titolo V della Costituzione, e prova
a togliere i poteri di veto locale sui progetti più
importanti (possono essere infrastrutture, ma anche
insediamenti produttivi); per quelli considerati «di
preminente interesse nazionale», il testo approvato in
prima lettura prevedeva la possibilità di un
commissariamento unilaterale, senza cercare l’accordo con
gli enti territoriali.
Il decreto sui criteri, da approvare d’intesa con regioni ed
enti locali, rappresenterebbe quindi un accordo preventivo
per consentire a Palazzo Chigi, o alla struttura da lui
delegata, di esercitare i poteri sostitutivi.
Sull’individuazione puntuale degli interventi da spingere,
invece, il Parlamento chiede di introdurre solo
un’informativa alle regioni e agli enti locali (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
GIURISPRUDENZA |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Non è dato ravvisare a carico
dell’Amministrazione un onere particolarmente stringente di
dare minuzioso riscontro alle osservazioni rese ai sensi
dell’art. 10-bis, atteggiandosi le medesime pur sempre a un
contributo al procedimento da parte del privato di tipo
squisitamente collaborativo.
In ogni caso, ai sensi dell’art. 21-octies, della medesima
l. n. 241 del 1990, la mancata o insufficiente motivazione
dell’apporto collaborativo proposto con le osservazioni non
può refluire sulla validità dell’atto di diniego che nel
caso in esame esprime un potere privo di margini di
discrezionalità in ragione della presupposta e vincolante
regolamentazione comunale richiamata nell’adottata
determinazione.
---------------
6. Occorre che il Collegio si occupi in primo luogo della
censura di violazione della regola del clare loqui
dedotta in via preliminare dall’appellante nei confronti del
Comune e del TAR, in quanto il primo avrebbe ignorato, in
contrasto con le disposizioni di cui all’art. 10-bis della
legge generale sul procedimento amministrativo, le sue
osservazioni in ordine all’inserimento dell’area in
questione nei c.d. “tessuti edificati” (che
consentirebbe l’intervento diretto), mentre il secondo
avrebbe omesso di pronunciarsi sulla predetta questione.
Le censura non è condivisibile.
Si osserva innanzitutto che non è dato ravvisare a carico
dell’Amministrazione un onere particolarmente stringente di
dare minuzioso riscontro alle osservazioni rese ai sensi
dell’art. 10-bis, atteggiandosi le medesime pur sempre a un
contributo al procedimento da parte del privato di tipo
squisitamente collaborativo.
In ogni caso, ai sensi dell’art. 21-octies, della medesima
l. n. 241 del 1990, la mancata o insufficiente motivazione
dell’apporto collaborativo proposto con le osservazioni non
può refluire sulla validità dell’atto di diniego che nel
caso in esame esprime un potere privo di margini di
discrezionalità in ragione della presupposta e vincolante
regolamentazione comunale richiamata nell’adottata
determinazione (Cons. Stato sez. IV 09/12/2015 n. 5577;
Cons. Stato Sez. V 25/01/2016 n. 233)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 20.07.2016 n. 3293 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Un lotto confinante con un’altra area più vasta
inedificata non può essere qualificato come “lotto
intercluso”.
La nozione di lotto intercluso, in tema di pianificazione
urbanistica, ha peraltro una sua valenza quando non si
rinviene spazio giuridico per un’ulteriore pianificazione,
stante la presenza di sufficienti opere di urbanizzazione
primaria e secondaria.
Ove pertanto la zona sia parzialmente urbanizzata, ma non
sia possibile ravvisare la sussistenza di un’adeguata
dotazione degli standard urbanistici prescritti dal d.m. n.
1444/1968, e vi sia spazio per l’approvazione di uno
strumento attuativo, il lotto esula dalla nozione di
interclusione.
---------------
Invero, il lotto in
questione non reca, dal punto di vista urbanistico, le
caratteristiche del lotto intercluso per la semplice ragione
che è confinante con un’altra area più vasta anch’essa
inedificata per cui non può dirsi che il terreno edificabile
del sig. Carella sia l’unico a non essere stato ancora
edificato e se così è non può qualificarsi come “lotto
intercluso” (Cons. Stato Sez. IV 07/11/2014 n. 5488).
Peraltro la nozione di lotto intercluso in tema di
pianificazione urbanistica ha una sua valenza quando non si
rinviene spazio giuridico per un’ulteriore pianificazione
(Cons. Stato Sez. IV 17/07/2013 n. 3880; idem 21/12/2012 n.
6656), stante la presenza di sufficienti opere di
urbanizzazione primaria e secondaria, ma non è questo il
caso che ci occupa, posto che in loco non è possibile
ravvisare la sussistenza di un’adeguata dotazione degli
standard urbanistici prescritti dal d.m. n. 1444/1968.
Invero, anche a voler ammettere, come in sostanza rivendica
il ricorrente, che la zona sia parzialmente urbanizzata,
questo non equivale a consentire di prescindere dalla previa
approvazione di uno strumento attuativo proprio perché
l’ulteriore edificazione espone la zona in cui è inserita
l’area de qua al rischio di compromissione definitiva dei
valori urbanistici, mentre la pianificazione attuativa può
ancora conseguire l’effetto di correggere e compensare il
disordine edificativo in atto nonché di assicurare un
armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 20.07.2016 n. 3293 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Proprio
per le sue caratteristiche di strumento di pianificazione e
delle sua possibilità di utilizzo, è del tutto evidente che
lo strumento urbanistico, nel disporre le future
conformazioni del territorio, considera le sole “aree
libere”, tali dovendosi ritenere quelle “disponibili” al
momento della pianificazione, e ancor più precisamente
quelle che non risultano già edificate (in quanto
costituenti aree di sedime di fabbricati o utilizzate per
opere di urbanizzazione), ovvero quelle che, nel rispetto
degli standard urbanistici, risultano comunque già
utilizzate per l’edificazione (in quanto asservite alla
realizzazione di fabbricati, onde consentirne lo sviluppo
volumetrico).
D’altra parte, diversamente opinando, ogni nuova
pianificazione risulterebbe del tutto scollegata dalla
precedente, potendo da questa prescindere, e di volta in
volta riguarderebbe, senza alcuna contestualizzazione
storica, una parte sempre più esigua del territorio comunale
(cioè quella non ancora occupata da immobili e manufatti),
valutata ex novo.
In tal modo, la pianificazione urbanistica si ridurrebbe a
considerare il territorio solo nella sua mera possibilità di
edificazione, in quanto non ostacolata da presenze
materiali, e non già come un bene da conformare per il
migliore sviluppo della comunità, salvaguardando i diritti
costituzionalmente garantiti degli individui che su di esso
vivono ed operano.
---------------
Un'area edificabile, già interamente considerata in
occasione del rilascio di una concessione edilizia, agli
effetti della volumetria realizzabile, non può essere più
tenuta in considerazione come area libera, neppure
parzialmente, ai fini del rilascio di una seconda
concessione nella perdurante esistenza del primo edificio,
irrilevanti appalesandosi le vicende inerenti alla proprietà
dei terreni.
Più in particolare, "in ipotesi di realizzazione di un
manufatto edilizio la cui volumetria è calcolata sulla base
anche di un'area asservita o accorpata, l'intera estensione
interessata deve essere considerata utilizzata ai fini
edificatori, con l'effetto che anche l'area asservita o
accorpata non è più edificabile, anche se è oggetto di un
frazionamento o di alienazione separata dall'area su cui
insiste il manufatto".
---------------
In definitiva, una volta utilizzato per la definizione
complessiva degli standard di un territorio oggetto di piano
di lottizzazione, il singolo terreno, ancorché non
interessato da edificazione ed anche se eventuali
destinazioni, quali quella a verde pubblico, non hanno avuto
attuazione, non può essere considerato disponibile ai fini
di una successiva edificazione: una volta realizzate le
volumetrie previste, risultando inconferente il decorso del
decennio di efficacia del Piano di lottizzazione.
---------------
4. Le conclusioni cui si è pervenuti risultano coerenti con
i principi già espressi, in casi analoghi, dalla
giurisprudenza amministrativa.
Questo Consiglio di Stato (sez. IV, 09.07.2011 n. 4134) ha
già avuto modo di affermare che “proprio per le sue
caratteristiche di strumento di pianificazione e delle sua
possibilità di utilizzo, è del tutto evidente che lo
strumento urbanistico, nel disporre le future conformazioni
del territorio, considera le sole “aree libere”, tali
dovendosi ritenere quelle “disponibili” al momento della
pianificazione, e ancor più precisamente quelle che non
risultano già edificate (in quanto costituenti aree di
sedime di fabbricati o utilizzate per opere di
urbanizzazione), ovvero quelle che, nel rispetto degli
standard urbanistici, risultano comunque già utilizzate per
l’edificazione (in quanto asservite alla realizzazione di
fabbricati, onde consentirne lo sviluppo volumetrico).
D’altra parte, diversamente opinando, ogni nuova
pianificazione risulterebbe del tutto scollegata dalla
precedente, potendo da questa prescindere, e di volta in
volta riguarderebbe, senza alcuna contestualizzazione
storica, una parte sempre più esigua del territorio comunale
(cioè quella non ancora occupata da immobili e manufatti),
valutata ex novo.
In tal modo, la pianificazione urbanistica si ridurrebbe a
considerare il territorio solo nella sua mera possibilità di
edificazione, in quanto non ostacolata da presenze
materiali, e non già come un bene da conformare per il
migliore sviluppo della comunità, salvaguardando i diritti
costituzionalmente garantiti degli individui che su di esso
vivono ed operano”.
Si è affermato inoltre che "un'area edificabile, già
interamente considerata in occasione del rilascio di una
concessione edilizia, agli effetti della volumetria
realizzabile, non può essere più tenuta in considerazione
come area libera, neppure parzialmente, ai fini del rilascio
di una seconda concessione nella perdurante esistenza del
primo edificio, irrilevanti appalesandosi le vicende
inerenti alla proprietà dei terreni” (Cons. Stato, sez.
V, 10.02.2000 n. 749).
Più in particolare, si è precisato che “in ipotesi di
realizzazione di un manufatto edilizio la cui volumetria è
calcolata sulla base anche di un'area asservita o accorpata,
l'intera estensione interessata deve essere considerata
utilizzata ai fini edificatori, con l'effetto che anche
l'area asservita o accorpata non è più edificabile, anche se
è oggetto di un frazionamento o di alienazione separata
dall'area su cui insiste il manufatto" (Cons. Stato,
sez. V, 07.11.2002 n. 6128; sez. IV, 06.09.1999 n. 1402).
In definitiva, una volta utilizzato per la definizione
complessiva degli standard di un territorio oggetto di piano
di lottizzazione, il singolo terreno, ancorché non
interessato da edificazione ed anche se eventuali
destinazioni, quali quella a verde pubblico, non hanno avuto
attuazione, non può essere considerato disponibile ai fini
di una successiva edificazione: una volta realizzate le
volumetrie previste, risultando inconferente il decorso del
decennio di efficacia del Piano di lottizzazione
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 20.07.2016 n. 3246 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Indennità
per le ferie non godute. La regola non si applica però in
caso di mancato servizio. Corte di giustizia Ue. Una norma
nazionale non può negare la somma in caso di dimissioni.
In caso di cessazione del rapporto
di lavoro su richiesta del dipendente questo ha comunque
diritto a un’indennità per le ferie non godute.
Con la
sentenza 20.07.2016 causa C-341/15 la Corte di
giustizia europea si è espressa in merito alla conformità
della «legge relativa alla retribuzione dei dipendenti
pubblici della capitale federale Vienna» al disposto
dell’articolo 7 della direttiva 2003/88/Ce (si legga anche
il
comunicato stampa 20.07.2016 n. 81/16).
La domanda di pronuncia pregiudiziale è stata presentata dal
tribunale amministrativo viennese nell’ambito di una
controversia instaurata da un dipendente pubblico per la
corresponsione dell’«indennità finanziaria» per ferie
maturate e non godute alla cessazione del rapporto di
lavoro, avvenuta per la richiesta di collocamento in
pensione avanzata dallo stesso lavoratore.
Il cittadino austriaco, infatti, ha chiesto il pagamento di
tale indennità in relazione alle ferie non godute durante il
periodo (di circa un anno e mezzo) in cui lo stesso non ha
prestato servizio in quanto, dal 15.11. al 31.12.2010 è
stato assente per malattia, mentre, a partire dal 01.01.2011 e sino al pensionamento, è stato sollevato dall’obbligo
di presentarsi sul posto di lavoro, pur continuando a
percepire il proprio stipendio, in virtù di un accordo
sottoscritto con il datore di lavoro.
La pubblica amministrazione viennese ha respinto tale
pretesa, evidenziando che la legge austriaca nega
espressamente il diritto del dipendente a percepire una tale
indennità «in caso di ammissione al beneficio della pensione
su sua richiesta».
La Corte di giustizia ha effettuato un lucido esame del
contesto normativo di riferimento, rammentando che
l’articolo 7 della direttiva 2003/88/Ce prevede non solo che
ogni lavoratore debba beneficiare di un periodo di ferie
annuale retribuito di almeno quattro settimane, ma altresì
che, ai sensi del secondo paragrafo dello stesso articolo,
il periodo minimo di ferie non possa essere sostituito da
un’indennità «salvo in caso di fine rapporto».
La Corte ha quindi rilevato come il legislatore comunitario
-nel prevedere comunque l’erogazione di tale indennità alla
cessazione del rapporto lavorativo- abbia considerato del
tutto irrilevante il motivo per cui il rapporto di lavoro si
sia risolto: evidenzia, infatti, la Corte che l’articolo 7,
paragrafo 2, non assoggetta tale diritto «ad alcuna
condizione diversa da quella relativa, da un lato, alla
cessazione del rapporto di lavoro e, dall’altro, al mancato
godimento da parte del lavoratore di tutte le ferie annuali
a cui lo stesso aveva diritto alla data in cui il rapporto è
cessato».
La Corte di giustizia, rispondendo alle questioni poste dal
giudice del rinvio, ha quindi interpretato la direttiva
comunitaria evidenziando come l’articolo 7 non consenta a
una normativa nazionale di privare del diritto
all’«indennità finanziaria» per ferie annuali non godute il
lavoratore il cui rapporto di lavoro sia cessato a seguito
della sua domanda di pensionamento nel caso in cui non sia
stato in grado di usufruire di tutte le ferie prima della
fine del rapporto.
La Corte europea ha poi affrontato la questione relativa
alla causale della mancata fruizione delle ferie,
evidenziando come, nel caso di specie, fosse necessario
effettuare una differenziazione tra il periodo di mancata
fruizione a causa della malattia del dipendente e,
dall’altro, il periodo di mancata prestazione lavorativa in
forza dell’accordo concluso con il datore di lavoro.
Ebbene, la Corte –richiamando la duplice finalità delle
ferie, ovverosia consentire al lavoratore di sospendere
l’esecuzione dei compiti attribuitigli in forza del suo
contratto e di beneficiare di un periodo di svago e relax–
conclude evidenziando che nell’ipotesi in cui, pur a fronte
della corresponsione della retribuzione, la prestazione
lavorativa non sia dovuta in virtù di un accordo tra le
parti, il lavoratore non ha diritto all’indennità per ferie
annuali retribuite non godute durante tale periodo, salvo
che lo stesso non abbia potuto fruire del periodo di ferie a
causa di malattia (articolo Il Sole 24 Ore del 21.07.2016).
---------------
MASSIMA
Per questi motivi, la Corte (Decima Sezione) dichiara:
L’articolo 7, paragrafo 2, della direttiva
2003/88/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4
novembre 2003, concernente taluni aspetti
dell’organizzazione dell’orario di lavoro, deve essere
interpretato nel senso che:
– esso osta a una normativa nazionale, come quella di cui al
procedimento principale, che priva del diritto all’indennità
finanziaria per ferie annuali retribuite non godute il
lavoratore il cui rapporto di lavoro sia cessato a seguito
della sua domanda di pensionamento e che non sia stato in
grado di usufruire di tutte le ferie prima della fine di
tale rapporto di lavoro;
– un lavoratore ha diritto, al momento del pensionamento,
all’indennità finanziaria per ferie annuali retribuite non
godute per il fatto di non aver esercitato le sue funzioni
per malattia;
– un lavoratore il cui rapporto di lavoro sia cessato e che,
in forza di un accordo concluso con il suo datore di lavoro,
pur continuando a percepire il proprio stipendio, fosse
tenuto a non presentarsi sul posto di lavoro per un periodo
determinato antecedente il suo pensionamento non ha diritto
all’indennità finanziaria per ferie annuali retribuite non
godute durante tale periodo, salvo che egli non abbia potuto
usufruire di tali ferie a causa di una malattia;
– spetta, da un lato, agli Stati membri decidere se
concedere ai lavoratori ferie retribuite supplementari che
si sommano alle ferie annuali retribuite minime di quattro
settimane previste dall’articolo 7 della direttiva 2003/88.
In tale ipotesi, gli Stati membri possono prevedere di
concedere a un lavoratore che, a causa di una malattia, non
abbia potuto usufruire di tutte le ferie annuali retribuite
supplementari prima della fine del suo rapporto di lavoro,
un diritto all’indennità finanziaria corrispondente a tale
periodo supplementare. Spetta, dall’altro lato, agli Stati
membri stabilire le condizioni di tale concessione. |
EDILIZIA PRIVATA: Questa
Corte ha costantemente affermato che «la disciplina delle
distanze minime tra costruzioni rientra nella materia
dell’ordinamento civile e, quindi, attiene alla competenza
legislativa statale; alle Regioni è consentito fissare
limiti in deroga alle distanze minime stabilite nelle
normative statali, solo a condizione che la deroga sia
giustificata dall’esigenza di soddisfare interessi pubblici
legati al governo del territorio. Dunque, se da un lato non
può essere del tutto esclusa una competenza legislativa
regionale relativa alle distanze tra gli edifici, dall’altro
essa, interferendo con l’ordinamento civile, è rigorosamente
circoscritta dal suo scopo −il governo del territorio− che
ne detta anche le modalità di esercizio».
Si è conseguentemente affermato che, «Nella delimitazione
dei rispettivi ambiti di competenza −statale in materia di
«ordinamento civile» e concorrente in materia di «governo
del territorio»−, il punto di equilibrio è stato rinvenuto
nell’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, che
questa Corte ha più volte ritenuto dotato di efficacia
precettiva e inderogabile. Tale disposto ammette distanze
inferiori a quelle stabilite dalla normativa statale, ma
solo “nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di
piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con
previsioni planovolumetriche”. In definitiva, le deroghe
all’ordinamento civile delle distanze tra edifici sono
consentite se inserite in strumenti urbanistici, funzionali
a conformare un assetto complessivo e unitario di
determinate zone del territorio».
Tali conclusioni meritano di essere ribadite anche alla luce
dell’introduzione −ad opera dall’art. 30, comma 1, 0a), del
decreto-legge 21.06.2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il
rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni,
dall’art. 1, comma 1, della legge 09.08.2013, n. 98−
dell’art. 2-bis del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo unico
delle disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia – Testo A).
La disposizione recepisce la ricordata giurisprudenza di
questa Corte, inserendo nel testo unico sull’edilizia i
principi fondamentali della vincolatività, anche per le
Regioni e le Province autonome, delle distanze legali
stabilite dal d.m. n. 1444 del 1968 e dell’ammissibilità
delle deroghe solo a condizione che siano «inserite in
strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto
complessivo e unitario di determinate zone del territorio».
---------------
4.− È fondata la questione di legittimità costituzionale,
dell’art. 2, comma 1, lettera g), della legge reg. Molise n.
7 del 2015, promossa dal Presidente del Consiglio dei
ministri con riferimento all’art. 117, secondo comma,
lettera l), e terzo comma, Cost., perché la disposizione
impugnata, nel sostituire l’art. 2, comma 5, della legge
reg. Molise n. 30 del 2009, «fermi restando i limiti
stabiliti dalla normativa nazionale», ha espressamente
introdotto, per gli ampliamenti in sopraelevazione degli
edifici esistenti, la possibilità di derogare alle distanze
fissate dal decreto ministeriale n. 1444 del 1968.
4.1.− Questa Corte ha costantemente affermato che «la
disciplina delle distanze minime tra costruzioni rientra
nella materia dell’ordinamento civile e, quindi, attiene
alla competenza legislativa statale; alle Regioni è
consentito fissare limiti in deroga alle distanze minime
stabilite nelle normative statali, solo a condizione che la
deroga sia giustificata dall’esigenza di soddisfare
interessi pubblici legati al governo del territorio. Dunque,
se da un lato non può essere del tutto esclusa una
competenza legislativa regionale relativa alle distanze tra
gli edifici, dall’altro essa, interferendo con l’ordinamento
civile, è rigorosamente circoscritta dal suo scopo −il
governo del territorio− che ne detta anche le modalità di
esercizio» (sentenza n. 6 del 2013; nello stesso senso,
sentenze n. 134 del 2014 e n. 114 del 2012; ordinanza n. 173
del 2011).
Si è conseguentemente affermato che, «Nella delimitazione
dei rispettivi ambiti di competenza −statale in materia di
«ordinamento civile» e concorrente in materia di «governo
del territorio»−, il punto di equilibrio è stato rinvenuto
nell’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, che
questa Corte ha più volte ritenuto dotato di efficacia
precettiva e inderogabile (sentenze n. 114 del 2012 e n. 232
del 2005; ordinanza n. 173 del 2011). Tale disposto ammette
distanze inferiori a quelle stabilite dalla normativa
statale, ma solo “nel caso di gruppi di edifici che formino
oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni
convenzionate con previsioni planovolumetriche”. In
definitiva, le deroghe all’ordinamento civile delle distanze
tra edifici sono consentite se inserite in strumenti
urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo
e unitario di determinate zone del territorio (sentenza n. 6
del 2013)» (sentenza n. 134 del 2014).
Tali conclusioni meritano di essere ribadite anche alla luce
dell’introduzione −ad opera dall’art. 30, comma 1, 0a), del
decreto-legge 21.06.2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il
rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni,
dall’art. 1, comma 1, della legge 09.08.2013, n. 98−
dell’art. 2-bis del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo unico
delle disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia – Testo A).
La disposizione recepisce la ricordata giurisprudenza di
questa Corte, inserendo nel testo unico sull’edilizia i
principi fondamentali della vincolatività, anche per le
Regioni e le Province autonome, delle distanze legali
stabilite dal d.m. n. 1444 del 1968 e dell’ammissibilità
delle deroghe solo a condizione che siano «inserite in
strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto
complessivo e unitario di determinate zone del territorio»
(sentenza n. 134 del 2014).
4.2.− Nel caso di specie questa condizione non sussiste e
pertanto la disposizione impugnata eccede la competenza
regionale concorrente del «governo del territorio»,
violando il limite dell’«ordinamento civile», di
competenza legislativa esclusiva dello Stato.
Deve essere pertanto dichiarata la illegittimità
costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera g), della legge
reg. Molise n. 7 del 2015, limitatamente alle parole «,
ivi comprese quelle previste dall’articolo 9 del D.M. n.
1444/1968,».
5.− È fondata anche la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera i), della legge
reg. Molise n. 7 del 2015, promossa dal Presidente del
Consiglio dei ministri con riferimento all’art. 117, secondo
comma, lettera l), e terzo comma, Cost.
5.1.− La disposizione impugnata, nel sostituire il comma 8
dell’art. 2 della legge reg. Molise n. 30 del 2009, consente
che gli ampliamenti previsti dai commi precedenti agli
edifici esistenti e in costruzione avvengano in deroga ai
vigenti strumenti urbanistici comunali, fermo restando
quanto stabilito dal codice civile, ma senza espressamente
imporre –e in ciò risiede la doglianza del ricorrente− il
rispetto delle distanze fissate dall’art. 9 del d.m. n. 1444
del 1968.
Nel caso di specie (a differenza di quello esaminato nella
sentenza n. 134 del 2014), l’espressa menzione del solo
codice civile non consente di ritenere implicitamente
richiamate anche le distanze fissate dal decreto
ministeriale, come è reso evidente, da un lato,
dall’intervento della successiva legge reg. Molise n. 13 del
2015, che ha sostituito la norma in esame espressamente
prevedendo anche il rispetto di tali distanze, e,
dall’altro, dalla menzione, nel previo comma 5 dell’art. 2,
del rispetto della «normativa nazionale», locuzione,
questa sì, idonea a ricomprendere non solo il codice civile
ma l’intera disciplina civilistica delle distanze.
5.2.− In conclusione, «la norma in questione, attraverso
il mero richiamo delle norme del codice civile, è
suscettibile di consentire l’introduzione di deroghe
particolari in grado di discostarsi dalle distanze di cui
all’art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444» (sentenza n.
114 del 2012); il che, come detto sopra, rende illegittimo
l’intervento del legislatore regionale, non ricorrendo,
anche nel caso di specie, il collegamento agli strumenti
urbanistici e la finalizzazione delle deroghe alla
conformazione di determinate zone del territorio.
Va pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale della
norma impugnata nella parte in cui non prevede, dopo le
parole «fermo restando quanto stabilito dal codice civile»,
le parole «e dall’articolo 9 del d.m. n. 1444 del 1968».
6.− È ugualmente fondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 4, comma 1, lettera g), della legge
reg. Molise n. 7 del 2015, promossa dal Presidente del
Consiglio dei ministri con riferimento ai medesimi parametri
costituzionali.
6.1.− La disposizione impugnata ha aggiunto all’art. 3,
comma 7, primo e secondo periodo, della legge reg. Molise n.
30 del 2009, dopo le parole «distanze tra gli edifici»,
le parole «, anche di quelle previste dall’articolo 9 del
D.M. n. 1444/1968», così espressamente sancendo la
derogabilità anche di queste ultime nel caso degli
interventi di demolizione e ricostruzione contemplati dalla
norma modificata.
Anche in questo caso, tuttavia, la generalità della
previsione e il mancato collegamento delle deroghe agli
strumenti urbanistici rendono illegittimo l’intervento del
legislatore regionale.
7.− La disposizione modificatrice impugnata è avvinta da un
«inscindibile legame funzionale» (sentenza n. 217 del
2015) con l’art. 3, comma 7, della legge reg. Molise n. 30
del 2009, nella parte in cui consente la deroga alle
distanze tra gli edifici senza prevedere il rispetto di
quelle stabilite dal codice civile e dalle disposizioni
integrative.
Ai sensi dell’art. 27 della legge 11.03.1953, n. 87 (Norme
sulla costituzione e sul funzionamento della Corte
costituzionale), va pertanto dichiarata l’illegittimità
costituzionale in via consequenziale di tale disposizione
(sulla declaratoria di illegittimità costituzionale in via
consequenziale nei giudizi in via principale si vedano, tra
le tante, le sentenze n. 249, n. 87 e n. 68 del 2014, n. 308
del 2013, n. 378, n. 166 e n. 2 del 2004).
...
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l’illegittimità costituzionale
dell’art. 2, comma 1, lettera g), della legge della Regione
Molise 14.04.2015, n. 7, recante «Disposizioni
modificative della legge regionale 11.12.2009, n. 30
(Intervento regionale straordinario volto a rilanciare il
settore edilizio, a promuovere le tecniche di bioedilizia e
l’utilizzo di fonti di energia alternative e rinnovabili,
nonché a sostenere l’edilizia sociale da destinare alle
categorie svantaggiate e l’edilizia scolastica)»,
limitatamente alle parole «, ivi
comprese quelle previste dall’articolo 9 del D.M. n.
1444/1968,»;
2) dichiara l’illegittimità costituzionale
dell’art. 2, comma 1, lettera i), della legge della Regione
Molise n. 7 del 2015, nella parte in cui non prevede, dopo
le parole «fermo restando quanto stabilito dal codice
civile», le parole «e dall’articolo
9 del d.m. n. 1444 del 1968»;
3) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 4,
comma 1, lettera g), della legge della Regione Molise n. 7
del 2015;
4) dichiara, in applicazione dell’art. 27 della legge
11.03.1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul
funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità
costituzionale dell’art. 3, comma 7, della legge della
Regione Molise 11.12.2009, n. 30 (Intervento regionale
straordinario volto a rilanciare il settore edilizio, a
promuovere le tecniche di bioedilizia e l’utilizzo di fonti
di energia alternative e rinnovabili, nonché a sostenere
l’edilizia sociale da destinare alle categorie svantaggiate
e l’edilizia scolastica), nella parte in cui non prevede il
rispetto delle distanze legali stabilite dal codice civile e
dalle disposizioni integrative
(Corte Costituzionale,
sentenza
20.07.2016 n. 185). |
TRIBUTI: Aree
edificabili e criterio base imponibile: l'edificabilità va
desunta dal PRG comunale.
Cassazione: a prescindere dall'approvazione del piano
regolatore generale da parte della Regione e dell'adozione
di strumenti urbanistici attuativi.
L'edificabilità di un'area, ai fini
dell'applicazione del criterio di determinazione della base
imponibile, fondato sul valore venale, deve essere desunta
dalla qualificazione ad essa attribuita dal piano regolatore
generale adottato dal Comune, indipendentemente
dall'approvazione di esso da parte della Regione e
dell'adozione di strumenti urbanistici attuativi, principio
di seguito costantemente ribadito dalla giurisprudenza di
questa Corte (cfr., tra le molte Cass. Cass. sez. 5,
27.07.2007, n. 16174; Cass. sez. 5, 16.11.2012, n. 20137;
Cass. sez. 5, 05.03.2014, n. 5161; Cass. sez. 5, 27.02.2015,
a 4091), in un quadro di riferimento segnato anche da
pronuncia della Corte costituzionale (ord. 27.02.2008, n.
41), che ha dichiarato inammissibile la questione di
legittimità costituzionale della norma d'interpretazione
autentica dell'art. 2, lett. b), del dlgs. 504/1992,
rappresentata dall'art. 36, comma 2, del d.l. n. 223/2006,
come convertito nella legge n. 248/2006.
---------------
Il secondo motivo, con il quale la ricorrente denuncia, in
relazione all'art. 360, 1° comma, n. 3 c.p.c., la violazione
e falsa applicazione dell'art. 2 del dlgs. n. 504/1992,
sollevando anche questione di legittimità costituzionale in
relazione agli artt. 3, 53 e 97 Cost., è infondato.
Esso tende a rimettere in discussione il principio, espresso
dalle Sezioni Unite di questa Corte con la nota sentenza
30.11.2006, n. 25506, secondo cui l'edificabilità di
un'area, ai fini dell'applicazione del criterio di
determinazione della base imponibile, fondato sul valore
venale, deve essere desunta dalla qualificazione ad essa
attribuita dal piano regolatore generale adottato dal
Comune, indipendentemente dall'approvazione di esso da parte
della Regione e dell'adozione di strumenti urbanistici
attuativi, principio di seguito costantemente ribadito dalla
giurisprudenza di questa Corte (cfr., tra le molte Cass.
Cass. sez. 5, 27.07.2007, n. 16174; Cass. sez. 5,
16.11.2012, n. 20137; Cass. sez. 5, 05.03.2014, n. 5161;
Cass. sez. 5, 27.02.2015, a 4091), in un quadro di
riferimento segnato anche da pronuncia della Corte
costituzionale (ord. 27.02.2008, n. 41), che ha dichiarato
inammissibile la questione di legittimità costituzionale
della norma d'interpretazione autentica dell'art. 2, lett.
b), del dlgs. 504/1992, rappresentata dall'art. 36, comma 2,
del d.l. n. 223/2006, come convertito nella legge n.
248/2006.
Il motivo, anche con specifico riferimento all'eccezione di
legittimità costituzionale, nei diversi profili articolati
in ricorso, non apporta elementi nuovi che consentano
d'investire nuovamente la Corte costituzionale del sindacato
richiesto o di sollecitare alle Sezioni Unite di questa
Corte un mutamento dell'indirizzo sopra citato
(Corte di Cassazione, Sez. VI civile,
ordinanza 18.07.2016 n. 14676 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Interventi edilizi e tutela degli interessi del vicino:
l’esercizio della tutela del vicino va attivato senza
indugio e non differito nel tempo irragionevolmente o
colposamente determinando una situazione di incertezza.
Se da un lato deve essere assicurata al vicino la tutela in
sede giurisdizionale dei propri interessi nei confronti di
un intervento edilizio ritenuto illegittimo, dall’altro lato
deve parimenti essere salvaguardato l’interesse del titolare
del permesso di costruire a che l’esercizio di detta tutela
venga attivato senza indugio e non irragionevolmente o
colposamente differito nel tempo, determinando una
situazione di incertezza delle situazioni giuridiche in
contrasto con i principi ordinamentali.
In caso di impugnazione da parte del
vicino di un permesso di costruire rilasciato a terzi, il
termine di impugnazione inizia bensì a decorrere in linea di
principio dal completamento dei lavori o, comunque, dal
momento in cui la costruzione realizzata è tale che non si
possono avere dubbi in ordine alla portata dell’intervento,
ma, al contempo, il principio di certezza delle situazioni
giuridiche e di tutela di tutti gli interessati comporta che
non si possa lasciare il soggetto titolare di un permesso di
costruire edilizio nell’incertezza circa la sorte del
proprio titolo oltre una ragionevole misura, poiché, nelle
more, il ritardo dell’impugnazione si risolverebbe in un
danno aggiuntivo connesso all’ulteriore avanzamento dei
lavori che, ex post, potrebbero essere dichiarati
illegittimi.
Infatti, se da un lato deve essere assicurata al vicino la
tutela in sede giurisdizionale dei propri interessi nei
confronti di un intervento edilizio ritenuto illegittimo,
dall’altro lato deve parimenti essere salvaguardato
l’interesse del titolare del permesso di costruire a che
l’esercizio di detta tutela venga attivato senza indugio e
non irragionevolmente o colposamente differito nel tempo,
determinando una situazione di incertezza delle situazioni
giuridiche in contrasto con gli evidenziati principi
ordinamentali.
In questo senso la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha
individuato una serie di fattispecie in cui, in ragione
della natura delle doglianze mosse nei confronti
dell’intervento edilizio, dei rilievi addotti con riguardo
alla conformazione fisica o giuridica delle aree oggetto
dello stesso, delle censure dedotte avverso il titolo in sé
e per sé considerato, nonché delle conoscenze acquisite e
delle attività poste in essere in sede procedimentale o
comunque extraprocessuale, non sussistono oggettivamente
ragionevoli motivi che possano legittimare l’interessato ad
una impugnazione differita dei titoli edilizi alla fine dei
relativi lavori.
---------------
RITENUTA la manifesta fondatezza del motivo d’appello,
proposto in via principale dal Comune di Aldino e in via
incidentale dagli originari controinteressati, con cui si
censura la reiezione dell’eccezione di irricevibilità
dell’avversario ricorso di primo grado per tardiva
proposizione oltre il termine di decadenza di sessanta
giorni di cui all’art. 41, comma 2, cod. proc. amm., in
quanto:
- secondo consolidato orientamento giurisprudenziale
condiviso da questo Collegio, in caso di impugnazione da
parte del vicino di un permesso di costruire rilasciato a
terzi, il termine di impugnazione inizia bensì a decorrere
in linea di principio dal completamento dei lavori o,
comunque, dal momento in cui la costruzione realizzata è
tale che non si possono avere dubbi in ordine alla portata
dell’intervento, ma, al contempo, il principio di certezza
delle situazioni giuridiche e di tutela di tutti gli
interessati comporta che non si possa lasciare il soggetto
titolare di un permesso di costruire edilizio
nell’incertezza circa la sorte del proprio titolo oltre una
ragionevole misura, poiché, nelle more, il ritardo
dell’impugnazione si risolverebbe in un danno aggiuntivo
connesso all’ulteriore avanzamento dei lavori che, ex
post, potrebbero essere dichiarati illegittimi (v.,
ex plurimis, Cons. Stato, IV Sez., 28.10.2015, n. 4909;
Cons. Stato, IV, Sez. 10.06.2014, n. 2959): infatti, se da
un lato deve essere assicurata al vicino la tutela in sede
giurisdizionale dei propri interessi nei confronti di un
intervento edilizio ritenuto illegittimo, dall’altro lato
deve parimenti essere salvaguardato l’interesse del titolare
del permesso di costruire a che l’esercizio di detta tutela
venga attivato senza indugio e non irragionevolmente o
colposamente differito nel tempo, determinando una
situazione di incertezza delle situazioni giuridiche in
contrasto con gli evidenziati principi ordinamentali;
- in questo senso la giurisprudenza del Consiglio di Stato
ha individuato una serie di fattispecie in cui, in ragione
della natura delle doglianze mosse nei confronti
dell’intervento edilizio, dei rilievi addotti con riguardo
alla conformazione fisica o giuridica delle aree oggetto
dello stesso, delle censure dedotte avverso il titolo in sé
e per sé considerato, nonché delle conoscenze acquisite e
delle attività poste in essere in sede procedimentale o
comunque extraprocessuale, non sussistono oggettivamente
ragionevoli motivi che possano legittimare l’interessato ad
una impugnazione differita dei titoli edilizi alla fine dei
relativi lavori (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 18.07.2016 n. 3191 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: E’
noto al Collegio l’orientamento secondo cui ai procedimenti
preordinati all'emanazione dell'ordinanza di rimozione e
smaltimento dei rifiuti ai sensi dell'art. 192, d.lgs. n.
152 del 2006 si deve applicare la disciplina sulla
comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7, l. n. 241
del 1990, in quanto adempimento obbligatorio, rispetto al
quale risulta recessivo, nella specifica materia, l'art.
21-octies, con conseguente illegittimità dell'ordinanza non
preceduta dalla comunicazione stessa.
---------------
Si deve ricordare che l'art. 192 del testo unico n. 152 del
2006 attribuisce rilievo anche alla negligenza del
proprietario, che -a parte i casi di connivenza o di
complicità negli illeciti- si disinteressi del proprio bene
per qualsiasi ragione e resti inerte, senza affrontare
concretamente la situazione, ovvero la affronti con misure
palesamenti inadeguate
Questa conclusione è sostenuta dalla più recente
giurisprudenza in materia, che, anche al fine di contrastare
più efficacemente gli illeciti fenomeni di abbandono di
rifiuti, ha notevolmente ampliato il contenuto del dovere di
diligenza da esigersi nei confronti del proprietario
dell'area interessata e correlativamente ha aumentato le
ipotesi di negligenza tali da integrare la culpa in
omittendo del proprietario; sul punto il Consiglio di Stato
ha rilevato che, nel suo significato lessicale, la
negligenza (vale a dire la mancata diligenza) consisteva e
consiste nella trascuratezza, nell'incuria nella gestione di
un proprio bene, e cioè nell'assenza della cura, della
vigilanza, della custodia e della buona amministrazione del
bene.
E’ stato altresì rilevato come questa conclusione sia
“pienamente in linea con la concezione della
proprietà-funzione recepita dalla nostra Costituzione, per
la quale la proprietà pone anche degli obblighi di rendersi
attivo al suo titolare”.
---------------
In tale situazione la circostanza addotta dalla ricorrente
per la quale il deposito dei rifiuti non sarebbe stato
perpetrato dalla proprietà, ma da soggetti terzi, è del
tutto irrilevante; tale circostanza non sottrae la società
ricorrente al proprio obbligo di provvedere alla rimozione
strumentale al risanamento dell'area e, con essa, ad inibire
pericoli per l'igiene e la salute pubblica, in quanto si
tratta di attività che non può non gravare sul titolare del
diritto di proprietà della medesima.
---------------
... per l'annullamento:
●
con il ricorso principale:
- dell'ordinanza n. 202/2015 del Sindaco del Comune di Casale
Monferrato avente ad oggetto "Prescrizioni alla ditta
La.En. e Ic.Te. s.r.l. di Casale Monferrato in merito a
rimozione e smaltimento rifiuti", datata 27/04/2015 e
notificata il giorno 30/05/2015 a parte ricorrente;
- di ogni altro atto presupposto, conseguente e comunque connesso,
e in particolare la relazione tecnica n. SC07-2015/0503-04
dell'08.04.2015 redatta dall'Arpa Piemonte avente ad oggetto
"Segnalazione Comune di Casale M.to per abbandono rifiuti
in Str. ... 2, Casale M.to";
●
con motivi aggiunti del 27.11.2015:
- dell'ordinanza n. 486/2015 del Sindaco del Comune di Casale
Monferrato avente ad oggetto "Ulteriori interventi
immediati a tutela della salute pubblica in Strada ... 4 -
Casale Monferrato" datata 01.08.2015 e notificata il
giorno 03.08.2015;
- di ogni altro atto presupposto, conseguente e comunque connesso.
...
1) Il presente ricorso verte sul procedimento di bonifica
dell’area ex Eternit, sita nel Comune di Casale Monferrato,
di proprietà della società Ic.Te. s.r.l..
Le due ordinanza impugnate sono state emesse dal Comune di
Casale Monferrato a fronte del rinvenimento di rifiuti
consistenti in materiale fibroso contenente amianto, in
condotti e parti impiantistiche, nonché carcasse di
elettrodomestici fuori uso, materiale isolante, materiale
ferroso, laterizi.
Il Comune ha quindi ritenuto che detto materiale potesse
essere riconducibile all’attività della società La. (che
svolge attività edilizia) e della società Ic.Te., che non
solo ha svolto fino al 2009 attività di commercio e
riparazione di elettrodomestici, ma è proprietaria
dell’area.
Si deve osservare che il primo provvedimento dispone
lo smaltimento dei rifiuti, ai sensi dell’art. 192 d.lgs.
152/2006, mentre il secondo la bonifica del suolo
(che implica la rimozione dei rifiuti) nonché la messa in
sicurezza.
Tra i due provvedimenti si sono inserite l’ordinanza n.
288/2015 di proroga dei termini, nonché l’ordinanza n. 433
del 09.07.2015, con cui si dispone l’interdizione e il
divieto di accesso e di utilizzo dell’area de qua, al
fine di ridurre il rischio di esposizione all’amianto.
1.2 Con la prima ordinanza, impugnata con il ricorso
principale, il Sindaco ha ordinato lo smaltimento dei
rifiuti e il ripristino dello stato dei luoghi.
Re melius perpensa rispetto alla fase cautelare,
l’ordinanza risulta legittimamente adottata ai sensi
dell’art. 192, comma 3, d.lgs. 152/2006, che così dispone “Fatta
salva l'applicazione della sanzioni di cui agli articoli 255
e 256, chiunque viola i divieti di cui ai commi 1 e 2 è
tenuto a procedere alla rimozione, all'avvio a recupero o
allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato
dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di
diritti reali o personali di godimento sull'area, ai quali
tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in
base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i
soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo. Il
Sindaco dispone con ordinanza le operazioni a tal fine
necessarie ed il termine entro cui provvedere, decorso il
quale procede all'esecuzione in danno dei soggetti obbligati
ed al recupero delle somme anticipate”.
Il primo motivo verte sulla violazione delle garanzie
partecipative: lamenta la ricorrente il mancato invio della
comunicazione di avvio del procedimento, nonché il mancato
svolgimento degli accertamenti in contraddittorio.
E’ noto al Collegio l’orientamento secondo cui ai
procedimenti preordinati all'emanazione dell'ordinanza di
rimozione e smaltimento dei rifiuti ai sensi dell'art. 192,
d.lgs. n. 152 del 2006 si deve applicare la disciplina sulla
comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7, l. n. 241
del 1990, in quanto adempimento obbligatorio, rispetto al
quale risulta recessivo, nella specifica materia, l'art.
21-octies, con conseguente illegittimità dell'ordinanza non
preceduta dalla comunicazione stessa.
Tuttavia nel caso di specie si ritiene che, in base
all’evoluzione dei fatti, non sia stata violata alcuna
garanzia partecipativa: l’emissione dell’ordinanza de qua
è stata preceduta da due sopralluoghi dell’Arpa, uno
risalente al 2012 e l’altro quello del 19.03.2015;
l’efficacia della prima ordinanza è stata sospesa ed è poi
intervenuto il secondo provvedimento, che ha in sostanza
reiterato l’ordine di rimozione, imponendo anche la messa in
sicurezza.
Dopo la prima ordinanza la società ben poteva rappresentare
le proprie osservazioni e chiedere lo svolgimento di
accertamenti in contraddittorio, mentre si è limitata a
presentare una istanza di proroga, per la difficoltà di
accedere all’area.
Proprio considerando la connessione tra le due ordinanze, si
deve ritenere che la prima abbia svolto la funzione di atto
di comunicazione del procedimento che si è concluso poi con
l’ordinanza n. 486/2015.
1.3 Nel secondo motivo si lamenta invece la violazione
dell’art. 192 d.lgs. 152/2006, nonché il difetto di
motivazione, di istruttoria, l’erroneità dei presupposti e
la manifesta illogicità, in quanto l’Amministrazione non ha
effettuato alcuna indagine circa la responsabilità del
proprietario del fondo rispetto all’inquinamento: dal
provvedimento e dalla relazione dell’Arpa non emergerebbe
alcun elemento da cui ricavare una corresponsabilità della
società ricorrente.
La società al contrario sarebbe estranea all’abbandono dei
rifiuti poiché è stata posta in liquidazione dal 2009; per
un lungo periodo non è stata operativa e la tipologia di
rifiuti (lastre di fibrocemento e materiale isolante,
ferroso e laterizi) non è riconducibile all’attività della
ricorrente.
L’Amministrazione non avrebbe quindi dimostrato in alcun
modo la sussistenza dell’elemento soggettivo, limitandosi ad
affermare la responsabilità sulla scorta della sola
titolarità del diritto reale.
Né, sempre secondo la tesi della ricorrente, può affermarsi
una culpa in vigilando, poiché gli illeciti esulano dalla
sfera di controllo della società.
Anche questo motivo non può trovare accoglimento.
Contrariamente a quanto affermato dalla ricorrente, tra i
rifiuti rinvenuti vi sono anche elettrodomestici, quindi
oggetti che la società ricorrente commercializzava, pertanto
può configurarsi anche una responsabilità diretta della
ricorrente.
In ogni caso, rispetto soprattutto al materiale di natura
diversa, si deve ricordare che l'art. 192 del testo unico n.
152 del 2006 attribuisce rilievo anche alla negligenza del
proprietario, che -a parte i casi di connivenza o di
complicità negli illeciti (qui non prospettabili)- si
disinteressi del proprio bene per qualsiasi ragione e resti
inerte, senza affrontare concretamente la situazione, ovvero
la affronti con misure palesamenti inadeguate
Questa conclusione è sostenuta dalla più recente
giurisprudenza in materia, che, anche al fine di contrastare
più efficacemente gli illeciti fenomeni di abbandono di
rifiuti, ha notevolmente ampliato il contenuto del dovere di
diligenza da esigersi nei confronti del proprietario
dell'area interessata e correlativamente ha aumentato le
ipotesi di negligenza tali da integrare la culpa in
omittendo del proprietario; sul punto il Consiglio di
Stato ha rilevato che, nel suo significato lessicale, la
negligenza (vale a dire la mancata diligenza) consisteva e
consiste nella trascuratezza, nell'incuria nella gestione di
un proprio bene, e cioè nell'assenza della cura, della
vigilanza, della custodia e della buona amministrazione del
bene (Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 10.06.2014, n. 2977).
E’ stato altresì rilevato come questa conclusione sia “pienamente
in linea con la concezione della proprietà-funzione recepita
dalla nostra Costituzione, per la quale la proprietà pone
anche degli obblighi di rendersi attivo al suo titolare”
(TAR Napoli, (Campania), sez. V, 23/03/2015, n. 1692).
In tale situazione la circostanza addotta dalla ricorrente
per la quale il deposito dei rifiuti non sarebbe stato
perpetrato dalla proprietà, ma da soggetti terzi, è del
tutto irrilevante; tale circostanza non sottrae la società
ricorrente al proprio obbligo di provvedere alla rimozione
strumentale al risanamento dell'area e, con essa, ad inibire
pericoli per l'igiene e la salute pubblica, in quanto si
tratta di attività che non può non gravare sul titolare del
diritto di proprietà della medesima.
Il ricorso principale va quindi respinto
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 15.07.2016 n. 994 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La Consulta pone importanti paletti alla
competenza regionale in tema di deroghe alle regole sulle
distanze fra edifici dettate dal testo unico edilizia.
Edilizia – Distanze fra costruzioni – Deroghe – Disciplina
statale – Estensione regionale – Illegittimità
costituzionale.
E’ incostituzionale l’art. 10, comma 1,
l.reg. Marche 13.04.2015, n. 16, nella parte in cui modifica
l’art. 35, l.reg. 04.12.2014, n. 33, sostituendo,
all’espressione originaria "ovvero di ogni altra
trasformazione", la diversa espressione "e di ogni
trasformazione", con ciò ampliando la deroga alle distanze
anche in relazione ad “interventi di carattere puntuale”, in
violazione dell’art. 2-bis, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo
unico dell’ edilizia), che invece consente alle Regioni di
prevedere, con proprie leggi e regolamenti, disposizioni
derogatorie al decreto del Ministro dei lavori pubblici
02.04.1968, n. 1444, unicamente a condizione che
quest’ultime si inseriscano nell’ambito della definizione o
revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un
assetto complessivo e unitario dell’intero territorio o di
specifiche aree.
---------------
Con la
sentenza
15.07.2016 n. 178
la Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale di
alcune norme della Regione Marche, accogliendo il ricorso
proposto dalla Presidenza del Consiglio dei ministri.
In particolare, la norma regionale contestata consentiva la
deroga alle distanze anche in relazione ad “interventi di
carattere puntuale”, in violazione dell’art. 2-bis,
d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo unico dell’edilizia), che
invece consente alle Regioni di prevedere, con proprie leggi
e regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del
Ministro dei lavori pubblici 02.04.1968, n. 1444, unicamente
a condizione che quest’ultime si inseriscano nell’ambito
della definizione o revisione di strumenti urbanistici
comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario
dell’intero territorio comunale o di specifiche aree
territoriali.
Il ragionamento della Corte segue un percorso lineare
nell’estendere alla fattispecie i chiari e rigorosi principi
più volte dettati in materia.
In primo luogo, la Corte ricorda che in materia di
disciplina della distanze fra costruzioni, il “punto di
equilibrio” tra gli ambiti di competenza
-rispettivamente, “esclusiva”, dello Stato (in
ragione dell’attinenza di detta disciplina alla materia «ordinamento
civile») e, “concorrente”, della Regione, nella materia
«governo del territorio» (per il profilo della
insistenza dei fabbricati su territori che possono avere,
rispetto ad altri, specifiche caratteristiche, anche
naturali o storiche)– va individuato sempre nel principio,
ricavabile dall’ultimo comma dell’art. 9, d.m. n. 1444 del
1968 (che la Corte ha più volte ritenuto dotato di efficacia
precettiva e inderogabile: sentenze n. 114 del 2012 e n. 232
del 2005; ordinanza n. 173 del 2011), per cui sono ammesse
distanze inferiori a quelle stabilite dalla normativa
statale, ma solo nel caso di gruppi di edifici che formino
oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni
convenzionate con previsioni planovolumetriche.
In secondo luogo la Corte, da tale indicazione di
principio, trae il corollario che la legislazione regionale
che interviene sulle distanze, interferendo con
l’ordinamento civile, è legittima solo in quanto persegua
chiaramente finalità di carattere urbanistico, demandando
l’operatività dei suoi precetti a strumenti urbanistici
funzionali ad un assetto complessivo ed unitario di
determinate zone del territorio (sentenza n. 232 del 2005).
Diversamente, le norme regionali che, disciplinando le
distanze tra edifici, esulino da tali finalità, risultano
invasive della materia «ordinamento civile»,
riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato.
---
Per completezza si segnala:
a) circa il riparto di competenze Stato–Regioni in materia di
distanze (fra edifici e costruzioni), Corte cost.
21.05.2014, n. 134, in Foro it., 2014, I, 2009 (ivi i
riferimenti in nota alle ulteriori citazioni di dottrina e
giurisprudenza sul tema più generale delle distanze fra
fabbricati e confini), secondo cui “Premesso che la
disciplina delle distanze tra i fabbricati va ricondotta
alla materia dell'”ordinamento civile”, di competenza
legislativa esclusiva dello Stato, anche se è consentito
alle regioni fissare limiti in deroga alle distanze minime
stabilite nella normativa statale unicamente qualora tale
deroga abbia chiaramente finalità di carattere urbanistico,
ossia sia giustificata dall'esigenza di soddisfare interessi
pubblici legati alla materia del "governo del territorio",
di competenza concorrente delle regioni in base all'art.
117, comma 3, Cost., e che nella delimitazione dei
rispettivi ambiti di competenza, statale in materia di
“ordinamento civile” e concorrente in materia di “governo
del territorio”, il punto di equilibrio si rinviene
nell'ultimo comma dell'art. 9 d.m. n. 1444 del 1968, che
consente le deroghe all'ordinamento civile delle distanze
tra edifici se inserite in strumenti urbanistici funzionali
a conformare un assetto complessivo e unitario di
determinate zone del territorio, l'esplicito richiamo al
codice civile contenuto nella norma censurata deve essere
inteso come riferito all'intera disciplina civilistica di
cui il citato decreto ministeriale è parte integrante e
fondamentale, risultando la norma censurata, così
interpretata, pienamente rispettosa della competenza
legislativa esclusiva dello Stato nella materia civilistica
dei rapporti interprivati”;
b) circa la identificazione delle luci e vedute rilevanti ai fini
del computo delle distanze, Cons. St., sez. IV, 05.10.2015,
n. 4628, in Foro it., 2015, III, 653, ivi l’ampia nota
redazionale di richiami ad ulteriore giurisprudenza e
dottrina;
c) circa le deroghe convenzionali alla disciplina legale delle
distanze e la usucapibilità di un correlato diritto di
servitù, Cass. civ., sez. II, 22.02.2010, n. 4240, in Foro
it., 2010, I, 3457, ivi l’ampia nota di A. L. OLIVA di
richiami ad ulteriore giurisprudenza e dottrina (commento
tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
Disciplina delle distanze tra costruzioni – Materia
dell’”ordinamento civile” – Competenza esclusiva dello Stato
– Regioni – Previsioni di distanze inferiori a quelle
stabilite dalla normativa statale – Limiti di cui all’art.
9, ultimo comma, d.m. n. 1444/1968 – Art. 35, l.r. Marche n.
33/2014 – Illegittimità costituzionale.
In tema di disciplina delle distanze fra
costruzioni, il “punto di equilibrio” –tra gli ambiti di
competenza, rispettivamente, “esclusiva”, dello Stato (in
ragione dell’attinenza di detta disciplina alla materia
«ordinamento civile») e, “concorrente”, della Regione, nella
materia «governo del territorio» (per il profilo della
insistenza dei fabbricati su territori che possono avere,
rispetto ad altri, specifiche caratteristiche, anche
naturali o storiche)– si rinviene nel principio, estraibile
dall’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 (che
questa Corte ha più volte ritenuto dotato di efficacia
precettiva e inderogabile: sentenze n. 114 del 2012 e n. 232
del 2005; ordinanza n. 173 del 2011), per cui sono ammesse
distanze inferiori a quelle stabilite dalla normativa
statale, ma solo «nel caso di gruppi di edifici che formino
oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni
convenzionate con previsioni planovolumetriche».
Principio, questo, sostanzialmente poi recepito dal
legislatore statale con l’art. 30, comma 1, del
decreto-legge 21.06.2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il
rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni,
della legge 09.08.2013, n. 98, che ha inserito, dopo l’art.
2 del d.P.R. n. 380 del 2001, l’art. 2-bis, a norma del
quale «Ferma restando la competenza statale in materia di
ordinamento civile con riferimento al diritto di proprietà e
alle connesse norme del codice civile e alle disposizioni
integrative, le regioni e le province autonome di Trento e
di Bolzano possono prevedere, con proprie leggi e
regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del
Ministro dei lavori pubblici 02.04.1968, n. 1444, e possono
dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli
insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli
riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi,
nell’ambito della definizione o revisione di strumenti
urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e
unitario o di specifiche aree territoriali».
Ne consegue che la legislazione regionale che interviene
sulle distanze, interferendo con l’ordinamento civile, è
legittima solo in quanto persegua chiaramente finalità di
carattere urbanistico, demandando l’operatività dei suoi
precetti a «strumenti urbanistici funzionali ad un assetto
complessivo ed unitario di determinate zone del territorio»
(sentenza n. 232 del 2005).
Diversamente, «le norme regionali che, disciplinando le
distanze tra edifici, esulino, invece, da tali finalità,
risultano invasive della materia «ordinamento civile»,
riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato
(sentenza n. 134 del 2014)
(Corte Costituzionale,
sentenza
15.07.2016 n. 178). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Il Consiglio di Stato ha reso il parere sul
silenzio-assenso tra pubbliche amministrazioni.
I punti principali del parere del Consiglio di stato sul
silenzio-assenso tra Pubbliche amministrazioni (art. 17-bis,
l. n. 241 del 1990) (Consiglio di Stato, Commissione
speciale,
parere 13.07.2016 n. 1640).
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L’importanza del ricorso ai quesiti nella
fase attuativa della riforma
Il Consiglio di Stato, in occasione del primo dei quesiti
riguardanti l’attuazione della riforma di cui alla legge n.
124 del 2015, sottolinea l’efficacia del metodo seguito dal
Governo di procedere tramite la proposizione di quesiti sul
funzionamento pratico della riforma, confermando:
- l’importanza cruciale della attuazione ‘in concreto’
della riforma;
- l’utilità della funzione consultiva del Consiglio di Stato
concepita come sostegno in progress a un progetto
istituzionale, piuttosto che a singoli provvedimenti.
Il ‘nuovo paradigma’ nei rapporti tra
amministrazioni pubbliche: il silenzio-assenso
‘endoprocedimentale’
Il parere della Commissione speciale rileva come l’art.
17-bis, introducendo il nuovo istituto del silenzio-assenso
‘endoprocedimentale’, ponga una seconda regola
generale –dopo quella prevista dall’art. 21-nonies nei
rapporti tra cittadino e PA– che stavolta riguarda i
rapporti ‘interni’ tra amministrazioni, quale che sia
l’amministrazione coinvolta e quale che sia la natura del
procedimento pluristrutturato.
Infatti, la nuova disposizione prevede che il silenzio
dell’Amministrazione interpellata, che non esterni alcuna
volontà, è equiparato ope legis ad un atto di assenso
e non preclude all’Amministrazione procedente l’adozione del
provvedimento conclusivo.
Il silenzio-assenso come sanzione e rimedio
all’inerzia amministrativa
La Commissione speciale evidenzia come il nuovo strumento di
semplificazione confermi la natura “patologica” del
silenzio amministrativo, sia nel rapporto verticale (tra
amministrazione e cittadino), sia nel rapporto orizzontale
(tra amministrazioni co-decidenti).
Il meccanismo del silenzio-assenso stigmatizza l’inerzia
dell’amministrazione coinvolta, ancorché non fisiologica,
tanto da ricollegarvi la più grave delle “sanzioni” o
il più efficace dei rimedi: la definitiva perdita del potere
di dissentire e di impedire la conclusione del procedimento.
Il triplice fondamento del nuovo
silenzio-assenso
Il fondamento del nuovo silenzio-assenso è triplice:
- eurounitario, individuato nel “principio della tacita
autorizzazione” (ovvero la regola del silenzio-assenso)
introdotto dalla cd. direttiva Bolkestein (considerando 43;
art. 13, par. 4);
- costituzionale, rinvenibile nel principio di buon
andamento, di cui all’art. 97 Cost., inteso nell’ottica di
assicurare il ‘primato dei diritti’ della persona,
dell’impresa e dell’operatore economico;
- sistematico, con riferimento al principio di trasparenza
(anch’esso desumibile dall’art. 97 Cost.) che ormai, specie
dopo l’entrata in vigore del d.lgs. 25.05.2016, n. 97,
informa l’intera attività amministrativa come principio
generale.
Ambito di applicazione soggettivo
Il parere risolve alcuni dubbi interpretativi. Il Consiglio
di Stato ritiene l’art. 17-bis applicabile anche a:
1) Regioni ed enti locali
Va, infatti, intensificata ogni forma di coordinamento
istituzionale volta a garantire un’applicazione omogenea
delle nuove regole di semplificazione nel rispetto della
loro autonomia organizzativa.
2) Organi politici
L’art. 17-bis si applica a tali organi sia quando essi
adottano atti amministrativi o normativi che quando sono
chiamati ad esprimere concerti, assensi o nulla osta
comunque denominati nell’ambito di procedimenti per
l’adozione di atti amministrativi o normativi di competenza
di altre Amministrazioni. In tal caso, è la natura dell’atto
da adottare (amministrativo o normativo) che rileva, e non
la natura dell’organo (amministrativo o politico) titolare
della competenza “interna” nell’ambito della pubblica
Amministrazione coinvolta.
3) Autorità indipendenti
Rispetto ad esse non emergono ragioni di incompatibilità con
la particolare autonomia di cui godono, anche in
considerazione della natura amministrativa ormai ad esse
pacificamente riconosciuta.
4) Gestori di beni e servizi pubblici
L’art. 17-bis si applica ai gestori di beni e servizi anche
quando siano titolari del procedimento (e debbano acquisire
l’assenso di altre amministrazioni) e non solo quando siano
chiamati a dare l’assenso nell’ambito di procedimento di
altre Amministrazione.
A favore di tale conclusione, viene richiamata la nozione
(di matrice comunitaria ed ormai accolta dalla prevalente
giurisprudenza) “oggettiva” e “funzionale” di
pubblica Amministrazione, in virtù della quale si considera
pubblica Amministrazione ogni soggetto che, a prescindere
dalla veste formale-soggettiva, sia tenuto ad osservare,
nello svolgimento di determinate attività o funzioni, i
principi del procedimento amministrativo.
Ambito di applicazione oggettivo
Il parere affronta, altresì, delicate questioni
interpretative concernenti anche l’ambito di applicazione
oggettivo del nuovo istituto.
1) Applicabilità agli atti normativi
Secondo la Commissione speciale, la norma si applica anche
ai procedimenti diretti all’emanazione di atti normativi in
virtù di un espresso dato testuale: il primo periodo del
comma 1 contiene un esplicito riferimento ai procedimenti
per l’adozione degli atti normativi
2) Applicabilità a procedimenti relativi a interessi pubblici
primari
La formulazione testuale del comma 3 consente di accogliere
la tesi favorevole all’applicabilità del meccanismo di
semplificazione anche ai procedimenti di competenza di
amministrazioni preposte alla tutela di interessi sensibili,
ivi compresi i beni culturali e la salute dei cittadini: le
Amministrazioni preposte alla tutela degli interessi
sensibili beneficiano di un termine diverso (quello previsto
dalla normativa di settore o, in mancanza, del termine di
novanta giorni), scaduto il quale sono, tuttavia, sottoposte
alla regola generale del silenzio assenso.
L’applicazione della norma agli atti di tutela degli
interessi sensibili dovrà poi essere esclusa laddove la
relativa richiesta non provenga dall’Amministrazione
procedente, ma dal privato destinatario finale dell’atto. In
tal caso, venendo in rilievo un rapporto verticale, troverà
applicazione l’art. 20 della legge n. 241 del 1990 (che
esclude dal suo campo di applicazione gli interessi
sensibili).
3) Rapporto con gli artt. 16 e 17 legge n. 241/1990
Gli artt. 16 e 17 fanno riferimento ad atti di altre
amministrazioni da acquisire (al di là del nomen iuris)
nella fase istruttoria, mentre l’art. 17-bis fa riferimento
ad atti da acquisire nella fase decisoria, dopo che
l’istruttoria si è chiusa.
In base a tali considerazioni, la Commissione speciale
ritiene che la disposizione sia applicabile anche ai pareri
vincolanti e non, invece, a quelli puramente consultivi (non
vincolanti) che rimangono assoggettati alla diversa
disciplina di cui agli artt. 16 e 17 della legge n. 241 del
1990.
4) Il “bollino” della Ragioneria generale dello Stato
L’applicabilità della norma ai soli casi di atti che hanno
natura codecisoria esclude, che il silenzio-assenso possa
sostituire atti che si collocano in un momento successivo a
quello della decisione, riguardando la fase costitutiva
dell’efficacia del provvedimento: è il caso del c.d. ‘bollino’
della Ragioneria Generale dello Stato, previsto dall’art.
17, comma 10, della legge 31.12.2009, n. 196, un atto con
funzione di controllo, che si colloca dopo l’esaurimento
della fase decisoria ed è necessario per l’integrazione
dell’efficacia di provvedimenti già adottati.
5) Non applicabilità ai procedimenti ad iniziativa di parte
tramite sportello unico
Il parere esclude che il nuovo silenzio-assenso tra
pubbliche amministrazioni possa operare nei casi in cui
l’atto di assenso sia chiesto da un’altra pubblica
amministrazione non nel proprio interesse, ma nell’interesse
del privato (destinatario finale dell’atto) che abbia
presentato la relativa domanda tramite lo sportello unico.
Non incide sull’applicabilità del nuovo istituto la
circostanza, del tutto irrilevante, che l’istanza il privato
la presenti direttamente o per il tramite di
un’Amministrazione che si limita ad un ruolo di mera
intermediazione, senza essere coinvolta, in qualità di
autorità co-decidente, nel relativo procedimento.
Rapporti con la conferenza di servizi
Secondo il parere, il criterio più semplice per la
risoluzione dell’apparente sovrapposizione normativa è
quello secondo cui l’art. 17-bis trova applicazione nel caso
in cui l’Amministrazione procedente debba acquisire
l’assenso di una sola Amministrazione, mentre nel caso di
assensi da parte di più Amministrazioni opera la conferenza
di servizi.
La Commissione speciale suggerisce in alternativa, al fine
di estendere l’ambito applicativo dell’art. 17-bis, la
soluzione secondo cui il silenzio-assenso di cui all’art.
17-bis operi sempre (anche nel caso in cui siano previsti
assensi di più amministrazioni) e prevenga la necessità di
convocare la conferenza di servizi.
Quest’ultima andrebbe convocata, quindi, nei casi in cui il
silenzio assenso non si è formato a causa del dissenso
espresso dalle Amministrazioni interpellate, e avrebbe lo
scopo di superare quel dissenso nell’ambito della conferenza
appositamente convocata.
La disciplina del superamento del
disaccordo
Il parere segnala –de jure condendo– che la
disciplina del superamento del disaccordo prevista dall’art.
17-bis, comma 2, secondo periodo, solleva alcune
perplessità:
In primo luogo, non risulta appropriata la sedes materiae:
la norma disciplina un meccanismo sostitutivo che presuppone
il dissenso espresso, che, dunque, non si applica per
definizione nelle ipotesi di silenzio-assenso che
costituiscono l’oggetto specifico dell’art. 17-bis.
In secondo luogo, il riferimento testuale alle “modifiche
da apportare allo schema del provvedimento” non tiene
conto dell’eventualità che il Presidente del Consiglio possa
risolvere il conflitto senza modificare lo schema del
provvedimento, ma recependolo integralmente la posizione
dell’Amministrazione procedente.
Formazione del silenzio-assenso e firma del
provvedimento
Secondo il parere è sufficiente da parte
dell’Amministrazione procedente l’invio formale del testo
non ancora sottoscritto, in vista della successiva eventuale
sottoscrizione di un testo condiviso (nell’ipotesi in cu
l’Amministrazione interpellata esprima un assenso espresso).
Nel caso in cui l’Amministrazione interpellata rimanga
silente, il provvedimento potrà essere sottoscritto soltanto
dall’Amministrazione procedente, dando atto nelle premesse o
in calce al provvedimento dell’invio dello schema di
provvedimento e del decorso del termine per il
silenzio-assenso.
Autotutela
Successivamente all’adozione del provvedimento finale
(adottato sulla base del silenzio-assenso
dell’Amministrazione interpellata), l’autotutela soggiace
alla regola del contrarius actus.
Nel caso in cui il provvedimento finale non sia stato ancora
adottato, il parere esclude che, formatosi il
silenzio-assenso, l’Amministrazione inerte possa superarlo
esercitando il potere di autotutela unilaterale.
Secondo il parere, infatti, il termine di trenta giorni (o
il diverso termine per le Amministrazioni preposte alla
tutela di interessi sensibili) ha natura perentoria e,
dunque, la sua scadenza fa venire meno il potere postumo di
dissentire (anche in autotutela) (commento tratto da
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
denuncia di inizio attività una volta perfezionatasi,
costituisce un titolo abilitativo valido ed efficace (sotto
tale profilo equiparabile quoad effectum al rilascio del
provvedimento espresso), che può essere rimosso, per
espressa previsione legislativa, solo attraverso l’esercizio
del potere di autotutela decisoria.
Ne consegue l’illegittimità del provvedimento
repressivo-inibitorio avente ad oggetto lavori che risultano
oggetto di una d.i.a. già perfezionatasi (per effetto del
decorso del tempo) e non previamente rimossa in autotutela.
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6.– L’appello è fondato.
Gli articoli 19 della legge n. 241 del 1990 e 23 e seguenti
del d.p.r. 06.06.2001 n. 380 (Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia di
edilizia) prevedono che, in presenza di dia in materia
edilizia, decorsi il termine di trenta giorni dalla sua
presentazione l’amministrazione può assumere determinazioni
soltanto nel rispetto del condizioni prescritte per
l’esercizio dei poteri di autotutela dall’art. 21-nonies
della stessa legge n. 241 del 1990.
Questo Consiglio ha già avuto modo di affermare che la
denuncia di inizio attività «una volta perfezionatasi,
costituisce un titolo abilitativo valido ed efficace (sotto
tale profilo equiparabile quoad effectum al rilascio del
provvedimento espresso), che può essere rimosso, per
espressa previsione legislativa, solo attraverso l’esercizio
del potere di autotutela decisoria. Ne consegue
l’illegittimità del provvedimento repressivo-inibitorio
avente ad oggetto lavori che risultano oggetto di una d.i.a.
già perfezionatasi (per effetto del decorso del tempo) e non
previamente rimossa in autotutela» (Consiglio di Stato, VI,
n. 4780 del 2014).
Nel caso di specie, decorsi i termini previsti per
l’esercizio dei poteri inibitori, l’amministrazione avrebbe
pertanto dovuto attivare un nuovo procedimento che si
sarebbe dovuto svolgere nel rispetto delle condizioni
formali (garanzie del contradditorio) e sostanziali
(valutazione dell’interesse pubblico concreto e
dell’affidamento ingenerato nel privato) contemplate nel
citato art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990.
Né varrebbe rilevare, come ritenuto dal primo giudice, che
potrebbero considerarsi espressive di tale «potere di
autotutela» le «note istruttorie e interlocutorie del
Dipartimento comunale del 14.07.2014» e il «preavviso di
diniego di dia», trattandosi di atti meramente
procedimentali, in quanto tali non idonei ad integrare gli
estremi del provvedimento richiesto dalla normativa sopra
indicata (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 11.07.2016 n. 3044 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Conoscenza
della legge rafforzata. Sentenza della cassazione sui
professionisti ed esperti.
Per chi è esperto conoscenza della legge rafforzata.
La Corte di Cassazione (Sez. III penale,
sentenza 08.07.2016 n. 28344) ha
ritenuto che il soggetto che svolga professionalmente una
specifica attività può invocare l'ignoranza incolpevole
della legge penale, che scusa l'autore dell'illecito, quando
«dimostri, da un lato, di aver fatto tutto il possibile per
richiedere alle autorità competenti i chiarimenti necessari
e, dall'altro, di essersi informato in proprio, ricorrendo
ad esperti giuridici, così adempiendo al dovere di
informazione».
In altri termini è previsto un diverso obbligo di
informazione, ai fini della valutazione sulla inevitabilità
dell'errore e, quindi, sulla scusabilità dell'ignoranza
sulla legge penale, a seconda che il soggetto agente sia un
cittadino comune oppure sia una persona «professionalmente
inserita in un campo di attività collegato alla materia
disciplinata dalla legge integratrice del precetto penale».
Al cittadino comune è richiesto di assolvere al dovere di
informazione con l'ordinaria diligenza mediante il ricorso
ai normali mezzi di informazione, indagine e ricerca, mentre
il professionista, secondo quanto afferma la giurisprudenza
di legittimità, può addurre l'ignoranza incolpevole della
legge penale nei casi in cui l'interpretazione normativa da
esso adottata sia determinata «da un comportamento positivo
degli organi amministrativi o da un complessivo pacifico
orientamento giurisprudenziale».
Nell'ipotesi concreta la Cassazione, trattandosi di
imprenditori che svolgevano attività professionale nel
settore della gestione dei rifiuti, ha ritenuto che essi non
potessero fare affidamento sul provvedimento amministrativo
che era stato loro rilasciato, in quanto le conoscenze che
essi avrebbero dovuto possedere non potevano non far loro
percepire l'illegittimità dello stesso.
La sentenza in esame mette in evidenza che nella specifico
settore dei reati edilizi vige anche il principio di diritto
secondo cui la responsabilità per abuso edilizio del
committente, del titolare del permesso di costruire, del
direttore dei lavori e del costruttore non è esclusa dal
rilascio del titolo abilitativo in violazione di legge o
degli strumenti urbanistici.
La Cassazione ribadisce,
inoltre, che essendo il giudice penale tenuto a verificare
l'esistenza di tutti gli elementi che concorrono a integrare
la condotta criminosa, nelle ipotesi in cui la fattispecie
di reato preveda un atto amministrativo egli non può
limitarsi al riscontro dell'esistenza ontologica del
provvedimento, ma deve, comunque, accertare se vi sia stata
realizzazione della fattispecie penale.
I giudici di legittimità, ritengono, pertanto, che «il
giudice penale è in ogni caso tenuto a verificare
incidentalmente la legittimità del titolo abilitativo, senza
che ciò comporti la sua eventuale ''disapplicazione'', in
quanto tale provvedimento non è sufficiente a definire di
per sé (ovvero prescindendo dal quadro delle prescrizioni
degli strumenti urbanistici, e dalle rappresentazioni di
progetto alla base della sua emissione) lo statuto di
legalità dell'opera realizzata»
(articolo ItaliaOggi del 22.07.2016).
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MASSIMA
6. Anche il secondo motivo di ricorso, volto a lamentare la
violazione dell'art. 5 c.p., è manifestamente infondato.
Va ricordato che non può essere invocata
l'ignoranza della legge penale ex art. 5 c.p.
-alla luce dell'orientamento della giurisprudenza
costituzionale- da parte di chi,
professionalmente inserito in un campo di attività collegato
alla materia disciplinata dalla legge integratrice del
precetto penale, non si uniformi alle regole di settore, per
lui facilmente conoscibili in ragione dell'attività
professionale svolta
(Sez. 3, n. 22813 del 15/04/2004, Ferri, Rv. 229228)
salvo che non dimostri, da un lato, di aver fatto
tutto il possibile per richiedere alle autorità competenti i
chiarimenti necessari e, dall'altro, di essersi informato in
proprio, ricorrendo ad esperti giuridici, così adempiendo al
dovere di informazione
(da ultimo, Sez. 3, n. 35694 del 05/04/2011, Pavanati, Rv.
251225).
Nella specie, per quanto già detto sopra, è indiscusso che
entrambi gli imputati svolgevano attività professionale nel
settore della gestione dei rifiuti, da ciò dunque
discendendo l'impossibilità di allegare l'ignoranza in
ordine ad un profilo, essenziale ai fini di qualificare il
provvedimento amministrativo rilasciato come gravemente
illegittimo, dato dalla mancata attivazione della procedura
dì cui al già richiamato art. 208 del d.lgs. n. 152 del
2006.
Non sussiste dunque alcuna violazione di legge laddove i
giudici dell'appello non hanno ritenuto di accedere alla
richiesta di applicazione di cui all'art. 5 cit. |
EDILIZIA PRIVATA:
La responsabilità per abuso edilizio del
committente, del titolare del permesso di costruire,
del direttore dei lavori e del costruttore,
individuata ai sensi dell'art. 29 del d.P.R. n. 380 del
2001, non è esclusa dall'avvenuto rilascio del titolo
abilitativo in violazione di legge o degli strumenti
urbanistici giacché la stessa deriva dalla posizione di
garanzia diretta che detta norma pone a carico di detti
soggetti e sulla quale si fonda l'addebito, di natura anche
colposa, per il reato di cui all'art. 44, dello stesso
d.P.R..
Anche a volere prescindere da tale
determinante rilievo, va considerato che anche nei casi in
cui, nella fattispecie di reato, sia previsto un atto
amministrativo ovvero l'autorizzazione al comportamento del
privato da parte di un organo pubblico, il giudice penale
non deve limitarsi a verificare l'esistenza ontologica
dell'atto o del provvedimento amministrativo, ma deve
verificare l'integrazione o meno della fattispecie penale,
in vista dell'interesse sostanziale che tale fattispecie
assume a tutela (nella specie, l'interesse sostanziale alla
tutela del territorio), nella quale gli elementi di natura
extra-penale convergono organicamente, assumendo un
significato descrittivo. È la stessa descrizione normativa
del reato che impone infatti al giudice un riscontro diretto
di tutti gli elementi che concorrono a determinare la
condotta criminosa, ivi compreso l'atto amministrativo.
In altri termini, il giudice penale è in ogni caso tenuto a
verificare incidentalmente la legittimità del titolo
abilitativo, senza che ciò comporti la sua eventuale
"disapplicazione", in quanto tale provvedimento non è
sufficiente a definire di per sé -ovvero prescindendo dal
quadro delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, e
dalle rappresentazioni di progetto alla base della sua
emissione- lo statuto di legalità dell'opera realizzata.
Né la distinzione che pare prospettata in ricorso tra
permesso di costruire "illecito", perché frutto di
collusione tra pubblico amministratore e privato
destinatario del provvedimento, e permesso di costruire
invece solo "illegittimo" al fine di far ritenere integrato
il reato di specie solo nel primo caso può condurre ad esiti
diversi: infatti, ove il contrasto del provvedimento con
norme imperative assurga in termini di netta evidenza,
verrebbe comunque a determinarsi non la mera illegittimità
dell'atto, ma, appunto, la illiceità del medesimo sì da non
essere necessaria la prova della collusione tra
amministratore e soggetti interessati o l'accertamento
dell'avvenuto inizio dell'azione penale a carico degli
amministratori stessi.
---------------
5. I ricorsi sono inammissibili.
Il primo motivo muove da un presupposto erroneo, ovvero che
fosse sufficiente escludere condotte dolose nel destinatario
del provvedimento per far ritenere insussistente il reato
contestato.
Va anzitutto ribadito che la responsabilità per abuso
edilizio del committente, del titolare del permesso di
costruire, del direttore dei lavori e del costruttore,
individuata ai sensi dell'art. 29 del d.P.R. n. 380 del
2001, non è esclusa dall'avvenuto rilascio del titolo
abilitativo in violazione di legge o degli strumenti
urbanistici giacché la stessa deriva dalla posizione di
garanzia diretta che detta norma pone a carico di detti
soggetti e sulla quale si fonda l'addebito, di natura anche
colposa, per il reato di cui all'art. 44, dello stesso
d.P.R. (da ultimo, Sez. 3, n. 10106 del 21/01/2016, Torzini,
Rv. 266291; Sez. 3, n. 27261 del 08/03/2010, Caleprico, Rv.
248070).
Peraltro, anche a volere prescindere da tale determinante
rilievo, va considerato che anche nei casi in cui, nella
fattispecie di reato, sia previsto un atto amministrativo
ovvero l'autorizzazione al comportamento del privato da
parte di un organo pubblico, il giudice penale non deve
limitarsi a verificare l'esistenza ontologica dell'atto o
del provvedimento amministrativo, ma deve verificare
l'integrazione o meno della fattispecie penale, in vista
dell'interesse sostanziale che tale fattispecie assume a
tutela (nella specie, l'interesse sostanziale alla tutela
del territorio), nella quale gli elementi di natura extra-penale convergono organicamente, assumendo un significato
descrittivo. È la stessa descrizione normativa del reato che
impone infatti al giudice un riscontro diretto di tutti gli
elementi che concorrono a determinare la condotta criminosa,
ivi compreso l'atto amministrativo (da ultimo, Sez. 3, n.
14945 del 28/01/2014, Graziano, non massimata).
In altri
termini, il giudice penale è in ogni caso tenuto a
verificare incidentalmente la legittimità del titolo
abilitativo, senza che ciò comporti la sua eventuale
"disapplicazione", in quanto tale provvedimento non è
sufficiente a definire di per sé -ovvero prescindendo dal
quadro delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, e
dalle rappresentazioni di progetto alla base della sua
emissione- lo statuto di legalità dell'opera realizzata (da
ultimo, Sez. 3, n. 36366 del 16/06/2015, Faiola, Rv. 265034
Sez. fer., n. 33600 del 23/08/2012, Lo Vullo e altro, Rv. 253426;
Sez. 3, n. 41620 del 02/10/2007, Emelino, Rv. 237995).
Né la distinzione che pare prospettata in ricorso tra
permesso di costruire "illecito", perché frutto di
collusione tra pubblico amministratore e privato
destinatario del provvedimento, e permesso di costruire
invece solo "illegittimo" al fine di far ritenere integrato
il reato di specie solo nel primo caso può condurre ad esiti
diversi: infatti, ove il contrasto del provvedimento con
norme imperative assurga in termini di netta evidenza,
verrebbe comunque a determinarsi non la mera illegittimità
dell'atto, ma, appunto, la illiceità del medesimo sì da non
essere necessaria la prova della collusione tra
amministratore e soggetti interessati o l'accertamento
dell'avvenuto inizio dell'azione penale a carico degli
amministratori stessi (Sez. 3, n. 38735 del 11/07/2003, Schrotter ed altri, Rv. 226576).
E che, nella specie, si versasse in un caso di macroscopico
contrasto deriva dalle stesse sentenze di merito laddove si
è evidenziato che in relazione all'impianto della ditta It.
s.a.s nessuna istanza autorizzativa alla Regione, competente
per la realizzazione di impianti di smaltimento o di
recupero di rifiuti, venne presentata da parte degli
interessati (che pur dovevano essere consapevoli di una tale
obbligo stante la attività professionale esercitata) ai
sensi degli artt. 27 e 28 del d.P.R. n. 22 del 1997 (ora
art. 208 del d.lgs. n. 152 del 2006).
Ne consegue che, in definitiva, alla luce della corretta
individuazione, già in primo grado, alla stregua dei criteri
più volte espressi da questa Corte, della fattispecie di
reato configurabile, nessuna prescrizione poteva ritenersi
maturata come preteso dai ricorrenti, sicché il primo motivo
di ricorso è manifestamente infondato (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 08.07.2016 n. 28344). |
APPALTI:
E’ pacifico -in giurisprudenza- che non sussiste
un onere di immediata impugnazione dell’aggiudicazione
provvisoria dell’appalto, essendo una simile impugnativa
rivolta contro un atto di natura endoprocedimentale, non
conclusivo del procedimento, e dunque, di norma, non
immediatamente lesivo; a differenza –ovviamente–
dell’impugnazione dell’aggiudicazione definitiva, che è
invece necessaria.
La facoltatività dell’impugnativa succitata esclude che
l’impresa aggiudicataria provvisoria sia titolare di una
posizione giuridica soggettiva differenziata, ed abbia una
specifica utilità alla conservazione del relativo atto
endoprocedimentale, tale da essere qualificata come “controinteressata”,
ai sensi e per gli effetti dell’art. 41 del c.p.a.,
diversamente da quanto avviene per l’aggiudicazione
definitiva che le attribuisce stabilmente la conseguente
posizione di vantaggio.
Tale soluzione interpretativa è oggi rafforzata alla luce
del nuovo Codice dei contratti pubblici, approvato con
D.Lgs. 50/2016.
Infatti l’art. 204 di quest’ultimo, modificando l’art. 120
del c.p.a. sul rito speciale degli appalti, ha introdotto il
comma 2-bis del citato art. 120, in forza del quale (cfr.
l’ultimo periodo del comma suindicato), è <<…inammissibile
l’impugnazione della proposta di aggiudicazione, ove
disposta, e degli altri atti endoprocedimentali privi di
immediata lesività>>.
La “proposta di aggiudicazione”, ai sensi del combinato
disposto degli articoli 32 e 33 comma 1, del D.Lgs. 50/2016,
equivale all’aggiudicazione provvisoria (su tale equivalenza
si sono espressi anche i primi commenti dottrinari al nuovo
Codice).
---------------
1. In via preliminare deve essere esaminata l’eccezione di
inammissibilità del ricorso sollevata dalla difesa di parte
resistente.
Secondo quest’ultima, in particolare, il ricorso sarebbe
inammissibile, ai sensi dell’art. 41 del c.p.a., per omessa
notificazione ad un controinteresssato, individuato nella
società Me.Int.It. Srl, vale a dire l’impresa aggiudicataria
provvisoria nei lotti da 15 a 18, lotti per i quali invece
la ricorrente è stata esclusa (cfr., per l’aggiudicazione
provvisoria, il doc. 2 della resistente, cioè la copia del
verbale della seduta pubblica del 10.12.2015).
L’eccezione è nella fattispecie infondata, per le ragioni
che seguono.
In primo luogo, deve rilevarsi che il provvedimento di
aggiudicazione provvisoria non è stato oggetto di
impugnazione, dal che deriva che attraverso il presente
gravame non poteva certo essere evocata in giudizio
l’impresa aggiudicataria provvisoria.
E’ inoltre pacifico -in giurisprudenza- che non sussiste un
onere di immediata impugnazione dell’aggiudicazione
provvisoria dell’appalto, essendo una simile impugnativa
rivolta contro un atto di natura endoprocedimentale, non
conclusivo del procedimento, e dunque, di norma, non
immediatamente lesivo; a differenza –ovviamente–
dell’impugnazione dell’aggiudicazione definitiva, che è
invece necessaria (sul carattere facoltativo
dell’impugnazione dell’aggiudicazione provvisoria, si
vedano: Consiglio di Stato, sez. IV, 19.03.2015, n. 1512 e
07.11.2014, n. 5497, oltre a TAR Calabria, Reggio Calabria,
26.02.2015, n. 188).
La facoltatività dell’impugnativa succitata esclude che
l’impresa aggiudicataria provvisoria sia titolare di una
posizione giuridica soggettiva differenziata, ed abbia una
specifica utilità alla conservazione del relativo atto
endoprocedimentale, tale da essere qualificata come “controinteressata”,
ai sensi e per gli effetti dell’art. 41 del c.p.a.,
diversamente da quanto avviene per l’aggiudicazione
definitiva che le attribuisce stabilmente la conseguente
posizione di vantaggio.
Tale soluzione interpretativa è oggi rafforzata alla luce
del nuovo Codice dei contratti pubblici, approvato con
D.Lgs. 50/2016.
Infatti l’art. 204 di quest’ultimo, modificando l’art. 120
del c.p.a. sul rito speciale degli appalti, ha introdotto il
comma 2-bis del citato art. 120, in forza del quale (cfr.
l’ultimo periodo del comma suindicato), è <<…inammissibile
l’impugnazione della proposta di aggiudicazione, ove
disposta, e degli altri atti endoprocedimentali privi di
immediata lesività>>.
La “proposta di aggiudicazione”, ai sensi del
combinato disposto degli articoli 32 e 33 comma 1, del
D.Lgs. 50/2016, equivale all’aggiudicazione provvisoria (su
tale equivalenza si sono espressi anche i primi commenti
dottrinari al nuovo Codice).
Si conferma, di conseguenza, il rigetto dell’eccezione
preliminare (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 08.07.2016 n. 1383 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
I documenti digitali dei quali la stazione appaltante
lamenta la mancanza sono, in realtà, stati inviati
tempestivamente attraverso la piattaforma informatica SINTEL,
sicché la mera impossibilità tecnica della loro lettura non
può giustificare l’esclusione automatica della partecipante,
ben potendo essere attivato il soccorso istruttorio.
La gara di cui è causa è stata svolta
con modalità telematiche, avvalendosi del sistema gestito
dalla Regione Lombardia –attraverso la propria società
controllata Arca Spa– e denominato Sintel.
Come risulta dai documenti versati in atti, la ricorrente ha
caricato sul sistema e spedito ritualmente le buste
elettroniche contenenti i documenti di cui è causa (vale a
dire i relativi “file” informatici); tuttavia nel corso
della seduta pubblica di apertura delle offerte
elettroniche, la stazione appaltante non è riuscita ad
aprire e quindi a leggere i file contenenti i succitati
documenti dell’offerta (vale a dire la copia del verbale di
gara, dal quale risulta che i file contenenti la cauzione
provvisoria e l’impegno al rilascio di quella definitiva
“sono risultati illeggibili”).
La stazione appaltante, dopo avere ottenuto da Arca Spa una
dichiarazione dalla quale risulta che i problemi di apertura
dei file non sono imputabili al sistema Sintel, sul quale
non sono state riscontrate anomalie, ha escluso dalla gara
la società ricorrente, reputando la produzione dei due
documenti essenziale e ritenendo altresì non attivabile il
soccorso istruttorio a favore della partecipante.
La determinazione è però erronea, in quanto nel caso di
specie sussistono senza dubbio i presupposti per
l’applicazione del soccorso istruttorio di cui agli articoli
38, comma 2-bis, e 46, comma 1-ter, del D.Lgs. 163/2006.
Preme dapprima rilevare, infatti, che le disposizioni di cui
ai succitati articoli 38, comma 2-bis, e 46, comma 1-ter
–per le quali in dottrina e giurisprudenza si è talora
parlato di “nuovo soccorso istruttorio”– sono applicabili in
un ampio ventaglio di ipotesi, compresa quella di eventuali
documenti di gara incompleti o irregolari, come del resto
statuito dalla più recente giurisprudenza amministrativa.
Sulla questione si vedano:
- Consiglio di Stato, sez. V, 19.05.2016 n. 2106, secondo
cui la novella legislativa può applicarsi anche a casi di
mancanza di dichiarazioni previste dalla legge di gara;
- TAR Lombardia, Brescia, sez. II, 22.03.2016, n. 434, per
cui le norme succitate consentono di sanare lacune nella
produzione documentale, purché il concorrente sia in
possesso dei requisiti;
- TAR Puglia, Lecce, sez. III, 18.05.2016, n. 829, che
espressamente consente il soccorso istruttorio nei casi di
omessa produzione di una delle due referenze bancarie
richieste dalla disciplina di gara e
- TAR Lazio, Roma, sez. II-bis, 23.06.2016, n. 7249, che
ammette il soccorso istruttorio in caso di omessa
presentazione della cauzione provvisoria o di presentazione
di una cauzione insufficiente.
Nel caso di specie, appare fuori discussione che i documenti
dei quali la stazione appaltante lamenta la mancanza siano
in realtà stati inviati tempestivamente attraverso la
piattaforma informatica, sicché la mera impossibilità
tecnica della loro lettura non può giustificare l’esclusione
automatica della partecipante, ben potendo essere attivato
il soccorso istruttorio.
---------------
2. Nel merito,
l’esponente contesta la propria esclusione dalla procedura
(cfr. il doc. 9 della ricorrente ed anche il doc. 11, vale a
dire la risposta negativa alla preinformativa di ricorso),
seppure limitatamente ai lotti dal n. 15 al n. 18, disposta
dall’Amministrazione per la presunta mancanza di elementi
essenziali dell’offerta, vale a dire il deposito cauzionale
provvisorio e l’impegno del garante al rilascio della
cauzione definitiva, ai sensi dell’art. 75 del D.Lgs.
163/2006.
Le doglianze di parte ricorrente sono fondate, per le
ragioni che seguono.
Come già sopra indicato, la gara di cui è causa è stata
svolta con modalità telematiche, avvalendosi del sistema
gestito dalla Regione Lombardia –attraverso la propria
società controllata Arca Spa– e denominato Sintel.
Come risulta dai documenti versati in atti, la ricorrente ha
caricato sul sistema e spedito ritualmente le buste
elettroniche contenenti i documenti di cui è causa (vale a
dire i relativi “file” informatici, cfr. i documenti
7 e 8 della ricorrente); tuttavia nel corso della seduta
pubblica di apertura delle offerte elettroniche, la stazione
appaltante non è riuscita ad aprire e quindi a leggere i
file contenenti i succitati documenti dell’offerta (cfr. il
doc. 12 della ricorrente, vale a dire la copia del verbale
di gara, dal quale risulta che i file contenenti la cauzione
provvisoria e l’impegno al rilascio di quella definitiva “sono
risultati illeggibili”).
La stazione appaltante, dopo avere ottenuto da Arca Spa una
dichiarazione dalla quale risulta che i problemi di apertura
dei file non sono imputabili al sistema Sintel, sul quale
non sono state riscontrate anomalie (cfr. il doc. 7 della
resistente e il doc. 1 di Arca Spa), ha escluso dalla gara
la società ricorrente, reputando la produzione dei due
documenti essenziale e ritenendo altresì non attivabile il
soccorso istruttorio a favore della partecipante.
La determinazione della Fondazione è però erronea, in quanto
nel caso di specie sussistono senza dubbio i presupposti per
l’applicazione del soccorso istruttorio di cui agli articoli
38, comma 2-bis, e 46, comma 1-ter, del D.Lgs. 163/2006.
Preme dapprima rilevare, infatti, che le disposizioni di cui
ai succitati articoli 38, comma 2-bis, e 46, comma 1-ter
–per le quali in dottrina e giurisprudenza si è talora
parlato di “nuovo soccorso istruttorio”– sono
applicabili in un ampio ventaglio di ipotesi, compresa
quella di eventuali documenti di gara incompleti o
irregolari, come del resto statuito dalla più recente
giurisprudenza amministrativa.
Sulla questione si vedano: Consiglio di Stato, sez. V,
19.05.2016 n. 2106, secondo cui la novella legislativa può
applicarsi anche a casi di mancanza di dichiarazioni
previste dalla legge di gara; TAR Lombardia, Brescia, sez.
II, 22.03.2016, n. 434, per cui le norme succitate
consentono di sanare lacune nella produzione documentale,
purché il concorrente sia in possesso dei requisiti; TAR
Puglia, Lecce, sez. III, 18.05.2016, n. 829, che
espressamente consente il soccorso istruttorio nei casi di
omessa produzione di una delle due referenze bancarie
richieste dalla disciplina di gara e TAR Lazio, Roma, sez.
II-bis, 23.06.2016, n. 7249, che ammette il soccorso
istruttorio in caso di omessa presentazione della cauzione
provvisoria o di presentazione di una cauzione
insufficiente.
Nel caso di specie, appare fuori discussione che i documenti
dei quali la stazione appaltante lamenta la mancanza siano
in realtà stati inviati tempestivamente attraverso la
piattaforma informatica, sicché la mera impossibilità
tecnica della loro lettura non può giustificare l’esclusione
automatica della partecipante, ben potendo essere attivato
il soccorso istruttorio (la ricorrente ha inoltre prodotto
in giudizio la copia della polizza fideiussioria, emessa il
17.11.2015, cfr. il suo doc. 13).
A conclusione diversa non induce neppure la lettura del
Disciplinare di gara (cfr. il doc. 2 della ricorrente e il
doc. 4 della resistente), le cui disposizioni sulle modalità
di presentazione delle offerte o sulle cause di esclusione
devono sempre essere interpretate alla luce delle succitate
norme di legge sul soccorso istruttorio, norme del resto
espressamente richiamate dall’art. 9 del Disciplinare
stesso.
A questo punto, appare irrilevante stabilire se la mancata
apertura dei file sia dovuta ad anomalie del sistema
(circostanza negata da Arca Spa) o ad errori della
partecipante, giacché in entrambi i casi l’attivazione del
soccorso istruttorio appare doverosa.
Si conferma quindi l’accoglimento del presente ricorso, con
conseguente annullamento del provvedimento di esclusione ivi
impugnato e con obbligo per la stazione appaltante di
procedere al soccorso istruttorio, ai fini della
prosecuzione del procedimento finalizzato alla valutazione
delle offerte presentate dalla ricorrente nei lotti di cui è
causa.
L’annullamento dell’esclusione e la conseguente prosecuzione
del procedimento di valutazione delle offerte garantiscono
la reintegrazione in forma specifica della posizione
soggettiva della ricorrente, non essendovi allo stato altri
elementi di danno risarcibile in capo a quest’ultima
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 08.07.2016 n. 1383 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Prescrizione
più lunga per l’ente. All’impresa corruttrice si applicano
le interruzioni del Codice civile. Appalti. I funzionari
delle imprese privatizzate imputabili per corruzione:
applicabili anche le sanzioni 231.
I funzionari di società per azioni
privatizzate sono a tutti gli effetti «incaricati di
pubblico servizio» e come tali idonei a commettere il reato
di corruzione. Inoltre, in questo contesto, la
responsabilità amministrativa degli enti ha un regime
prescrizionale differenziato che è compatibile il dettato
della Costituzione.
Con una chilometrica motivazione, la VI Sez. penale della
Corte di Cassazione (sentenza
07.07.2016 n. 28299) ribadisce i criteri di
imputazione della 231/2001 quando il player appaltante è una
privatizzata, chiarendo inoltre la piena legittimità della
prescrizione a doppio binario, quella tra le persone fisiche
indagate per il reato presupposto e quella che invece, sul
piano amministrativo, opera nei confronti dell’ente/impresa.
I fatti riportati d’attualità dalla Cassazione riguardano
l’inchiesta milanese della fine del decennio scorso relativa
a una serie di appalti per forniture ad Enipower (parte
civile nel processo, insieme ad Eni e Snamprogetti) di
impianti turbogas, di impianti di riduzione di gas, per la
realizzazione inoltre di un impianto termoelettrico,
oltreché di lavori e appalti strumentali, opere a margine
delle quali la Procura aveva confiscato per equivalente
oltre 100 milioni di euro sui conti di Ansaldo Energia e di
altre sei imprese corruttrici.
Undici dei ricorsi presentati contro la decisione della
Corte d’appello di Milano riguardavano la riconosciuta
sussistenza, in capo a un funzionario di Enipower e a un
omologo di Snamprogetti -imputati entrambi di corruzione-
della qualifica soggettiva di rilievo pubblicistico, preupposto dell’intera impalcatura dell’accusa. Secondo la
Sesta, in aderenza ai colleghi di merito, vale il brocardo
secondo cui le qualifiche soggettive si acquistano «non per
ciò che si è, ma per ciò che si fa».
E se va comunque
escluso lo status di pubblici ufficiali per i due funzionari
-in quanto non avevano i caratteristici poteri
deliberativi, autoritativi o certificativi- il ruolo da loro
giocato in un settore peculiare, quale è la disciplina degli
appalti nei cosiddetti “settori speciali”, ne fa fuor di
dubbio degli incaricati di pubblico servizio, come del resto
conferma il contesto giuridico della procedura di gara.
Proprio sulla gara era maturata la condotta corruttiva dei
due funzionari delle privatizzate, che avevano venduto ad
aziende partecipanti le informazioni tecniche necessarie a
vincere i bandi, di valore prossimo al miliardo di euro.
Ansaldo Energia aveva poi impugnato la norma della 231/2001
che prevede il congelamento della prescrizione
“amministrativa” fino al momento del passaggio in giudicato
della sentenza penale. «Irragionevole differenziazione
rispetto agli imputati persone fisiche», sostiene il
ricorso, ma la Sesta richiama anche i lavori preparatori del Dlgs 231 (legge delega 300/2000) che indicavano nel codice
civile le norme interruttive del decorso del tempo.
La
scelta del legislatore, incensurabile secondo la Suprema
corte, «vuole evitare che, in presenza dell’interesse
dell’autorità procedente a far valere la potestà punitiva
dello Stato, manifestata attraverso l’esercizio dell’azione
penale, si corra il rischio di dover dichiarare l’estinzione
dell’illecito per il sopraggiungere della prescrizione» .
E quanto al rapporto tra la prescrizione penale e quella
della 231, la Corte ricorda che se la prima matura senza che
sia stato contestato l’illecito amministrativo, decade la
potestà sanzionatoria a carico dell’ente.
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Decisione
disciplinare, obbligo di correlazione.
Nel caso di procedimento disciplinare a carico di un
avvocato c'è obbligo di correlazione tra quanto addebitato
in contestazione e la decisione disciplinare, al fine di
evitare che il soggetto venga condannato per un fatto
rispetto al quale non gli è stato possibile esplicare
un'azione difensiva.
E' quanto stabilito dai giudici delle Sezz. unite civili della
Corte di Cassazione con la
sentenza
06.07.2016 n. 13723.
Il thema decidendum vedeva contestati all'avvocato Tizio dal
Coa due illeciti disciplinari.
Il primo, relativo all'assunzione di mandato professionale
da parte di Caio per assisterlo in un procedimento civile
dinnanzi al Tribunale contro Caietto e all'assunzione
successivamente di incarico professionale da parte di
Tizietto e altri, per essere assistiti in un procedimento
civile dinnanzi al medesimo tribunale contro Caia,
nonostante che egli avesse assistito il sig. Caietto in un
giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo dinnanzi al
Tribunale medesimo promosso e entrambi i signori Tizi in
altro giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo.
Il secondo illecito, relativo al fatto che il Tizio aveva
rinunciato ai mandati conferitigli dai signori Tizi nei
detti giudizi di opposizione, e, senza che fosse trascorso
un biennio dalla cessazione di tali incarichi, ed essendo
egli a conoscenza di notizie acquisite in ragione del
rapporto professionale intercorso con i Tizi, per avere
agito giudizialmente ed esecutivamente per il recupero del
proprio credito professionale. Il Coa affermava, quindi,
comminava la sanzione della censura. L'avvocato Tizio
proponeva ricorso al Cnf che lo rigettava e quindi egli si
rivolgeva alla Cassazione.
I giudici di piazza Cavour hanno
preliminarmente ribadito che in tema di procedimento
disciplinare a carico di u avvocato, la necessaria
correlazione tra addebito contestato e decisione
disciplinare non rileva in termini puramente formali,
rispondendo tale regola all'esigenza di garantire pienezza
ed effettività del contraddittorio sul contenuto dell'accusa
e a evitare che l'incolpato sia condannato per un fatto
rispetto al quale non abbia potuto esplicare difesa.
Pertanto una eventuale modifica, ad opera del giudice, della
qualificazione giuridica dell'incolpazione non andrà a
determinare «alcuna lesione del diritto di difesa ove siano
rimasti immutati gli elementi essenziali della materialità
del fatto addebitato» (si veda anche: Ss.uu., n.
11024/2014)
(articolo ItaliaOggi Sette del 18.07.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Costruzione in area soggetta a vincolo paesaggistico:
motivazione idonea a sorreggere un provvedimento di diniego.
Per aversi motivazione idonea a sorreggere un provvedimento
di diniego del richiesto nulla osta per la costruzione in
area soggetta a vincolo paesaggistico, l'Amministrazione non
può limitare la sua valutazione al mero riferimento ad un
pregiudizio ambientale, utilizzando espressioni vaghe o
formule stereotipate. Tale (idonea) motivazione deve
contenere una sufficiente esternazione delle specifiche
ragioni per le quali si ritiene che un'opera non sia idonea
ad inserirsi nell'ambiente, attraverso l'individuazione
degli elementi di contrasto; pertanto, occorre un concreto
ed analitico accertamento del disvalore delle valenze
paesaggistiche.
In materia di tutela paesaggistica, vige
un costante orientamento giurisprudenziale nell’ambito del
quale si è avuto modo di precisare che la discrezionalità
tecnica di cui gode la Soprintendenza è temperata
dall’onere, gravante nei confronti di quest’ultima, di
corredare il provvedimento di diniego del parere di
ammissibilità paesaggistica, con un percorso motivazionale,
riferito al concreto, alla realtà dei fatti e alle ragioni
ambientali ed estetiche che sconsigliano alla P.A. di non
ammettere un determinato intervento.
Si è sancito che affermare che un determinato intervento
compromette gli equilibri ambientali della zona interessata
per le incongruenze fra tipologia e materiali o per
l’impatto dell’opera, non spiega alcunché sul futuro danno
alle bellezze ambientali che ne deriverebbe, risultando
necessario un concreto ed analitico accertamento del
disvalore delle valenze paesaggistiche.
Alcune recenti pronunce non solo hanno ritenuto esistente la
necessità di un onere di motivazione particolarmente
intenso, ma hanno sancito l’indispensabilità circa lo
svolgimento di un’ampia e compiuta istruttoria che risulti
comprensiva dell’indicazione delle possibili forme di
mitigazione degli interventi richiesti.
Si è così affermata la necessità, quanto meno in particolari
circostanze, che il parere negativo debba indicare quale
tipo di accorgimento tecnico o, al limite, di modifica
progettuale potrebbe far conseguire all'interessato
l'autorizzazione paesaggistica, in quanto la tutela del
preminente valore del paesaggio non deve necessariamente
coincidere con la sua statica salvaguardia, ma richiede
interventi improntati a fattiva collaborazione delle
autorità preposte alla tutela paesaggistica, funzionali a
conformare le iniziative edilizie al rispetto dei valori
estetici e naturalistici insiti nel bene paesaggio.
E’ evidente che con le pronunce sopra citate si è
generalizzato l'obbligo di dissenso costruttivo, sinora
codificato soltanto nell'ambito della conferenza di servizi
dall'art. 14-quater, comma 1, della L. n. 241/1990, obbligo
che deve ritenersi sussistente quanto meno in situazioni
come quelle in esame nell’ambito delle quali l’intervento
risultava assentibile sulla base delle prescrizioni
urbanistiche e l’impatto ambientale risultava comunque
attenuato.
---------------
1.3 E’, peraltro,
necessario premettere che in materia di tutela
paesaggistica, vige un costante orientamento
giurisprudenziale nell’ambito del quale si è avuto modo di
precisare che la discrezionalità tecnica di cui gode la
Soprintendenza è temperata dall’onere, gravante nei
confronti di quest’ultima, di corredare il provvedimento di
diniego del parere di ammissibilità paesaggistica, con un
percorso motivazionale, riferito al concreto, alla realtà
dei fatti e alle ragioni ambientali ed estetiche che
sconsigliano alla P.A. di non ammettere un determinato
intervento.
Si è sancito che affermare che un determinato intervento
compromette gli equilibri ambientali della zona interessata
per le incongruenze fra tipologia e materiali o per
l’impatto dell’opera, non spiega alcunché sul futuro danno
alle bellezze ambientali che ne deriverebbe, risultando
necessario un concreto ed analitico accertamento del
disvalore delle valenze paesaggistiche (TAR Campania,
Napoli, sez. VIII, 10.11.2010, n. 23751, TAR Veneto,
sentenze n. 1394/2013; n. 44/2014; n. 48/2014; n. 51/2014;
n. 331/2014, TAR Friuli Venezia Giulia n. 426/2013 e TAR
Lombardia, Brescia sentenza n. 492/2013).
1.4 Alcune recenti pronunce, non solo hanno ritenuto
esistente la necessità di un onere di motivazione
particolarmente intenso, ma hanno sancito l’indispensabilità
circa lo svolgimento di un’ampia e compiuta istruttoria che
risulti comprensiva dell’indicazione delle possibili forme
di mitigazione degli interventi richiesti (Cons. Stato Sez.
VI, 24.03.2014, n. 1418, TAR Sicilia Palermo Sez. I
07.03.2007 n. 751 e TAR Sicilia Palermo Sez. I 28.05.2005 n.
1671).
1.5 Si è così affermata la necessità, quanto meno in
particolari circostanze, che il parere negativo debba
indicare quale tipo di accorgimento tecnico o, al limite, di
modifica progettuale potrebbe far conseguire all'interessato
l'autorizzazione paesaggistica, in quanto la tutela del
preminente valore del paesaggio non deve necessariamente
coincidere con la sua statica salvaguardia, ma richiede
interventi improntati a fattiva collaborazione delle
autorità preposte alla tutela paesaggistica, funzionali a
conformare le iniziative edilizie al rispetto dei valori
estetici e naturalistici insiti nel bene paesaggio.
1.6 E’ evidente che con le pronunce sopra citate si è
generalizzato l'obbligo di dissenso costruttivo, sinora
codificato soltanto nell'ambito della conferenza di servizi
dall'art. 14-quater, comma 1, della L. n. 241/1990, obbligo
che deve ritenersi sussistente quanto meno in situazioni
come quelle in esame nell’ambito delle quali l’intervento
risultava assentibile sulla base delle prescrizioni
urbanistiche e l’impatto ambientale risultava comunque
attenuato.
1.7 Nel caso di specie, infatti, era stata la stessa
Soprintendenza ad ammettere, come è possibile evincere dal
provvedimento impugnato, che l’impatto visivo dell’opera
risultava percepibile solo in misura attenuata per via delle
schermature presenti ai lati della carreggiata relativa alla
superstrada Firenze-Siena.
1.8 Dette circostanze hanno inevitabilmente l’effetto di
incidere sull’onere motivazionale, dovendosi ritenere che
l’Amministrazione era obbligata a considerare eventuali
modifiche che, in quanto tali, avrebbero consentito di
superare l’impatto ambientale (peraltro circoscritto) e
riferito ad un opera che, peraltro, era risultata oggetto di
un precedente parere favorevole emesso dall’Amministrazione
comunale.
1.9 Ne consegue che la mancata indicazione di detti
correttivi, in una fattispecie come quella in esame, si
traduce in un difetto di motivazione del diniego di
autorizzazione che non consente di comprendere al privato
quali azioni avrebbe potuto adottare al fine di renderlo
compatibile con l’ambiente circostante.
2. Detto difetto di motivazione è ancora più evidente nel
diniego dell’autorizzazione unica emanato dal Comune di
Impruneta e impugnato con i successivi motivi aggiunti,
nell’ambito del quale lo stesso Comune si è limitato a dare
atto del parere negativo della Soprintendenza, senza
esprimere le ragioni del dissenso e, quindi, le modifiche
progettuali necessarie ai fini dell'assenso ai sensi
dell’art. 14-quater della L. n. 241/1990.
2.1 E’ evidente che il comportamento posto in essere dalla
Soprintendenza, nemmeno presente alla conferenza di Servizi,
ha determinato la violazione dell’art. 14-quater sopra
citato, non prevedendo elementi gli correttivi richiesti
dalla stessa disposizioni che, in quanto tali, avrebbero
potuto portare ad una soluzione condivisa (sulla necessità
del dissenso costruttivo si vada Cons. Stato Sez. III,
23.01.2014, n. 350 Cons. Stato Sez. V, 24.01.2013, n. 434
TAR Campania Salerno Sez. I, 13.01.2016, n. 19 e TAR
Calabria Catanzaro Sez. I, 12.01.2011, n. 32 Tar
Puglia-Lecce, sez. I, n. 3730/2008) (TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 06.07.2016 n. 1155 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZSI: Il
fatturato aziendale non limita la concorrenza.
Gare: legittima richiesta del requisito.
Legittimo il requisito del fatturato aziendale se è
adeguatamente motivato; non ha effetti preclusivi della
concorrenza per le piccole imprese, se non eccede i 10
milioni all'anno.
È quanto afferma il TAR Toscana, Sez. III, con la
sentenza
06.07.2016 n. 1129, che offre una esegesi
della disposizione del vecchio codice dei contratti pubblici
in tema di capacità economica e finanziaria.
Si tratta
dell'articolo 41, comma 2, del codice De Lise del 2006, che
disciplina la capacità economica e finanziaria per gli
appalti di servizi, prevedendo, all'ultimo periodo, che
«sono illegittimi i criteri che fissano, senza congrua
motivazione, limiti di accesso connessi al fatturato
aziendale».
Nel ricorso, relativo a un appalto di servizi sanitari da
560 milioni divisi in tre lotti, si eccepisce sia la
richiesta di fatturato specifico come requisito di
partecipazione, sia l'entità dello stesso, tale da
determinare una restrizione della possibilità di
partecipazione per le piccole e medie imprese. Il collegio
toscano respinge il ricorso affermando che la norma del
vecchio codice, «pur formulata in termini negativi, volta al
positivo vuol dire che il fatturato aziendale può essere
preso a riferimento per la partecipazione a gare purché vi
sia sul punto una congrua motivazione».
I giudici condividono la scelta di chiedere il fatturato
aziendale, anche in ragione della delicatezza delle attività
da affidare e aggiungono che anche l'entità del requisito
sostanzialmente è corretta per quanto consistente in valore
assoluto (25 milioni per ciascuno dei lotti). Per il Tar i
requisiti non appaiono illogici o eccessivi se si tiene
conto dell'ammontare complessivo dei due dei tre lotti messi
a gara (132 milioni e 186 milioni di euro) e che il
fatturato richiesto è spalmato su tre anni, e quindi
richiede un fatturato annuo di poco superiore a 8 milioni di
euro.
Non si determina alcun effetto preclusivo della concorrenza
dal momento che i limiti dimensionali per qualificare un
operatore economico come piccola impresa arriva fino a 10
milioni di euro di fatturato annuo, anche se congiunto al
numero di dipendenti (in base al dm Attività produttive
18.04.2005). Da ciò la legittimità della richiesta di
fatturato aziendale
(articolo ItaliaOggi del 22.07.2016).
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MASSIMA
7.1 – La gara oggetto del presente giudizio, relativa a
servizi di pulizia e sanificazione degli enti del Servizio
Sanitario ed altre strutture, ha un valore complessivo di €
560.000.000,00 ed è suddivisa in tre lotti, di cui il lotto
1 per un importo di € 132.000.000,00 e il lotto 2 per un
importo di € 186.000.000,00 (il lotto 3 non è invece oggetto
di contestazione).
Ai fini della partecipazione alla gara il disciplinare
prevede che i concorrenti possiedano un fatturato per
servizi di pulizia e sanificazione svolti nel triennio
2013–2015 presso strutture pubbliche o private pari almeno a
€ 25.000.000,00 tanto per il lotto 1 quanto per il lotto 2.
Parte ricorrente contesta, in primo luogo, la richiesta di
fatturato specifico come requisito di partecipazione e
contesta poi anche l’ammontare dello stesso, che determina a
suo avviso una forte restrizione della possibilità di
partecipazione per le piccole e medie imprese.
Il profilo di censura è infondato.
L’art. 41, comma 2, del d.lgs. n. 163 del 2006, che
disciplina la capacità economica e finanziaria per gli
appalti di servizi, prevede, all’ultimo periodo, che “sono
illegittimi i criteri che fissano, senza congrua
motivazione, limiti di accesso connessi al fatturato
aziendale”. La norma, pur formulata in termini negativi,
volta al positivo vuol dire che il fatturato aziendale può
essere preso a riferimento per la partecipazione a gare
purché vi sia sul punto una “congrua motivazione”.
La delibera di indizione della gara n. 163 del 2016 motiva
specificamente sul punto, chiarendo di aver posto come
requisito di partecipazione l’aver svolto attività nel
settore specifico delle pulizie e sanificazioni in ambito
sanitario “per motivazioni legate prevalentemente al
peculiare settore di appartenenza delle Aziende interessate”,
dal momento che “l’affidamento oggetto della presente
procedura è destinato, infatti, a soddisfare le esigenze di
approvvigionamento del servizio di pulizie e sanificazione
di Aziende/enti sanitari regionali” e quindi “assume
fondamentale importanza la possibilità di selezionare
attraverso la presente gara operatori economici dotati di
adeguate capacità economico-finanziaria e
tecnico-organizzative, idonee a garantire un adeguato ed
elevato livello qualitativo dei servizi, in considerazione
anche della rilevanza e della delicatezza del servizio in
ambito sanitario”.
Parte ricorrente tenta di smontare queste argomentazioni,
evidenziando che le pulizie assumono le stesse
caratteristiche in qualunque contesto si svolgano; ciò non
appare tuttavia convincente, il servizio di pulizia e
sanificazione in ambito sanitario, ed ospedaliero in ispecie,
assumendo una forte e peculiare connotazione, certo diversa
dalla pulizia di uffici o ambienti civili, legata com’è
all’igiene di ambienti nei quali assume particolare
importanza la finalità di evitare il possibile diffondersi
di infezioni e garantire la salute dei pazienti, con le
cognizioni tecniche ed esperienziali che a ciò si
connettono.
Dunque alla luce della motivazioni fornita,
appare giustificabile che si prenda in esame il fatturato
pregresso dei concorrenti e che lo stesso guardi non già
all’aver svolto attività di pulizia in generale, ma
specifica attività di sanificazione e pulizia di ambiti
sanitari pubblici o privati.
Quanto ai livelli dimensionali del fatturato, osserva il
Collegio che gli stessi, per quanto consistenti in valore
assoluto (25 milioni per ciascuno dei lotti), non appaiono
illogici o eccessivi se si tiene conto dell’ammontare
complessivo dei servizi a gara (132 milioni e 186 milioni di
euro) e se si evidenzia poi che il fatturato richiesto è
spalmato su tre anni, e quindi richiede un fatturato annuo
di poco superiore a 8 milioni di euro, ammontare non
particolarmente preclusivo alla concorrenza, se si tiene
conto che i limiti dimensionali per qualificare un operatore
economico come “piccola impresa” arriva fino a 10
milioni di euro di fatturato annuo, anche se congiunto a
numero di dipendenti (DM Attività Produttive 18.04.2005). |
PUBBLICO IMPIEGO: Incompatibili
malattia e attività fisica. Cassazione. In caso contrario
viene compromesso il rapporto tra dipendente e azienda e ci
sono le condizioni per licenziare per giusta causa.
Il dipendente che durante il periodo di malattia (dovuta a
discopatie e a lombalgie curate chirurgicamente) assume una
condotta molto imprudente per la propria salute (consistente
nel sollevamento da solo di 3 bombole di gas da 30
chilogrammi e di una quarta da 40 chili, con l’aiuto di un
collega) viola il dovere di lealtà e correttezza nei
confronti dell’azienda. Questa violazione compromette in
maniera irrimediabile il rapporto con l’azienda e consente
il licenziamento per giusta causa.
Con questa decisione la Corte di Cassazione - Sez. lavoro (sentenza
05.07.2016 n. 13676) ha rigettato il ricorso promosso
da un lavoratore che è stato licenziato per essere stato
scoperto a sollevare delle bombole di gas durante il periodo
di assenza per malattia.
La sentenza della Suprema corte ricorda che, in tema di
licenziamento per giusta causa, il dipendente deve astenersi
dal porre in essere non solo le condotte espressamente
vietate dalla legge o dal Ccnl, ma deve avere l’attenzione
di evitare ogni condotta che, per la sua natura e per le
conseguenze che può comportare, risulti oggettivamente in
contrasto con gli obblighi connessi al rapporto di lavoro.
In altre parole, il dipendente deve osservare i doveri di
correttezza e buona fede, previsti dagli articoli 1175 e
1375 del codice civile, anche nelle condotte
extralavorative, allo scopo di non arrecare danno al proprio
datore di lavoro.
Non basta la violazione di tali doveri, prosegue la
sentenza, per giustificare il recesso in tronco dal rapporto
di lavoro; è necessario altresì che la condotta illecita si
traduca in una grave negazione dell’elemento fiduciario che
deve caratterizzare il rapporto di lavoro, tenuto conto
delle circostanze in cui questa è stata realizzata, del
grado di affidamento richiesto dalle mansioni del
dipendente, e dell’intensità dell’elemento intenzionale.
La compromissione dell’elemento fiduciario, chiarisce ancora
la sentenza, si verifica anche quando la condotta del
lavoratore possa far ritenere, per la sua gravità, che la
prosecuzione del rapporto di lavoro possa risultare
pregiudizievole per gli scopi aziendali.
Con riferimento al caso sottoposto alla propria attenzione,
la Corte sottolinea che tali parametri normativi e
giurisprudenziali sono stati correttamente applicati dai
giudici di appello e, quindi, conferma la decisione del
grado precedente, che aveva convalidato il recesso.
La sentenza precisa, inoltre, che la condotta del dipendente
non deve considerarsi come una forma di violazione del
dovere di fedeltà ma, piuttosto, è riconducibile alla
nozione di slealtà, in quanto consente di mettere in dubbio
la correttezza dei rapporti futuri tra il lavoratore e
l’azienda e compromette l’elemento fiduciario del rapporto
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.07.2016).
---------------
MASSIMA
Il quarto motivo, relativo a violazione dell'art. 2119
c.c. e carenza di motivazione, per
inesistenza dei requisiti oggettivi, soggettivi e di
proporzionalità della giusta causa di
licenziamento, anche considerato il quindicennale rapporto
di lavoro tra le parti, è
infondato.
E' noto, in tema di licenziamento per giusta causa, che il
lavoratore debba astenersi dal
porre in essere non solo i comportamenti espressamente
vietati ma anche qualsiasi altra
condotta che, per la natura e per le possibili conseguenze,
risulti in contrasto con gli
obblighi connessi al suo inserimento nella struttura e
nell'organizzazione dell'impresa,
dovendosi integrare l'art. 2105 c.c. con gli artt. 1175 e
1375 c.c., che impongono
l'osservanza dei doveri di correttezza e di buona fede anche
nei comportamenti
extralavorativi, sì da non danneggiare il datore di lavoro
(Cass. 10.02.2015, n.
2550).
D'altro canto,
la giusta causa di licenziamento deve
rivestire il carattere di grave
negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro
e, in particolare, dell'elemento
fiduciario, dovendo il giudice valutare, da un lato, la
gravità dei fatti addebitati al
lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva
dei medesimi, alle circostanze
nelle quali sono stati commessi e all'intensità del profilo
intenzionale, dall'altro, la
proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per
stabilire se la lesione dell'elemento
fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore
di lavoro, sia tale, in concreto, da
giustificare la massima sanzione disciplinare
(Cass. 18.09.2012, n. 15654; Cass. 02.03.2011, n. 5095; Cass. 13.12.2010, n. 25144).
Inoltre,
la sussistenza in concreto di una giusta causa di
licenziamento va accertata in
relazione sia della gravità dei fatti addebitati al
lavoratore (desumibile dalla loro portata
oggettiva e soggettiva, dalle circostanze nelle quali sono
stati commessi nonché
dall'intensità dell'elemento intenzionale), sia della
proporzionalità tra tali fatti e la
sanzione inflitta: per la quale ultima, rileva ogni condotta
che, per la sua gravità, possa
scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la
continuazione del rapporto
pregiudizievole agli scopi aziendali, essendo determinante,
in tal senso, la potenziale
influenza del comportamento del lavoratore, suscettibile,
per le concrete modalità e il
contesto di riferimento, di porre in dubbio la futura
correttezza dell'adempimento,
denotando scarsa inclinazione all'attuazione degli obblighi
in conformità a diligenza,
buona fede e correttezza
(Cass. 16.10.2015, n. 21017;
Cass. 04.03.2013, n.
5280; Cass. 13.02.2012, n. 2013).
Ebbene, nella valutazione che le pertiene, in ordine alla
verifica della concretizzazione
operata dall'interprete della giusta causa di licenziamento
quale clausola generale,
tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi alla
coscienza generale e dei principi
tacitamente richiamati dalla norma, quindi mediante
specificazioni che hanno natura
giuridica e la cui disapplicazione è deducibile in sede di
legittimità come violazione di
legge (Cass. 26.04.2012, n. 6498; Cass. 02.03.2011, n.
5095; Cass. 13.12.2010, n. 25144), reputa questa Corte che la Corte d'appello
sarda abbia fatto corretta
applicazione dei suenunciati principi di diritto.
E che essa
abbia pure accertato la
ricorrenza concreta degli elementi del parametro normativo,
sotto il profilo del giudizio di
fatto demandatole, incensurabile in cassazione se, come nel
caso in esame, privo di errori
logici e giuridici (Cass. 26.04.2012, n. 6498; Cass. 02.03.2011, n. 5095; Cass. 13.12.2010, n. 25144): e ciò anche in specifico
riferimento al requisito di
proporzionalità, che esige valutazione non astratta
dell'addebito, ma attenta ad ogni
aspetto concreto del fatto, alla luce di un apprezzamento
unitario e sistematico della sua gravità, rispetto ad
un'utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi
rilievo alla
configurazione delle mancanze operata dalla contrattazione
collettiva, all'intensità
dell'elemento intenzionale, al grado di affidamento
richiesto dalle mansioni, alle
precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla durata
dello stesso, all'assenza di
pregresse sanzioni, alla natura e alla tipologia del
rapporto medesimo (Cass. 13.02.2012, n. 2013). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: Il
principio della necessaria motivazione degli atti
amministrativi, scolpito nell’art. 3 della legge n.
241/1990, non è altro che il precipitato dei più generali
principi di buona amministrazione, correttezza e
trasparenza, cui la p.a. deve uniformare la sua azione e
rispetto ai quali sorge per il privato la legittima
aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni
giustificative del provvedimento incidente sui suoi
interessi, anche al fine di poter esercitare efficacemente
le prerogative di difesa innanzi all’autorità
giurisdizionale.
---------------
In tale ottica, è carente di motivazione il diniego di
permesso di costruire fondato su un generico contrasto
dell’opera progettata con leggi, regolamenti o strumenti
urbanistici, dovendo invece il diniego stesso soffermarsi
sulle disposizioni normative e/o sulle previsioni di
riferimento contenute negli strumenti urbanistici che si
assumano ostative al rilascio del titolo, in modo da
consentire all’interessato, da un lato, di rendersi conto
degli impedimenti che si frappongono alla realizzazione
dell’opera e, dall’altro, di confutare in giudizio, in
maniera pienamente consapevole ed esaustiva, la legittimità
del provvedimento impugnato.
Di conseguenza, la determinazione reiettiva del permesso di
costruire, quando si limita, come nella specie, ad
un’apodittica affermazione di principio sulla contrarietà
dell’attività edilizia ad uno strumento urbanistico quale il
piano di lottizzazione, risulta viziata da difetto di
motivazione, atteso che l’obbligo di motivazione
legislativamente imposto va declinato in adeguate
argomentazioni che chiariscano la non compatibilità
dell’opera con le singole prescrizioni di piano preposte a
tutela dell’ordinato sviluppo del territorio.
---------------
E' inammissibile l’integrazione postuma della motivazione di
un atto amministrativo, realizzata mediante gli scritti
difensivi predisposti dall’amministrazione resistente, e ciò
anche dopo le modifiche apportate alla legge n. 241/1990
dalla legge n. 15/2005, rimanendo sempre valido il principio
secondo cui la motivazione del provvedimento non può essere
integrata nel corso del giudizio con la specificazione di
elementi di fatto, dovendo la motivazione precedere e non
seguire il provvedimento amministrativo, a tutela del buon
andamento amministrativo e dell’esigenza di delimitazione
del controllo giudiziario.
Invero, la norma contenuta nell’art. 3 della legge n.
241/1990, che prescrive che ogni provvedimento
amministrativo sia motivato, non è riconducibile a quelle
“sul procedimento o sulla forma degli atti”, poiché la
motivazione non ha alcuna attinenza né con lo svolgimento
del procedimento né con la forma degli atti in senso
stretto, riguardando, più precisamente, l’indicazione dei
presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche “che hanno
determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione
alle risultanze dell’istruttoria”; tant’è che nella stessa
giurisprudenza comunitaria la motivazione viene configurata
come requisito di “forma sostanziale”.
---------------
Non merita accoglimento la connessa istanza risarcitoria,
peraltro non provata nel quantum, atteso che deve escludersi
che l’annullamento di atti illegittimi per difetto di
motivazione possa di per sé comportare il diritto al
risarcimento dei danni subiti, giacché tale vizio non
impedisce (ma anzi consente) il riesercizio del potere, con
la conseguenza che la domanda risarcitoria non può che
essere valutata all’esito dell’eventuale nuova attivazione
del potere.
---------------
... per l'annullamento:
a) della nota dirigenziale del Comune di Giugliano in
Campania n. 32/N/2013 del 25.11.2013, con cui è stato
disposto il diniego del permesso di costruire richiesto
dalla società ricorrente per la realizzazione di un impianto
di distribuzione carburanti;
b) della nota dirigenziale del Comune di Giugliano in
Campania prot. n. 45033 del 05.09.2013, con cui sono stati
comunicati i motivi ostativi all’accoglimento della
richiesta di permesso di costruire;
c) di tutti gli atti preordinati, connessi e conseguenziali;
...
Considerato che:
- si palesa fondata la prima censura, con cui parte
ricorrente denuncia il difetto di motivazione da cui sarebbe
affetto il contestato diniego, in termini di mancata
indicazione degli specifici parametri dispositivi del piano
di lottizzazione ritenuti in concreto violati;
- invero, vale premettere che il principio della necessaria
motivazione degli atti amministrativi, scolpito nell’art. 3
della legge n. 241/1990, non è altro che il precipitato dei
più generali principi di buona amministrazione, correttezza
e trasparenza, cui la p.a. deve uniformare la sua azione e
rispetto ai quali sorge per il privato la legittima
aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni
giustificative del provvedimento incidente sui suoi
interessi, anche al fine di poter esercitare efficacemente
le prerogative di difesa innanzi all’autorità
giurisdizionale (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV,
22.09.2005 n. 4982; TAR Lazio Roma, Sez. I-ter, 31.01.2011
n. 841; TAR Campania Napoli, Sez. VIII, 25.03.2009 n. 1610);
- in tale ottica, è carente di motivazione il diniego di
permesso di costruire fondato su un generico contrasto
dell’opera progettata con leggi, regolamenti o strumenti
urbanistici, dovendo invece il diniego stesso soffermarsi
sulle disposizioni normative e/o sulle previsioni di
riferimento contenute negli strumenti urbanistici che si
assumano ostative al rilascio del titolo, in modo da
consentire all’interessato, da un lato, di rendersi conto
degli impedimenti che si frappongono alla realizzazione
dell’opera e, dall’altro, di confutare in giudizio, in
maniera pienamente consapevole ed esaustiva, la legittimità
del provvedimento impugnato; di conseguenza, la
determinazione reiettiva del permesso di costruire, quando
si limita, come nella specie, ad un’apodittica affermazione
di principio sulla contrarietà dell’attività edilizia ad uno
strumento urbanistico quale il piano di lottizzazione,
risulta viziata da difetto di motivazione, atteso che
l’obbligo di motivazione legislativamente imposto va
declinato in adeguate argomentazioni che chiariscano la non
compatibilità dell’opera con le singole prescrizioni di
piano preposte a tutela dell’ordinato sviluppo del
territorio (cfr. TAR Marche, Sez. I, 09.10.2015 n. 732; TAR
Sicilia Palermo, Sez. II, 23.06.2015 n. 1504; TAR Campania
Napoli, Sez. VII, 09.11.2012 n. 4531);
- né le deficienze motivazionali delle gravate
determinazioni comunali possono essere colmate dalla
relazione istruttoria depositata dall’amministrazione
resistente in data 18.04.2016, nella quale si prospetta
essenzialmente che l’intervento progettato si porrebbe in
contrasto con l’art. 16 del piano di lottizzazione (come
recepito nella corrispondente convenzione urbanistica),
configurandosi quale variante planovolumetrica allo
strumento urbanistico attuativo;
- tale notazione difensiva, estranea al corpo motivazionale
degli atti in contestazione, non riesce ad introdurre idonei
elementi di supporto al disposto diniego di permesso di
costruire. Infatti, è inammissibile l’integrazione postuma
della motivazione di un atto amministrativo, realizzata
mediante gli scritti difensivi predisposti
dall’amministrazione resistente, e ciò anche dopo le
modifiche apportate alla legge n. 241/1990 dalla legge n.
15/2005, rimanendo sempre valido il principio secondo cui la
motivazione del provvedimento non può essere integrata nel
corso del giudizio con la specificazione di elementi di
fatto, dovendo la motivazione precedere e non seguire il
provvedimento amministrativo, a tutela del buon andamento
amministrativo e dell’esigenza di delimitazione del
controllo giudiziario (orientamento consolidato: cfr. ex
multis Consiglio di Stato, Sez. VI, 18.10.2011 n. 5598 e
30.06.2011 n. 3882; TAR Campania Salerno, Sez. II,
15.02.2012 n. 218; TAR Campania Napoli, Sez. VII, 10.06.2011
n. 3081);
- invero, la norma contenuta nell’art. 3 della legge n.
241/1990, che prescrive che ogni provvedimento
amministrativo sia motivato, non è riconducibile a quelle “sul
procedimento o sulla forma degli atti”, poiché la
motivazione non ha alcuna attinenza né con lo svolgimento
del procedimento né con la forma degli atti in senso
stretto, riguardando, più precisamente, l’indicazione dei
presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche “che hanno
determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione
alle risultanze dell’istruttoria”; tant’è che nella stessa
giurisprudenza comunitaria la motivazione viene configurata
come requisito di “forma sostanziale” (cfr. TAR
Sicilia Catania, Sez. IV, 29.03.2012 n. 900);
- ad ogni modo, tale tardivo supporto motivazionale si
presenta anche insufficiente per fornire giustificazione
alla reiezione dell’istanza della ricorrente, se solo si
pone mente al fatto che l’art. 16 del piano di lottizzazione
non si occupa di varianti planovolumetriche, bensì dei
cambiamenti di destinazione degli edifici, e che il
precedente art. 15 consente espressamente, sebbene entro
certi limiti, l’introduzione delle predette varianti nella
fase di esecuzione del piano;
- discende da quanto esposto l’illegittimità per carenza
motivazionale delle gravate note dirigenziali del Comune di
Giugliano in Campania, che meritano di essere annullate, con
assorbimento delle rimanenti censure meno invasive quivi non
esaminate;
- viceversa, non merita accoglimento la connessa istanza
risarcitoria, peraltro non provata nel quantum,
atteso che deve escludersi che l’annullamento di atti
illegittimi per difetto di motivazione possa di per sé
comportare il diritto al risarcimento dei danni subiti,
giacché tale vizio non impedisce (ma anzi consente) il
riesercizio del potere, con la conseguenza che la domanda
risarcitoria non può che essere valutata all’esito
dell’eventuale nuova attivazione del potere (orientamento
consolidato: cfr. per tutte TAR Sicilia Catania, Sez. I,
14.04.2011 n. 927)
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 05.07.2016 n. 3326 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
SICUREZZA LAVORO:
Responsabilità limitata per il coordinatore.
Sicurezza. Deve intervenire solo per rischi gravi.
Il coordinatore per l’esecuzione ha
una posizione di garanzia e in quanto tale non è tenuto a
verificare continuamente di persona il rispetto delle regole
di sicurezza in cantiere. Il suo intervento diretto, che può
determinare la sospensione dei lavori, è consentito solo in
caso di pericolo grave e imminente, direttamente
riscontrato, come previsto dall’articolo 92, lettera f, del
Dlgs 81/2008.
Ruolo e responsabilità del coordinatore per l’esecuzione
sono stati puntualizzati dalla Corte di Cassazione, Sez. IV
penale, nella
sentenza
04.07.2016 n. 27165, relativa a un infortunio mortale
avvenuto in un cantiere edile per cui nei primi due gradi di
giudizio è stato condannato anche il coordinatore.
Con posizione discordante da quella del tribunale e della
Corte d’appello, la Cassazione precisa che questa figura ha
«una posizione di garanzia che non va confusa con quella del
datore di lavoro...in altri termini non è il controllore del
datore di lavoro, ma il gestore del rischio
interferenziale», cioè il pericolo che si può presentare
quando ci sono più imprese coinvolte simultaneamente nei
lavori. Questa attività viene svolta per atti formali, con
contestazione alle imprese e informazione al committente
delle irregolarità riscontrate, ma la sospensione dei lavori
può essere decisa solo a fronte di pericolo grave e
imminente. «Solo qualora l’infortunio sia riconducibile a
carenze organizzative generali di immediata percettibilità -scrivono i giudici- sarà dunque configurabile anche la
responsabilità del coordinatore».
Quanto all’attività di formazione e informazione dei
lavoratori, il coordinatore deve verificare il rispetto
delle norme a livello documentale, ma la responsabilità e
l’obbligo di verifica che la formazione sia effettivamente
svolta ricade sul datore di lavoro (articolo Il Sole 24 Ore del 05.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Messaggi nella mailing list tutelati come
corrispondenza privata. Corte d’appello. Gli scambi non
possono essere utilizzate senza limiti in una procedura di
licenziamento.
I messaggi di posta elettronica
scambiati tra dipendenti nell’ambito di una mailing list
riservata agli aderenti al sindacato costituiscono
corrispondenza epistolare privata e, in quanto tali,
rientrano nella protezione delle comunicazioni di natura
personale.
È questo il principio affermato dalla Corte d’appello di
Milano con sentenza n. 439/2016, secondo cui la
pluralità dei destinatari della mailing list non fa venir
meno il carattere di corrispondenza chiusa e inviolabile
delle comunicazioni scambiate tra gli aderenti al gruppo, in
quanto i messaggi diffusi grazie alla rete informatica sono
inoltrati non a una moltitudine indistinta di destinatari.
Da queste premesse, ad avviso della Corte d’appello, deriva
che anche tali comunicazioni telematiche ricadono nel regime
di tutela previsto, tra l’altro, dall’articolo 15 della
Costituzione, a norma del quale la libertà e la segretezza
della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione
sono inviolabili.
A ulteriore conforto di questa tesi, la Corte meneghina si
rifà a precedenti prese di posizione del Garante della
privacy, secondo cui i messaggi che circolano attraverso
mailing list e newsgroup protetti da una password di accesso
o, comunque, delimitati agli aderenti a una community devono
considerarsi corrispondenza privata.
Il caso affrontato dalla Corte d’appello ha riguardato il
licenziamento per giusta causa irrogato nei confronti di un
pilota per aver istigato i colleghi ad assumere forme di
lotta sindacale in contrasto con gli obblighi di lavoro e
per avere, in questo modo, arrecato turbativa al regolare
svolgimento dell’attività di volo, nonché per avere
sviluppato affermazioni denigratorie e minacciose nei
confronti di altri piloti.
A sostegno delle ragioni fondanti il licenziamento, la
compagnia aerea ha prodotto i messaggi scambiati sulla
mailing list degli aderenti al sindacato dei piloti,
affermando che non è stata violata la riservatezza del
gruppo e che, quindi, tali documenti erano pienamente
utilizzabili nell’ambito del processo per essere stati
consegnati da un altro pilota iscritto alla medesima “chat”.
Sulla scorta delle considerazioni sulla natura dei messaggi
scambiati, i giudici hanno ritenuto che la maggior parte
delle comunicazioni provenienti dalla mailing list ristretta
agli aderenti del sindacato non potesse essere utilizzata
per valutare la validità del licenziamento. Potevano,
invece, essere esaminati nell’ambito del giudizio solo due
messaggi con specifici apprezzamenti negativi nei confronti
di un altro pilota inserito nella mailing list, in quanto
quest’ultimo ha a sua volta promosso una causa risarcitoria
per mobbing nei confronti della compagnia aerea.
La Corte d’appello ha confermato l’illegittimità del
licenziamento già stabilito dal tribunale, sia in quanto la
mailing list nella quale sono stati diffusi i messaggi
costituiva un gruppo di discussione chiuso e riservato agli
aderenti in un contesto prettamente sindacale, sia in quanto
le affermazioni contestate al pilota sono intervenute in un
periodo di forte contrapposizione tra il management
aziendale e i lavoratori (articolo Il Sole 24 Ore del 05.07.2016). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Avvocati,
illecito permanente. Nel caso di ritenzione indebita di
somme del cliente. La Corte di
cassazione a sezioni unite ha sciolto un dubbio di carattere
deontologico.
Nel caso in cui un avvocato ritenga indebitamente una somma
spettante al cliente si configurerà un illecito deontologico
avente carattere permanente.
È quanto stabilito dai giudici delle Sezz. unite civili della Corte di Cassazione con la
sentenza 30.06.2016 n. 13379.
I giudici di piazza Cavour sono stati chiamati ad esprimersi
sul caso che vedeva un avvocato proporre ricorso per la
Cassazione di una decisione del Cnf con la quale veniva
rigettato il ricorso dal medesimo proposto avverso la
decisione dei Coa, con la quale lo stesso avvocato era stato
ritenuto responsabile dell'indebita ritenzione di somme
riscosse per conto di un cliente, violando, pertanto, gli
articoli 7, comma 1 (Dovere di fedeltà), 8 (Dovere di
diligenza), 38, comma 1 (Inadempimento al mandata), 41,
commi 1, 2 e 3 (Gestione di denaro altrui), con irrogazione
della sospensione dall'esercizio della professione per mesi
11.
Il Cnf riteneva infondata l'eccezione di prescrizione
formulata dall'avvocato sul rilievo che la violazione
deontologica risultava integrata da una condotta protrattasi
nel tempo, richiamando in proposito l'orientamento espresso
con le decisioni n. 208 dei 28/12/2012, n. 55 del 10/4/2013,
n. 132 dei 08/09/2011, nonché di queste Ss.uu. n. 14620
dell'01/10/2003.
Secondo gli Ermellini ex art. 51 del regio decreto-legge 27.11.1933, n. 1578, «l'azione disciplinare nei confronti
dell'avvocato si prescrive nel termine di cinque anni, che
decorrono dal giorno di realizzazione dell'illecito, ovvero,
se questo consista in una condotta protratta, dalla data di
cessazione della condotta stessa».
A parere delle Sezioni unite nel caso di specie la condotta
dell'avvocato presentava i connotati tipici della continuità
della violazione deontologica, per tale sua natura destinata
a protrarsi fino alla restituzione delle somme che il
medesimo avrebbe dovuto mettere a disposizione del cliente.
Quindi ne consegue che il protrarsi di tale condotta fino
alla decisione del Coa è ostativa al decorso del termine
prescrizionale di cui all'art. 51 cit., osservando, inoltre,
che analogo carattere permanente va riconosciuto alle
correlate e contestate violazioni di cui agli artt. 7
(dovere di fedeltà), 8 (diligenza), 38 (inadempimento del
mandato)
(articolo ItaliaOggi Sette del 18.07.2016). |
VARI: Sullo stalking basta l’accusa della persona perseguitata.
Determinante la valutazione del giudice sulla credibilità.
Rapporti di vicinato. Il reato si consuma anche nel
«tormento» dato a estranei.
Commette il
reato di stalking chi esaspera i vicini tanto da provocare
in loro gravi stati d’ansia e costringerli a cambiare
abitudini di vita, assentandosi dal lavoro e assumendo
tranquillanti. Un avvertimento a tutti i disturbatori
professionali che viene dalla Corte di Cassazione - Sez. V
penale (sentenza 28.06.2016 n. 26878).
La pronuncia conferma l’applicabilità dell’articolo 612-bis
del Codice penale nei rapporti di vicinato e, in particolar
modo, in quelli tra condòmini. Si parla di “stalking
condominiale”, che si verifica tutte le volte in cui il condòmino molesta e perseguita i vicini di casa con una
serie di azioni dirette a:
-
ingenerare in loro un fondato timore per l’incolumità
propria o di un familiare;
-
costringere la vittima a cambiare le proprie abitudini.
I giudici della Cassazione hanno così confermato le accuse
di stalking contro l’imputato, anche se fondate sulle
dichiarazioni della persona offesa, in linea con quanto
affermato dalle Sezioni unite, secondo cui le dichiarazioni
della persona offesa «possono essere legittimamente poste da
sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità
dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea
motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e
dell’attendibilità intrinseca del suo racconto».
Il caso
Detto in altri termini: la condanna per stalking può
scattare anche in base alle sole accuse mosse dal soggetto
perseguitato, se valutate dal giudice credibili ed
attendibili. Circostanza che si è verificata in questo caso:
le accuse esposte dalla persona offesa nelle numerose
denunce querele hanno trovato ampi riscontri oggettivi.
Hanno trovato conferma, in particolare, le conseguenze dei
comportamenti persecutòri sulla condizione di vita della
persona offesa, costretta ad assentarsi dal lavoro ed
assumere tranquillanti; eventi, quest’ultimi, che
dimostrano, secondo la suprema Corte, un mutamento delle
abitudini di vita e l’insorgere di un grave stato d’ansia
nella vittima.
Tali conclusioni, peraltro, sono coerenti con precedenti
sentenze in materia, secondo cui «la prova dell’evento del
delitto in riferimento alla causazione nella persona offesa
di un grave e perdurante stato d’ansia o di paura deve
essere ancorata ad elementi sintomatici di tale turbamento
psicologico, ricavabili dalle dichiarazioni della stessa
vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla
condotta posta in essere dall’agente ed anche da
quest’ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a
causare l’evento quanto il suo profilo concreto in
riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in
cui è stata consumata» (Cassazione, sentenza 14391/2012).
Il Codice
Previsto dall’articolo 612 bis del Codice penale (introdotto
dalla legge 11/2009), il reato di atti persecutori (meglio
noto come stalking). Gli elementi caratterizzanti dello
stalking sono la reiterazione delle azioni criminose e la
loro incidenza negativa nella vita delle persone che ne sono
vittima. L’obiettivo del legislatore è quello di tutelare
quei soggetti che, subendo continue vessazioni, sono
costrette a modificare la loro stessa vita che altrimenti
diviene insopportabile.
Il termine stalking viene spesso associato a comportamenti
che attengono alla sfera affettiva. Tuttavia, se è vero che
le vittime sono quasi sempre partner e soprattutto ex, in
particolar modo donne. è anche vero che il delitto in esame
ben può configurarsi al di fuori di una relazione
sentimentale.
È infatti sufficiente il compimento di più
atti molesti o minatori che ledano l’altrui sfera psico-affettiva o inducano la vittima a mutare stile di vita
In quest’ottica si colloca il cosiddetto “stalking
condominiale”, ormai divenuto una realtà, come dimostra
anche la sentenza in commento. La possibilità di querelare
il vicino di casa molesto e assillante non si limita al
singolo atto, ma si estende anche alla valutazione del
complessivo comportamento da questi reiterato nel tempo.
Sicuramente non basta una singola azione; ma in passato
anche due semplici episodi sono stati ritenuti sufficienti
dalla giurisprudenza a far scattare l’incriminazione del
reo. Ciò che conta è la gravità dei comportamenti che, nel
caso del condòmino, devono essere tali da riuscire ad
esasperare il vicino perseguitato, tanto da portarlo a
modificare le sue abitudini di vita (articolo Il Sole 24 Ore del 12.07.2016). |
INCARICHI PROFESSIONALI: La
responsabilità professionale dell'avvocato, la cui
obbligazione è di mezzi e non di risultato, presuppone la
violazione del dovere di diligenza media esigibile ai sensi
dell'art. 1176, secondo comma, c.c..
Tale violazione, ove consista nell'adozione di mezzi
difensivi pregiudizievoli al cliente, non è esclusa né
ridotta quando tali modalità siano state sollecitate dal
cliente stesso, poiché costituisce compito esclusivo del
legale la scelta della linea tecnica da seguire nella
prestazione dell'attività professionale.
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3.3 terzo motivo, rubricato come violazione e falsa
applicazione dell'articolo 112 c.p.c., concerne l'asserita
mancanza di un valido consenso informato della Ma. Srl
rispetto alla tattica difensiva adottata nel suo interesse
di cliente dal Mo.. Ma. Srl aveva addotto di aver dato
direttiva all'avvocato perché agisse nei confronti di Pr.
Srl, mentre questi agi avverso Ed. Srl.
Nel motivo si sostiene che l'attuale ricorrente avrebbe
dimostrato la scienza del cliente in ordine al soggetto che
avrebbe citato. La corte territoriale avrebbe integrato la
domanda della Ma. Srl addebitando all'avvocato di non aver
ottenuto un valido consenso informato, ma ciò sull'erroneo
presupposto che il legale rappresentante della società non
avesse "gli strumenti culturali per comprendere la
portata della domanda" proposta avverso Ed. Srl.
Inoltre, in tal modo la corte territoriale sarebbe incorsa
in ultrapetizione.
Anche questa doglianza non merita accoglimento. Anzitutto,
deve rilevarsi che la corte territoriale non è incorsa in
ultrapetizione, bensì, a fronte del quarto motivo d'appello,
ha valutato la questione della "scienza" del cliente
"solo, per completezza, di fronte ad una doglianza non
chiara nella prospettazione" richiamando giurisprudenza
sull'obbligo dell'avvocato di assolvere i doveri di
informazione del cliente (motivazione, pagina 7).
In verità, la corte territoriale osserva che nel quarto
motivo l'appellante in sostanza riproponeva, per
contestarla, "la prospettazione della società Ma. secondo
cui avrebbe prospettato...la necessità di agire
esclusivamente nei confronti della società Pr.", al
riguardo, appunto "per completezza", replicando che
un avvocato, "per essere esonerato da responsabilità, non
può limitarsi a sostenere di aver aderito" a indicazioni del
cliente, "ma deve dare prova di una corretta informazione
riguardo il verosimile esito dell'azione da intraprendere,
soprattutto in presenza di un cliente non esperto di diritto".
L'assunto della corte territoriale è perfettamente
corrispondente alla consolidata giurisprudenza di
legittimità (oltre a Cass. sez. 2, 30.07.2004 n. 14597,
citata dalla corte territoriale, v. da ultimo Cass. sez. 3,
20.05.2015 n. 10289 che così ben sintetizza la tematica: "La
responsabilità professionale dell'avvocato, la cui
obbligazione è di mezzi e non di risultato, presuppone la
violazione del dovere di diligenza media esigibile ai sensi
dell'art. 1176, secondo comma, c.c.; tale violazione, ove
consista nell'adozione di mezzi difensivi pregiudizievoli al
cliente, non è esclusa né ridotta quando tali modalità siano
state sollecitate dal cliente stesso, poiché costituisce
compito esclusivo del legale la scelta della linea tecnica
da seguire nella prestazione dell'attività professionale";
e v. pure Cass. sez. 6-3 ord. 05.09.2013 n. 20379 nonché
Cass. sez. 2, 28.10.2004 n. 20869; in particolare a
proposito dell'obbligo di informazione v. Cass. sez. 3,
20.11.2009 n. 24544)
(Corte di Cassazione, Sez. III civile,
sentenza 28.06.2016 n. 13292). |
APPALTI: Certificazioni
ambientali l'avvalimento è legittimo.
In una gara di appalto pubblico è legittimo l'avvalimento
della certificazione Emas.
Lo ha
affermato la
sentenza 28.06.2016 n.
2903 del Consiglio di Stato, Sez. V, che affronta il
tema del ricorso all'avvalimento della certificazione Emas (Eco-management
and audit scheme), ancorché riferibile a un requisito
soggettivo.
La sentenza si esprime positivamente dopo avere preso atto
dell'orientamento oscillante della giurisprudenza e del
fatto che le distinzioni fra requisiti soggettivi e
requisiti oggettivi, riferite alle imprese partecipanti alle
gare, «perdono la loro chiarezza ed intellegibilità ed
entrano in una zona di indeterminazione una volta che il
loro referente fondamentale sia divenuto la capacità tecnica».
La giurisprudenza, fa notare il Consiglio di stato, a volte
ha ritenuto che i requisiti di natura soggettiva, afferenti
allo status d'imprenditore, non siano trasferibili ma altre
volte ha consentito il ricorso all'avvalimento
dell'organizzazione dell'impresa ausiliaria, ancorché
riferita ad un requisito soggettivo.
E peraltro interessante notare che l'allegato XVII del nuovo
codice dei contratti pubblici (50/2016) recepisce con molta
chiarezza invece la distinzione (lettera f) con riguardo ai
titoli di studio e professionali che possono essere
richiesti per provare la capacità tecnica, soltanto «a
condizione che non siano valutati tra i criteri di
aggiudicazione.
Tornando alla sentenza, i giudici, per risolvere una volta
per tutte la questione fanno riferimento «al dato
positivo, ossia alla normativa specifica, desumibile dalla
fonte legislativa e alla disciplina contenuta nella lex
specialis». Nel caso esaminato, nota la sentenza, è
l'articolo 44 dell'abrogato decreto 163/2016 a richiamare
l'art. 42, comma 1, lett. f), dello stesso codice del 2006
che individuava i modi attraverso i quali fornire «la
dimostrazione delle capacità tecniche» e l'indicazione «delle
misure di gestione ambientale che l'operatore potrà
applicare durante la realizzazione dell'appalto»
(disposizione che è confluita nel citato allegato XVII,
parte II, lettera g).
Quindi, conclude la sentenza, «la normativa applicabile
iscrive la certificazione Emas fra i requisiti di capacità
tecnica suscettibili d'avvalimento»
(articolo ItaliaOggi dell'08.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
7. Con terzo motivo, la società appellante deduce che,
erroneamente, il Tar ha ritenuto suscettibile d’avvalimento
la certificazione EMAS sebbene attesti un requisito
soggettivo.
Il motivo è infondato.
La censura muove da un dato di fatto incontroverso: le
distinzione fra requisiti soggettivi e requisiti oggettivi,
riferiti alle imprese partecipanti alle gare, perdono la
loro chiarezza ed intellegibilità ed entrano in una zona di
indeterminazione una volta che il loro referente
fondamentale sia divenuto la capacità tecnica.
Significativamente l’analisi dei precedenti in tema
restituisce un quadro giurisprudenziale variegato e
contraddittorio: s’è ritenuto che i requisiti di natura
soggettiva, afferenti allo status d’imprenditore, non siano
trasferibili (cfr. Cons. Stato, sez. III, 25.02.2014 n. 887;
Tar Lazio sez. I-ter, 24.04.2013 n. 4130); viceversa, è
stato ammesso il ricorso all’avvalimento dell’organizzazione
dell’impresa ausiliaria sebbene riferita ad un requisito
soggettivo (cfr., Cons. Stato, sez. V., 19.11.2012 n. 5853;
Tar Lombardia, Milano, sez. IV, 23.04.2015 n. 1011).
Per uscire dall’impasse va fatto riferimento al dato
positivo, ossia alla normativa specifica, desumibile dalla
fonte legislativa e alla disciplina contenuta nella lex
specialis.
Nel caso in esame l’art. 44 del d.lgs. n.
163 del 2006 richiama l’art. 42, comma 1, lett. f) d.lgs.
cit. che individua fra i modi di in cui è possibile fornire
“la dimostrazione delle capacità tecniche”
l’indicazione “delle misure di gestione ambientale che
l’operatore potrà applicare durante la realizzazione
dell’appalto”; il bando, a sua volta, fa espresso
riferimento alla certificazione EMAS genericamente indicata.
Sicché la normativa applicabile iscrive la certificazione
EMAS fra i requisiti di capacità tecnica suscettibili d’avvalimento. |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Danno da rumore a prova semplificata. Risarcimento anche
senza documenti su specifiche patologie. Immissioni sonore/1. Anche la liquidazione
equitativa è rimessa all’apprezzamento del giudice di
merito.
Se i rumori
molesti superano la normale tollerabilità scatta il
risarcimento del danno.
Il principio è stato ribadito dalla
III Sez. civile della Suprema Corte nella recente
sentenza 27.06.2016 n. 13208.
Le immissioni rumorose che eccedano la soglia della normale
tollerabilità sono di per sé idonee a provocare una
compromissione dell’equilibrio psico-fisico del soggetto
ripetutamente esposto ad esse.
Nel caso affrontata dalla Cassazione il giudice di
legittimità ha ritenuto di confermare la sentenza impugnata
con la quale i giudici di merito avevano condannato una
società di capitali, esercente l’attività di discoteca in un
edificio, al pagamento, a titolo di risarcimento dei danni
provocati dalle immissioni rumorose, dell’importo di
diecimila euro in favore di ciascuno dei proprietari degli
appartamenti confinanti.
Nel primo motivo di ricorso la società (che aveva fatto
ricorso contro la decisione della Corte d’appello) aveva
censurato la pronuncia lamentando in particolare che i
giudici di merito avevano omesso di considerare che
l’accertata intollerabilità delle immissioni non esonera la
parte dall’onere di provare una specifica compromissione
della sua salute, non potendosi identificare il danno
risarcibile come compromissione in sé stessa, né tantomeno
con meri fastidi naturalmente conseguenti alle immissioni
moleste.
A giudizio della Cassazione questo motivo di ricorso deve
ritenersi infondato. Infatti, osserva la Corte, i giudici
d’appello, pur avendo osservato che i danneggiati avessero
comunque documentato con certificazioni mediche le
condizioni di salute in senso lato patologiche, conseguenti
all’esposizione prolungata ad un livello eccessivo di
rumore, avevano poi specificato che, pur in assenza di tale
documentazione, si sarebbe in ogni caso dovuto presumere il
danno subito dalle persone soggette alle immissioni
intollerabili. Ne consegue che il dispositivo della sentenza
risulta conforme a diritto, potendo il giudice, nella
specifica materia, avvalersi della regola di comune
esperienza secondo la quale le immissioni rumorose che
eccedano la soglia della normale tollerabilità sono di per
sé idonee a provocare una compromissione dell’equilibrio
psico-fisico del soggetto ripetutamente esposto ad esse.
Si deve pertanto ritenere, conclude sul punto la Cassazione,
che le allegazioni, la documentazione e l’evocazione di una
regola di comune esperienza siano sufficienti ad integrare i
necessari estremi dell’an e del quantum probatorio richiesti
al fine dell’accoglimento della domanda risarcitoria.
È stato anche ritenuto infondato anche il secondo motivo di
ricorso della società, con il quale aveva denunziato il
mancato accertamento specifico compiuto dal giudice di
merito in sede di quantificazione del danno, ribadendo che
la liquidazione equitativa del danno è rimessa al prudente
apprezzamento del giudice di merito. Questo, conclude la
Cassazione, sia quando la determinazione del relativo
ammontare sia impossibile, sia quando, in relazione alla
peculiarità del caso concreto essa si presenti
particolarmente difficoltosa, costituendo oggetto di un
giudizio di fatto che si sottrae, se non inficiato da errori
logico-giuridici, al controllo di legittimità.
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Musica notturna, non sempre è reato. Immissioni sonore/2. Occorre il disturbo
di un numero indeterminato di persone.
Il problema
delle immissioni rumorose, spese se notturne e provenienti
da locali di intrattenimento, è molto avvertito nei
condomini degli edifici perché incide sulla serenità e sulla
qualità della vita di ciascuno dei partecipanti.
Tenere la musica ad alto volume per tutta la notte, sino
alle quattro del mattino, può integrare l’elemento materiale
del reato del disturbo di cui all’articolo 659 del Codice
penale, a mente del quale: chiunque, mediante schiamazzi o
rumori, ovvero abusando di strumenti sonori o di
segnalazioni acustiche, ovvero suscitando o non impedendo
strepiti di animali, disturba le occupazioni o il riposo
delle persone, ovvero gli spettacoli, i ritrovi o i
trattenimenti pubblici, è punito con l’arresto fino a tre
mesi o con l’ammenda sino a 309 euro .
La norma, in particolare, prevede due autonome fattispecie
di reato. L’elemento distintivo, tra di esse, è dato dalla
fonte del rumore prodotto: quando il rumore provenga
dall’esercizio di una professione o di un mestiere rumorosi
(come quella che svolge all’interno di un pub e/o di un
ristorante con musica dal vivo), la condotta viene fatta
rientrare nella previsione del secondo comma dell’articolo
659, per effetto della esorbitanza rispetto alle
disposizioni di legge o alle prescrizioni dell’autorità,
presumendosi la turbativa della pubblica tranquillità;
viceversa, nel caso in cui le vibrazioni sonore non siano
causate dall’esercizio dell’attività lavorativa,
ricorrerebbe l’ipotesi di cui all’articolo 659, comma 1, per
la quale occorre che i rumori superino la normale
tollerabilità ed investano un numero indeterminato di
persone, disturbando le loro occupazioni o il riposo
(Cassazione Penale, Sez. 1, 17.12.1998, n. 4820/99, Marinelli, Rv. 213395).
Mentre il primo comma della norma è, dunque, volto a
tutelare il riposo e la tranquillità del vicinato e richiede
l’accertamento concreto del disturbo arrecato, il secondo
comma, invece, prescinde dalla verificazione della misura
del disturbo, integrando un’ipotesi di presunzione legale di
rumorosità, al di là dei limiti tempro-spaziali e/o delle
modalità di esercizio imposto dalla legge, dai regolamenti o
da altri provvedimenti adottati dalle competenti autorità
(così anche Cassazione Penale, Sez. 1, 12.06.2012, n. 39852, Minetti, Rv. 253475).
Sulla scorta di tali premesse, la Corte di Cassazione,
Sezione III Penale, con la sentenza del 05–20.06.2016,
n. 25424, ha stabilito che nel caso cui i rumori provengano
da un locale (abilitato) in cui si svolga uno spettacolo
musicale, per poter applicare comunque la fattispecie del
reato di cui all’articolo 659 occorre in ogni caso
dimostrare che le vibrazioni prodotte siano in grado di
disturbare un numero indeterminato di persone, così da
soddisfare il requisito della «turbativa della pubblica
tranquillità».
Se tale prova non venga raggiunta in
giudizio, il titolare del locale in cui si è svolto lo
spettacolo musicale va assolto perché «il fatto non
sussiste»
(articolo Il Sole 24 Ore del 05.07.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Le
immissioni rumorose che eccedano la soglia della normale
tollerabilità sono di per sé idonee a provocare una
compromissione dell'equilibrio psico-fisico del soggetto
ripetutamente esposto ad esse.
Deve, pertanto, ritenersi, che le allegazioni, la
documentazione, e l'evocazione di una regola di comune
esperienza siano sufficienti ad integrare i necessari
estremi dell'an e del quantum probatorio richiesto al fine
dell'accoglimento della domanda risarcitoria.
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Con il primo motivo, si denuncia violazione ed erronea
applicazione degli artt. 844, 2043, 2059, 2697 c.c.; mancato
e/o omesso esame di fatto decisivo per il giudizio.
Il motivo -con il quale si lamenta l'erroneità della
sentenza impugnata nella parte in cui omette di considerare
che l'accertata intollerabilità delle immissioni non esonera
la parte dall'onere di provare una specifica compromissione
della sua salute, non potendosi identificare il danno
risarcibile come compromissione in re ipsa, né
tantomeno con meri fastidi naturalmente conseguenti alle
immissioni moleste- è privo di pregio.
Esso si infrange, difatti, sul corretto impianto
motivazionale adottato dal giudice d'appello nella parte in
cui ha preliminarmente osservato come gli istanti avessero
documentato con certificazioni mediche le condizioni di
salute lato sensu patologiche conseguenti
all'esposizione prolungata ad un livello eccessivo di rumore
- pur specificando poi che, anche in assenza di tale
documentazione, si sarebbe in ogni caso dovuto presumere il
danno subito dalle persone soggette alle immissioni
intollerabili.
Pertanto, corretta in parte qua la motivazione (non
essendo astrattamente predicabile la configurabilità di un
danno in re ipsa), il dispositivo della sentenza
risulta conforme a diritto, potendo il giudice, in
subiecta materia, avvalersi della regola di comune
esperienza secondo la quale le immissioni rumorose che
eccedano la soglia della normale tollerabilità sono di per
sé idonee a provocare una compromissione dell'equilibrio
psico-fisico del soggetto ripetutamente esposto ad esse (ex
aliis, Cass. 5844/2007).
Deve, pertanto, ritenersi, che le allegazioni, la
documentazione, e l'evocazione di una regola di comune
esperienza siano sufficienti ad integrare i necessari
estremi dell'an e del quantum probatorio
richiesto al fine dell'accoglimento della domanda
risarcitoria (Corte di Cassazione, Sez. III civile,
sentenza 27.06.2016 n. 13208). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Diritto
al compenso, procedura speciale ko. Ordinanza.
Nel caso in cui la controversia non abbia ad oggetto
soltanto la semplice determinazione della misura del
compenso a favore di un avvocato, ma si estenda anche ai
presupposti del diritto a ricevere il compenso stesso, non
sarà ammissibile il ricorso alla speciale procedura di cui
agli artt. 28 e 29 della legge n. 794/1942.
Lo hanno ribadito i giudici della VI Sez. civile della
Corte di Cassazione con l'ordinanza
24.06.2016 n. 13175.
Con ricorso ex art. 702-bis c.p.c. al tribunale l'avvocato
Tizio esponeva che aveva svolto su incarico e per conto del
comune attività professionale sia in sede giudiziale, nel
giudizio dinanzi alla corte d'appello di definito con
sentenza, sia in sede stragiudiziale, mediante la
formulazione di un parere in merito ad una proposta
transattiva; che, inoltrata all'ente comunale la nota-specifica delle sue spettanze, aveva ricevuto in pagamento
la minor somma.
Tizio chiedeva che il comune fosse condannato al pagamento
della somma restante.
Costituitosi, il comune contestava, preliminarmente, la
competenza dell'adito giudice e, nel merito il valore della
controversia ai fini della individuazione dello scaglione di
riferimento, lo svolgimento di singole attività in relazione
a talune voci della parcella «e con riguardo stragiudiziale
persino il conferimento dell'incarico, nonché le spese».
Con ordinanza il tribunale in composizione collegiale
dichiarava la propria incompetenza e la competenza a
decidere della corte d'appello.
I giudici del tribunale sottolineavano che l'eccezione di
incompetenza era fondata «anche in ragione della non
contestazione in ordine allo svolgimento della prestazione,
da parte del comune resistente»; che doveva propriamente, ai
sensi dell'art. 14 del dlgs n. 150/2011, reputarsi
competente la corte d'appello, quale ufficio giudiziario di
merito adito per il processo nel quale l'avvocato Tizio
aveva prestato la propria opera, atteso che nella
fattispecie l'oggetto del giudizio concerneva la mera
attività di liquidazione del compenso.
Avverso tale ordinanza ha proposto ricorso per regolamento
necessario di competenza l'avvocato Tizio; ha chiesto
dichiararsi la competenza del tribunale di Lamezia Terme con
ogni conseguente statuizione anche in ordine alle spese
(articolo ItaliaOggi Sette del 18.07.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Lite temeraria: «salvo» il risarcimento al
vincitore. Corte costituzionale. Legittimo il pagamento alla
controparte anziché all’Erario.
La Consulta “salva” il risarcimento
del danno alla controparte in caso di lite temeraria.
Con la
sentenza 23.06.2016 n. 152,
la Corte costituzionale ha respinto la questione di
illegittimità dell’articolo 96, comma 3, del Codice di
procedura civile sollevata dal Tribunale di Firenze.
In effetti, insieme alla decisione sul merito della causa, i
giudici devono sempre pronunciarsi sulle spese di giudizio.
La regola generale è che le spese seguano la soccombenza: la
parte che perde la causa deve rimborsare alla controparte le
spese di costituzione e difesa, nella misura stabilita dal
giudice.
La compensazione delle spese di lite, in base alla quale
ciascuna delle parti sopporta le spese del proprio legale
indipendentemente dall’esito della causa, costituisce –in
seguito alle modifiche introdotte tra il 2005 e il 2014–
un’ipotesi eccezionale. In base all’articolo 92 del Codice
di procedura civile, infatti, «se vi è soccombenza reciproca
ovvero nel caso di assoluta novità della questione trattata
o mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni
dirimenti, il giudice può compensare le spese tra le parti,
parzialmente o per intero».
Sono inoltre previste alcune disposizioni volte a sanzionare
la parte soccombente che abbia, con la sua condotta
processuale, causato all’altra iniziative defatiganti,
inutili o dispendiose, oppure che abbia rifiutato la
proposta conciliativa avanzata dal Giudice nel corso del
giudizio.
Il complesso di norme ha non solo un carattere deflativo,
volto a incentivare la soluzione stragiudiziale delle
controversie e dissuadere dall’inutile aggravio di
iniziative giudiziarie di dubbia fondatezza, ma anche un
carattere di effettività, volto a non vanificare la
pronunzia favorevole ottenuta dalla parte vittoriosa, la
quale può vedersi dare ragione dopo anni di attesa e
significativi costi sostenuti non solo per il pagamento del
proprio legale, ma per tutti gli oneri fiscali connessi con
una lite giudiziaria.
La norma esaminata dalla Consulta prevede una ulteriore
ipotesi di responsabilità aggravata, che sussiste quanto
risulta evidente non solo che la pretesa azionata dalla
parte soccombente era infondata ma che questa dall’inizio
non meritava di essere sottoposta al giudice. In tali
ipotesi il giudice dispone, anche d’ufficio, la condanna a
un’ulteriore somma a titolo di risarcimento del danno a
favore della controparte che si aggiunge al rimborso delle
spese di lite. La condanna per la cosiddetta lite temeraria,
è disposta «se risulta che la parte soccombente ha agito o
resistito in giudizio con mala fede o colpa grave».
La questione di legittimità costituzionale sottoposta al
vaglio della Corte concerneva in particolare la ritenuta
ingiustizia di disporre un risarcimento per lite temeraria a
favore della controparte anziché dell’Erario.
Il ragionamento del giudice che ha sollevato la questione,
infatti, prendeva le mosse dal carattere afflittivo e
sanzionatorio della condanna, con la conseguenza che esso
avrebbe dovuto andare a favore dello Stato, leso
dall’intralcio all’Amministrazione della giustizia cagionato
da una lite manifestamente infondata, e non alla
controparte, già adeguatamente ristorata dal rimborso delle
spese di lite. Non dovrebbe pertanto trattarsi di un
risarcimento del danno a favore dell’avversario, come oggi
di fatto configurato, ma di una sanzione nell’interesse
della collettività.
La Corte costituzionale ha preso atto che nella prassi
l’ipotesi di condanna per responsabilità aggravata da lite
temeraria é poco utilizzata e ha messo in luce che
l’istituto può essere letto in modo duplice: come vero e
proprio risarcimento oppure come sanzione. La Corte,
concordando sul punto con il Tribunale di Firenze (ma anche
con la Cassazione: ordinanza 3003/2014), ha propeso per la
prevalenza della seconda lettura, ovvero per il carattere
afflittivo e sanzionatorio della misura, facendo leva anche
sul fatto che essa può essere disposta pure d’ufficio del
giudice, indipendentemente dalla richiesta di controparte.
Sulla base di tale ricostruzione, la Corte ha ritenuto che
la ragionevolezza di una eventuale previsione che il
versamento venga disposto a favore dell’Erario anziché della
controparte non renda di per sé illegittima la soluzione
contraria.
Infatti, la maggiore effettività della tutela
giurisdizionale garantita alla parte vittoriosa, che si vede
riconosciuta una somma aggiuntiva qualora risulti il
coinvolgimento della medesima in una lite temeraria senza
che essa debba provare il danno subito, finisce per
garantire allo strumento deflativo in esame anche una «più
incisiva efficacia deterrente» anche perché l’eventuale
recupero forzoso di detta somma, qualora la parte
soccombente non adempisse spontaneamente, sarebbe
sicuramente più lento e incerto se dovesse provvedervi lo
Stato (articolo Il Sole 24 Ore del 09.07.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Gazebo e tettoia pari non sono. Serve il titolo
edilizio al pergolato che aumenta i volumi. Una sentenza del
Tar Emilia e alcuni precedenti su coperture per auto e
affini.
Altro che «gazebo»: un conto è il pergolato realizzato per
dare un po' d'ombra al giardino nelle torride giornate
estive, un altro è la struttura in legno e ferro non
facilmente amovibile realizzata per mettere l'auto ben al
coperto. Nel secondo caso si configura l'incremento dei
volumi e dunque la necessità di un vero e proprio titolo
edilizio prima di realizzare l'opera.
Scatta allora la sanzione pecuniaria per il proprietario
dell'immobile quando la polizia municipale scopre i lavori
realizzati senza permesso.
È quanto emerge dalla
sentenza 21.06.2016 n. 612, pubblicata dalla
II Sez. del TAR Emilia Romagna-Bologna.
Arredo escluso.
Non giova al cittadino multato sostenere che la struttura
realizzata nel suo giardino nulla aggiungerebbe alla
possibilità di utilizzare il terreno come parcheggio
pertinenziale a raso. Decisive infatti sono le foto prodotte
in giudizio dal comune: sul pergolato erano state installate
anche lastre di policarbonato, poi rimosse.
Ma ciò che più
conta è che il presunto «gazebo» ha travi in legno e ferro e
non può essere reputato un semplice arredo di spazi esterni:
l'aumento di superficie utile si può ben escludere quando la
struttura realizzata funge da sostegno per piante rampicanti
o per teli in modo da dare sollievo dal sole, ma soltanto
laddove l'uso può essere ritenuto del tutto momentaneo e a
patto che le dimensioni siano modeste.
In questo caso il
pergolato risulta sì costruito con materiali leggeri, ma
deve essere comunque ritenuto un intervento di nuova
costruzione perché la struttura solida e robusta fa
presumere che il manufatto sia destinato a una permanenza
prolungata nel tempo. La parte evita il pagamento delle
spese di giudizio perché il comune non si è costituito.
Nozione restrittiva.
Ancora. Deve essere abbattuta la tettoia realizzata dal
proprietario di casa senza permesso di costruire benché i
pannelli laterali stavolta siano comunque amovibili. E ciò
perché è l'incremento dei volumi che risulta in ogni caso
realizzato a imporre di dotarsi del titolo edilizio.
L'opera, poi, non può essere riconosciuta come pertinenza in
senso urbanistico in modo da evitare la demolizione: vale
infatti una nozione più restrittiva di quella applicabile in
campo civilistico in quanto esclude i manufatti che sono sì
posti a servizio di un immobile ma risultano utilizzabili in
modo autonomo rispetto al cespite. È quanto emerge dalla
sentenza 1051/2016, pubblicata dalla quarta sezione del Tar
Campania.
Coessenzialità necessaria.
Scatta lo stop del comune alla superficie di quaranta metri
quadrati sorretta da pali in legno e pareti laterali in
muratura sull'immobile: in base al regolamento edilizio
dell'ente, infatti, non può essere tecnicamente definita
«tettoia» perché risulta chiusa da pareti laterali, per
quanto non fisse.
Come accade anche per la veranda, non
basta la Dia-Scia per tutti gli interventi che alterano la
sagoma di un'abitazione determinando l'incremento di volume
e una variazione architettonica; un bene che costituisce una
pertinenza per il diritto civile può non esserlo sul piano
urbanistico perché sul secondo fronte per evitare il
permesso di costruire è necessario dimostrare che il
manufatto risponda a una precisa esigenza dell'immobile cui
accede. Il requisito non ricorre quando l'opera incriminata
occupa aree e volumi diversi. Al proprietario non resta che
pagare le spese.
Rapporto irrilevante.
Un precedente di giurisprudenza può essere individuato nella
sentenza 4997/2013 del Consiglio di stato, pubblicata dalla
quinta sezione, secondo cui devono essere abbattute la
tettoia e la pensilina di dimensioni non trascurabili,
realizzate senza permesso: anche se si trovano in rapporto
con l'immobile, infatti, non costituiscono una pertinenza
del cosiddetto «bene principale» perché alterano comunque
l'assetto del territorio. E ciò anche quando si tratta di
strutture facilmente smontabili.
Valore autonomo.
Accolto il ricorso del comune contro la pensilina della
pompa di benzina. Anche qui perché la nozione civilistica di
pertinenza non corrisponde affatto a quella edilizia. Nel
secondo caso il concetto ha una portata ridotta: è chi l'ha
realizzata senza sottostare al regime concessorio che deve
dimostrare come il manufatto non abbia un valore autonomo in
quanto non può essere utilizzato indipendentemente dal
(presunto) bene principale.
E soprattutto bisogna provare che non è aumentato il carico
urbanistico. I titolari dell'impianto non ci riescono,
devono rinunciare all'opera abusiva ma evitano almeno di
pagare le spese dei due gradi di giudizio
(articolo ItaliaOggi Sette dell'11.07.2016). |
CONDOMINIO - VARI: Le
riprese nello stabile utilizzabili in sede penale.
Videosorveglianza.
Le riprese delle telecamere di
sorveglianza del condominio sono utilizzabili per
“incastrare” il colpevole. Quando c’è un reato, le immagini
della videosorveglianza, non contenendo “atti comunicativi”
(sono cioè filmati che non immortalano comunicazioni verbali
o scritte, cenni di assenso o rifiuto ovvero espressioni
fisiognomiche ma solo «mere condotte», che non hanno nessun
valore esprimente), non rientrano nella categoria delle
intercettazioni; pertanto, se effettuate in luoghi pubblici,
aperti o esposti al pubblico, come nel caso del condominio,
possono essere utilizzate quali «prove atipiche» e quindi
non abbisognano di autorizzazione all'utilizzo da parte
dell'autorità giudiziaria.
Questo è il
principio espresso dalla II Sez. penale della Corte
di Cassazione, nella
sentenza
17.06.2016 n. 25307.
La difesa dell'imputato (condannato per rapine nello
stesso condominio) aveva basato il ricorso proprio
sull’utilizzo, per la condanna, delle immagini ricavate dal
sistema di videosorveglianza del condominio, nonostante
queste riprese attenessero a luoghi di privata dimora che,
in quanto tali, risulterebbero tutelati dalla normativa
sulla privacy.
La Cassazione ha invece chiarito che, nel
caso delle riprese effettuate dalle telecamere di
sorveglianza del condominio –premesso che si tratta di“atti
non comunicativi”– gli unici soggetti legittimati ad opporre
la violazione della tutela della privacy risultano
esclusivamente i condòmini.
Quindi non sussiste alcun elemento di illiceità nella
raccolta della prova, con conseguente piena utilizzabilità
del materiale probatorio acquisito. E ha condannato
l’imputato a pagare le spese di giudizio e a versare 1.500
euro alla Cassa delle ammende (articolo Il Sole 24 Ore del 05.07.2016).
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MASSIMA
1. Il ricorso è manifestamente infondato.
2. Con il primo motivo il ricorrente deduce che il giudice
di merito ha fondato in modo esclusivo la sentenza di
condanna sulle immagini estrapolate da due sistemi di
videosorveglianza installati all'interno dei condomini,
ritenendo tali prove inutilizzabili perché acquisite in
luoghi di privata dimora, tutelati da una legittima
aspettativa di privacy.
Il rilievo -compiutamente esaminato dalla corte
territoriale- risulta per un verso in contrasto con i
principi di diritto in materia e per altro addirittura
irrilevante ai fini della decisione.
2.1 La giurisprudenza di legittimità,
inquadrandosi nei vari interventi relativi all'art. 14 Cost.
nonché all'art. 8 CEDU della Corte Costituzionale (sentenze
135/2002, 149/2008 e 320/2009), ha operato
una netta distinzione tra le videoriprese di atti
comunicativi, riconducibili alla disciplina delle
intercettazioni, e quelle di atti non comunicativi
(mere condotte, che non hanno nessun valore esprimente; sono
comunque comunicative, assoggettando così la relative
videoriprese alla disciplina delle intercettazioni, tutte
quelle condotte che hanno un significato fungibile con la
comunicazione verbale/scritta, come un gesto di assentimento
o di rifiuto, espressioni fisionomiche ecc), che non
rientrano nella qualifica di intercettazioni e, se
effettuate in luoghi pubblici, aperti o esposti al pubblico,
sono utilizzabili come prove atipiche ex art. 189 c.p.p..
Qualora invece le videoriprese di atti
non comunicativi siano effettuate in luoghi
riconducibili al domicilio, e quindi sottoposti alla tutela
di cui agli art. 14 Cost. e art. 8 CEDU, la tutela in tal
senso di chi è ivi domiciliato ne impedisce l'utilizzazione
e, prima ancora, anche l'acquisizione, escludendo
l'applicabilità dell'art. 189 c.p.p. in quanto sono
qualificabili prove illecite
(S.U. 28.03.2006 n. 26797).
Si tratta, peraltro, della tutela di un
diritto disponibile, per cui, qualora le riprese siano
effettuate con il consenso del titolare al diritto di tutela
del domicilio, si esce da ogni profilo di illiceità,
cosicché la prova, come atipica, risulta utilizzabile senza
necessità di autorizzazione dell'autorità giudiziaria
(in tal senso Cass. sez. 3, 07.07.2010 n. 37197, nonché
Cass. sez. 2, 13.12.2007-10.01.2008 n. 1127 e, da ultimo, in
motivazione, Cass. n. 25177 del 21/05/2014).
Nel caso in esame, trattasi di videoriprese di un atto non
comunicativo -non esprimente cioè alcuna comunicazione,
ritraendo solo la condotta del soggetto introdottosi nello
stabile condominiale- sì che destinatari della tutela della
privacy devono considerarsi esclusivamente i condòmini ossia
i soggetti che domiciliano in quegli stabili; non potrà
certamente lamentarsi della violazione il ricorrente, che
non è titolare di alcun diritto alla riservatezza rispetto
ai luoghi di privata dimora altrui.
Non sussistono pertanto profili di illiceità, con
conseguente piena utilizzabilità della prova. |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Bruciare
plastica turbando i vicini si commette reato penale.
Il il reato di getto di cose pericolose,
di cui all'art. 674 cod. pen., ha di regola carattere
istantaneo e solo eventualmente permanente.
La permanenza va ravvisata quando le illegittime emissioni
sono connesse all'esercizio di attività economiche e legate
al ciclo produttivo, mentre, con riguardo specifico
all'emissione molesta di gas, di vapori o di fumo, la
contravvenzione di cui all'art. 674 cod. pen., è un reato
non necessariamente, ma solo eventualmente permanente, in
dipendenza cioè della durata, istantanea o continuativa,
della condotta che provoca le emissioni stesse.
Ne deriva, per l'integrazione del reato, che è sufficiente
anche un solo atto mediante il quale si provoca un'emissione
molesta, e che l'idoneità della condotta a produrre
emissioni moleste deve essere dimostrata.
---------------
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 10.02.2015, il Giudice per le indagini
preliminari del Tribunale di Asti, a seguito di richiesta
del P.M. di emissione di decreto penale nei confronti di
It.Ci., per il reato di cui all'art. 674 cod. pen., perché
dando fuoco a materiale plastico e in alluminio, provocava
emissioni di fumi maleodoranti ed irritanti, atti a
molestare il vicinato, pronunziava sentenza, ai sensi
dell'art. 129 cod. proc. pen., perché il fatto non sussiste.
2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione il
Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Asti e
ne ha chiesto l'annullamento per inosservanza o erronea
applicazione della legge penale e processuale.
Il primo luogo, il Giudice avrebbe prosciolto l'imputato
ritenendo erroneamente la natura permanente del reato di cui
all'art. 674 cod. pen. Avrebbe, poi, ritenuto insussistente
il reato per essere l'episodio denunciato, e riscontrato
dagli operanti intervenuti e dai testimoni, occasionale e
sporadico.
Il G.I.P. avrebbe, così, pronunciato una sentenza in
presenza di situazione riconducibile alla carenza di
indagini, nella specie prova dell'emissioni, che avrebbero
dovuto condurre il Giudice alla restituzione degli atti al
P.M. ai sensi dell'art. 459, comma 3, cod. proc. pen. e non
alla pronuncia della sentenza di proscioglimento.
3. Il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte
di Cassazione ha chiesto l'accoglimento del ricorso ed il
conseguente annullamento senza rinvio della sentenza
impugnata.
CONSIDERATO IN DIRITTO
4. Il ricorso è fondato avendo il Giudice delle indagini
preliminari del Tribunale di Asti disatteso i principi
ermeneutici affermati, in tema, da questa Corte.
5. Va rammentato che, secondo la costante giurisprudenza di
legittimità, nel caso in cui il Pubblico Ministero abbia
richiesto l'emissione del decreto penale di condanna, ai
sensi dell'art. 459 c.p.p., comma 3 il G.I.P., qualora
ritenga di non accogliere la richiesta, deve restituire gli
atti al Pubblico Ministero a meno che non ritenga,
ricorrendone i presupposti, di pronunciare sentenza di
proscioglimento a norma dell'art. 129 c.p.p..
In tale caso, la sentenza di proscioglimento può essere
pronunciata solo nel caso in cui risulti evidente
positivamente l'innocenza dell'imputato o risulti evidente
che non possono essere acquisite prove della sua
colpevolezza, mentre l'analoga sentenza è preclusa quando
l'infondatezza dell'accusa dovrebbe essere affermata
mediante un esame critico degli elementi prodotti a sostegno
della richiesta (Sez. 3, n. 5716 del 07/01/2016, P.M. in
proc. Isoardi, non ancora massimata; Sez. 3, n. 45934 del
09/10/2014, P.M. in proc. Fusco, Rv. 260941; Sez. 4, n. 992
del 18/07/2013, P.M. in proc. Canto, Rv. 259079; Sez. 3, n.
15034 del 24/10/2012, P.M. in proc. Carboni Rv. 258013; Sez.
2, n. 1631 del 12/12/2012 Pg in proc. Rouane, Rv. 254449;
Sez. 3, n. 3914 del 05/12/2013, Pintaldi, Rv. 258298; Sez.
6, n. 29538 del 27/06/2013 P.G. in proc. P. Rv. 256149; Sez.
5. n. 14981 del 24/03/2005 P.M. in proc. Becatelli, Rv.
231461).
6. La sentenza assolutoria impugnata ha disatteso i principi
ermeneutici sopra evidenziati.
Il G.I.P. ha prosciolto l'imputato perché non sussisterebbe
il reato in quanto la condotta non avrebbe avuto carattere
permanente, ma (solo) occasionale e ciò sulla base delle
valutazione delle dichiarazioni testimoniali dei vicini di
casa dell'imputato.
Tale conclusione non è per nulla condivisibile e disattende
quanto pacificamente affermato dalla Corte di Cassazione,
secondo cui il reato di getto di cose
pericolose, di cui all'art. 674 cod. pen., ha di regola
carattere istantaneo e solo eventualmente permanente. La
permanenza va ravvisata quando le illegittime emissioni sono
connesse all'esercizio di attività economiche e legate al
ciclo produttivo
(Sez. 1, n. 2598 del 13/11/1997, P.M. in proc. Garbo, Rv.
209960), mentre, con riguardo specifico
all'emissione molesta di gas, di vapori o di fumo, la
contravvenzione di cui all'art. 674 cod. pen., è un reato
non necessariamente, ma solo eventualmente permanente, in
dipendenza cioè della durata, istantanea o continuativa,
della condotta che provoca le emissioni stesse
(Sez. 1, n. 3162 del 10/11/1988, Mazzoni, Rv. 180652).
Ne deriva, per l'integrazione del reato,
che è sufficiente anche un solo atto mediante il quale si
provoca un'emissione molesta, e che l'idoneità della
condotta a produrre emissioni moleste deve essere dimostrata,
con la conseguenza che il proscioglimento del G.I.P. è stato
erroneamente pronunciato, poiché, non solo il Giudice ha
disatteso il principio di diritto della natura istantanea
del reato de quo, ma ha escluso l'idoneità della
condotta emissiva, di cui al capo di imputazione, ad
offendere o molestare le persone esposte, sulla base di una
non consentita valutazione del materiale probatorio.
7. In definitiva, il Giudice è pervenuto al proscioglimento
dell'imputato senza che fosse evidente l'insussistenza del
fatto addebitato all'imputato e, dunque, non sussistevano i
presupposti che presiedono all'obbligo di immediata
declaratoria ex art. 129 c.p.p..
8. Deve, quindi, disporsi l'annullamento senza rinvio della
sentenza con trasmissione degli atti al P.M. presso il
Tribunale di Asti per il prosieguo (Corte di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 15.06.2016
n. 24817). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Tardiva
impugnazione, il legale deve risarcire.
Nel caso di tardiva impugnazione di una sentenza penale di
condanna, dopo la quale il soggetto anche in appello sarà
impossibilitato ad ottenere una condanna a pena minore, si
profilerà un danno, di natura non patrimoniale, attribuibile
all'avvocato che dovrà risarcire il condannato al fine di
ristorare la sofferenza patita per il protrarsi della
detenzione che tuttavia non potrà considerarsi ingiusta.
Ad affermarlo sono stati i giudici della III Sez.
civile della Corte di Cassazione con la
sentenza 15.06.2016 n. 12280.
Pertanto secondo i giudici di piazza
Cavour i criteri assunti dalla giurisprudenza penale in tema
di liquidazione del danno da ingiusta detenzione (euro
235,83 al giorno) non potranno essere acquisiti in modo
automatico in sede civile, ma necessiteranno di un
adattamento alla particolarità della situazione, che il
giudice di merito è chiamato a compiere, trattandosi di una
liquidazione in via equitativa.
E quindi il criterio economico assunto come parametro non
sarà automaticamente utilizzabile e, così, tale criterio,
pur essendo quello che, almeno in astratto, più si avvicina
al caso in esame, potrà essere assunto a parametro, ma di
una valutazione non automatica, trattandosi di una
liquidazione che deve avvenire secondo criteri equitativi.
Gli Ermellini hanno altresì richiamato un orientamento della
stessa Cassazione (Ss.uu., sentenza 09.11.2011, n. 23299)
secondo il quale: «Affinché un capo di sentenza possa
ritenersi validamente impugnato, non è sufficiente che
nell'atto di appello sia manifestata una volontà in tal
senso, ma è necessario che sia contenuta una parte
argomentativa che, contrapponendosi alla motivazione della
sentenza impugnata, con espressa e motivata censura, miri ad
incrinarne il fondamento logico-giuridico».
Inoltre, nella sentenza in commento, è stato sottolineato
come il danno non patrimoniale sia cosa diversa da quello
patrimoniale e che, perciò, l'atto della liquidazione non
comporta alcun cambiamento della natura del danno, ovvio
essendo che la liquidazione traduce comunque il pregiudizio
sofferto in un'entità economicamente valutabile.
In conclusione: la più lunga detenzione che Tizio ha subito
non è da considerarsi ingiusta, ma può esserlo solo in via
ipotetica, perché egli è stato condannato ad una pena
detentiva in primo grado, evidentemente confermata in
appello a causa della tardività dell'impugnazione proposta
dall'avvocato: sarà, dunque, una condanna del tutto
legittima alla quale ha fatto seguito una detenzione
altrettanto legittima
(articolo ItaliaOggi Sette del 18.07.2016). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI:
Requisito della ruralità fuori dai dati
catastali.
Quando la destinazione di fatto dell'immobile integra i
presupposti della destinazione agricola, indipendentemente
dalla classificazione catastale, a questi stessi immobili
deve essere riconosciuto il requisito della ruralità con le
conseguenti agevolazioni in tema di Ici e Imu.
Sono le conclusioni della Commissione tributaria provinciale
di Firenze, che si leggono nella sentenza 15.06.2016 n.
889/2/16.
La vertenza tributaria riguarda un diniego a una richiesta
di rimborso di Ici/Imu relativa agli anni d'imposta
ricompresi tra il 2009 e il 2013 che il comune di San
Casciano aveva notificato alla ricorrente. Nel caso
specifico, l'immobile sia pure censito nelle categorie
catastali A/1 e A/9, veniva utilizzato, all'interno
dell'attività agricola, ad abitazione dei dipendenti
esercenti l'attività agricola, per conto della stessa
azienda; secondo la società ricorrente, quando i fabbricati
sono destinati all'abitazione di coloro che attendono col
proprio lavoro alla manuale coltivazione della terra, o al
ricovero del bestiame o alla conservazione e prima
manipolazione dei prodotti agrari dei terreni, nonché alla
custodia di macchine e attrezzi agricoli, non possono essere
valutati separatamente dal terreno agricolo sul quale
insistono. I giudici provinciali di Firenze hanno accolto il
ricorso e disposto il rimborso fiscale.
Nella sua costituzione in giudizio, l'Agenzia del territorio
(chiamata in giudizio) faceva rilevare che la categoria
catastale in cui erano censite le unità abitative non
consentiva di riconoscerne la ruralità.
Il collegio provinciale, accogliendo il ricorso, osserva che
in merito a questa fattispecie non si può non tenere in
considerazione che, relativamente alla stessa società sulla
richiesta di ruralità del fabbricato, si è già espressa
altra sezione della Commissione, in senso favorevole al
contribuente.
Nel merito, prescindendo da qualsiasi
caratteristica oggettiva e soggettiva, indipendentemente
dalla categoria catastale assegnata agli immobili in
presenza dei requisiti di cui all'articolo 9, comma 3-bis,
del dl n. 553/93 e successive modificazioni, prescindendo da
qualsiasi caratteristica oggettiva e soggettiva essendo
stata la stessa unità immobiliare destinata, il ricorso è
stato accolto. Il Collegio ha rilevato che, comunque, il
contrasto giurisprudenziale tra le varie Commissioni
tributarie, sia provinciali che regionali. determinano
quelle condizioni straordinarie che giustificano la
compensazione delle spese.
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] La Commissione, esaminata la documentazione in
atti, sentite le parti in causa, ritiene i ricorsi riuniti
Rgr 1829/14 e Rgr 220/15 non meritevoli di accoglimento. Ai
fini della decisione della controversia, questo organo
giudicante ha preso in esame i motivi di gravame sollevati
dalla contribuente vertenti sulla carenza di motivazione del
provvedimento di diniego del requisito della ruralità emesso
dall'Agenzia delle entrate di Firenze, sul successivo
provvedimento di diniego dell'istanza di rimborso Imu/Ici
dal 2009 al 2013 e sui motivi di merito tendenti a ottenere
i requisiti della ruralità. Parti convenute, invece,
ritengono di avere legittimamente operato e contestano
puntualmente tutte le eccezioni della ricorrente.
La prima
eccezione sollevata dalla società ricorrente, di carenza di
motivazione degli atti opposti, è infondata. Infatti, il
provvedimento di diniego, prot., contiene tutti gli elementi
indispensabili quali: i riferimenti normativi (commi 3,
3-bis e 3-ter dell'art. 9 del dl n. 557 del 1993) che hanno
motivato il rigetto della richiesta di ruralità, i dati
catastali (foglio, p.lla, sub.), riferimento delle unità
immobiliari per fabbricati strumentali e tutte le altre
informazioni che hanno consentito di propone un completo e
articolato ricorso; tutto ciò, in base a costante
giurisprudenza della Cassazione non ha in alcun modo leso il
principio del diritto di difesa sancito dalla Corte
costituzionale artt. 24 e 113; di conseguenza anche la
determinazione comunale n. 119 dell'1/12/2014 e notificata
alla ricorrente il 04/12/2014, con la quale è stato disposto
il diniego dell'istanza di rimborso, appare motivata perché,
oltre a contenere tutti gli elementi che hanno consentito di
produrre ricorso, è consequenziale a un rigetto di richiesta
di ruralità dell'AdE.
Nel merito, non si può non tener conto
che sulla stessa fattispecie, concernente l'opposizione al
rigetto della richiesta di riconoscimento del requisito
della ruralità all'edificio in quanto strumentale,
riguardante la stessa società, si è già espressa la sezione
n. 5 di questa Cip in senso favorevole alla contribuente con
sentenza n. 760 del 21/04/2016, che questo collegio
giudicante condivide e fa propria. La sez. 5 ha riconosciuto
il requisito della ruralità alle unità immobiliari, in
presenza dei requisiti di cui all'art. 9, c. 3-bis, del dl
n. 557 del 1993 e successive modificazioni, prescindendo da
qualsiasi caratteristica oggettiva e soggettiva essendo
stata la stessa unità immobiliare destinata, all'interno
dell'azienda agricola, ad abitazione dei dipendenti
esercenti l'attività agricola per conto della stessa
azienda.
Pertanto, i ricorsi riuniti debbono essere accolti
con conseguente annullamento dell'avviso di accertamento
catastale prot.... emesso dall'AdE e contestuale
annullamento del diniego al rimborso Ici/Imu emesso dal
comune di [omissis]
(articolo ItaliaOggi Sette del 18.07.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rumore, il gestore deve vigilare sui clienti.
Tar Veneto. Legittimo l’obbligo previsto dal regolamento
comunale sui locali pubblici.
Il regolamento
comunale sull’inquinamento acustico può imporre ai gestori
di vigilare anche sui frequentatori che si trovino nelle
vicinanze del loro esercizio e obbligarli, ove non
provvedano, a sospendere la musica. Sanzione più soft della
riduzione dell’orario di apertura e, comunque, proporzionata
alla violazione.
Lo precisa il TAR Veneto,
Sez. III, con
sentenza
15.06.2016 n.
644.
Protagonista, il titolare di un bar sito in pieno centro
cittadino, colpito dal provvedimento comunale di
sospensione, per ben 28 giorni consecutivi, della diffusione
di musica. Misura disposta dall’ente, a seguito della
reiterata violazione delle prescrizioni imposte dal
regolamento comunale. L’uomo impugna la decisione, ma il Tar
rigetta il ricorso.
Più che dimostrate, puntualizzano i giudici, le plurime
trasgressioni della disciplina locale sulle attività
rumorose, commesse nel giro di un anno dall’apertura
dell’attività: in varie occasioni la Polizia municipale,
chiamata dai cittadini infastiditi dagli schiamazzi, aveva
riscontrato «l’effettuazione di attività musicale
amplificata in assenza di titolo».
Il ricorrente, del resto,
non aveva neppure adottato i necessari accorgimenti per il
rispetto della convivenza civile assicurando un’adeguata
sorveglianza, quantomeno per garantire il normale
svolgimento dell’attività e prevenire il disturbo provocato
dagli avventori del locale che stazionavano al suo esterno,
consumando alcolici e parlando a voce altissima. In breve, a
prescindere dalla mancanza del nulla-osta, ciò che più
giustificava la sanzione era il comportamento rumoroso dei
frequentatori del locale dell’uomo.
A nulla poteva valere la difesa del gestore, che, nell’atto
introduttivo del giudizio, aveva affermato che al momento
dell’accesso degli agenti, la musica era spenta e nel
plateatico non vi erano avventori. Dichiarazione –afferma
il Tar– non «idonea a sovvertire le risultanze dei verbali
redatti dagli organi accertatori» della Polizia municipale e
della Questura, trattandosi di atti «dotati di fede
privilegiata», i quali fanno «piena prova, fino a querela di
falso, con riguardo ai fatti attestati dal pubblico
ufficiale come avvenuti in sua presenza e conosciuti senza
alcun margine di apprezzamento».
Ciò chiarito e ribadita la legittimità del regolamento
comunale, il Tribunale ne richiama la norma specifica che
impone all’esercente di determinate attività, quali bar,
sale giochi, discoteche, trattorie e birrerie, di «vigilare
mediante proprio personale sui frequentatori del pubblico
esercizio all’interno dello stesso e nelle sue immediate
pertinenze», chiedendo all’occorrenza l’ausilio delle forze
dell’ordine. Previsione tesa a contenere gli effetti
negativi di attività potenzialmente lesive della
tranquillità pubblica e privata.
In ultimo, chiude il Tar, va rilevato come la misura della
sospensione di diffusione musicale non sia sproporzionata,
considerate le reiterate violazioni del regolamento poste in
essere dal ricorrente, costituendo, a ben vedere, sanzione
più lieve rispetto a quella che imporrebbe la riduzione
dell’orario di apertura.
I giudici ritengono ragionevole anche la durata della
sospensione comminata, calcolata in base alle ripetute
trasgressioni (articolo Il Sole 24 Ore del 14.07.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
TAR: senza aumento di superficie utile gli oneri di
urbanizzazione non sono dovuti.
Il calcolo degli oneri di urbanizzazione va correlato alle “superfici
di calpestio”, ma per queste si devono intendere quelle
“utili”.
La giurisprudenza ha da tempo
individuato il principio (recepito anche da qualche legge
regionale) secondo il quale per l'insorgenza dell'obbligo di
corresponsione degli oneri di urbanizzazione occorre che vi
sia un effettivo aggravio del carico urbanistico, dovuto
alla incidenza dell'intervento edilizio, che deve essere
considerato non nell'insieme delle superfici <di calpestio>,
ma di quelle utili, le sole in grado di comportare un
maggior incremento del carico urbanistico.
Da tale principio la richiamata pronuncia del Consiglio di
Stato trae la conclusione che il calcolo degli oneri di
urbanizzazione vada sì correlato alle “<superfici di
calpestio>, ma per queste devono intendersi quelle <utili>,
che sono costituite dalla somma delle aree di pavimento dei
singoli vani utilizzati per le attività e destinazioni
d'uso, con esclusione delle aree destinate
<ai porticati, ai pilotis, alle logge, ai
balconi, ai terrazzi, ai locali cantina, soffitte ed ai
locali sottotetto non agibili>".
---------------
... per l'annullamento della nota comunale prot. n. 33388
del 21 ottobre 2000 e allegati dai quali risulta l’obbligo
della ricorrente di provvedere al pagamento di lire
6.370.583 a titolo di saldo degli oneri concessori.
...
Con istanza in data 24.02.1995 la sig.ra Do.Ba. richiedeva
al Comune di Castiglion della Pescaia la sanatoria edilizia,
ai sensi della legge n. 724 del 1994, ai fini della
utilizzazione come locale cantina di un volume interrato,
dichiarato non utilizzabile nella originaria concessione
edilizia (scannafosso e terrapieno), sanatoria che veniva
assentita con il rilascio della concessione n. 471 del 2002
(doc. 1 del deposito comunale del 05.04.2016).
Nella domanda si specificava che la sanatoria, soggetta al
pagamento dell’oblazione e del contributo per costo di
costruzione, non era invece soggetta al pagamento al
pagamento degli oneri di urbanizzazione primaria e
secondaria (doc. 2 di parte ricorrente).
L’Amministrazione, con nota del 04.04.1997, richiedeva il
pagamento degli oneri di urbanizzazione (doc. 3 di parte
ricorrente), poi invece riconosceva, con nota del
09.06.1997, che gli stessi non erano dovuti, trattandosi di
volume interrato (doc. 5 di parte ricorrente), infine con
nota prot. n. 33388 del 21.10.2000 (doc. 1 di parte
ricorrente) ancora richiedeva il pagamento degli oneri
citati (doc. 1) e nella relazione del tecnico istruttore
specificava che solo nel caso di cantine che avessero le
esatte dimensioni di cui all’art. 16 delle NTA del PRG
comunale gli oneri di urbanizzazione non erano dovuti.
...
La censura è fondata.
A prescindere dalla specifica applicabilità al caso in esame
dell’art. 16 delle NTA comunali, con ancoraggio al solo “volume
emergente” del pagamento degli oneri di urbanizzazione,
norma che sembra invero dettata ad altri fini, il motivo di
ricorso merita egualmente accoglimento sul rilievo che “la
giurisprudenza ha da tempo individuato il principio
(recepito anche da qualche legge regionale, si veda legge
regionale Toscana n. 1/2005, art. 120) secondo il quale per
l'insorgenza dell'obbligo di corresponsione degli oneri di
urbanizzazione occorre che vi sia un effettivo aggravio del
carico urbanistico, dovuto alla incidenza dell'intervento
edilizio, che deve essere considerato non nell'insieme delle
superfici <di calpestio>, ma di quelle utili, le sole in
grado di comportare un maggior incremento del carico
urbanistico” (Cons. Stato, sez. 4^, n. 4439 del 2009);
da tale principio la richiamata pronuncia del Consiglio di
Stato trae la conclusione che il calcolo degli oneri di
urbanizzazione vada sì correlato alle “<superfici di
calpestio>, ma per queste devono intendersi quelle <utili>,
che sono costituite dalla somma delle aree di pavimento dei
singoli vani utilizzati per le attività e destinazioni
d'uso, con esclusione delle aree destinate <ai porticati, ai
pilotis, alle logge, ai balconi, ai terrazzi, ai locali
cantina, soffitte ed ai locali sottotetto non agibili>".
Ne consegue che anche nella specie, trattandosi
pacificamente di locale interrato adibito a cantina, gli
oneri di urbanizzazione non sono dovuti
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 08.06.2016 n. 948 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Appalti,
lo stop ai lavori macchia il cv dell'impresa.
Resta la «macchia» sulla «fedina» dell'impresa appaltatrice
quando il coordinatore della sicurezza rileva irregolarità
sulla sicurezza tali da sospendere i lavori: su segnalazione
dell'ente che ha messo a gara quel lotto, infatti,
l'authority di settore -ieri Avcp oggi Anac- deve dar conto
del fatto nel casellario informatico delle imprese
qualificate a svolgere lavori pubblici.
L'annotazione è un
atto dovuto senza obbligo di una particolare motivazione
perché l'impresa deve ritenersi al corrente delle proprie
inadempienze.
E quanto emerge dalla
sentenza
07.06.2016 n. 6522,
pubblicata dalla I Sez. del TAR Lazio-Roma.
VIOLAZIONE CONTESTATE.
Niente da fare per la società che sta costruendo la
cittadella della cultura nel territorio del Comune. Decisivo
il sopralluogo del coordinatore che blocca i lavori: nel
cantiere vede lavorare operai su vani scala senza parapetto
a più di due metri dal piano inferiore e accerta altre
omissioni in termini di protezione dei lavoratori; lo stop
alle operazioni scatta dunque per un «pericolo imminente».
Ecco allora che è inevitabile l'annotazione nel casellario
informatico ex articolo 27 del dpr 34/2000: la segnalazione
della stazione appaltante non ha margini discrezionali
perché è «grave» la violazione riscontrata rispetto
alle norme antinfortunistiche. E dunque non c'è bisogno di
coinvolgere l'impresa nel procedimento amministrativo: deve
invero ritenersi che l'appaltatore sia al corrente degli
illeciti che gli sono contestati dopo che gli è trasmesso il
verbale del coordinatore per la sicurezza.
BLACK LIST.
Inutile in particolare per l'impresa lamentare che non è
stato comunicato l'avvio del procedimento in base alla legge
sulla trasparenza dell'attività amministrativa, la 241/1990.
Il punto è che la segnalazione all'autorità vigilante
costituisce una provvedimento a carattere vincolato per la
stazione appaltante, il che consente di comprimere il
diritto del privato a partecipare al procedimento
amministrativo: anche se l'impresa finita sulla black
list avesse presto parte all'iter non avrebbe ottenuto
alcun vantaggio perché sono incontestati i fatti addebitati
alla società nell'ambito del verbale sottoscritto dal
coordinatore della sicurezza che ha rilevato le
irregolarità.
ELEMENTO LESIVO.
Va detto fra l'altro che non si può impugnare la
comunicazione dell'ente all'autorità con cui si segnala la
sospensione dell'attività nel cantiere: è infatti escluso
che sia un atto tale da avere natura di provvedimento, ma è
soltanto preparatorio, mentre l'unico elemento che può
essere lesivo per l'impresa è l'annotazione disposta
dall'autorità di vigilanza nel casellario informatico, di
cui all'articolo 27 del dpr 34/2000, che raccoglie tutte le
annotazioni provenienti dalle Soa e dalle stazioni
appaltanti.
Soltanto l'annotazione, dunque, può essere
impugnata e il resto del ricorso è dunque inammissibile. Non
resta che pagare le spese di giudizio
(articolo ItaliaOggi del 05.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
VARI: Revoca
patente spostata avanti. Triennio al via dal passaggio della
sentenza in giudicato. Per il Consiglio di stato non rileva
il momento in cui è stata commessa l'infrazione.
Il triennio di revoca della patente per guida in stato di
ebbrezza decorre dal passaggio in giudicato della sentenza
penale di condanna, e non dall'accertamento dell'infrazione.
Lo ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. III, con la
sentenza
06.06.2016 n. 2416.
Il Collegio ha rovesciato
l'impostazione teorica scolpita dal giudice di primo grado,
facendo presagire tempi duri per chi si mette al volante
dopo un bicchiere in più.
La controversia riguardava una donna la quale, priva di
sensi, si era schiantata contro muro, con tasso alcolemico
superiore a 1,50 grammi per litro. Nei confronti di un
fenomeno molto pericoloso e spesso tragico, come quello
della circolazione in auto sotto l'influenza dell'alcol,
Palazzo Spada ha deciso di adottare una lettura restrittiva
della normativa di settore stabilendo che non è possibile
conseguire una nuova patente di guida prima di tre anni, i
quali decorrono però dalla data di irrevocabilità della
sentenza penale.
L'intero ragionamento espresso nella sentenza, che sposta
nel tempo la possibilità di guidare nuovamente, ruota
intorno all'interpretazione dell'art. 219, comma 3-ter del
codice della strada. In tal senso il giudice d'appello
premette che «il codice della strada a volte fa riferimento
all'“accertamento” dei fatti, altre volte all'“accertamento
del reato”.
L'art. 219, nel prevedere la possibilità di ottenere
nuovamente il permesso di guida dopo l'avvenuta revoca nei
casi di guida alticcia o alterata da uso di stupefacenti, fa
riferimento “all'accertamento del reato” e non alla “data
di commissione del fatto», né alla «data di
accertamento del fatto in sede amministrativa». Poiché
l'Autorità amministrativa non può accertare reati, ciò
rientra nell'ambito delle competenze dell'Autorità
giudiziaria.
Va tenuto presente che la tematica risulta poco omogenea,
quantomeno nella giurisprudenza di primo grado. I giudici
amministrativi di Trento addirittura affidano la questione
al giudice ordinario (sentenza 24.03.2016 n. 164). Il Tar
del Veneto (sentenza 15.04.2016 n. 393) fa invece coincidere
la data di accertamento del reato con la data di
contestazione della violazione da parte dell'organo
accertatore
(articolo ItaliaOggi Sette dell'11.07.2016). |
APPALTI:
Per i
contratti pubblici di appalto relativi a lavori, servizi e
forniture, in caso di ritardo nel pagamento delle
retribuzioni o dei contributi dovuti al personale dipendente
dell'esecutore o del subappaltatore o dei soggetti titolari
di subappalti e cottimi di cui all'art. 118, comma 8, ultimo
periodo, del relativo codice, di cui al D.Lgs. 12.04.2006, n. 163, i lavoratori devono avvalersi degli speciali
strumenti di tutela previsti dal codice citato, le cui
modalità di utilizzazione sono determinate, in particolare,
dagli artt. 4 (per i contributi) e 5 (per le retribuzioni)
del D.P.R. 05.10.2010, n. 207 (recante il Regolamento di
esecuzione ed attuazione del suddetto codice).
Tale disciplina che, peraltro, consente agli interessati di
recuperare -anche in corso d'opera- quanto dovuto, è
articolata in modo tale da dimostrare che, nell'ambito degli
appalti pubblici, il legislatore attribuisce allo scorretto
comportamento tenuto dal datore di lavoro nei confronti dei
propri dipendenti un disvalore maggiorato dal fatto di
considerarlo anche lesivo degli interessi pubblici al cui
migliore perseguimento è preordinata la complessiva
disciplina regolatrice degli appalti pubblici.
Ne consegue
che alla suindicata fattispecie non è applicabile il D.Lgs.
n. 276 del 2003, art. 29, comma 2, come peraltro stabilisce
il precedente art. 1, comma 2, che esclude che il decreto
stesso sia applicabile "per le pubbliche amministrazioni e
per il loro personale" e come, di recente ha confermato dal
D.L. 28.06.2013, n. 76, art. 9, comma, (convertito dalla
L. 09.08.2013, n. 99).
Viceversa nel caso di mancata
utilizzazione da parte dei lavoratori degli strumenti
previsti dalla suindicata normativa speciale, è possibile
fare ricorso, in via residuale, alla tutela di cui all'art.
1676 cod. civ., che in base alla consolidata giurisprudenza
di questa Corte, è applicabile anche ai contratti di appalto
stipulati con le pubbliche amministrazioni.
---------------
Il primo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione
degli artt. 29 d.lgs. 276/2003, 118, sesto comma, dlgs
163/2006 e 5 d.p.r. 207/2010, per la soggezione di
Trenitalia s.p.a. al regime di responsabilità previsto dal
codice di disciplina degli appalti pubblici, è infondato.
Esso pone la questione della compatibilità tra le due
normative di disciplina della materia dell'occupazione e del
mercato del lavoro e quindi della tutela delle condizioni
dei lavoratori (d.lgs. 276/2003) e dei contratti pubblici (d.lgs.
163/2006) e dei relativi regimi di responsabilità: solidale
del committente con l'appaltatore per i trattamenti
retributivi e i contributi previdenziali da questo dovuti ai
suoi lavoratori dipendenti (art. 29, secondo comma, d.lgs.
276/2003); diretta dell'appaltatore nei confronti dei propri
dipendenti e solidale con i subappaltatori per i loro per
l'osservanza integrale del trattamento economico e normativa
stabilito dai contratti collettivi nazionale e territoriale
in vigore per il settore e la zona di esecuzione delle
prestazioni (art. 118, sesto comma d.lgs. 163/2006) e
sostitutiva del committente (stazione appaltante) in caso di
inadempienza contributiva e retributiva dell'esecutore e
dell'appaltatore (artt. 4 e 5 d.p.r. 207/2010, recante
regolamento di esecuzione ed attuazione del d.lgs. 163/2006,
codice dei contratti pubblici).
Come noto, la questione è stata risolta negativamente da un
recente arresto di questa Corte (Cass. 07.07.2014, n.
15432) in riferimento alle pubbliche amministrazioni (nel
caso di specie: ministero della giustizia). E ciò appare
chiaro fin dall'esordio della sua parte motiva, secondo cui:
"La questione centrale per il presente giudizio è
rappresentata dallo stabilire se la delineata disciplina
della responsabilità solidale tra committente e appaltatore
sia applicabile anche agli appalti pubblici e,
conseguentemente, se gli obblighi posti in capo al
committente dall'art. 29 d.lgs. 276/2003 si applichino anche
nell'ipotesi in cullo stesso sia una pubblica
amministrazione".
In esito ad un articolato procedimento argomentativo, di
individuazione delle disposizioni regolanti i rapporti tra i
soggetti coinvolti nell'appalto pubblico e l'osservanza dei
loro obblighi retributivi e contributivi ("Dall'insieme di
tali disposizioni" -essenzialmente quelle sopra citate-
"si desume che a garanzia dei crediti retributivi e
contributivi dei lavoratori impegnati negli appalti -o nei
subappalti- pubblici sono previsti specifici strumenti che,
se attivati nei tempi e nei modi prescritti, consentono agli
interessati di avere direttamente dall'amministrazione
committente il pagamento delle retribuzioni dovute dai loro
datore di lavoro anche in corso d'opera. Al contempo, con
l'attivazione di tale tutela speciale, il lavoratore può
consentire al committente di applicare le opportune sanzioni
... al datore di lavoro inadempiente ed ottenere un ristoro
pieno del proprio credito per le retribuzioni corrisposte ai
lavoratori, obiettivo raggiungibile anche "detraendo il
relativo importo dalle somme dovute all'esecutore del
contratto ovvero dalle somme dovute al subappaltatore
inadempiente nel caso in cui sia previsto il pagamento
diretto ai sensi degli art. 37, comma 11, ultimo periodo e
art. 118, comma 3, primo periodo del codice"), da cui trae
la constatazione della più rigorosa disciplina del codice
degli appalti (anche) a tutela della natura pubblica della committenza ("Da tutto ciò si desume che il mancato
pagamento delle retribuzioni nell'ambito di un appalto
pubblico è, dal legislatore, considerato più grave del
mancato pagamento delle retribuzioni nell'ambito di un
appalto privato, perché la questione non riguarda solo i
lavoratori, ma anche l'appaltatore inadempiente, nel suo
rapporto con il committente pubblico"), la Corte, previsto in
via sussidiaria il ricorso dei lavoratori alla tutela
stabilita dall'art. 1676 c.c. ("che in base ad orientamenti
consolidati e condivisi di questa Corte, è applicabile anche
ai contratti di appalto stipulati con le pubbliche
amministrazioni"), risolve la questione nel senso detto, di
inapplicabilità della responsabilità prevista dall'art. 29,
secondo comma dlgs. 276/2003 alle pubbliche amministrazioni
con l'affermazione del seguente principio di diritto: "per i
contratti pubblici di appalto relativi a lavori, servizi e
forniture, in caso di ritardo nel pagamento delle
retribuzioni o dei contributi dovuti al personale dipendente
dell'esecutore o del subappaltatore o dei soggetti titolari
di subappalti e cottimi di cui all'art. 118, comma 8, ultimo
periodo, del relativo codice, di cui al D.Lgs. 12.04.2006, n. 163, i lavoratori devono avvalersi degli speciali
strumenti di tutela previsti dal codice citato, le cui
modalità di utilizzazione sono determinate, in particolare,
dagli artt. 4 (per i contributi) e 5 (per le retribuzioni)
del D.P.R. 05.10.2010, n. 207 (recante il Regolamento di
esecuzione ed attuazione del suddetto codice).
Tale disciplina che, peraltro, consente agli interessati di
recuperare -anche in corso d'opera- quanto dovuto, è
articolata in modo tale da dimostrare che, nell'ambito degli
appalti pubblici, il legislatore attribuisce allo scorretto
comportamento tenuto dal datore di lavoro nei confronti dei
propri dipendenti un disvalore maggiorato dal fatto di
considerarlo anche lesivo degli interessi pubblici al cui
migliore perseguimento è preordinata la complessiva
disciplina regolatrice degli appalti pubblici.
Ne consegue
che alla suindicata fattispecie non è applicabile il D.Lgs.
n. 276 del 2003, art. 29, comma 2, come peraltro stabilisce
il precedente art. 1, comma 2, che esclude che il decreto
stesso sia applicabile "per le pubbliche amministrazioni e
per il loro personale" e come, di recente ha confermato dal
D.L. 28.06.2013, n. 76, art. 9, comma, (convertito dalla
L. 09.08.2013, n. 99).
Viceversa nel caso di mancata
utilizzazione da parte dei lavoratori degli strumenti
previsti dalla suindicata normativa speciale, è possibile
fare ricorso, in via residuale, alla tutela di cui all'art.
1676 cod. civ., che in base alla consolidata giurisprudenza
di questa Corte, è applicabile anche ai contratti di appalto
stipulati con le pubbliche amministrazioni".
E ciò si spiega per l'espresso divieto di applicazione del
dlgs. 276/2003 alle pubbliche amministrazioni, a norma del
suo art. 1, secondo comma ("Il presente decreto non trova
applicazione per le pubbliche amministrazioni e per il loro
personale"), ulteriormente ribadito da quello più specifico
introdotto dall'art. 9, primo comma, dl. 76/2013 conv. con
mod. in l. 99/2013 (inapplicabile ratione temporis, ma
utilizzabile in via interpretativa, come anche ritenuto da
Cass. 07.07.2014, n. 15432), secondo cui: "Le
disposizioni di cui all'articolo 29, comma 2, del decreto
legislativo 10.09.2003, n. 276 e successive
modificazioni ... non trovano applicazione in relazione ai
contratti di appalto stipulati dalle pubbliche
amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto
legislativo 30.03.2001, n. 165" (secondo cui; "Per
amministrazioni pubbliche si intendono tutte le
amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e
scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le
aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento
autonomo, le Regioni, le Province, i Comuni, le Comunità
montane e loro consorzi e associazioni, le istituzioni
universitarie, gli Istituti autonomi case popolari, le
Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e
loro associazioni, tutti gli enti pubblici non economici
nazionali, regionali e locali, le amministrazioni, le
aziende e gli enti del Servizio sanitario nazionale").
Ma un analogo divieto di applicazione dell'art. 29, secondo
comma, d.lgs. 276/2003 non esiste nei confronti dei soggetti
privati, quale Trenitalia s.p.a., cui pure si applica il
codice dei contratti pubblici, nella sua qualità di "ente
aggiudicatore", secondo la definizione dell'art. 3,
ventinovesimo comma d.lgs. 163/2006 (nel campo dei servizi
ferroviari in base all'allegato VI D ed ai fini
dell'applicazione della parte III, artt. 206 ss., secondo la
previsione dell'art. 3, trentesimo comma, d.lgs. cit.) e quindi
anche l'art. 118, sesto comma, neppure essendo la norma in
esame stata abrogata dall'art. 256 dlgs. cit.
Giova poi
ancora sottolineare come il codice dei contratti pubblici
non contenga una disciplina di legge autosufficiente, in sé
esaustiva né aliunde integrabile: al contrario, esso è
compatibile con disposizioni ad esso esterne, come
chiaramente denunciato dal rinvio, per quanto in esso non
espressamente previsto in riferimento all'attività
contrattuale, alle disposizioni stabilite dal codice civile
(art. 2, quarto comma, 163/2006).
E proprio in virtù di un
tale rimando, nei confronti delle pubbliche amministrazioni,
cui è preclusa per espresso divieto di legge l'integrazione
con il d.lgs. 276/2003, si è ritenuto applicabile il regime
di garanzia dei lavoratori (più in generale degli ausiliari)
dell'appaltatore previsto dall'art. 1676 c.c. (ancora da
Cass. 07.07.2014, n. 15432).
Sicché, ben a ragione si deve ritenere applicabile il regime
di responsabilità solidale stabilito dall'art. 29, secondo
comma d.lgs. 276/2003 a quei soggetti privati, quale
Trenitalia s.p.a., anche qualora committenti in appalti
pubblici, alla cui disciplina pure siano soggetti.
Ed infatti, nessuna incompatibilità è ravvisabile tra le due
discipline.
Il dlgs 276/2003 regola la materia dell'occupazione e del
mercato del lavoro, sul piano della tutela delle condizioni
dei lavoratori, con riserva di una più forte protezione ad
essi, titolari di un'azione diretta nei confronti (in via
solidale con il proprio datore di lavoro) del committente
per ottenere i trattamenti retributivi e i contributi
previdenziali dovuti in dipendenza dell'appalto e non
soltanto, come a norma dell'art. 5, primo comma, d.p.r.
207/2010, le retribuzioni arretrate (peraltro nei limiti
delle somme dovute all'esecutore del contratto ovvero al
subappaltatore inadempiente nel caso in cui sia previsto il
pagamento diretto, con detrazione da queste del loro
importo): e ciò non per riconoscimento di un proprio
diritto, ma per esercizio di una facoltà ("possono pagare
anche in corso d'opera") attribuita ai soggetti indicati
dall'art. 3, primo comma, lett. b), D.P.R. cit.
("amministrazioni aggiudicatrici, organismi di diritto
pubblico, enti aggiudicatori, altri soggetti aggiudicatori,
soggetti aggiudicatori e stazioni appaltanti: i soggetti
indicati rispettivamente dall'art. 3, commi 25, 26, 29, 31,
32 e 33, del codice").
Il d.lgs. 163/2006 opera, invece, sul diverso piano della
disciplina degli appalti pubblici, anche apprestando una
tutela ai lavoratori, nei limiti detti, in corso d'opera, ma
con più intensa concentrazione sull'esecuzione dell'appalto
in conformità a tutti gli obblighi previsti dalla legge: e
ciò mediante un costante monitoraggio dell'osservanza del
loro regolare adempimento a cura dell'appaltatore e dei suoi
subappaltatori, per effetto di una disciplina sintomatica di
una più preoccupata attenzione legislativa alla corretta
esecuzione dell'appalto pubblico, siccome non riguardante
soltanto diritti dei lavoratori, ma anche l'appaltatore
inadempiente nel suo rapporto con il committente pubblico
(come osservato anche da Cass. 07.07.2014, n. 15432).
Dalle superiori argomentazioni discende allora coerente la
possibilità di un concorso, nei confronti di un imprenditore
soggetto di diritto privato come Trenitalia s.p.a., delle
due discipline, in assenza di un espresso divieto di legge e
tra loro, per le ragioni dette, ben compatibili (Corte di
Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza
24.05.2016 n. 10731). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le fioriere si rimuovono senza nullaosta del Comune.
Tar Lazio. Niente sanzioni quando si tratta di lavori di
«edilizia libera».
Non è legittimo il comportamento del Comune che irroga una
sanzione amministrativa al condominio che ha fatto rimuovere
le fioriere posizionate lungo il prospetto dell’edificio
senza effettuare la segnalazione di inizio attività
all’amministrazione.
Lo afferma la
sentenza 24.05.2016 n. 6098, pubblicata dalla
Sez. II-quater del TAR Lazio-Roma.
La vicenda
La vicenda prende le mosse da un condominio che decideva di
rimuovere delle fioriere che si sviluppavano per diversi
metri lungo la facciata del caseggiato. Tale modifica veniva
ritenuta illecita dal Comune che, con determinazione
dirigenziale, irrogava una pesante sanzione pecuniaria alla
collettività condominiale, in quanto mancava il titolo
abilitativo (Scia) per svolgere le opere.
Sono infatti soggetti a Scia le manutenzioni straordinarie
con interessamento delle parti strutturali, i restauri e
risanamenti conservativi, le ristrutturazioni edilizie
“leggere”, comprese anche le demolizioni e ricostruzioni
senza rispetto della precedente sagoma dell’edificio, purché
non si modifichino le volumetrie originarie o i prospetti.
La replica
I condomini, però, erano convinti che per la rimozione fosse
sufficiente una semplice comunicazione di inizio lavori con
asseverazione tecnica (allegata) redatta da un tecnico, che
confermasse l’assenza di modifiche alle parti strutturali
del caseggiato, nonché attestasse la conformità delle opere
previste alle prescrizioni edilizio-urbanistiche di leggi e
norme comunali.
I giudici del tribunale amministrativo laziale hanno dato
ragione al condominio, affermando che l’intervento
(rimozione delle fioriere) deve qualificarsi come
manutenzione straordinaria che non riguarda parti
strutturali dell’edificio, quindi assoggettata al regime
dell’edilizia libera previa presentazione di una
comunicazione di inizio lavori asseverata.
In altre parole, secondo il Tar, la rimozione in questione
rientra certamente nell’ambito dell’attività di edilizia
libera che non richiede da parte di chi la realizza
l’ottenimento di particolari titoli abilitativi e può essere
iniziata dalla data di presentazione della comunicazione da
consegnare al Comune unitamente ad una relazione asseverata
di un tecnico abilitato, disegni di progetto (prima, dopo e
durante i lavori).
È quindi il tecnico a caricarsi della responsabilità di
dichiarare se i lavori possono essere realizzati solo con
una semplice comunicazione.
In ogni caso va ricordato che si può usufruire di questo
strumento semplificato solo se vengono rispettate le
normative antisismiche, energetiche, antincendio, igienico
sanitarie, ed altre prescrizioni degli strumenti urbanistici
comunali (piano regolatore e regolamento edilizio) (articolo Il Sole 24 Ore del 12.07.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Abusi
sulla spiaggia risolti con ordinanza del sindaco.
Chi occupa abusivamente la duna può incorrere in un
controllo dei vigili e nella conseguente ordinanza di
ripristino comunale. Oltre alle normali sanzioni previste
dalla disciplina edilizia e marittima.
Lo ha chiarito il TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, con la
sentenza
24.05.2016 n. 2638.
Un cittadino ha acquistato una
villetta sul mare con tanto di vialetto abusivo e connesse
installazioni sulla duna demaniale. A seguito del
sopralluogo della polizia municipale il comune ha adottato
una ordinanza di ripristino contro il quale l'interessato ha
proposto senza successo censure al collegio.
L'installazione
sullo spazio demaniale protetto, senza alcun titolo, di una
piscina con tanto di vialetto servito lateralmente da
lampioncini elettrici e tubo di irrigazione, contrasta
certamente con la normativa ambientale. A nulla rileva se
l'installazione è precedente all'acquisto. E il comune in
materia ha una competenza concorrente con l'autorità
marittima
(articolo ItaliaOggi Sette dell'11.07.2016).
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MASSIMA
Il ricorso deve essere respinto in quanto infondato.
Dal verbale redatto dagli agenti della Polizia Municipale di
Sessa Aurunca nel luglio 2011 risulta, infatti, che sullo
spazio antistante la proprietà della ricorrente sono stati
installati 70 piante frangivento, una piscina gonfiabile e
un gioco jumping (molla elastica), e realizzato un vialetto
di circa 50 metri, servito lateralmente da lampioncini
elettrici, con un tubo in pvc interrato per l'irrigazione
delle piante, il tutto collegato all'impianto idrico della
villa di proprietà della ricorrente.
Il Comune, rilevata l’abusività delle opere, insistenti su
suolo demaniale, ha ordinato la rimozione delle stesse e il
ripristino dello stato dei luoghi.
Con la prima censura la ricorrente ha dedotto di essere
estranea all’abuso, in quanto le opere preesistevano
rispetto all’epoca in cui aveva acquistato la villa ed erano
state apposte su suolo di proprietà del demanio marittimo.
Al riguardo deve evidenziarsi, in primo luogo, che non
assume rilievo l’eventuale realizzazione delle opere in
epoca antecedente all’acquisto dell’immobile adiacente da
parte della ricorrente, emergendo con chiarezza, dalla
documentazione agli atti, che la stessa ne aveva l’utilizzo
e la disponibilità al momento del sopralluogo effettuato,
dalle cui risultanze sono scaturiti i provvedimenti in
questa sede impugnati.
Con riferimento alla contestazione della responsabilità, in
capo alla ricorrente, dell’abuso, deve infatti osservarsi
che,
fermo restando, in linea generale, l'obbligo di emanare
le ordinanze di demolizione di opera edilizia abusiva nei
confronti del proprietario attuale indipendentemente
dall'essere o meno responsabile delle opere abusive
(Consiglio di Stato sez. V 10.07.2003, n. 4107; TAR
Puglia Bari sez. II, 28.02.2012, n. 450; TAR Lazio-Roma sez. I-quater, 26.03.2012, n. 2830),
detto ordine
deve comunque essere rivolto anche nei confronti di chi
utilizzi o abbia la disponibilità dell'opera abusiva quale
soggetto in grado di porre fine alla situazione
antigiuridica
(TAR Liguria, sez. I, 30.04.2015, n.
430; Consiglio di Stato sez. VI 30.03.2015 n. 1650;
TAR Toscana sez. III, 15.05.2013, n. 801; Consiglio
di Stato sez. IV, 16.07.2007, n. 4008; TAR Lazio-Roma sez. I-quater, 26.03.2012, n. 2830)
indipendentemente dal coinvolgimento o meno nella
realizzazione dell'abuso, in considerazione del carattere ripristinatorio della disposta demolizione
(ex multis TAR
Puglia-Bari sez. III, 10.05.2013, n. 710).
Le citate norme sanzionatorie si riferiscono, infatti, non
all’“autore”, ma al “responsabile” dell'abuso, quest'ultimo
inteso come esecutore materiale, ma anche come proprietario
o come soggetto che abbia la disponibilità del bene, al
momento dell'emissione della misura repressiva.
Ciò vale anche nelle ipotesi, quali quella in esame,
di
opere realizzate senza titolo abilitativo su area demaniale,
dovendo i provvedimenti repressivi adottati
dall'Amministrazione essere rivolti nei confronti di chi
abbia in concreto una relazione giuridica o anche materiale
con il bene
(TAR Umbria, sez. I, 29/01/2014 n. 66;
Consiglio di Stato sez. IV, 16.07.2007, n. 4008) quindi
anche nei confronti dell'odierna ricorrente.
Orbene, nel caso di specie il collegamento delle opere
insistenti sull’area demaniale all’impianto idrico
dell’immobile di proprietà della ricorrente comprova senza
possibilità di dubbio il collegamento delle stesse a tale
unità immobiliare ed il loro utilizzo come strutture
accessorie della villa, di tal che l’effettivo possessore ed
utilizzatore delle opere va individuato nel proprietario del
bene cui accedono, che non può certo dirsi estraneo
all’abuso.
Il primo motivo va quindi respinto.
Va quindi esaminata la seconda censura, relativa alla
violazione dell'art. 54 del Codice della Navigazione che,
nel caso di occupazione abusiva di zone del demanio
marittimo, prevede la competenza del capo del compartimento
con riferimento agli ordini di rimessione in pristino, con
conseguente incompetenza dell'ente Comune.
Al riguardo si osserva che
il Testo Unico dell’edilizia
prevede una concorrente competenza del Comune in materia di
repressione di interventi abusivi su suolo demaniale: in
particolare, l'art. 35 DPR 380/2001 dispone che qualora sia
accertata la realizzazione di interventi in assenza di
titolo abilitativo su suoli del demanio o del patrimonio
dello Stato o di enti pubblici "il dirigente o il
responsabile dell'ufficio, previa diffida non rinnovabile,
ordina al responsabile dell'abuso la demolizione ed il
ripristino dello stato dei luoghi, dandone comunicazione
all'ente proprietario del suolo".
Tale potere, per giurisprudenza costante, concorre ma è
comunque distinto rispetto a quello spettante all'Autorità
marittima ai sensi dell'art. 54 Cod. Nav., approvato con
r.d. 30.03.1942 n. 327
(TAR Napoli, sez. III, 16.01.2012 n. 195; TAR Latina, sez. I, 23.09.2009, n. 834).
Non è, quindi, ravvisabile alcuna incompetenza del Dirigente
comunale in materia, con conseguente infondatezza anche di
tale censura. |
ATTI AMMINISTRATIVI - PATRIMONIO:
L'azione civile va a braccetto con l'ordinanza.
Decisione del Tar Marche sui poteri del
comune ai fini del rilascio di immobili.
Se anche il Comune ha avviato un'azione in sede civile per
ottenere il rilascio di un immobile di sua proprietà, ciò
non gli preclude in assoluto la possibilità di utilizzare
anche gli strumenti pubblicistici di cui dispone, a
condizione, ovviamente, che sussistano i presupposti per
l'adozione di un provvedimento contingibile e urgente.
È quanto ribadito dai giudici della I Sez. del TAR per le
Marche con la
sentenza 21.05.2016 n.
327.
È stato poi evidenziato che il sindaco è indiscutibilmente
titolare del potere di disporre lo sgombero coattivo di
edifici che minaccino la rovina (e ciò a salvaguardia sia di
coloro che abitano in quegli edifici sia della pubblica
incolumità), e come ovvio, di caso in caso, è opportuno
verificare se sussistano i meno i presupposti di legge per
l'adozione dell'atto.
Secondo i giudici amministrativi di Ancona, è, altresì, vero
che in talune circostanze l'utilizzo delle prerogative
pubblicistiche in pendenza di una lite civile (o anche di
trattative per l'acquisto di un bene privato) può far
insorgere il sospetto di uno sviamento di potere, ma, viene
evidenziato, che l'eccesso di potere sussiste solo nel caso
in cui venga accertata la mancanza delle condizioni per
l'esercizio dei poteri d'imperio.
Nella sentenza in commento è stato anche offerto un esempio
dai giudici al fine di chiarire il concetto: se anche la
pubblica amministrazione avesse in corso con un soggetto
privato delle trattative per l'acquisto di un immobile da
adibire a sede dei propri uffici, ciò non renderebbe ex se
illegittimo un provvedimento che, in presenza di una
situazione di emergenza sopravvenuta, disponesse la
requisizione temporanea o l'espropriazione del medesimo bene
(ad esempio, per un terremoto o un'inondazione in
conseguenza dei quali sorgesse la necessità di disporre di
edifici sicuri dove ospitare gli sfollati).
Inoltre, per espresse disposizioni di legge (si veda, ad
esempio, l'art. 823 c.c.), la pubblica amministrazione, al
fine di preservare le proprie ragioni con riguardo ai beni
demaniali e patrimoniali di cui è proprietaria, dispone sia
dei rimedi civilistici (azione di rivendicazione, azione di
nuova opera e di danno temuto, azione di rilascio per finita
locazione ecc.) sia di quelli pubblicistici
(articolo ItaliaOggi Sette dell'11.07.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Cause,
no Pec? Allora telefax. Senza rituale comunicazione rinvio a
nuovo ruolo. Lo hanno ribadito i giudici della Cassazione
con un'ordinanza interlocutoria.
Qualora dovesse mancare un recapito di posta certificata
tutte le comunicazioni dovranno essere trasmesse a mezzo
telefax e nel caso in cui manchi una rituale comunicazione
dell'avviso di udienza bisognerà rinviare la causa a nuovo
ruolo.
A ribadirlo sono stati i giudici della VI Sez. civile - 2
della Corte di Cassazione con
ordinanza interlocutoria 02.05.2016 n. 8623.
Ai sensi dell'art. 366, comma 2 del c.p.c., «se il
ricorrente non ha eletto domicilio a Roma ovvero non ha
indicato l'indirizzo di posta elettronica certificata
comunicato al proprio ordine, le notificazioni gli sono
fatte presso la Cancelleria della Corte di cassazione».
Nel
caso in esame Tizio, parte ricorrente, nel proporre ricorso,
non aveva eletto domicilio in Roma e il difensore aveva
dichiarato di voler ricevere ogni comunicazione e/o
notificazione ex art. 366 c.p.c. alla utenza telefax e
all'indirizzo Pec. L'avviso di udienza veniva notificato
presso la Cancelleria della Corte e veniva effettuata la
comunicazione a mezzo Pec, priva, peraltro, di valore
legale. Si precisava, inoltre, che la comunicazione a mezzo
telefax era stata tentata due volte dalla Cancelleria, ma
non era andata a buon fine.
Ai sensi, poi, dell'art. 136, al comma secondo, c.p.c. è
stato ribadito che «il biglietto è consegnato dal
cancelliere al destinatario, che ne rilascia ricevuta,
ovvero a mezzo posta elettronica certificata, nel rispetto
della normativa, anche regolamentare, concernente la
sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti
informatici» e al comma terzo stabilisce che «salvo che la
legge disponga diversamente, se non è possibile procedere ai
sensi del comma che precede, il biglietto viene trasmesso a
mezzo telefax, o è rimesso all'ufficiale giudiziario per la
notificazione».
E pertanto, escluso che l'avviso di udienza potesse essere
comunicato alle parti a mezzo posta elettronica certificata,
essendo tale modalità di comunicazione divenuta operante,
nel giudizio di cassazione, a far data dal 15.02.2016, deve ritenersi che, nella specie, la comunicazione
dovesse avvenire a mezzo fax, ai sensi dell'art. 136, terzo
comma, cod. proc. civ., richiamato dall'art. 366, quarto
comma, per le comunicazioni di cancelleria.
Nel caso sottoposto all'attenzione degli Ermellini non c'era
stata una rituale comunicazione dell'avviso di udienza e
ciò, secondo i giudici della Cassazione, comporta la
necessità di rinviare la causa a nuovo ruolo
(articolo ItaliaOggi Sette dell'11.07.2016). |
INCARICHI PROFESSIONALI: La
Pec in tilt non salva la notifica. Non c’è rimessione in
termini se il malfunzionamento dipende dall’avvocato.
Tribunale di Milano. Respinto il reclamo su una fissazione
d’udienza vista oltre il tempo massimo.
Nessuna rimessione in termini per l’avvocato che,
dimenticando di svuotare il cestino della casella di posta
elettronica certificata, non abbia preso visione in tempo
utile – facendolo decorrere – del termine indicato nel
decreto di fissazione di udienza per notificare il
provvedimento alla controparte. L’uso non diligente
dell’account professionale, del resto, è ascrivibile
unicamente alla sfera di organizzazione dello studio legale.
Lo sottolinea il
TRIBUNALE di Milano, in composizione collegiale, con ordinanza
20.04.2016.
Accende la questione la richiesta di un legale di essere
rimesso nei termini per notificare a controparte il decreto
di fissazione di udienza con annesso ricorso, promosso
nell’interesse degli assistiti. Del provvedimento, rileva
l'avvocato, era venuto a conoscenza –non avendo ricevuto
alcuna comunicazione da parte della cancelleria del
menzionato decreto con apposito messaggio a mezzo pec– una
volta decorso l’ultimo giorno utile per la notifica
dell’atto e solo all’esito di un controllo effettuato
tramite il software “Consolle Avvocato”.
Istanza respinta dal Collegio milanese: del decreto, come
confermato dall’attestazione telematica relativa ai dati
desunti dal registro di cancelleria, il legale non era
venuto a conoscenza in tempo utile, è vero, ma ciò, marca il
Tribunale, era conseguenza esclusiva di una negligente
gestione della casella di posta. Gli uffici, infatti,
avevano regolarmente eseguito la comunicazione nei confronti
del legale, ottenendo dal gestore di pec del destinatario
una ricevuta di mancata consegna recante la causale “casella
piena”.
Mancata visione dell’atto imputabile, pertanto, al
professionista, il quale, se solo avesse controllato con la
necessaria periodicità la capienza residua della propria
casella di posta certificata, scaricando o cancellando i
messaggi che ne rendevano satura la memoria, sarebbe
senz’altro venuto a conoscenza dei termini fissati dal
giudice per provvedere a notificare a controparte il decreto
di fissazione d’udienza.
Né, d'altro canto –precisa il Tribunale– «in ipotesi
siffatte può fondatamente affermarsi l’onere della
cancelleria di effettuare la relativa comunicazione a mezzo
fax» posto che, ex articolo 16 del Dl 179/2012, la
comunicazione o notificazione via pec «impossibile per cause
imputabili al destinatario, si ha per effettuata mediante
deposito in cancelleria, essendo questa tenuta ad ovviare
con l’uso di mezzi alternativi» (invio di telefax o inoltro
tramite ufficiale giudiziario) soltanto quando
l’impossibilità di comunicare con il destinatario «non
dipenda da causa imputabile allo stesso». Ed è previsto per
legge, che nei procedimenti civili le comunicazioni e le
notificazioni a cura della cancelleria debbano effettuarsi
«esclusivamente per via telematica» all’indirizzo risultante
da elenchi pubblici o comunque accessibili alle pubbliche
amministrazioni.
Ebbene, nel caso concreto, la mancata ricezione e presa
visione del decreto di fissazione dell’udienza collegiale e
del termine per notificare alle controparti decreto e
reclamo deve ritenersi senza alcun dubbio «ascrivibile alla
sfera di organizzazione del legale» che non ha fatto
«diligente uso del proprio account di pec». Di qui, il
rigetto dell’istanza di rimessione nei termini per
notificare (articolo Il Sole 24 Ore del 21.07.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Lavori
consolidamento con aliquota ordinaria.
Ai lavori di consolidamento che non siano, quindi opere di
urbanizzazione primaria, deve essere applicata l'aliquota
Iva ordinaria del 22%; le sanzioni, tuttavia, in
considerazione delle condizioni di obiettiva incertezza
sulla portata e sull'ambito di applicazione delle
disposizioni dell'aliquota agevolata del 10% non sono
dovute.
Lo hanno stabilito i giudici della Sez. XXXVIII della Ctr
Lazio nella
sentenza 05.04.2016 n.
1790/38/2016.
La vertenza riguarda l'aliquota Iva a cui assoggettare le
opere di primaria urbanizzazione eseguite dalla società
ricorrente al comune di Roma. La società si era aggiudicata
un appalto con cui si dovevano consolidare la banchina e il
canale di Ostia con la messa in sicurezza del doppio senso
di marcia.
Ritenendo che i lavori potessero rientrare nelle
agevolazioni previste dalla norma ai sensi del n.
127-quinquies e del n. 127-septies della Tabella A, Parte III, allegata al dpr 633/1972, le opere venivano fatturate
all'aliquota agevolata del 10%.
La Commissione provinciale
di Roma riteneva che le opere, poiché non di nuova
realizzazione, ma, bensì, di mero consolidamento, dovessero
essere assoggettate ad aliquota ordinaria. Tuttavia i primi
giudici accoglievano il ricorso limitatamente alle sanzioni.
Contro questa prima decisione ricorreva sia
l'amministrazione finanziaria che la società. I giudici
regionali capitolini hanno confermato la decisione di
annullamento delle sole sanzioni.
L'Agenzia delle entrate, con la risoluzione n. 41/E del
20.3.2006, ha fornito chiarimenti in merito a quali siano le
opere di urbanizzazione primaria e secondaria che possono
usufruire del regime Iva agevolato (10%), ai sensi del n.
127-quinquies e del n. 127-septies della Tabella A, Parte
III, allegata al dpr 633/1972.
L'Agenzia precisa in
particolare che sono soggette al regime agevolato solo la
cessione o la costruzione in appalto delle opere di
urbanizzazione primaria e secondaria tassativamente elencate
nell'art. 4 della legge 847/1964, successivamente integrato
dall'art. 44 della legge 865/1971.
Tuttavia, nel caso
specifico il collegio regionale ha ritenuto non applicabili
le sanzioni. Questo, nella considerazione delle condizioni
di obiettiva incertezza sulla portata e sull'ambito di
applicazione delle agevolazioni spettanti alle opere di
primaria e secondaria urbanizzazione, a cui potevano essere
imputate, prima facie, e in assenza di indicazioni
fuorvianti indicate dal comune committente e contenute nella
determina di spesa. In conclusione il Collegio, considerata
la reciproca soccombenza, ha compensato le spese.
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] La Ctp adita accoglieva il ricorso, limitatamente
all'ammontare delle sanzioni, ritenendo non applicabili le
stesse, per le obiettive condizioni di incertezza sulla
portata e sull'ambito di applicazione delle disposizioni
alle quali le sanzioni si riferiscono. Avverso la sentenza
propone appello principale l'Ufficio, per quanto di
soccombenza, lamentandone l'erroneità in fatto e in diritto
[omissis]
Con proprie controdeduzioni e appello incidentale, la
società insiste sulla correttezza del proprio operato con
riguardo al merito della pretesa impositiva e chiede il
rigetto del proposto appello principale, in quanto la
sentenza si appalesa immune dalle lamentate censure.
[omissis] La Commissione, preso atto di quanto dedotto e
prodotto dalle parti, ritiene di respingere il proposto
appello principale e di respingere il proposto appello
incidentale, ravvisando meritevole di conferma l'impugnata
sentenza.
Osserva infatti che i primi giudici, del tutto condivisibilmente, sul merito della pretesa impositiva hanno
ritenuto di accogliere le ragioni dell'Ufficio, nel
presupposto che lavori commissionati nel caso di specie e
consistenti nel consolidamento della Banchina dei Pescatori
in Ostia e nella messa in sicurezza e riapertura della via
dei Pescatori, non consistevano nella realizzazione di
un'opera ex novo, come invece avrebbe dovuto essere, ai fini
della corretta applicazione dell'aliquota agevolata di cui
alla Tabella «A» n. 1271-quinquies, allegata al dpr Iva, ma
consistevano in lavori di intervento su opere preesistenti.
Mentre, sul punto dell'applicazione delle sanzioni di cui
all'Atto di contestazione impugnato, gli stessi primi
giudici, del tutto condivisibilmente, hanno ritenuto le
stesse non applicabili, in considerazione delle condizioni
di obiettiva incertezza sulla portata e sull'ambito di
applicazione delle disposizioni richiamate, atteso che
l'aliquota Iva al 10% di cui alla Tabella «A» n.
127-quinquies, allegata al dpr Iva, in quanto riferita a
opere di urbanizzazione primaria e secondaria come previste
dalla legge 847/1964, poteva riferirsi, prima facie, anche ai
lavori commissionati nel caso di specie, e consistenti nel
consolidamento della Banchina dei Pescatori in Ostia e nella
messa in sicurezza e riapertura della via dei Pescatori, pur
non trattandosi della realizzazione di un'opera ex novo,
come invece avrebbe dovuto essere, per la corretta
applicazione dell'aliquota agevolata; a tacere poi delle
indicazioni fuorvianti date dal Comune committente e
contenute nella determina di spesa n. 170/05. Le spese di
giudizio si compensano tra le parti, in considerazione della
materia trattata e della reciproca soccombenza.
P.Q.M. Rigetta l'appello principale, rigetta l'appello
incidentale e conferma il primo grado. Spese compensate
(articolo ItaliaOggi Sette del 18.07.2016). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI:
Consegna del certificato di abitabilità all'acquirente
dell'immobile: è una condotta ricompresa tra le obbligazioni
del venditore ai sensi dell'art. 1477 cod. civ..
La consegna del certificato di
abitabilità dell'immobile oggetto del contratto, ove questo
sia un appartamento da adibire ad abitazione, pur non
costituendo di per sé condizione di validità della
compravendita, integra un'obbligazione incombente sul
venditore ai sensi dell'art. 1477 c.c., attenendo ad un
requisito essenziale della cosa venduta, in quanto incide
sulla possibilità di adibire legittimamente la stessa
all'uso contrattualmente previsto.
Il venditore-costruttore ha dunque l'obbligo di consegnare
all'acquirente dell'immobile il certificato, curandone la
richiesta e sostenendo le spese necessarie al rilascio, e
l'inadempimento di questa obbligazione è ex se foriero di
danno emergente, perché costringe l'acquirente a provvedere
in proprio, ovvero a ritenere l'immobile tal quale, cioè con
un valore di scambio inferiore a quello che esso
diversamente avrebbe, a prescindere dalla circostanza che il
bene sia alienato o comunque destinato all'alienazione a
terzi.
---------------
La pronunzia mette a fuoco il tema specifico del rifiuto da
parte del promissario acquirente di addivenire alla
stipulazione del contratto traslativo di compravendita in
difetto della consegna, da parte del promittente alienante,
del certificato di agibilità.
Si tratta invero di una situazione non infrequente, in parte
anche riconducibile all'inerzia degli uffici comunali ed
alle incertezze conseguenti al fatto che l'abitabilità
scaturisce anche semplicemente per effetto del
perfezionamento del procedimento che culmina con il
silenzio-assenso.
Nel caso concreto non era in questione l'aspetto costituito
dalla mancanza o meno dei requisiti affinché l'immobile
potesse essere dichiarato abitabile. Giova rilevare come, in
quest'ultimo caso, si possa giungere a configurare la
radicale ipotesi di aliud pro alio (in relazione
all'eventuale perfezionamento di atto traslativo della
proprietà) (commento tratto da www.e-glossa.it - Corte di
Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 08.02.2016 n. 2438).
---------------
MASSIMA
1.1. - Il ricorso principale è fondato.
1.2. - Con il primo motivo è dedotta violazione e falsa
applicazione degli artt. 1453-1460, 1477, terzo comma, 1490,
primo e secondo comma, 2932 cod. civ., nonché vizio di
motivazione.
I ricorrenti si dolgono che la Corte d'appello abbia
ritenuto ingiustificato il loro rifiuto di stipulare il
contratto definitivo a fronte della mancata consegna del
certificato di agibilità dell'immobile oggetto del
trasferimento.
La consegna del certificato costituiva prestazione
essenziale del promittente venditore, con la conseguenza che
erano privi di significato i rilievi della Corte d'appello
in ordine alla mancanza assunzione di uno specifico impegno
in tal senso da parte del promittente venditore, e alla
mancata deduzione, da parte dei promissari acquirenti,
dell'impossibilità di ottenere il certificato.
1.3 - La doglianza è fondata.
1.3.1. - L'obbligo di consegnare il
certificato di agibilità grava ex lege sul venditore,
in base all'art. 1477, terzo comma, cod. civ., e a ciò
consegue che il rifiuto del promissario acquirente di
stipulare la compravendita definitiva di un immobile privo
dei certificati di abitabilità o di agibilità e di
conformità alla concessione edilizia, pur se il mancato
rilascio dipende da inerzia del Comune -nei cui confronti
peraltro è obbligato ad attivarsi il promittente venditore-
è giustificato, poiché l'acquirente ha interesse ad ottenere
la proprietà di un immobile idoneo ad assolvere la funzione
economico- sociale e a soddisfare i bisogni che inducono
all'acquisto, e cioè la fruibilità e la commerciabilità del
bene (ex
plurimis, Cass., sez. 2^, sentenza n. 15969 del 2000;
sentenza n. 16216 del 2008).
...
2. - Con il secondo motivo è dedotta violazione e falsa
applicazione degli artt. 1453 e ss., 1218 e ss. cod. civ.,
nonché vizio di motivazione.
I ricorrenti lamentano il mancato accoglimento della domanda
di risarcimento del danno provocato dall'omessa consegna del
certificato di abitabilità relativo all'appartamento
acquistato con rogito del 05.09.2001, che Orlando si era
impegnato a consegnare con scrittura privata in pari data.
La Corte territoriale, infatti, aveva condannato St.Or.
consegnare il certificato o, in alternativa, a rimborsare le
spese a tal fine necessarie, ed aveva motivato il rigetto
della pretesa risarcitoria sul rilievo che gli appellanti
Ca.-Si. non avevano allegato che il certificato fosse stato
rifiutato o non potesse essere rilasciato.
Oltre all'erronea applicazione dei principi in tema di onere
di allegazione, la Corte territoriale non aveva tenuto conto
che Orlando non aveva contestato la circostanza che, a
distanza ormai di molti anni, non era stata ottenuta
l'abitabilità dell'immobile.
A tale ultimo proposito, i ricorrenti precisano che il
certificato non è stato rilasciato per difetti di
costruzione dell'appartamento, e che pertanto essi sono
tenuti a far eseguire a loro spese i lavori necessari.
2.1. - La doglianza è fondata.
La Corte territoriale ha erroneamente escluso che
l'accertata mancata consegna del certificato dà abitabilità
dell'appartamento integrasse inadempimento contrattuale,
ponendo a carico degli acquirenti l'onere di dimostrare che
il certificato non potesse essere ottenuto.
2.1.1. - Come già evidenziato nell'esame del precedente
motivo, la consegna del certificato di
abitabilità dell'immobile oggetto del contratto, ove questo
sia un appartamento da adibire ad abitazione, pur non
costituendo di per sé condizione di validità della
compravendita, integra un'obbligazione incombente sul
venditore ai sensi dell'art. 1477 cod. civ., attenendo ad un
requisito essenziale della cosa venduta, in quanto incide
sulla possibilità di adibire legittimamente la stessa
all'uso contrattualmente previsto.
Il venditore-costruttore ha dunque l'obbligo di consegnare
all'acquirente dell'immobile il certificato, curandone la
richiesta e sostenendo le spese necessarie al rilascio, e
l'inadempimento di questa obbligazione è ex se
foriero di dann emergente, perché costringe l'acquirente a
provvedere in proprio, ovvero a ritenere l'immobile tal
quale, cioè con un valore di scambio inferiore a quello che
esso diversamente avrebbe, a prescindere dalla circostanza
che il bene sia alienato o comunque destinato
all'alienazione a terzi
(ex plurimis, Cass., sez. 2^, sentenza n. 23157 del
2013).
2.1.2. - Sulla base dei principi richiamati e di quelli in
tema di inadempimento contrattuale, non è
dubitabile che l'onere di allegazione e di prova della
perdurante possibilità di procurare il certificato gravi
sulla parte che è tenuta alla consegna.
Nel caso di specie, la parte promittente venditrice non ha
dimostrato di poter onorare l'impegno, e quindi sussiste
l'inadempimento e, con esso, il relativo danno.
2.2. - Nell'accoglimento dei motivi che precedono, rimane
assorbito il terzo motivo del ricorso principale, relativo
alla regolamentazione delle spese di lite disposta dalla
Corte d'appello.
---------------
In argomento, si legga anche:
●
Obbligazioni del venditore (22.07.2016 -
link a www.e-glossa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Negozio
in centro, basta la Cila per ristrutturare (senza facciata).
Comunicazione di inizio lavori sufficiente,
ha affermato il Tar della Puglia.
Basta la Cila per ristrutturare il bagno del negozio nel
centro storico della città senza che il proprietario
dell'immobile e il gestore dell'esercizio siano costretti
anche a realizzare interventi sulla facciata dell'edificio,
che pure è di pregio. E ciò perché la comunicazione di
inizio lavori asseverata risulta sufficiente quando i lavori
previsti non incidono sulla struttura del fabbricato, mentre
il Comune non può imporre anche di realizzare lavori sul
prospetto dell'immobile.
È quanto emerge dalla
sentenza
03.02.2016 n. 240, pubblicata dalla III Sez. TAR
Puglia-Lecce.
Vincolo irragionevole
Accolto il ricorso del proprietario delle mura e del
commerciante: compie un eccesso di potere l'amministrazione
locale quando dichiara decaduta la Cila sostenendo che per
portare a termine il progetto sarebbe necessario il permesso
a costruire.
In realtà i lavori riguardano l'intonaco e i pavimenti, si
punta a rifare il bagno, a tinteggiare le pareti, a
restaurare gli infissi e sostituire gli impianti. Nulla di
particolarmente invasivo, insomma: sarebbe dunque
ingiustamente dannoso per il proprietario e il gestore dei
locali subordinare qualsiasi intervento alla realizzazione
di opere sull'intero edificio, laddove ad esempio si dispone
che la facciata debba essere riportata alle antiche
fattezze.
Né si può imporre il titolo edilizio più oneroso per un
cambio di destinazione d'uso: i locali un tempo ospitavano
un bar e sono sempre stati utilizzati per un'attività
commerciale, diversamente sarebbe stato sì necessario il
permesso di costruire. E la destinazione d'uso si desume dal
titolo edilizio, fino a prova contraria. D'altronde sono le
stesse norme tecniche di attuazione del piano
particolareggiato per il centro storico che consentono di
realizzare interventi dettati da esigenze igieniche, a patto
che non compromettano i principi essenziali del restauro.
Nonostante che il provvedimento del Comune sia annullato, il
proprietario dell'immobile e il committente dell'opera non
ottengono anche il risarcimento perché non riescono a
dimostrare il danno in concreto patito. Le spese di giudizio
sono dichiarate irripetibili per la complessità e la natura
tecnica del processo
(articolo ItaliaOggi Sette dell'11.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Pensiline senza vincoli. Sono pertinenze.
La circolare amministrativa non può bloccare la pensilina. È
illegittimo il niet della soprintendenza alla compatibilità
paesistica per la pensilina dell'abitazione in area
vincolata se il rigetto risulta motivato con il superamento
del limite massimo di incremento di superficie utile,
laddove il «paletto» risulta indicato nella misura di un
quarto dell'area di sedime del fabbricato da un documento di
prassi diffuso del ministero dei beni e delle attività
culturali: è evidente che quest'ultimo non può derogare alla
legge e, dunque, i valori indicati devono essere ritenuti di
massima e da valutare caso per caso.
È quanto emerge dalla
sentenza
13.01.2016 n. 17, pubblicata dalla
I Sez. del TAR Campania-Salerno.
Zona panoramica.
Accolto il ricorso del proprietario
dell'immobile dopo lo stop imposto dall'amministrazione alla
struttura aperta da tre lati e adiacente all'abitazione in
zona panoramica.
La pensilina risulta assimilabile alla
tettoia perché entrambe hanno le stesse finalità di arredo,
riparo e di protezione dagli agenti atmosferici: l'opera
edilizia può dunque ritenersi sanabile anche di fronte a un
modesto scostamento dal limite massimo per l'incremento di
superficie utile.
E d'altronde la giurisprudenza ha
riconosciuto che le tettoie aperte su tre lati e addossate a
un edificio principale costituiscono pertinenze
dell'edificio cui accedono se mostrano dimensioni e
caratteristiche costruttive non particolarmente impattanti.
Insomma: la soprintendenza deve ritornare sul provvedimento
che ha negato il placet. E il ministero dei beni culturali
paga le spese di giudizio
(articolo ItaliaOggi Sette dell'11.07.2016). |
AGGIORNAMENTO ALL'11.07.2016 |
ã |
Impianti tecnologici post D.M. n. 37/2008:
se la ditta non
produce la dichiarazione di conformità il comune
cosa può/deve richiedere al cittadino/ditta in luogo
della stessa?? |
A seguire si ripropone il quesito posto al Mi.S.E.
da parte di un comune: |
Buongiorno,
interloquendo con la CCIAA di Bergamo, mi hanno detto
di rivolgermi direttamente alla Sua attenzione per
il quesito che rappresento a seguire, poiché non
sanno darmi la risposta.
Nello specifico, mi riferisco a quanto disposto dall'art.
7, comma 5, del D.M. 37/2008 il quale così
recita:
----------
Art.
7.
Dichiarazione di conformità
1. Al termine dei lavori, previa effettuazione
delle verifiche previste dalla normativa vigente,
comprese quelle di funzionalità dell'impianto,
l'impresa installatrice rilascia al committente la
dichiarazione di conformità degli impianti
realizzati nel rispetto delle norme di cui all'articolo
6. Di tale dichiarazione, resa sulla base del
modello di cui all'allegato
I, fanno parte integrante la relazione
contenente la tipologia dei materiali impiegati,
nonché il progetto di cui all'articolo
5.
2. Nei casi in cui il progetto è redatto dal responsabile tecnico
dell'impresa installatrice l'elaborato tecnico è
costituito almeno dallo schema dell'impianto da
realizzare, inteso come descrizione funzionale ed
effettiva dell'opera da eseguire eventualmente
integrato con la necessaria documentazione tecnica
attestante le varianti introdotte in corso d'opera.
3. In caso di rifacimento parziale di impianti, il progetto, la
dichiarazione di conformità, e l'attestazione di
collaudo ove previsto, si riferiscono alla sola
parte degli impianti oggetto dell'opera di
rifacimento, ma tengono conto della sicurezza
e funzionalità dell'intero impianto. Nella
dichiarazione di cui al comma 1 e nel progetto di
cui all'articolo
5, è espressamente indicata la compatibilità
tecnica con le condizioni preesistenti
dell'impianto.
4. La dichiarazione di conformità è rilasciata anche dai
responsabili degli uffici tecnici interni delle
imprese non installatrici di cui all'articolo
3, comma 3, secondo il modello di cui all'allegato
II del presente decreto.
5. Il contenuto dei modelli di cui agli
allegati I e II può essere modificato o
integrato con decreto ministeriale per esigenze di
aggiornamento di natura tecnica.
6. Nel caso in cui la dichiarazione di conformità
prevista dal presente articolo, salvo quanto
previsto all'articolo
15, non sia stata prodotta o non sia più
reperibile, tale atto è sostituito - per gli
impianti eseguiti prima dell'entrata in vigore del
presente decreto - da una dichiarazione di
rispondenza, resa da un professionista
iscritto all'albo professionale per le specifiche
competenze tecniche richieste, che ha esercitato la
professione, per almeno cinque anni, nel settore
impiantistico a cui si riferisce la dichiarazione,
sotto personale responsabilità, in esito a
sopralluogo ed accertamenti, ovvero, per gli
impianti non ricadenti nel campo di applicazione
dell'articolo
5, comma 2, da un soggetto che ricopre, da
almeno 5 anni, il ruolo di responsabile tecnico di
un'impresa abilitata di cui all'articolo
3, operante nel settore impiantistico a cui si
riferisce la dichiarazione.
----------
Parrebbe di capire che la dichiarazione di
rispondenza può essere presentata in luogo della
dichiarazione di conformità solamente per gli
impianti tecnologici realizzati prima della data di
entrata in vigore del D.M..
DOMANDA: per gli
impianti realizzati dopo l'entrata in vigore del
suddetto D.M., se la ditta non produce la
dichiarazione di conformità (per mille
motivazioni …) il comune cosa può/deve richiedere al
cittadino/ditta in luogo della stessa??
Anticipo, già da subito, che non mi sembra corretto
(come parrebbe operare qualche altro comune …) che
una ditta rilasci la dichiarazione di
conformità su un impianto tecnologico
realizzato dalla ditta inadempiente come sopra
esplicitato …
Nell'attesa di un cortese e celere riscontro,
ringrazio e porgo cordiali saluti.
12.02.2016 |
Ed ecco la risposta fornita dal Ministero dello
Sviluppo Economico: |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Richiesta parere su Decreto Ministeriale
n. 37 del 22.01.2008 (Ministero dello Sviluppo
Economico,
nota 16.06.2016 n. 203335 di prot.). |
Ci preme sottolineare, infine, come dopo ben 26 anni
dall'avvento della
L. 05.03.1990 n. 46 (Norme per la sicurezza
degli impianti) ancora oggi le ditte installatrici,
troppo spesso, rilascino la dichiarazione di
conformità del realizzato impianto tecnologico
non compiegata dei tre allegati obbligatori
siccome contemplati dall'«ALLEGATO
1»
del
D.M. 22.01.2008 n. 37 e cioè: 1) progetto
oppure schema di impianto realizzato;
2) relazione con tipologie dei materiali utilizzati;
3) copia del certificato di riconoscimento dei
requisiti tecnico-professionali.
Invero, allegano solamente il certificato di
riconoscimento dei requisiti tecnico-professionali
e, nel caso di specie, la dichiarazione di
conformità resa |
E' CARTA STRACCIA |
con
le conseguenti responsabilità dell'U.T.C. laddove
non dovesse richiedere tempestivamente le necessarie
integrazioni, anche in relazione al fatto di come
-in questi ultimi tempi- ci siano molte più
richieste di accesso agli atti (di questa o quella
pratica edilizia ... per verificare che tutto sia in
regola) in concomitanza di sottoscrizione atti di
compravendita immobiliare.
11.07.2016
- LA SEGRETERIA PTPL |
ARAN |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Raccolta sistematica degli
orientamenti applicativi: FERIE E FESTIVITA’ (dicembre
2015). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Raccolta sistematica degli
orientamenti applicativi: ASSENZE PER MALATTIA, INFORTUNI
SUL LAVORO E CAUSA DI SERVIZIO (dicembre 2015). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
ENTI
LOCALI - VARI:
Oggetto: Indicazioni operative concernenti finalità e
limiti dell'intervento delle Organizzazioni di Volontariato
di Protezione Civile a supporto delle Autorità preposte ai
servizi di polizia stradale
(Dipartimento della Protezione Civile,
nota 24.06.2016 n. 32320 di prot.). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: SISTRI – nuovo regolamento e manuale operativo
(ANCE di Bergamo,
circolare 24.06.2016 n. 131). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI:
Commissione di gara e Rup, garbuglio sulle competenze
(10.07.2016 - link
a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
P. Corso,
Licenziamento furbetti del cartellino: i tempi stanno
cambiando (09.07.2016 - tratto da
www.ipsoa.it). |
APPALTI:
Incarico al direttore dell'esecuzione aggiornato alle Linee
Guida (09.07.2016 - link
a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI:
Linee guida Anac sul Rup: la negazione del modello
funzionale (03.07.2016 - link
a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Dirigenti a contratto: Corte dei conti sull’orlo di una
crisi di nervi (02.07.2016 - link
a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI:
Legge Europea: tutelati i diritti dei lavoratori in caso di
nuovo appaltatore (01.07.2016 - tratto da
www.ipsoa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - ENERGIA:
Fonti
FER
diverse dal fotovoltaico - Decreto Ministeriale 23.06.2016 -
Nuovi incentivi di settore (Giugno 2016 - Grimaldi Studio Legale).
---------------
SOMMARIO: Premessa - Ambito di applicazione -
Procedure di accesso (Accesso diretto - Iscrizione a
registro - Asta) - Impianti “stranieri” - Tariffe
incentivanti - Fotovoltaico (e altre FER) - Disposizioni
finali. |
PUBBLICO IMPIEGO:
R. Schiavone,
Licenziamento disciplinare nella PA: più responsabilità per
i dirigenti (29.06.2016 - tratto da
www.ipsoa.it). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
Rup di forniture e servizi dopo Linee Guida Anac
(29.06.2016 - link
a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
ENTI LOCALI - VARI:
Che valore ha un’e-mail semplice? (28.06.2016
- link a www.laleggepertutti.it). |
APPALTI:
Appalti: DGUE editabile (27.06.2016 - link
a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Utilizzo del personale nei piccoli comuni: clamorosi errori
della Sezione Autonomie (26.06.2016 - link
a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
ENTI LOCALI - PATRIMONIO:
Concessioni o appalti? Maggiore chiarezza col codice dei
contratti per tesoreria e gestione impianti sportivi
(26.06.2016 - link
a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA:
R. D'Isa,
La fideiussione, il contratto autonomo di garanzia e la
polizza fideiussoria (22.06.2016 - tratto
da https://renatodisa.com). |
EDILIZIA PRIVATA - ENERGIA:
Conto
Termico 2.0 - Decreto Ministeriale 16.02.2016 - Efficientamento e produzione di energia - Nuove misure di
incentivazione
(Maggio 2016 - Grimaldi Studio Legale).
---------------
SOMMARIO: Premessa - Soggetti ammessi - Tipologie
di interventi - Criteri, misura e durata - Procedure di
accesso (Accesso diretto - Prenotazione) - Cumulabilità.
|
AMBIENTE-ECOLOGIA:
G. Atzori,
Chi (non) inquina, paga? La giurisprudenza più recente sugli
obblighi del proprietario incolpevole (Ambiente
& sviluppo 10/2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
A. Muratori,
Traveggole da calura estiva sulla classificazione delle
potature del verde pubblico (Ambiente &
sviluppo 8-9/2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
V. Paone,
Mancata osservanza dell'ordine sindacale di bonifica: reato
istantaneo o permanente? (Ambiente & sviluppo
8-9/2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
V. Cavanna,
La Provincia ha l’obbligo di attivarsi per individuare il
responsabile dell’inquinamento (nota a TAR Lombardia n.
940/2015) (Ambiente & sviluppo 7/2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
A. Muratori,
Attività rumorose: quando superare i limiti (di immissione o
emissione) può “costituire reato” ex art. 659 cod. pen.
(nota a Cass. pen. n. 5735/2015) (Ambiente &
sviluppo 4/2015). |
PUBBLICO IMPIEGO:
D. de Paolis,
Incarichi e consulenze pubbliche a soggetti in quiescenza:
limiti e divieti
(Bollettino di Legislazione Tecnica n. 3/2015).
---------------
In questo articolo vengono illustrati i divieti al
conferimento di incarichi pubblici e consulenze a soggetti
in quiescenza, previsti dall’art. 5, comma 9, del D.L.
95/2012 - come successivamente modificato dall’art. 6 del
D.L. 90/2014.
Sono esaminati, tramite agili tabelle che consentono di
reperire subito l’informazione necessaria, l’efficacia
temporale della disciplina, le pubbliche amministrazioni cui
si applicano i limiti e divieti, i soggetti che non possono
essere incaricati, gli incarichi vietati e quelli invece
consentiti, quali ad esempio le cariche elettive negli
organi di Ordini e Collegi professionali e Consigli
nazionali. |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
A. L. Vergine,
Piovono norme sull’abbruciamento del materiale agricolo e
forestale: le reazioni della Cassazione (Ambiente
& sviluppo 3/2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
M. Benozzo,
La tenuta dei registri di carico e scarico tra copie e
originali (Ambiente & sviluppo 3/2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
V. Paone,
Abbruciamento di scarti vegetali: quale disciplina?
(Ambiente & sviluppo 2/2015). |
APPALTI:
M. Urbani,
Il nuovo soccorso istruttorio «a pagamento» (Bollettino
di Legislazione Tecnica n. 2/2015).
---------------
Questo articolo, dopo le novità introdotte dal D.L.
90/2014 (L. 114/2014) ed i primi chiarimenti forniti dall’ANAC
con la Determinazione n. 1/2015, fornisce un panorama
completo sull’istituto del «soccorso istruttorio». Sono
messe in luce tutte le criticità e le difficoltà applicative
delle nuove norme, evidenziando suggerimenti di buon senso e
best practices concernenti gli elementi e le dichiarazioni
regolarizzabili, le carenze ed irregolarità non sanabili, le
irregolarità concernenti gli adempimenti formali, la
cauzione provvisoria, gli effetti sul procedimento di gara. |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Schema di decreto del Presidente della Repubblica
concernente regolamento recante norme per la semplificazione
e l'accelerazione dei procedimenti amministrativi (Atto
del Governo n. 309 - link a www.camera.it). |
APPALTI SERVIZI:
Schema di decreto legislativo recante testo unico sui
servizi pubblici locali di interesse economico generale
(Atto
del Governo n. 308 - link a www.camera.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI:
Schema di decreto legislativo recante modifiche e
integrazioni al codice dell'amministrazione digitale di cui
al decreto legislativo 07.03.2005 n. 82
(Atto
del Governo n. 307 - link a www.camera.it). |
ENTI LOCALI:
Schema di decreto legislativo recante testo unico in
materia di società a partecipazione pubblica
(Atto
del Governo n. 297 - link a www.camera.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Schema di decreto legislativo recante norme per il
riordino della disciplina in materia di conferenza di
servizi (Atto
del Governo n. 293 - link a www.camera.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria 27 dell'08.07.2016, "Pubblicazione
ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale
21.01.2000, n. 1, dei nominativi e degli estremi dei
provvedimenti di riconoscimento di tecnico competente in
acustica ambientale alla data del 30.06.2016, in attuazione
dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447
e della deliberazione di giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935"
(comunicato
regionale 05.07.2016 n. 114). |
VARI: G.U.
08.07.2016 n. 158 "Disposizioni per l’adempimento degli
obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione
europea - Legge europea 2015-2016" (Legge
07.07.2016 n. 122). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U.
07.07.2016 n. 157 "Regolamento recante modalità
semplificate per lo svolgimento delle attività di ritiro
gratuito da parte dei distributori di rifiuti di
apparecchiature elettriche ed elettroniche (RAEE) di
piccolissime dimensioni, nonché requisiti tecnici per lo
svolgimento del deposito preliminare alla raccolta presso i
distributori e per il trasporto, ai sensi dell’articolo 11,
commi 3 e 4, del decreto legislativo 14.03.2014, n. 49"
(Ministero
dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare,
decreto 31.05.2016 n. 121). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: G.U.
06.07.2016 n. 156 "Modalità di acquisizione di beni e
servizi ICT nelle more della definizione del «Piano
triennale per l’informatica nella pubblica amministrazione»
previsto dalle disposizioni di cui all’art. 1, comma 513 e
seguenti della legge 28.12.2015, n. 208 (Legge di stabilità
2016)" (Agenzia
per l'Italia Digitale,
circolare 24.06.2016 n. 2). |
PATRIMONIO -
EDILIZIA PRIVATA: G.U.
30.06.2016 n. 151 "Approvazione dell’aggiornamento del
Piano nazionale infrastrutturale per la ricarica dei veicoli
alimentati ad energia elettrica approvato con decreto del
Presidente del Consiglio dei ministri 26.09.2014" (D.P.C.M.
18.04.2016). |
VARI: G.U.
29.06.2016 n. 150 "Incentivazione dell’energia elettrica
prodotta da fonti rinnovabili diverse dal fotovoltaico"
(Ministero dello Sviluppo Economico,
decreto 23.06.2016). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U.
28.06.2016 n. 149 "Modifiche all’articolo 55-quater del
decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, ai sensi
dell’articolo 17, comma 1, lettera s) , della legge
07.08.2015, n. 124, in materia di licenziamento disciplinare"
(D.Lgs.
20.06.2016 n. 116). |
EDILIZIA PRIVATA: G.U.
28.06.2016 n. 149 "Disposizioni in materia di aree e
parchi archeologici e istituti e luoghi della cultura di
rilevante interesse nazionale" (Ministero dei Beni e
delle Attività Culturali e del Turismo,
decreto 09.06.2016). |
PATRIMONIO: G.U.
27.06.2016 n. 148 "Modalità di messa a dimora di piantine
in aree pubbliche in occasione della Giornata nazionale
degli alberi" (Ministero
dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare,
decreto 31.05.2016). |
APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI: G.U.
24.06.2016 n. 146 "Proroga del regime transitorio di cui
all’art. 16, comma 8, del decreto 05.12.2012, recante regole
tecniche per la consultazione diretta del sistema
informativo del casellario da parte delle pubbliche
amministrazioni e dei gestori di pubblici servizi"
(Ministero della Giustizia,
decreto 17.06.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U.
24.06.2016 n. 146 "Linee guida per il calcolo della
percentuale di raccolta differenziata dei rifiuti urbani"
(Ministero
dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare,
decreto 26.05.2016). |
VARI: G.U.
24.06.2016 n. 146 "Disposizioni in materia di assistenza
in favore delle persone con disabilità grave prive del
sostegno familiare" (Legge
22.06.2016 n. 112). |
EDILIZIA PRIVATA: G.U.
23.06.2016 n. 145 "Approvazione di norme tecniche di
prevenzione incendi per le attività di ufficio, ai sensi
dell’articolo 15 del decreto legislativo 08.03.2006 n. 139"
(Ministero dell'Interno,
decreto 08.06.2016). |
A.N.AC. (già
AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI) |
APPALTI: Negli appalti valutazioni «soggettive».
Linee guida Anac. Le istruzioni per gli affidamenti con
l’offerta più vantaggiosa.
L’affidamento
di appalti con l’offerta economicamente più vantaggiosa
comporta la definizione dettagliata di criteri, subcriteri e
parametri motivazionali, connessi all’oggetto dell’appalto e
al suo ciclo di vita.
Il
documento contenente le linee-guida dell’Anac attuative
dell’articolo 95 del nuovo Codice dei contratti pubblici
(ora sottoposto al parere del Consiglio di Stato e delle
commissioni parlamentari) fornisce una serie di indicazioni
operative, che le stazioni appaltanti sono chiamate a
utilizzare per sviluppare correttamente i processi
valutativi delle offerte con l’approccio multicriteriale.
L’impostazione dei criteri di valutazione della parte
tecnico-qualitativa può essere definita tenendo conto
anzitutto degli elementi proposti dall’articolo 95, comma 6,
rispetto ai quali l’Anac evidenzia la rilevante novità posta
dalle direttive comunitarie e dal Codice. Nella valutazione
possono essere infatti presi in esame profili di carattere
soggettivo qualora consentano di apprezzare meglio il
contenuto e l’affidabilità dell’offerta o di valorizzare
caratteristiche ritenute particolarmente meritevoli; in ogni
caso, devono riguardare aspetti, quali quelli indicati dal
Codice, che incidono in maniera diretta sulla qualità della
prestazione.
Le stazioni appaltanti devono tener conto anche dei criteri
ambientali minimi (Cam) prevedono l’attribuzione di punteggi
qualora vengano proposte condizioni superiori a quelle
minime previste dagli stessi Cam con riferimento alle
specifiche prestazionali e alle condizioni di esecuzione
definite nel capitolato speciale e nello schema di
contratto.
L’Anac evidenzia che il set degli elementi da sottoporre a
valutazione può includere anche criteri premiali legati al
rating di legalità (valutando però se le imprese del settore
dell’appalto ne siano dotate), all’impatto sulla sicurezza e
salute dei lavoratori, a quello sull’ambiente e per
agevolare la partecipazione delle microimprese e delle
piccole e medie imprese, dei giovani professionisti e per le
imprese di nuova costituzione (inserendo nei criteri
elementi che valorizzino gli elementi di innovatività delle
offerte presentate).
In relazione ai criteri e i subcriteri, le stazioni
appaltanti devono specificare nei documenti di gara i
criteri motivazionali che guidano la valutazione da parte
della commissione giudicatrice.
Il criterio di attribuzione dei punteggi può essere scelto
liberamente dall’amministrazione, ma nelle linee-guida l’Anac
propone le soluzioni più frequentemente utilizzate, ossia
l’attribuzione discrezionale di un coefficiente (da
moltiplicare poi per il punteggio massimo attribuibile in
relazione al criterio), variabile tra zero e uno, da parte
di ciascun commissario di gara e il confronto a coppie tra
le offerte presentate, effettuato sempre da ciascun
commissario di gara.
L’autorità disciplina anche la riparametrazione dei
risultati della valutazione della parte tecnico-qualitativa
dell’offerta, rimettendo la scelta sulla sua applicazione
(finalizzata al riequilibrio rispetto all’attribuzione del
punteggio massimo alla componente economica dell’offerta)
alla stazione appaltante.
Le linee-guida consigliano la riparametrazione correlata ai
singoli criteri o subcriteri e al risultato finale
conseguito dall’offerta per la parte tecnico-qualitativa,
ponendosi in controtendenza rispetto alla giurisprudenza più
recente, che evidenzia invece la necessità di effettuarla
una sola volta.
Sugli elementi economici dell’offerta, l’Anac fa rilevare le
criticità dell’utilizzo delle formule con proporzionalità
diretta lineare, rimettendo anche in tal caso la scelta del
metodo di attribuzione del punteggio alla stazione
appaltante, purché tale da consentire l’assegnazione del
massimo all’offerta migliore (articolo Il Sole 24 Ore del 04.07.2016). |
LAVORI PUBBLICI: Direttore
dei lavori trasparente. Niente conflitti di interesse con
l'impresa aggiudicataria. Le indicazioni delle linee guida
inviate dall'Anac al ministero delle infrastrutture.
Il direttore dei lavori non può accettare alcun incarico
professionale dall'impresa aggiudicataria del contratto e
deve segnalare alla stazione appaltante eventuali rapporti
esistenti con l'affidatario; non può inoltre avere svolto la
verifica del progetto relativo all'intervento da eseguire.
Sono queste alcune delle indicazioni contenute nella
proposta di linea guida sul direttore dei lavori emessa il
28 giugno dall'Autorità nazionale anticorruzione e inviata
al ministero delle infrastrutture.
Il documento sostituisce gli articoli da 180 a 195, oltre
agli articoli 199-202 e 210 del dpr 207/2010, il vecchio
regolamento del codice De Lise. Rispetto alle norme del
regolamento si introducono alcuni obblighi e incompatibilità
per il direttore dei lavori: l'Anac chiarisce innanzitutto
che l'attività di direzione lavori è incompatibile con lo
svolgimento dell'attività di verifica preventiva della
progettazione per il medesimo progetto.
Inoltre al direttore
dei lavori è fatto divieto, dal momento dell'aggiudicazione
e fino al collaudo, di accettare nuovi incarichi
professionali dall'impresa affidataria. Corre poi l'obbligo,
sempre al direttore dei lavori, una volta conosciuta
l'identità dell'aggiudicatario, di segnalare alla stazione
appaltante l'esistenza di eventuali rapporti con lo stesso,
per la valutazione discrezionale sulla sostanziale incidenza
di questi rapporti rispetto all'incarico da svolgere.
Come prevede il codice (art. 111) la nomina del direttore
dei lavori deve essere effettuata prima dell'avvio delle
procedure di gara e i compiti e le funzioni di direzione dei
lavori devono fare capo ad un unico soggetto. Se la stazione
appaltante non individua all'interno delle diverse figure
tecniche un soggetto idoneo a coprire l'incarico, potrà
procedere alla scelta di un soggetto esterno con regole ad
evidenza pubblica. Il direttore dei lavori, laddove
abilitato in base al decreto 81/2008, potrà sommare anche la
funzione di coordinatore per la sicurezza; in caso negativo
la stazione appaltante potrà o nominare un ufficio di
direzione lavori con almeno un soggetto in possesso di
questi requisiti, oppure affidare a terzi l'incarico.
La proposta di linea guida individua con precisione,
riprendendo larga parte delle disposizioni regolamentari
dell'abrogato dpr 207/2010, i compiti del direttore dei
lavori che si sostanziano prevalentemente in ordini di
servizio impartiti, tramite Pec (modalità da utilizzare
anche nei rapporti con il Rup), all'impresa aggiudicataria
del contratto.
Sulle modifiche e sulle varianti dei
contratti in corso di esecuzione l'Anac precisa che il
direttore dei lavori le può proporre al Rup nei casi e alle
condizioni previste dall'art. 106 del Codice e risponde
direttamente del fatto di avere ordinato o lasciato eseguire
variazioni o addizioni al progetto, senza averne ottenuto
regolare autorizzazione. L'unica eccezione è se quanto
autorizzato sia necessario ad evitare danni gravi a persone
o cose o a beni soggetti alla legislazione in materia di
beni culturali e ambientali, o comunque di proprietà delle
stazioni appaltanti.
Una particolare attenzione viene riservata alla tempistica
dei pagamenti: il direttore dei lavori deve trasmettere
«immediatamente lo stato di avanzamento al Rup, che emette
il certificato di pagamento entro il termine di sette giorni
dal rilascio del Sal»; sarà poi il Rup, verificata la
regolarità contributiva dell'impresa, ad inviare il
certificato di pagamento alla stazione appaltante per
l'emissione del mandato di pagamento entro 30 giorni dalla
data di rilascio del certificato di pagamento
(articolo ItaliaOggi dell'01.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Proposta di Linee Guida - Procedure per l’affidamento dei
contratti pubblici di importo inferiore alle soglie di
rilevanza comunitaria.
Deliberate dal Consiglio dell’Autorità il 28.06.2016
le Linee Guida “Procedure
per l’affidamento dei contratti pubblici di importo
inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria, indagini di
mercato e formazione e gestione degli elenchi di operatori
economici”.
Prima dell’approvazione del documento definitivo, l’atto è
stato inviato per un parere al Consiglio di Stato, alla
Commissione VII del Senato e della Commissione VIII della
Camera
(link a www.anticorruzione.it). |
APPALTI: Stazioni
appaltanti più efficienti. Il responsabile del procedimento
sarà un project manager. Le prime
cinque linee guida approvate dall'Anac e inviate a
parlamento e Consiglio di stato.
Responsabili del procedimento delle gare di appalto con
qualifica di project manager. Parametri per il calcolo delle
parcelle di ingegneria e architettura obbligatori, ma ancora
per poco. Requisito del fatturato sostituibile con idonea
copertura assicurativa. Incentivo del 2% per i tecnici
interni non applicabile alla progettazione. Premialità per i
giovani professionisti inseriti nei gruppi concorrenti.
Massimo 20 punti su 100 alla valutazione del prezzo offerto.
Obbligo di denuncia all'Antitrust di comportamenti
anticoncorrenziali.
Sono questi alcuni dei punti significativi delle
cinque
«proposte di linee guida» emesse dal Consiglio dell'autorità
Anticorruzione nell'adunanza del 21.06.2016.
Si tratta dei
primi cinque esempi della cosiddetta «soft law» che
sostituirà il vecchio regolamento del codice dei contratti
pubblici. Di questi cinque documenti, ancora non definitivi
perché occorrerà attendere i pareri delle commissioni
parlamentari e del Consiglio di stato, ve ne sono due
(direttore dei lavori e direttore dell'esecuzione) che sono
proposte per il ministero delle infrastrutture ai fini
dell'adozione del prescritto decreto ministeriale di
competenza. L'Autorità ha precisato che soltanto «all'esito
dell'acquisizione dei pareri richiesti, si procederà
all'approvazione e successiva pubblicazione dei documenti
definitivi».
Quindi va ben chiarito che i cinque documenti,
pubblicati ieri in tarda mattinata sul sito
www.anticorruzione.it, sono provvisori e non definitivi. Per
quel che riguarda il documento per l'affidamento dei servizi
di ingegneria e architettura (che colmano un vuoto normativo
seguito all'abrogazione delle norme del dpr 207/2010) uno
dei passaggi di maggiore rilievo è quello relativo al
calcolo dei corrispettivi a base di gara: ancora per poco,
cioè fino a quando non sarà emesso il nuovo decreto del
ministero della giustizia, le stazioni appaltanti dovranno
applicare il decreto «parametri» n. 143/2013 che consente la
stima dell'importo dell'affidamento.
Si tratterà però di un periodo breve perché il ministero
della giustizia ha già varato il decreto, atteso a breve in
gazzetta, e sarà facoltativo per le amministrazioni, che
invece avranno comunque l'obbligo di indicare come è stato
calcolata la parcella.
Viene ribadito che non è applicabile alla fase di
progettazione l'incentivo del 2% per i tecnici dipendenti
delle amministrazioni alla luce di quanto dispone l'articolo
113 del codice e visto il divieto contenuto nella legge
delega 11/2016.
In alternativa al requisito del fatturato (migliori tre anni
dell'ultimo quinquennio non superiore al doppio dell'importo
della gara) l'amministrazione potrà chiedere una polizza
assicurativa con congrui massimali, per agevolare i giovani
professionisti. Fino a 40 mila euro si potranno affidare gli
incarichi in via diretta ma avendo chiesto almeno due
preventivi; da 40 mila a 100 mila euro la scelta dovrà
avvenire fra almeno 5 soggetti individuati con indagini di
mercato da elenchi o tramite avviso e applicazione del
principio di rotazione degli incarichi.
Previsti incrementi convenzionali premianti se si inserisce
un giovane professionista (laureato da meno di cinque anni)
nel team di progettazione. Per l'aggiudicazione si prevede
che il prezzo non possa valere oltre 20 punti su 100. Nelle
linee guida sull'offerta economicamente più vantaggiosa si
definiscono i criteri e i metodi per attribuire i punteggi,
recuperando larga parte delle formule già applicabili in
base al vecchio codice De Lise e al regolamento attuativo.
Una novità è quella che consentirebbe, con una certa
forzatura della giurisprudenza Ue, di valutare in sede di
offerta il rating di legalità le certificazioni del
concorrente, soprattutto ambientali, elemento soggettivi che
dovrebbe essere considerati solo in fase di accesso alla
gara. L'Anac chiede poi alle stazioni appaltanti di
informare l'Antitrust delle anomalie che possano risultare
indice di comportamenti anticoncorrenziali e suggerisce, al
fine di agevolare la partecipazione delle microimprese, pmi,
start up e giovani, di prevedere criteri di valutazione che
valorizzino gli elementi di innovatività delle offerte.
Nelle linee guida sulla direzione lavori si affrontano il
tema della nomina del direttore dei lavori e della
costituzione dell'ufficio di direzione lavori, le
incompatibilità e i rapporti con altre figure il
coordinamento e la supervisione dell'ufficio di direzione
lavori, i suoi compiti e il controllo amministrativo
contabile.
Molto dettagliata è anche la proposta inviata al
Ministero delle infrastrutture (come quella della direzione
lavori) sul direttore dell'esecuzione. Nel documento sul
responsabile del procedimento (Rup) l'Autorità evidenzia con
forza la necessità che si tratti di un vero e proprio
project manager, soprattutto per interventi di particolare
complessità per i quali il Rup dovrà possedere «la qualifica
di project manager».
Parallelamente si chiede alle stazioni
appaltanti di incidere sui profili formativi organizzando
«piani di formazione del personale finalizzati
all'acquisizione di competenze in materia di project
management». Il Rup dovrà anche procedere alla verifica
della congruità delle offerte insieme alla Commissione
giudicatrice
(articolo ItaliaOggi del 29.06.2016). |
APPALTI: Appalti
con le linee guida Anac. Progettisti: assicurazione al posto
dei requisiti di fatturato - Premi al rating di legalità.
Contratti pubblici. Approvati i primi cinque documenti di
indirizzo al mercato: entro l’estate i vademecum
diventeranno dieci.
La “soft law”
dell’Anac passa dalla teoria alla pratica. L’Autorità
anticorruzione ha appena approvato
le prime indicazioni di
regolazione per il mercato, preparate in attuazione del
Codice appalti (Dlgs n. 50/2016): cinque delle sette linee
guida messe in consultazione a fine aprile, chiusa la
valutazione di centinaia di pareri degli addetti ai lavori,
stanno per essere messe a disposizione di imprese e stazioni
appaltanti.
Decollano così le regole sull’offerta economicamente più
vantaggiosa, i servizi di architettura e ingegneria, la
direzione lavori, la direzione dell’esecuzione e il
responsabile unico del procedimento. Mancano all’appello due
testi, in materia di commissioni giudicatrici e procedure
sotto soglia. A questi, nelle prossime settimane, se ne
aggiungeranno altri tre, relativi alla consultazione che si
è conclusa proprio ieri, sul partenariato pubblico-privato,
sugli illeciti professionali e, soprattutto, sul rating di
impresa.
La bussola dell’Anac era attesissima dagli operatori, che
grazie alle indicazioni dell’Authority potranno risolvere
diversi problemi applicativi riscontrati in queste prime
settimane di applicazione del codice. Accadrà certamente per
i servizi di progettazione. Qui si registrano due
indicazioni importanti. In primo luogo, l’obbligo per le
stazioni appaltanti di utilizzare il decreto (Dm n.
143/2013) per il calcolo dei parametri da porre a base di
gara.
In secondo luogo, l’alleggerimento dei requisiti per
l’accesso ai bandi, con la possibilità di portare una
polizza assicurativa anziché dimostrare un certo livello di
fatturato: una norma favorevole a giovani e piccoli
professionisti. Importanti anche i documenti dedicati alla
direzione di lavori ed esecuzione. Qui viene introdotto un
capitolo dedicato al conflitto di interessi tra il
professionista e l’impresa aggiudicataria. E vengono
regolati, punto per punto, tutti gli obblighi e gli
adempimenti necessari in fase di attuazione del contratto.
Chiarimenti di rilievo anche sull’offerta economicamente più
vantaggiosa con l’indicazione dei criteri da utilizzare per
la valutazione delle offerte. Tra questi potranno entrare
anche il rating di legalità rilasciato dall’Antitrust e
altri parametri “soggettivi”, come ad esempio il possesso di
marchi di certificazione ambientale (Ecolabel). Quanto ai
funzionari delle stazioni appaltanti , incaricati di seguire
le procedure di affidamento e di esecuzione degli appalti (Rup),
l’indicazione che arriva dall’Anac è quella di farne dei
veri e propri project manager, almeno per i lavori di
carattere più complesso.
Se l’obiettivo dell’Authority è dichiaratamente quello di
completare questa prima fase di attuazione con
l’approvazione di dieci linee guida entro l’estate, adesso
siamo arrivati a metà strada. Anche se bisogna precisare che
i cinque documenti appena licenziati non sono ancora del
tutto assestati. Gli indirizzi su direzione lavori e
direttore dell’esecuzione vanno al ministero delle
Infrastrutture che dovrà adottarli con decreto, dopo aver
incassato i pareri del Consiglio di Stato e delle
commissioni parlamentari.
Anche per gli altri tre documenti di indirizzo appena varati
dall’Autorità ci sarà un percorso supplementare, anche se
non espressamente previsto dalle norme. L’Anac ha, infatti,
deciso di trasmetterli alle commissioni parlamentari e al
Consiglio di Stato. Qualche ulteriore aggiustamento, allora,
è ancora possibile. Anche se dall’Anticorruzione spiegano
che queste indicazioni sono già utilizzabili.
Nel frattempo dovrebbero arrivare al primo traguardo anche
le linee guida sulle gare sottosoglia europea (forse già
questa settimana, come annunciato da Cantone in audizione
alle Camere) e poi quelle sulla composizione delle
commissioni giudicatrici esterne alle amministrazioni. Si
tratta in questo caso delle linee guida più attese dagli
operatori e quelle che stanno evidenziando gli aspetti più
delicati da risolvere. E per questo gli uffici di Cantone
hanno deciso di dedicarci qualche giorno in più (articolo Il Sole 24 Ore del 28.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Concessionari,
Cantone vieta l'autocertificazione. Precisazione
dell'anticorruzione. Revisione da parte delle Soa.
Stop all'autocertificazione dei lavori da parte dei
concessionari che non eseguono direttamente i lavori, ma li
affidano a terzi; possibile riconoscere i lavori soltanto se
il concessionario svolge un ruolo di coordinamento tecnico
avendo la responsabilità della progettazione; le Soa
dovranno rivedere le certificazioni anomale rilasciate
finora.
Sono queste alcune delle rilevanti precisazioni che ha
fornito l'Autorità nazionale anticorruzione con il
comunicato 08.06.2016 pubblicato il 20 giugno sul
proprio sito web.
L'Autorità interviene quindi nel vivo
dell'operatività concreta dei concessionari e delle modalità
di attestazione dei lavori connesse alle concessioni, siano
esse di lavori pubblici o di servizio pubblico.
Un primo problema segnalato dall'Anac come anomalo e
meritevole di chiarimento riguarda i lavori eseguiti
direttamente (dal concessionario, o dal solo socio
operativo) che sono strettamente connessi all'oggetto di
concessione e che sono stati certificati con Cel
(certificati di esecuzione dei lavori) che lo stesso
concessionario ha nella banca dati telematica.
A tale
riguardo, le anomalie individuate, riguardanti anche la
coincidenza fra concessionario e concedente, portano
l'Autorità a ritenere che le certificazioni «dovranno essere
immesse nella banca dati telematica dei Cel pubblici a cura
del soggetto concedente (esclusivamente di natura pubblica)»
e quindi non dal concessionario o dal socio operativo. Il
presupposto è che il concessionario di un servizio pubblico
deve eseguire, ovvero affidare a terzi, lavori nel rispetto
della disciplina di settore degli appalti pubblici (cioè il
decreto n. 50/2016).
Un secondo problema sul quale si sofferma l'Anac attiene
alla circostanza che i lavori affidati dai concessionari a
terzi esecutori per la realizzazione di opere e lavori che
riguardano le attività in concessione siano poi utilizzati
per la propria qualificazione e certificati come lavori in
conto proprio, sebbene totalmente eseguiti da imprese terze.
Così facendo il concessionario acquisisce la qualifica di
esecutore non avendo eseguito nulla e sfruttando il
cosiddetto premio di coordinamento previsto per le imprese
aggiudicatarie che sub-affidano opere a terzi esecutori. Per
questo punto il comunicato firmato dal presidente
dell'Autorità anticorruzione, Raffaele Cantone specifica che
o i lavori vengono attribuiti direttamente e certificati dal
concessionario ai soli soggetti esecutori, o possono essere
intestati al concessionario ma a condizione che almeno
«dimostri di aver assunto diretta responsabilità nei
confronti del concedente», oppure di avere svolto un ruolo
di coordinamento tecnico. In questo caso deve emergere che
il concessionario abbia svolto «almeno la progettazione
dell'intervento e la direzione tecnica del l'esecuzione».
In
questa ipotesi la documentazione idonea a tale dimostrazione
dovrà essere prodotta alla Soa e oggetto di opportuni
riscontri di veridicità.
Alla luce di queste indicazioni l'Anac ha chiesto alle Soa
di rivedere «tutte le attestazioni già rilasciate, in
occasione della verifica triennale o in occasione del primo
rinnovo» mettendo in chiaro che saranno legittime
soltanto certificazioni rilasciate sulla base dei
chiarimenti forniti con il comunicato
(articolo ItaliaOggi del 24.06.2016
-
tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
Qualificazione, cosa cambia. Dimezzato a 5 anni
il periodo di verifica dei requisiti speciali. L'Authority
sull'applicazione del nuovo regime che, però, non si applica
ai consorzi stabili.
Ancora ammessa l'attestazione dei lavori attraverso l'avvalimento
fra imprese; i requisiti speciali per la qualificazione
delle imprese dovranno essere dimostrati soltanto con
riferimento al quinquennio e non più al decennio; salve,
transitoriamente, le vecchie disposizioni sulla
qualificazione dei consorzi stabili.
Sono queste alcune delle indicazioni che ha fornito
l'Autorità nazionale anticorruzione per risolvere una serie
di profili critici determinati dall'abrogazione di diverse
disposizioni regolamentari e del vecchio codice dei
contratti pubblici in tema di qualificazione delle imprese.
L'intervento dell'Authority è contenuto nel
comunicato
31.05.2016, uscito sul sito Anac venerdì scorso, che fornisce
risposte a molte segnalazioni evidenziate dalle società
organismo di attestazione (Soa) in queste ultime settimane.
Fra i diversi problemi assume un rilievo non da poco, anche
per i riflessi che avrà sulle linee guida che si occupano
direttamente o indirettamente di qualificazione, quello
della qualificazione su un periodo di cinque anni e non più
di dieci anni con riferimento alla dimostrazione della cifra
d'affari globale e ad altri requisiti specifici. Con il
decreto milleproroghe, la verifica poteva essere svolta
(fino al 31.07.2016) su un periodo di dieci anni ma
tecnicamente la norma era collegata alle pertinenti
disposizioni del codice del 2006 (il decreto 163) adesso
abrogate a seguito dell'entrata in vigore del nuovo codice
dei contratti pubblici.
Per il futuro si dovrà fare riferimento soltanto al
quinquennio e non più al decennio. Sull'ipotesi di
recuperare la possibilità di applicare il vecchio sistema,
il comunicato siglato dal presidente Raffaele Cantone non
lascia speranza alcuna: «La norma, riferendosi ad un
articolo del codice abrogato (articolo 253, dlgs 163/2006)
deve ritenersi essa stessa abrogata implicitamente con
applicazione in via transitoria e nelle more dell'emanazione
delle linee guida del dpr 207/2010».
Un altro problema riguarda la disciplina del consorzi
stabili per i quali la precedente disciplina del 2006 (art.
36, comma 7) prevedeva la possibilità di procedere con la
sommatoria dei requisiti dei consorziati e, nel dpr 207/2010
trovava una disciplina ad hoc.
La situazione è infatti che la norma del codice vecchio è
abrogata, ma l'Autorità la «ritiene transitoriamente vigente
(l'articolo 36, comma 7, e la disciplina generale sui
concorsi stabili) in ragione delle norme contenute agli
articoli 81 e 94 del dpr n. 207/2010, che ad essa rinvia».
Soa.
Viene poi affrontato il tema dell'avvenuta abrogazione
dell'articolo 50 del decreto 163/2006: le Soa hanno chiesto
all'Anac di sapere i criteri cui fare riferimento
nell'ambito del procedimento di attestazione concernente la
qualificazione ottenuta attraverso lavori di imprese
controllate che abbiano operato in regime di avvalimento con
l'impresa controllante.
La disciplina prevista all'articolo 50 del decreto 163 (che,
insieme agli articoli 88 e 89 del dpr 207/2010, indicava nel
dettaglio le dichiarazioni e le comunicazioni da effettuare
per ottenere l'attestazione dei lavori eseguiti in
avvalimento cosiddetto stabile) non è stata riprodotta nel
nuovo codice dello scorso aprile. Nel comunicato
dell'Autorità di palazzo Sciarra si sceglie una linea di
flessibilità e apertura: «Trovano ancora applicazione, nelle
more dell'emanazione delle linee guida a cura dell'Anac e
tenuto conto che i contratti di attestazione sono stati
sottoscritti sotto la vigenza del dlgs 163/2006, gli
articoli 88 e 89 del dpr 207/2010 (che regolano la
qualificazione mediante avvalimento) e, in generale, i
principi dettati all'articolo 50 del dlgs n. 163 del 2006»
(articolo ItaliaOggi del 24.06.2016). |
APPALTI: Appalti, ok alle prime linee guida. Cantone: preoccupato dal
calo dei bandi ma non è colpa del codice.
Anac. Inizia il varo dei provvedimenti attuativi del Dlgs
50/2016, rinviati gare sottosoglia e commissari.
L’Autorità
Anticorruzione ha dato il via libera ai
primi cinque
provvedimenti attuativi del nuovo codice degli appalti.
Si tratta delle linee guida per l’affidamento dei servizi di
ingegneria, per l’assegnazione delle gare con il sistema
dell’offerta economicamente più vantaggiosa e dei tre
“manuali” destinati a guidare le attività dei responsabili
del procedimento di gara (Rup) dei direttori lavori e dei
direttori dell’esecuzione del contratto nel campo dei
servizi pubblici.
Rispetto al pacchetto dei primi sette
provvedimenti attuativi messi in consultazione a maggio
restano per ora fuori due delle linee guida più attese:
quelle relative alla gestione degli appalti sotto le soglie
europee e gli indirizzi per la nomina delle commissioni di
gara esterne alle amministrazioni.
«Su questi due
provvedimenti abbiamo ricevuto un quantità enorme di
contributi spesso in contraddizione tra loro -ha spiegato
il presidente dell’Anac Raffaele Cantone, in un’audizione
congiunta delle commissioni Lavori pubblici di Camera e
Senato sull’attuazione del codice. Dobbiamo avere il tempo
di esaminarli in modo serio».
La previsione comunque è
quella di licenziare definitivamente le linee guida sui
contratti sottosoglia «nel Consiglio dell’Autorità che si
terrà la prossima settimana», ha spiegato Cantone. Subito
dopo, «nella prima settimana di luglio» arriverà il
documento sui commissari di gara. Entro l’estate saranno
infine licenziate le altre tre linee guida ancora in
consultazione (rating di impresa, esclusioni dalle gare e
partenariato pubblico-provato). Anche se non è strettamente
previsto dal codice, tutte le linee guida, ha sottolineato
Cantone, saranno inviate per un parere alle commissioni
parlamentari così come al Consiglio di Stato.
Al centro dell’audizione le difficoltà incontrate da
stazioni appaltanti e imprese in questa prima fase di
attuazione del nuovo codice. Cantone non ha nascosto «la
preoccupazione per il blocco delle gare», ma ha anche
sottolineato di non rilevare alcuna «giustificazione
giuridica» all’impasse, «visto che in assenza delle linee
guida resta interamente operativo il vecchio regolamento
appalti, che le amministrazioni non dovrebbero avere
difficoltà ad applicare». In ogni caso, ha aggiunto,
speriamo che «con l’arrivo degli indirizzi sull’offerta più
vantaggiosa, la situazione si sblocchi».
Su un piano più politico Cantone ha ribadito che «Parlamento
e Governo hanno fatto un lavoro molto buono sul nuovo codice».
E ha invitato a non fare passi indietro sulla scelta di
limitare il massimo ribasso e di mandare in gara i lavori
solo su progetto esecutivo, vietando l’appalto integrato.
«Non vorrei che le preoccupazioni sull’obbligo di mandare
in gara i progetti esecutivi siano strumentali e vengano da
qualcuno che ha capito che è finita la pacchia delle
varianti e delle riserve», ha concluso il numero uno
dell’Anticorruzione
(articolo Il Sole 24 Ore del 22.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
CORTE DEI CONTI |
ENTI
LOCALI: Non
è rinvenibile alcuna disposizione che impedisca all’ente
locale di effettuare attribuzioni patrimoniali a terzi, ove
queste siano necessarie per conseguire i propri fini
istituzionali.
Se, infatti, l’azione è intrapresa al fine di soddisfare
esigenze della collettività rientranti nelle finalità
perseguite dal Comune (nel caso di specie, l’interesse alla
conservazione del patrimonio storico e artistico) il
finanziamento, “anche se apparentemente a fondo perso, non
può equivalere ad un depauperamento del patrimonio comunale,
in considerazione dell’utilità che l’ente o la collettività
ricevono dallo svolgimento del servizio pubblico o di
interesse pubblico effettuato dal soggetto che riceve il
contributo.
Riconosciuto l’interesse generale dell’attività, la natura
pubblica o privata del soggetto che percepisce il contributo
risulta indifferente, posto che la stessa amministrazione
opera utilizzando, per molteplici finalità (gestione di
servizi pubblici, esternalizzazione di funzioni strumentali,
etc.), soggetti aventi natura privata.
---------------
Una contribuzione pubblica può qualificarsi come
spesa di
sponsorizzazione, come tale incorrente nel divieto di cui
all’art. 6, comma 9, del D.L. 78/2010, quando “presuppone la
semplice finalità di segnalare ai cittadini la presenza
dell’ente pubblico, così da promuoverne l’immagine.
Non si configura, invece,
quale sponsorizzazione il sostegno di iniziative di un
soggetto terzo, riconducibili ai fini istituzionali dello
stesso ente pubblico.
L’attività, dunque, che rientra nelle
competenze dell’ente locale e viene esercitata, in via
mediata, da soggetti privati destinatari di risorse
pubbliche, piuttosto che, direttamente, da parte di Comuni e
Province, costituisce una modalità alternativa di erogazione
del servizio pubblico e non una forma di promozione
dell’immagine dell’amministrazione.
---------------
Con nota prot. n. 1506 del 30.04.2016, trasmessa per il
tramite del Cal con nota prot. n. 15660 del 03.05.2016 ed
acquisita a prot. Cdc n. 3892 del 05.05.2016, il Sindaco
del Comune di Rivara (TO) formula richiesta di parere ai
sensi dell’art. 7, comma 8, della legge n. 131/2003.
Premette il Comune istante di essere intenzionato,
nell’ambito della programmazione culturale per l’anno 2016,
ad organizzare “attività in materia culturale/artistica
che risaltino i protagonisti della storia locale” e che
tra queste potrebbe rientrare l’allestimento nel territorio
comunale di una mostra di pittura intitolata “Carlo
Pittara e i pittori di Rivara”, già organizzata in
Torino dalla “Fondazione Accorsi-Ometto”-Museo di
arti decorative, ente senza fini di lucro.
Il Comune intenderebbe altresì concedere il
patrocinio alla mostra, mettere a disposizione i locali
nonché erogare un contributo per la parziale copertura delle
spese di allestimento.
Chiede, quindi, il Comune “di conoscere se sia
legittima la concessione di detta tipologia di contributo o
se la stessa rientri nel divieto di cui all’art. 6, comma 9,
del sopra richiamato D.L. n. 78 del 31.05.2010, convertito
in Legge 30.07.2010 n. 122 (“divieto di sponsorizzazioni”)”
e “di conoscere, qualora la spesa sia legittima, se debba
essere considerata una spesa soggetta alle limitazioni
imposte dal soprarichiamato art. 6 del D.L. 31.05.2010 n.
78, convertito con legge 30.07.2010 n. 122”.
...
La questione oggetto della richiesta di parere è stata
affrontata numerose volte dalla giurisprudenza contabile e
su di essa si è formato un consolidato orientamento teso “a
precisare come, in base alle norme ed ai principi della
contabilità pubblica, non è rinvenibile alcuna disposizione
che impedisca all’ente locale di effettuare attribuzioni
patrimoniali a terzi, ove queste siano necessarie per
conseguire i propri fini istituzionali. Se, infatti,
l’azione è intrapresa al fine di soddisfare esigenze della
collettività rientranti nelle finalità perseguite dal Comune
(nel caso di specie, l’interesse alla conservazione del
patrimonio storico e artistico) il finanziamento, “anche se
apparentemente a fondo perso, non può equivalere ad un
depauperamento del patrimonio comunale, in considerazione
dell’utilità che l’ente o la collettività ricevono dallo
svolgimento del servizio pubblico o di interesse pubblico
effettuato dal soggetto che riceve il contributo.
Riconosciuto l’interesse generale dell’attività, la natura
pubblica o privata del soggetto che percepisce il contributo
risulta indifferente, posto che la stessa amministrazione
opera utilizzando, per molteplici finalità (gestione di
servizi pubblici, esternalizzazione di funzioni strumentali,
etc.), soggetti aventi natura privata” (cfr. deliberazione
n. 262/2012/PAR)” (Sez. reg. contr. Lombardia,
parere 01.10.2014 n. 248).
Una contribuzione pubblica può qualificarsi come spesa di
sponsorizzazione, come tale incorrente nel divieto di cui
all’art. 6, comma 9, del D.L. 78/2010, quando “presuppone
la semplice finalità di segnalare ai cittadini la presenza
dell’ente pubblico, così da promuoverne l’immagine (cfr.
deliberazione n. 1075/2010/PAR). Non si configura, invece,
quale sponsorizzazione il sostegno di iniziative di un
soggetto terzo, riconducibili ai fini istituzionali dello
stesso ente pubblico. L’attività, dunque, che rientra nelle
competenze dell’ente locale e viene esercitata, in via
mediata, da soggetti privati destinatari di risorse
pubbliche, piuttosto che, direttamente, da parte di Comuni e
Province, costituisce una modalità alternativa di erogazione
del servizio pubblico e non una forma di promozione
dell’immagine dell’amministrazione.” (Sez. reg. contr.
Lombardia,
parere 01.10.2014 n. 248).
Da tale consolidato orientamento la Sezione non ha motivo di
discostarsi, fermo restando che l’applicazione al caso
concreto delle disposizioni in materia di contabilità
pubblica è di esclusiva competenza dell’ente locale
(Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte,
parere 30.06.2016 n. 77). |
APPALTI - TRIBUTI: Baratto
amministrativo senza limiti temporali. Corte dei conti. Il
coordinamento con la riforma degli appalti.
Le disposizioni sul baratto
amministrativo del Dl 133/2014 devono essere coordinate con
le nuove norme introdotte dagli articoli 189 e 190 del
Codice dei contratti pubblici, che delineano una più ampia
prospettiva di coinvolgimento dei cittadini.
La Corte dei Conti, sezione regionale di controllo per il
Veneto, con il
parere 21.06.2016 n. 313
ha rilevato che il quadro normativo è molto articolato e
composto da disposizioni accomunate dalla prospettiva di
valorizzare il principio di sussidiarietà, che viene assunto
nel Dlgs 50/2016 attraverso le attività che possono essere
esercitate dalla autonoma iniziativa dei cittadini e delle
loro formazioni sociali, come canone dell’azione
amministrativa nell’ambito della tutela del territorio e
della manutenzione di esso, traducendosi per le
amministrazioni interessate nella possibilità di adottare
forme procedimentali semplificate.
Il parere individua le differenze tra l’articolo 24 del Dl
133/2014 e le nuove disposizioni del Codice dei contratti,
evidenziando che queste ultime esprimono la facoltà di
attivare contratti di partenariato sociale da parte di tutti
gli enti territoriali (mentre l’articolo 24 li riserva ai
Comuni) e che la stessa esenzione o riduzione dei tributi
non è più prevista necessariamente per un periodo limitato.
Inoltre, le agevolazioni contemplano la previsione della
possibilità di affidare la valorizzazione delle vie e piazze
mediante iniziative culturali di vario genere. In tutti
questi casi il riconoscimento specifico del ruolo che i
cittadini svolgono nel perseguimento di interessi generali è
connotato dal Dlgs 50/2016 in modo molto più ampio.
La Corte dei conti fornisce nella deliberazione una serie di
chiarimenti specifici sull’applicazione dell’istituto. In
primo luogo, viene precisato che se gli interventi
dell’articolo 24 sono realizzati dai cittadini non avendo a
presupposto agevolazioni tributarie, ma in forma di
volontariato, queste attività dovrebbero essere ricondotte a
organismi strutturati, in grado di farsi carico degli oneri
assicurativi. Se invece gli interventi dei cittadini sono
correlati a riduzioni o agevolazioni tributarie è necessario
che sussista un rapporto di stretta inerenza tra queste
facilitazioni e le attività di cura e valorizzazione del
territorio che i cittadini possono realizzare, dovendo tener
conto che i servizi, sostitutivi del pagamento delle imposte
locali.
La prestazione offerta dal cittadino deve quindi
corrispondere, in valore alla misura delle imposte locali
agevolate, ma la delibera assunta dall’ente deve motivare la
decisione di avvalersi del baratto sulla base di un’attenta
valutazione di tutti gli interessi coinvolti che dimostri la
convenienza, anche economica, della scelta.
Gli articoli 189 e 190 del Codice dei contratti ora evolvono
il quadro, collegandolo alle riduzioni o esenzioni di
tributi; la compensazione tra debiti (o crediti) di cui solo
uno esistente, essendo l’altro futuro ed eventuale, può
essere applicata solo a seguito dell’integrale e
soddisfacente realizzazione dell’opera o del servizio.
In questo rapporto, le prestazioni richieste ai beneficiari
di provvidenze comunali stanziate non possono che rivestire
forme di collaborazione sociale senza corrispettività con il
contributo economico elargito. Pertanto non possono essere
qualificati come rapporto di lavoro e nemmeno essere
computati nel calcolo delle spese di personale.
Le agevolazioni connesse al baratto amministrativo, secondo
la Corte dei conti del Veneto, non possono essere fruite
dalle imprese, perché si verificherebbe un’elusione delle
regole di evidenza pubblica (articolo Il Sole 24 Ore del 27.06.2016). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
Il riconoscimento
dell’incentivo alla progettazione di cui all’art. 93, comma
7-ter, del d.lgs. n. 163/2006 in favore del responsabile
unico del procedimento non presuppone necessariamente che
l’intera attività di progettazione sia svolta all’interno
dell’ente.
---------------
Il Sindaco del Comune di Macchia Valfortore (CB), con nota n. 137
del 15.01.2016, assunta al protocollo di questa Sezione n.
65 del 19.01.2016, ha trasmesso una richiesta di parere
in ordine alla legittimità della liquidazione al
Responsabile Unico del Procedimento (RUP) dell’incentivo
relativo alla responsabilità del procedimento connesso alla
“realizzazione di lavori appaltati ed eseguiti sulla base
di progettazioni, direzione dei lavori ed altri incarichi
connessi alla realizzazione di opere pubbliche effettuati
all’esterno del comune” fino alla data del 14.08.2014.
...
Ai fini della soluzione della presente richiesta il Collegio
intende fare riferimento alla recente
deliberazione 13.05.2016 n. 18,
con cui la Sezione delle Autonomie della Corte dei conti è
stata chiamata a pronunciarsi in ordine alla possibilità di
riconoscere l’incentivo di cui all’art. 93, d.lgs. 12.04.2006, n. 163, in favore del responsabile unico del
procedimento (RUP), anche nell’ipotesi in cui tutte le
attività che la legge individua come incentivabili sia di
progettazione, sia di direzione dei lavori, sia di collaudo,
siano state svolte all’esterno dell’Ente da professionisti
all’uopo incaricati.
Al riguardo, la Sezione delle autonomie ha affermato che
“l’art. 93, comma 7-ter, ha previsto che le quote del fondo
incentivante corrispondenti a prestazioni non svolte dai
dipendenti, ma affidate a personale esterno all'organico
dell'amministrazione, costituiscono necessariamente economie
di spesa.
Dall’analisi della richiamata disposizione, sembra potersi
evincere che l’attività del RUP, ove svolta tramite
personale dipendente –come previsto dall’art. 9, del D.P.R.
n. 207/2010– sia incentivabile a prescindere dallo
svolgimento o meno all’interno dell’ente dell’intera
attività di progettazione e delle restanti attività
contemplate.
Le rilevanti funzioni intestate al responsabile unico
nell’ambito della gestione delle varie fasi procedimentali,
del contraddittorio con le parti private e del coordinamento
con gli uffici interni ed esterni, rimangono, infatti,
sostanzialmente invariate, al pari delle correlate
responsabilità, anche nell’ipotesi di esternalizzazione
delle altre attività previste dall’art. 93 del d.lgs.
163/2006, in cui permane, comunque, l’obbligo
dell’amministrazione di dotarsi di tale figura nell’ambito
del proprio organico.
Come già osservato da una parte della giurisprudenza
contabile (Sez. contr. Lombardia,
parere 01.10.2014 n. 247;
Sez. contr. Piemonte,
parere 20.01.2015 n. 17), la
normativa vigente non richiede, ai fini della legittima
erogazione dell’incentivo, il necessario espletamento
interno di tutta l’attività progettuale quanto, semmai, una
previsione regolamentare che ripartisca gli incentivi in
maniera conforme alle responsabilità attribuite e devolva in
economia la quota relativa agli incarichi conferiti a
professionisti esterni”.
La Sezione delle autonomie conclude pertanto affermando il
seguente principio di diritto: “Il riconoscimento
dell’incentivo alla progettazione di cui all’art. 93, comma
7-ter, del d.lgs. n. 163/2006 in favore del responsabile
unico del procedimento non presuppone necessariamente che
l’intera attività di progettazione sia svolta all’interno
dell’ente”.
Ebbene, la suddetta pronuncia, a cui la presente Sezione
intende aderire, può trovare piena applicazione anche alla
fattispecie in esame, stante l’identità tra le disposizioni
richiamate.
Invero, l’art. 92 del d.lgs. n. 193/2006, nella
versione precedente all’abrogazione ad opera dell'art. 13,
comma 1, D.L. 24.06.2014, n. 90, convertito, con
modificazioni, dalla L. 11.08.2014, n. 114,
così disponeva:
“le quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni
non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a
personale esterno all'organico dell'amministrazione
medesima, ovvero prive del predetto accertamento,
costituiscono economie”.
Disposizione,
quest’ultima, che, come visto, ha in seguito trovato
collocazione nell’art. 93, comma 7-ter, del medesimo decreto,
oggetto di analisi da parte della richiamata deliberazione
(Corte dei Conti, Sez. controllo Molise,
parere 21.06.2016 n. 97). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Enti, personale condiviso non sempre senza
vincoli.
Rientrano nei vincoli alla spesa del personale flessibile
gli incarichi che i comuni con popolazione inferiore ai 5
mila abitanti conferiscono a dipendenti di enti di maggiori
dimensioni, se la prestazione lavorativa vada oltre le 36
ore. Non rientrano, invece, in questi vincoli incarichi
volti a condividere la prestazione lavorativa sulla base di
convenzioni o se si attiva un comando.
Sono queste le conclusioni cui giunge la Corte dei conti,
Sez. autonomie, con la
deliberazione 20.06.2016 n.
23, tesa a chiare se la possibilità offerta dall'articolo 1,
comma 557, della legge 311/20014 ai piccoli comuni di
avvalersi delle prestazioni lavorative di dipendenti di
comuni più grandi, possa fuoriuscire dai limiti alla spesa
di personale flessibile, posti dall'articolo 9, comma 28,
del dl 78/2010, convertito in legge 122/2010.
Secondo la
magistratura contabile un primo schema di utilizzo
dell'articolo 1, comma 557, è quello secondo il quale l'ente
di piccole dimensioni costituisce col dipendente dell'altro
ente un rapporto di lavoro ulteriore e diverso, consentito
dalla deroga all'esclusività che, secondo la giurisprudenza
amministrativa, pone la norma. In questo caso, allora, il
dipendente aggiunge al rapporto di lavoro principale con
l'ente di maggiori dimensioni, un ulteriore lavoro a tempo
parziale (che non potrà superare le 12 ore settimanali) con
l'ente di piccole dimensioni.
In questo caso, secondo la
Corte dei conti «la prestazione aggiuntiva andrà ad
inquadrarsi necessariamente all'interno di un nuovo rapporto
di lavoro autonomo o subordinato a tempo parziale, i cui
oneri dovranno essere computati ai fini del rispetto dei
limiti di spesa imposti dall'art. 9, comma 28, per la quota
di costo aggiuntivo». Questo è, a ben vedere, lo schema
esclusivo di operatività dell'articolo 1, comma 557.
La
delibera afferma che non si applicano i vincoli al lavoro
flessibile, laddove il piccolo comune utilizzi il lavoratore
nell'ambito di convenzioni che regolino l'utilizzo reciproco
e condiviso del dipendente con l'ente di maggiori
dimensioni. Per meglio dire, l'articolo 9, comma 28, del dl
78/2010 non è operante se il lavoratore svolge la propria
prestazione lavorativa di 36 ore in parte per il comune di
maggiori dimensioni che rimane titolare del rapporto di
lavoro, e nella parte residua (sempre all'interno delle 36
ore) in favore del piccolo comune richiedente.
In terzo luogo, la Corte ritiene che si possa dare
attuazione all'articolo 1, comma 557, della legge 311/2004,
mediante l'istituto del comando. In questo caso i vincoli
alla spesa flessibile non si applicherebbero, ma solo a
condizione che l'ente che comanda il proprio dipendente non
utilizzi le economie di spesa di personale conseguenti per
attivare nuove assunzioni
(articolo ItaliaOggi del 28.06.2016). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Meno paletti per i mini-enti.
Corte conti sul personale esterno.
I piccoli comuni possono utilizzare dipendenti provenienti
da altre amministrazioni senza dover rispettare i limiti
sulla spesa per il personale. Affinché ciò sia possibile,
tuttavia, i dipendenti esterni dovranno essere utilizzati
entro i limiti dell'ordinario orario di lavoro settimanale.
E gli enti di appartenenza, che autorizzano l'utilizzo
part-time o in posizione di comando del proprio dipendente,
dovranno verificare che i risparmi di spesa conseguiti non
alimentino spese aggiuntive o nuove assunzioni.
Lo ha chiarito la Sez. autonomie della Corte dei conti
nella
deliberazione 20.06.2016 n.
23.
I giudici
contabili sono stati chiamati in causa dalla sezione
regionale del Piemonte a cui si era rivolto il sindaco del
comune di Pavone Canavese (3.895 abitanti in provincia di
Torino) che chiedeva se, avvalendosi di personale esterno,
avrebbe dovuto rispettare il limite del 50% della spesa
sostenuta per le forme di lavoro flessibile nel 2009.
Di
fronte al contrasto giurisprudenziale sul punto, con le
sezioni regionali della Corte conti divise tra una lettura a
maglie larghe della norma (art. 9, comma 28, dl 78/2010),
secondo cui l'utilizzo di lavoratori esterni non
implicherebbe il ricorso a una forma flessibile di
assunzione («in quanto non verrebbe alterata la titolarità
del rapporto di impiego, ma soltanto l'oggetto del
rapporto») e una più restrittiva secondo cui l'impiego di
personale di altre amministrazioni «configurerebbe forma
flessibile di assunzione con conseguente applicazione del
tetto di spesa di cui all'art. 9, comma 28, del dl 78/2010 e
non una diversa modalità di utilizzo delle prestazioni in
seno al medesimo rapporto», la sezione autonomie ha aderito
alla prima tesi.
I giudici hanno escluso l'applicazione dei
tetti di spesa «allorché gli enti utilizzano le prestazioni
del dipendente in modo contestuale e reciproco, ovvero in
posizione di comando, secondo tempi, modi, condizioni e
limiti definiti nell'atto autorizzativo o in apposita
convenzione»
(articolo ItaliaOggi del 23.06.2016). |
QUESITI & PARERI |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
L'acquisto di beni e servizi informatici.
DOMANDA:
L'art. 1, comma
516, della Legge n. 208/2015 ha stabilito che gli acquisti
di beni e servizi informatici e di connettività deve
avvenire esclusivamente su Consip, fatta salva apposita
deroga dell'organo di vertice amministrativo.
Ciò premesso, questo comune ha acquisito anni fa alcuni
programmi informatici, per i quali occorre ogni anno
garantire la relativa assistenza sistemistica. E' evidente
che l'assistenza deve essere garantita dalle stesse ditte
che hanno fornito i prodotti software. Si pone quindi il
problema di stabilire se si possa di anno in anno
autorizzare gli acquisti in deroga.
E' possibile a tal fine utilizzare detto comma 516?
L'alternativa sarebbe di cessare l'utilizzo degli stessi
programmi e acquistare su Consip i prodotti, comprensivi
della manutenzione per n anni. E' evidente che ciò
comporterebbe il disinvestimento di notevoli cespiti, con
danno per l'Ente. Si chiede parere in merito.
RISPOSTA:
Il comma 516 dell’art. 1 della l. n. 208/2015 prevede che “le
amministrazioni e le società di cui al comma 512 possono
procedere ad approvvigionamenti al di fuori delle modalità
di cui ai commi 512 e 514 esclusivamente a seguito di
apposita autorizzazione motivata dell'organo di vertice
amministrativo, qualora il bene o il servizio non sia
disponibile o idoneo al soddisfacimento dello specifico
fabbisogno dell'amministrazione ovvero in casi di necessità
ed urgenza comunque funzionali ad assicurare la continuità
della gestione amministrativa. Gli approvvigionamenti
effettuati ai sensi del presente comma sono comunicati
all'Autorità nazionale anticorruzione e all'Agid”.
Tale disposizione, che sostanzialmente risulta assai simile
a quella del precedente comma 510, è stata dettata per il
settore informatico. La norma prevede in particolare la
possibilità, in via eccezionale, di derogare agli obblighi
di cui al comma 512 che si incentrano nell’obbligatorio ed
esclusivo ricorso alla Consip (la detta norma dispone
infatti “al fine di garantire l'ottimizzazione e la
razionalizzazione degli acquisti di beni e servizi
informatici e di connettività, fermi restando gli obblighi
di acquisizione centralizzata previsti per i beni e servizi
dalla normativa vigente, le amministrazioni pubbliche e le
società inserite nel conto economico consolidato della
pubblica amministrazione, come individuate dall'Istituto
nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi dell'articolo 1
della legge 31.12.2009, n. 196, provvedono ai propri
approvvigionamenti esclusivamente tramite Consip SpA o i
soggetti aggregatori, ivi comprese le centrali di
committenza regionali, per i beni e i servizi disponibili
presso gli stessi soggetti".
Le regioni sono autorizzate ad assumere personale
strettamente necessario ad assicurare la piena funzionalità
dei soggetti aggregatori di cui all'articolo 9 del
decreto-legge 24.04.2014, n. 66, convertito, con
modificazioni, dalla legge 23.06.2014, n. 89, in deroga ai
vincoli assunzionali previsti dalla normativa vigente, nei
limiti del finanziamento derivante dal Fondo di cui al comma
9 del medesimo articolo 9 del decreto-legge n. 66 del 2014),
allorché sussistano i requisiti di cui ai nn. 1) e 2) del
comma 510 (e cioè sia resa apposita autorizzazione
specificamente motivata resa dall’organo di vertice
amministrativo ed il bene o il servizio oggetto di
convenzione non sia idoneo al soddisfacimento dello
specifico fabbisogno dell'amministrazione per mancanza di
caratteristiche essenziali).
Oltre a tali ipotesi eccezionali viene prevista anche la
possibilità alternativa che l’autorizzazione motivata
dell’organo di vertice amministrativo sia resa non solo nel
caso in cui i beni o servizi risultino non disponibili o non
idonei, ma anche nell’ipotesi di “necessità ed urgenza
comunque funzionali ad assicurare la continuità della
gestione amministrativa”, sembrando il legislatore in
tal modo consentire una più ampia libertà per gli acquisti
diretti nel settore informatico, in deroga alle convenzioni
Consip.
Sulla base di tali previsioni si è quindi dell’avviso che
anche nel caso prospettato nel quesito l’amministrazione
potrebbe evidenziare ai fini dell’applicabilità della norma
il fatto che soltanto mantenendo il servizio in capo alle
stesse ditte affidatarie risulta possibile la gestione dei
programmi e dei prodotti già acquistati, mentre in caso
diverso sarebbe compromessa la stessa continuità del
servizio e delle relative attività di assistenza e
manutenzione informatica.
E’ chiaro peraltro che la ammissibilità di una scelta
risulta tanto più sicura quanto si riesca a fondarla su
motivazioni il più oggettive possibile sulla necessità e
funzionalità del servizio in essere non proseguibile, così
come impostato e concepito, con altri soggetti, e non solo
su considerazioni di mera e generica opportunità; mentre
andrebbe comunque adeguatamente dimostrato e motivato, al
fine di evitare qualsiasi responsabilità contabile, che, in
definitiva, tale soluzione risulterebbe anche la più
conveniente dal punto di vista economico poiché la diversa
soluzione di far ricorso a Consip imporrebbe all’Ente il
disinvestimento di cespiti rilevanti con conseguenti danni
economici, come accennato nel quesito stesso.
Va comunque ricordato che l’autorizzazione a derogare alle
convenzioni Consip, deve essere preliminarmente trasmessa
alla Corte dei Conti, anche in conformità alla previsione di
cui al comma 517 che stabilisce la sanzione disciplinare ed
erariale per inosservanza degli obblighi di cui al 512.
Inoltre gli approvvigionamenti effettuati ai sensi del comma
516, in deroga al convenzionamento per il settore
informatico e della connettività, devono essere comunicati
all'Autorità nazionale anticorruzione e all’Agid
(link
a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
PATRIMONIO:
L'affidamento del centro sportivo.
DOMANDA:
Questo Ente intende affidare la gestione del Centro Sportivo
Comunale con annesso Bar per n. 5 anni, prevedendo una base
d'appalto di euro 163.000,00, quindi sotto soglia.
Detto appalto facente parte dell'ex Allegato IIB dlgs.
163/2006, ora abrogato, da pareri online, dovrebbe rientrare
tra gli appalti di servizi sociali e di cui all'allegato IX
del D.LGS. 50/2016.
Si chiede se: 1) nell'attuale fase transitoria, la procedura
corretta è indagine di mercato con pubblicazione sul sito
del committente seguita da procedura negoziata con n. 5
operatori minimi da invitare se rinvenibili; 2) Procedura
aperta con pubblicazione sul sito dell'Ente e con quali
altre forme?
Si chiede se sia obbligatorio che le procedure suddette
debbano essere gestite da una centrale di committenza
qualificata o, in alternativa, ricorrendo agli strumenti di
acquisto e di negoziazione, anche telematici tipo SINTEL,
oppure, vista la tipologia dei presunti concorrenti, con la
vecchia procedura cartacea?
RISPOSTA:
Va preliminarmente ricordato che, in via generale,
trattandosi di comune non capoluogo di provincia, dovrebbe
trovare applicazione il comma 4 dell’art. 37 del nuovo
codice degli appalti il quale dispone: ”se la stazione
appaltante è un comune non capoluogo di provincia, fermo
restando quanto previsto al comma 1 e al primo periodo del
comma 2, procede secondo una delle seguenti modalità: - a)
ricorrendo a una centrale di committenza o a soggetti
aggregatori qualificati; - b) mediante unioni di comuni
costituite e qualificate come centrali di committenza,
ovvero associandosi o consorziandosi in centrali di
committenza nelle forme previste dall'ordinamento; - c)
ricorrendo alla stazione unica appaltante costituita presso
gli enti di area vasta ai sensi della legge 07.04.2014, n.
56”.
Va ricordato peraltro che il comma 1 ed il primo periodo del
comma 2 sopra cit. prevedono che:
- “1. Le stazioni appaltanti, fermi restando gli obblighi
di utilizzo di strumenti di acquisto e di negoziazione,
anche telematici, previsti dalle vigenti disposizioni in
materia di contenimento della spesa, possono procedere
direttamente e autonomamente all'acquisizione di forniture e
servizi di importo inferiore a 40.000 euro e di lavori di
importo inferiore a 150.000 euro, nonché attraverso
l'effettuazione di ordini a valere su strumenti di acquisto
messi a disposizione dalle centrali di committenza. Per
effettuare procedure di importo superiore alle soglie
indicate al periodo precedente, le stazioni appaltanti
devono essere in possesso della necessaria qualificazione ai
sensi dell'articolo 38”.
- “2. Salvo quanto previsto al comma 1, per gli acquisti
di forniture e servizi di importo superiore a 40.000 euro e
inferiore alla soglia di cui all'articolo 35, nonché per gli
acquisti di lavori di manutenzione ordinaria d'importo
superiore a 150.000 euro e inferiore a 1 milione di euro, le
stazioni appaltanti in possesso della necessaria
qualificazione di cui all'articolo 38 procedono mediante
utilizzo autonomo degli strumenti telematici di negoziazione
messi a disposizione dalle centrali di committenza
qualificate secondo la normativa vigente”.
L’ANAC ha peraltro recentemente chiarito, con un proprio
comunicato, che i comuni non capoluogo di provincia possono
procedere all’acquisizione di servizi di importo inferiore a
40 mila euro direttamente ed autonomamente ovvero attraverso
l’effettuazione di ordini a valere sugli acquisti messi a
disposizione dalle centrali di committenza mentre per
affidamenti di importi superiori deve essere in possesso
della necessaria qualificazione ai sensi dell’art. 38,
ricordando però che, nel periodo transitorio, questa si
intende sostituita dall’iscrizione all’AUSA (Anagrafe Unica
Stazioni Appaltanti) di cui all’art. 33-ter, DL 18.12.2012
n. 179).
Ciò rilevato in via preliminare, si osserva che se si
tratti, come riferito nel quesito, di un affidamento di un
appalto di un servizio rientrante nell’ambito di cui
all’allegato IX del codice (servizi sociali), questo risulta
ora escluso dall’applicazione del codice se di importo
superiore alla soglia di 750 mila euro di cui al comma 1,
lett. d), del cit. art. 35, come chiarito sempre dall’ANAC
nel comunicato suindicato.
Pertanto si dovrebbe concludere che nella fattispecie, se
riguardante un affidamento di un servizio di natura sociale
di importo inferiore a tale soglia, non dovrebbero trovar
luogo nemmeno, in particolare, gli obblighi aggregativi di
cui all’art. 37, comma 4, previsti in generale per
l’affidamento degli altri servizi ordinari.
Trovano invece luogo i principi generali di cui all’art. 30,
comma 1, richiamato dall’art. 36 e le procedure ivi
previste, tra cui quella di cui alla lett. b) del comma 2
secondo cui si procede “per affidamenti di importo pari o
superiore a 40.000 euro e inferiore a 150.000 euro per i
lavori, o alle soglie di cui all'articolo 35 per le
forniture e i servizi, mediante procedura negoziata previa
consultazione, ove esistenti, di almeno cinque operatori
economici individuati sulla base di indagini di mercato o
tramite elenchi di operatori economici, nel rispetto di un
criterio di rotazione degli inviti. I lavori possono essere
eseguiti anche in amministrazione diretta, fatto salvo
l'acquisto e il noleggio di mezzi, per i quali si applica
comunque la procedura negoziata previa consultazione di cui
al periodo precedente. L'avviso sui risultati della
procedura di affidamento, contiene l'indicazione anche dei
soggetti invitati”.
Trovano applicazione inoltre per tale tipo di appalti le
disposizioni di cui agli artt. 142 e 143 del codice (link
a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
ENTI LOCALI:
Il protocollo informatico.
DOMANDA:
Si chiede una interpretazione sul contenuto della “segnatura
di protocollo”.
1) posizione della software house: il formato della
segnatura è quello indicato all’art. 9 … e non precisa che
sono dati minimali (come invece nella normativa precedente);
2) posizione dell’ente: questo formato di segnatura,
rispettando il formato di cui all’art. 9 …, complica la
lettura da parte del cittadino che si trova “solo”
con una serie di codici, tra i quali il prot..
Chiediamo, ovviamente nel rispetto della norma, se è
possibile inserire nome dell’ente e prot. n. (com’era prima
del DPCM del 2013) e come verificato nella segnatura di
tante pubbliche amministrazioni.
RISPOSTA:
Innanzitutto occorre ricordare in via generale che la
segnatura di protocollo è l’apposizione o l’associazione
all’originale del documento, in forma permanente non
modificabile, delle informazioni riguardanti il documento
stesso. La segnatura consente di individuare ciascun
documento in modo inequivocabile.
Il DPCM 03.12.2013 dettante Regole tecniche per il
protocollo informatico ai sensi degli articoli 40-bis, 41,
47, 57-bis e 71, del Codice dell’amministrazione digitale di
cui al decreto legislativo n. 82 del 2005 interviene, tra
l’altro, sul formato della segnatura di protocollo con
l’art. 9, il cui dispositivo espressamente prevede: "1. Le informazioni apposte o associate ai documenti
informatici, registrati nel registro di protocollo, negli
altri registri di cui all’art. 53, comma 5, del testo unico,
nei repertori e negli archivi, nonché negli albi, negli
elenchi e in ogni raccolta di dati concernente stati,
qualità personali e fatti con le modalità descritte nel
manuale di gestione, mediante l’operazione di segnatura di
cui all’art. 55 del testo unico che ne garantisce
l’identificazione univoca e certa, sono espresse nel
seguente formato: a) codice identificativo
dell’amministrazione; b) codice identificativo dell’area
organizzativa omogenea; c) codice identificativo del
registro; d) data di protocollo secondo il formato
individuato in base alle previsioni di cui all’art. 20,
comma 2; e) progressivo di protocollo secondo il formato
specificato all’art. 57 del testo unico.".
La sopravvenuta disposizione normativa in disamina, se pure
riportandosi alla disciplina dell’art. 57 del D.P.R.
28.12.2000, n. 445, regola dettagliatamente e puntualmente il
formato della segnatura di protocollo.
Ciascun ente locale, fermo restando la propria competenza
all’approvazione (come alla modifica e/o integrazione) del
Manuale di Gestione del Protocollo, dovrà rispettare le
prescrizioni dettagliate dal dispositivo normativo sopra
ricordato.
Quanto sopra non esclude che ciascun ente locale,
nell’ambito delle proprie prerogative, possa integrare la
segnatura con l’apposizione di ulteriori elementi (come
quelli ipotizzati dal quesito, come per esempio la
denominazione dell’amministrazione procedente ed il numero
di protocollo, ecc.) nell’intento di facilitare l’utenza
locale e non, che accede al servizio di registrazione di
protocollo.
Per gli effetti, le modifiche e/o integrazioni di che
trattasi, oltre che richiedere una apposita integrazione del
vigente Manuale di Gestione del Protocollo, dovranno essere
oggetto di eventuale (laddove si rendesse necessario sulla
base del contratto in essere) rinegoziazione, anche
economica, del rapporto contrattuale con la società esterna,
chiamata a gestire il relativo software gestionale, questa
ultima a sua volta obbligata ad effettuare le necessarie
modifiche e/o integrazioni tecniche dello stesso software
(link
a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
PATRIMONIO:
L'iva per l'utilizzo di immobili comunali.
DOMANDA:
Premesso che questa amministrazione è proprietaria di un
immobile di due piani, dove il primo piano è adibito ad
poliambulatorio ed affittato a medici privati e pertanto
assoggettato ad attività commerciale a regime di esenzione.
Tenuto conto che il secondo piano verrà assegnato ad uso
condiviso ad associazioni locali, senza alcun canone di
affitto ma con il solo rimborso forfettario di parte delle
spese per le utenze di energia elettrica e riscaldamento, si
chiede di conoscere se l'attività di assegnazione dei locali
assume la caratteristica di attività commerciale pur in
assenza di un canone di affitto determinato.
RISPOSTA:
Si osserva preliminarmente che la mancanza di un contratto
di locazione, concessione in uso e simili, a titolo oneroso,
esclude la sussistenza dell’esercizio di attività economica,
cioè finalizzata allo sfruttamento di un bene materiale o
immateriale per ricavarne introiti aventi carattere di
stabilità (art. 9, parag. 2, della direttiva IVA comunitaria
2006/112/Ce).
Nel caso di specie il Comune procede al mero riaddebito,
peraltro parziale, delle spese accessorie alla conduzione
(gratuita) dell’immobile. In tal caso, quindi, enunciando il
principio IVA comunitario contenuto nella norma sopra
richiamata, non sussiste quel minimo di organizzazione di
mezzi preordinata alla percezione di corrispettivi con
carattere di continuità che caratterizza un’attività
economica. Conseguentemente, i riaddebiti non devono essere
fatturati.
Qualora il Comune procedesse non soltanto al riaddebito
delle utenze ma anche all’addebito di un complesso di
ulteriori servizi organizzati specificamente dal Comune
(p.e. pulizie, sorveglianza, custodia, etc.), si
rientrerebbe invece nel campo di applicazione dell’IVA
sussistendo quel minimo di attività organizzata sopra
citata. Si aggiunge che è necessario verificare
preliminarmente se l’acquisto dell’immobile è stato immesso
tra le attività commerciali rilevanti IVA del Comune tramite
l’esercizio della detrazione dell’IVA.
In caso positivo la destinazione permanente ad assegnazione
gratuita alle associazioni comporterebbe l’obbligo per il
Comune di operare la rettifica della detrazione ai sensi
dell’art. 19-bis2, c. 3, del DPR 633/1972, vale a dire la
restituzione dell’IVA detratta su acquisti di beni destinati
a finalità estranee all’esercizio di attività commerciali
successivamente all’acquisto (link
a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Osservatorio Viminale/ Sotto i 3 mila abitanti i
consiglieri sono 12. Simboli riutilizzabili.
Per i comuni con popolazione inferiore a 3 mila abitanti, il
consiglio comunale deve essere composto da dieci
consiglieri? Può essere riutilizzato il simbolo della lista
già impiegato nelle precedenti elezioni?
In merito al primo dei quesiti, occorre evidenziare che,
nella fattispecie in esame, l'ente locale insiste nel
territorio di una regione a statuto speciale. Secondo la
carta statutaria, l'ordinamento degli enti locali rientra
nella competenza della legislazione regionale, nel rispetto
della Costituzione, dei principi dell'ordinamento giuridico
della Repubblica, degli obblighi internazionali e degli
interessi nazionali, nonché delle norme fondamentali delle
riforme economico-sociali della repubblica.
La disciplina prevista dalla legge n. 56/2014, in materia di
città metropolitane, è qualificata dall'art. 1, comma 5,
della stessa legge come normativa recante principi di «grande
riforma economica e sociale»; inoltre, la citata legge,
ai sensi del successivo comma 145, dispone che «entro 12
mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge,
le regioni a statuto speciale Friuli-Venezia Giulia e
Sardegna e la regione siciliana adeguano i propri
ordinamenti interni ai principi della medesima legge».
Le disposizioni di cui ai commi da 104 a 141 sono
applicabili nelle regioni a statuto speciale Trentino-Alto
Adige e Valle d'Aosta compatibilmente con le norme dei
rispettivi statuti e con le relative norme di attuazione,
anche con riferimento alla legge costituzionale 18.10.2001,
n. 3.
Nel caso di specie, tuttavia, la regione non ha ancora
provveduto ad un riordino complessivo del proprio
ordinamento degli enti locali.
Pertanto, nelle more di un futuro riassetto della materia,
occorre fare riferimento alla normativa regionale
attualmente vigente, secondo cui il consiglio comunale dei
comuni con popolazione compresa tra 1.000 e 5 mila abitanti
è composto da 12 membri.
In ordine al secondo quesito formulato, si ritiene possa
essere nuovamente utilizzato, da parte della formazione
politica interessata alle prossime elezioni comunali, il
medesimo contrassegno di lista presentato, e presumibilmente
ammesso, in occasione delle elezioni tenutesi nello stesso
comune.
In merito, si richiamano le disposizioni contenute nell'art.
30, comma 1, lettera b), (per i comuni sino a 15 mila
abitanti) e nell'art. 33, comma 1, lett. b) (per i comuni
con popolazione superiore a 15 mila abitanti) del dpr n.
570/1960, da cui si evincono i criteri di ammissione dei
contrassegni di lista, con riferimento, tra l'altro, al
divieto di presentazione di contrassegni identici o comunque
confondibili con quelli presentati precedentemente per la
stessa consultazione o con quelli notoriamente usati da
altri partiti o raggruppamenti politici
(articolo ItaliaOggi dell'01.07.2016). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Il vicesindaco non vota.
Ma l'atto annullabile può essere convalidato.
Se l'illegittimità del voto non ha influito
sull'esito della deliberazione.
È legittima una delibera di consiglio comunale adottata con
il voto espresso anche dal vice sindaco dell'ente?
Il Consiglio di stato, con parere n. 94/96 del 21/02/1996, ha
escluso che nel novero dei poteri vicari del vice sindaco
rientri l'esercizio delle funzioni di componente del
consiglio con diritto di voto.
Nel caso di specie, la deliberazione consiliare in questione
sarebbe stata approvata anche senza computare il voto
espresso dal vice sindaco, pertanto occorre valutare se sia
opportuno provvedere al ritiro della stessa, ove fosse
inficiata da vizi di legittimità.
In merito il Consiglio di stato, V sezione, con sentenza n.
1564 del 2005, con riferimento alla circostanza che la
delibera adottata sopravviva alla cosiddetta «prova di
resistenza», ha affermato che una giusta composizione tra
l'esigenza di reintegrare la legittimità violata nel corso
delle operazioni di voto e quella di salvaguardare la
volontà espressa dall'organo deliberante, non consente di
pronunciare l'annullamento degli atti impugnati e dei voti
così espressi, se la loro illegittimità non influisca in
concreto sull'esito della deliberazione.
Circa il superamento della «prova di resistenza», questa è
del tutto irrilevante quando la controversia sia riferita
alla violazione degli obblighi di astensione gravanti sugli
amministratori locali ai sensi della vigente normativa in
materia (cfr Consiglio di stato sez. IV 20/12/2013 n. 6177).
Nella fattispecie in esame, potrebbe farsi ricorso
all'istituto della convalida amministrativa grazie al quale,
qualora si sia in presenza di un atto annullabile, la
pubblica amministrazione, in virtù del principio di
conservazione degli atti giuridici, può decidere di
mantenere in vita tale atto, rimuovendo i vizi che lo
inficiano attraverso l'espressione di una manifestazione di
volontà finalizzata a eliminare il vizio ravvisato.
Infatti, la convalida si sostanzia in una nuova ed autonoma
manifestazione di volontà che, collegandosi all'atto
originario, ne mantiene gli effetti fin dal momento in cui
esso venne emanato. La legge n. 15 del 2005 ha modificato la
legge n. 241 del 1990, introducendo l'art. 21-nonies che, al
comma 2, prevede la possibilità di convalida del
provvedimento annullabile, entro un termine ragionevole, nel
caso in cui ne sussistano le ragioni di pubblico interesse
(articolo ItaliaOggi del 24.06.2016). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Quorum.
Qual è la normativa da applicare, in ordine alla definizione
del quorum strutturale stabilito per la validità delle
sedute del consiglio comunale, in caso di contrasto tra
previsione statutaria e norma regolamentare?
L'art. 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000,
demanda al regolamento comunale, «nel quadro dei principi
stabiliti dallo statuto» la determinazione del «numero dei
consiglieri necessario per la validità delle sedute», con il
limite che tale numero non può, in ogni caso, scendere sotto
la soglia del «terzo dei consiglieri assegnati per legge
all'ente, senza computare a tale fine il sindaco e il
presidente della provincia»; quest'ultimo assunto deve
essere inteso nel senso che, limitatamente al computo del
«terzo» dei consiglieri, il sindaco deve essere escluso.
Nel caso di specie è stato rilevato un contrasto tra la
previsione recata dallo statuto comunale e la disciplina
prevista dal regolamento sul funzionamento del consiglio
dell' ente locale.
La prima delle due fonti normative, infatti, prevede, in
prima convocazione, la presenza della maggioranza assoluta
dei consiglieri assegnati al fine della validità delle
sedute ed, in seconda convocazione, la presenza di almeno
sei consiglieri, non computando il sindaco. Ai sensi della
norma regolamentare è, invece, previsto che, per la validità
delle sedute di seconda convocazione, sia necessaria la
presenza di almeno un terzo dei consiglieri assegnati su un
totale di dodici consiglieri oltre al sindaco.
Secondo il principio della gerarchia delle fonti,
conformemente anche all'articolo 7 del citato Tuel, che
disciplina l'adozione dei regolamenti comunali «nel
rispetto dei principi fissati dalla legge e dallo statuto»
(cfr. sentenza Tar Lombardia, Brescia, n. 2625 del
28.12.2009, Tar Lazio, n. 497 del 2011), la citata
disposizione regolamentare dovrebbe essere disapplicata,
prevalendo la norma statutaria.
È, tuttavia, opportuno comporre la discrasia rilevata;
l'ente dovrà, pertanto, porre in essere un intervento
correttivo volto ad armonizzare le previsioni recate dalle
citate fonti di autonomia locale
(articolo ItaliaOggi del 24.06.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Richiesta parere su Decreto Ministeriale
n. 37 del 22.01.2008 (Ministero dello Sviluppo
Economico,
nota 16.06.2016 n. 203335 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Richiesta di parere in merito all'intervento di
ripristino di un edificio alla luce delle modifiche
apportate all'art. 3, comma 1, lett. d) del d.P.R. 380/2001
da parte del d.l. 69/2013, come convertito dalla legge
98/2013 - Comune di Cassino (Ministero delle
Infrastrutture e dei Trasporti,
nota 15.06.2016 n. 5772 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Parere in merito all'assoggettabilità al
contributo di costruzione degli impianti fotovoltaici
destinati alla produzione di energia elettrica da
commercializzare – Comune di Montalto di Castro (Regione
Lazio,
parere 14.06.2016 n. 312998 di prot.). |
NEWS |
EDILIZIA PRIVATA: Agenda in ritardo su Scia via internet e regolamento unico.
In edilizia non rispettato il 30% delle scadenze.
Semplificazioni. L’impatto delle misure potrà valutarsi a
fine 2016.
Le scadenze
previste dall’agenda per la semplificazione amministrativa
2015-2017 –come conferma il terzo rapporto di monitoraggio
stilato dal Governo– sono state rispettate al 90 per cento.
Ma nel settore dell’edilizia il calendario di partenza può
dirsi “saltato” per due attività su sei.
Gli obiettivi dell’agenda
All’agenda per la semplificazione, prevista dal Dl 90/2014,
è stato assegnato l’ambizioso obiettivo di «recuperare il
ritardo competitivo dell’Italia, liberare le risorse per
tornare a crescere e restituire ai cittadini e alle imprese
il tempo da dedicare a quello che conta», sburocratizzando e
rendendo più trasparente il rapporto con gli enti pubblici.
I settori interessati da queste misure sono cinque:
cittadinanza digitale, welfare e salute, fisco, edilizia,
impresa. Si tratta di ambiti nei quali ridurre i costi dei
rapporti con le Pa che erogano i servizi e abbreviare i
tempi di attesa degli atti o delle risposte avrebbe grande
effetto sia sulla qualità della vita e il benessere dei
cittadini, sia sull’efficienza e la competitività delle
imprese: in sintesi, sullo stato dell’economia. Per ogni
settore si è quindi provveduto a individuare una serie di
azioni: iniziative da promuovere, soggetti coinvolti,
scadenze da rispettare e risultati attesi.
L’ambito edilizio
Nel settore dell’edilizia la semplificazione viaggia su sei
azioni specifiche (si vedano le schede in pagina). Ma per i
costruttori e gli altri operatori economici che si muovono
in questo mercato, risultano importanti anche alcune delle
azioni previste per la generalità delle imprese. Vale a
dire, per fare solo qualche esempio: riduzione dei tempi e
degli adempimenti degli sportelli unici per le attività
produttive, semplificazione delle procedure per avviare
un’impresa, razionalizzazione delle conferenze di servizi.
In generale, se il rapporto tra le aziende e la Pa diventa
più fluido, nel rispetto delle regole, a beneficiare dello
snellimento amministrativo possono essere anche le famiglie
che acquistano una casa e gli altri soggetti che hanno
bisogno dei loro servizi. Secondo il dipartimento della
Funzione pubblica, nel solo campo dell’edilizia, preparare
relazioni, dichiarazioni e ogni altro documento necessario
per presentare una domanda costa agli utenti 4,4 miliardi di
euro all’anno.
Certo, riducendo le carte e i passaggi
burocratici superflui questi costi non spariscono, ma
possono essere di gran lunga limitati. E se tutti i
traguardi vengono rispettati, anche i 175 giorni di media
che occorrono per ottenere un permesso di costruzione
possono avvicinarsi ai 60 previsti dal Testo unico
sull’edilizia (Dpr 380/2001).
La tabella di marcia
Per valutare l’impatto complessivo dell’applicazione
dell’agenda in edilizia bisogna attendere la fine dell’anno,
quando produrranno i loro effetti anche le azioni ancora in
via di definizione. La tabella di marcia inizialmente
stabilita è stata però rispettata solo in parte, e per
alcuni interventi si procede un po’ al rallentatore.
È ad esempio in ritardo l’elaborazione del regolamento
edilizio tipo. A novembre 2015 è scaduto il termine previsto
per predisporre lo schema tipo, che dovrebbe sostituire gli
oltre 8mila diversi regolamenti ora applicati dai Comuni (si
veda Il Sole 24 Ore del 4 aprile scorso). Stato, regioni ed
enti locali sono riusciti finora a mettersi d’accordo sulla
definizione di 42 parametri edilizi (quali altezze,
superfici o distanze). Ma non è ancora chiaro quando il
lavoro potrà essere completato.
Siamo ai tempi supplementari anche per la pianificazione
delle procedure edilizie online. In questo caso la scadenza
era stata fissata a marzo 2015, ma dal rapporto risulta che
a quella data è stato definito il solo documento di
pianificazione, mentre la conclusione dei lavori è in
calendario per il prossimo dicembre. Mese entro il quale
saranno terminati anche gli interventi previsti dalle altre
azioni, le cui diverse fasi sono state realizzate secondo i
tempi previsti (articolo Il Sole 24 Ore del 04.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Personale,
dal decreto un primo passo ancora da completare.
Si fa qualche
passo in avanti in tema di gestione del personale. Grazie
alle insistenti richieste dell’Anci, il decreto-legge
113/2016 ha finalmente recepito la proposta volta a superare
una norma che da anni ha posto problemi poi acuitisi con la
grave impasse determinata dall’interpretazione “evolutiva”
resa dalla Corte dei Conti, che in un’ultima pronuncia ha
asserito la precettività del disposto contenuto nella legge
finanziaria del 2007 in merito al contenimento
dell’incidenza della spesa di personale sul complesso delle
spese correnti nelle Regioni e nei Comuni, contravvenendo a
quanto scritto nella delibera 27/2015 in cui si ribadiva
l’orientamento consolidato secondo cui il comma 557, lettera
a), della legge 296/2006 avrebbe carattere programmatorio e
di principio.
La sezione delle Autonomie invece con la delibera 16/2016, e
nonostante le sollecitazioni delle sezioni remittenti
(Lombardia e Veneto) di riconsiderare la posizione
interpretativa già espressa visti gli effetti maggiormente
penalizzanti e paradossali per gli enti che più hanno
ridotto le spese correnti, ha ribadito l’immediata
precettività della disposizione, specificando ulteriormente
l’impossibilità di utilizzare correttivi idonei a garantire
la comparabilità dei dati della serie storica di spesa
corrente.
Questa nuova lettura “interpretativa” ha determinato la
diretta applicazione delle sanzioni stabilite dalla legge
per le amministrazioni che violano le norme imperative di
contenimento (in termini di valore assoluto) della spesa di
personale. Conseguentemente anche i Comuni che hanno
garantito la riduzione della spesa di personale al di sotto
del corrispondente valore medio registrato nel triennio
2011-2013 (parametro introdotto dal decreto-legge 90/2014),
si sono ritrovati a subire il divieto di procedere ad
assunzioni a qualsiasi titolo, con qualsivoglia tipologia
contrattuale, di portare a conclusione le stabilizzazioni in
atto, di stipulare contratti di servizio con soggetti
privati che si configurino come elusivi del divieto, con un
impatto in molti casi pesantissimo sull’organizzazione e
sull’erogazione dei servizi.
Parliamo dei Comuni che hanno
razionalizzato la spesa corrente, dei Comuni che erogano
servizi, spesso essenziali per la comunità, di quelli che
hanno visto una costante riduzione della spesa per il
personale in termini assoluti e pro capite; parliamo dei
Comuni che vedono un drammatico invecchiamento del proprio
personale, e che sono chiamati ad applicare riforme
importanti come il nuovo codice dei contratti o le numerose
riforme della Pa.
Il problema ha riguardato indiscriminatamente sia molte
grandi città, impossibilitate a dar seguito alle assunzioni
programmate nelle funzioni legate a servizi alla
cittadinanza come quello educativo, sia moltissimi Comuni di
medie e piccole dimensioni demografiche, nei quali si è
determinato un impatto pesantissimo sulle strutture
organizzative già ridotte all’osso, traducendosi nei fatti
nell’impossibilità di procedere alla sostituzione per turn-over di figure essenziali, quali il ragioniere o il tecnico
comunale.
La norma contenuta nell’articolo 16 del decreto legge ripete
testualmente l’emendamento proposto dall’Anci già nel
novembre scorso, in occasione del dibattito parlamentare
sulla legge di stabilità 2016, e consegue alle forti
pressioni fatte in questi mesi in sede di Conferenza
Unificata. Questa previsione consente di superare
nell’immediato un paradosso interpretativo, ma resta aperto
il problema di giungere quanto prima a una complessiva
semplificazione delle norme che disciplinano le spese di
personale nei Comuni e il turn-over di personale, che,
ricordiamolo, è bloccato da quasi due anni dal processo di
ricollocazione del personale soprannumerario delle Province (articolo Il Sole 24 Ore del 04.07.2016). |
VARI:
Il ciclista all'incrocio resta dietro.
Con il codice stradale non è possibile allestire degli spazi
di sosta per permettere ai ciclisti di fermarsi alle linee
di arresto semaforiche in prima linea, davanti ai veicoli a
motore. Per evitare fumi di scarico e agevolare la partenza
degli utenti deboli.
Lo ha chiarito il Mintrasporti con il parere n. 2409/2016
di prot..
Un comune ha proposto al dipartimento per i trasporti di
collocare una particolare segnaletica in certi incroci molto
frequentati dai ciclisti. In pratica si tratterebbe di
creare una zona di arresto agevolata ai semafori, davanti
alla colonna dei veicoli a motore, all'estero denominata «casa
avanzata per ciclisti».
In questo modo verrebbe agevolata la circolazione dei
velocipedi e migliorata la qualità dell'aria respirata. Ma
per il ministero questo tipo di segnaletica non è ancora
ammessa dal codice stradale. Quindi niente da fare. Le
biciclette devono rassegnarsi a manovre pericolose e soste
fai-da-te sotto alle marmitte
(articolo ItaliaOggi Sette del 04.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
VARI: Documento
sequestrato, niente bis. Guida.
Chi subisce il sequestro della propria patente di guida non
può richiederne una nuova. Il documento soggetto a
restrizione infatti è ancora valido e il titolare ai sensi
dell'art. 116 Cds non può mai essere intestatario di due
licenze per condurre veicoli in ambito comunitario.
Lo ha chiarito il Ministero dei trasporti con il parere
04.05.2016 n.
10470 di prot..
Alcuni uffici della motorizzazione hanno evidenziato che in
caso di sequestro di una patente di guida l'interessato si
trova in evidente difficoltà. Per tentare di conseguire un
nuovo titolo occorrerebbe infatti togliere valore al
documento sottoposto a restrizione.
Ma questa soluzione non è praticabile. Non è infatti
possibile annullare una licenza di guida sottoposta a
sequestro da parte dell'autorità giudiziaria, specifica il
ministero.
E di conseguenza consentire il rilascio di una nuova patente
o di un suo duplicato a chi risulta sulla carta ancora
intestatario di una licenza di guida in corso di validità
(articolo ItaliaOggi Sette del 04.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI
LOCALI - VARI:
Niente palette per i volontari. Una circolare
della protezione civile.
I volontari che aiutano le forze dell'ordine a dirigere il
traffico non possono prendere in mano palette o altri
segnali distintivi tipici delle forze di polizia stradale. E
il loro impiego deve essere preventivamente formalizzato
dagli organi di vigilanza che se ne assumono pure la
responsabilità operativa.
Lo ha chiarito il Dipartimento della protezione civile con
la
circolare 24.06.2016 n. 32320 di
prot..
La questione
dell'impiego operativo dei volontari e di quelli della
protezione civile in particolare è densa di incognite
soprattutto quando si tratta di collaborare con vigili
urbani, carabinieri e polizia impegnati con deviazioni del
traffico e chiusura di strade. Normalmente l'operatore
ritiene di poter offrire il suo supporto anche utilizzando
palette per regolare il traffico ed essere più riconoscibile
dagli automobilisti. Nulla di più sbagliato.
A parere della
Presidenza del consiglio dei ministri la collaborazione dei
volontari può innanzitutto inquadrarsi all'interno dell'art.
11 del codice della strada ma solo in riferimento alla
regolazione del traffico e alla scorta dei mezzi. Quindi non
certo per fare multe o rilevare incidenti. Questa attività
di supporto però deve essere inquadrata nell'alveo dei
compiti che possono essere richiesti ai volontari di
protezione civile. Ovvero l'informazione alla popolazione e
il presidio del territorio, in conformità al decreto del
capo della protezione civile del 12.01.2012.
Anche in
scenari caratterizzati dall'assenza di specifici rischi di
protezione civile. Spetterà però ai vigili urbani, alla
polizia e ai carabinieri richiedere formalmente il supporto
delle organizzazioni di volontariato e di protezione civile.
Con tanto di assunzione di responsabilità sul coordinamento
operativo del personale impiegato effettivamente sul campo.
L'autorità locale di protezione civile potrà quindi
autorizzare l'uso del personale in strada esclusivamente per
finalità di supporto alle forze dell'ordine. Ma risulterà
sempre tassativamente vietato l'uso di palette dirigi-traffico
o altri segnali in uso alle forze dell'ordine che possano
ingenerare equivoci nella popolazione
(articolo ItaliaOggi del 02.07.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Giudizi contabili più equilibrati. Parità
accusa-difesa, contraddittorio, esecuzioni certe. Le novità
del dlgs che riscrive le regole dei processi dinanzi alla
Corte dei conti.
I giudizi davanti alla Corte dei conti saranno più
equilibrati. Con una reale parità tra accusa e difesa e
maggiori garanzie di contraddittorio per i presunti
responsabili nella fase istruttoria e pre-processuale.
Corollario dell'ingresso del principio del giusto processo
nel giudizio erariale sarà l'equidistanza del pubblico
ministero che dovrà svolgere indagini non solo per provare
gli elementi costitutivi della responsabilità erariale, ma
anche per accertare gli elementi che la escludono tale
responsabilità.
Si pone dunque rimedio dopo più di 80 anni alle
contraddizioni del giudizio dinanzi alla Corte dei conti,
disciplinato da un coacervo di norme stratificate nel tempo,
culminate con il regio decreto 1038/1933 che rinviando ai
termini e alla norme del codice di procedura civile «in
quanto applicabili» ha di fatto creato «un sistema
asimmetrico» che ha «finito per sacrificare le garanzie di
difesa». Di qui l'esigenza di rimettere mano alla normativa
e di farlo per la prima volta con un codice organico che
racchiude le disposizioni processuali di tutte le tipologie
di giudizi che si svolgono davanti alla Corte dei conti.
Il
Codice, il secondo dopo quello sui contratti pubblici (dlgs
50/2016) messo a punto dal governo Renzi, è stato approvato
in via preliminare dal consiglio dei ministri di giovedì. In
219 articoli (a cui si aggiungono le norme di attuazione) il
dlgs riscrive del tutto i giudizi contabili rendendoli, come
detto, più garantisti. E il principio del giusto processo
permea tutti gli istituti processuali. Viene previsto
l'obbligo di motivazione degli atti istruttori e introdotti
riti alternativi e semplificati, con l'obiettivo di ridurre
il volume del contenzioso e rendere più certa l'esecuzione
delle sentenze di condanna.
Il giudizio davanti alla Corte
conti perderà la sua connotazione inquisitoria espressa, in
particolare, dall'esercizio del potere «sindacatorio» in
forza del quale, per esempio, l'integrazione del
contraddittorio poteva avvenire prescindendo dai necessari
passaggi preliminari difensivi e in deroga alla titolarità
del diritto d'azione in capo al procuratore contabile.
Vediamo le novità più significative.
Invito a dedurre.
L'invito a dedurre, cioè il tipico atto
attraverso il quale un presunto responsabile è informato del
fatto che è stata effettuata un'indagine per danno erariale
nei suoi confronti, viene arricchito di contenuti
informativi per consentire al destinatario di comprendere la
portata delle contestazioni a suo carico e argomentare la
propria difesa.
Audizioni personali.
La parte ha diritto di essere sentita
con l'assistenza dell'avvocato (pena la nullità
dell'audizione) e, dopo l'invito a dedurre, ha diritto di
accedere a tutti gli atti del fascicolo istruttorio. Il
soggetto sottoposto ad audizione ha l'obbligo di presentarsi
e di rispondere alle domande che gli sono rivolte. Tuttavia,
egli non è obbligato a deporre sui fatti da cui potrebbe
emergere una sua responsabilità. Chi, senza giustificato
motivo, rifiuta la convocazione del pm è punito con una
sanzione da 100 a 1.000 euro.
Accesso agli atti.
Il pm potrà accedere agli atti sui siti
delle pubbliche amministrazioni che, in particolare dopo gli
ultimi interventi normativi (il dlgs 97/2016 che ha
introdotto nel nostro ordinamento il Freedom of information
act), consentono di verificare online la maggior parte dei
documenti che caratterizzano l'attività di una p.a.
Azioni a tutela del credito erariale.
Il pubblico ministero
contabile potrà esercitare tutte le azioni a tutela delle
ragioni del creditore previste dalla procedura civile,
compresa l'azione surrogatoria e revocatoria.
Onere di segnalazione.
I magistrati della Corte conti assegnati alle sezioni e agli
uffici di controllo devono segnalare alle competenti procure
regionali i fatti da cui possano derivare responsabilità
erariali. Tuttavia, viene stabilito il divieto che le
notizie o i dati inerenti ipotesi di danno erariale
transitino nella fase istruttoria del giudizio di
responsabilità come prove già precostituite in sede di
controllo. La prova del danno erariale è infatti interamente
rimessa all'opera del procuratore contabile.
Viene inoltre
prevista l'archiviazione della notizia di danno per assenza
di elemento psicologico se l'azione dell'ente locale si sia
conformata al parere reso dalla Corte conti nei confronti
dei medesimi enti in sede di controllo o in sede consultiva
(articolo ItaliaOggi del 02.07.2016). |
LAVORI PUBBLICI: Lavori,
pianificazione più facile. Programma triennale ed elenco
annuale vanno nel Dup. Il nuovo
codice degli appalti ha semplificato l'iter e abrogato la
precedente disciplina.
Il nuovo codice degli appalti ha semplificato l'iter per la
programmazione dei lavori pubblici, abrogando la previgente
disciplina che mal si coordinava con quella relativa al Dup.
Il vecchio dlgs 163/2006 ed i relativi provvedimenti
applicativi (dpr 207/2010 e dm 24.10.2014 del ministero
delle infrastrutture) prevedevano che lo schema di programma
triennale fosse redatto entro il 30 settembre, adottato
dalla giunta entro il 15 ottobre e infine deliberato dal
consiglio contestualmente al bilancio di previsione, del
quale costituiva un allegato assieme all'elenco dei lavori
da avviare nell'anno.
Prima del varo definitivo, inoltre, gli schemi di tali
provvedimenti dovevano essere pubblicati per almeno 60
giorni consecutivi nella sede dell'amministrazione (che
poteva anche adottare ulteriori forme di informazione).
Per contro, il dlgs 118/2011 (e, in particolare, l'allegato
4/1 recante il principio contabile applicato sulla
programmazione) impongono che la programmazione in materia
di lavori pubblici (come quella su personale e patrimonio)
confluiscano nel Documento unico di programmazione (Dup).
In
altre parole, quindi, sia il programma triennale che
l'elenco annuale diventano un allegato del Dup, da collocare
nella seconda parte della sezione operativa del documento.
Il Dup deve essere presentato dalla giunta al consiglio «per
le conseguenti deliberazioni» entro il 31 luglio. È evidente
che si trattava di previsioni mal coordinate sia sul piano
temporale, che su quello formale. Ora, come detto, il quadro
normativo è stato modificato dal dlgs 50/2016.
Quest'ultimo
disciplina il programma triennale dei lavori pubblici
(insieme al programma biennale degli acquisti di beni e
servizi) all'art. 21, prevedendo (al comma 1) che essi siano
approvati nel rispetto dei documenti programmatori e in
coerenza con il bilancio. Il successivo comma 8 rimette ad
un nuovo decreto delle infrastrutture (da adottare entro 90
giorni dall'entrata in vigore del nuovo codice)
l'aggiornamento della relativa modulistica.
Alla luce di tale novella, si ritiene che, nelle more
dell'adozione del predetto dm, gli enti possano utilizzare i
vecchi modelli, ma non siano più vincolati a seguire il
precedente iter e la relativa tempistica. Ciò pare
confermato anche dall'art. 216, che fa scattare con
decorrenza immediata l'abrogazione della precedente
disciplina.
Pertanto, il programma triennale e l'elenco annuale vanno
senz'altro inseriti nello schema di Dup 2017-2019 che le
giunte devono presentare fra un mese ai consigli, i quali lo
approveranno secondo la tempistica prevista dai regolamenti
di contabilità dei singoli enti ovvero, in mancanza, i in
tempi utili per la presentazione dell'eventuale nota di
aggiornamento entro il 15 novembre, unitamente allo schema
di bilancio per il prossimo triennio.
Ovviamente, la nota di
aggiornamento dovrà adeguare la programmazione dei lavori
pubblici alle indicazioni consiliari o al mutato quadro
normativo, raccordandola in modo puntuale con il preventivo.
Quanto alla pubblicità, il comma 7 dell'art. 1 prevede che
il programma degli acquisti di beni e servizi e quello dei
lavori pubblici, nonché i relativi aggiornamenti annuali,
siano pubblicati sul profilo del committente, sul sito
informatico del ministero delle infrastrutture e
dell'Osservatorio dei contratti pubblici.
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Regola estesa agli acquisti.
Nel Dup 2017-2019, gli enti locali devono inserire la
programmazione degli acquisti di beni e servizi di importo
pari o superiore a 40 mila euro. Anche tale obbligo è stato
introdotto dall'art. 21 del nuovo codice degli appalti (dlgs
50/2016), che ha ampliato l'analoga previsione contenuta
nella legge di stabilità 2016 (comma 505 della legge
208/2015). Quest'ultima, infatti, aveva limitato il campo ai
soli acquisti di importo unitario stimato superiore a 1
milione di euro.
Ora, invece, la soglia è stata abbassata a
40 mila euro, ovvero l'importo massimo di acquisto autonomo
per i comuni non capoluogo che sono stazioni appaltanti non
qualificate. Ovviamente, il dlgs 118/2011, nel disciplinare
i contenuti del Dup, non richiama la programmazione degli
acquisti di beni e servizi, non essendo ancora stato
aggiornato alle richiamate novità normative.
Tuttavia, la
questione dovrà essere posta, considerato che l'art. 21,
comma 1, del dlgs 50 impone il raccordo con i documenti
programmatori, oltre che (ovviamente) con il bilancio
(articolo ItaliaOggi dell'01.07.2016). |
APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI
La registrazione al Sic slitta di un anno.
L'entrata in vigore dell'obbligo è prorogata al 30/06/2017.
Prorogata di un anno, fino al 30.06.2017, l'entrata in
vigore dell'obbligo di registrazione al sistema informativo
del casellario giudiziale; le pubbliche amministrazioni
potranno ancora chiedere i dati agli uffici locali del
casellario; assicurata la continuità del servizio che
interessa importanti verifiche sugli affidatari di contratti
pubblici.
È quanto prevede il decreto del ministero della giustizia
del 17.06.2016, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del
24.06.2016, n. 146, in tema di utilizzo del casellario
giudiziale da parte delle pubbliche amministrazioni e dei
gestori di pubblici servizi.
Nel 2014, con il decreto dirigenziale del ministero della
giustizia del 12 giugno, era già stato prorogato al
30.06.2016 il termine per la vigenza delle disposizioni
transitorie di cui all'art. 16 del decreto dirigenziale,
secondo cui le amministrazioni interessate all'accesso
diretto al Sic che non avessero ancora attivato la procedura
di cui all'art. 5 dello stesso decreto dirigenziale,
potevano continuare a richiedere i certificati agli uffici
locali del casellario.
In base al decreto del 5 dicembre 2012 tutte le
amministrazione, entro il termine che scadeva ieri,
avrebbero dovuto procedere alla registrazione per accedere
alla consultazione diretta del sistema informativo del
casellario, individuando al proprio interno anche un
funzionario responsabile per l'accesso a tali dati.
Il periodo transitorio non è stato però sufficiente perché,
come dice lo stesso ministero della giustizia, «per ciascuna
istanza di accesso e' da verificare preliminarmente che
l'amministrazione interessata abbia indicato, nella relativa
scheda informativa, i procedimenti amministrativi di
competenza, per i quali è legittimata ad acquisire i
certificati del casellario in virtù di una specifica
previsione normativa che ne stabilisca il contenuto, ciò
anche al fine della realizzazione della procedura
informatica per il rilascio di un certificato selettivo».
Peraltro le richieste di accesso non sono state neanche
numerose se è vero che, come dice sempre il ministero della
giustizia, sono arrivate soltanto 400 richieste dai comuni
su un totale di 8 mila (anche carenti di informazioni e non
in linea con le disposizioni dettate dalle circolari in
materia).
La proroga consentirà anche di mettere a punto una serie di
convenzioni tipo, ad esempio con l'Anci, cui aderiranno le
amministrazioni comunali le quali potranno così evitare di
accreditarsi singolarmente.
Per i contratti pubblici le verifiche sul casellario
giudiziale scattano nell'ambito dell'applicazione
dell'articolo 80 del nuovo codice (decreto legislativo n.
50/2016) che prevede l'esclusione dalla gara per l'operatore
economico che abbia riportato una condanna con sentenza
definitiva o decreto penale di condanna divenuto
irrevocabile, o sentenza di applicazione della pena su
richiesta ai sensi dell'articolo 444 del codice di procedura
penale, anche riferita a un suo subappaltatore nei casi di
cui all'articolo 105, comma 6, per una serie di reati che
comprendono quelli contro la pubblica amministrazione e
altre gravi fattispecie rilevanti ai fini della conclusione
di un contratto pubblico, fra ciò anche l'appartenenza a
organizzazioni di stampo mafioso
(articolo ItaliaOggi dell'01.07.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO: False
presenze, sospensione immediata. Dal 13 luglio linea dura
sulle attestazioni e per i dirigenti che non sanzionano le
irregolarità.
Riforma Madia. Pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale» del 28
giugno il decreto per mettere alle corde i «furbetti del
cartellino».
Vita dura dal 13
luglio per i “furbetti del cartellino”. Da tale data,
infatti, entreranno in vigore le norme del Dlgs 20.06.2016,
n. 116, pubblicate martedì sulla «Gazzetta Ufficiale», che
modificano l’articolo 55-quater del Testo unico del pubblico
impiego (Dlgs 165/2001), allo scopo di combattere il
fenomeno della falsa attestazione della presenza in ufficio
da parte dei dipendenti pubblici.
La falsa attestazione della presenza, secondo la riforma, si
realizza quando il dipendente, con qualunque modalità,
faccia risultare in maniera fraudolenta -anche avvalendosi
di terzi- di essere in servizio, oppure tragga in inganno
l'amministrazione circa l'orario di lavoro effettivamente
svolto.
Se la falsa attestazione della presenza viene accertata in
flagranza, oppure mediante l'utilizzo di strumenti di
sorveglianza o di registrazione degli accessi o delle
presenze, l'Amministrazione deve disporre immediatamente -e
comunque entro 48 ore dalla conoscenza del fatto– e con
provvedimento motivato la sospensione cautelare del
dipendente, senza necessità di ascoltarlo preventivamente.
Il superamento di tale termine non determina inefficacia
della sospensione e non comporta la decadenza dall'azione
(analogo principio è previsto per la successiva procedura
disciplinare).
La sospensione è una misura diversa dal licenziamento, ma i
suoi effetti concreti di fatto anticipano le conseguenze
dell'eventuale e futura misura di recesso dal rapporto;
infatti, durante il periodo di sospensione non spetta lo
stipendio, anche se deve essere riconosciuto un trattamento
minimo alimentare, nella misura stabilita dalle disposizioni
normative e contrattuali vigenti.
Dopo la sospensione, deve essere avviato il procedimento
disciplinare, finalizzato ad ascoltare le difese del
lavoratore e ad adottare l'eventuale misura sanzionatoria,
in caso tali difese risultino insufficienti; anche per
questa fase sono previsti termini accelerati.
Il dipendente è convocato, per il contraddittorio a sua
difesa, con un preavviso di almeno 15 giorni, e l'ufficio
conclude il procedimento entro 30 giorni dalla ricezione, da
parte del dipendente, della contestazione dell'addebito; al
termine della procedura il lavoratore può essere licenziato,
se le giustificazioni addotte non sono considerate
sufficienti.
Dopo il licenziamento, al dipendente non resta che andare
davanti al giudice del lavoro, sperando che questo trovi
delle irregolarità formali o sostanziali nella procedura; in
tal caso, potrebbe essere invocata l'applicazione
dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori nella versione
originaria, stando a quanto sancito dalla Corte di
Cassazione con la sentenza 11868/2016.
Il dipendente che
attesta falsamente la presenza rischia di risarcire anche il
danno di immagine prodotto alla pubblica amministrazione: il
responsabile della struttura che ha sospeso il lavoratore
deve, infatti, denunciare il fatto al pubblico ministero e
trasmettere gli atti alla procura regionale della Corte dei
Conti entro 15 giorni dall'avvio della procedura
disciplinare.
La procura, entro tre mesi dal licenziamento, può emettere
nei confronti del dipendente un “invito a dedurre” in merito
al risarcimento per danno di immagine alla pubblica
amministrazione.
L'eventuale danno viene liquidato dal giudice in via
equitativa, tenendo conto della rilevanza che ha avuto la
vicenda sui mezzi di informazione (ma in misura non
inferiore a sei mensilità dell'ultimo stipendio percepito
dal dipendente).
La legge punisce anche i dirigenti e i responsabili
dell'ufficio che, avendo conosciuto l'illecito, non si siano
attivati prontamente per applicare la nuova procedura: tale
omissione costituisce illecito disciplinare punibile con il
licenziamento, e deve essere comunicata all'autorità
giudiziaria ai fini dell'accertamento della sussistenza di
eventuali reati (articolo Il Sole 24 Ore del 30.06.2016
- tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'Ape cambia di nuovo. In chiaro consumi di
ascensori e scale mobili.
CERTIFICAZIONE ENERGETICA/In vigore nuove norme tecniche.
Nello stilare la certificazione energetica degli edifici
bisognerà tener conto anche dei consumi derivanti da
ascensori, scale e marciapiedi mobili.
Dal 29 giugno sono in vigore le nuove norme Uni 11300 parte
4 (aggiornamento), parte 5 e parte 6 e le Uni 10349 parte 1,
2 e 3.
Il 31.03.2016 (con entrata in vigore dopo 90 giorni
dalla pubblicazione), infatti, sono state pubblicate dal
Comitato termotecnico italiano (Cti) le nuove norme Uni che,
oltre alla certificazione energetica, interessano il calcolo
delle prestazioni termiche, ossia le Uni 11300 e delle Uni
10349 (dati climatici).
Il dlgs 92/2005 ha infatti previsto che le metodologie di
calcolo delle prestazioni energetiche degli edifici devono
far riferimento alle norme Uni/Ts 11300. Di conseguenza, da
ieri, per procedere alla redazione dell'Ape (l'attestato di
prestazione energetica) e alla verifica dei requisiti minimi
degli edifici è necessario utilizzare software sottoposti a
una nuova procedura di certificazione da parte del Cti per
la conformità alle nuove Uni/Ts 2016.
E non è più possibile
redigere i nuovi Ape con software non conformi e certificati
dal Comitato.
Cosa cambia nella redazione dell'Ape.
Come detto, per i certificatori energetici diventa
vincolante utilizzare le nuove norme Uni per la redazione
degli attestati di prestazione energetica degli edifici.
Così, per esempio, diventa obbligatorio stimare anche i
consumi derivanti da ascensori, scale mobili e marciapiedi
mobili (per le categorie di edifici dove la stima è
prevista), da calcolare secondo la Uni/Ts 11300-6.
Le nuove Uni/Ts 11300.
La revisione delle parti 4, 5 e 6 della Uni/Ts 11300 segue
alle norme emanate dal Cti nell'ottobre 2014. In
particolare, la revisione della Uni/Ts 11300-4 riguarda le
fonti rinnovabili e altri metodi di generazione.
Calcola,
cioè, il fabbisogno di energia per la climatizzazione
invernale e la produzione di acqua calda sanitaria, nel caso
vi siano sottosistemi di generazione (impianti solari
termici, generatori a combustione alimentati a biomasse,
pompe di calore, impianti fotovoltaici, cogeneratori,
sottostazioni di teleriscaldamento), che forniscono energia
termica utile da fonti rinnovabili o con metodi di
generazione diversi dalla combustione a fiamma di
combustibili fossili. La Uni/Ts 11300-5, invece, fornisce
metodi di calcolo per determinare in modo univoco e
riproducibile il fabbisogno di energia primaria degli
edifici sulla base dell'energia consegnata ed esportata e la
quota di energia da fonti rinnovabili, applicando la
normativa tecnica citata nei riferimenti normativi.
La Uni/Ts
11300-6 infine fornisce dati e metodi per la determinazione
del fabbisogno di energia elettrica per il funzionamento di
impianti destinati al sollevamento e al trasporto di persone
o persone accompagnate da cose in un edificio (ascensori,
scale mobili e marciapiedi mobili), sulla base delle
caratteristiche dell'edificio e dell'impianto.
Le norme Uni 10349.
La Uni 10349:2016 è composta da tre parti. La nuova versione
è in sostanza la revisione delle parti 1, 2 e 3
dell'edizione Uni 10349 precedente, che risale al 1994. In
particolare:
- la Uni 10349-1 riguarda le medie mensili per la
valutazione della prestazione termo-energetica dell'edificio
e metodi per ripartire l'irradianza solare nella frazione
diretta e diffusa e per calcolare l'irradianza solare su di
una superficie inclinata;
- la Uni/Tr 10349-2 riguarda i dati di progetto. Il rapporto
tecnico fornisce, per il territorio italiano, i dati
climatici convenzionali necessari per la progettazione delle
prestazioni energetiche e termoigrometriche degli edifici,
inclusi gli impianti tecnici per la climatizzazione estiva e
invernale a essi asserviti;
- infine la Uni 10349-3 riguarda le differenze di
temperatura cumulate (gradi giorno) e altri indici
sintetici. La norma fornisce metodi di calcolo e prospetti
di sintesi relativi a indici sintetici da utilizzarsi per la
descrizione climatica del territorio
(articolo ItaliaOggi del 30.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Un metodo comune per calcolare la raccolta
differenziata.
Regole comuni su tutto il territorio italiano per il calcolo
della percentuale di raccolta differenziata dei rifiuti
urbani e assimilati. Arriva infatti un metodo unico a cui
tutte le regioni dovranno attenersi nel dotarsi dei propri
metodi di calcolo e di certificazione. Tra le novità, anche
la possibilità di conteggiare il compostaggio domestico
nella raccolta differenziata e di considerare nel calcolo
tutti i rifiuti che sono conferiti nei centri di raccolta
comunali. Questo potrà avvenire solo nei comuni che abbiano
con proprio atto disciplinato questa attività, garantendo
dunque la tracciabilità e il controllo.
È con il decreto del ministero dell'ambiente (pubblicato
nella Gazzetta Ufficiale del 24.06.2016 n. 146) che sono
state introdotte, per la prima volta, le linee guida
nazionali per un metodo di calcolo unico della raccolta
differenziata dei rifiuti urbani e assimilati.
Il decreto,
che attua l'articolo 32 del collegato ambientale (legge
28.12.2015 n. 221), permetterà un reale confronto dei
risultati tra le diverse aree geografiche del territorio
nazionale e tra i comuni, calibrando i tributi comunali a
seconda dei livelli di raccolta raggiunti e certificati
dalle regioni.
Finalità.
Le linee guida forniscono indirizzi e criteri per
il calcolo della percentuale di raccolta differenziata dei
rifiuti urbani e assimilati raggiunta in ciascun comune, al
fine di uniformare, sull'intero territorio nazionale, il
metodo di calcolo della stessa.
Alla base del documento la
necessità di creare un complesso di raccomandazioni
tecniche, da applicarsi in modo omogeneo sull'intero
territorio nazionale, per rendere confrontabili, sia a
livello temporale che spaziale, i dati afferenti a diversi
contesti territoriali. Per raccolta differenziata, va
ricordato, si intende «la raccolta in cui un flusso di
rifiuti è tenuto separatamente in base al tipo e alla natura
al fine di facilitarne il trattamento specifico».
Essa rappresenta lo strumento cardine dell'economia
circolare, perché raccogliendo le singole frazioni in modo
separato si contribuisce alla riduzione della pericolosità
dei rifiuti, si favorisce il loro trattamento specifico e la
loro valorizzazione; i rifiuti così diventano risorse e,
quindi, opportunità di sviluppo economico, riducendo al
contempo l'impatto complessivo su salute e ambiente
(articolo ItaliaOggi del 30.06.2016). |
ENTI LOCALI:
Partecipate senza conflitti. Struttura ad hoc per
monitoraggio e controllo. Oggi la
camera vota il parere sul T.u. Largo alle società
consortili.
Niente conflitti di interesse sul controllo delle
partecipate statali. Ferma restando la competenza del Mef,
il monitoraggio dovrà essere affidato a una struttura ad hoc
«onde evitare potenziali conflitti tra l'esercizio dei
poteri dell'azionista e l'attività di controllo».
Le p.a. potranno continuare a detenere partecipazioni in
società consortili che si affiancano a spa e srl nell'elenco
delle tipologie societarie per le quali sarà ammessa la
partecipazione pubblica. Inoltre, saranno svincolate
dall'obbligo dell'amministratore unico (che costituisce la
regola di governance delle partecipate anche se in
determinati casi, da definire con dpcm, sarà possibile
nominare un consiglio di amministrazione di tre o cinque
membri) le società che hanno ottenuto affidamenti di appalti
o concessioni tramite gara.
Sono alcune delle richieste di modifica che la commissione
bilancio della camera ha inserito nel parere sul Testo unico
di riforma delle partecipate che verrà votato oggi. Secondo
la quinta commissione il decreto legislativo, attuativo
della delega Madia (legge 124/2015), deve essere rivisto in
più punti a cominciare dal limite di fatturato medio del
triennio (attualmente fissato a un milione di euro) al di
sotto del quale le società saranno oggetto dei piani di
razionalizzazione, fusione o soppressione (anche mediante
cessione o messa in liquidazione).
La commissione presieduta da Francesco Boccia chiede al
governo la riduzione di tale tetto (l'Anci per esempio aveva
proposto di portarlo a 500 mila euro) «eventualmente
collegandola ad altri criteri maggiormente idonei a misurare
l'efficienza e l'economicità della gestione, posto che in
caso contrario si rischierebbe di penalizzare società
virtuose». Non solo. Va ripensata la regola che rende
obbligatorio il piano di razionalizzazione (ad eccezione
delle società che gestiscono servizi di interesse generale)
in presenza di perdite in quattro degli ultimi cinque
esercizi.
Secondo Montecitorio non si dovrebbe tenere conto
delle perdite inferiori al 5% del fatturato «in modo da
prevedere l'attivazione del piano di riassetto nei casi in
cui effettivamente sia messa a rischio l'economicità della
gestione». Riscritta anche la tempistica dei piani di
razionalizzazione.
La revisione straordinaria dovrà scattare
entro sei mesi dall'entrata in vigore del decreto, mentre la
revisione ordinaria, quella che le p.a. dovranno effettuare
ogni anno passando ai raggi X l'assetto complessivo delle
società di cui detengono partecipazioni dirette o indirette,
inizierà a decorrere dal 2017.
Un'altra novità riguarda il blocco delle nuove assunzioni.
La commissione bilancio suggerisce al governo di ridurre il
blocco che impedisce alle società a controllo pubblico fino
al 31.12.2018 di effettuare assunzioni a tempo indeterminato
se non attingendo all'elenco del personale in eccesso che
dovrà essere trasmesso all'Agenzia nazionale per le
politiche attive del lavoro in luogo della Funzione pubblica
(articolo ItaliaOggi del 30.06.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Stop ai furbetti del cartellino. Dal 13 luglio
tempi brevi e sanzioni dure per gli assenteisti. Con la
pubblicazione in G.U. del dlgs 116/2016 diventano operative
le nuove misure.
Dal 13 luglio entra in vigore la stretta sui furbetti del
cartellino. Con la pubblicazione del dlgs 116/2016 sulla
Gazzetta Ufficiale n. 149 del 28 giugno divengono infatti
operative le misure finalizzate a colpire col licenziamento
i dipendenti pubblici che attestino falsamente la propria
presenza in servizio.
Il dlgs 116/2016 modifica in parte le
disposizioni sul licenziamento senza preavviso già presenti
nel testo unico del pubblico impiego, il dlgs 165/2001. Si
tratta, comunque, di una riforma molto specifica e mirata,
perché l'applicazione della sospensione cautelare immediata
e del procedimento disciplinare con i termini ridotti scatta
laddove la frode sia accertata in flagranza, oppure mediante
strumenti di sorveglianza o di registrazione degli accessi o
delle presenze.
Proprio la circostanza che la norma si applica a situazioni
conclamate di frode, corroborate da prove molto forti, fonda
la procedura che si caratterizza per essere al tempo stesso
molto dura e molto veloce.
Il dirigente della struttura presso la quale opera il
dipendente assenteista, o quello posto a capo dell'ufficio
per le sanzioni disciplinari, entro 48 ore dalla notizia
della frode adotta un provvedimento motivato di sospensione
cautelare, nel corso del quale l'incolpato potrà avere
diritto solo all'assegno alimentare, meno del 50% del
trattamento economico. La sospensione scatta senza necessità
di sentire il dipendente e anche se si vìola il termine
delle 48 ore resta efficace, ferme restando le
responsabilità per il ritardo.
Il provvedimento che sospende cautelarmente il dipendente al
tempo stesso contesta la violazione disciplinare, dando così
allo stesso tempo anche all'avvio del procedimento
disciplinare, da concludere entro i successivi 30 giorni. In
questa fase, l'incolpato riacquista il diritto di essere
sentito a difesa e col provvedimento di avvio del
procedimento disciplinare deve essere convocato non prima
dei successivi 15 giorni (è possibile un rinvio per gravi e
comprovati motivi di altri 5 giorni), per poter esporre le
proprie difese.
L'eventuale violazione dei termini imposti al procedimento
non comporterà, comunque, la decadenza dall'azione
disciplinare, né l'inefficacia del licenziamento. Insomma,
il dlgs 116/2016 mira a scongiurare l'ipotesi che elementi
procedurali possano impedire l'applicazione del
licenziamento. Che non sarà l'unica. Infatti,
l'amministrazione deve denunciare l'assenteista al pubblico
e segnalare il fatto alla competente procura regionale della
Corte dei conti entro 15 giorni dall'avvio del procedimento
disciplinare.
La Procura della Corte dei conti, se del caso, avvia
l'azione per responsabilità contabile, invitando
l'interessato a dedurre per danno d'immagine entro tre mesi
dalla conclusione della procedura di licenziamento. L'azione
di responsabilità è esercitata, entro i 120 giorni
successivi alla denuncia, senza possibilità di proroga.
Il risarcimento del danno, in caso di condanna, non potrà
essere inferiore a sei mensilità dell'ultimo stipendio in
godimento, oltre a interessi e spese di giustizia:
complessivamente, comunque, è rimesso alla valutazione
equitativa del giudice contabile, che terrà conto della
rilevanza del fatto per i mezzi di informazione
(articolo ItaliaOggi del 30.06.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Poste manda in soffitta la data certa.
In dottrina e giurisprudenza non è
riconosciuto strumento analogo.
Più complicato dare «data certa» ai documenti dopo la
soppressione del servizio a cura di Poste italiane spa.
Dallo scorso 1° aprile molti utenti e professionisti si sono
recati presso gli sportelli postali e hanno, purtroppo,
preso atto della scelta dell'ente di non fornire più un
servizio, sebbene a pagamento, concernente la cosiddetta
«data certa».
Sino a tale data era possibile ottenere la data certa,
recandosi in un qualsiasi ufficio postale che provvedeva
all'apposizione di un timbro, previa predisposizione di un
documento a corpo unico (stampato e rilegato in un modo che
non permettesse l'aggiunta o la rimozione di pagine), sul
quale veniva apposta la dicitura «si richiede l'apposizione
del timbro per la data certa», seguita dalla data e dalla
firma.
Il servizio era fin troppo utile, si pensi soltanto
all'utilità nei conferimenti degli incarichi agli stessi
professionisti chiamati, oltre che a stabilire a priori, gli
onorari con i clienti, anche a fornire la prova che tale
accordo sia stabilito in data anteriore al momento rispetto
al quale lo stesso professionista (legale, commercialista e
quant'altro) si attiva per recuperare il proprio credito,
dopo l'esecuzione della propria prestazione.
Dare «data certa» a un documento o un atto vuol dire,
infatti, attribuire allo stesso prova della sua formazione
in un determinato momento o, comunque, fornire la prova che
la sua esistenza è anteriore rispetto a uno specifico evento
o una specifica data.
Dal punto di vista normativo, e in particolare sotto il
profilo civilistico, in materia di prove documentali, si
deve necessariamente far riferimento agli artt. 2703
(sottoscrizione autenticata) e 2704 (data della scrittura
privata nei confronti di terzi) c.c., i quali dispongono sui
metodi utilizzabili per l'attribuzione della «data certa» ai
documenti: atto pubblico, autenticazione di un notaio o di
altro pubblico ufficiale, registrazione dell'atto presso un
ufficio pubblico o di «ogni altro fatto» che stabilisca, in
modo ugualmente certo, l'anteriorità della formazione del
documento (comma 1, ultimo periodo, art. 2704 c.c.).
Inoltre, dottrina e giurisprudenza di legittimità, nel
tempo, hanno ritenuto idonei, a rendere certa la data,
l'utilizzazione del servizio presso i servizi postali con
apposizione di apposito timbro direttamente sul documento,
l'apposizione della «marca temporale» sui documenti
informatici (si tratta di un sistema che si basa su un
procedimento informatico stabilito dalla legge) e il
servizio di posta elettronica certificata (Pec).
Quest'ultimo servizio fornisce al mittente la prova legale
dell'invio e della consegna del documento informatico, e
quindi anche della data, ma per poterlo utilizzare
correttamente è necessario che entrambe le parti (emittente
e ricevente) siano in possesso di un indirizzo di posta
certificata; situazione sicuramente ricorrente per imprese e
professionisti, ma più unico che raro tra i privati, con la
conseguenza che questo procedimento non può, in linea di
principio, essere applicato per ottenere la «data certa» di
un verbale inviato dalla società al socio o
all'amministratore, per confermare l'erogazione di un
finanziamento o l'attribuzione del trattamento di fine
mandato, come richiesto dall'amministrazione finanziaria.
Inoltre, la trasmissione tramite pec, in conformità del dpr
68/2005, equivale alla notificazione a mezzo posta e ha
valore legale, ma solo nei casi previsti dalla legge; ai
sensi del comma 3, dell'art. 48, dlgs 82/2005, la data e
l'ora di trasmissione e di ricezione di un documento
informatico, trasmesso a mezzo Pec, sono opponibili ai
terzi.
Infine, si ricorda che sulla raccomandata con avviso di
ricevimento il codice civile non si esprime ma che la
giurisprudenza esclude la «data certa» al documento
inviato in busta con tale metodo
(articolo ItaliaOggi del 29.06.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ampliamenti senza bonus 65%. Il credito d'imposta
finanzia solo le parti da ristrutturare. RIQUALIFICAZIONE
ENERGETICA/ Nuove risposte a quesiti Enea. Richieste entro
il 31/12.
Nel caso di ristrutturazione di un immobile senza
demolizione e con ampliamento, la detrazione del 65% per la
qualificazione energetica (da utilizzarsi fino al
31.12.2016) compete unicamente per le spese riferibili alla
parte esistente, in quanto l'ampliamento viene considerato
una «nuova costruzione».
Così le nuove Faq Enea in materia di detrazione del 65%,
aggiornate allo scorso 24 giugno. Per usufruire della
detrazione del 65% non occorre inviare alcuna comunicazione
preventiva. Ma entro 90 giorni dalla data di fine lavori va
inviata online tramite il sito
http://finanziaria2016.enea.it/index.asp, la specifica
documentazione richiesta.
La documentazione sarà costituita
dall'attestato di qualificazione energetica (allegato A al
«decreto edifici» dm 19.02.2007 e successive modifiche
) e la scheda descrittiva degli interventi realizzati
(allegato E) o in alcuni casi, una documentazione
semplificata, costituita dal solo allegato E (nel caso di
sostituzione di impianti termici con caldaie a
condensazione, pompe di calore ad alta efficienza o impianti
geotermici a bassa entalpia o di sostituzione di scaldacqua
di tipo tradizionale con scaldacqua a pompa di calore) o dal
solo allegato F (nel caso di sostituzione di infissi in
singole unità immobiliari o di installazione di pannelli
solari o di schermature solari).
Effettuata la trasmissione,
in automatico ritorna al mittente da Enea una ricevuta
informatica con il Cpid (codice personale identificativo),
valida a tutti gli effetti come prova dell'avvenuto invio.
Non sono previsti altri riscontri da parte di Enea, né in
caso di invio corretto, né in caso di invio incompleto,
errato o non conforme.
Non vanno inviate asseverazioni, relazioni tecniche,
fatture, copia di bonifici, piantine, documentazione varia,
ecc. che invece deve essere conservata a cura dell'utente ed
esibita in caso di eventuali controlli da parte dell'Agenzia
delle entrate
(articolo ItaliaOggi del 28.06.2016). |
ENTI LOCALI: Sulla
riduzione delle spese il governo ha messo a tacere la Corte
conti.
Messa a tacere, da parte del governo, la sezione autonomie
della Corte dei conti sull'obbligo della riduzione
progressiva del rapporto tra spese di personale e spesa
corrente, appare oggettivamente inutile insistere
ulteriormente sull'applicazione come obbligo e non come
principio delle disposizioni di contenimento della spesa di
personale contenute nella legge finanziaria per il 2007.
Il dl 113/2016, come è noto, con l'articolo 16 ha abolito
l'articolo 1, comma 557, lettera a), della legge 296/2006,
ai sensi del quale si prevedeva la riduzione dell'incidenza
percentuale delle spese di personale rispetto al complesso
delle spese correnti, attraverso parziale reintegrazione dei
cessati e contenimento della spesa per il lavoro flessibile.
Questa previsione era da considerare certamente abolita
implicitamente dall'articolo 3, comma 5-bis, del dl 90/2014,
convertito in legge 114/2014, che ha introdotto nella
medesima legge 296/2006 il comma 557-quater, ai sensi del
quale «ai fini dell'applicazione del comma 557, a decorrere
dall'anno 2014 gli enti assicurano, nell'ambito della
programmazione triennale dei fabbisogni di personale, il
contenimento delle spese di personale con riferimento al
valore medio del triennio precedente alla data di entrata in
vigore della presente disposizione».
È del tutto evidente
che una volta fissato il valore medio del triennio 2011-2013
il tetto massimo della spesa di personale, la necessità di
ridurre annualmente l'incidenza della spesa di personale
rispetto a quella corrente era incompatibile. Tuttavia, la
Corte dei conti, sezione autonomie ha insistito con questa
interpretazione, rigoristica più che rigorosa, inducendo il
governo a tagliare corto con l'abolizione della lettera a)
del comma 556; scelta che si pone in evidente dissenso dal
parere della Corte dei conti, mitigato dalla scelta di non
adottare una maggiormente opportuna norma di interpretazione
autentica, che avrebbe rivelato ancor meglio la non con
divisibilità della tesi della sezione autonomie, in
particolare con la delibera 16/2016.
Secondo alcuni primi
osservatori, vi sarebbe tuttavia la possibilità di estendere
la visione della corte dei conti anche alle lettere b) e c)
dell'articolo 1, comma 557, della legge 296/2006.
Dette
disposizioni indicano agli enti locali di giungere
all'obiettivo della riduzione della spesa del personale
mediante la razionalizzazione e snellimento delle strutture burocratico-amministrative,
(anche attraverso accorpamenti di uffici con l'obiettivo di
ridurre l'incidenza percentuale delle posizioni dirigenziali
in organico); nonché attraverso il contenimento delle
dinamiche di crescita della contrattazione integrativa,
tenuto anche conto delle corrispondenti disposizioni dettate
per le amministrazioni statali. Considerare, comunque,
cogenti queste previsioni non appare corretto.
In primo luogo, perché è lo stesso articolo 557 a
qualificarle come «principi», laddove, nel suo primo
capoverso dispone che si tratti di «azioni da modulare
nell'ambito della propria autonomia e rivolte, in termini di
principio». Questo significa che gli enti locali non
hanno un obbligo puntuale, ma il potere-dovere di operare
per ridurre la spesa di personale in via autonoma, quando
ciò si riveli necessario per mantenersi entro il tetto
massimo previsto dal comma 557-quater.
In ogni caso, le disposizioni da considerare sicuramente di
principio delle lettere b) e c) del comma 557 della legge
296/2006 (come di principio era anche la lettera a),
nonostante il diverso non condivisibile parere della sezione
autonomie), attualmente va preso atto siano inoperanti.
Infatti, la riduzione della spesa per strutture
amministrative e dirigenza è imposta sia dal dl 95/2012,
convertito in legge 135/2012, sia, più di recente, dalla
legge 208/2015.
Le dinamiche della crescita della spesa per la
contrattazione collettiva sono state bloccate direttamente
dal parlamento e dal governo col susseguirsi, dopo
l'articolo 9, commi 1, 2 e 2-bis, del dl 78/2010 delle
continue proroghe al blocco della contrattazione che hanno
portato alla nota sentenza della Consulta 178/2015. Solo
quando simili disposizioni verranno meno l'articolo 1, comma
557, lettere b) e c), riprenderà effetto
(articolo ItaliaOggi del 28.06.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
La nuova trasparenza parte al rallentatore: sei
mesi per l’accesso. In vigore solo la cancellazione di oneri
informativi Differito l’obbligo di esibire gli atti non
pubblicati.
Partenza differita per il Foia
italiano: il decreto con il nuovo F reedom of information
act è entrato formalmente in vigore la scorsa settimana, il
23 giugno, ma di fatto sarà efficace solo all’antivigilia di
Natale, il 23 dicembre prossimo.
Al contrario, è già pienamente operativa l’opera di
sfoltimento e di semplificazione dei tanti oneri di
pubblicazione online che gravavano sulle amministrazioni
pubbliche dal 2013.
Formalmente, appunto, il decreto è operativo dal 23 giugno,
cioè 15 giorni dopo la sua pubblicazione sulla «Gazzetta
ufficiale», ma la sua vera partenza è scritta nelle
disposizioni transitorie.
L’articolo 42 concede ad amministrazioni pubbliche, gestori
di servizi pubblici e società partecipate o controllate dal
pubblico un massimo di sei mesi -fino al 23 dicembre
prossimo, appunto- per adeguarsi alle modifiche alle vecchie
regole sulla trasparenza (Dlgs 33/2013) introdotte ora.
In
pratica, quindi, tutte le novità, e dunque i nuovi obblighi
di pubblicazione sui siti come, per esempio, i compensi
complessivi dei dirigenti pubblici o le spese delle Asl,
così come il diritto di accesso «allargato»
scatteranno solo da Natale.
Ma c’è, al contrario, un effetto immediato altrettanto
importante legato alle numerose disposizioni cancellate con
un colpo di spugna. Il provvedimento, infatti, abroga interi
articoli e vari commi del decreto 33 e lo fa con effetto
immediato, a decorrere dall’entrata in vigore. Il risultato?
Dal 23 giugno un pacchetto sostanzioso di informazioni
legate alla vita e all’organizzazione delle amministrazioni
pubbliche e dei gestori dei servizi pubblici non deve più
essere pubblicato. Con un paradossale effetto -solo per
questi primi sei mesi- di indebolimento della trasparenza
pubblica.
Facciamo qualche esempio concreto (si veda anche la scheda a
fianco). Per tutti gli appalti pubblici di lavori, servizi e
forniture sono scomparsi indicatori importanti quali i tempi
di realizzazione e i costi unitari previsti. Proprio i due
fattori che l’Anticorruzione tiene sotto controllo per
rilevare anomalie. Via anche l’obbligo di rendere noti i
controlli che ogni amministrazione può fare sulle imprese e
di pubblicare lo scadenzario dei nuovi oneri man mano che
entrano in vigore. Due punti, questi, su cui anche il
Consiglio di Stato nel proprio parere aveva sollevato
qualche perplessità.
Nell’insieme la riforma sfoltisce un carico di oneri
informativi apparso subito difficile da sostenere per le Pa.
E infatti in molti casi l’adeguamento era solo di facciata
con le caselle delle singole voci presenti sui siti, ma
vuote di fatto al primo click. Proprio molti degli obblighi
di trasparenza ora cancellati erano rimasti in realtà sulla
carta. È il caso, tra gli altri, dello scadenzario o dei
documenti preliminari di pianificazione, entrambi
difficilmente rintracciabili sui siti pubblici.
Ai cittadini, poi, resta comunque l’ultima spiaggia
dell’accesso civico che, peraltro, nella sua nuova veste non
conosce limiti e quindi “copre” anche le informazioni
cancellate o quelle da non pubblicare.
In pratica, chiunque anche senza dover dimostrare di avere
interessi specifici e posizioni qualificate potrà richiedere
all’amministrazione qualsiasi dato, compresi, appunto,
quelli non più presenti online. Ma certo ognuno dovrà
attivarsi con una richiesta individuale, attendere la
risposta (da 30 a 60 giorni) e fronteggiare eventuali
dinieghi della Pa, perché in alcuni casi specifici i
documenti restano inaccessibili. Senza contare il leggero
sfasamento iniziale per cui, mentre questi obblighi
informativi sono già scomparsi, il nuovo accesso civico “pieno”
partirà tra sei mesi.
La vera partenza del Foia, quindi, è rimandata a Natale. Dal
23 dicembre online si potranno rintracciare nuove
informazioni. Tra le più “pesanti” ci sono quelle su
retribuzioni e altri emolumenti dei dirigenti pubblici:
saranno tenuti a comunicarli e a pubblicare tutti i compensi
ricevuti da enti pubblici per controllare che i dirigenti
restino davvero al di sotto del tetto dei 240mila euro
previsto nel settore pubblico. Un onere sanzionato ad hoc
con multe che vanno da 50 a 10mila euro.
In realtà la riforma sarà davvero completa tra un anno, a
giugno 2017. Entro quel termine si dovranno aprire le banche
dati pubbliche (da quelle sul personale a quelle sugli
appalti e sui costi della politica) gestite da Mef, Funzione
pubblica e Corte dei conti.
Da quel momento gli enti pubblicheranno solo il link alle
informazioni inviate a queste banche dati (articolo Il Sole 24 Ore del 27.06.2016
- tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: Cantieri
e manutenzioni alla prova del nuovo Sistri. Il Dm 78
specifica i soggetti obbligati Errori «gestionali» ora non
sanzionati.
Rifiuti. Disegnate le linee guida da seguire per la futura
revisione delle procedure.
Il nuovo Sistema
elettronico per la tracciabilità dei rifiuti (Sistri)
delinea alcuni cambiamenti anche per cantieri e attività di
manutenzione. Se infatti, dal punto di vista dei rifiuti
pericolosi, il regolamento introdotto dal Dm 78 del
30.03.2016 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale 120 del 14
maggio) conferma sostanzialmente tutte le regole applicate
fino a oggi, tratteggia allo stesso tempo importanti
aperture verso la semplificazione e lo snellimento
procedurale, prevedendo l’emanazione di ulteriori decreti e
avviando anche un restyling del perimetro entro cui dovrà
essere concepita l’infrastruttura telematica.
A partire dalla sua entrata in vigore, lo scorso 8 giugno,
il nuovo Testo unico Sistri ha quindi abrogato il precedente
Dm 52/2011. Nello stesso giorno sono state pubblicate sul
portale informativo (www.sistri.it) le versioni aggiornate
del «Manuale operativo Sistri» e delle «Procedure
di iscrizione e gestione del fascicolo azienda».
Iscrizioni e cantieri
Per quel che riguarda i soggetti obbligati all’iscrizione,
l’articolo 4 del Dm 78/2016 fa esplicito richiamo a coloro
che sono tenuti ad aderire al Sistri così come indicati dal
Dlgs 152/2006 (articolo 188-ter) e dal Dm 24.04.2014.
La norma fornisce tuttavia un’ulteriore precisazione,
chiarendo che i produttori iniziali –in quanto tali, tenuti
ad aderire al Sistri– sono obbligati a osservare il sistema
anche in qualità di trasportatori iscritti all’albo
nazionale dei gestori ambientali in categoria 2-bis o 5:
vale a dire i soggetti che trasportano i rifiuti pericolosi
da loro stessi prodotti.
Circa i cantieri obbligati al Sistri (quelli con più di
dieci dipendenti e che producono rifiuti pericolosi),
l’articolo 10, comma 6, del decreto conferma che, se
l’attività lavorativa non si protrae oltre i sei mesi e non
si dispone di tecnologie adeguate per l’accesso al Sistri,
le schede del sistema sono compilate dal delegato della sede
legale o dell’unità locale dell’impresa. Inoltre, nel caso
di un “cantiere complesso”, che comporta cioè
l’intervento di più soggetti, l’attività è calcolata per
ciascuno di essi in relazione al contratto del quale è
titolare.
Attività di manutenzione
L’articolo 13 del Dm 78/2016 conferma inoltre che in caso di
rifiuti prodotti da attività di manutenzione o da altra
attività svolta fuori dalla sede dell’unità locale, la “scheda
Sistri - area registro cronologico” è compilata «dal
delegato della sede legale dell’ente o dell’impresa, o dal
delegato dell’unità locale che gestisce l’attività».
In ordine alla manutenzione delle infrastrutture, effettuata
direttamente dal loro gestore oppure tramite terzi, e
prevista dall’articolo 230, comma 1, del Codice ambientale (Dlgs
152/2006), il nuovo decreto ribadisce che –se dall’attività
derivano rifiuti pericolosi– per i “materiali tolti
d’opera” sui quali deve essere effettuata la valutazione
tecnica della riutilizzabilità, lo spostamento dei rifiuti
effettuato dal manutentore (dal luogo di effettiva
produzione fino alla sede legale o dell’unità locale
dell’ente o impresa) è accompagnato da una copia cartacea
della “scheda Sistri - area movimentazione”.
Questa scheda dev’essere scaricata dal portale Sistri,
accedendo all’area autenticata, e quindi compilata e
sottoscritta dal soggetto che ha effettuato la manutenzione.
Operatività
Sotto il profilo operativo, per il momento non cambia nulla.
I soggetti obbligati all’iscrizione al Sistri e al pagamento
dei relativi contributi (compresi i cantieri che rientrano
nei parametri dei produttori di rifiuti pericolosi e con
forza lavoro superiore a dieci dipendenti) continuano
infatti a operare esattamente come prima, almeno fino a
quando sarà ridefinita l’infrastruttura telematica secondo
le linee guida indicate dall’articolo 23 del Dm 78.
Si continua dunque ancora a usare registri e formulari
cartacei, affiancandoli alla strumentazione Sistri
(chiavette usb, black box, schede, chiavi di accesso e
collegamenti online).
Mentre gli errori non sono per adesso perseguibili, perché
l’articolo 11, comma 3-bis, del Dl 101/2013 (convertito
dalla legge 125/2013 e prorogato dal Dl 210/2015) dispone la
moratoria delle sanzioni “gestionali” fino al
31.12.2016. Ed è tale rinvio a indurre impropriamente a
parlare della cosiddetta “proroga Sistri”.
---------------
Come funziona il coordinamento tra
iscritti (e no). Il raccordo. Registri cartacei da compilare
comunque.
La disciplina del coordinamento tra soggetti iscritti e non
iscritti al Sistri, prevista all’articolo 11 del Dm 78/2016,
richiede un’attenzione particolare.
Non tutta la platea dei produttori e dei gestori di rifiuti
è infatti obbligata ad aderire al sistema elettronico di
tracciabilità. I produttori di scarti non pericolosi, per
esempio, ne sono esclusi; e tra coloro che producono quelli
pericolosi, rientrano solo i soggetti con più di dieci
dipendenti.
Di fatto, accade tuttavia che i trasportatori –quando
gestiscono rifiuti di diverso tipo– pur essendo soggetti al
Sistri solo per i materiali pericolosi, spesso sottopongono
alla procedura telematica anche quelli che non lo sono, per
evidenti ragioni di economia di scala. Questo, ovviamente,
non li esime dal dover continuare a compilare registri e
formulari, le cui relative violazioni vengono sanzionate. A
differenza delle violazioni “gestionali” del Sistri,
che non saranno perseguite fino al 31.12.2016.
In questo quadro composto da situazioni asimmetriche e
problemi organizzativi, succede frequentemente che soggetti
non obbligati al Sistri si trovano a interfacciarsi con
quanti, invece, devono sottostare al sistema. Su questo
punto, il nuovo decreto ministeriale dispone che i
produttori non obbligati devono comunicare i propri dati
(necessari per la compilazione della “scheda Sistri -
area movimentazione”) al delegato dell’impresa di
trasporto, il quale –inserendo le informazioni ricevute–
compila anche la sezione relativa ai dati del produttore del
rifiuto.
Dopo aver trattato con il trasportatore, il produttore deve
interfacciarsi con l’impianto di destinazione dei rifiuti. A
tal proposito, il Dm 78/2016 stabilisce che il gestore
dell’impianto di recupero o smaltimento deve stampare e
trasmettere al produttore la copia della “scheda Sistri -
area movimentazione” completa. Questo passaggio è
previsto proprio per attestare che il produttore abbia
assolto le proprie responsabilità (in analogia con quanto
avviene con la quarta copia del formulario).
Se il trasportatore non iscritto a Sistri conferisce invece
rifiuti speciali pericolosi che ha prodotto lui stesso,
l’impianto finale che li riceve deve riportare il codice del
formulario nella propria registrazione cronologica. Così
anche nel caso in cui il trasportatore non iscritto a Sistri
conferisca rifiuti speciali non pericolosi, per i quali è
previsto l’utilizzo del formulario di trasporto.
In tale ipotesi, infatti, se l’impianto che riceve il
rifiuto ha aderito volontariamente al Sistri per quella
tipologia di rifiuti, provvede a riportare il codice del
formulario nella propria registrazione cronologica.
L’articolo 11, comma 3, del decreto ricorda infatti che i
trasporti di rifiuti effettuati da soggetti non iscritti al
Sistri devono essere accompagnati dal formulario di
trasporto, secondo quanto previsto dall’articolo 193, del
Codice ambientale (Dlgs 152/2006) (articolo Il Sole 24 Ore del 27.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI
LOCALI - VARI: Semafori,
sì del prefetto per i controlli automatici.
Serve l'autorizzazione del prefetto per attivare controlli
automatici delle infrazioni semaforiche fuori dal centro
abitato. Mancando però la necessaria direttiva ministeriale
resta tutto fermo al palo. Almeno per gli impianti nuovi.
Lo ha chiarito il Ministero dei trasporti con il parere
13.05.2016 n.
2737 di prot..
Il dl 151/2003, convertito nella
legge 214/2003, ha introdotto nel corpo del codice stradale,
all'art. 201, rilevanti modifiche che hanno di fatto
legittimato l'avvento dei documentari elettronici di
infrazione semaforica. Successivamente la legge 120/2010 ha
ulteriormente confermato questa scelta normativa
evidenziando la necessità che gli strumenti siano
specificamente omologati ovvero approvati per il
funzionamento in modo completamente automatico e gestiti
direttamente dagli organi di polizia stradale.
Lo stabilisce
a chiare lettere il comma 1-quater dell'art. 201 cds. La
riforma ha specificato meglio sia la necessità di una
omologazione dedicata all'impiego automatico dei misuratori
sia la presenza costante e prioritaria degli organi di
polizia nelle fasi dell'accertamento. Ma poi il ministero
non ha emanato la direttiva necessaria ai prefetti per
autorizzare questi impianti.
Specifica infatti il parere centrale che «le direttive
previste dal comma 1-quater dell'art. 201 del codice della
strada non sono state ancora emanate, quindi, allo stato,
non è possibile operare accertamenti automatici delle
violazioni delle norme elencate sotto alla lettera g-bis),
fuori dai centri abitati», ovvero anche il controllo
delle infrazioni semaforiche.
Testualmente, infatti, anche gli strumenti per il controllo
dei semafori devono essere gestiti direttamente dagli organi
di polizia stradale di cui all'articolo 12, comma 1, e fuori
dei centri abitati possono essere installati e utilizzati
solo sui tratti di strada individuati dai prefetti, secondo
le direttive fornite dal ministero dell'interno.
Quindi al momento non possono essere certamente installati
impianti nuovi mentre qualche perplessità può intervenire in
riferimento alle installazioni attivate per il controllo
degli incroci, fuori centro abitato, prima delle legge
120/2010
(articolo ItaliaOggi Sette del 27.06.2016). |
ENTI LOCALI - VARI:
Polizia e carabinieri fuori legge con mezze luci.
I soli lampeggianti blu accesi sui mezzi di soccorso non
consentono di derogare alle norme stradali. Serve anche il
dispositivo acustico di emergenza attivo. E in ogni caso
l'impiego della luce blu da crociera non è regolato dal
codice.
Lo ha chiarito il Ministero dei trasporti con il parere
22.03.2016 n.
7119 di prot..
Il dl 172/2008 ha modificato l'art.
177 del codice stradale individuando i veicoli che possono
essere dotati dei dispositivi di allarme con luce blu. La
materia, di esclusiva competenza statale, ammette oggi tra i
veicoli abilitati ai servizi di emergenza anche quelli
attrezzati per attività antincendio e di protezione civile.
La riforma ha però demandato a un decreto ad hoc
l'individuazione dei conducenti abilitati all'impiego di
sirene e lampeggianti. Oltre ai veicoli d'istituto del
dipartimento della protezione civile, specifica quindi il
decreto datato 23.10.2009, possono usare questi
dispositivi anche gli altri mezzi adibiti al medesimo
servizio di proprietà di regioni, enti locali e
organizzazioni di volontariato in generale.
Ma per quanto
riguarda questi utenti non professionisti il provvedimento
specifica che dovrà trattarsi di vera emergenza e il
servizio dovrà essere appositamente richiesto dall'autorità
preposta e documentato, anche con autocertificazione del
conducente, da esibire in caso di controllo di polizia
stradale, per evitare abusi. Per quanto riguarda il diffuso
impiego della sola luce blu sulle strade, prosegue la nota,
«pur non essendo aprioristicamente escluso dal codice della
strada, non consente, comunque, di derogare ad alcuna delle
norme di comportamento e di sicurezza della circolazione
stradale». In buona sostanza non basta attivare i
dispositivi luminosi per decretare l'emergenza.
Serve anche
la sirena accesa. A maggior ragione non è possibile
utilizzare i dispositivi a luce blu in modalità da crociera,
conclude il ministero. Anche se il Viminale ha
specificamente caldeggiato le mezze luci blu per evidenziare
la presenza degli organi di polizia sulle strade la scelta
non appare regolare. Ma per le multe occorrerà chiedere lumi
al ministero dell'interno, conclude il Mit (articolo ItaliaOggi Sette del 27.06.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO: Dirigenti
p.a., riforma nel caos. L'analisi.
Le prime bozze della riforma della dirigenza pubblica
confermano l'impressione di confusione e caos data
dall'articolo 11 della legge delega 124/2015.
Particolarmente delicata è l'abbozzo di disciplina
riguardante i dirigenti del ruolo privi di incarico. Si è
appreso da qualche tempo che i dirigenti entreranno in un
limbo: per 6 anni riceveranno il solo trattamento economico
fondamentale, decurtato del 10% di anno in anno, finché non
si ricollochino o non si risolva il rapporto di lavoro.
È palese la criticità di questo sistema, perché dà per
scontato e corretta l'ipotesi che dirigenti di ruolo,
assunti mediante procedure concorsuali finalizzate ad
accertarne professionalità e competenza, possano non
disporre delle medesime professionalità e competenza e,
quindi, essere estromessi dal ruolo dei dirigenti, pur in
assenza, per altro, di una valutazione negativa.
Un altro paradosso discende proprio dalla valutazione.
Infatti, le bozze prevedono, nella sostanza, il medesimo
trattamento sia per i dirigenti che si ritrovino senza
incarico per il mero fatto della scadenza di quello
precedentemente svolto, sia per i dirigenti rimasti senza
incarico a seguito di valutazione negativa. Anche questi,
infatti, andranno a disposizione dei ruoli per 6 anni, con
possibilità comunque di partecipare alle procedure per nuovi
incarichi. L'unica differenza è che al termine dei 6 anni, i
dirigenti senza incarico per effetto di valutazione negativa
non potranno chiedere il demansionamento a funzionari,
consentito invece per gli altri dirigenti.
Ma, anche il demansionamento pone problemi operativi.
Infatti, anche laddove il dirigente alle soglie del
licenziamento scegliesse di essere reinquadrato come
funzionario per non perdere il lavoro, non si sa come
collocarlo, perché non dispone di un datore di lavoro.
Dunque, alla scelta del demansionamento seguirebbe un
complesso sistema finalizzato a dare priorità alle
assunzioni di funzionari ai dirigenti demansionati.
Di
fatto, quindi, la disciplina dei ruoli della dirigenza
finirebbe per incidere sull'autonomia di scelta delle
amministrazioni in merito alle assunzioni. In ogni caso, il demansionamento dei dirigenti non garantirebbe per nulla la
loro ricollocazione. E si pone in contrasto con la
disciplina del demansionamento già vigente per i dipendenti
pubblici, ai sensi della quale l'accettazione di attività
lavorative in qualifiche inferiori è solo temporanea, e non
preclude la possibilità di partecipare a procedure di
mobilità riferite alla categoria di inquadramento
precedentemente posseduta.
Altro tema delicato è la partecipazione alle procedure di
selezione per il conferimento degli incarichi dirigenziali.
Lo schema del decreto legislativo, infatti, modifica in
parte l'articolo 19, comma 6, del dlgs 165/2001 e consente
alle amministrazioni di incaricare dirigenti esterni senza
che sia più necessario verificare l'assenza di
professionalità interne. Si dà, quindi, corso ad una
liberalizzazione assoluta della possibilità di avvalersi di
dirigenti esterni ai ruoli, i quali per assurdo potranno
partecipare, come i dirigenti di ruolo e in concorrenza con
essi alle procedure di «interpello».
Il che porta necessariamente a chiedersi, da un lato, a che
servano ruoli unici se sono aperti a soggetti non
appartenenti ai ruoli le procedure di incarico, e,
dall'altro, come si possa conciliare la previsione di
dirigenti che per 6 anni percepiscano stipendi, sia pure
ridotti, a carico delle finanze pubbliche per non fare
nulla, senza nemmeno la garanzia di avere priorità, nelle
procedure selettive, rispetto a soggetti estranei ai ruoli
(articolo ItaliaOggi del 25.06.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Finanziamenti per demolire edifici abusivi La
priorità va al rischio idrogeologico.
Stop alla costruzione di edifici abusivi. Con un fondo da 10
milioni di euro destinati ai comuni per la demolizione degli
immobili abusivi, con priorità per quelli realizzati nelle
aree a rischio idrogeologico.
È questa la finalità del dpcm ambiente sul dissesto
idrogeologico attuativo del collegato ambientale (legge
28.12.2015, n. 221 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
18.01.2016, n. 13) che ha ricevuto lo scorso 22 giugno
l'approvazione all'unanimità della Conferenza stato-città e
autonomie locali.
Il ministero dell'ambiente Gianluca
Galletti ha annunciato che sarò pronto a raddoppiarne
l'importo di 10 milioni di euro in caso di esaurimento delle
risorse.
Richiesta finanziamento.
Le richieste di finanziamento per
interventi di rischio idrogeologico dovranno essere inserite
nella piattaforma del repertorio nazionale degli interventi
per la difesa del suolo a cura delle regioni e province
autonome o dei soggetti dalle stesse accreditati. Per ogni
istanza andranno fornite, secondo il principio della massima
completezza e rigorosità, i dati e le informazioni
tecnico-amministrative richieste dalle forme di caricamento
(cosiddetta scheda istruttoria).
La scheda istruttoria
presenta una parte generale comune per tutte le tipologie di
intervento e sezioni specifiche in relazione alla necessità
di acquisire informazioni peculiari alla tipologia di
dissesto (alluvione, frana, erosione costiera, valanga e
tipologia mista).
La compilazione della scheda istruttoria
sarà considerata come un'attività preistruttoria condotta
dalla regione richiedente. I dati richiesti di carattere
amministrativo, geografico, finanziario e tecnico saranno
considerati nelle successive fasi di valutazione.
Categoria e valutazione interventi.
Gli interventi che
potranno accedere ai 10 mln di euro di finanziamento saranno
distinti in tre categorie a seconda che abbiano a oggetto,
«interventi a efficacia autonoma», «interventi complessi di
vasta area» e «interventi di mitigazione del rischio
idrogeologico e di tutela e recupero degli ecosistemi e
della biodiversità». La categoria dovrà essere inserita
dalla regione all'atto dell'inserimento dei dati nella
«scheda per proposta di interventi».
La procedura di
valutazione degli interventi per i quali sarà richiesto un
finanziamento sarà strutturato in tre fasi distinte:
accertamento dell'ammissibilità del finanziamento,
elencazione delle richieste ammissibili per ordine di
priorità e verifica cantierabilità e cronoprogramma.
La
prima fase quella «dell'accertamento dell'ammissibilità del
finanziamento» verterà sull'accertamento della completezza
dei dati inseriti nel repertorio nazionale degli interventi
per la difesa del suolo, sulla puntualità e precisione dei
dati e sul rispetto del fine primario quello del rispetto
del suolo.
La seconda fase dell'istruttoria avrà a oggetto
la classificazione su base regionale, in ordine alle
priorità delle sole proposte ritenute ammissibili. Tale fase
verrà svolta dal ministero dell'ambiente. Una volta definita
la graduatoria di finanziamento su base regionale, si
passerà alla fase tre del procedimento: la valutazione dei cronoprogrammi degli interventi ammissibili e della
cantierabilità dell'intervento
(articolo ItaliaOggi del 24.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI
LOCALI - VARI:
Le multe per mancanza di Rc auto può farle solo
l'agente.
Non sono ancora omologati gli strumenti per accertare
automaticamente la mancata copertura assicurativa e la
revisione dei veicoli in transito. Per attivare questo tipo
di controlli serve dunque la presenza dell'agente che potrà
fermare i mezzi o documentare le cause previste dal codice
di mancata contestazione immediata.
Lo ha chiarito il Ministero dei trasporti con il parere
03.06.2016 n.
3311 di prot..
La possibilità di sanzionare in modalità completamente
automatica, senza la presenza dei vigili, la mancata
revisione periodica e la mancanza della copertura
assicurativa dei veicoli deriva da una serie di recenti
modifiche introdotte nel codice della strada, in ultimo con
l'art. 1/597 della legge 208/2015. Ma per essere veramente
operativi servono dispositivi omologati, specifica il
ministero, che non esistono ancora sul mercato.
Dunque a parere dell'organo tecnico centrale al momento non
si possono attivare controlli automatici della mancata
revisione periodica e neppure della mancata copertura
assicurativa perché gli strumenti elettronici non sono
disponibili. E non è neanche possibile fare partire degli
inviti automatici per fornire informazioni agli organi di
polizia stradale ai sensi dell'art. 180 del codice della
strada, prosegue la nota.
Sarà dunque opportuno utilizzare eventuali dispositivi già
funzionanti sulle strade, come per esempio i varchi di
lettura targhe, solo con la presenza costante dell'agente in
divisa che potrà notificare immediatamente l'infrazione o
documentare adeguatamente la causa di mancata contestazione
immediata. Per esempio, perché l'operatore era impegnato in
altro controllo o lo strumento elettronico ha dato un
riscontro tecnico leggermente differenziato nel tempo
impedendo il fermo immediato del trasgressore.
In pratica la burocrazia ha azzerato la novella e per
attivare controlli in automatico ci vorranno anni e risorse.
Attenzione infine alle disposizioni del codice privacy. La
disciplina elaborata dal garante impone l'obbligo di rendere
comunque noto agli utenti l'impiego dei dispositivi
elettronici di controllo del traffico veicolare, conclude il
parere centrale
(articolo ItaliaOggi del 24.06.2016). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Piccoli Comuni con unioni «flessibili». I sindaci chiedono
un collegato alla manovra per riformare le gestioni.
Enti locali. Apertura del governo sulle scelte per superare
lo stallo creato dagli obblighi sospesi di associazione.
Un collegato
alla legge di bilancio per rivedere le regole di gestione
degli otre 7mila Comuni con meno di 5mila abitanti,
«sospese» fino al 31 dicembre dalla proroga che ha congelato
gli obblighi di gestione associata tentati da anni ma senza
successo.
La proposta è arrivata ieri dal presidente del consiglio
nazionale dell’Anci, Enzo Bianco, con l’obiettivo di
sbloccare un empasse che senza un’accelerazione netta
rischia di non trovare soluzione. L’associazione dei Comuni
ha elaborato anche i contenuti della riforma, che secondo i
sindaci dovrebbe imporre la gestione associata di tre
funzioni fondamentali all’interno di bacini omogenei che gli
stessi amministratori locali dovrebbero individuare sul
territorio, con un potere sostitutivo della Regione che
scatterebbe quando gli enti non «rispondono» in tempo.
A condannare all’impotenza le regole scritte dal 2010 nel
tentativo di ridurre la spesa pubblica è stata del resto la
griglia rigida, uguale per tutti, che hanno tentato di
imporre: l’obbligo, scritto nel 2010 e poi incappato in una
lunga catena di ritocchi e rinvii, imponeva ai Comuni fino a
5mila abitanti (3mila in montagna) di gestire in forma
associata tutte le funzioni fondamentali, per bacini di
almeno 10mila abitanti.
Lo stesso governo è convinto che
quella strada sia sbagliata: «Non è possibile tenere conto
solo di dati demografici -ha sottolineato il ministro degli
Affari regionali Enrico Costa intervenuto ieri al seminario Anci di presentazione del disegno di legge- ma bisogna
considerare il quadro socio-economico dei territori e
arriveremo presto a una sintesi con la proposta».
«La
razionalizzazione -gli ha fatto eco il sottosegretario
all’Interno Gianpiero Bocci- non è un tema di spending, ma
serve a ottimizzare la gestione e rilanciare gli
investimenti». L’obiettivo dei sindaci, ha spiegato del
resto il vicepresidente Anci Matteo Ricci, sindaco di
Pesaro, «non è di difendere l’esistente, ma di rilanciare
una proposta utile al Paese e urgente in questa fase di
svuotamento delle Province».
In fatto di piccoli Comuni, il titolare degli Affari
regionali ha rilanciato l’ipotesi di rivedere il meccanismo
del pareggio di bilancio quando gli abitanti sono meno di
mille, in particolare per l’utilizzo degli avanzi di
amministrazione, perché «ingessa troppo la gestione». Il
punto è delicato, perché regole uguali per tutti dalle
grandi città ai piccoli Comuni sollevano più di un problema
applicativo, ma il pareggio è l’architrave per la tenuta
della finanza locale e quindi le revisioni devono essere
mirate e richiedono coperture.
Per ora, il pareggio di bilancio «perde» le Province e, ma
solo temporaneamente, le Regioni. La ragione è nel pacchetto
di misure scritte nel decreto enti locali, il cui testo è in
fase di limatura e potrebbe arrivare oggi in «Gazzetta
Ufficiale», per tamponare l’emergenza degli enti di area
vasta stoppando le sanzioni per Province e Città
metropolitane che hanno sforato il Patto di stabilità 2015.
Per Province, Città e Regioni salta anche l’obbligo di
rispettare il pareggio a preventivo: nel caso delle Regioni,
il motivo è tecnico, legato ai ritardi nei meccanismi dei
trasferimenti statali (ora accelerati dal decreto) ed è
destinato a risolversi nel corso dell’anno: per gli enti di
area vasta, invece, è ancora da risolvere il nodo della
distribuzione dei tagli 2016, che ieri è stato ancora
rinviato dalla Conferenza Stato-Città (articolo Il Sole 24 Ore del 23.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI - VARI:
Le multe per la revisione le fa solo la
pattuglia.
Non sono ancora omologati gli strumenti per accertare
automaticamente la mancata copertura assicurativa e la
revisione dei veicoli in transito. Per attivare questo tipo
di controlli serve dunque la presenza dell'agente che potrà
fermare i mezzi o documentare le cause previste dal codice
di mancata contestazione immediata.
Lo ha chiarito il Ministero dei trasporti con il parere
03.06.2016 n.
3311 di prot..
La possibilità di sanzionare in
modalità completamente automatica, senza la presenza dei
vigili, la mancata revisione periodica e la mancanza della
copertura assicurativa dei veicoli deriva da una serie di
recenti modifiche introdotte nel codice della strada, in
ultimo con l'art. 1/597° della legge 208/2015.
Ma per essere
veramente operativi servono dispositivi omologati, specifica
il ministero, che non esistono ancora sul mercato. Dunque a
parere dell'organo tecnico centrale al momento non si
possono attivare controlli automatici della mancata
revisione periodica e neppure della mancata copertura
assicurativa perché gli strumenti elettronici non sono
disponibili.
E non è neanche possibile fare partire degli inviti
automatici per fornire informazioni agli organi di polizia
stradale ai sensi dell'art. 180 del Codice della strada,
prosegue la nota. Sarà dunque opportuno utilizzare eventuali
dispositivi già funzionanti sulle strade, come per esempio i
varchi di lettura targhe, solo con la presenza costante
dell'agente in divisa che potrà notificare immediatamente
l'infrazione o documentare adeguatamente la causa di mancata
contestazione immediata.
Per esempio perché l'operatore era impegnato in altro
controllo o lo strumento elettronico ha dato un riscontro
tecnico leggermente differenziato nel tempo impedendo il
fermo immediato del trasgressore. In pratica la burocrazia
ha azzerato la novella e per attivare controlli in
automatico ci vorranno anni e risorse. Attenzione infine
alle disposizioni del codice privacy.
La disciplina elaborata dal garante impone l'obbligo di
rendere comunque noto agli utenti l'impiego dei dispositivi
elettronici di controllo del traffico veicolare, conclude il
parere centrale
(articolo ItaliaOggi del 23.06.2016). |
VARI:
Guida con patente sospesa sanzioni di 164 euro e
revoca.
Il destinatario di un provvedimento di revisione della
patente rischia grosso se circola con la licenza sospesa di
validità. Soprattutto se si tratta di una misura di
carattere sanzionatorio derivante per esempio
dall'accertamento della guida alterata.
Lo ha chiarito il Ministero dell'interno con la
circolare 01.06.2016 n.
300/a/3953/16/109/55 di prot..
La circolazione con
patente sospesa è densa di incognite anche in relazione alle
diverse tipologie di sanzioni previste dal codice stradale
negli articoli 128 e 218. Per questo motivo il Viminale ha
diramato interessanti chiarimenti agli organi di polizia.
Innanzitutto l'art. 126-bis/6° Cds tratta dell'ipotesi di
revisione della patente in conseguenza dell'azzeramento del
punteggio disponibile. Spetta alla motorizzazione civile
notificare all'interessato l'azzeramento di punteggio con
invito a sottoporsi alla revisione delle licenza entro 30
giorni.
Solo se l'utente stradale non ottempera all'obbligo la
motorizzazione disporrà, con un ulteriore provvedimento, la
sospensione della patente a tempo indeterminato. E per chi
non rispetterà l'inibizione scatteranno guai grossi.
Specifica infatti la nota che in tal caso si applicherà la
sanzione prevista dall'art. 128/2° Cds ovvero una multa di
164 euro con la revoca definitiva della licenza.
La stessa
sanzione, prosegue la circolare, si applicherà alle
ulteriori diverse ipotesi di sospensione della patente a
tempo indeterminato contemplate dall'art. 128 Cds ovvero
conseguenti alla revisione della licenza disposta per motivi
tecnici o di salute dell'autista. Attenzione però, in questo
caso la circolazione sarà vietata subito, senza necessità di
un ulteriore avviso.
Per quanto riguarda le sanzioni
attenzione alla durata della sospensione.
Se la misura è stata disposta a tempo indeterminato ricade
tutto nella previsione appena esaminata. Diversamente, se la
sospensione della patente viene disposta a tempo
determinato, a titolo di sanzione accessoria, il
trasgressore ricadrà nella diversa ipotesi sanzionatoria
prevista dall'art. 218/6° Cds. Ovvero almeno 2 mila euro di
sanzione con revoca della patente e fermo del veicolo
(articolo ItaliaOggi del 23.06.2016). |
CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Sicurezza ascensori, gli adeguamenti non sono obbligatori.
Casa. Valgono le «vecchie» regole.
Il Dpr
ascensori, approvato ieri in prima istanza dal Consiglio dei
ministri, perde un pezzo importante rispetto al testo di
entrata: quello sull’adeguamento obbligatorio alle norme di
sicurezza contenute nella «raccomandazione» Ue del 1995.
Norme per le quali lo Sviluppo economico si era speso con
energia lo scorso febbraio, mentre Confedilizia ne aveva
chiesto (e, ora, ottenuto) lo stralcio.
Restano le altre disposizioni, quelle per le quali l’Italia
rischiava la procedura d’infrazione, previste dalla
direttiva 2014/33/Ue (il termine è già scaduto). L’ambito di
applicazione della direttiva si estende agli ascensori
intesi come prodotti finiti e installati in modo permanente
in edifici o costruzioni e ai componenti di sicurezza per
ascensori nuovi prodotti da un fabbricante nell’Unione
oppure componenti di sicurezza nuovi o usati importati da un
paese terzo.
Le nuove norme prevedono una serie di obblighi per
fabbricanti, distributori e importatori. I ministeri di
Sviluppo e Lavoro esercitano una valutazione di sicurezza su
impianti e componenti e possono chiedere che gli operatori
economici intervengano e, al limite, li ritirino dal
mercato. Viene anche rimesso in vigore il «certificato di
abilitazione» rilasciato dalle prefetture ai manutentori
dopo una prova teorico-pratica.
Le norme che non hanno superato l’esame del Consiglio dei
ministri prevedevano una serie di controlli (come quelli
sulla precisione di fermata e livellamento tra cabina e
piano). Controlli che avrebbero portato all’imposizione di
interventi mirati, qualora non superati. Ora (come prima)
gli interventi possono solo essere suggeriti dai
manutentori, mentre i proprietari sono liberi di scegliere
se eseguirli o meno, salve naturalmente le responsabilità
derivanti da eventuali incidenti. Gli unici obblighi restano
quelli relativi alle norme in vigore all’epoca di
installazione.
Ora il provvedimento passa all’esame delle commissioni
Industria di Camera e Senato per il parere obbligatorio (ma
non vincolante). Positivo il giudizio di Confedilizia:
«Diamo atto al presidente del Consiglio e al nuovo ministro
dello Sviluppo economico -dichiara il presidente Giorgio Spaziani Testa- di aver varato un provvedimento attento
alla sicurezza dei cittadini, ma privo di inutili e costosi
adempimenti aggiuntivi per la proprietà».
Per Robeto Zappa
(Assoaascensori) e Michele Mazzarda (Anacam) si tratta di
«Una polemica montata ad arte in nome di vantaggi economici
per pochi grandi proprietari di case e a svantaggio della
sicurezza di milioni di persone che ogni giorno utilizzano
più di 700mila ascensori non in linea con gli attuali
standard europei» (articolo Il Sole 24 Ore del 22.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Codice
appalti in attuazione. Cantone:
pronte le prime linee guida.
L'Autorità nazionale anticorruzione ha approvato i primi
cinque provvedimenti di soft law attuativi del nuovo codice
dei contratti pubblici; al via le regole per servizi di
ingegneria e architettura, responsabile del procedimento e
offerta economicamente più vantaggiosa che saranno a breve
sul sito www.anticorruzione.it; e Raffaele Cantone difende
la riforma degli appalti nonostante il calo dei bandi.
È quanto emerso dall'intervento svolto ieri dal presidente
dell'Autorità nazionale anticorruzione, presso le
commissioni riunite di camera e senato per fare il punto sul
decreto 50/2016 e sulla sua attuazione.
Due provvedimenti sono proposte indirizzate al ministero
delle infrastrutture e tre sono vere e proprie linee guida:
quelle sull'affidamento dei servizi di ingegneria e
architettura, sul Rup e sul criterio dell'offerta
economicamente più vantaggiosa che sono state approvate ieri
dal consiglio dell'Autorità e che sono in via di
pubblicazione sul sito dell'Anac e di trasmissione alle
camere (ma non sono previsti pareri, in base all'articolo
213, comma 2, del decreto 50/2016). Si tratta di
provvedimenti particolarmente attesi anche perché
l'abrogazione del dpr 207/2010 ha lasciato un vuoto
normativo.
Cantone ha anche annunciato che la prossima
settimana il consiglio Anac dovrebbe approvare le linee sui
contratti «sottosoglia», anch'esse molto attese, e che prima
dell'estate dovrebbero uscire le altre tre linee guida messe
in consultazione a maggio; però il tema vero, ha detto in
commissione Cantone, «è che ci vuole più di un mese per
portare a termine la procedura perché sono moltissime le
osservazioni pervenute sulle bozza di linee guida». Cantone
ha poi espresso preoccupazione per la prima fase di
attuazione del codice perché «è giunta voce, da più parti,
della riduzione del numero delle gare d'appalto».
Ciononostante il presidente Anac non ritiene giustificabile
la situazione. Anche per l'obbligo di appaltare i lavori
sulla base del progetto esecutivo Cantone ha chiarito che
«nonostante sia un problema per le amministrazioni è la
scelta corretta: se ben fatto può rendere meno discrezionali
le valutazioni che attengono alla scelta dell'offerta più
vantaggiosa.»
(articolo ItaliaOggi del 22.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Confedilizia:
non ci sarà la tassa sugli ascensori.
Lo schema di regolamento in materia di ascensori, approvato
lunedì dal consiglio dei ministri, non contiene la norma,
che era invece presente nel testo proposto qualche mese fa
dal ministero dello sviluppo economico (anticipato da
ItaliaOggi il 17/02/2016) con la quale si prevedeva l'obbligo
di eseguire una serie di costosi interventi su tutti gli
ascensori costruiti prima del 1999 (la cosiddetta «tassa
sull'ascensore»).
A renderlo noto è Confedilizia che aveva individuato e
fortemente contestato la disposizione, chiedendone
l'eliminazione.
«Diamo atto al presidente del consiglio e al nuovo ministro
dello sviluppo economico, Carlo Calenda, di aver varato un
provvedimento attento alla sicurezza dei cittadini, ma privo
di inutili e costosi adempimenti aggiuntivi per la
proprietà, già pesantemente provata dalla congiuntura
economica e dall'imposizione fiscale», ha commentato il
presidente di Confedilizia, Giorgio Spaziani Testa
(articolo ItaliaOggi del 22.06.2016). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Enti, viatico per le assunzioni. Non conta il
rapporto tra costi di personale e spese correnti.
Il dl enti locali ha abrogato la norma
interpretata restrittivamente dalla Corte conti.
Salta l'obbligo per gli enti locali di ridurre l'incidenza
della spesa di personale sulla spesa corrente.
La novità, contenuta, nel testo del decreto appena varato
dal governo, elimina una serie di storture che penalizzavano
le amministrazioni più virtuose e favorisce le nuove
assunzioni.
Nel dettaglio, l'art. 16 del provvedimento (ma la
numerazione potrebbe ancora cambiare) abroga la lettera a)
dell'art. 1, comma 557, della l. 296/2006 (legge finanziaria
2007). Tale norma è stata interpretata dalla Corte dei conti
(si vedano, in particolare, le deliberazioni della sezione
delle autonomie nn. 16/20216 e 27/2015) in senso fortemente
restrittivo, come se imponesse agli enti di ridurre, oltre
che l'aggregato della spesa di personale, anche la sua
incidenza sulla spesa corrente complessiva. Il parametro per
verificare il rispetto dell'obbligo era rappresentato «in
modo statico» dalla media registrata nel triennio 2011-2013.
Tale lettura ha posto numerose e rilevanti criticità: ad
esempio, se negli anni benchmark si sono sostenute spese di
natura eccezionale o non ricorrente e poi le uscite sono
tornate al loro livello fisiologico, rispettare l'obiettivo
può essere complicato. E la stessa cosa accade se un ente
decide (magari per migliorare efficacia ed efficienza) di
esternalizzare un servizio prima svolto in forma diretta.
Comune a tutte le amministrazioni è poi il problema (nato
con l'armonizzazione contabile) del fondo crediti di dubbia
esigibilità: esso non è oggetto di impegno e genera
un'economia di bilancio che confluisce nel risultato di
amministrazione come quota accantonata e conseguentemente
non assume rilevanza nella determinazione del denominatore
del rapporto spesa del personale/spesa corrente.
Gli stessi giudici contabili hanno stigmatizzato tali
«distonie», ma hanno anche evidenziato che, per correggerle,
occorreva un intervento del legislatore, che adesso è
finalmente arrivato.
Se il correttivo verrà confermato, le p.a. locali avranno
come unico vincolo quello di non spendere per i propri
dipendenti più di quanto impegnato nel triennio di
riferimento (2011-2013), mentre non dovranno più ridurre
anche il rapporto spesa di personale/spesa corrente. Solo
chi non rispetta il primo target, quindi, incapperà nel
divieto di reclutare nuovi lavoratori.
Si tratta di un importante viatico soprattutto per la
capacità assunzionale dei comuni, che a questo punto attende
solo le sblocco (dato per imminente) conseguente alla
chiusura della procedura di ricollocazione degli esuberi
provinciali.
Da segnalare, sempre a favore dei sindaci, anche l'art. 1
del decreto, che ridistribuisce i risparmi sugli
accantonamenti del fondo di solidarietà comunale degli
ultimi due anni (pari a circa 26 milioni) ai comuni
maggiormente penalizzati dall'applicazione come criterio di
riparto dei fabbisogni standard, replicando un'analoga
misura prevista nel 2015.
Sancita, infine, l'applicazione a regime del correttivo
statistico per limitare le variazioni, in aumento o in
diminuzione, delle risorse attribuite a ciascun comune
(articolo ItaliaOggi del 22.06.2016). |
APPALTI: Triplice freno ai nuovi appalti.
Transizione incerta, novità procedurali e norme in conflitto
rallentano le gare.
Codice dei contratti. Da precisare il ruolo del responsabile
unico nella valutazione di offerte e anomalie.
Le numerose
novità del Codice dei contratti pubblici presentano anche
profili critici, che ne rendono problematica l’applicazione
e ritardano lo sviluppo di nuove gare da parte delle
stazioni appaltanti.
Il ridotto numero di bandi di gara pubblicati dopo l’entrata
in vigore del decreto legislativo 50/2016 (si veda Il Sole
24 Ore dell’11 giugno) evidenzia le numerose difficoltà
incontrate in questa fase dalle amministrazioni
aggiudicatrici, che sono riconducibili a tre tipologie di
problemi.
Il primo ostacolo deriva dai numerosi spazi di
regolamentazione attuativa demandati all’Anac e a una serie
di decreti ministeriali, rispetto ai quali le stazioni
appaltanti preferiscono attendere un primo assestamento,
soprattutto delle linee-guida, per evitare lo sviluppo delle
procedure in modo incoerente.
Nel documento sottoposto a consultazione in ordine al ruolo
del responsabile del procedimento, ad esempio, l’Autorità ha
evidenziato come a suo parere questa figura non debba
procedere alla verifica delle offerte anormalmente basse,
andando in senso contrario a quanto era stabilito nel quadro
normativo previgente. L’incertezza conseguente ha indotto
molte amministrazioni ad aspettare le linee-guida definitive
per avere elementi certi su un passaggio operativo così
delicato.
Situazione analoga è registrabile per le linee-guida
relative all’offerta economicamente più vantaggiosa,
rispetto alle quali le stazioni appaltanti attendono di
verificare le indicazioni dell’Anac in merito alle
metodologie di attribuzione dei punteggi da utilizzare.
Una seconda serie di criticità deriva dalle confliggenze tra
alcune norme del Codice dei contratti pubblici e altre
disposizioni di legge: il caso più rilevante è quello delle
previsioni sulla partecipazione degli operatori economici
ammessi al concordato con continuità aziendale, per le quali
non sussiste coordinamento tra l’articolo 110 del Dlgs
50/2016 e l’articolo 186-bis della legge fallimentare.
Il terzo profilo problematico emerge dalle notevoli
differenze nell’impostazione di alcune fasi procedurali, che
devono essere rapidamente assimilate dalle stazioni
appaltanti.
Il nuovo Codice non prevede più l’obbligo di verificare in
corso di gara i requisiti di capacità economica e tecnica su
un campione di concorrenti scelto a sorteggio, rimettendo
invece questa analisi all’amministrazione e comunque
prevedendola come necessaria solo in rapporto
all’aggiudicazione.
Il Dlgs 50/2016 non contempla più nemmeno norme sullo
svolgimento delle operazioni di gara e ha semplificato il
sub-procedimento di verifica delle offerte anomale.
Molti aspetti di dettaglio volti a regolare questi passaggi
della procedura selettiva, pertanto, devono essere
specificati dalle amministrazioni nel disciplinare di gara,
per evitare difficoltà per le commissioni e per ridurre i
margini di rischio rispetto a possibili necessità di
integrazioni dei bandi che potrebbero scaturire da
previsioni eccessivamente sintetiche.
Analogo approccio di dettaglio deve essere adottato nella
definizione dei sistemi criteriali per la valutazione degli
aspetti tecnico-qualitativi delle offerte, poiché l’articolo
95, al comma 1, stabilisce l’obbligo di strutturazione, per
ogni elemento, dei criteri motivazionali che devono guidare
la valutazione.
Molte problematiche si rilevano anche nella traduzione negli
atti di gara delle nuove disposizioni sui motivi di
esclusione, per i quali le stazioni appaltanti devono far
fronte a norme con carenze di coordinamento (ad esempio
quelle inerenti le condanne penali e la sottoposizione a
misure di prevenzione antimafia) e con confliggenze
interpretative (ad esempio quelle riguardanti i conflitti di
interesse, che devono essere risolti dall’amministrazione
con l’astensione del dipendente interessato), ma anche con
la nuova previsione per cui i requisiti di ordine generale
devono essere mantenuti nel corso di tutta la procedura di
gara (sancendo in diritto quanto era stato affermato più
volte in passato dalla giurisprudenza) (articolo Il Sole 24 Ore del 20.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Sui requisiti dichiarazione europea.
Certificazioni. Obbligatorio accettare il documento unico
comunitario con l’autocertificazione semplificata
sull’assenza di cause di esclusione.
Le stazioni
appaltanti devono accettare il documento di gara unico
europeo (Dgue) come strumento dichiarativo dei requisiti per
partecipare alle procedure di affidamento degli appalti
pubblici.
Il nuovo Codice dei contratti introduce con l’articolo 85 il
particolare formulario (definito dal regolamento comunitario
2016/7) per la veicolazione, da parte degli operatori
economici, delle informazioni essenziali inerenti
l’insussistenza dei motivi di esclusione e il possesso delle
capacità economico-finanziarie e tecnico-professionali.
Il principale elemento a favore dell’obbligatorietà di
utilizzo del documento unico europeo si rinviene
all’articolo 83, comma 9, in quanto la disposizione
disciplina l’applicazione del soccorso istruttorio in
particolare per la mancanza, l’incompletezza e ogni altra
irregolarità essenziale degli elementi e del documento di
gara unico europeo previsto dall’articolo 85.
Il formulario è un’autocertificazione con la quale
l’operatore economico dichiara di non trovarsi in una delle
situazioni ostative declinate dall’articolo 80 (condanne,
tentativi di infiltrazioni criminali e così via) e di
possedere i requisiti di capacità definiti nel bando di gara
in base all’articolo 83 del nuovo codice.
La struttura del documento unico europeo, modulata sulle
fattispecie delle direttive comunitarie, è impostata per
favorire dichiarazioni molto semplici, che possono
riguardare anche più tipologie di elementi, nella
prospettiva di ridurre gli oneri dichiarativi e formali per
gli operatori economici.
Questa struttura non è modulabile o estensibile, tanto che
lo stesso regolamento comunitario 2016/7 precisa che in caso
di raggruppamenti temporanei d’impresa il documento unico
deve essere presentato distintamente da tutti i partecipanti
così come, in caso di avvalimento, deve essere presentato
sia dal concorrente sia dall’ausiliaria.
Rispetto ai requisiti riferiti ai titolari di poteri di
rappresentanza, lo stesso regolamento precisa che il
documento unico può essere sottoscritto da tutti questi
soggetti.
Il tipo di relazione informativa semplificata che deriva dal
modello responsabilizza moltissimo gli operatori economici,
i quali possono tuttavia trovarsi in difficoltà
nell’esplicitare mediante le dichiarazioni sintetiche del
formulario situazioni complesse (si pensi a soggetti che
hanno riportato condanne penali o sono incorsi in
risoluzioni contrattuali).
Per consentire una resa delle informazioni più ordinata
possibile, è ipotizzabile che le stazioni appaltanti
forniscano istruzioni precise per la compilazione nel
disciplinare di gara e mettano a disposizione un modello
dichiarativo correlato, utile soprattutto a consentire la
specificazione delle dichiarazioni più articolate (sia
quelle riferite a più soggetti sia quelle inerenti più
situazioni critiche).
Il quadro normativo del codice sembra prefigurare
l’estensione dell’utilizzo del documento unico anche alle
procedure di valore inferiore alla soglia comunitaria, sia
per il riferimento nella disciplina del soccorso istruttorio
sia per la combinazione tra l’articolo 81, espressamente
richiamato nel comma 5 dell’articolo 36, e l’articolo 85 (articolo Il Sole 24 Ore del 20.06.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Trasparenza, sei mesi di tempo per formare strutture e
personale. Riforma Madia. Sull’attuazione le incognite costi e
formazione.
Con l’entrata
in vigore delle nuove regole sul diritto di accesso dettate
dal decreto legislativo 97/2016 sul Freedom of Information
Act possono cambiare radicalmente i rapporti tra i cittadini
e le imprese da un lato e le pubbliche amministrazioni,
dall’altro; ma senza un adeguato supporto organizzativo
questo disegno rimarrà sulla carta in molte aree del Paese.
Il segno distintivo del decreto è il rafforzamento delle
forme di tutela offerte ai cittadini e alle imprese, e
l’aumento della trasparenza dell’attività delle
amministrazioni pubbliche. Non sembra però essere stato
valutato a fondo l’impatto che l’applicazione delle nuove
regole determina sull’organizzazione delle Pa. Non si tratta
certo di una novità nella nostra legislazione, ma ciò non
può costituire un alibi né per il legislatore né per i
singoli enti.
Né si può ritenere che le misure di
semplificazione dei vincoli dettati in materia di
trasparenza (tra tutti, la riduzione degli obblighi per i
Comuni fino a 15mila abitanti per come sarà definita dall’Anac
e la possibilità di utilizzare nella pagina amministrazione
trasparente i link ad altre banche dati) possano essere
giudicate come misure sufficienti per bilanciare le nuove
sfide che l’applicazione del decreto impone. In questo
quadro il dettato finale del decreto, cioè che la sua
realizzazione deve avvenire a costo zero, sembra una foglia
di fico.
Per l’attuazione delle nuove regole vengono dati sei mesi di
tempo, con un termine che quindi in pratica scade entro la
fine del 2016. Il tempo è ridotto, per cui le
amministrazioni devono cominciare subito ad assumere le
necessarie iniziative organizzative. Non si può mancare di
sottolineare che viene previsto invece un anno di tempo per
gli adeguamenti delle banche dati nazionali.
Il primo elemento di novità è che l’accesso viene garantito
senza la necessità di motivare adeguatamente la richiesta.
Gli uffici devono informare della richiesta i soggetti
controinteressati, cioè quelli che sono coperti dalla tutela
della privacy, contemperando queste opposte esigenze per
quanto possibile oppure operando una scelta. Il diritto
accesso potrà essere esercitato per svolgere forme di
controllo che invece fino a oggi erano consentite solo ai
consiglieri comunali. Inoltre, le amministrazioni possono
chiedere solo il rimborso delle spese vive per la
riproduzione dei documenti, il che sembra escludere la
possibilità di calcolare anche i costi del lavoro del
dipendente. Le modalità di accesso sono semplificate, così
come le forme di tutela offerte al cittadino, a partire
dalla segnalazione al responsabile anticorruzione.
Da tutto ciò deriva la conseguenza che le singole
amministrazioni, compresi i Comuni più piccoli, devono darsi
delle strutture e formare il personale, che deve essere in
possesso di un’adeguata preparazione di base, cioè la
laurea. Ed ancora, è inevitabile che si dovranno realizzare
adeguati investimenti per potenziare la possibilità di
utilizzare gli strumenti informatici per semplificare gli
iter procedurali.
In questo ambito occorre verificare le
iniziative di gestione associata che i Comuni più piccoli
possono concretamente realizzare per cercare di ridurre
l’impatto organizzativo. Gli enti devono infine rivedere in
misura radicale le disposizioni regolamentari oggi in vigore
in materia di accesso in applicazione dei principi dettati
dalla legge 241/1990 (articolo Il Sole 24 Ore del 20.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Sistri, istruzioni aggiornate. Confermati i
soggetti obbligati. Coordinamento d'obbligo. A disciplinare
il tracciamento telematico dei rifiuti si aggiunge il
Manuale del gestore.
Migrano nella manualistica predisposta dal Gestore del
Sistri molte delle regole operative da osservare per il
tracciamento telematico dei rifiuti prima direttamente
dettate dal MinAmbiente con proprio decreto.
È quanto emerge dalle nuove istruzioni dedicate a Enti e
imprese produttori e gestori di rifiuti, pubblicate sul
portale www.sistri.it lo scorso 8 giugno, in ossequio al neo
Dm Ambiente 78/2016, il regolamento con cui il Dicastero ha
riscritto le norme generali sul funzionamento del sistema.
Rispetto al pregresso regime ex Dm 52/2011 (il primo «Testo
unico Sistri», abrogato e sostituito dal nuovo Dm 78/2016)
il legislatore pone dunque gli operatori di fronte a un più
complesso quadro di regole.
Infatti, se il Dm 52/2011 dettava già a monte dettagliate
norme poi a valle supportate dalle relative istruzioni
tecniche fornite dal Gestore, il nuovo Testo unico propone
un più sofisticato panorama di regole, costituito da: Dm
78/2016, recante la nuda architettura regolamentare del
Sistri; la manualistica di supporto sviluppata (ex articoli
2 e 23 dello stesso Dm) dal Gestore del servizio e
pubblicata sul portale sistri.it previo visto di
approvazione del MinAmbiente (si veda ItaliaOggi Sette del
06/06/2016); i futuri decreti di natura (però) non
regolamentare emanati (in base agli stessi citati articoli)
dal MinAmbiente che introdurranno ulteriori nuove procedure
operative con prevalenza su quelle nelle more dettate dal
suddetto Gestore.
Le prime nuove istruzioni pubblicate su www.sistri.it
l'08.06.2016 (a seguito di autorizzazione MinAmbiente «Dd
prot. Rindec-2016-63», come riportato sul portale)
coincidono con i rinnovati «Manuale operativo Sistri» e
«Procedure di iscrizione e gestione fascicolo azienda».
Le istruzioni da un lato traducono le innovazioni recate dal
citato Dm 78/2016 e dall'altro ripropongono procedure
operative simili a quelle previste dall'abrogato Dm 52/2011,
il tutto fornendo in qualche caso alcuni (ulteriori, ove
fosse necessario) chiarimenti in relazione al regime
giuridico generale Sistri.
Soggetti obbligati.
Il nuovo Dm 78/2016 ha confermato il novero dei soggetti
obbligati a utilizzare il Sistri previsto dall'articolo
188-ter comma 1 del Dlgs 152/2006 e «dalle disposizioni
attuative approvate ai sensi del comma 3 del medesimo
articolo». Tale ultimo riferimento è da leggersi in
relazione al Dm 24.04.2014, il regolamento MinAmbiente che
dispone l'esenzione dall'obbligo di iscrizione per alcune
categorie di produttori iniziali di speciali pericolosi, tra
cui quelli che hanno (tra le altre condizioni) un numero di
dipendenti non superiore a dieci.
E una conferma sulla effettiva portata della deroga ex Dm
24/4/2014 arriva proprio dalle nuove «Procedure», che nella
parte introduttiva propongono una ricognizione dei soggetti
tenuti ad operare in Sistri. Nell'ambito di tale
ricognizione, il punto «1.3» delle nuove Procedure individua
infatti tra i soggetti obbligati i «( ) produttori iniziali
di rifiuti speciali pericolosi che effettuano attività di
stoccaggio» specificando, senza riferimenti al numero di
dipendenti, che «Si intendono per tali gli enti o imprese
produttori iniziali di rifiuti speciali pericolosi che
effettuano: attività di smaltimento consistenti nelle
operazioni di deposito preliminare ( ); attività di recupero
consistenti nelle operazioni di messa in riserva ( )» e
precisando che «i soggetti ricadenti in tale fattispecie
devono iscriversi sia nella categoria produttori che in
quella gestori.».
Dunque, la conduzione dello stoccaggio ex 183, comma 1,
lettera aa), Dlgs 152/2006 dei rifiuti in parola fa scattare
per i produttori iniziali che lo effettuano,
indipendentemente dal numero di dipendenti, l'obbligo di
iscrizione al Sistri, evidentemente perché tale condotta li
rende agli occhi della Legge (anche) «gestori».
Delegato.
Dal punto di vista operativo, le nuove «Procedure» Sistri
prendono, in primo luogo, atto della mera possibilità
stabilita dal Dm 78/2016 (in luogo dell'obbligo ex abrogato
Dm 52/2011) di nominare nell'ambito dell'organizzazione
interna il soggetto «delegato» all'utilizzo del sistema.
E di conseguenza specificano che qualora l'ente/impresa non
abbia indicato tale soggetto nella procedura di iscrizione,
le credenziali di accesso al Sistri e il certificato per la
firma elettronica (necessaria alla validazione delle schede
informatiche) verranno attribuiti al rappresentante legale
dell'Ente/impresa (evidentemente, con tutte le connesse
responsabilità ex Dlgs 152/2006).
L'indicazione dei delegati, ricordano altresì le stesse
istruzioni, potrà comunque avvenire anche successivamente
alla ricezione dei dispositivi Usb, mediante l'applicazione
informatica «Gestione azienda» della piattaforma Sistri.
Comunicazione informazioni.
Conformemente a quanto sancito dal Dm 78/2016, non appare
più nella parte del Manuale dedicata alle procedure
ordinarie di movimentazione dei rifiuti l'obbligo di
comunicare tale attività diverse ore prima al Sistri,
essendo sufficiente farlo comunque in anticipo.
Microraccolta.
Trovano diretta collocazione nel nuovo Manuale anche le
regole per la microraccolta, che ricalcano quelle previste
dal pregresso Dm 52/2011, riproponendo il sistema
semplificato fondato sull'emissione della scheda
«Comunicazione trasporto per microraccolta», la più elastica
registrazione delle movimentazioni (possibile fino alle 48
ore lavorative dalla chiusura delle operazioni), il
tracciamento del trasporto senza obbligo di utilizzo della
«funzionalità cartografica» della black box. Tali regole,
nel tenore dell'articolo 14 del Dm 78/2016, saranno però
riviste direttamente dal MinAmbiente tramite i citati futuri
decreto non regolamentare.
Conservazione documenti.
Assenti nel Dm 78/2016, i parametri di conservazione
temporale delle schede Sistri (da 3 a 5 anni) presso
l'operatore interessato sono riproposte dal nuovo Manuale
sulla scia di quanto previsto in materia da pregresso Dm
52/2011 e relative istruzioni operative.
Coordinamento tra soggetti.
Riappare sempre nel nuovo Manuale l'obbligo per il
trasportatore Sistri di lasciare all'eventuale produttore di
rifiuti non iscritto al sistema (perché non obbligato) copia
della scheda di movimentazione dei residui. Tale delicata
disposizione (soprattutto per il produttore, nell'ambito del
quadro probatorio sull'avvenuto affidamento dei rifiuti) non
è infatti presente nel Dm 78/2016, mentre era direttamente
prevista dal Dm 52/2011.
Respingimento rifiuti.
Migrano nel nuovo Manuale anche le procedure da osservare in
caso di respingimento totale o parziale dei rifiuti da parte
dell'impianto di destinazione, prima direttamente
disciplinate dal Dm 52/2011 ma non più contemplate dal Dm
78/2016.
Il nuovo volto del Sistri appare dunque promettere, dietro
la prevista semplificazione operativa del sistema, una
complicazione delle sorgenti cui approvvigionarsi per
conoscere le esatte regole del gioco, laddove dal ruolo
principe delle vere e proprie fonti del diritto (con tutte
le relative garanzie, anche in termini di cognizione, per i
destinatari) si passa a una produzione normativa
stratificata e largamente fondata sulla «soft law»: più
snella nell'aggiornamento per il legislatore, ma altrettanto
impegnativa nel «tracciamento» per gli operatori
(articolo ItaliaOggi Sette del 20.06.2016). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Privacy messa all'angolo. Copia di atti dovuta
senza bisogno di ragioni. Il correttivo sulla trasparenza
amministrativa. Tutela solo apparente.
Il correttivo sulla trasparenza amministrativa seppellisce
la privacy dei cittadini.
La nuova disciplina dell'accesso civico, portata dal decreto
legislativo 97/2016, consente di avere conoscenza di dati e
copia di documenti senza dovere dare spiegazioni specifiche
sulle ragioni della richiesta. E anche se il decreto
legislativo costruisce una procedura con la quale il
soggetto, cui si riferiscono i dati, può presentare
opposizione, si tratta di una tutela solo apparente.
Sulla carta bisognerebbe fare un bilanciamento di interessi:
su un piatto della bilancia la riservatezza e sull'altro
l'interesse proprio di chi chiede dati e documenti. Ma
questo bilanciamento è impossibile, perché per fare il
confronto occorre avere i due dati da confrontare. Se,
invece, chi chiede dati e informazioni, per legge, non deve
dichiarare l'interesse perseguito, manca un termine per fare
la valutazione comparata.
Sembrerebbe, dunque, che non ci sia via d'uscita nelle
disposizioni intrinsecamente inapplicabili.
Uno spiraglio potrebbe essere il rinvio a linee guida
dell'Autorità anticorruzione (Anac), che dovranno indicare
quando prevale la privacy e quando, invece, prevale
l'accesso. A questo punto si deve concludere che il livello
di garanzia della privacy dei cittadini è affidato non alla
legge e neppure al garante della privacy, ma a provvedimenti
(di rango amministrativo e non normativo) dell'Anac;
correndo comunque il rischio che l'Anac non disciplini tutti
i possibili casi.
Ma spieghiamo con ordine.
Il decreto legislativo 97/2016 riformula l'accesso civico.
Se prima era solo un mezzo per ottenere la pubblicazione sul
sito internet dei singoli enti degli atti che per legge
dovevano essere pubblicati, ora diventa lo strumento per
ottenere da qualunque p.a. da parte di chiunque tutti i dati
e documenti detenuti dall'ente pubblico.
Ad esempio si può chiedere a un comune l'elenco dei titoli
edilizi o copia dei contratti di convivenza o l'elenco delle
associazioni che hanno ricevuto contributi o di chi ha
pagato un certo tributo ecc. Le possibilità sono infinite.
Il decreto 97/2016 sembra subordinare l'accesso civico a
limiti oltre che di interesse pubblico, anche di interesse
privato, tra cui la riservatezza delle persone.
Peraltro la formulazione della disciplina di tutela è così
farraginosa da autoannullarsi.
La tutela della riservatezza blocca, infatti, l'accesso
civico solo quando ciò risulta «necessario» per evitare un
pregiudizio «concreto» alla tutela della protezione dei dati
personali e comunque «in conformità con la disciplina
legislativa in materia».
Non è sufficiente che l'interessato si opponga. In effetti
la norma in commento prevede che se l'amministrazione
individua controinteressati deve dare loro avviso della
richiesta di accesso. Il controinteressato (potenzialmente
leso nella sua privacy) può presentare una motivata
opposizione, che non è vincolante. La p.a. deve, infatti,
decidere sulla richiesta di accesso tenendo conto
dell'opposizione, ma senza che questa la obblighi a un
rigetto dell'istanza di accesso civico. Tra l'altro l'onere
economico per la p.a. degli avvisi ai controinteressati
cresce con il numero degli stessi controinteressati. Se si
tratta di centinaia o migliaia di persone, le cifre
lievitano.
Tornando al bilanciamento tra privacy e accesso civico, la
p.a. deve valutare se i singoli subiscano (per effetto del
rilascio dati e copie) un pregiudizio concreto e se il
diniego sia necessario per evitare il danno.
Si tratta di concetti molto vaghi, lasciati alla
discrezionalità dei singoli funzionari. E questi ultimi non
hanno parametri per esercitare la discrezionalità. Si noti
che la norma non permette di comparare la situazione di chi
chiede dati rispetto a coloro cui i dati si riferiscano. Con
il rischio che qualche p.a. ritenga necessario il diniego (e
quindi niente accesso) in casi in cui altre omologhe p.a.
arrivano alla conclusione diversa (e quindi addio alla
privacy).
Certo il decreto prevede che, ai fini della definizione
delle esclusioni e dei limiti all'accesso civico, l'Autorità
nazionale anticorruzione, d'intesa con il Garante per la
protezione dei dati personali e sentita la Conferenza
unificata, adotta linee guida recanti indicazioni operative.
Ci si chiede quanto tali indicazioni siano cogenti o solo un
semplice consiglio
(articolo ItaliaOggi Sette del 20.06.2016). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI:
Per l'emanazione della interdittiva non occorre
l'accertamento di elementi di colpevolezza o di
responsabilità nei confronti dei soggetti a cui è rivolta,
trattandosi di una misura di tutela avanzata a presidio
dell'ordine pubblico.
E' del tutto diverso e non equiparabile il contesto
nell'ambito del quale si pone la valutazione del giudice
penale rispetto a quello dell'esercizio dei poteri di
contrasto dell'infiltrazione mafiosa, di cui è titolare il
Prefetto.
La disciplina legislativa in materia non ha attribuito
all'informativa antimafia un carattere punitivo: per
l'emanazione della interdittiva non occorre l'accertamento
di elementi di colpevolezza o di responsabilità nei
confronti dei soggetti a cui è rivolta, trattandosi di una
misura di tutela avanzata a presidio dell'ordine pubblico,
che ben può basarsi su circostanze esclusivamente rilevanti
sul piano oggettivo, aventi valore di elemento indiziario e
sintomatico, in base alle quali risulti non illogico ed
attendibile l'apprezzamento della sussistenza del pericolo
di condizionamento dell'impresa derivante dalla
infiltrazione mafiosa.
L'orientamento della giurisprudenza è pacifico nel senso che
si debba operare una valutazione complessiva, valorizzando i
collegamenti tra i diversi elementi, anche sulla base di
deduzioni logiche basate sul principio del "più probabile
che non", alla luce di una regola di giudizio, cioè, che
ben può essere integrata da dati di comune esperienza,
evincibili dall'osservazione dei fenomeni sociali, qual è,
anzitutto, anche quello mafioso.
In base alla giurisprudenza, è irrilevante la mancanza del
rapporto di affiliazione con le associazioni malavitose
(così come di un accertamento di concreti elementi di
collusione e di cointeressenza con la malavita), posto che
ai fini dell'interdittiva è sufficiente l'accertamento di
relazioni di varia natura con la criminalità, anche
risalenti nel tempo, che abbiano valore sintomatico ed
indiziario (Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 07.07.2016 n. 3009 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
ordine all’ignoranza inevitabile della legge penale la
giurisprudenza ha elaborato tre criteri: il
criterio oggettivo; il criterio soggettivo; il
criterio misto.
Il criterio oggettivo è basato su una marcata
spersonalizzazione, nel senso che esso opera laddove debba
ritenersi che qualsiasi consociato, in quella determinata
situazione di tempo, di luogo ed operativa, sarebbe
incappato nell’ignoranza o nell’errore sulla norma penale.
Ciò può dipendere dall’oscurità o dalla contraddittorietà
del testo legislativo; da un generalizzato caos
interpretativo; dall’assoluta estraneità del suo contenuto
precettivo ai valori correnti nella società.
Si esula dunque dall’ambito dell’inevitabilità
dell’ignoranza della legge penale allorché ci si trovi in
presenza di norme dal contenuto precettivo sufficientemente
chiaro, che non presenta particolari asperità ermeneutiche e
che non si discosta dai valori correnti nella società in
misura tale da non trovare nessuna rispondenza nella c.d.
“sfera parallela laica”.
In ogni caso, l’inevitabilità dell’ignoranza della legge
penale può essere ravvisata ogniqualvolta il cittadino abbia
assolto,con il criterio dell’ordinaria diligenza, al
cosiddetto “dovere di informazione”, attraverso
l’espletamento di qualsiasi accertamento utile per
conseguire la conoscenza della normativa vigente.
Il parametro soggettivo è invece basato sulle
caratteristiche personali dell’agente che abbiano influito
sulla conoscenza del precetto, come l’elevato deficit
culturale, alla luce ad esempio, della condizione di
straniero proveniente da aree socio-culturali molto distanti
dalla nostra e da poco in Italia; o l’incolpevole carenza di
socializzazione.
Il parametro c.d. misto comprende infine tutte le
ipotesi in cui operano, in varia misura e con diverso
spessore, criteri oggettivi e soggettivi, in combinazione
tra loro. In quest’ottica, la giurisprudenza ha evidenziato
come l’esimente della buona fede possa trovare applicazione
solo nell’ipotesi in cui l’agente abbia fatto tutto il
possibile per adeguarsi al dettato della norma e questa sia
stata violata per cause indipendenti dalla volontà
dell’agente, al quale quindi non possa essere mosso alcun
rimprovero, neppure di semplice leggerezza.
Conseguentemente, non è sufficiente ad integrare gli estremi
dell’esimente il semplice comportamento passivo dell’agente,
essendo invece necessario che egli si adoperi al fine di
adeguarsi all’ordinamento giuridico, ad esempio,informandosi
presso gli uffici competenti o consultando esperti in
materia.
---------------
MASSIMA
3. Nemmeno il terzo motivo di ricorso merita accoglimento.
L'ignoranza e l'errore sul precetto possono infatti assumere
rilevanza sotto un duplice profilo: o come ignoranza o
errore sulla legge extrapenale, nell'ottica delineata
dall'art. 47, comma 3, cod. pen.; o come ignoranza
inevitabile della norma penale, ai sensi dell'art. 5 cod.
pen., nel testo risultante da Corte Cost. n. 364 del
24.03.1988.
In ordine alla prima ipotesi, occorre osservare
come la giurisprudenza, come è noto, distingua fra norme
extrapenali integratrici del precetto, che, essendo in esso
incorporate,sono da considerarsi legge penale, per cui
l'errore su di esse non scusa, ai sensi dell'art. 5 cod. pen.;
e norme extrapenali non integratrici del precetto, ossia
disposizioni destinate, ab origine, a regolare rapporti
giuridici di carattere non penale, non richiamate, neppure implicitarnente, dalla norma penale. L'errore che cade su di
esse esclude il dolo, generando un errore sul fatto, a norma
dell'art. 47, comma 3, cod. pen. (ex plurimis, Cass.,
Sez. 5, 20.02.2001, Martini; Cass., Sez. 6, 18.11.1998, Benanti).
In ordine all'ignoranza inevitabile della legge penale-
prospettazione che occorre sempre riguardare con cautela,
nella vastissima area dei mala quia prohibita- è invece da
osservare come la giurisprudenza, sulla scia della citata
pronuncia della Corte costituzionale, abbia elaborato tre
criteri: il criterio oggettivo; il criterio soggettivo; il
criterio misto.
Il criterio oggettivo è basato su una
marcata spersonalizzazione, nel senso che esso opera laddove
debba ritenersi che qualsiasi consociato, in quella
determinata situazione di tempo, di luogo ed operativa,
sarebbe incappato nell'ignoranza o nell'errore sulla norma
penale. Ciò può dipendere dall'oscurità o dalla
contraddittorietà del testo legislativo; da un generalizzato
caos interpretativo; dall'assoluta estraneità del suo
contenuto precettivo ai valori correnti nella società. Si
esula dunque dall'ambito dell'inevitabilità dell'ignoranza
della legge penale allorché ci si trovi in presenza di norme
dal contenuto precettivo sufficientemente chiaro, che non
presenta particolari asperità ermeneutiche e che non si
discosta dai valori correnti nella società in misura tale da
non trovare nessuna rispondenza nella c.d. "sfera
parallela laica".
In ogni caso, Sez. U., 10.06.1994,
Calzetta, ha stabilito che l'inevitabilità dell'ignoranza
della legge penale può essere ravvisata ogniqualvolta il
cittadino abbia assolto,con il criterio dell'ordinaria
diligenza, al cosiddetto "dovere di informazione",
attraverso l'espletamento di qualsiasi accertamento utile
per conseguire la conoscenza della normativa vigente.
Il parametro soggettivo è invece basato sulle
caratteristiche personali dell'agente che abbiano influito
sulla conoscenza del precetto, come l'elevato deficit
culturale, alla luce ad esempio, della condizione di
straniero proveniente da aree socio-culturali molto distanti
dalla nostra e da poco in Italia; o l'incolpevole carenza di
socializzazione (Cass. 09.05.1996, Falsino, Rv. n. 205513;
Cass. 04.05.1995, Bindi).
Il parametro c.d. misto comprende infine tutte le ipotesi in
cui operano, in varia misura e con diverso spessore, criteri
oggettivi e soggettivi, in combinazione tra loro. In
quest'ottica, la giurisprudenza ha evidenziato come
l'esimente della buona fede possa trovare applicazione solo
nell'ipotesi in cui l'agente abbia fatto tutto il possibile
per adeguarsi al dettato della norma e questa sia stata
violata per cause indipendenti dalla volontà dell'agente, al
quale quindi non possa essere mosso alcun rimprovero,
neppure di semplice leggerezza.
Conseguentemente, non è
sufficiente ad integrare gli estremi dell'esimente il
semplice comportamento passivo dell'agente, essendo invece
necessario che egli si adoperi al fine di adeguarsi
all'ordinamento giuridico, ad esempio,informandosi presso
gli uffici competenti o consultando esperti in materia
(Cass., Sez. 1, n. 25912 del 18.12.2003, Rv. 228235; Cass.,
Sez. 5, n. 41476 del 25.09.2003, Rv. 227042).
3.1. Nel caso in esame, non è ravvisabile l'ipotesi di cui
all'art. 47, comma 3, cod. pen., poiché le norme che
attribuiscono ad un bene il carattere di pignorabilità
integrano il precetto penale, essendo in esso incorporate,
in quanto l'art. 388, comma 6, cod. pen. fa espresso
riferimento alle cose o ai crediti "pignorabili", con ciò
richiamando le disposizioni di legge in tema di
pignorabilità.
Ne deriva che l'ignoranza o l'errore circa la
pignorabilità di un bene si risolve in ignoranza o in errore
sulla legge penale. Né è sostenibile che si versi in
un'ipotesi di inevitabilità dell'ignoranza della legge
penale, poiché la normativa in tema di pignorabilità della
pensione non presenta certamente connotati di cripticità
tali da potersi ricondurre all'ottica dell'oscurità del
precetto. Non è nemmeno riscontrabile, in materia, una
situazione di caos interpretativo o di assoluta estraneità
del contenuto precettivo delle norme alla sensibilità del
cittadino.
Ancor meno può farsi appello, nel caso di
specie, a criterio soggettivo, poiché il Be. riveste qualità
di avvocato. Né risulta che egli abbia fatto tutto il
possibile per acquisire la conoscenza della normativa in
materia (massima tratta da https://renatodisa.com - Corte di
Cassazione, Sez. VI penale,
sentenza
06.07.2016 n. 27941). |
VARI:
L’immagine di una persona costituisce dato
personale, rilevante ai sensi dell’art. 4, comma 1, lett.
b), del d.lgs. n. 196 del 2003 (cd. codice della privacy),
trattandosi di dato immediatamente idoneo a identificare una
persona a prescindere dalla sua notorietà, sicché
l’installazione di un impianto di videosorveglianza
all’interno di un esercizio commerciale, allo scopo di
controllare l’accesso degli avventori, costituisce
trattamento di dati personali e deve formare oggetto
dell’informativa di cui all’art. 13 del d.lgs. n. 196 del
2003, rivolta ai soggetti che facciano ingresso nel locale.
L’installazione di un impianto di video sorveglianza
all’interno di un esercizio commerciale, costituendo
trattamento di dati personali, deve formare oggetto di
previa informativa, ex art. 13 del d.lgs. n. 196 dei 2003,
resa ai soggetti interessati prima che facciano accesso
nell’area video sorvegliata, mediante supporto da collocare
perciò fuori del raggio d’azione delle telecamere che
consentono la raccolta delle immagini delle persone e danno
così inizio al trattamento stesso.
---------------
Questa Corte ha già affermato che "l'immagine
di una persona costituisce dato personale, rilevante ai
sensi dell'art. 4, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 196 del
2003 (cd. codice della privacy), trattandosi di dato
immediatamente idoneo a identificare una persona a
prescindere dalla sua notorietà, sicché l'installazione di
un impianto di videosorveglianza all'interno di un esercizio
commerciale, allo scopo di controllare l'accesso degli
avventori, costituisce trattamento di dati personali e deve
formare oggetto dell'informativa di cui all'art. 13 del
d.lgs. n. 196 del 2003, rivolta ai soggetti che facciano
ingresso nel locale"
(Cass., sez. II, 02.09.2015, n. 17440).
Nello stesso senso, la Corte di giustizia dell'Unione
Europea, con sentenza 11.12.2014, in causa C- 12/13, ha
interpretato la Direttiva 95/46/Ce nel senso che l'immagine
di una persona registrata da una telecamera costituisce un
dato personale se e in quanto essa consente di identificare
la persona interessata, e che una sorveglianza effettuata
mediante una registrazione video delle persone,
immagazzinata in un dispositivo di registrazione continua,
ossia in un disco duro, costituisce un trattamento di dati
personali automatizzato.
L'art. 13 del Codice della privacy, com'è noto, dispone che
l'interessato o la persona presso la quale sono raccolti i
dati personali siano "previamente informati oralmente o
per iscritto" del trattamento.
Già per il dettato dell'art. 13 citato, allora,
l'informativa ai soggetti che facessero ingresso in un
locale chiuso (quale un locale commerciale) deve intendersi
necessaria prima che gli interessati accedano nella zona
videosorvegliata, potendosi spiegare la diversa previsione
di cui al punto 3.1. del Provvedimento generale del
29.04.2004, secondo cui l'informativa va rivolta a coloro
che già "si trovano in una zona videosorvegliata" con
riguardo agli spazi aperti.
La tempestività dell'informativa è necessariamente
strumentale alla validità del consenso espresso
dell'interessato al trattamento dei dati (art. 23, comma 3,
Codice della privacy), salvi i casi in cui da esso possa
prescindersi (di cui al successivo art. 24), non potendo
tale consenso non essere preventivo rispetto all'inizio del
trattamento stesso, nella specie consistente nella raccolta
delle immagini delle persone che accedono nel locale e
vengono riprese dalla videocamera.
Anche perciò se la condotta contestata alla s.r.l. Farmacia
Comunale Po.Se.Co. ed a Ad.Me. era anteriore rispetto al
Provvedimento del Garante in materia di videosorveglianza
dell'08.04.2010, pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 99 del
29.04.2010 (il quale ha poi espressamente chiarito che "gli
interessati devono essere sempre informati che stanno per
accedere in una zona videosorvegliata"), già
l'applicabilità dell'art. 13 del Codice privacy e delle
prescrizioni del precedente Provvedimento generale del
29.04.2004 inducono ad affermare, ai sensi dell'art. 384,
comma 1, c.p.c., il principio di diritto per cui: "L'installazione
di un impianto di videosorveglianza all'interno di un
esercizio commerciale, costituendo trattamento di dati
personali, deve formare oggetto di previa informativa, ex
art. 13 del d.lgs. n. 196 del 2003, resa ai soggetti
interessati prima che facciano accesso nell'area
videosorvegliata, mediante supporto da collocare perciò
fuori del raggio d'azione delle telecamere che consentono la
raccolta delle immagini delle persone e danno così inizio al
trattamento stesso".
Essendo spiegato nella sentenza del Tribunale di Sondrio, in
punto non controverso, che la presenza dell'avviso della
zona videosorvegliata era collocato su una parete interna
della farmacia, non sono necessari ulteriori accertamento, e
questa Corte può decidere nel merito, ai sensi dell'art.
384, comma 2, c.p.c., rigettando l'opposizione proposta (Corte
di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 05.07.2016 n. 13663). |
PUBBLICO IMPIEGO: Sindacalista trasferita solo con il sì della «sigla».
Lavoro. Il presupposto
Il
trasferimento di una rappresentante sindacale aziendale, che
svolga effettivamente attività sindacale, è illegittimo e
configura condotta antisindacale se il datore di lavoro non
ha prima ottenuto il nullaosta del sindacato.
Lo ha deciso
il TRIBUNALE di Bari con la sentenza n. 688/2016 (giudice Procoli).
La vicenda riguarda una lavoratrice, che è anche
sindacalista, alla quale viene chiesto il cambio di sede. La
società datrice di lavoro dichiara che lo spostamento si è
reso necessario per le perdite del punto di vendita in cui
la dipendente lavorava e di averla individuata in base al
criterio della “minore anzianità aziendale”. Il
trasferimento viene formalizzato anche se il sindacato, a
cui la dipendente aderisce, non ha dato il nullaosta
previsto dall’articolo 22 dello Statuto dei lavoratori
(legge 300/1970). Il sindacato si oppone quindi al
trasferimento rivolgendosi al giudice.
Il tribunale rileva che il trasferimento è stato deciso
sulla base di legittime ragioni organizzativo-produttive ma
è mancato il presupposto giuridico necessario per lo
spostamento di sede di un rappresentante sindacale, ossia il
nullaosta sindacale. Il giudice afferma (seguendo
l’interpretazione della sentenza 16790/2006 della
Cassazione) che la lavoratrice svolgeva effettivamente
attività sindacale perché è stata eletta dai lavoratori
dell’azienda (non nominata dal sindacato provinciale) e
perché diversi lavoratori hanno aderito alla nuova Rsa.
Inoltre, spiega il giudice, il datore ha implicitamente
riconosciuto la qualità di sindacalista della dipendente,
chiedendo (senza ottenerlo) il nullaosta al sindacato.
Per questo il tribunale accoglie l’opposizione al
trasferimento e lo annulla (articolo Il Sole 24 Ore del 04.07.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: A norma dell'art. 133, lett. a), del RD n. 268 del 1904
(inserito nei Capo I
"Disposizioni per la conservazione delle opere di
bonificamento e loro pertinenze"),
"Sono lavori, atti o fatti vietati in modo assoluto rispetto
ai sopraindicati
corsi d'acqua, strade, argini ed altre opere d'una
bonificazione:
a) le piantagioni di alberi e siepi, le fabbriche, e lo smovimento del terreno
dal piede interno ed esterno degli argini e loro accessori o
dal ciglio delle
sponde dei canali non muniti di argini o dalle scarpate
delle strade, a distanza
minore di metri 2 pelle piantagioni, di metri i a 2 per le
siepi e smovimento
del terreno, e di metri 4 a 10 per i fabbricati, secondo
l'importanza
del corso d'acqua".
A norma dell'art. 96, lett. f), del RD n. 523 del 1904, "Sono
lavori ed atti vietati
in modo assoluto sulle acque pubbliche, loro alvei, sponde e
difese ... le
piantagioni di alberi e siepi, le fabbriche, gli scavi e lo
smovimento del terreno
a distanza dal piede degli argini e loro accessori come
sopra, minore di
quella stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse
località, ed in mancanza
di tali discipline, a distanza minore di metri quattro per
le piantagioni e
smovimento del terreno e di metri dieci per le fabbriche e
per gli scavi".
Dalle menzionate disposizioni scaturiscono due diversi
regimi:
● il primo, concerne
le opere di bonifica e le loro pertinenze e prevede, secondo
la loro importanza,
una distanza minima per i fabbricati che può essere fissata
da 4 a
10 metri;
● il secondo concerne, invece, tutte le altre acque
pubbliche, le loro
sponde, alvei e difese e fissa la distanza minima di 10
metri per le fabbriche.
---------------
Svolgimento del processo
L'associazione denominata Comitato contro gli abusi edilizi
ed ambientali e
per la tutela dell'ambiente nonché quella denominata
Legambiente Onlus
hanno chiesto al TSAP l'annullamento della deliberazione del
consiglio comunale
di Grumolo delle Abbadesse con la quale è stata approvata
(ai sensi
dell'art. 50, comma 4, LR Veneto n. 61 del 1985) la variante
al PRG consistente
nella modifica dell'art. 40 delle norme tecniche di
attuazione (zone di
tutela e fasce di rispetto) con riduzione da 10 a 5 metri
delle distanze delle
costruzioni dai corsi d'acqua pubblici.
Hanno lamentato: la
violazione
dell'art. 96, lett. f), RD n. 254/1904, a norma del quale le
nuove costruzioni
devono rispettare una distanza di almeno 10 metri dalle
sponde o dai piedi
degli argini dei corsi d'acqua pubblici; la violazione
dell'art. 50, comma 4,
lett. d), della LR Veneto n. 61 del 1985, in relazione
all'art. 42 della stessa
legge; l'eccesso di potere per contraddittorietà con
precedente manifestazione
di volontà; l'eccesso di potere per inosservanza della
circolare regionale
Veneto n. 6 del 1998; l'eccesso di potere per travisamento.
In estrema
sintesi, le associazioni ricorrenti hanno sostenuto che il
limite di rispetto di
mt. 10 dagli argini fluviali può essere superato solo sulla
scorta di ponderata
valutazione di interventi per la miglior tutela idrica.
Il ricorso è stato respinto dal TSAP nella considerazione
che il suddetto limite
è vincolante non per la generalità dei corpi idrici nel
territorio comunale,
bensì solo per quelli non inerenti al sistema di bonifica;
per i corpi idrici sottoposti
alle specifiche competenze di gestione del Consorzio di
Bonifica il limite
di mt. 10 è, dunque, superabile.
Propongono ricorso per cessazione le suddette associazioni
attraverso quattro
motivi. Rispondono con controricorso il Comune di Grumolo
delle Abbadesse
e la Regione Veneto. Il ricorrente ha depositato memoria per
l'udienza.
Motivi della decisione
Il primo motivo (violazione art. 96, lett. f), RD n. 523/1904
in combinato disposto
con la legge n. 36/1994 e l'art. 144 DLGS n. 152/2006)
sostiene che
non potrebbe più ritenersi attuale la distinzione tra due
regimi vincolistici
autonomi, ossia da un lato la generalità delle opere
idrauliche (art. 96 cit.) e
dall'altro la speciale disciplina dei corsi d'acqua
funzionali alla bonifica ed al miglioramento fondiario.
Infatti, con l'avvento della legge n. 36/1994, poi
trasfusa nel Codice dell'Ambiente (DLGS cit.), sarebbe stata
generalizzata la
genetica inerenza pubblicistica della totalità dei corpi
idrici, superando del
tutto sia il previgente regime di catalogazione, sia
l'attrazione delle acque di
bonifica ad un regime d'impronta tendenzialmente
privatistica, come quello
consortile. Sicché, l'originaria demanialità dell'indistinto
"bene-acqua" e
delle sue pertinenze renderebbe inevitabilmente recessiva la
specialità disciplinare
delle rete idriche minori, ossia i canali di bonifica.
In
conclusione, sarebbe
applicabile e cogente la sola regola di polizia idraulica di
maggior tutela
di cui all'art. 96, lett. f), RD n. 523/1904.
Il motivo è infondato.
A norma dell'art. 133, lett. a), del RD n. 268 del 1904
(inserito nei Capo I
"Disposizioni per la conservazione delle opere di
bonificamento e loro pertinenze"),
"Sono lavori, atti o fatti vietati in modo assoluto rispetto
ai sopraindicati
corsi d'acqua, strade, argini ed altre opere d'una
bonificazione:
a) le piantagioni di alberi e siepi, le fabbriche, e lo smovimento del terreno
dal piede interno ed esterno degli argini e loro accessori o
dal ciglio delle
sponde dei canali non muniti di argini o dalle scarpate
delle strade, a distanza
minore di metri 2 pelle piantagioni, di metri i a 2 per le
siepi e smovimento
del terreno, e di metri 4 a 10 per i fabbricati, secondo
l'importanza
del corso d'acqua".
A norma dell'art. 96, lett. f), del RD n. 523 del 1904, "Sono
lavori ed atti vietati
in modo assoluto sulle acque pubbliche, loro alvei, sponde e
difese ... le
piantagioni di alberi e siepi, le fabbriche, gli scavi e lo
smovimento del terreno
a distanza dal piede degli argini e loro accessori come
sopra, minore di
quella stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse
località, ed in mancanza
di tali discipline, a distanza minore di metri quattro per
le piantagioni e
smovimento del terreno e di metri dieci per le fabbriche e
per gli scavi".
Dalle menzionate disposizioni scaturiscono due diversi
regimi: il primo, concerne
le opere di bonifica e le loro pertinenze e prevede, secondo
la loro importanza,
una distanza minima per i fabbricati che può essere fissata
da 4 a
10 metri; il secondo concerne, invece, tutte le altre acque
pubbliche, le loro
sponde, alvei e difese e fissa la distanza minima di 10
metri per le fabbriche.
Ora, che i due summenzionati regimi siano tuttora in vigore
è questione indiscussa
nella giurisprudenza e nell'applicazione amministrativa. Né
l'avvento della disposizione dell'art. 144 del DLGS n. 152
del 2006 ("Tutte le
acque superficiali e sotterranee, ancorché non estratte dal
sottosuolo, appartengono
al demanio dello Stato") consente di ritenerli
implicitamente abrogati,
posto che l'oggetto e le esigenze posti a fondamento di
ciascuno
continuano a giustificarne il vigore. Sicché, legittimamente
il Comune ha
trasposto nella propria normativa urbanistica i diversi
regimi per ciascuno dei diversi corsi d'acqua
(Corte di Cassazione, Sezz. unite civili,
sentenza 01.07.2016 n. 13532). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Le regole sul riparto di giurisdizione sono
fissate dall’art. 63 del t.u. sul pubblico impiego (d.lgs.
165 del 2001), che attribuisce al giudice ordinario “tutte
le controversie relative ai rapporti di lavoro alle
dipendenze delle pubbliche amministrazioni di cui all’art.
1, comma 2,…incluse le controversie concernenti… il
conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali…”.
---------------
14. Con la sentenza impugnata, il Consiglio di Stato ha
ritenuto sussistente la giurisdizione del giudice
amministrativo, ritenendo:
--che la posizione giuridica azionata sia un interesse
legittimo e non un diritto soggettivo;
--che la materia rientri nell'art. 119, lett. d), c.p.a. che
assegna al giudice amministrativo la giurisdizione di
legittimità sui "provvedimenti di nomina adottati previa
delibera del consiglio dei ministri", regola estensibile
ai provvedimenti di revoca;
--che il TAR, dichiarando la giurisdizione ordinaria, avesse
"indebitamente equiparato le posizioni dirigenziali
generali, o apicali, alle altre che tale connotazione non
rivestono".
15. La soluzione non è condivisibile per i seguenti motivi.
16. Il dott. An. era direttore generale dell'ICE (Istituto
per il commercio estero).
17. L'Istituto fu soppresso con d.l. 06.07.2011, n. 98,
convertito con modificazioni nella legge 15.07.2011, n. 111,
che, contestualmente, trasferì le relative competenze,
insieme con risorse umane, finanziarie e strumentali, in
parte al Ministero dello sviluppo economico, in altra parte
al Ministero degli esteri.
18. Successivamente ampia parte di tali competenze fu
trasferita, con d.l. 06.12.2011, n. 201 convertito nella
legge 22.12.2011, n. 214, ad una Agenzia, di nuova
istituzione.
19. Il Ministero dello sviluppo economico, a seguito del
decreto legge di luglio 2011, nominò il dirigente delegato
alle attività di gestione transitoria, in persona del dott.
Lu..
20. A seguito del decreto legge del dicembre 2011, con
d.p.r. 18.04.2012 vennero nominati i componenti del
consiglio di amministrazione del nuovo ente e con d.p.r. del
18.06.2012 il dott. Lu. venne nominato direttore generale
del nuovo ente.
21. Con provvedimento del 19.06.2012 venne disposta la
risoluzione anticipata del rapporto di lavoro con il dott.
An. per impossibilità sopravvenuta avendo l'ente ricoperto
la posizione di direttore generale con altro dirigente.
22. Come si è visto, il dott. An. agi in giudizio dinanzi al
TAR del Lazio chiedendo l'annullamento della revoca
dell'incarico di direttore generale dell'ICE. e
l'annullamento di atti che riguardano il dott. Lu. e i nuovi
componenti del consiglio di amministrazione dell'Istituto,
nonché dei verbali di riunione e di tutti i provvedimenti
emessi dal nuovo consiglio di amministrazione,
23. Le regole sul riparto di
giurisdizione sono fissate dall'art. 63 del tu. sul pubblico
impiego (d.lgs. 165 del 2001), che attribuisce al giudice
ordinario "tutte le controversie relative ai rapporti di
lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni di
cui all'art. 1, comma 2, ... incluse le controversie
concernenti ... il conferimento e la revoca degli incarichi
dirigenziali ...".
24. La norma prosegue specificando che eventuali atti
amministrativi presupposti rilevanti ai fini della
decisione, se illegittimi, devono essere disapplicati dallo
stesso giudice ordinario che ha giurisdizione sulla
controversia.
25. Con riferimento alle controversie riguardanti il
rapporto di lavoro di alti dirigenti, le Sezioni unite hanno
affermato che la giurisdizione ordinaria va
affermata "indipendentemente dalla natura subordinata o
autonoma del rapporto" e, quel che più conta in questa
sede, "indipendentemente dal livello dirigenziale e dalla
natura dell'organo che conferisce l'incarico"
(Cass., sez. un., 12.06.2006, n. 13538).
26. Tale assetto non ha subito modifiche a seguito della
riscrittura dell'art. 19 e ss. del t.u. sul pubblico impiego
in materia di dirigenza, operato dalla legge 145 del 2002
(si rinvia alle puntuali spiegazioni di Cass., sez. un.,
07.07.2005, n. 14252).
27. Deve inoltre valutarsi se l'atto
impugnato sia un atto di macro organizzazione, perché in tal
caso la giurisdizione è del giudice amministrativo
(cfr. Cass., sez. un., 09.02.2009, n. 3052).
Tuttavia, se l'atto di macro-organizzazione
costituisce il presupposto del provvedimento adottato nei
confronti del dirigente, esso, qualora sia illegittimo deve
essere disapplicato dal giudice ordinario che ha
giurisdizione sulla controversia
(Cass., sez. un., 07.11.2008, n. 26799 e 09.02.2009, n.
3054).
28. Nel caso in esame l'oggetto del ricorso rimane rutto
interno alla giurisdizione del giudice ordinario: si chiede
l'annullamento dell'atto di revoca dell'incarico del
ricorrente e l'annullamento dell'atto di nomina del dott.
Lu., nonché dei componenti del consiglio di amministrazione
del nuovo ente. Non si impugnano atti di macro-
organizzazione e comunque eventuali atti macro-organizzativi
a monte potrebbero, se illegittimi, essere disapplicati dal
giudice ordinario.
29. Né può giungersi ad una conclusione diversa sulla base
di quanto disposto dalla norma del codice del processo
amministrativo richiamata dal Consiglio di Stato per fondare
la sua diversa conclusione, e cioè l'art. 119, lett. d).
30. A parte la considerazione che essa fa riferimento solo
ai provvedimenti di nomina, deve rilevarsi che si tratta di
una norma che non regola la giurisdizione, ma il rito,
rientrando nel titolo "Riti abbreviati relativi a
speciali controversie" ed occupandosi del rito
abbreviato comune a determinate materie, soggette a quel
rito se ed in quanto rientranti nella giurisdizione
amministrativa, in base alle diverse regole che disciplinano
la giurisdizione.
31. Nel caso in esame, come si è detto,
tali regole sono dettate dall'art. 63 del d.lgs. 165 del
2001, che attribuisce specificamente al giudice ordinario la
giurisdizione sulle controversie in materia di conferimento
e revoca degli incarichi dirigenziali, di cui agli artt. 19
e ss. del medesimo decreto legislativo, senza operare
distinzioni, come
hanno messo in evidenza le Sezioni unite nelle sentenze
prima richiamate.
32. Deve, in conclusione, essere dichiarata la giurisdizione
del giudice ordinario (Corte di Cassazione, Sezz. unite
civili,
sentenza 01.07.2016 n. 13530). |
EDILIZIA PRIVATA: Rispetto
distanza ex art. 890 c.c.: anche per le canne fumarie vale
la presunzione di nocività.
Cassazione: la presunzione assoluta
di nocività e pericolosità prescinde da ogni accertamento
concreto nel caso in cui vi sia un regolamento edilizio
comunale che stabilisca la distanza.
L'articolo 890 del Codice civile dispone che "Chi presso
il confine, anche se su questo si trova un muro divisorio,
vuole fabbricare forni, camini, magazzini di sale, stalle e
simili, o vuol collocare materie umide o esplodenti o in
altro modo nocive, ovvero impiantare macchinari, per i quali
può sorgere pericolo di danni, deve osservare le distanze
stabilite dai regolamenti e, in mancanza, quelle necessarie
a preservare i fondi vicini da ogni danno alla solidità,
salubrità e sicurezza".
Nel caso in esame, oggetto della
sentenza 30.06.2016 n. 13449 della Corte di
Cassazione, Sez. II civile, la corte territoriale ha
evidenziato che non era prevista, dai vigenti strumenti
urbanistici, una distanza orizzontale minima tra le canne
fumarie e le proprietà aliene.
In proposito, la suprema Corte ricorda che la costante
giurisprudenza di legittimità “afferma che il rispetto
della distanza prevista per fabbriche e depositi nocivi e
pericolosi dall'articolo 890 c.c., nella cui
regolamentazione rientrano anche i comignoli con canna
fumaria, è collegato ad una presunzione assoluta di nocività
e pericolosità che prescinde da ogni accertamento concreto
nel caso in cui vi sia un regolamento edilizio comunale che
stabilisca la distanza medesima, mentre, in difetto di una
disposizione regolamentare, si ha una presunzione di
pericolosità relativa, che può essere superata ove la parte
interessata al mantenimento del manufatto dimostri che,
mediante opportuni accorgimenti, può ovviarsi al pericolo od
al danno del fondo vicino”.
Quindi, conclude la Cassazione, “la corte di merito ha
correttamente accertato che, alla luce della lacuna
contenuta nel regolamento edilizio locale, dovesse essere
imposto un arretramento della canna fumaria per scongiurare
ogni pericolo per il fondo confinante (la cui concreta
esistenza era stata acclarata), assumendo, altresì, che
l'installazione di accorgimenti con funzione di separazione
risultava del tutto inidonea. A tal fine ha evidenziato che
l'installazione di un siffatto dispositivo non poteva
considerarsi risolutivo visto che l'art. 890 c.c. presume la
pericolosità dei camini anche se tra questi ed il fondo del
vicino vi sia un muro divisorio” (commento tratto da
www.casaeclima.com).
---------------
MASSIMA
Quanto alla violazione dell'articolo 890 c.c., esso
dispone: "Chi presso il confine, anche se su questo si
trova un muro divisorio, vuole fabbricare forni, camini,
magazzini di sale, stalle e simili, o vuol collocare materie
umide o esplodenti o in altro modo nocive, ovvero impiantare
macchinari, per i quali può sorgere pericolo di danni, deve
osservare le distanze stabilite dai regolamenti e, in
mancanza, quelle necessarie a preservare i fondi vicini da
ogni danno alla solidità, salubrità e sicurezza".
La corte territoriale ha evidenziato che, nella specie, non
era prevista, dai vigenti strumenti urbanistici, una
distanza orizzontale minima tra le canne fumarle e le
proprietà aliene.
La costante giurisprudenza di legittimità afferma che
il rispetto della distanza prevista per fabbriche e
depositi nocivi e pericolosi dall'articolo 890 c.c., nella
cui regolamentazione rientrano anche i comignoli con canna
fumaria, è collegato ad una presunzione assoluta di nocività
e pericolosità che prescinde da ogni accertamento concreto
nel caso in cui vi sia un regolamento edilizio comunale che
stabilisca la distanza medesima, mentre, in difetto di una
disposizione regolamentare, si ha una presunzione di
pericolosità relativa, che può essere superata ove la parte
interessata al mantenimento del manufatto dimostri che,
mediante opportuni accorgimenti, può ovviarsi al pericolo od
al danno del fondo vicino
(per tutte: Cass. 22.10.2009, n. 22389; Cass. 06.03.2002, n.
3199).
La corte di merito ha correttamente accertato, quindi, che,
alla luce della lacuna contenuta nel regolamento
edilizio locale, dovesse essere imposto un arretramento
della canna fumaria per scongiurare ogni pericolo per il
fondo confinante (la cui concreta esistenza era stata
acclarata), assumendo, altresì, che l'installazione di
accorgimenti con funzione di separazione risultava del tutto
inidonea.
A tal fine ha evidenziato che
l'installazione di un siffatto dispositivo non poteva
considerarsi risolutivo visto che l'art. 890 c.c. presume la
pericolosità dei camini anche se tra questi ed il fondo del
vicino vi sia un muro divisorio.
Proposizione, questa, senz'altro congrua, come tale
incensurabile in questa sede. |
EDILIZIA PRIVATA:
La normativa applicabile all’istanza del rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica, in sanatoria o meno, non
può che essere quella del momento in cui l’autorizzazione
deve essere rilasciata e non quella vigente al momento della
domanda.
Ciò in conformità al noto principio del tempus regit actum
che disciplina la successione di norme nel tempo nell’ambito
del procedimento amministrativo, sancendo il principio
secondo cui ogni atto deve essere adottato in base alla
disciplina vigente al momento della sua adozione.
Tale principio generale è applicabile anche in materia di
rilascio dell’autorizzazione paesaggistica (Cons. Stato n.
6878/2011 e Cons. Stato n. 3886/2012, secondo le quali
laddove la conclusione del procedimento per il rilascio
dell'autorizzazione paesaggistica sia avvenuta
successivamente all'entrata in vigore dell'art. 146 comma
10, lett. c), d.lgs. 22.01.2004 n. 42 non può che applicarsi
l'art. 146, comma 10, lett. c), citato, secondo il principio
tempus regit actum, per il quale la legittimità degli atti
amministrativi deve essere rapportata alla situazione di
diritto riscontrabile alla data della relativa emanazione).
----------------
Nel caso di specie, iancorché sia passato un lasso di tempo
lunghissimo dalla domanda di sanatoria la normativa
applicabile non poteva che essere quella vigente al momento
dell’adozione dell’atto, non potendosi ammettere un rilascio
dell’autorizzazione con riferimento alla disciplina vigente
al momento della domanda, secondo il principio dell’“ora per
allora”, invocato da parte ricorrente.
Il ritardo nell’adozione del provvedimento potrebbe,
infatti, assumere rilevanza solo al fine di produrre
eventuali conseguenze a livello risarcitorio, al ricorrere
dei necessari presupposti per la sussistenza di un illecito
risarcibile, di cui si tratterà nel prosieguo.
D’altra parte il privato avrebbe avuto un valido strumento
per compulsare l’amministrazione a provvedere, quale
l’azione per il silenzio, eventualmente riproponendo la
domanda alla scadenza del termine per la sua proposizione.
---------------
1) Il ricorso si rivela infondato.
Con il primo motivo di ricorso parte ricorrente lamenta
l’illegittimità del provvedimento di diniego del nulla osta
paesaggistico in sanatoria, per l’erroneità della
motivazione di rigetto dell’amministrazione che ha ritenuto
come, a fronte del sopravvenuto art. 27 del D.Lgs. n.
157/2006, non sarebbe ormai più possibile il rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica per immobili già
realizzati.
Parte ricorrente deduce al riguardo che il suddetto nulla
osta paesaggistico era stato chiesto nel 1991 e, quindi, in
un periodo in cui l’ordinamento ammetteva l’autorizzazione
paesaggistica postuma. Il rilascio dello stesso è stato
impedito solo dall’inerzia della p.a. che ha violato il suo
obbligo di provvedere entro i termini di legge,
pronunciandosi oltre venti anni dopo.
La medesima autorizzazione, sempre secondo parte ricorrente,
potrebbe quindi essere rilasciata ora per allora, essendo
peraltro il manufatto in questione perfettamente conforme al
piano paesaggistico della Comunità Montana di “Monte
Santa Croce”.
La censura è infondata.
Attualmente l’art. 146, comma 4, l’art. 159, comma 5, e
l’art. 167, comma 4 e 5, del d.lgs. 22/01/2004, n. 42
(Codice dei beni culturali) non consentono la sanatoria
edilizia di interventi realizzati in assenza o in difformità
dall'autorizzazione paesaggistica, ammettendo il rilascio di
un provvedimento di compatibilità soltanto nel caso di abusi
minori (Cons. Stato Sez. VI, 26.03.2014, n. 1472; Sez. VI,
30.05.2014, n. 2806)
In particolare, l’art. 146, comma 4, del d.lgs. n. 42 del
22.01.2004, recante il Codice dei beni culturali e del
paesaggio, ha vietato, salvo casi eccezionali, il rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica postuma, stabilendo che al
di fuori dei limitati casi «di cui all’articolo 167,
commi 4 e 5, l’autorizzazione non può essere rilasciata in
sanatoria successivamente alla realizzazione, anche
parziale, degli interventi».
La normativa applicabile all’istanza del rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica, in sanatoria o meno, non
può che essere quella del momento in cui l’autorizzazione
deve essere rilasciata e non quella vigente al momento della
domanda.
Ciò in conformità al noto principio del tempus regit
actum che disciplina la successione di norme nel tempo
nell’ambito del procedimento amministrativo, sancendo il
principio secondo cui ogni atto deve essere adottato in base
alla disciplina vigente al momento della sua adozione.
Tale principio generale è applicabile anche in materia di
rilascio dell’autorizzazione paesaggistica (Cons. Stato,
sez. VI 28.12.2011 n. 6878 e Cons. Stato Sez. V, 03.07.2012,
n. 3886, secondo le quali laddove la conclusione del
procedimento per il rilascio dell'autorizzazione
paesaggistica sia avvenuta successivamente all'entrata in
vigore dell'art. 146 comma 10, lett. c), d.lgs. 22.01.2004
n. 42 non può che applicarsi l'art. 146, comma 10, lett. c),
citato, secondo il principio tempus regit actum, per
il quale la legittimità degli atti amministrativi deve
essere rapportata alla situazione di diritto riscontrabile
alla data della relativa emanazione).
L’atto di diniego si rivela, quindi, legittimo, in forza
dell’ormai vigente divieto di autorizzazione paesaggistica
postuma.
Nel caso di specie, infatti, ancorché sia passato un lasso
di tempo lunghissimo dalla domanda di sanatoria la normativa
applicabile non poteva che essere quella vigente al momento
dell’adozione dell’atto, non potendosi ammettere un rilascio
dell’autorizzazione con riferimento alla disciplina vigente
al momento della domanda, secondo il principio dell’“ora
per allora”, invocato da parte ricorrente.
Il ritardo nell’adozione del provvedimento potrebbe,
infatti, assumere rilevanza solo al fine di produrre
eventuali conseguenze a livello risarcitorio, al ricorrere
dei necessari presupposti per la sussistenza di un illecito
risarcibile, di cui si tratterà nel prosieguo.
D’altra parte il privato avrebbe avuto un valido strumento
per compulsare l’amministrazione a provvedere, quale
l’azione per il silenzio, eventualmente riproponendo la
domanda alla scadenza del termine per la sua proposizione
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 30.06.2016 n. 3312 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Nelle
gare pubbliche il punteggio numerico assegnato ai vari
elementi di valutazione dell'offerta integra di per sé una
sufficiente motivazione, allorché siano prefissati con
chiarezza ed adeguato grado di dettaglio.
Per consolidato orientamento giurisprudenziale, nelle gare
pubbliche, il punteggio numerico assegnato ai vari elementi
di valutazione dell'offerta, integra di per sé una
sufficiente motivazione, allorché, come nel caso di specie,
siano prefissati con chiarezza ed adeguato grado di
dettaglio i criteri in base ai quali la Commissione deve
esprimere il proprio apprezzamento, di modo che sia
consentito ripercorrere il percorso valutativo compiuto e
quindi controllare la logicità e la congruità del giudizio
tecnico.
Pertanto, nel caso di specie non sussisteva alcun dovere di
motivare, e ciò ancorché, in relazione a taluni parametri,
la Commissione, pur non essendovi tenuta e quindi ad
abundantiam, abbia ritenuto, per un qualunque motivo, di
dover spiegare le ragioni delle proprie scelte.
---------------
Affinché la censura di sviamento di potere possa ritenersi
fondata occorre che gli elementi emersi rivelino in modo
indubbio il dissimulato scopo dell'atto, condizione questa,
che nella specie, non si rinviene. In particolare, non
costituisce, di per se solo, sintomo di sviamento di potere,
il fatto che nell'ambito di una commissione di gara uno dei
suoi componenti si esprima con giudizi divergenti da quelli
degli altri e sempre a favore di uno solo dei concorrenti.
Per un verso, l'eventualità di giudizi differenti
all'interno di un organo collegiale è connaturale alla sua
stessa composizione pluripersonale, per altro verso, la
circostanza che uno dei componenti si esprima sempre a
favore di uno dei concorrenti, non è sintomo, in assenza di
ulteriori elementi di riscontro, di un vizio della
valutazione.
Né l'irragionevolezza di quest'ultima può trarsi dal fatto
che una consulenza di parte abbia diversamente giudicato le
proposte dei concorrenti in gara, essendo l'apprezzamento
tecnico-discrezionale di queste riservato in via esclusiva
alla Commissione, il cui giudizio non può essere sostituito,
né da quello del giudice, né tanto meno da quello di un
perito di parte
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 28.06.2016 n. 2912 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
giurisprudenza è largamente prevalente il principio secondo
il quale il provvedimento di annullamento di concessione
edilizia illegittima è da ritenersi in re ipsa correlato
alla necessità di curare l’interesse pubblico concreto ed
attuale al ripristino della legalità violata, atteso che il
rilascio del titolo edilizio comporta la sussistenza di una
permanente situazione contra legem e di conseguenza ingenera
nell’Amministrazione il potere-dovere di annullare in ogni
tempo la concessione illegittimamente assentita.
---------------
Quanto alla lamentata violazione delle c.d garanzie
partecipative, per non essere state riscontrate
dall’Amministrazione le prodotte osservazioni, vale
osservare che il dovere di esame delle memorie prodotte
dall’interessato a seguito di comunicazione dell’avvio del
procedimento non comporta la necessità di confutazione
analitica delle allegazioni presentate essendo sufficiente
che il provvedimento amministrativo sia corredato da una
motivazione che renda nella sostanza percepibile la ragione
del mancato adeguamento da parte della P.A. alle deduzioni
difensive del privato.
---------------
L’attività di repressione degli abusi edilizi, dopo il loro
accertamento, deve reputarsi vincolata per l’Amministrazione
senza che quest’ultima debba di propria iniziativa valutare
la possibilità della sanzione alternativa.
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8. L’appello (volto a veder riformata la parte sfavorevole
del decisum) è infondato e va conseguentemente respinto.
Preliminarmente il Collegio osserva che:
a) l’oggetto della controversia è il provvedimento n. 9/2008
con cui il Comune di Castellammare di Stabia ha annullato in
via di autotutela la concessione edilizia n. 18/85 avente ad
oggetto la realizzazione di un campo sportivo e di locali
adibiti a spogliatoio e servizi su terreni siti in zona
destinata a verde pubblico attrezzato e agricola, in quanto
non conforme alla normativa urbanistica vigente;
b) con la sentenza oggetto dell’odierna impugnativa il TAR
ha statuito che il campo di calcio in sé è compatibile con
le su indicate destinazioni d’uso impresse alla zona, mentre
altrettanto non può dirsi per le opere murarie costituiti
dai locali adibiti a spogliatoio e servizi che mal si
conciliano con la zona agricola;
c) in sintonia con la relativa eccezione sollevata dal
controinteressato (pagina 9 della memoria conclusionale) che
le censure sollevate per la prima volta in questo grado sono
inammissibili per violazione del divieto dei nova sancito
dall’art. 345 c.p.c. ratione temporis vigente (oggi art. 104
c.p.a.).
8.1. Con il primo, articolato motivo parte appellante
censura in primo luogo il potere di autotutela come
esercitato dall’Amministrazione comunale sotto vari profili
così riassumibili:
a) manca nella specie un interesse concreto ed attuale
all’annullamento tenuto conto in particolare che la
struttura sportiva sarebbe comunque conforme alle
sopravvenute prescrizioni urbanistiche (B3);
b) l’autoannullamento non è accompagnato dalla necessaria
motivazione sull’interesse pubblico all’esercizio del potere
discrezionale ;
c) è stata obliterata la pur rilevante posizione del privato
e in particolare l’affidamento di quest’ultimo costituito
dalla legittimità del titolo all’epoca della realizzazione
delle opere e dagli investimenti effettuati al riguardo;
d) i provvedimenti gravati non recano alcuna valutazione
dell’apporto partecipativo del privato formulato con le
prodotte osservazioni.
Inoltre si lamenta la mancata applicazione della sanzione
pecuniaria ai sensi dell’art. 38 del DPR n. 380/2001 in luogo
della irrogata demolizione.
8.1.1. I profili di doglianza non appaiono condivisibili.
Le suddette censure, da esaminarsi congiuntamente, sono
rivolte non già a criticare l’an dell’esercitato potere di
autotutela, bensì la motivazione su cui si fonda lo ius
poenitendi posto in essere dal Comune.
Ebbene, si osserva che in giurisprudenza è largamente
prevalente il principio secondo il quale il provvedimento di
annullamento di concessione edilizia illegittima è da
ritenersi in re ipsa correlato alla necessità di curare
l’interesse pubblico concreto ed attuale al ripristino della
legalità violata, atteso che il rilascio del titolo edilizio
comporta la sussistenza di una permanente situazione contra legem e di conseguenza ingenera nell’Amministrazione il
potere-dovere di annullare in ogni tempo la concessione
illegittimamente assentita (Cons. Stato, Sez. V, n. 2060 del
2014 sulla limitata portata dell’obbligo di motivazione
dell’autotutela in materia edilizia; Sez. IV, 8291 del 2010
e 05/02/1998 n. 198, circa il rilievo dell’interesse pubblico
all’interno dei presupposti generali in tema di autotutela
edilizia).
Ciò detto, anche a voler “scendere” per assurdo sul piano
argomentativo fatto valere dalla parte appellante, non può
condividersi l’assunto che le opere de quibus sarebbero
conformi all’attuale destinazione urbanistica di zona (B3) e
tale compatibilità farebbe venir meno ogni esigenza di
tutela del pubblico interesse sottesa all’adottato
provvedimento di autotutela.
Invero, al di là del fatto che l’istituto dell’annullamento
d’ufficio a differenza della revoca è ancorato al passato,
nel senso che il giudizio di illegittimità è collegato al
momento del rilascio del titolo illegittimamente rilasciato,
nondimeno non sussiste conformità urbanistica nemmeno
all’attualità posto che l’area ricade per la gran parte in
zona F16 “zona a parcheggi a raso” e solo in parte in B3
per la quale sussistono le limitazioni imposte dalla L.R.
Campania n. 35/1987 (c.d. PUT Area Costiera Sorrentino-
Amalfitana).
Quanto poi alla lamentata violazione delle c.d. garanzie
partecipative, per non essere state riscontrate
dall’Amministrazione le prodotte osservazioni, vale
osservare che il dovere di esame delle memorie prodotte
dall’interessato a seguito di comunicazione dell’avvio del
procedimento non comporta la necessità di confutazione
analitica delle allegazioni presentate essendo sufficiente
che il provvedimento amministrativo sia corredato da una
motivazione che renda nella sostanza percepibile la ragione
del mancato adeguamento da parte della P.A. alle deduzioni
difensive del privato (Cons. Stato Sez. V, 10/12/2012 n.
2701; 05/10/2005 n. 5365; 10/09/2009 n. 5424), cosa che nel
caso di specie emerge agevolmente dalla lettura dell’atto
impugnato.
Gli esponenti poi a proposito dell’ordinanza di riduzione in
pristino stato, lamentano la violazione dell’art. 38 del
testo unico sull’edilizia, in quanto l’Amministrazione
anziché disporre la riduzione in pristino avrebbe dovuto
valutare l’applicabilità della norma invocata che pure
prevede in taluni casi a seguito dell’annullamento del
titolo edilizio l’irrogazione della sanzione pecuniaria in
luogo di quella ripristinatoria.
La doglianza non ha pregio, posto che l’attività di
repressione degli abusi edilizi, dopo il loro accertamento,
deve reputarsi vincolata per l’Amministrazione senza che
quest’ultima debba di propria iniziativa valutare la
possibilità della sanzione alternativa.
In ogni caso siamo in presenza di una difformità in senso
sostanziale che impedisce il mantenimento delle opere
illegittimamente assentite ed eseguite, non essendo, in
particolare rimuovibili i vizi del titolo
ad aedificandum
(cfr. sul punto specifico Cons. Stato, Sez. V, n. 2194 del
2014; Sez. V, n. 1687 del 2007 circa la prevalenza
dell’interesse alla tutela dell’ambiente e del paesaggio;
Sez. V, n. 5926 del 2001, circa la doverosità
dell’autotutela edilizia in caso di contrasto con la
destinazione di zona)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 28.06.2016 n. 2885 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nello
schema normativo di cui all’art. 34 del d.P.R. n. 380/2001,
l’ingiunzione di demolizione rivolta nei riguardi dei
responsabili dell’abuso costituisce la prima ed obbligatoria
fase del procedimento repressivo, in quanto ha natura di
diffida e presuppone solo un giudizio di tipo
analitico-ricognitivo dell’abuso commesso, mentre il
giudizio sintetico-valutativo, di natura discrezionale,
circa la rilevanza dell’abuso e la possibilità di sostituire
la demolizione con la sanzione pecuniaria (disciplinato dal
comma 2 della disposizione citata) può essere effettuato
soltanto in una seconda fase, cioè quando il soggetto
privato non ha ottemperato spontaneamente alla demolizione e
l’organo competente emana l’ordine (questa volta non
indirizzato all’autore dell’abuso, ma ai competenti uffici
comunali in materia di sanzioni edilizie) di esecuzione in
danno della demolizione delle opere realizzate in parziale
difformità dal permesso di costruire.
Alla luce di quanto sopra, è evidente che il gravato atto di
accertamento di inottemperanza all’ordinanza di demolizione
-dell’Area Tecnica del Comune- costituisce lo spartiacque
delle suddette due fasi procedimentali ed assume portata
semplicemente ricognitiva, al pari di un comune verbale
della Polizia Municipale di accertamento di infrazione alle
norme edilizie, dell’inottemperanza all’impartita diffida a
demolire in funzione preparatoria dell’eventuale demolizione
in danno.
---------------
E' applicabile al caso di specie il consolidato principio
secondo il quale il verbale di accertamento di infrazione
alle norme edilizie ha valore di atto endoprocedimentale,
strumentale alle successive determinazioni dell’ente
comunale, ed ha efficacia meramente dichiarativa delle
operazioni effettuate dalla Polizia Municipale, alla quale
per l’occasione non sono attribuite prerogative di adozione
di atti di amministrazione attiva, all’uopo occorrendo che
la competente autorità amministrativa faccia proprio l’esito
delle predette operazioni attraverso un formale atto di
repressione dell’illecito.
Ne discende che, in quanto tale, detto verbale non assume
quella portata lesiva che sia in grado di attualizzare
l’interesse alla tutela giurisdizionale, portata lesiva
invece ravvisabile soltanto nella successiva ordinanza
demolitoria, con cui l’autorità amministrativa recepisce gli
esiti dei sopralluoghi effettuati dalla Polizia Municipale e
forma il provvedimento ripristinatorio dell’ordine giuridico
violato.
Ne deriva che l’atto quivi impugnato (nota di accertamento
di inottemperanza all’ordinanza di demolizione), attesa la
sua natura eminentemente dichiarativa, accentuata dalla
ulteriore qualificazione dello stesso quale atto di avvio
del procedimento demolitorio d’ufficio, non è in grado di
apportare alcuna lesione della posizione giuridica dei
ricorrenti.
---------------
... per
l'annullamento della nota dell’Area Tecnica del Comune di
Marano di Napoli n. 02/16 del 10.03.2016, recante
l’accertamento di inottemperanza all’ordinanza di
demolizione n. 13/13 del 03.05.2013 emessa nei confronti dei
ricorrenti per la realizzazione di una tettoia in legno in
parziale difformità dal permesso di costruire, nonché di
ogni atto ad essa preordinato, connesso e conseguente.
...
Premesso che:
- con il presente gravame è impugnato un atto di
accertamento di inottemperanza ad un’ordinanza di
demolizione, emessa nei confronti dei ricorrenti ai sensi
dell’art. 34 del d.P.R. n. 380/2001 per la realizzazione di
una tettoia in legno in parziale difformità dal permesso di
costruire;
- tale atto è qualificato dall’amministrazione emittente
anche quale “avvio del procedimento per la procedura di
demolizione a cura del Comune”;
Rilevato che:
- nello schema normativo di cui all’art. 34 del d.P.R. n.
380/2001, l’ingiunzione di demolizione rivolta nei riguardi
dei responsabili dell’abuso costituisce la prima ed
obbligatoria fase del procedimento repressivo, in quanto ha
natura di diffida e presuppone solo un giudizio di tipo
analitico-ricognitivo dell’abuso commesso, mentre il
giudizio sintetico-valutativo, di natura discrezionale,
circa la rilevanza dell’abuso e la possibilità di sostituire
la demolizione con la sanzione pecuniaria (disciplinato dal
comma 2 della disposizione citata) può essere effettuato
soltanto in una seconda fase, cioè quando il soggetto
privato non ha ottemperato spontaneamente alla demolizione e
l’organo competente emana l’ordine (questa volta non
indirizzato all’autore dell’abuso, ma ai competenti uffici
comunali in materia di sanzioni edilizie) di esecuzione in
danno della demolizione delle opere realizzate in parziale
difformità dal permesso di costruire (cfr. TAR Lazio Roma,
Sez. I, 04.04.2012 n. 3105);
- alla luce di quanto sopra, è evidente che il gravato atto
di accertamento dell’Area Tecnica del Comune costituisce lo
spartiacque delle suddette due fasi procedimentali ed assume
portata semplicemente ricognitiva, al pari di un comune
verbale della Polizia Municipale di accertamento di
infrazione alle norme edilizie, dell’inottemperanza
all’impartita diffida a demolire in funzione preparatoria
dell’eventuale demolizione in danno;
Considerato che:
- pertanto, è applicabile al caso di specie il consolidato
principio secondo il quale il verbale di accertamento di
infrazione alle norme edilizie ha valore di atto
endoprocedimentale, strumentale alle successive
determinazioni dell’ente comunale, ed ha efficacia meramente
dichiarativa delle operazioni effettuate dalla Polizia
Municipale, alla quale per l’occasione non sono attribuite
prerogative di adozione di atti di amministrazione attiva,
all’uopo occorrendo che la competente autorità
amministrativa faccia proprio l’esito delle predette
operazioni attraverso un formale atto di repressione
dell’illecito; ne discende che, in quanto tale, detto
verbale non assume quella portata lesiva che sia in grado di
attualizzare l’interesse alla tutela giurisdizionale,
portata lesiva invece ravvisabile soltanto nella successiva
ordinanza demolitoria, con cui l’autorità amministrativa
recepisce gli esiti dei sopralluoghi effettuati dalla
Polizia Municipale e forma il provvedimento ripristinatorio
dell’ordine giuridico violato (cfr. Consiglio di Stato, Sez.
V, 17.06.2014 n. 3097);
- ne deriva che l’atto quivi impugnato, attesa la sua natura
eminentemente dichiarativa, accentuata dalla ulteriore
qualificazione dello stesso quale atto di avvio del
procedimento demolitorio d’ufficio, non è in grado di
apportare alcuna lesione della posizione giuridica dei
ricorrenti;
Ritenuto, in conclusione, che:
- l’appurata non lesività del gravato atto di accertamento
non può non determinare l’inammissibilità del ricorso per
carenza di interesse
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 24.06.2016 n. 3242 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Il segretario non fa parte della commissione.
Consiglio di Stato.
Il segretario di una commissione giudicatrice di un appalto
non fa parte della commissione e non altera il numero dei
suoi componenti, sempre dispari. Possibile nominare
presidente il Responsabile unico del procedimento.
Lo precisa il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza 23.06.2016 n. 2812 con
riguardo a una gara di appalto, svolta con il metodo del
prezzo più basso, per l'affidamento dei servizi di trasporto
e smaltimento di varie tipologie di rifiuti, suddivisa in 12
lotti.
Nel ricorso era stato preliminarmente eccepito che i plichi
contenenti la documentazione amministrativa degli offerenti
fossero stati aperti dal responsabile del procedimento con
l'ausilio di due testimoni, in difformità da quanto
prescritto dalla legge e della lex specialis.
I giudici
rilevano che la commissione di gara, poi costituita, ha
preso che si è trattato di attività preliminare e
propedeutica ha convalidato le operazioni materiali svolte
in precedenza, con ciò dimostrando l'insussistenza di
irregolarità priva di valenza invalidante. Un altro punto
riguardava la nomina del presidente nella persona del
responsabile del procedimento.
La sentenza precisa che nel caso specifico erano le norme di
gara a prevedere che la commissione sia presieduta di norma
da un dirigente della stazione appaltante e che i commissari
diversi dal presidente non devono aver svolto né possono
svolgere alcun'altra funzione o incarico tecnico o
amministrativo relativamente al contratto da affidare.
Pertanto, a contrario, la funzione di presidente della
commissione può ben essere assunta da chi abbia svolto o
svolga attività o funzioni afferenti il contratto cui la
gara si riferisce. Come era nel caso esaminato in cui
presidente era il Rup «che fisiologicamente svolge attività
o funzioni afferenti il contratto cui la gara si riferisce».
Anche su questo la giurisprudenza aveva affermato che
nessuna norma impedisce il cumulo di compiti di Rup e di
presidente della commissione.
Diversamente il nuovo codice
dei contratti (art. 77) stabilisce che il presidente della
commissione giudicatrice sia individuato dalla stazione
appaltante tra i commissari sorteggiati da un apposito
elenco Anac da costituire ai sensi dell'articolo 78 dello
stesso codice, escludendo implicitamente il Rup
(articolo ItaliaOggi dell'01.07.2016).
---------------
MASSIMA
4. Per quanto riguarda la composizione della commissione
di gara, non sussiste la violazione del principio generale
che impone un numero dispari di membri.
Essa, infatti, è stata costituita con tre membri effettivi,
titolari del potere di voto, e da un segretario
verbalizzante, il quale non fa parte del collegio, non
potere di voto e svolge mere attività di supporto
burocratico ai compiti valutativi e decisionali appartenenti
esclusivamente alla Commissione.
Come ha chiarito da tempo la giurisprudenza di questo
Consiglio (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 22.10.2007, n.
5502; Sez. II, 12.07.1995, n. 1772; Sez. II, 27.09.1989, n.
894; Sez. V, 07.07.1987, n. 463; Sez. II, 18.02.1981, n.
1307), il segretario verbalizzante, in
quanto tale, è privo di diritto di voto e non va computato
nel novero dei membri della commissione giudicatrice, che
costituisce un collegio perfetto con riferimento
esclusivamente ai suoi membri effettivi.
5. Per quanto riguarda la funzione di Presidente della
Commissione di gara, si deve rilevare che la tesi
dell’appellante è confutata dal dato testuale di cui
all’art. 84, commi 3 e 4, d.lgs. n. 163 del 2006 che dispone
che “La commissione è presieduta di norma da un dirigente
della stazione appaltante” e che “I commissari
diversi dal Presidente non devono aver svolto né possono
svolgere alcun’altra funzione o incarico tecnico o
amministrativo relativamente al contratto del cui
affidamento si tratta”.
Pertanto, a contrario, tale norma
(segnatamente il comma 4) consente espressamente che la
funzione di Presidente della Commissione sia assunta da chi
abbia svolto o svolga attività o funzioni afferenti il
contratto cui la gara si riferisce, ammettendo così che tale
posizione possa essere assunta anche dal RUP che
fisiologicamente svolge attività o funzioni afferenti il
contratto cui la gara si riferisce.
Peraltro, la giurisprudenza amministrativa ha chiarito che
nessuna norma impedisce il cumulo di compiti di RUP
e di Presidente della commissione proprio sulla base del
predetto comma 4 del citato art. 84 cit. che conferma
indirettamente la legittimità di tale cumulo prevedendo
limiti solo per i commissari diversi dal presidente
(cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 23.10.2012, n. 5408; Sez.
V, 27.04.2012, n. 2445). |
APPALTI:
Chi ha pendenze accede alle gare.
Sentenza Tar Lecce referenze e appalti.
Può ancora concorrere all'appalto l'impresa che pure ha
vecchie pendenze con altri comuni, rimasti insoddisfatti dei
suoi servigi. E ciò perché l'esclusione dalla gara per
«gravi negligenze» può essere disposta soltanto per
comprovati motivi, mentre l'amministrazione non può
decretare lo stop senza considerare che invece l'azienda
partecipante alla procedura ha ricevuto di recente un
certificato di regolare esecuzione del servizio da un altro
ente.
È quanto emerge dalla
sentenza
23.06.2016 n. 1021, pubblicata dalla I Sez. del TAR
Puglia-Lecce.
Referenze ignorate. L'articolo 38, comma 1, lettera f), del
codice dei contratti pubblici parla chiaro. Può restare
fuori dalla procedura di affidamento soltanto l'impresa in
malafede o che commette un grave errore nell'eseguire la
prestazione. La stazione appaltante che opta per
l'estromissione può dimostrare l'inadempienza con qualsiasi
mezzo di prova, ma deve motivare la sua decisione. E nella
specie risulta troppo avventato lo stop imposto all'azienda
interessata all'affidamento del servizio di igiene urbana.
Il fatto è che l'ente locale non si fida: tre comuni campani
con cui ha lavorato l'impresa hanno riscontrato inadempienze
nel servizio. Ma fra l'azienda e le amministrazioni locali
pendono ancora cause in proposito. E per tre interlocutori
che si lamentano ce ne sono altrettanti che si dicono
soddisfatti della raccolta dei rifiuti curata dalla società,
per di più in epoca più recente rispetto agli altri. Chi ha
ragione? Chissà.
Certo è che l'estromissione risulta
illegittima perché l'amministrazione prima di ricorrere a
provvedimenti definitivi deve verificare l'entità delle
inadempienze contestate e soprattutto tenere conto delle
giustificazioni portate dall'impresa interessata.
Impossibile, insomma, decretare il game over senza
effettuare la comparazione con le referenze positive che
arrivano da un altro comune, che attesta la diligenza
dell'azienda nei lavori. All'amministrazione locale non
resta che pagare le spese di giudizio alla società
(articolo ItaliaOggi del 02.07.2016).
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MASSIMA
2. Con i vari motivi di gravame, che possono essere
trattati congiuntamente, per comunanza delle relative
censure, deduce la ricorrente l’illegittimità dell’atto
impugnato, per avere l’Amministrazione escluso la prima
della gara sulla base di presupposti –la sussistenza di
gravi errori nell’esercizio dell’attività professionale, ai
sensi dell’art. 38, co. 1, lett. f), d.lgs. n. 163/2006– non
rispondenti all’obiettiva realtà fattuale.
Le censura è fondata.
2.1. Ai sensi dell’art. 38, co. 1, lett. f), cod. appalti,
sono esclusi dalla partecipazione alla procedura di
affidamento gli operatori economici: “che secondo
motivata valutazione della stazione appaltante, hanno
commesso grave negligenza o malafede nell'esecuzione delle
prestazioni affidate dalla stazione appaltante che bandisce
la gara; o che hanno commesso un errore grave nell'esercizio
della loro attività professionale, accertato con qualsiasi
mezzo di prova da parte della stazione appaltante”.
2.2. Tanto premesso, si legge nell’impugnato provvedimento
che la ricorrente è stata esclusa dalla partecipazione alla
gara in esame per asserite inadempienze riscontrate in
relazione a servizi analoghi resi dalla ricorrente nei
confronti dei Comuni di Vico del Gargano e di Afragola.
Sennonché, vi sono in atti attestazioni di regolare
espletamento del servizio oggetto di appalto rilasciate dai
Comuni di Lizzano, Catanzaro e Squillace, per periodi assai
prossimi a quello attuale, e sotto altro profilo, vi è
contestazione delle inadempienze riscontrate dai Comuni di
Vico del Gargano e Afragola (inadempienze poste a base
dell’impugnata esclusione), con instaurazione, da parte
della ricorrente, dei relativi giudizi, tuttora pendenti.
Alla luce dei tali emergenze documentali, è
evidente l’illegittimità dell’impugnato provvedimento,
avendo l’Amministrazione posto a base dell’impugnata
esclusione presunte gravi negligenze della ricorrente
nell’esecuzione di altri appalti, ben lungi dall’essere
provate, senza operare alcuna verifica circa l’entità delle
stesse e le giustificazioni addotte dalla ricorrente, e
soprattutto, senza effettuare alcuna comparazione con altra
documentazione –certificato di regolare esecuzione del
servizio rilasciato dal Comune di Catanzaro per periodo
prossimo a quello in esame– parimenti riguardante la
diligenza della ricorrente nell’espletamento del servizio
affidato.
3. Alla luce di tali considerazioni, il ricorso è fondato. |
EDILIZIA PRIVATA: Il
cambio di destinazione, da capannone industriale ad immobile
commerciale impone di norma la ristrutturazione ed il
frazionamento dei preesistenti locali, con aumento del loro
numero e conseguenti ricadute sull’assetto urbanistico
locale.
Ne consegue che, in virtù delle previsioni di cui agli
articoli 10 e 22 menzionato d.p.r. n. 380/2001, trattandosi
di cambio di destinazione d’uso che incide sul carico
urbanistico, si rende necessario quale titolo autorizzatorio
il permesso di costruire.
Come chiarito infatti da condivisibile giurisprudenza, anche
della Suprema corte di Cassazione, solo il cambio di
destinazione d'uso fra categorie edilizie omogenee non
necessita di permesso di costruire (in quanto non incide sul
carico urbanistico), mentre, allorché intervenga tra
categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee,
integra una modificazione edilizia con effetti incidenti sul
carico urbanistico, con conseguente assoggettamento al
regime del permesso di costruire, indipendentemente
dall'esecuzione di opere.
---------------
L’art. 23-ter d.p.r. 380/2001 -inserito nel testo unico
dell’edilizia, dall'articolo 17, comma 1, lett. n), del D.L.
n. 133 del 2014, convertito con modificazioni dalla Legge n.
164 del 2014- chiarisce che l’utilizzo di un immobile da
categoria funzionale “produttiva e direzionale”
(comma 1, lett. b) a “commerciale” (comma 1, lett. c)
rientra tra i casi in cui, “Salva diversa previsione da
parte delle leggi regionali, si verifica un “mutamento
rilevante della destinazione d'uso … dell'immobile o della
singola unità immobiliare diversa da quella originaria,
ancorché non accompagnata dall'esecuzione di opere edilizie”.
Il legislatore statale ha quindi escluso, e non poteva
essere diversamente, carattere di omogeneità tra la
destinazione commerciale e quella industriale produttiva di
un immobile, considerate categorie funzionali tra loro
diverse e non assimilabili a fronte delle evidenti diverse
implicazioni in termini di carichi urbanistici ed impatto
complessivo sul territorio.
E’ sufficiente considerare -a tacere delle inevitabili
modificazioni in termini di volumi, superfici e prospetti-
che il cambio di destinazione, da capannone industriale ad
immobile commerciale, richiesto dalla Cooperativa al Ri.,
imponga di norma la ristrutturazione ed il frazionamento dei
preesistenti locali, con aumento del loro numero e
conseguenti ricadute sull’assetto urbanistico locale.
Ne consegue che, in virtù delle previsioni di cui agli
articoli 10 e 22 menzionato d.p.r. n. 380/2001, trattandosi
di cambio di destinazione d’uso che incide sul carico
urbanistico, si rende necessario quale titolo autorizzatorio
il permesso di costruire.
Come chiarito infatti da condivisibile giurisprudenza, anche
della Suprema corte di Cassazione, solo il cambio di
destinazione d'uso fra categorie edilizie omogenee non
necessita di permesso di costruire (in quanto non incide sul
carico urbanistico), mentre, allorché intervenga tra
categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee,
integra una modificazione edilizia con effetti incidenti sul
carico urbanistico, con conseguente assoggettamento al
regime del permesso di costruire, indipendentemente
dall'esecuzione di opere (in questo senso, ex multis,
Cass. pen., Sez. III, 24.06.2014, n. 39897; cfr. anche, TAR
Lazio Roma Sez. I-quater, 04.04.2012, n. 3096)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 22.06.2016 n. 3206 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il certificato di destinazione
urbanistica ha carattere meramente dichiarativo e non
costitutivo degli effetti giuridici che dallo stesso
risultano, atteso che la situazione giuridica attestata nel
predetto certificato è la conseguenza di altri precedenti
provvedimenti che hanno contribuito a determinarla.
La natura meramente dichiarativa del certificato
urbanistico, dunque, non preclude all'amministrazione
comunale, una volta accertato che la certificazione contiene
un'attestazione incompleta o non veritiera, di annullare in
autotutela un titolo edilizio basato su un presupposto
erroneo.
Da quanto sopra, consegue che nessun rilievo assume la
circostanza che l'Amministrazione comunale abbia assentito
interventi edilizi sulla base di certificati di destinazione
urbanistica che non rispecchiano le prescrizioni contenute
negli atti di programmazione urbanistica.
---------------
In via preliminare,
come chiarito dalla dominante giurisprudenza amministrativa:
“Il certificato di destinazione urbanistica ha carattere
meramente dichiarativo e non costitutivo degli effetti
giuridici che dallo stesso risultano, atteso che la
situazione giuridica attestata nel predetto certificato è la
conseguenza di altri precedenti provvedimenti che hanno
contribuito a determinarla.”.
La natura meramente dichiarativa del certificato
urbanistico, dunque, non preclude all'amministrazione
comunale, una volta accertato che la certificazione contiene
un'attestazione incompleta o non veritiera, di annullare in
autotutela un titolo edilizio basato su un presupposto
erroneo (in questo senso, TAR Campania, Napoli, Sez. I,
16.09.2015, n. 4553; Consiglio di Stato, Sez. IV, 26.08.2014
n. 4306 e 04.02.2014 n. 505).
Da quanto sopra, consegue che nessun rilievo assume la
circostanza che l'Amministrazione comunale abbia assentito
interventi edilizi sulla base di certificati di destinazione
urbanistica che non rispecchiano le prescrizioni contenute
negli atti di programmazione urbanistica
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 22.06.2016 n. 3206 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Così la Pa deve rispettare le sentenze. Consiglio
di Stato. I confini del giudizio di ottemperanza del
giudicato quando gli uffici sono inerti o elusivi.
Il Consiglio di Stato ribadisce i rimedi concessi al
cittadino per far valere nei confronti dell’Amministrazione
soccombente il rispetto delle sentenze e ne traccia con
maggiore precisione i confini.
Con la
sentenza 22.06.2016 n.
2769, la III Sez. del Consiglio di Stato ha nuovamente affrontato
i confini del giudizio per l’ottemperanza del giudicato,
ovvero del rimedio garantito a chi intenda far valere in
giudizio il mancato rispetto, da parte della Pubblica
amministrazione, di precedenti decisioni del giudice
amministrativo.
In primo luogo, il Consiglio di Stato ha ribadito che il
giudizio di ottemperanza del giudicato è esperibile non solo
da parte di chi lamenti la completa inerzia
dell’Amministrazione nel dare attuazione a una precedente
pronuncia giurisdizionale ma anche da parte di chi voglia
far accertare il carattere elusivo del giudicato dei
provvedimenti emessi dalla Pa in seguito ad una sentenza del
giudice amministrativo.
In secondo luogo, i supremi giudici amministrativi hanno
statuito che il ricorrente non ha l’onere di impugnare
espressamente i provvedimenti ritenuti elusivi del giudicato
in quanto il loro eventuale annullamento rientra comunque
nella cognizione del giudice dell’ottemperanza, anche se
attivato per far valere l’inerzia dell’amministrazione.
Pertanto, qualora un soggetto ricorra al giudice, in sede di
ottemperanza, per far accertare il mancato rispetto del
giudicato dell’amministrazione rimasta inerte, può estendere
l’oggetto della sua domanda anche all’accertamento della
nullità del provvedimento eventualmente emesso dalla Pa nel
corso del giudizio anche con semplice memoria, senza onere
di impugnazione né di notifica.
Qualora invece il provvedimento ritenuto elusivo -e quindi
affetto da nullità- venga emesso prima dell’instaurazione
del giudizio di ottemperanza, il soggetto che si assuma leso
può attivare due rimedi: o l’azione di ottemperanza oppure
l’actio nullitatis, entro il termine di 180 giorni
dall’emissione dell’atto ritenuto nullo.
Tuttavia, è importante tenere presente che, qualora l’atto
ritenuto elusivo del giudicato sia viziato sotto profili che
esulano dal decisum della sentenza da eseguire, il rimedio
da attivare non è il giudizio di ottemperanza ma il giudizio
ordinario di impugnazione entro il termine perentorio di 60
giorni (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.07.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Contributo per il rilascio del permesso di costruire –
Fideiussione – Possibilità di infliggere la sanzione
pecuniaria in assenza di preventiva escussione della
garanzia – Contrasto di giurisprudenza – Rimessione alla
Adunanza plenaria.
Va rimessa alla Adunanza plenaria del
Consiglio di Stato la questione se una volta costituita, ai
sensi dell’art. 16, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (t.u.
edilizia), una garanzia per il pagamento del contributo per
il rilascio del permesso di costruire, il comune, avendo
omesso di escutere la garanzia, possa, oltre che chiedere il
pagamento del dovuto al debitore principale, infliggere
comunque la sanzione pecuniaria (nella misura massima)
prevista dalla disciplina regionale e comunale per i casi di
mancato versamento del contributo.
La sez. IV del
Consiglio di Stato rimette all'Adunanza plenaria la
questione relativa alla possibilità di infliggere la
sanzione pecuniaria in assenza di preventiva escussione
della garanzia in favore del soggetto che ha chiesto ed
ottenuto il permesso di costruire.
L’ordinanza in commento –nell’affidare ai sensi dell’art. 99
c.p.a. all’organo di nomofilachia della Giustizia
amministrativa la soluzione della questione di diritto di
cui in massima– sintetizza puntualmente (anche in chiave
storica) le tre tesi che si contendono il campo:
a) secondo la prima (maggioritaria nella giurisprudenza del
Consiglio di Stato), il comune non perde la potestà di
infliggere la sanzione pecuniaria (nella misura massima)
anche se non ha tempestivamente escusso la garanzia
costituita in favore del soggetto che ha chiesto ed ottenuto
il permesso di costruire;
b) secondo la tesi opposta (largamente minoritaria), il
comune non potrebbe aggravare con la sua condotta le
conseguenze dell’inadempimento dell’obbligazione principale
assunta dal titolare del permesso di costruire e pertanto
non potrebbe mai infliggere alcuna sanzione;
c) secondo una terza più recente impostazione, infine, il
comune non perderebbe il potere di sanzionare
l’inadempimento del titolare del permesso di costruire ma
dovrebbe infliggere, nell’ottica del contemperamento
equitativo dei contrapposti interessi, la sanzione
pecuniaria nella misura minima (commento tratto da
www.giustizia-amministrativa.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
ordinanza 22.06.2016 n. 2766).
---------------
MASSIMA
2. Con il primo e centrale motivo di impugnazione la
società appellante deduce che il comune non avrebbe potuto
legittimamente applicare le sanzioni previste per il
ritardato pagamento di contributi concessori.
Infatti la società aveva prestato a garanzia del pagamento
del contributo apposita polizza fideiussoria ( priva del
beneficio di preventiva escussione del debitore principale
ex art. 1944 comma secondo cod. civ.) cosicché il comune ben
poteva riscuotere per tempo le varie rate dei contributi
direttamente dal garante.
In sostanza, secondo l’appellante, il comune, una volta
accertato il mancato pagamento, avrebbe potuto senza
particolari difficoltà escutere il fideiussore, così
evitando di aggravare la posizione della parte debitrice.
Replica il comune di Ayas che la prestazione della garanzia
non esonera il debitore dall’obbligo di adempiere in modo
diligente.
Al riguardo il Collegio osserva quanto segue.
Come è noto, l’art. 1 della legge n. 10 del 1977 ha
introdotto nell’ordinamento il principio fondamentale
secondo cui ogni attività comportante trasformazione
urbanistico/edilizia del territorio partecipa agli oneri da
essa derivanti.
Tale principio dell’onerosità del permesso di costruire è
oggi confermato dall’art. 11, comma 2, del T.U. n. 380 del
2001, il quale poi precisa all’art. 16, comma 1, che il
relativo contributo è costituito da due quote, commisurate
rispettivamente all’incidenza delle spese di urbanizzazione
e al costo di costruzione dell’edificio assentito.
Ai sensi del comma 2 dello stesso art. 16 la quota di
contributo relativa agli oneri di urbanizzazione è di norma
(salvo eventuale rateizzazione a richiesta dell’interessato)
corrisposta all’atto del rilascio del permesso.
Invece, ai sensi del successivo comma 3, la quota relativa
al costo di costruzione è corrisposta in corso d’opera, con
le modalità e le garanzie stabilite dal comune, non oltre
sessanta giorni dall’ultimazione della costruzione.
Di fatto, come appunto l’art. 16, comma 3, consente e come
avvenuto nel caso in esame, gli enti locali all’atto della
quantificazione e rateizzazione del contributo richiedono
sempre al beneficiario la prestazione di una garanzia nei
modi indicati dall’art. 2 della legge n. 348 del 1982 e
succ. modif..
Infine, nel caso di ritardato od omesso pagamento del
contributo di costruzione, l’art. 42 del T.U. (il quale
riprende sostanzialmente le previsioni già contenute
nell’art. 3 della legge n. 47 del 1985) così prevede nel
testo oggi vigente: “1. Le regioni determinano le
sanzioni per il ritardato o mancato versamento del
contributo di costruzione in misura non inferiore a quanto
previsto nel presente articolo e non superiore al doppio.
2. Il mancato versamento, nei termini stabiliti, del
contributo di costruzione di cui all'articolo 16 comporta:
a) l'aumento del contributo in misura pari al 10 per cento qualora
il versamento del contributo sia effettuato nei successivi
centoventi giorni;
b) l'aumento del contributo in misura pari al 20 per cento quando,
superato il termine di cui alla lettera a), il ritardo si
protrae non oltre i successivi sessanta giorni;
c) l'aumento del contributo in misura pari al 40 per cento quando,
superato il termine di cui alla lettera b), il ritardo si
protrae non oltre i successivi sessanta giorni.
3. Le misure di cui alle lettere precedenti non si cumulano.
4. Nel caso di pagamento rateizzato le norme di cui al
secondo comma si applicano ai ritardi nei pagamenti delle
singole rate.
5. Decorso inutilmente il termine di cui alla lettera c) del
comma 2, il comune provvede alla riscossione coattiva del
complessivo credito nei modi previsti dall'articolo 43.
6. In mancanza di leggi regionali che determinino la misura
delle sanzioni di cui al presente articolo, queste saranno
applicate nelle misure indicate nel comma 2.”.
Da quanto sopra discende che il sistema di pagamento del
contributo è caratterizzato dalla compresenza di una
garanzia prestata per l’adempimento del debito principale e
di un parallelo strumento sanzionatorio progressivo a carico
del debitore che resti inadempiente, cosicché il comune allo
scadere del termine originario di pagamento della rata può
alternativamente rivalersi immediatamente sul fideiussore ed
ottenere il soddisfacimento del suo credito oppure insistere
per riscuotere (anche in via coattiva) dal debitore
principale il contributo da questi non pagato e le sanzioni
commisurate al ritardo.
In tale contesto,
la questione che si pone
consiste propriamente nello stabilire se in realtà la
prima opzione operativa (l’incameramento della garanzia
con conseguente preclusione all’applicazione delle sanzioni)
sia necessitata o facoltativa.
Secondo un indirizzo giurisprudenziale,
peraltro minoritario,
il problema interpretativo all’esame non può che risolversi
facendo coerente applicazione dei principi civilistici in
tema di obbligazioni, primo fra tutti quello che impone al
creditore in buona fede di collaborare con il debitore ai
fini del puntuale adempimento dell’obbligazione.
In tal senso fin da epoca risalente è stato osservato che “Poiché
il credito vantato dal comune per il contributo di
costruzione nei confronti del titolare di una concessione
edilizia è assistito da garanzia fideiussoria, una siffatta
obbligazione di garanzia, priva di beneficium excussionis ed
al di là della solidarietà tra debitore principale e
fideiussore, esclude che il comune stesso possa far ricorso
alle sanzioni ex art. 3 l. 28.02.1985 n. 47 senza esercitare
la predetta garanzia che nel limitare anche il danno per il
concessionario, permette all'ente il pronto soddisfacimento
del proprio credito. Infatti, la natura giuridica della
concessione edilizia o delle sanzioni ex art. 3 legge n. 47
del 1985 non può esimere il comune dall'osservanza degli
obblighi posti dalla legge in capo al creditore in materia
di adempimento delle obbligazioni, ivi compreso quello della
necessaria cooperazione con il debitore in tale fase
dell'adempimento“ (ad es. V Sez. n. 1001 del 1995).
Nella stessa linea, in epoca più recente, è stato ribadito
che “Qualora il titolare di una concessione edilizia
abbia stipulato, a garanzia del versamento dei contributi,
una polizza fideiussoria priva del beneficio di preventiva
escussione dell'obbligato principale, ai sensi dell'art.
1227, secondo comma, c.c., che pone a carico del creditore i
danni che questi avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria
diligenza, non possono essere applicate le sanzioni previste
dall'art. 3 della l. 28.02.1985, n. 47, per il caso di
omesso o ritardato versamento dei contributi, ove
l'amministrazione creditrice, violando i doveri di
correttezza e buona fede, non si sia attivata per tempo nel
chiedere al garante il pagamento delle somme dovute" (ad
es. V Sez. n. 32 del 2003, V Sez. n. 571 del 2003 e I Sez.
parere n. 11663 del 17.05.2013).
A sostegno del richiamato indirizzo sta il rilievo che
l’ente locale, ove il suo credito sia assistito da garanzia
incondizionata, ha uno specifico dovere, ai sensi degli
artt. 1175, 1375 e 1227, comma 2, cod. civ., di richiedere
quanto dovutogli al garante, con la conseguenza che l’ente
stesso –omettendo tale ben esigibile adempimento- viola
appunto l’obbligo per il creditore di non aggravare
inutilmente la posizione del debitore.
Parallelamente, sul piano funzionale, si rileva che la
previsione legislativa delle sanzioni per il mancato
pagamento degli oneri concessori trova ragione nella
necessità per l'amministrazione di disporre tempestivamente
delle somme dovute dai privati onde poter procedere alla
realizzazione delle necessarie infrastrutture di
urbanizzazione: in tale contesto, un ente locale che sceglie
di non incamerare subito la fideiussione non persegue la
finalità di interesse pubblico per cui la sanzione è appunto
predisposta (assicurare la tempestiva disponibilità delle
somme per l’urbanizzazione), bensì altro scopo, ossia far
lievitare la somma dovuta dal privato anche a rischio di un
consistente differimento nell’incasso.
Questa impostazione non è condivisa dall’indirizzo
giurisprudenziale maggioritario
il quale inquadra la fattispecie in una prospettiva
pubblicistica, significativamente caratterizzata dalla
presenza di strumenti –le sanzioni e la riscossione
coattiva– tipici di un procedimento autoritativo e non
paritetico.
In questa prospettiva la fideiussione –che il comune è
facoltizzato a richieder in caso di rateizzazione del
versamento- non ha affatto la finalità di agevolare
l'adempimento del soggetto obbligato al pagamento, bensì
costituisce una garanzia personale prestata unicamente
nell'interesse dell'amministrazione, sulla quale non incombe
alcun obbligo di preventiva escussione del fideiussore.
In sostanza, la garanzia sussidiaria serve a scongiurare che
il Comune possa irrimediabilmente perdere una entrata di
diritto pubblico, ma non alleggerisce affatto la posizione
del soggetto tenuto al pagamento, né attenua le conseguenze
previste nel caso di un eventuale suo inadempimento,
conseguenze appunto riconducibili all’applicazione delle
sanzioni e alla riscossione coattiva dell’intera somma
dovuta (ex multis IV Sez. n. 5818 del 2012).
Del resto, tale maggioritario orientamento (cfr. per tutte
IV Sez. n. 4320 del 2012 e V Sez. n. 777 del 2016)
puntualizza che, anche volendo aver riguardo al regime
ordinario delle obbligazioni tra privati, in materia di
obbligazione "portable" quale quella pecuniaria, e
con termine di adempimento che esonera dalla costituzione in
mora del debitore, il creditore è soltanto facultato ad
attivare la solidale responsabilità del fideiussore, senza
che possa invece ritenersi tenuto ad escutere il coobbligato
piuttosto che attendere il pagamento, ancorché tardivo,
salva l'esistenza di apposita clausola in tal senso
accettata dal creditore stesso.
Né sarebbe pertinente il richiamo all'art. 1227, secondo
comma cod. civ. -che riguarda l'esonero di responsabilità
per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando
l'ordinaria diligenza– in primo luogo perché l'obbligazione
relativa alle sanzioni pecuniarie ex art. 3 l. 28.02.1985 n.
47 non ha, certo, natura risarcitoria configurandosi come
obbligazione legale, con finalità chiaramente e univocamente
"sanzionatorie".
In secondo luogo, l'onere di diligenza che l’art. 1227,
comma secondo, fa gravare sul creditore non si estende alla
sollecitudine nell'agire a tutela del proprio credito onde
evitare maggiori danni, i quali viceversa sono da imputare
esclusivamente alla condotta del debitore, tenuto al
tempestivo adempimento della sua obbligazione (v. Corte
cost. n. 308 del 1999 in tema di maggiorazione delle
sanzioni amministrative per ritardato pagamento).
Alla luce delle considerazioni sin qui esaminate questo
Collegio ritiene preferibile l’orientamento maggioritario,
in quanto più coerente con la disciplina concretamente
applicabile alla fattispecie.
Sennonché, in tempi recenti, è andato emergendo un
ulteriore indirizzo giurisprudenziale
il quale, pur tenendo conto della cogenza della previsione
legale relativa all’applicazione delle sanzioni in caso di
ritardato pagamento, ritiene però illegittima l’applicazione
delle sanzioni in misura massima.
In tale ottica, e con riferimento a controversie
sovrapponibili a quella ora in esame, è stato infatti
rilevato -valorizzando il principio di leale collaborazione
tra cittadino e comune, che ha valenza pubblicistica e
rientra nell'ambito dei principi di imparzialità di cui
all'art. 97 Cost.,- che il ritardo con cui l’ente locale
procede alla richiesta di pagamento e l'assenza di
qualsivoglia tentativo di escussione della fideiussione,
comportano, all'evidenza, una violazione del dovere di
correttezza che dovrebbe improntare il comportamento
dell'Amministrazione comunale, in considerazione del fatto
che l'Amministrazione non è un soggetto che agisce per
massimizzare il suo profitto ma è un soggetto che agisce per
realizzare nel modo migliore possibile un interesse pubblico
che le è stato affidato dalla legge e che consiste, appunto,
nella celere realizzazione delle opere di urbanizzazione (e,
quindi, nella pronta disponibilità delle somme ad esse
relative).
Pertanto, secondo il richiamato indirizzo, il ritardo con
cui il comune agisce per riscuotere le somme a titolo di
oneri di urbanizzazione dovuti, se non può impedire del
tutto l'applicazione delle sanzioni, atteso il loro
carattere automatico, scaturente dal disposto di legge,
impedisce tuttavia l'applicazione delle sanzioni massime
(cfr. V Sez. n. 5734 del 2014 e 5287 del 2015).
In sostanza, secondo tale innovativo orientamento, appare
compatibile con l'interesse pubblico azionato, con il tenore
della norma e con i principi costituzionali di buona fede
che ispirano i rapporti tra cittadino e P.A. la riscossione
della sanzione soltanto nella limitata misura di cui alla
lett. a), mentre le maggiori sanzioni sono da ritenersi
illegittime, poiché verosimilmente, escutendo la
fideiussione, il comune avrebbe ottenuto la somma e non
avrebbe potuto quindi applicare alcuna ulteriore sanzione.
Ne consegue che l’ente locale –una volta decorsi 120 giorni
dallo scadere del termine originario di pagamento– deve
valersi della garanzia ( per riscuotere quanto dovuto per
oneri) e contestualmente irrogare al debitore inadempiente
la sanzione minima normativamente prevista.
A giudizio di questo Collegio sembra
potersi affermare che la soluzione “intermedia” ora
in rassegna, nella misura in cui si muove in prospettiva
eminentemente pragmatica, perviene ad un approdo senza
dubbio assai equilibrato ma ermeneuticamente forse non del
tutto appagante.
Infatti sul piano concettuale –dal momento che la legge
prevede proprio sanzioni crescenti in relazione al perdurare
dell’inadempimento- non è chiaro per quale ragione l’obbligo
legale di applicare appunto le sanzioni possa prevalere solo
fino al primo periodo di ritardo (centoventi giorni) mentre
a fronte dei ritardi successivi si riespande il principio
collaborativo.
Al tempo stesso appare però evidente che tale impostazione,
nella misura in cui tiene conto delle diverse esigenze sin
qui messe in rilievo dai contrapposti indirizzi
giurisprudenziali di cui si è sopra dato conto, potrebbe
comportare un ragionato superamento delle contrapposizioni
interpretative sin qui registrate.
Alla luce del contrasto giurisprudenziale rilevato, e
considerato il significativo rilievo pratico della questione
controversa, il Collegio ritiene opportuno sottoporre il
ricorso all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato,
a norma dell’art. 99, comma 1, c.p.a.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione
Quarta)
non definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe,
ne dispone il deferimento all'Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato. |
APPALTI: Sulle
c.d. misure interdittive antimafia a cascata.
Riguardo le c.d. informative interdittive antimafia a
cascata, a fronte della costituzione di una nuova società,
tra un'impresa legittimamente colpita da un'interdittiva e
un altro soggetto imprenditoriale, si può ragionevolmente
presumere l'estensione del giudizio di pericolo di
inquinamento mafioso sia alla nuova società, sia alla
seconda impresa, divenuta socia di quest'ultima, insieme a
quella inizialmente ritenuta esposta al rischio di
permeabilità alle influenze criminali.
La costituzione di una società tra un'impresa già
destinataria di una interdittiva antimafia e un'altra sola
impresa (che detiene una quota significativa della nuova
società) integra senz'altro gli estremi di quella situazione
che consente (anzi: impone) di reputare automaticamente
estesa a quest'ultima la valutazione sulla permeabilità
mafiosa già posta a fondamento dell'informativa ostativa nei
riguardi della prima.
La costituzione di un vincolo stabile e qualificato, come
quello ravvisabile tra i due soci di una società, fonda, in
particolare, la presunzione che la seconda impresa (quella,
cioè, non già attinta da un'interdittiva), sia stata scelta
per la condivisione degli interessi inquinati e illeciti già
ravvisati nella gestione della prima. Appare, segnatamente,
del tutto plausibile inferire dalla scelta del partner per
la costituzione di una nuova società la presupposta (e
logica) comunanza di interessi illeciti tra le due imprese.
Mentre risulta, invero, del tutto improbabile che un'impresa
già attinta da sospetti di permeabilità mafiosa selezioni,
come socio, un'impresa del tutto estranea al circuito
criminoso nel quale essa orbita o che, in ogni caso, accetti
la proposta di collaborazione di un operatore del tutto
impermeabile ad interessi contigui alla criminalità
organizzata, appare, al contrario, del tutto verosimile che
l'intesa di sinergie imprenditoriali ascrivibile a
un'impresa certamente 'mafiosa' obbedisca al medesimo
disegno illecito di asservimento agli interessi delle
organizzazioni criminali.
Risulta, in altri termini, estremamente probabile che,
secondo l'id quod plerumque accidit, il legame
societario trasmodi, nella fattispecie considerata, in
sodalizio criminale o che, addirittura, quest'ultimo
costituisca la causa della costituzione del vincolo
associativo.
L'elevata verosimiglianza che la nuova società sia
costituita al fine di perseguire più efficacemente gli scopi
illeciti delle organizzazioni criminali con cui una delle
due imprese risulta collusa e l'estrema improbabilità che
l'operazione societaria resti immune da condizionamenti
mafiosi e impermeabile a qualsivoglia tentativo di
condizionamento consentono, in definitiva, di utilizzare la
relativa presunzione quale fondamento di un'interdittiva che
colpisca sia la nuova società, in via autonoma, sia il nuovo
socio
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 22.06.2016 n. 2274 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
La contestazione dello stop alle rate riammette
in gara. Appalti. Imprese e piani respinti.
L’impresa può partecipare ad appalti
pubblici anche se ha un consistente debito tributario,
purché abbia proposto ricorso di urgenza al giudice
ordinario contro il diniego di rateizzazione.
Lo sottolinea il TAR
Campania-Salerno, Sez. I, con la
sentenza 22.06.2016 n. 1552.
Un Comune aveva escluso dalla gara per la messa in sicurezza
di edifici scolastici un’impresa che risultava avere un
debito tributario per il quale aveva inutilmente chiesto la
rateizzazione.
Di norma, l’impresa fiscalmente non in regola va esclusa
(articolo 38, comma 1, lettera g, Dlgs 163/2006, oggi
articolo 80, comma 4, legge 50/2016, Codice appalti), ma se
il debito è contestato la pretesa dell’erario non può
ritenersi «definitivamente accertata». Lo stesso principio
si applica anche a valle della pretesa tributaria, cioè
quando il debito fiscale è certo, ma si discute delle
modalità di pagamento. Poiché la rateazione è considerata
fisiologica, basta diluire il debito nel tempo per rimanere
in regola e partecipare a gare. Ma, se l’agente di
riscossione non accetta la domanda, riecco l’ostacolo alla
partecipazione a gare.
Ora il Tar Salerno precisa che un ente pubblico non può
escludere da gare l’impresa che, pur non contestando il
debito, si veda negare una dilazione e si rivolga al
giudice: anche in tal caso il debito va considerato «non
definitivamente accertato» e quindi permane la capacità di
contrattare con la Pa. Sul tema, il Consiglio di Stato (21.12.2015, n. 5802) ha ritenuto che il concetto di definitività del debito (o delle violazioni in genere)
nell’ambito delle gare pubbliche si focalizza al momento
della scadenza del termine di presentazione dell’offerta,
nel senso che il dubbio sulla regolarità del concorrente (e
quindi sul suo debito) deve venir meno al momento della
gara.
Alla scadenza del termine per presentare l’offerta
deve cioè risultare accolta l’istanza di rateizzazione o
almeno deve essere stato presentato e risultare pendente un
ricorso amministrativo o giurisdizionale contro il diniego
di rateizzazione. Quindi non basta che vi sia ancora tempo
utile per contestare il debito tributario: la contestazione
del debito (o del diniego di rateizzazione) deve avvenire
entro la scadenza per presentare l’offerta.
Il giudizio avverso la rateizzazione del debito è oggi
affidato alle Commissioni tributarie, dopo un periodo di
incertezza tra giudice amministrativo, civile e tributario,
con la pronuncia delle Sezioni unite della Cassazione.
(5928/2011). Il Tar Salerno va oltre e ritiene utile, per
mantenere il diritto a partecipare alla gara, anche una lite
dinanzi al Tribunale civile in via di urgenza (articolo 700
del Codice di procedura civile).
Probabilmente il giudice
civile in materia fiscale si dichiarerà carente di
giurisdizione, ma l’ammissione alla gara può avvenire già
solo in base alla seria contestazione giudiziaria,
indipendentemente dalla competenza del giudice: dal 2009
(Cassazione 4109/2007, Corte Costituzionale 77/2009) opera
il principio che consente lo spostamento automatico della
lite (traslatio iudicii), poiché è unica la funzione
giurisdizionale. Una lite può quindi iniziare dinanzi un
giudice non competente, per poi essere affidata a diversa
giurisdizione, senza che si perdano i diritti collegati alla
contestazione (articolo Il Sole 24 Ore del
02.07.2016).
---------------
MASSIMA
Il ricorso è fondato.
Parte ricorrente ha documentato che, con nota pec del
30.03.2016, ha comunicato al Comune di Flumeri di aver
proposto ricorso ex art. 700 c.p.c. avverso il provvedimento
di diniego di rateizzazione, ricorso ancora pendente presso
Tribunale di Salerno.
Questo Tribunale (Sez. II, n. 172 del 21.01.20169, in
analoga vicenda, ha già avuto modo di affermare quanto
segue: “Il provvedimento di esclusione risulta, invero,
assunto in violazione del dettato normativo di cui all'art.
38, comma I, lett. g.) del D.Lgs. n. 163/2006 in virtù del
quale l'esclusione si applica solo nei
confronti dei concorrenti che hanno commesso violazioni
gravi, definitivamente accertate, rispetto agli obblighi
relativi al pagamento delle imposte e tasse. Il requisito
della definitività dell'accertamento deve ritenersi esclusa,
per comune intendimento, allorché siano ancora pendenti i
termini per la presentazione del rimedio giurisdizionale ed
a maggior ragione quando questo, come nel caso di specie,
sia stato ritualmente formalizzato
(in termini generali, cfr. (Cons. Stato, sez. VI, 27.02.2008
n. 716; Id., sez. V, 20.04.2010, n. 2213; TAR Puglia Lecce
sez. III 20/05/2011 n. 883; TAR Calabria Reggio Calabria
22/10/2008 n. 537)”.
In conclusione, come anticipato, la domanda di annullamento
proposta dalla parte ricorrente è meritevole di
accoglimento, nei limiti necessari a realizzare l’interesse
da essa perseguito principaliter, ovvero con riguardo
al provvedimento di esclusione dalla gara adottato nei suoi
confronti.
Il Collegio, ritiene, infatti di non doversi pronunciare
sulla efficacia del contratto, non risultando che lo stesso
sia stato stipulato nelle more del presente giudizio, così
come sulla domanda subordinata di condanna al risarcimento
del danno per equivalente. |
ENTI
PUBBLICI - PUBBLICO IMPIEGO:
Niente concorsi se ci sono idonei. Tar Lazio
sulle graduatorie della p.a..
Addio alle delibere con cui l'ente pubblico dà il via a un
nuovo concorso senza prima pescare fra gli idonei con lo
scorrimento delle graduatorie ancora in vigore, peraltro già
utilizzate con l'instaurazione di rapporti di lavoro a
termine. E ciò perché il decreto «razionalizzazione p.a.»
punta a evitare nuove procedure selettive quando nel
«bacino» dell'ente esistono profili equivalenti cui
attingere: sbaglia allora l'istituto quando lancia il nuovo
concorso sostenendo che non c'è una «perfetta identità» fra
le professionalità necessarie e quelle già sussistenti, dal
momento che l'equivalenza risulta sufficiente in proposito.
È quanto emerge dalla
sentenza
21.06.2016 n. 7254 della Sez. III-bis del TAR Lazio-Roma.
Controllori perplessi
Accolto il ricorso di due ricercatori a tempo determinato
difesi dagli avvocati Sergio Fiorenzano e Paolo Mauriello.
Nel 2010 i due lavoratori partecipano a un concorso
nazionale per soli tre posti e risultano idonei non
vincitori, piazzandosi al sedicesimo e al diciassettesimo
posto. Ma poi il consiglio d'amministrazione dell'istituto
dà il via a un mega-piano di assunzioni sulla base del dl
istruzione, il decreto legge 104/2013.
Il punto è che l'ente
avrebbe dovuto guardare alle professionalità già ritenute
idonee prima di emanare bandi per la selezione di profili
che risultano in sostanza analoghi. La scelta del nuovo
concorso, infatti, non convince fino in fondo anche i
controllori interni ed esterni, vale a dire il collegio dei
revisori e lo stesso dipartimento della Funzione pubblica.
Effettiva carenza
Dopo il dl 101/2013, invero, l'ente deve motivare
l'effettiva carenza di profili lavorativi prima di mettere
in moto ulteriori e onerose selezioni. Oggi i due
ricercatori con il contratto a termine risultano adibiti in
pratica a mansioni equivalenti a quelle messe a concorso con
il piano assunzioni.
E in effetti, osservano i giudici amministrativi, la
decisione di aprire un'ulteriore tornata di selezione si
rivela «sostanzialmente non motivabile» visto che le
figure richieste e quelle disponibili appaiono «tendenzialmente»
prevalente sovrapponibili
(articolo ItaliaOggi del 25.06.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Sul decreto di nomina di incarichi dirigenziali.
Il decreto di nomina di incarichi dirigenziali rientra nel
genus degli atti di natura strettamente
organizzativa, preordinati alla costituzione del rapporto
d'impiego di livello dirigenziale disciplinati dal diritto
privato ai sensi dell'art. 63 del d.lgs. n. 165 del 2001 ed
esorbita dalla giurisdizione del giudice amministrativo
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 21.06.2016 n. 2728 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI: Nelle
gare d'appalto non sono consentite regolarizzazioni postume
della posizione previdenziale, dovendo l'impresa deve essere
in regola con l'assolvimento degli obblighi previdenziali ed
assistenziali fin dalla presentazione dell'offerta.
Nelle gare d'appalto, anche dopo l'entrata in vigore
dell'art. 31, c. 8, d.l. 21.06.2013, n. 69, convertito con
modificazioni dalla l. 09.08.2013 n. 98, non sono consentite
regolarizzazioni postume della posizione previdenziale,
dovendo l'impresa deve essere in regola con l'assolvimento
degli obblighi previdenziali ed assistenziali fin dalla
presentazione dell'offerta e conservare tale stato per tutta
la durata della procedura di aggiudicazione e del rapporto
con la stazione appaltante, con l'irrilevanza di un
eventuale adempimento tardivo dell'obbligazione
contributiva, tenendo presente che l'istituto dell'invito
alla regolarizzazione -il c.d. preavviso di documento unico
di regolarità contributiva negativo- già previsto dall'art.
7, c. 3, d.m. 24.10.2007 e ora recepito a livello
legislativo dall'art. 31, c. 8, d.l. 21.06.2013, n. 69 può
operare solo nei rapporti tra impresa ed Ente previdenziale,
ossia con riferimento al d.u.r.c. chiesto dall'impresa e non
anche al d.u.r.c. richiesto dalla stazione appaltante per la
verifica della veridicità dell'autodichiarazione resa ai
sensi dell'art. 38, c. 1, lett. i) ai fini della
partecipazione alla gara d'appalto
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 21.06.2016 n. 2727 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Dall’esame del combinato disposto degli artt. 29,
comma primo, e 31, comma secondo, del DPR n. 380/2001 (T.U.ED.),
emerge che la prima disposizione qualifica come
“responsabili dell’abuso”, ai fini e per gli effetti del
Capo I del Titolo IV, il titolare del permesso di
costruire, il committente, il costruttore
e, in talune ipotesi, anche il direttore dei lavori.
Pertanto, il proprietario dell’area che non risulti altresì
committente o costruttore (o in concorso con gli stessi) non
può tecnicamente qualificarsi come responsabile dell’abuso e
non può essere, quindi, soggetto al trattamento
sanzionatorio previsto a carico delle suddette figure.
---------------
Il secondo comma dell’art. 31 prevede, tuttavia, che
l’ordinanza di demolizione debba essere notificata, oltre
che al soggetto o ai soggetti responsabili dell’abuso, anche
al proprietario dell’area.
In proposito la giurisprudenza consolidata afferma che in
materia di abusi edilizi commessi da persona diversa dal
proprietario la posizione di quest’ultimo può ritenersi
neutra rispetto alle sanzioni previste dal T.U.ED. del 2001,
e ciò con particolare riguardo all’acquisizione gratuita al
patrimonio comunale dell'area di sedime sulla quale insiste
il bene «quando risulti, in modo inequivocabile,
l’estraneità del proprietario stesso rispetto al compimento
dell'opera abusiva ovvero risulti che, essendone venuto a
conoscenza, il proprietario si sia poi adoperato per
impedirlo con gli strumenti offertigli dall'ordinamento.
Il motivo per cui il proprietario è contemplato tra i
destinatari dell’ordine di demolizione, pur in assenza di
ogni coinvolgimento nella realizzazione delle opere non
autorizzate, sta nel fatto che la legge pone a suo carico
non una responsabilità (che sarebbe oggettiva e, come tale,
contraria ai principi dell’ordinamento) ma un obbligo di
cooperazione nella rimozione delle opere abusive il cui
mancato adempimento può anche comportare la sanzione
dell’acquisizione gratuita del terreno (ciò si dice qui a
fini di completezza e di ricostruzione della disciplina in
esame, essendo esclusa la possibilità di sanzionare la
ricorrente con l’acquisizione dallo stesso Comune che
espressamente lo afferma nel provvedimento impugnato, in
considerazione del fatto che il proprietario non coincide,
nella specie, con gli autori dell’abuso).
Sempre in linea generale, non può essere detto in astratto
in cosa debba consistere la predetta cooperazione del
proprietario nella rimozione degli abusi. Il contenuto della
cooperazione dipende infatti dalle singole fattispecie: è
chiaro che il proprietario che non abbia riacquisito la
detenzione del fondo non potrà materialmente provvedere alla
demolizione delle opere ivi insistenti ma solo diffidare il
conduttore al ripristino dello status quo ante.
Diversamente, qualora egli al momento della notifica
dell’ordinanza che ingiunge la demolizione abbia riacquisito
la materiale disponibilità dell’area dovrà farsi carico
della demolizione delle opere, con possibilità di rivalsa
sui responsabili in base ai principi civilistici.
---------------
... per l'annullamento dell'ordinanza P.G. 87983/2010 del
09.10.2010, nella parte in cui il Direttore del Settore
Urbanistica del Comune di Bologna, ordina alla ricorrente,
in qualità di comproprietaria del terreno sito in Bologna,
di demolire le opere edilizie, nonché di ogni altro atto e/o
provvedimento presupposto, connesso e/o consequenziale.
...
3. Con unico articolato motivo di censura parte ricorrente
denuncia l’illegittimità dell’ordinanza impugnata sotto i
profili della violazione dell’art. 31 del DPR n. 380/2001 e
dell’eccesso di potere per travisamento dei fatti, errore
nei presupposti, difetto di motivazione, illogicità
manifesta, perplessità.
La ricorrente ritiene di non dover essere destinataria
dell’ordine di demolizione in quanto soggetto non
responsabile degli abusi edilizi di cui trattasi e in quanto
si è attivata per far cessare la situazione abusiva.
Il Comune di Bologna, dal canto suo, sostiene che:
a) vi è una presunzione di responsabilità per gli abusi
edilizi a carico del proprietario dell’immobile sul quale le
opere abusive sono state realizzate;
b) il proprietario ha comunque l’obbligo della riduzione in
pristino e della demolizione in quanto ha la disponibilità
dell’immobile;
c) nella specie, si è tenuto conto delle motivazioni addotte
dai proprietari dell’area a dimostrazione dell’impossibilità
di intervento;
d) occorreva in ogni caso comunicare ai proprietari il
provvedimento in questione;
e) è stata espressamente esclusa l’acquisizione dell’area
proprio in considerazione della posizione dei proprietari.
Orbene, dall’esame del combinato disposto degli artt. 29,
comma primo, e 31, comma secondo, del DPR n. 380/2001 (T.U.ED.),
emerge che la prima disposizione qualifica come “responsabili
dell’abuso”, ai fini e per gli effetti del Capo I del
Titolo IV, il titolare del permesso di costruire, il
committente, il costruttore e, in talune ipotesi, anche il
direttore dei lavori.
Pertanto, il proprietario dell’area che non risulti altresì
committente o costruttore (o in concorso con gli stessi) non
può tecnicamente qualificarsi come responsabile dell’abuso e
non può essere, quindi, soggetto al trattamento
sanzionatorio previsto a carico delle suddette figure.
Il secondo comma dell’art. 31 prevede, tuttavia, che
l’ordinanza di demolizione debba essere notificata, oltre
che al soggetto o ai soggetti responsabili dell’abuso, anche
al proprietario dell’area.
In proposito la giurisprudenza consolidata afferma che in
materia di abusi edilizi commessi da persona diversa dal
proprietario la posizione di quest’ultimo può ritenersi
neutra rispetto alle sanzioni previste dal T.U.ED. del 2001,
e ciò con particolare riguardo all’acquisizione gratuita al
patrimonio comunale dell'area di sedime sulla quale insiste
il bene «quando risulti, in modo inequivocabile,
l’estraneità del proprietario stesso rispetto al compimento
dell'opera abusiva ovvero risulti che, essendone venuto a
conoscenza, il proprietario si sia poi adoperato per
impedirlo con gli strumenti offertigli dall'ordinamento (sul
punto – ex multis – Cons. Stato, VI, 04.05.2015, n. 2211;
Idem, 30.03.2015, n. 1650» (Cons. Stato, VI, n.
358/2016).
Il motivo per cui il proprietario è contemplato tra i
destinatari dell’ordine di demolizione, pur in assenza di
ogni coinvolgimento nella realizzazione delle opere non
autorizzate, sta nel fatto che la legge pone a suo carico
non una responsabilità (che sarebbe oggettiva e, come tale,
contraria ai principi dell’ordinamento) ma un obbligo di
cooperazione nella rimozione delle opere abusive il cui
mancato adempimento può anche comportare la sanzione
dell’acquisizione gratuita del terreno (ciò si dice qui a
fini di completezza e di ricostruzione della disciplina in
esame, essendo esclusa la possibilità di sanzionare la
ricorrente con l’acquisizione dallo stesso Comune che
espressamente lo afferma nel provvedimento impugnato, in
considerazione del fatto che il proprietario non coincide,
nella specie, con gli autori dell’abuso).
In ogni caso, la controversia attiene all’ordinanza di
demolizione in epigrafe, sicché dell’acquisizione può
parlarsi soltanto in quanto, appunto, essa è stata esclusa
dallo stesso provvedimento impugnato, altrimenti questo
giudicante dovrebbe esimersi dall’esaminare la questione,
stante il divieto di azioni di accertamento preventivo
inerenti poteri pubblicistici non ancora esercitati di cui
al comma secondo dell’art. 34 c.p.a. (secondo il quale «In
nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a
poteri amministrativi non ancora esercitati»).
La richiamata disposizione processuale costituisce
filiazione del principio di separazione dei poteri ed è
conforme al modello costituzionale di giustizia
amministrativa delineato dall’art. 103 della Carta, che
prevede un sindacato giurisdizionale ex post
sull’attività dell’amministrazione (cfr.: TAR Toscana, III,
n. 1577/2015).
Sempre in linea generale, non può essere detto in astratto
in cosa debba consistere la predetta cooperazione del
proprietario nella rimozione degli abusi. Il contenuto della
cooperazione dipende infatti dalle singole fattispecie: è
chiaro che il proprietario che non abbia riacquisito la
detenzione del fondo non potrà materialmente provvedere alla
demolizione delle opere ivi insistenti ma solo diffidare il
conduttore al ripristino dello status quo ante (TAR Lazio -
Roma, I, 04.04.2012 n. 3103). Diversamente, qualora egli al
momento della notifica dell’ordinanza che ingiunge la
demolizione abbia riacquisito la materiale disponibilità
dell’area dovrà farsi carico della demolizione delle opere,
con possibilità di rivalsa sui responsabili in base ai
principi civilistici (cfr.: TAR Toscana, III, n. 126/2016).
Nel caso in esame, da oltre un trentennio, come emerge dal
complesso della documentazione in atti, gli occupanti si
comportano come proprietari del terreno in questione (tant’è
che, come risulta dagli atti di causa, pende dinanzi al
giudice civile un giudizio dagli stessi intentato al fine di
far valere l’usucapione), tra loro suddiviso e utilizzato
con coltivazione a orto, avendo essi provveduto dapprima
alla delimitazione con paletti e recinzioni e
successivamente con l’apposizione di cancelli chiusi con
lucchetti.
In questo quadro l’ordinanza di demolizione è stata
legittimamente notificata anche ai proprietari, i quali sono
tenuti ad attivarsi, nei limiti di ciò che è consentito
dalla situazione di fatto, per sollecitare la demolizione da
parte degli occupanti. D’altra parte, detta ordinanza non è
suscettibile di arrecare alcun pregiudizio alla ricorrente,
stante l’esclusione dell’acquisizione da parte dello stesso
Comune.
Il ricorso va pertanto respinto
(TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II,
sentenza 21.06.2016 n. 613 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Gazebo per l’ombra all’auto: abusivo se con materiali
pesanti.
Pergolato o gazebo che sia, ci vuole il
permesso di costruire se la struttura, in legno e ferro,
serve per dare ombra all’automobile e non è facilmente
rimovibile.
Inutile sostenere che la finalità del gazebo è quella di
fornire ombra all’auto: non è questo che fa venire meno la
necessità del permesso di costruire se la struttura non è
facilmente amovibile. Così scatta la sanzione tutte le volte
che il pergolato è costruito con materiali come legno e
ferro.
A dirlo è una recente sentenza del TAR Emilia
Romagna-Bologna.
Quando il pergolato richiede il permesso di
costruire?
Tre sono sostanzialmente le condizioni affinché un gazebo
possa essere considerato “edilizia libera” e,
pertanto, sottratto agli obblighi di autorizzazione e
concessione amministrativa:
• esso deve avere una struttura ornamentale e di modeste
dimensioni: è il caso, ad esempio, di una struttura che
serve per dare minimo ricovero ad attrezzi o ad altri
piccoli strumenti, che serve come appoggio per piante
rampicanti, ecc.;
• la sua struttura deve essere leggera, fatta con materiale
di minimo peso;
• deve essere facilmente amovibile e privo di fondamenta.
Solo per le strutture rimovibili si esclude, infatti,
l’aumento di volumi e dunque la necessità del titolo
edilizio.
Pergolato o gazebo –comunque lo si voglia chiamare– se
costruito con materiali pesanti e non facilmente amovibili,
come ad esempio il ferro e il legno, richiede sempre il
permesso di costruire. Un conto infatti è una struttura
leggera che serve solo per creare un po’ d’ombra, un altro è
una in legno e ferro non facilmente rimovibile realizzata
per mettere l’auto ben al coperto e ripararla dalla pioggia
o dal caldo del sole. In quest’ultimo caso si crea un
incremento dei volumi, al pari di un piccolo box auto, ed è
dunque necessario un vero e proprio titolo edilizio prima di
realizzare l’opera.
Il tribunale amministrativo non ha dubbi: se il presunto “gazebo”
ha travi in materiale pesante non può essere reputato un
semplice arredo di spazi esterni. Non c’è bisogno di
permesso di costruire quando la struttura funge da sostegno
per piante rampicanti o per teli in modo da dare sollievo
dal sole: se la sua dimensione è modesta, essa non crea
nuova volumetria e il suo scopo può dirsi del tutto
momentaneo. Invece, una struttura solida e robusta fa
desumere la destinazione del pergolato a una permanenza
prolungata nel tempo (commento tratto da
www.laleggepertutti.it).
---------------
MASSIMA
4. Con il terzo motivo di ricorso parte ricorrente
rappresenta che della consistenza esatta dell’opera indicata
come «posto auto coperto con pergolato» (pergolato
sul quale, per un certo periodo, erano state installate
lastre di policarbonato, poi rimosse, come risulta dalla
documentazione fotografica in atti, a seguito di
comunicazione inviata all’interessato dal Comune il
30.11.2007) la stessa Commissione provinciale aveva chiara
contezza, come emergerebbe dal fatto che nella deliberazione
impugnata detta Commissione precisa che «la dicitura
“posto auto coperto con pergolato” (indicato nel punto 2 del
verbale del 18/11/2002) prendeva atto della situazione
documentata dal Comune, con particolare riferimento alle
foto allegate all’istanza, e dell’esistenza della struttura
delle travi che compongono il pergolato e non della
copertura».
Si chiede allora parte ricorrente perché la realizzazione
della struttura sia stata sanzionata come posto auto coperto
con pergolato; la tesi difensiva sostenuta è che nessun
posto auto è stato realizzato, in quanto la struttura
realizzata ha natura di gazebo che nulla aggiunge alla
normale utilizzabilità del terreno come parcheggio
pertinenziale a raso.
Con riguardo alla realizzazione di pergolati, la
giurisprudenza del TAR Bologna condivide il diffuso
orientamento secondo il quale «può
considerarsi un semplice pergolato, non comportante aumento
di volumetria o superficie utile, solo quel manufatto
realizzato in struttura leggera di legno che funge da
sostegno per piante rampicanti o per teli, idonea a
realizzare in tal modo una ombreggiatura di superfici di
modeste dimensioni, destinate ad un uso del tutto
momentaneo, con la conseguenza che perché possa qualificarsi
come mero arredo di uno spazio esterno, che non comporta
realizzazione di superfici utili o volume, è necessario che
l’opera consista in una struttura precaria, facilmente
rimovibile, non costituente trasformazione urbanistica del
territorio, laddove –al contrario– va qualificata come un
intervento di nuova costruzione la realizzazione di una
struttura di importanti dimensioni, ancorché contraddistinta
da materiali leggeri quali legno e ferro, che rendono la
stessa solida e robusta e che fanno desumere una permanenza
prolungata nel tempo del manufatto stesso
(v. TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 14.05.2012 n. 2204)»
(TAR Emilia Romagna–Bologna, I, n. 276/2015.
Orbene, la documentazione fotografica in atti dimostra che
la struttura oggetto di controversia non ha natura precaria,
è ancorata al suolo e appare destinata alla stabile
permanenza nel tempo, in quanto costituisce una nicchia con
elementi anche in muratura; è stata pertanto realizzata una
superficie utile con funzione permanente di posto auto.
Il motivo in esame risulta quindi infondato e va respinto
(TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II,
sentenza 21.06.2016 n. 612 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
relazione alla questione riguardante il rispetto del termine
perentorio di 60 giorni, assegnato, dall’art. 82, comma 9,
del D.P.R. n. 616 del 1977, vigente all’epoca dei fatti, per
l’eventuale esercizio, da parte del Ministero per i Beni
Culturali, del potere di annullamento (per vizi di
legittimità) dell’autorizzazione paesaggistica rilasciata da
un Comune, ai sensi dell’art. 7 della legge n. 1497 del
1939, la giurisprudenza è oramai pacifica nel ritenere che
il termine entro cui l'Amministrazione statale può annullare
l'autorizzazione paesaggistica rilasciata dal Comune decorre
soltanto dal momento in cui la documentazione perviene
completa all'organo competente ad esercitare la funzione di
controllo, potendo quest'ultimo chiedere le integrazioni
documentali all’uopo necessarie.
Si è peraltro anche precisato che, in forza del principio di
leale collaborazione, tale termine non può essere sospeso,
interrotto o prorogato arbitrariamente al di fuori di reali
esigenze istruttorie, per finalità puramente pretestuose o
dilatorie avanzate al fine di eludere la perentorietà del
termine posto all'Amministrazione statale ai fini
dell'esercizio del proprio potere di controllo di legalità.
La giurisprudenza amministrativa ha poi anche chiarito che,
entro il termine di 60 giorni assegnato, l’eventuale
provvedimento di annullamento del nulla osta paesaggistico
deve essere adottato e non anche comunicato agli
interessati.
---------------
Nello specifico settore paesaggistico, la motivazione può
ritenersi adeguata quando risponde a un modello che
contempli, in modo dettagliato, la descrizione:
a) dell'edificio mediante indicazione delle dimensioni, delle
forme, dei colori e dei materiali impiegati;
b) del contesto paesaggistico in cui esso si colloca, anche
mediante l’indicazione di eventuali altri immobili
esistenti, della loro posizione e dimensioni;
c) del rapporto tra edificio e contesto, anche mediante
l'indicazione dell'impatto visivo al fine di stabilire se
esso si inserisca in maniera armonica nel paesaggio.
---------------
6.- Con il primo motivo gli appellanti hanno insistito nel
sostenere che la Soprintendenza per i Beni Ambientali ed
Architettonici di Verona aveva emesso il provvedimento di
annullamento dell’autorizzazione paesaggistica rilasciata
dal Comune oltre il termine di sessanta giorni stabilito
(all’epoca) dall’art. 82, comma 9, del D.P.R. n. 616 del
1977.
6.1.- Il motivo non è fondato, come ha correttamente
ritenuto il TAR per il Veneto nella sentenza appellata e
contrariamente a quanto ritenuto dallo stesso TAR molti
anni prima, in sede cautelare.
6.2.- In relazione alla questione riguardante il rispetto
del termine perentorio di 60 giorni, assegnato, dall’art.
82, comma 9, del D.P.R. n. 616 del 1977, vigente all’epoca
dei fatti, per l’eventuale esercizio, da parte del Ministero
per i Beni Culturali, del potere di annullamento (per vizi
di legittimità) dell’autorizzazione paesaggistica rilasciata
da un Comune, ai sensi dell’art. 7 della legge n. 1497 del
1939, la giurisprudenza è oramai pacifica nel ritenere che
il termine entro cui l'Amministrazione statale può annullare
l'autorizzazione paesaggistica rilasciata dal Comune decorre
soltanto dal momento in cui la documentazione perviene
completa all'organo competente ad esercitare la funzione di
controllo, potendo quest'ultimo chiedere le integrazioni
documentali all’uopo necessarie (fra le tante, Consiglio di
Stato Sezione VI, n. 727 del 23.02.2016, Sezione VI,
n. 5101 del 10.11.2015).
6.3.- Si è peraltro anche precisato che, in forza del
principio di leale collaborazione, tale termine non può
essere sospeso, interrotto o prorogato arbitrariamente al di
fuori di reali esigenze istruttorie, per finalità puramente
pretestuose o dilatorie avanzate al fine di eludere la
perentorietà del termine posto all'Amministrazione statale
ai fini dell'esercizio del proprio potere di controllo di
legalità (Consiglio di Stato Sezione VI, n. 727 del 23.02.2016, cit.).
6.4.- La giurisprudenza amministrativa ha poi anche chiarito
che, entro il termine di 60 giorni assegnato, l’eventuale
provvedimento di annullamento del nulla osta paesaggistico
deve essere adottato e non anche comunicato agli interessati
(fra le tante, Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 235 del 22.01.2015).
7.- Facendo applicazione di tali principi non può
considerarsi tardivo, nella fattispecie, l’esercizio del
potere di annullamento, da parte della Soprintendenza per i
Beni Ambientali ed Architettonici di Verona,
dell’autorizzazione paesaggistica rilasciata dal Comune di
Sovizzo e ritenuta illegittima, considerato che, come si
rileva dagli atti:
- l’autorizzazione paesaggistica è pervenuta alla
Soprintendenza in data 11.03.1998;
- la Soprintendenza ha richiesto, in data 05.05.1998, una
integrazione documentale;
- tale integrazione è pervenuta alla Soprintendenza in data
15.05.1998;
- il provvedimento di annullamento impugnato è stato
adottato in data 10.07.1998.
7.1.- Peraltro la richiesta di integrazione documentale
fatta dall’organo statale non risulta manifestamente
ingiustificata e dilatoria tenuto conto che la
Soprintendenza ha richiesto notizie più approfondite sulla
relazione geologica e una documentazione fotografica
dell’area con la sovrapposizione della sagoma del fabbricato
e quindi elementi che possono ritenersi utili per
l’esercizio del potere esercitato.
7.2.- Si deve, in proposito ricordare che, questa Sezione
(cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 2176 del 24.05.2016, n. 727 del 23.02.2016) ha affermato che, nello
specifico settore paesaggistico, la motivazione può
ritenersi adeguata quando risponde a un modello che
contempli, in modo dettagliato, la descrizione:
a) dell'edificio mediante indicazione delle dimensioni,
delle forme, dei colori e dei materiali impiegati;
b) del contesto paesaggistico in cui esso si colloca, anche
mediante l’indicazione di eventuali altri immobili
esistenti, della loro posizione e dimensioni;
c) del rapporto tra edificio e contesto, anche mediante
l'indicazione dell'impatto visivo al fine di stabilire se
esso si inserisca in maniera armonica nel paesaggio.
7.3.- Considerato che l’autorizzazione paesaggistica
rilasciata dal Comune di Sovizzo in favore degli appellanti
non risulta che avesse tutti gli elementi e i requisiti che
si sono indicati, non può ritenersi ingiustificata e
dilatoria la richiesta di integrazione documentale
(all’epoca) fatta dalla Soprintendenza
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 20.06.2016 n. 2704 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
jus receptum che qualora un titolo ad aedificandum non venga
eseguito a causa del crollo dell’edificio –ove anche dovuto
a cause esterne e non imputabili ai lavori intrapresi dal
concessionario- esso perde efficacia e non può essere
invocato per legittimare, neanche parzialmente, un
successivo intervento di integrale demolizione e
ricostruzione dell’edificio medesimo.
Pertanto risulta evidente che, una volta verificatosi il
crollo parziale, l’interessato che intendesse provvedere
alla integrale ricostruzione dell’edificio, previa sua
demolizione, deve munirsi di nuovo ed apposito titolo
abilitativo, e non limitarsi a comunicare al Comune
l’effettuazione dei necessari e urgenti interventi di messa
in sicurezza.
---------------
E' pacifico in giurisprudenza che gli interventi di
“risanamento conservativo” per loro natura non possono
comprendere variazioni di sagome e volumetrie rispetto
all’assetto preesistente.
---------------
7. Le questioni poste col primo, col secondo e col terzo dei
motivi di appello possono essere esaminate congiuntamente,
afferendo a profili giuridici connessi, inerenti alla natura
unitaria (o meno) degli abusi edilizi connessi, alla loro
conseguente sanabilità (o meno) ed alla possibilità (o meno)
di formazione del silenzio-assenso sulle istanze di condono.
7.1. Ed invero, parte appellante assume l’erroneità della
valutazione “di fondo” compiuta dal primo giudice, circa la
realizzazione dell’opera in totale assenza di titolo
edilizio, dalla quale discendono tutte le successive
conclusioni in punto di accoglibilità o meno delle domande
di condono.
A parere degli istanti, infatti, sussisteva in origine un
provvedimento abilitativo legittimante gli interventi
sull’immobile de quo, costituito dall’autorizzazione
edilizia a suo tempo rilasciata al promissario venditore, e
della quale gli stessi odierni appellanti si sono poi
avvalsi.
Sulla scorta di ciò, si assume che il Comune, nell’istruire
le domande di condono per cui è causa, avrebbe dovuto in
sostanza raffrontare le opere realizzate non già all’assetto
dei luoghi preesistente, bensì a quanto previsto e assentito
con la predetta autorizzazione; in tal modo, si sarebbe
dovuto differenziare, nell’ambito dei lavori realizzati,
quanto asseritamente corrispondente al titolo edilizio del
1993 da quanto eseguito in difformità dallo stesso,
qualificando come abusivi ai fini della sanatoria solo tali
ultimi interventi.
In forza di tale impostazione, gli unici abusi di cui tener
conto ai fini del condono sarebbero consistiti nella
realizzazione del piano interrato adibito ad autorimessa,
nel cambio di destinazione d’uso al piano terra e nella
suddivisione degli interni in più unità immobiliari
(peraltro non portata a compimento a causa del sopravvenuto
sequestro penale); invece, non si sarebbe dovuto tener conto
delle ulteriori variazioni di sagoma e volumetria, siccome
ricomprese nel precitato titolo autorizzatorio del 1993.
Siffatta ricostruzione, pur ingegnosa, è però priva di
pregio giuridico.
7.1.1. Ed invero, non risulta contestato fra le parti –ed è
anzi allegato dagli stessi istanti- che, dopo l’avvio dei
lavori autorizzati nel 1993, l’edificio fu interessato da un
crollo parziale, costringendo il promissario acquirente
dapprima a intraprendere interventi urgenti di messa in
sicurezza (debitamente comunicati al Comune) e quindi a
procedere a totale demolizione e ricostruzione
dell’immobile: e fu appunto in tale fase che furono
accertati gli abusi, con l’adozione di provvedimenti
repressivi in sede penale e amministrativa (sequestro
preventivo, ordinanza di sospensione dei lavori).
Tale vicenda risulta rilevante ai fini dei successivi
sviluppi amministrativi, dal momento che, come evidenziato
dall’Amministrazione comunale, è jus receptum che qualora
un titolo ad aedificandum non venga eseguito a causa del
crollo dell’edificio –ove anche dovuto a cause esterne e
non imputabili ai lavori intrapresi dal concessionario-
esso perde efficacia e non può essere invocato per
legittimare, neanche parzialmente, un successivo intervento
di integrale demolizione e ricostruzione dell’edificio
medesimo (cfr. Cons. Stato, sez. V, 05.10.2001, nr.
5253; id., 23.03.2000, nr. 1610).
Pertanto risulta evidente che, una volta verificatosi il
crollo parziale di cui si è detto, l’interessato che
intendesse provvedere alla integrale ricostruzione
dell’edificio, previa sua demolizione, avrebbe dovuto
munirsi di nuovo ed apposito titolo abilitativo, e non
limitarsi –come avvenuto– a comunicare al Comune
l’effettuazione dei necessari e urgenti interventi di messa
in sicurezza.
7.1.2. Peraltro, anche a voler seguire la tesi degli
appellanti circa la perdurante efficacia del titolo
abilitativo summenzionato, occorre comunque tenere conto di
ciò che con esso era stato effettivamente assentito dal
Comune.
Infatti, dal tenore testuale del provvedimento –laddove si
parla di “rimaneggiamento parziale di tegole”, di
“consolidamento della sottostante struttura di appoggio
verticale”, di “apposizione di gronde e canali”, di
“sostituzione del solaio”- si desume una natura sostitutiva-conservativa degli interventi assentiti,
incompatibile con quanto di fatto realizzato dagli
appellanti, consistente nella non contestata totale
demolizione del preesistente fabbricato e nella successiva
ricostruzione ex novo di un’unità differente per sagoma e
volumetria.
E, d’altra parte, è pacifico in giurisprudenza che gli
interventi di “risanamento conservativo”, del tipo di quelli
assentiti con l’autorizzazione de qua, per loro natura non
possono comprendere variazioni di sagome e volumetrie
rispetto all’assetto preesistente (sul punto, cfr. Cons.
Stato, sez. V, 28.04.2014, nr. 2194; id., 11.11.2004, nr.
7325)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 17.06.2016 n. 2693 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In giurisprudenza è ormai pacifico che la facoltà
di instare per la sanatoria non può essere più attribuita
esclusivamente al titolare del diritto dominicale, ma deve
essere estesa anche a soggetti portatori di interessi
qualificati e tutelati dalla legge (titolari di diritti
reali minori e/o personali di godimento, creditori, soci),
e, secondo una lettura più largheggiante, anche ai titolari
di un interesse di mero fatto.
E però, anche nella più ampia e “liberale” delle
prospettive, l’interesse legittimante la richiesta di
condono deve pur sempre essere oggettivamente apprezzabile
alla stregua di una situazione di collegamento con l’abuso
oggetto di condono, e non essere semplicemente affermato da
chi propone l’istanza sulla base di una propria visione
soggettiva.
L’orientamento estensivo della giurisprudenza, in
definitiva, mira a garantire e rafforzare la posizione di
individui che siano comunque titolari di una posizione
giuridica “qualificata”, e non anche solamente apprezzabile
dal punto di vista familiare-affettivo.
---------------
8. L’infondatezza dell’appello, per le evidenziate ragioni
sostanziali, esonererebbe il Collegio dall’esame
dell’ulteriore questione, evocata dal terzo motivo di
impugnazione, in ordine alla sussistenza o meno di
legittimazione degli odierni appellanti signori Ir.Sc.
e Ci.Si. a formulare la domanda di condono.
Tuttavia, anche ai fini di eventuali future nuove
determinazioni dell’Amministrazioni comunali all’esito del
presente giudizio, non è fuori luogo rilevare l’infondatezza
del gravame anche sotto tale profilo.
In particolare, gli appellanti sostengono che la titolarità
del potere di presentare l’istanza di condono edilizio, ex
art. 31 della legge nr. 47/1985 (laddove, con formula
generica “di chiusura”, fra i soggetti legittimati è
ricompreso anche “ogni altro soggetto interessato al
conseguimento della sanatoria medesima”), debba ormai essere
intesa in senso estensivo, ricomprendendo fra i legittimati
anche i portatori di interessi di mero fatto.
Tuttavia, della disposizione testé richiamata occorre dare
una lettura improntata a canoni di ragionevolezza: in
particolare, in giurisprudenza è ormai pacifico che la
facoltà di instare per la sanatoria non può essere più
attribuita esclusivamente al titolare del diritto
dominicale, ma deve essere estesa anche a soggetti portatori
di interessi qualificati e tutelati dalla legge (titolari di
diritti reali minori e/o personali di godimento, creditori,
soci), e, secondo una lettura più largheggiante, anche ai
titolari di un interesse di mero fatto (per un quadro
panoramico delle tesi esistenti in giurisprudenza in subiecta materia, cfr. Cons. Stato, sez. V,
08.11.2011, nr. 5894).
E però, anche nella più ampia e “liberale” delle
prospettive, l’interesse legittimante la richiesta di
condono deve pur sempre essere oggettivamente apprezzabile
alla stregua di una situazione di collegamento con l’abuso
oggetto di condono, e non essere semplicemente affermato da
chi propone l’istanza sulla base di una propria visione
soggettiva.
L’orientamento estensivo della giurisprudenza, in
definitiva, mira a garantire e rafforzare la posizione di
individui che siano comunque titolari di una posizione
giuridica “qualificata”, e non anche solamente apprezzabile
dal punto di vista familiare-affettivo
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 17.06.2016 n. 2693 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Condanne per reati.
La valutazione delle condanne riportate dai concorrenti
spetta all'amministrazione appaltante.
E’ noto che nelle gare d’appalto la
valutazione in ordine alla gravità delle eventuali condanne
riportate dai concorrenti e alla loro incidenza sulla
moralità professionale spetta esclusivamente
all’Amministrazione appaltante, nell’ambito dell’esercizio
del potere discrezionale ad essa attribuito e deve essere
effettuata mediante la disamina in concreto delle
caratteristiche dell’appalto, del tipo di condanna, della
natura e delle concrete modalità di commissione del reato.
Nell’ipotesi in cui l’Amministrazione, dopo aver eseguito le
dette valutazioni –che, si ribadisce, sono di sua esclusiva
competenza nell’ambito dell’esercizio di una attività
discrezionale- non ritenga il precedente penale grave ovvero
incisivo della moralità professionale del concorrente, non è
tenuta ed esplicitare in maniera analitica le ragioni di
siffatto convincimento, potendo la motivazione di non
gravità del reato risultare anche implicita o per facta
concludentia, ossia con l’ammissione alla gara dell’impresa,
mentre è la valutazione di gravità che richiede
l’assolvimento di un particolare onere motivazionale.
Invero, "Laddove si applicasse in modo sostanzialmente
automatico l'esclusione dalle gare di cui al citato art. 38,
comma 1, del codice dei contratti, fuori dei casi previsti,
ovvero a prescindere da ogni valutazione circa la gravità
del comportamento colpevole del soggetto, il quadro
ricostruttivo in tal modo delineato si porrebbe in contrasto
con l’articolo 45, par. 2, della direttiva 2004/18/CE,
secondo cui può essere escluso dalla partecipazione alla
gara ogni operatore economico quando il reato "incida" sulla
sua moralità professionale (lett. c) oppure quando "non sia
in regola" con gli obblighi contributivi (lett. e)".
L'art. 38 del codice dei contratti va dunque letto nel senso
che costituiscono condizioni, perché l'esclusione consegua
alla condanna, la gravità del reato e il riflesso dello
stesso sulla moralità professionale di modo che, al fine di
apprezzare il grado di moralità del singolo concorrente, in
applicazione del principio comunitario di proporzionalità,
assumono rilevanza la natura del reato ed il contenuto del
contratto oggetto della gara, senza eccedere quanto è
necessario a garantire l'interesse dell'amministrazione di
non contrarre obbligazioni con soggetti che non garantiscano
l'adeguata moralità professionale, come ricorre nel caso di
"falso innocuo".
---------------
Con il secondo motivo di doglianza la ricorrente ha
censurato la mancata valutazione della condanna riportata da
uno degli amministratori della ricorrente quale causa di
inidoneità morale della società, lamentando, in subordine,
la mancata esplicitazione delle ragioni per le quali la
condanna non è stata ritenuta ostativa.
Anche tale doglianza è infondata.
E’ noto che nelle gare d’appalto la valutazione in ordine
alla gravità delle eventuali condanne riportate dai
concorrenti e alla loro incidenza sulla moralità
professionale spetta esclusivamente all’Amministrazione
appaltante (da ultimo, Consiglio di Stato, sez. V,
25.02.2015, n. 927), nell’ambito dell’esercizio del potere
discrezionale ad essa attribuito e deve essere effettuata
mediante la disamina in concreto delle caratteristiche
dell’appalto, del tipo di condanna, della natura e delle
concrete modalità di commissione del reato (Consiglio di
Stato, sez. III, 03.12.2015, n. 5481).
Nell’ipotesi in cui l’Amministrazione, dopo aver eseguito le
dette valutazioni –che, si ribadisce, sono di sua esclusiva
competenza nell’ambito dell’esercizio di una attività
discrezionale- non ritenga il precedente penale grave ovvero
incisivo della moralità professionale del concorrente, non è
tenuta ed esplicitare in maniera analitica le ragioni di
siffatto convincimento, potendo la motivazione di non
gravità del reato risultare anche implicita o per facta
concludentia, ossia con l’ammissione alla gara
dell’impresa, mentre è la valutazione di gravità che
richiede l’assolvimento di un particolare onere
motivazionale (TAR Veneto, sez. I, 01.09.2015, n. 953, con
ampi riferimenti giurisprudenziali e richiamo a Consiglio di
Stato, sez. VI, 22.11.2013, n. 5558, che ha osservato come “Laddove
si applicasse in modo sostanzialmente automatico
l'esclusione dalle gare di cui al citato art. 38, comma 1,
del codice dei contratti, fuori dei casi previsti, ovvero a
prescindere da ogni valutazione circa la gravità del
comportamento colpevole del soggetto, il quadro
ricostruttivo in tal modo delineato si porrebbe in contrasto
con l’articolo 45, par. 2 della direttiva 2004/18/CE,
secondo cui può essere escluso dalla partecipazione alla
gara ogni operatore economico quando il reato "incida" sulla
sua moralità professionale (lett. c) oppure quando "non sia
in regola" con gli obblighi contributivi (lett. e).
L'art. 38 del codice dei contratti va dunque letto nel senso
che costituiscono condizioni, perché l'esclusione consegua
alla condanna, la gravità del reato e il riflesso dello
stesso sulla moralità professionale di modo che, al fine di
apprezzare il grado di moralità del singolo concorrente, in
applicazione del principio comunitario di proporzionalità,
assumono rilevanza la natura del reato ed il contenuto del
contratto oggetto della gara, senza eccedere quanto è
necessario a garantire l'interesse dell'amministrazione di
non contrarre obbligazioni con soggetti che non garantiscano
l'adeguata moralità professionale, come ricorre nel caso di
"falso innocuo".
Nel caso in esame non è dubbio che la conoscenza
dell’intervenuta condanna fosse stata acquisita agli atti
del procedimento, ciò che è effettivamente imprescindibile
al fine di ritenere la consapevole valutazione da parte
dell’amministrazione, tanto più che la medesima valutazione
di irrilevanza dei precedenti penali dichiarati da uno degli
amministratori di Si. e di consequenziale sussistenza del
requisito di carattere generale di cui all’art. 38 D.Lgs. n.
163/2006 -peraltro non illogica né irragionevole alla luce,
quantomeno, del tempo trascorso dalla commissione e
dell’entità della pena inflitta- era già stata compiuta
dall’amministrazione in precedenti gare (cfr. documentazione
versata in atti dalla controinteressata in data 07.03.2016)
(TAR Lazio-Roma, Sez. I,
sentenza 16.06.2016 n. 6923 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
In tema di gare per l’affidamento di pubblici
appalti, “la sottoscrizione dell’offerta ha la funzione di
ricondurre al suo autore l’impegno di effettuare la
prestazione oggetto del contratto verso il corrispettivo
richiesto ed assicurare, contemporaneamente, la provenienza,
la serietà e l’affidabilità dell’offerta stessa”.
Da tale premessa, pur essendo la sottoscrizione della
domanda di partecipazione un elemento essenziale, che
attiene propriamente alla manifestazione di volontà di
partecipare alla gara, poiché la stessa non impatta sul
contenuto e sulla segretezza dell’offerta, la sua eventuale
carenza deve ritenersi sanabile.
Ed, infatti, “ferma restando la riconducibilità dell’offerta
al concorrente (che escluda l’incertezza assoluta sulla
provenienza), dal combinato disposto dell’art. 38, comma
2-bis e 46, comma 1-ter del Codice, risulta ora sanabile
ogni ipotesi di mancanza, incompletezza o irregolarità
(anche) degli elementi che devono essere prodotti dai
concorrenti in base alla legge (al bando o al disciplinare
di gara), ivi incluso l’elemento della sottoscrizione,
dietro pagamento della sanzione prevista nel bando” (nel
senso della necessaria interpretazione funzionale del
requisito del “difetto di sottoscrizione”, cfr. Consiglio di
Stato, sez. V, 10.09.2014 n. 4595, che rileva come la
suddetta carenza “...per comportare la necessaria ed
automatica esclusione del concorrente, debba determinare
"l'incertezza assoluta...... sulla provenienza
dell'offerta", risolvendosi altrimenti in una mancanza di
natura formale inidonea a produrre l'effetto sanzionatorio
disposto dalla norma”).
Tale tipologica di vizi, tuttavia, in forza dei principi
generali, opera sul piano della efficacia e non su quello
della validità (nel senso della non operatività sul piano
della validità degli atti posti in essere in violazione o in
carenza dei limiti del potere rappresentativo, ancorché con
riferimento alle società di capitali, cfr. Consiglio di
Stato, sez. V, 14.02.2012, n. 726, secondo cui in tali
ipotesi non ricorre “un’invalidità del negozio deducibile
dalla controparte, ma la mera inefficacia del medesimo nei
confronti della società falsamente rappresentata, la quale
soltanto è legittimata ad eccepirla”).
---------------
Con il primo motivo di doglianza la ricorrente ha sostenuto
l’illegittimità del provvedimento di aggiudicazione alla
controinteressata in quanto sia la domanda di partecipazione
alla gara che l’offerta economica sono state sottoscritte
ciascuna da uno solo dei due amministratori, in violazione
dalle norme statutarie che prevedevano l’attribuzione della
rappresentanza della società ai due amministratori a firma
congiunta.
La prospettazione non può essere condivisa.
L’art. 46, comma 1-bis, del codice dei contratti pubblici,
vigente al momento dello svolgimento del procedimento,
disponeva che “La stazione appaltante esclude i candidati
o i concorrenti in caso di mancato adempimento alle
prescrizioni previste dal presente codice e dal regolamento
e da altre disposizioni di legge vigenti, nonché nei casi di
incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza
dell'offerta, per difetto di sottoscrizione o di altri
elementi essenziali ovvero in caso di non integrità del
plico contenente l'offerta o la domanda di partecipazione o
altre irregolarità relative alla chiusura dei plichi, tali
da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia
stato violato il principio di segretezza delle offerte”.
Ritiene il collegio che di tale disposizione occorre dare
un’interpretazione sostanziale, tenendo presente sia la
funzione della sottoscrizione, sia la finalità generale
della norma, introdotta nel 2011 in una generale ottica di
deformalizzazione del procedimento.
Come recentemente osservato in proposito anche dall’Anac
(determinazione n. 1 dell’08.01.2015), in tema di gare per
l’affidamento di pubblici appalti, “la sottoscrizione
dell’offerta ha la funzione di ricondurre al suo autore
l’impegno di effettuare la prestazione oggetto del contratto
verso il corrispettivo richiesto ed assicurare,
contemporaneamente, la provenienza, la serietà e
l’affidabilità dell’offerta stessa”.
Da tale premessa, l’Autorità trae la condivisibile
conseguenza che, pur essendo la sottoscrizione della domanda
di partecipazione un elemento essenziale, che attiene
propriamente alla manifestazione di volontà di partecipare
alla gara, poiché la stessa non impatta sul contenuto e
sulla segretezza dell’offerta, la sua eventuale carenza deve
ritenersi sanabile.
Ed, infatti, “ferma restando la riconducibilità
dell’offerta al concorrente (che escluda l’incertezza
assoluta sulla provenienza), dal combinato disposto
dell’art. 38, comma 2-bis e 46, comma 1-ter del Codice,
risulta ora sanabile ogni ipotesi di mancanza, incompletezza
o irregolarità (anche) degli elementi che devono essere
prodotti dai concorrenti in base alla legge (al bando o al
disciplinare di gara), ivi incluso l’elemento della
sottoscrizione, dietro pagamento della sanzione prevista nel
bando” (nel senso della necessaria interpretazione
funzionale del requisito del “difetto di sottoscrizione”,
cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 10.09.2014 n. 4595, che
rileva come la suddetta carenza “...per comportare la
necessaria ed automatica esclusione del concorrente, debba
determinare "l'incertezza assoluta...... sulla provenienza
dell'offerta", risolvendosi altrimenti in una mancanza di
natura formale inidonea a produrre l'effetto sanzionatorio
disposto dalla norma”).
Nel caso in esame, peraltro, non ricorre un caso di omessa
sottoscrizione in senso proprio, avendo un amministratore
sottoscritto la domanda di partecipazione alla gara e un
altro l’offerta economica, così da non risultare dubbia la
riferibilità dell’offerta alla società, il cui timbro è
presente in entrambi i documenti.
La fattispecie va quindi correttamente inquadrata in
un’ipotesi di non corretta spendita del potere
rappresentatativo.
Tale tipologica di vizi, tuttavia, in forza dei principi
generali, opera sul piano della efficacia e non su quello
della validità (nel senso della non operatività sul piano
della validità degli atti posti in essere in violazione o in
carenza dei limiti del potere rappresentativo, ancorché con
riferimento alle società di capitali, cfr. Consiglio di
Stato, sez. V, 14.02.2012, n. 726, secondo cui in tali
ipotesi non ricorre “un’invalidità del negozio deducibile
dalla controparte, ma la mera inefficacia del medesimo nei
confronti della società falsamente rappresentata, la quale
soltanto è legittimata ad eccepirla”).
La già rilevata peculiarità della vicenda, e cioè la
circostanza per cui ciascun amministratore ha sottoscritto
uno degli atti con i quali la società ha chiesto di
partecipare alla gara rende, in ogni caso, inapplicabile al
caso in esame il diverso indirizzo giurisprudenziale
invocato dalla controinteressata -e formatosi in massima
parte con riferimento a casi in cui, pur in presenza di
previsioni normative o statutarie di firma congiunta, l’atto
era stato firmato da uno solo dei soggetti muniti di potere
rappresentativo– atteso che non vengono qui in rilievo
quelle esigenze di affidamento della stazione appaltante e
di preventivo vaglio della serietà e validità dell’impegno a
tutela delle quali sono stati affermati la efficacia
viziante e la non sanabilità dei vizi derivanti dalla non
corretta spendita del potere rappresentativo (TAR Lazio-Roma, Sez. I,
sentenza 16.06.2016 n. 6923 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI: Licenziati
esclusi dalla clausola sociale. Appalti. Il bando di gara
non può prevedere l’obbligo di gestire i lavoratori
estromessi dalla precedente azienda.
La clausola sociale non può ribaltare sul nuovo appaltatore
le pretese dei dipendenti che siano in lite con il
precedente gestore.
Lo ha sottolineato
il TAR Puglia-Lecce, Sez. III, con la
sentenza 16.06.2016 n. 983,
relativa a un appalto per la raccolta di rifiuti solidi
urbani.
L’amministrazione aveva previsto, in un bando di gara, che i
concorrenti formulassero la loro offerta tenendo conto del
costo di 24 lavoratori da reintegrare. Non si trattava
quindi di una usuale clausola sociale, che garantisse il
passaggio dei dipendenti da un appaltatore all’altro, bensì
di una garanzia più ampia e indeterminata. Si discuteva,
infatti, dei costi del reintegro reale di dipendenti
licenziati e del costo di eventuali arretrati per pretese
risarcitorie.
Secondo l’impresa ricorrente, la situazione rendeva
impossibile il calcolo di convenienza tecnico-economica
dell’offerta di gara, perché mancavano dati essenziali per
la formulazione dell’offerta stessa. Al futuro gestore,
infatti, si addossavano, come rischio d’impresa, le voci di
costo inerenti eventuali nuove assunzioni (ventiquattro
unità) con i relativi, eventuali arretrati. Tali oneri
risultavano indeterminati e, allo stato, indeterminabili,
impedendo la corretta formulazione di un’offerta.
L’orientamento dei giudici amministrativi è coerente a
quello del Consiglio di Stato (2433/2016) che di recente ha
esaminato il caso di una concessione del servizio
distribuzione gas, ritenendo valido l’impegno dell’impresa
subentrante ad assumere tutto il personale impiegato nella
precedente gestione, anche senza confermare l’integrale
destinazione al medesimo servizio, con possibilità cioè di
destinare i dipendenti ad altri servizi in aree limitrofe
per ragioni di economia di gestione.
Infatti la clausola sociale va interpretata conformemente ai
principi nazionali e comunitari in materia di libertà di
iniziativa imprenditoriale garantita dall’articolo 41 della
Costituzione per cui, fermo l’obbligo di riassorbimento dei
lavoratori alle proprie dipendenze, il nuovo gestore del
servizio può collocarne alcuni in altri contratti da esso
eseguiti (e anche ricorrere agli ammortizzatori sociali
previsti dalla legge allorché in esubero), quando
nell’organizzazione prefigurata gli stessi risultino
superflui.
Quindi la clausola sociale funge da strumento per favorire
la continuità e la stabilità occupazionale dei lavoratori,
ma nel contempo non può esser tale da comprimere le esigenze
organizzative dell’impresa subentrante che ritenga di potere
ragionevolmente svolgere il servizio utilizzando una minore
componente di lavoro rispetto al precedente gestore, e
dunque ottenendo in questo modo economie di costi da
valorizzare a fini competitivi nella procedura di
affidamento.
Solo per i call center l’articolo 1, comma 10, della legge
11/2016 prevede la clausola sociale come obbligo di legge,
mentre nei nuovi appalti la clausola sociale potrà (a scelta
dell’ente) essere imposta nel bando (articolo 38 del Dlgs
50/2016) oppure (articolo 1, lettera ddd, della legge
11/2016) essere utilizzata come requisito premiale nel
calcolo dei punteggi (articolo Il Sole 24 Ore del 28.06.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Posizioni organizzative, il Tar boccia il
conferimento.
Per gli incarichi ai funzionari posti ai vertici degli
uffici infraprovinciali dell'Agenzia delle entrate occorre
una vera e propria procedura comparativa e selettiva, dalla
quale far emergere i titoli di merito e professionali alla
base della designazione.
Non c'è pace per l'Agenzia delle entrate nella definizione
dei vertici organizzativi dei propri uffici. L'ordinanza
cautelare 16.06.2016 n. 214 del TAR Piemonte, Sez.
I, scrive un altro capitolo della complicatissima e
lunghissima fase di riorganizzazione dell'Agenzia, che si
aggiunge alla saga degli incarichi dirigenziali conferiti
senza concorso ai propri funzionari, considerati illegittimi
dalla Corte costituzionale (sentenza 37/2015).
Il nuovo «caso» deriva dall'affidamento dell'incarico di
direzione alla direzione provinciale di Cuneo. In questo
caso, non si tratta di un incarico di funzione dirigenziale,
perché il vertice dell'ufficio è coperto da un funzionario,
ai sensi della riorganizzazione e riduzione dei ruoli
dirigenziali dell'Agenzia, disposti dall'articolo
23-quinquies, comma 5, lettera a), n. 3, del decreto legge
95/2012, convertito con legge 135/2012.
Tuttavia, il problema affrontato dal Tar è analogo: le
modalità con le quali attribuire gli incarichi di vertice e
la legittimità di assegnazioni di natura sostanzialmente
fiduciaria.
Trattandosi di un'ordinanza cautelare, la questione non può
dirsi risolta. Tuttavia, il Tar, sia pure sulla base
dell'esame sommario della vertenza finalizzato a verificare
la sussistenza del fumus boni iuris, ha ritenuto che a una
prima valutazione possa considerarti fondato il vizio
eccepito da un funzionario che ambiva all'incarico, ma
scartato dalla scelta finale.
Il vizio evidenziato
dall'ordinanza consiste nella carenza di motivazione nella
scelta del controinteressato, con particolare riferimento
alle valutazioni e ai punteggi di merito da utilizzare ai
fini della scelta. Non solo: l'ordinanza rileva
ulteriormente «l'assenza di qualsiasi giudizio di natura
comparativa nelle successive valutazioni operate sia dal
direttore regionale sia dal direttore dell'Agenzia».
In
sostanza, dunque, l'incarico è avvenuto senza rispettare i
canoni selettivi pur necessari, perché, rileva il Tar, di
fatto si tratta di una progressione di carriera dalla
qualifica di funzionario a quella di «quadro»,
potenzialmente a tempo indeterminato, visto la rinnovabilità
ad libitum degli incarichi direttivi, per quanto ciascuno di
essi possa durare tre anni.
L'ordinanza ha anche considerato la sussistenza del «periculum
in mora», dando rilievo all'interesse professionale ed
economico del ricorrente «di ambire a ottenere, entro tempi
ragionevoli, l'incarico per cui è causa».
Pertanto, l'ordinanza indica all'Agenzia di riesaminare il
provvedimento di attribuzione dell'incarico oggetto della
vertenza, imponendo di tenere conto degli esiti delle prove
selettive espletate, «in un'ottica necessariamente
comparativa tra i vari candidati già segnalati»
(articolo ItaliaOggi del 02.07.2016). |
TRIBUTI: Tasse
locali anche senza Prg. Imu e Tasi dovute anche se il piano
regolatore è decaduto. Per la
Cassazione bisogna fare riferimento alla destinazione
urbanistica originaria.
Ici, Imu e Tasi sono dovute sulle aree edificabili anche se
il piano regolatore generale è decaduto per mancata
approvazione della regione. Per determinare la natura dei
terreni compresi in un piano di sviluppo industriale
decaduto è necessario far riferimento alla destinazione
urbanistica originaria.
Quindi, le aree sono soggette a
imposizione se inserite nel preesistente programma di
fabbricazione, a prescindere dall'esistenza o dalla validità
degli strumenti urbanistici attuativi. Va invece tenuto
conto della maggiore o minore potenzialità edificatoria
delle aree in sede di determinazione del loro valore di
mercato, nonché della possibile incidenza degli oneri di
urbanizzazione sul valore delle stesse.
L'importante principio è stato affermato dalla Corte di
Cassazione, Sez. VI civile, con l'ordinanza
15.06.2016 n. 12379.
Secondo i giudici di legittimità, per qualificare i terreni
compresi in un piano Asi decaduto «occorre fare riferimento
alla destinazione urbanistica originaria, con la conseguenza
che gli stessi sono da qualificare edificabili se inseriti
nel preesistente programma di fabbricazione, a prescindere
dall'esistenza o dalla validità degli strumenti urbanistici
attuativi».
Precisa inoltre la Cassazione che sussiste
l'esigenza di tenere concretamente conto nella
determinazione della base imponibile «della maggiore o
minore attualità delle sue potenzialità edificatorie, nonché
della possibile incidenza degli ulteriori oneri di
urbanizzazione sul valore dello stesso in comune commercio».
Quello che rileva per qualificare giuridicamente la natura
del terreno, ai fini dell'imposizione tributaria, è la «mera
potenzialità edificatoria», che permane anche se il Prg (o
il piano di fabbricazione, che è la stessa cosa) decade per
mancata approvazione. Del resto, in base all'articolo 2 del
decreto legislativo 504/1992 per area fabbricabile s'intende
l'area utilizzabile a scopo edificatorio in base agli
strumenti urbanistici «generali o attuativi».
Mentre per la
caratteristica dell'edificabilità è sufficiente che essa
risulti da un piano regolatore generale, la potenzialità di
edificazione è maggiore quando l'area è ricompresa in un
piano particolareggiato e ciò ha effetti nella
determinazione del valore dell'area stessa e della
quantificazione della base imponibile Ici, Imu e Tasi. Tra
l'altro, l'edificabilità di un'area non può essere esclusa
neppure dalla presenza di vincoli o di particolari
destinazioni urbanistiche. In questi casi l'area è comunque
soggetta al pagamento delle imposte locali (Cassazione,
sentenza 5161/2014).
Al riguardo, la Corte costituzionale (sentenza 41/2008) ha
stabilito che non si possono distinguere le aree edificabili
in concreto da quelle edificabili in astratto (cioè
considerate edificabili da strumenti urbanistici non
approvati o non attuati). L'astratta edificabilità del suolo
giustifica di per sé la valutazione del terreno secondo il
suo valore venale e differenzia radicalmente tale tipo di
suoli da quelli agricoli non fabbricabili.
L'articolo 36 del dl 223/2006, richiamato nell'ordinanza, ha
chiarito che un'area sia da considerare fabbricabile se
utilizzabile a scopo edificatorio in base allo strumento
urbanistico generale deliberato dal comune,
indipendentemente dall'approvazione della regione e
dall'adozione di strumenti attuativi
(articolo ItaliaOggi del 24.06.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
E'
insegnamento della giurisprudenza consolidata che l’ordine
di demolizione deve essere rivolto nei confronti di chi
abbia la disponibilità dell’opera, indipendentemente dal
fatto che tale soggetto si sia reso responsabile dell’abuso
per averlo concretamente realizzato, rilevando detto profilo
esclusivamente sotto il profilo della responsabilità penale,
ma non già ai fini della legittimità dell’ordine di
demolizione.
Infatti, l’ordinanza di demolizione di una costruzione
abusiva può essere legittimamente emanata nei confronti del
proprietario attuale, anche se non responsabile dell’abuso,
poiché l’abuso edilizio costituisce illecito permanente e
l’ordinanza ha carattere ripristinatorio e non prevede
l’accertamento del dolo o della colpa del soggetto al quale
è imputata la trasgressione.
Anche questo Tribunale ha in più occasioni sottolineato che,
affinché il proprietario possa essere destinatario
dell’ordinanza di demolizione, non occorre stabilire se egli
sia responsabile dell’abuso, poiché l’art. 31, comma 2, del
d.P.R. n. 380/2001 prevede espressamente la legittimazione
passiva del proprietario non responsabile all’esecuzione
dell’ordine di demolizione: ciò si spiega con la possibilità
che ha il proprietario –in virtù del suo diritto dominicale–
di eseguire l’ordine ripristinatorio.
---------------
●
Considerato che le opere di cui si ingiunge la demolizione,
ubicate sul terreno distinto in catasto al fg. n. 192, mapp.
n. 2034, vengono identificate nel provvedimento impugnato
attraverso il richiamo ai rapporti della Polizia Locale n.
228/2000, prot. n. 5949/VII, del 25.07.2000, n. 239/2000,
prot. n. 6390/VII, dell’11.08.2000, e n. 112/PG/2008, prot.
n. 6305/VII “del 25.07.2000” (rectius, del
05.09.2008) e consistono:
- in un prefabbricato in legno di circa mq. 30, con annessa veranda
di mt. 6,00x1,50 circa, avente copertura in ondulina, di
altezza da mt. 2,10 a mt. 2,30 circa, poggiato su ruote
centrali e piedini in ferro sui lati alti circa cm. 50, il
tutto poggiato su mattoni di cemento posti a secco con
sabbia. Tale manufatto è tramezzato internamente in tre vani
con bagno provvisto di sanitari e con cucina fornita di
pensili, frigo e piano cottura;
- nel proseguimento dei lavori relativi al manufatto di cui al
punto precedente e perciò nell’allaccio alla rete idrica e
fognaria, nell’impianto elettrico, in un mattonato a secco
di mt. 6,00x2,00 e nella tamponatura della veranda;
- nell’ulteriore proseguimento dei lavori relativi al manufatto in
discorso e perciò nella tamponatura della base rialzata per
circa cm. 50, in precedenza posizionata su mattoni di
cemento poggiati a terra su sabbia, e nel rifacimento della
veranda mediante travi in legno con tavole lamellari a due
falde e completa di guaina, tegole e grondaia, il tutto
poggiante su pali in legno impiantati sulla sottostante
pavimentazione.
In più, nell’ampliamento del manufatto, tramite una nuova
porzione (aderente, ma non comunicante con la precedente
opera), realizzata in muratura e vetrata, adibita a locale
cucina e delle dimensioni di mt. 4,20x4,90, con altezza da
mt. 2,35 a mt. 2,60. Infine, in un muro divisorio in
blocchetti di cemento con sovrastante rete metallica,
costruito per dividere il lotto appartenente in comproprietà
(indivisa) alle ricorrenti, con separati cancelli
d’ingresso;
●
Considerato che a supporto del ricorso le sigg.re Es. ed El.,
pur senza articolare specifici motivi, deducono le seguenti
doglianze:
- violazione degli artt. 6 e 7 della l. n. 47/1985, per violazione
dei criteri di imputazione soggettiva dell’illecito edilizio
previsti dalla legge, giacché l’ordinanza impugnata
prefigurerebbe in capo alle ricorrenti una presunzione di
responsabilità, non qualificata, però, da alcuna causalità
rispetto alla condotta sanzionata, e poiché la P.A. non
individuerebbe nessun elemento in grado di qualificare la
condotta delle citate ricorrenti come illecito edilizio;
- illegittimità dell’ordine di demolizione perché le opere eseguite
non necessiterebbero di permesso di costruire, trattandosi
di manufatti precari, perché facilmente amovibili e non
infissi al suolo (ma poggianti su ruote e su mattoni di
cemento sistemati a secco sulla sabbia). Per di più, le
proprietarie risiederebbero a Napoli ed avrebbero una
normale abitazione. Infine, il lotto nel quale si trovano le
opere ricadrebbe in Zona C4 (di espansione e
ristrutturazione residenziale), con indice fondiario di 0,50
mc./mq., in un’area dotata di opere di urbanizzazione
primaria e secondaria;
●
Rilevato che il Comune di Terracina, pur ritualmente e
tempestivamente evocato, non si è costituito in giudizio;
●
Ritenuta la sussistenza degli estremi per pronunciare
sentenza cd. semplificata, ai sensi dell’art. 74 c.p.a.,
attesa la manifesta infondatezza del ricorso;
●
Considerato, infatti, che la palese infondatezza del gravame
emerge dai seguenti elementi:
- in ordine alla prima doglianza, osserva il Collegio che le
ricorrenti lamentano, in sostanza, di non essere indicate
dall’ordinanza impugnata quali soggetti responsabili
dell’abuso, ma non contestano in alcun modo, ed anzi
rivendicano, di essere comproprietarie del lotto di terreno
su cui ricadono le opere abusive, nonché proprietarie di
dette opere;
- tanto premesso, è insegnamento della giurisprudenza consolidata
che l’ordine di demolizione deve essere rivolto nei
confronti di chi abbia la disponibilità dell’opera,
indipendentemente dal fatto che tale soggetto si sia reso
responsabile dell’abuso per averlo concretamente realizzato,
rilevando detto profilo esclusivamente sotto il profilo
della responsabilità penale, ma non già ai fini della
legittimità dell’ordine di demolizione; infatti, l’ordinanza
di demolizione di una costruzione abusiva può essere
legittimamente emanata nei confronti del proprietario
attuale, anche se non responsabile dell’abuso, poiché
l’abuso edilizio costituisce illecito permanente e
l’ordinanza ha carattere ripristinatorio e non prevede
l’accertamento del dolo o della colpa del soggetto al quale
è imputata la trasgressione (cfr., tra le ultime, TAR Lazio,
Roma, sez. I, 24.02.2016, n. 2588; TAR Campania, Napoli,
Sez. III, 08.01.2016, n. 14);
- anche questo Tribunale ha in più occasioni sottolineato che,
affinché il proprietario possa essere destinatario
dell’ordinanza di demolizione, non occorre stabilire se egli
sia responsabile dell’abuso, poiché l’art. 31, comma 2, del
d.P.R. n. 380/2001 prevede espressamente la legittimazione
passiva del proprietario non responsabile all’esecuzione
dell’ordine di demolizione (v. TAR Lazio, Roma, Sez. I,
18.01.2011, n. 381; id., 10.05.2010, n. 10470): ciò si
spiega con la possibilità che ha il proprietario –in virtù
del suo diritto dominicale– di eseguire l’ordine
ripristinatorio (v. TAR Lazio, Latina, Sez. I, 22.12.2014,
n. 1096; id., 11.12.2013, n. 963);
- da quanto ora visto si desume l’infondatezza della doglianza
appena esaminata (la prima formulata nel gravame): doglianza
che deve, perciò, essere respinta;
- è, altresì, priva di fondamento la doglianza incentrata sulla non
necessità del permesso di costruire (e, per conseguenza,
sull’inapplicabilità alla fattispecie della sanzione
demolitoria), in ragione della precarietà e facile
amovibilità del prefabbricato, in quanto privo di basi
infisse al suolo;
- in contrario, infatti, è agevole evidenziare che, secondo un
orientamento giurisprudenziale oramai consolidato (cfr.,
ex plurimis, Cass. pen., Sez. III, 24.03.2010, n.
24241), a cui ha aderito anche questa Sezione (cfr. TAR
Lazio, Latina, Sez. I, 11.12.2014, n. 1056; id., 28.10.2014,
n. 895; id., 22.09.2014, n. 727), hanno natura di opere
precarie le opere che, in disparte le loro modalità
costruttive, risultino destinate a soddisfare esigenze
contingenti, improvvise e transeunti e ad essere presto
eliminate, con il corollario che neppure la facile
amovibilità dei manufatti eseguiti basta, di per sé, a farli
ritenere provvisti del carattere della precarietà (v. TAR
Campania, Salerno, Sez. I, 13.11.2013, n. 2240);
- ancora recentemente la giurisprudenza ha precisato che, per
l’accertamento del carattere precario o meno di una data
opera, è necessario verificare la destinazione funzionale e
l’interesse finale, al cui soddisfacimento la stessa è
destinata: possono, pertanto, dirsi di carattere precario
solo le opere che (oltre ad essere agevolmente rimuovibili)
siano funzionali a soddisfare un’esigenza obiettivamente
temporanea, mentre non si possono considerare tali i
manufatti che risultino destinati ad un utilizzo perdurante
nel tempo (C.d.S., Sez. III, 12.09.2012, n. 4850);
- anche la Cassazione penale (oltre al precedente indicato più
sopra, cfr. Sez. III, 10.10.2002, n. 38073) ha evidenziato
che nella materia edilizia, al fine del riscontro del
requisito della precarietà di un’opera, non sono rilevanti
le caratteristiche costruttive, i materiali impiegati e la
rimovibilità più o meno agevole, bensì le esigenze
temporanee a cui l’opera sia eventualmente destinata;
- da quanto esposto si ricava facilmente che, nel caso di specie, i
manufatti di cui è stata ingiunta la demolizione non hanno
per nulla il carattere della precarietà, non essendo in
alcun modo destinati a soddisfare esigenze temporanee e
transeunti, né ad essere rapidamente rimossi. All’opposto,
il fatto che, in prosieguo di tempo, siano stati via via
completati e forniti di accessori (dagli allacci alle reti
all’impianto elettrico, dal rifacimento della veranda
all’ampliamento tramite una nuova cucina, fino alla
realizzazione di un muro divisorio e di cancelli separati)
dimostra senza ombra di dubbio che si tratta di manufatti
stabili e destinati a soddisfare esigenze perduranti nel
tempo. Ne discende il loro assoggettamento alla disciplina
in tema di permesso di costruire ex art. 10 del d.P.R. n.
380/2001, la cui mancanza rende pienamente legittimo
l’ordine di demolizione;
- per la medesima ragione, è altresì irrilevante che le ricorrenti
risiedano a Napoli e vi abbiano una loro abitazione, così
come non ha alcun valore che l’area di ubicazione dei
manufatti ricada in Zona C4 e sia dotata delle
urbanizzazioni primarie e secondarie. Ciò che conta è solo
che il prefabbricato, avente specifica rilevanza ed
autonomamente utilizzabile, e gli altri manufatti presenti
in loco siano stati realizzati in assenza di idoneo titolo
edilizio e siano, pertanto, abusivi;
●
Ritenuto in definitiva, alla luce di quanto si è esposto, di
dover dichiarare il ricorso manifestamente infondato ai
sensi dell’art. 74 c.p.a., in ragione della palese
infondatezza di tutte le doglianze con lo stesso formulate (TAR Lazio-Latina,
sentenza 15.06.2016 n. 389 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo
un orientamento giurisprudenziale oramai consolidato, hanno natura di opere
precarie le opere che, in disparte le loro modalità
costruttive, risultino destinate a soddisfare esigenze
contingenti, improvvise e transeunti e ad essere presto
eliminate, con il corollario che neppure la facile
amovibilità dei manufatti eseguiti basta, di per sé, a farli
ritenere provvisti del carattere della precarietà.
Ancora recentemente la giurisprudenza ha precisato che, per
l’accertamento del carattere precario o meno di una data
opera, è necessario verificare la destinazione funzionale e
l’interesse finale, al cui soddisfacimento la stessa è
destinata: possono, pertanto, dirsi di carattere precario
solo le opere che (oltre ad essere agevolmente rimuovibili)
siano funzionali a soddisfare un’esigenza obiettivamente
temporanea, mentre non si possono considerare tali i
manufatti che risultino destinati ad un utilizzo perdurante
nel tempo.
Anche la Cassazione penale ha evidenziato che nella materia
edilizia, al fine del riscontro del requisito della
precarietà di un’opera, non sono rilevanti le
caratteristiche costruttive, i materiali impiegati e la
rimovibilità più o meno agevole, bensì le esigenze
temporanee a cui l’opera sia eventualmente destinata.
---------------
Nel caso di specie, i manufatti di cui è stata ingiunta la
demolizione non hanno per nulla il carattere della
precarietà, non essendo in alcun modo destinati a soddisfare
esigenze temporanee e transeunti, né ad essere rapidamente
rimossi.
All’opposto, il fatto che, in prosieguo di tempo, siano
stati via via completati e forniti di accessori (dagli
allacci alle reti all’impianto elettrico, dal rifacimento
della veranda all’ampliamento tramite una nuova cucina, fino
alla realizzazione di un muro divisorio e di cancelli
separati) dimostra senza ombra di dubbio che si tratta di
manufatti stabili e destinati a soddisfare esigenze
perduranti nel tempo. Ne discende il loro assoggettamento
alla disciplina in tema di permesso di costruire ex art. 10
del d.P.R. n. 380/2001, la cui mancanza rende pienamente
legittimo l’ordine di demolizione.
Per la medesima ragione, è altresì irrilevante che le
ricorrenti risiedano a Napoli e vi abbiano una loro
abitazione, così come non ha alcun valore che l’area di
ubicazione dei manufatti ricada in Zona C4 e sia dotata
delle urbanizzazioni primarie e secondarie. Ciò che conta è
solo che il prefabbricato, avente specifica rilevanza ed
autonomamente utilizzabile, e gli altri manufatti presenti
in loco siano stati realizzati in assenza di idoneo titolo
edilizio e siano, pertanto, abusivi.
---------------
●
Considerato che le opere di cui si ingiunge la demolizione,
ubicate sul terreno distinto in catasto al fg. n. 192, mapp.
n. 2034, vengono identificate nel provvedimento impugnato
attraverso il richiamo ai rapporti della Polizia Locale n.
228/2000, prot. n. 5949/VII, del 25.07.2000, n. 239/2000,
prot. n. 6390/VII, dell’11.08.2000, e n. 112/PG/2008, prot.
n. 6305/VII “del 25.07.2000” (rectius, del
05.09.2008) e consistono:
- in un prefabbricato in legno di circa mq. 30, con annessa veranda
di mt. 6,00x1,50 circa, avente copertura in ondulina, di
altezza da mt. 2,10 a mt. 2,30 circa, poggiato su ruote
centrali e piedini in ferro sui lati alti circa cm. 50, il
tutto poggiato su mattoni di cemento posti a secco con
sabbia. Tale manufatto è tramezzato internamente in tre vani
con bagno provvisto di sanitari e con cucina fornita di
pensili, frigo e piano cottura;
- nel proseguimento dei lavori relativi al manufatto di cui al
punto precedente e perciò nell’allaccio alla rete idrica e
fognaria, nell’impianto elettrico, in un mattonato a secco
di mt. 6,00x2,00 e nella tamponatura della veranda;
- nell’ulteriore proseguimento dei lavori relativi al manufatto in
discorso e perciò nella tamponatura della base rialzata per
circa cm. 50, in precedenza posizionata su mattoni di
cemento poggiati a terra su sabbia, e nel rifacimento della
veranda mediante travi in legno con tavole lamellari a due
falde e completa di guaina, tegole e grondaia, il tutto
poggiante su pali in legno impiantati sulla sottostante
pavimentazione.
In più, nell’ampliamento del manufatto, tramite una nuova
porzione (aderente, ma non comunicante con la precedente
opera), realizzata in muratura e vetrata, adibita a locale
cucina e delle dimensioni di mt. 4,20x4,90, con altezza da
mt. 2,35 a mt. 2,60. Infine, in un muro divisorio in
blocchetti di cemento con sovrastante rete metallica,
costruito per dividere il lotto appartenente in comproprietà
(indivisa) alle ricorrenti, con separati cancelli
d’ingresso;
●
Considerato che a supporto del ricorso le sigg.re Es. ed El.,
pur senza articolare specifici motivi, deducono le seguenti
doglianze:
- violazione degli artt. 6 e 7 della l. n. 47/1985, per violazione
dei criteri di imputazione soggettiva dell’illecito edilizio
previsti dalla legge, giacché l’ordinanza impugnata
prefigurerebbe in capo alle ricorrenti una presunzione di
responsabilità, non qualificata, però, da alcuna causalità
rispetto alla condotta sanzionata, e poiché la P.A. non
individuerebbe nessun elemento in grado di qualificare la
condotta delle citate ricorrenti come illecito edilizio;
- illegittimità dell’ordine di demolizione perché le opere eseguite
non necessiterebbero di permesso di costruire, trattandosi
di manufatti precari, perché facilmente amovibili e non
infissi al suolo (ma poggianti su ruote e su mattoni di
cemento sistemati a secco sulla sabbia). Per di più, le
proprietarie risiederebbero a Napoli ed avrebbero una
normale abitazione. Infine, il lotto nel quale si trovano le
opere ricadrebbe in Zona C4 (di espansione e
ristrutturazione residenziale), con indice fondiario di 0,50
mc./mq., in un’area dotata di opere di urbanizzazione
primaria e secondaria;
●
Rilevato che il Comune di Terracina, pur ritualmente e
tempestivamente evocato, non si è costituito in giudizio;
●
Ritenuta la sussistenza degli estremi per pronunciare
sentenza cd. semplificata, ai sensi dell’art. 74 c.p.a.,
attesa la manifesta infondatezza del ricorso;
●
Considerato, infatti, che la palese infondatezza del gravame
emerge dai seguenti elementi:
- in ordine alla prima doglianza, osserva il Collegio che le
ricorrenti lamentano, in sostanza, di non essere indicate
dall’ordinanza impugnata quali soggetti responsabili
dell’abuso, ma non contestano in alcun modo, ed anzi
rivendicano, di essere comproprietarie del lotto di terreno
su cui ricadono le opere abusive, nonché proprietarie di
dette opere;
- tanto premesso, è insegnamento della giurisprudenza consolidata
che l’ordine di demolizione deve essere rivolto nei
confronti di chi abbia la disponibilità dell’opera,
indipendentemente dal fatto che tale soggetto si sia reso
responsabile dell’abuso per averlo concretamente realizzato,
rilevando detto profilo esclusivamente sotto il profilo
della responsabilità penale, ma non già ai fini della
legittimità dell’ordine di demolizione; infatti, l’ordinanza
di demolizione di una costruzione abusiva può essere
legittimamente emanata nei confronti del proprietario
attuale, anche se non responsabile dell’abuso, poiché
l’abuso edilizio costituisce illecito permanente e
l’ordinanza ha carattere ripristinatorio e non prevede
l’accertamento del dolo o della colpa del soggetto al quale
è imputata la trasgressione (cfr., tra le ultime, TAR Lazio,
Roma, sez. I, 24.02.2016, n. 2588; TAR Campania, Napoli,
Sez. III, 08.01.2016, n. 14);
- anche questo Tribunale ha in più occasioni sottolineato che,
affinché il proprietario possa essere destinatario
dell’ordinanza di demolizione, non occorre stabilire se egli
sia responsabile dell’abuso, poiché l’art. 31, comma 2, del
d.P.R. n. 380/2001 prevede espressamente la legittimazione
passiva del proprietario non responsabile all’esecuzione
dell’ordine di demolizione (v. TAR Lazio, Roma, Sez. I,
18.01.2011, n. 381; id., 10.05.2010, n. 10470): ciò si
spiega con la possibilità che ha il proprietario –in virtù
del suo diritto dominicale– di eseguire l’ordine
ripristinatorio (v. TAR Lazio, Latina, Sez. I, 22.12.2014,
n. 1096; id., 11.12.2013, n. 963);
- da quanto ora visto si desume l’infondatezza della doglianza
appena esaminata (la prima formulata nel gravame): doglianza
che deve, perciò, essere respinta;
- è, altresì, priva di fondamento la doglianza incentrata sulla non
necessità del permesso di costruire (e, per conseguenza,
sull’inapplicabilità alla fattispecie della sanzione
demolitoria), in ragione della precarietà e facile
amovibilità del prefabbricato, in quanto privo di basi
infisse al suolo;
- in contrario, infatti, è agevole evidenziare che, secondo un
orientamento giurisprudenziale oramai consolidato (cfr.,
ex plurimis, Cass. pen., Sez. III, 24.03.2010, n.
24241), a cui ha aderito anche questa Sezione (cfr. TAR
Lazio, Latina, Sez. I, 11.12.2014, n. 1056; id., 28.10.2014,
n. 895; id., 22.09.2014, n. 727), hanno natura di opere
precarie le opere che, in disparte le loro modalità
costruttive, risultino destinate a soddisfare esigenze
contingenti, improvvise e transeunti e ad essere presto
eliminate, con il corollario che neppure la facile
amovibilità dei manufatti eseguiti basta, di per sé, a farli
ritenere provvisti del carattere della precarietà (v. TAR
Campania, Salerno, Sez. I, 13.11.2013, n. 2240);
- ancora recentemente la giurisprudenza ha precisato che, per
l’accertamento del carattere precario o meno di una data
opera, è necessario verificare la destinazione funzionale e
l’interesse finale, al cui soddisfacimento la stessa è
destinata: possono, pertanto, dirsi di carattere precario
solo le opere che (oltre ad essere agevolmente rimuovibili)
siano funzionali a soddisfare un’esigenza obiettivamente
temporanea, mentre non si possono considerare tali i
manufatti che risultino destinati ad un utilizzo perdurante
nel tempo (C.d.S., Sez. III, 12.09.2012, n. 4850);
- anche la Cassazione penale (oltre al precedente indicato più
sopra, cfr. Sez. III, 10.10.2002, n. 38073) ha evidenziato
che nella materia edilizia, al fine del riscontro del
requisito della precarietà di un’opera, non sono rilevanti
le caratteristiche costruttive, i materiali impiegati e la
rimovibilità più o meno agevole, bensì le esigenze
temporanee a cui l’opera sia eventualmente destinata;
- da quanto esposto si ricava facilmente che, nel caso di specie, i
manufatti di cui è stata ingiunta la demolizione non hanno
per nulla il carattere della precarietà, non essendo in
alcun modo destinati a soddisfare esigenze temporanee e
transeunti, né ad essere rapidamente rimossi. All’opposto,
il fatto che, in prosieguo di tempo, siano stati via via
completati e forniti di accessori (dagli allacci alle reti
all’impianto elettrico, dal rifacimento della veranda
all’ampliamento tramite una nuova cucina, fino alla
realizzazione di un muro divisorio e di cancelli separati)
dimostra senza ombra di dubbio che si tratta di manufatti
stabili e destinati a soddisfare esigenze perduranti nel
tempo. Ne discende il loro assoggettamento alla disciplina
in tema di permesso di costruire ex art. 10 del d.P.R. n.
380/2001, la cui mancanza rende pienamente legittimo
l’ordine di demolizione;
- per la medesima ragione, è altresì irrilevante che le ricorrenti
risiedano a Napoli e vi abbiano una loro abitazione, così
come non ha alcun valore che l’area di ubicazione dei
manufatti ricada in Zona C4 e sia dotata delle
urbanizzazioni primarie e secondarie. Ciò che conta è solo
che il prefabbricato, avente specifica rilevanza ed
autonomamente utilizzabile, e gli altri manufatti presenti
in loco siano stati realizzati in assenza di idoneo titolo
edilizio e siano, pertanto, abusivi;
●
Ritenuto in definitiva, alla luce di quanto si è esposto, di
dover dichiarare il ricorso manifestamente infondato ai
sensi dell’art. 74 c.p.a., in ragione della palese
infondatezza di tutte le doglianze con lo stesso formulate (TAR Lazio-Latina,
sentenza 15.06.2016 n. 389 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Obbligatorio pagare il contributo all'Anac.
Nelle gare per lavori e servizi.
Il versamento del contributo all'Anac per partecipare alle
gare pubbliche è obbligatorio e l'omissione del versamento
legittima l'esclusione.
Lo ha affermato il TAR Lazio-Roma, Sez. III-quater
con la
sentenza 14.06.2016 n. 6776 sull'omesso
versamento del contributo per la partecipazione alle gare
per l'affidamento di contratti pubblici previsto
dall'articolo 1, comma 67, della legge n. 266/2005.
La
disposizione prevede che il versamento del contributo
all'Autorità sia obbligatorio e costituisca «condizione di
ammissibilità dell'offerta». In passato, la giurisprudenza
aveva sostenuto che il mancato pagamento del contributo
costituiva elemento così rilevante in quanto collegato alla
violazione di disposizioni imperative di legge, che
comportava la violazione del principio di tassatività delle
cause di esclusione di cui all'art. 46, comma 1-bis,
dell'abrogato codice De Lise.
Nella controversia esaminata dal collegio laziale era stato
sostenuto che in base alla legge del 2005 il contributo
doveva essere reso soltanto per le gare di appalto di lavori
e non per quelle di servizi. Questa tesi viene ritenuta
«manifestamente infondata» perché la disposizione del 2005
«era rivolta all'Autorità di vigilanza sui lavori pubblici
che, nata nel 1994 con la legge Merloni sugli appalti di
lavori pubblici, venne modificata assumendo la denominazione
di Autorità di vigilanza sui contratti pubblici di lavori,
servizi e forniture (Avcp) nel 2006».
Pertanto, quando nel
2014 «ha determinato il contributo ad essa spettante per le
gare in materia di lavori, servizi e forniture, ratione
temporis, ne aveva tutte le competenze». Quindi era palese
che il contributo richiesto per gli appalti di servizi fosse
assolutamente coperto dalla norma di legge.
Il Tar del Lazio ha confermato la legittimità e l'obbligo di
corrispondere il contributo e chiarisce che la
giurisprudenza ha soltanto esaminato casi di ritardato
pagamento e non di completa omissione dello stesso. Nello
specifico, poi, al concorrente era stato segnalata
l'irregolarità e era stata disposta l'ammissione con
riserva. Pur avendo avuto tutto il tempo per regolarizzare
la sua posizione, invece, nella successiva seduta di gara il
concorrente si era nuovamente presentato senza avere
effettuato il pagamento, di modo che la commissione di gara
non ha avuto altra possibilità che escluderla,
legittimamente
(articolo ItaliaOggi del 24.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Sull'incameramento
della cauzione provvisoria nelle gare pubbliche di appalto:
funzione e presupposti.
L'incameramento della cauzione provvisoria è una conseguenza
automatica della esclusione e, come tale, è non suscettibile
di valutazione discrezionale con riguardo al caso concreto
e, in particolare, alle ragioni meramente formali o
sostanziali che l'amministrazione abbia posto a
giustificazione dell'esclusione medesima.
Infatti, per consolidata giurisprudenza, nelle gare
pubbliche di appalto l'incameramento della cauzione è una
misura a carattere latamente sanzionatorio, che costituisce
conseguenza ex lege dell'esclusione per riscontrato
difetto dei requisiti da dichiarare ai sensi dell'art. 38
d.lgs. 12.04.2006, n. 163, senza che sia necessaria la prova
di colpa nella formazione delle dichiarazioni presentate.
Inoltre, la presenza di dichiarazioni non corrispondenti al
vero altera di per sé la gara, quantomeno per aggravio di
lavoro della stazione appaltante, chiamata a vagliare anche
concorrenti inidonei o offerte prive di tutte le qualità
promesse, con relative questioni derivate.
L'escussione costituisce dunque conseguenza automatica della
violazione dell'obbligo di diligenza gravante
sull'offerente, considerato anche che gli operatori
economici, con la domanda di partecipazione, impegnano ad
osservare le regole della procedura delle quali hanno piena
contezza.
---------------
L'incameramento della cauzione provvisoria costituisce una
misura autonoma e ulteriore rispetto all'esclusione dalla
gara ed alla segnalazione all'Autorità di vigilanza, che si
riferisce, mediante l'anticipata liquidazione dei danni
subiti dall'Amministrazione, a un distinto per quanto
connesso rapporto giuridico fra quest'ultima e
l'imprenditore (tanto che si ammette l'impugnabilità della
sola escussione se ritenuta realmente ed esclusivamente
lesiva dell'interesse dell'impresa).
In definitiva, l'incameramento della cauzione provvisoria è
una misura di carattere strettamente patrimoniale, senza un
carattere sanzionatorio amministrativo nel senso proprio:
non ha infatti né carattere reintegrativo o ripristinatorio
di un ordine violato, né di punizione per un illecito
amministrativo previsto a tutela di un interesse generale).
Essa ha il suo titolo e la sua causa nella violazione di
regole e doveri contrattuali già espressamente accettati
negli stretti confronti dell'amministrazione appaltante. La
lata funzione sanzionatoria, dunque, inerisce al solo
rapporto che si è costituito inter partes con
l'amministrazione appaltante per effetto della domanda di
partecipazione alla gara: si riferisce perciò all'interesse
pubblico della stazione appaltante e non all'interesse
generale.
---------------
Ai sensi dell'art. 75, c. 6, d.lgs. n. 163 del 2006, nelle
gare pubbliche l'incameramento della cauzione provvisoria va
disposto in ogni caso in cui la mancata sottoscrizione del
contratto sia dipesa da circostanze imputabili
all'affidatario. Infatti, la cauzione provvisoria ha la
funzione di garantire la complessiva solidità e serietà
dell'offerta: del resto, la consolidata giurisprudenza
ritiene l'art. 75, c. 6, una norma di chiusura
dell'ordinamento.
Inoltre l'incameramento della cauzione provvisoria non è
condizionato dall'intervenuta aggiudicazione provvisoria
dell'appalto, perché essa, in ragione dell'essenziale
funzione di garanzia della serietà e attendibilità
dell'offerta e del patto d'integrità, copre tutte le ipotesi
i cui sono addebitati al concorrente la mancata
sottoscrizione del contratto e il mancato perfezionamento
dei suoi presupposti procedimentali, quali l'aggiudicazione
provvisoria e quella definitiva
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 13.06.2016 n. 2531 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI SERVIZI: Sulla
legittimità dell'attività extra moenia di una società in
house (fattispecie inerente l'assegnazione del servizio di
gestione delle aree di parcheggio a pagamento nel territorio
del comune di Rapallo).
E' assente nella legislazione italiana un obbligo di
esclusiva in capo alle società in house. A tal riguardo
l'art. 13 d.l. n. 223/2006, conv. nella l. n. 248/2006, non
positivizza simile obbligo con correlativo divieto di
operazioni extra moenia.
La norma introduce piuttosto un obbligo di esclusiva a
carico delle società pubbliche ma tale obbligo investe
esclusivamente "le società costituite o partecipate dalle
amministrazioni pubbliche regionali e locali per la
produzione di beni e servizi strumentali all'attività di
tali enti in funzione della loro attività" ed esclude
espressamente quelle destinate allo svolgimento di servizi
pubblici locali.
Anche la giurisprudenza, ammette che le società in house
costituite per lo svolgimento di servizi pubblici locali
possono svolgere servizi per enti diversi da quelli
costituenti, partecipanti o affidanti purché si tratti di
soggetti erogatori di servizi pubblici locali.
I predetti servizi potrebbero, di conseguenza, essere svolti
anche a favore di soggetti diversi da quelli "costituenti,
partecipanti o affidanti", sempre però che si tratti di
soggetti erogatori degli stessi. La normativa UE è
intervenuta sul problema, prevedendo all'art. 12 della
direttiva 24/2014 che la società in house deve
svolgere più dell'80% della propria attività a favore
dell'amministrazione controllante (si cfr. Parere C.S.
Commissione speciale 21.04.2016 n. 968).
Ne consegue, a contrario, che è legittima nei limiti
sopraindicati la attività extra moenia di una società
in house
(TAR Liguria, Sez. II,
sentenza 10.06.2016 n. 606 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA -
PUBBLICO IMPIEGO: Decisamente
consolidato è l'orientamento giurisprudenziale che qualifica
come rilevante per la
sussistenza del reato di abuso di ufficio la violazione
delle norme che disciplinano
i compiti degli amministratori pubblici in materia di
edilizia e di urbanistica,
ossia, dapprima, il Sindaco ai sensi dell'art. 4 legge n. 47
del 1985; e poi, il
responsabile dell'Ufficio tecnico comunale, a partire
dall'entrata in vigore dell'art.
107, comma 3, lettera g), del decreto legislativo n. 267 del
2000, stabilendo
che tutti gli interventi in materia di violazioni edilizie
sono di competenza del
Dirigente responsabile dell'Ufficio tecnico comunale, nel
solco del disegno
complessivo che ha inteso separare, nelle amministrazioni
locali, l'attività di
indirizzo e controllo, spettante agli organi elettivi, dai
compiti di gestione
amministrativa affidati ai dirigenti.
---------------
Nel procedimento
amministrativo di rilascio di un
titolo abilitativo alla realizzazione di opere o allo
svolgimento di attività
coinvolgenti immobili, l'indagine sulla conformità
dell'immobile alla disciplina
urbanistica costituisce un momento istruttorio ineludibile
«espressamente
previsto dal legislatore, sicché solo l'acquisizione di dati
positivi nel senso
favorevole al richiedente consente il legittimo rilascio»
del provvedimento
abilitativo, con la conseguenza che «l'inosservanza di tale
procedimento concreta
(...) il vizio di violazione di legge rilevante ai sensi
dell'art. 323 codice penale,
trattandosi di norme che impongono all'amministrazione
comportamenti specifici
e puntuali la cui omissione ha l'effetto di procurare un
vantaggio al beneficiario».
---------------
Pacifico è
che, nel delitto di abuso d'ufficio, non è richiesta la
prova della collusione tra p.u.
e privato. Si è infatti affermato più volte che in tema di
abuso d'ufficio, la prova
del dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie
criminosa, può essere desunta
anche da elementi sintomatici come la macroscopica
illegittimità dell'atto
compiuto, non essendo richiesto l'accertamento dell'accordo
collusivo con la
persona che si intende favorire, in quanto l'intenzionalità
del vantaggio ben può
prescindere dalla volontà di favorire specificamente quel
privato interessato alla
singola vicenda amministrativa.
---------------
3. Il ricorso è manifestamente infondato e dev'essere
dichiarato inammissibile.
4. Anzitutto, osserva il Collegio, il primo motivo si
appalesa del tutto
inammissibile.
La Corte d'appello, infatti, spiega le ragioni per le quali
l'intervento edilizio non
avrebbe potuto essere condonato, atteso che lo stesso
tecnico istruttore della
pratica aveva evidenziato la mancanza dei previsti elaborati
grafici formulando
parere negativo all'accoglimento dell'istanza di condono; la
stessa Corte
d'appello chiarisce (v. pagg. 5/6) che proprio l'esame di
tale documentazione
planimetrica avrebbe consentito di accertare che il
sottotetto non era
condonabile, in particolare trattandosi di sanatoria per
ristrutturazione edilizia
funzionale a modifiche della destinazione d'uso da deposito
ad abitazione; era
quindi necessario accertare che i volumi fossero tali da
consentire detto
mutamento, atteso che la variazione avveniva tra categorie
non omogenee.
La Corte d'appello, quindi, perviene ad affermare che,
rilasciando il titolo
abilitativo, il ricorrente aveva abusato del suo ufficio (e
che l'architetto Di.
avesse presente che si trattava di rilascio di titolo
abilitativo in sanatoria e non di
certificato di abitabilità-agibilità risultava pacificamente
dagli atti); quanto al dolo
viene spiegato dalla corte d'appello perché lo stesso ben
poteva essere ritenuto
sussistente (v. pagg. 6 e 7), sicché il rilascio del titolo
avvenne in mancanza di
quei dati che si assumevano come esistenti ed acquisiti (non
potendosi
nemmeno trascurare il fatto che il dubbio sulla ritualità
della pratica era
oltremodo stato evidenziato anche dagli esposti dei
condomini dello stabile,
sicché era evidente come fosse sicuramente opportuno un
comportamento
dell'imputato improntato a maggior prudenza); detto
comportamento, si spiega
nella sentenza d'appello, ha determinato un incremento del
valore economico
dell'unità immobiliare del Pi. con conseguente
integrazione della
cosiddetta doppia ingiustizia.
5. Infine, e conclusivamente, deve peraltro evidenziarsi che
il condono non
avrebbe potuto essere rilasciato perché la relativa istanza
era stata ritenuta
inveritiera in quanto l'immobile non era stato ultimato
entro il 31.03.2003
(non va, infatti, dimenticato che il proprietario era stato
condannato per
violazione dell'art. 483 cod. pen.), e l'Am., quale
pubblico ufficiale addetto
alla valutazione delle relative pratiche, aveva il dovere di
controllarne la
rispondenza al vero prima di rilasciare il condono e
comunque dovendo
procedere alle verifiche imposte dall'art. 35, legge n. 47
del 1985.
Con specifico riguardo al tema d'indagine, si osserva che
decisamente
consolidato è l'orientamento giurisprudenziale che qualifica
come rilevante per la
sussistenza del reato di abuso di ufficio la violazione
delle norme che disciplinano
i compiti degli amministratori pubblici in materia di
edilizia e di urbanistica,
ossia, dapprima, il Sindaco ai sensi dell'art. 4 legge n. 47
del 1985; e poi, il
responsabile dell'Ufficio tecnico comunale, a partire
dall'entrata in vigore dell'art.
107, comma 3, lettera g), del decreto legislativo n. 267 del
2000 (testo unico
delle leggi sull'ordinamento degli enti locali), che ha
recepito e unificato le
normative precedenti (a partire dall'art. 51 legge n. 142
del 1990), stabilendo
che tutti gli interventi in materia di violazioni edilizie
sono di competenza del
Dirigente responsabile dell'Ufficio tecnico comunale, nel
solco del disegno
complessivo che ha inteso separare, nelle amministrazioni
locali, l'attività di
indirizzo e controllo, spettante agli organi elettivi, dai
compiti di gestione
amministrativa affidati ai dirigenti.
Nello specifico, ai sensi degli artt. 27 e 31 del testo
unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia edilizia, contenuto
nel decreto del
Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, il Dirigente o
il responsabile
dell'Ufficio tecnico comunale è attualmente titolare della
posizione di garantire il
corretto assetto dello sviluppo urbanistico del Comune,
esercitando la vigilanza
«sull'attività urbanistico-edilizia nel territorio comunale
per assicurarne la
rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle
prescrizioni degli
strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei
titoli abilitativi», ed
avendo l'obbligo di intervenire «ogni qualvolta venga
accertato l'inizio o
l'esecuzione di opere eseguite senza titolo o in difformità
della normativa
urbanistica, attraverso l'emanazione di provvedimenti
interdittivi e cautelari».
Sin dalle prime pronunce intervenute dopo l'entrata in
vigore della legge n. 234
del 1997, si è affermato che, nel procedimento
amministrativo di rilascio di un
titolo abilitativo alla realizzazione di opere o allo
svolgimento di attività
coinvolgenti immobili, l'indagine sulla conformità
dell'immobile alla disciplina
urbanistica costituisce un momento istruttorio ineludibile
«espressamente
previsto dal legislatore, sicché solo l'acquisizione di dati
positivi nel senso
favorevole al richiedente consente il legittimo rilascio»
del provvedimento
abilitativo, con la conseguenza che «l'inosservanza di tale
procedimento concreta
(...) il vizio di violazione di legge rilevante ai sensi
dell'art. 323 codice penale,
trattandosi di norme che impongono all'amministrazione
comportamenti specifici
e puntuali la cui omissione ha l'effetto di procurare un
vantaggio al beneficiario»
(v. ad es., Sez. 6, n. 9116 del 01/07/1998 - dep.
04/08/1998, Egidi C, Rv.
211579).
6. Tenuto conto di quanto sopra, il ricorrente svolge
censure che -lungi dal
prospettare un vizio motivazionale- si propongono di
pervenire ad un obiettivo
diverso, ossia chiedere a questa Corte di sostituire la
valutazione operata dai
giudici di merito con una propria "rivalutazione" dei fatti,
operazione vietata in
questa sede.
Le deduzioni difensive si risolvono, all'evidenza -lungi
dal prospettare un vizio di
motivazione- nella manifestazione del dissenso rispetto
alla ricostruzione del
fatto ed alla valutazione probatoria operata dai giudici di
merito, operazione,
come detto, non consentita in questa sede.
Si ribadisce, e non potrebbe essere altrimenti, che
l'indagine di legittimità sul
discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte
circoscritto, dovendo il
sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato
-per espressa
volontà del legislatore- a riscontrare l'esistenza di un
logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione
impugnata, senza possibilità di
verificare l'adeguatezza delle argomentazioni di cui il
giudice di merito si è
avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro
rispondenza alle
acquisizioni processuali. Esula, infatti, dai poteri della
Corte di cassazione quello
di una "rilettura" degli elementi di fatto posti a
fondamento della decisione, la cui
valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di
merito, senza che possa
integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di
una diversa, e per il
ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze
processuali (per tutte., v.:
Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997 - dep. 02/07/1997, Dessimone
e altri, Rv.
207944).
A ciò si aggiunge -con particolare riferimento
alle doglianze
riguardanti il preteso vizio motivazionale- che gli
accertamenti (giudizio
ricostruttivo dei fatti) e gli apprezzamenti (giudiziovalutativo dei fatti) cui il
giudice del merito sia pervenuto attraverso l'esame delle
prove, sorretto da
adeguata motivazione esente da errori logici e giuridici,
sono sottratti al
sindacato di legittimità e non possono essere investiti
dalla censura di difetto o
contraddittorietà della motivazione solo perché contrari
agli assunti del
ricorrente; ne consegue che tra le doglianze proponibili
quali mezzi di ricorso, ai
sensi dell'art. 606, lett. e), cod. proc. pen., non
rientrano quelle relative alla
valutazione delle prove, specie se implicanti la soluzione
di contrasti testimoniali,
la scelta tra divergenti versioni ed interpretazioni,
l'indagine sull'attendibilità dei
testimoni e sulle risultanze peritali, salvo il controllo
estrinseco della congruità e
logicità della motivazione (tra le tante: Sez. 4, n. 87 del
27/09/1989 - dep.
11/01/1990, Bianchesi, Rv. 182961).
Controllo, in questa sede, agevolmente superato dalla
sentenza impugnata.
Quanto, alla sussistenza del dolo normativamente richiesto,
infine, pacifico è
che, nel delitto di abuso d'ufficio, non è richiesta la
prova della collusione tra p.u.
e privato. Si è infatti affermato più volte che in tema di
abuso d'ufficio, la prova
del dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie
criminosa, può essere desunta
anche da elementi sintomatici come la macroscopica
illegittimità dell'atto
compiuto, non essendo richiesto l'accertamento dell'accordo
collusivo con la
persona che si intende favorire, in quanto l'intenzionalità
del vantaggio ben può
prescindere dalla volontà di favorire specificamente quel
privato interessato alla
singola vicenda amministrativa (Sez. 6, n. 36179 del
15/04/2014 - dep.
27/08/2014, Dragotta, Rv. 260233; Sez. F, n. 38133 del
25/08/2011 - dep.
21/10/2011, P.G. e p.c. in proc. Farina, Rv. 251088; Sez. 6,
n. 21085 del
28/01/2004 - dep. 05/05/2004, P.C.in proc. Sodano e altri,
Rv. 229806)
(Corte di cassazione, Sez. III penale,
sentenza 08.06.2016 n. 23682). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'extracorsa
dell’ascensore, indiscutibilmente qualificato come volume
tecnico, esclude qualsiasi rilevanza paesaggistica ai sensi
dell’art. 164, comma 4, lett. a del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42
rendendo assentibile l’autorizzazione in sanatoria ex art.
167.
La giurisprudenza del Tribunale ha già
affermato il principio per il quale la stessa ratio che in
materia urbanistica porta ad escludere i volumi tecnici dal
calcolo della volumetria edificabile, induce ugualmente ad
escludere gli stessi dal divieto di rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria.
Rileva al riguardo l’art. 167, comma 4, lett. a), del d.lgs.
n. 42/2004, a norma del quale l’autorità competente accerta
la compatibilità paesaggistica “per i lavori realizzati in
assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che
non abbiano comportato creazione di superfici utili o di
volumi”.
Orbene, il Tribunale ha ritenuto di accreditare dell’inciso
“o di volumi”, un’interpretazione risolventesi in
un’endiadi, espressione di un concetto unitario, per cui
anche i volumi e non solo le superfici, soggiacciono al
divieto di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica in
sanatoria solo se sono utili, di talché quelli non utili,
ossia i volumi tecnici, sfuggono dal divieto de quo.
Più in particolare, «l'interpretazione teleologica induce a
ritenere che —nonostante l'utilizzo della particella
disgiuntiva “o” nella frase “che non abbiano determinato
creazione di superfici utili o volumi”— il duplice
riferimento alle nuove superfici utili e ai nuovi volumi
costituisca un'endiadi, ossia una modalità di esprimere un
concetto unitario con due termini coordinati"».
Deve peraltro doverosamente darsi atto che più di recente la
giurisprudenza, anche d’appello, ha espresso un’esegesi più
rigorosa dell’art. 167, co. 4, lett. a), del d.lgs. n.
42/2004 ritenendo ostativa all’accertamento di compatibilità
paesaggistica la creazione di nuovi volumi ancorché non
utili.
Si è di recente statuito infatti che “Il vigente art. 167,
comma 4, del codice dei beni culturali e del paesaggio
preclude il rilascio di autorizzazioni in sanatoria, quando
siano stati realizzati volumi di qualsiasi natura (anche
’interrati'). Il divieto di incremento dei volumi esistenti,
imposto ai fini di tutela del paesaggio, si riferisce a
qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di
volume, senza che sia possibile distinguere tra volume
tecnico e altro tipo di volume, sia esso interrato o meno”.
Anche la giurisprudenza di prime cure aveva già enunciato la
medesima esegesi affermando che “La giurisprudenza nazionale
è pacifica nel ritenere che l'art. 167, comma 4, lett. a),
d.lgs. n. 42 del 2004 preclude l'autorizzazione
paesaggistica in sanatoria, e quindi anche la sanatoria
edilizia che presuppone l'avvenuto rilascio del titolo
paesaggistico, per abusi edilizi concretanti nuova
superficie utile o nuovo volume realizzato, senza che sia
necessario, ai fini dell'assentibilità, valutarne in
concreto la compatibilità paesaggistica mediante un giudizio
tecnico-discrezionale”.
...
Segnala peraltro il Collegio che larga parte della
giurisprudenza si è mossa nel solco dell’orientamento
secondo cui è possibile l'accertamento di compatibilità
paesaggistica ex art. 167, comma 4, lett. a), nel caso di
volumi tecnici.
Secondo quest’orientamento, infatti, i volumi tecnici,
proprio in ragione dei caratteri che li contraddistinguono e
che riposano sostanzialmente nelle loro ridotte dimensioni e
nella loro funzione accessoria e servente la res principalis,
sono inidonei ad introdurre un impatto sul territorio
eccedente la costruzione principale e, come tali, sono
ininfluenti ai fini del calcolo degli indici di
edificabilità.
Anche il TAR Lazio ha espresso suggerita lo stesso avviso
sancendo che “È possibile l'accertamento di compatibilità
paesaggistica ex art. 167, lett. a), d.lgs. n. 42 del 2004
nel caso di volumi tecnici”.
Del pari il Consiglio di Stato si è espresso nel medesimo
senso con specifico e pertinente riguardo ai vani ascensore,
con pronuncia dunque calzante alla fattispecie per cui è
causa.
Confermando TAR Campania–Napoli, Sez. III, 25.05.2010 n.
8748 che aveva riconosciuto natura di volume tecnico a un
vano siffatto, il Consiglio ha chiaramente anche escluso che
un volume tecnico sia idoneo ad impattare il territorio e
l’ambiente.
Ha infatti precisato che “Occorre osservare che la nozione
di ‘volume tecnico', non computabile nella volumetria ai
fini in questione, corrisponde a un'opera priva di
qualsivoglia autonomia funzionale, anche solo potenziale,
perché è destinata a solo contenere, senza possibilità di
alternative e comunque per una consistenza volumetrica del
tutto contenuta, impianti serventi di una costruzione
principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali della
medesima. In sostanza, si tratta di impianti necessari per
l'utilizzo dell'abitazione che non possono essere in alcun
modo ubicati all'interno di questa, come possono essere —e
sempre in difetto dell'alternativa— quelli connessi alla
condotta idrica, termica o all'ascensore e simili, i quali
si risolvono in semplici interventi di trasformazione senza
generare aumento alcuno di carico territoriale o di impatto
visivo”.
Opzione ribadita dal giudice d’appello che confermando la
sentenza della VII Sezione del Tribunale n. 1748 del 2009
invocata dal ricorrente, ha riaffermato che “La nozione di
"volume tecnico", non computabile nella volumetria,
corrisponde a un'opera priva di qualsivoglia autonomia
funzionale, anche solo potenziale, perché è destinata a solo
contenere, senza possibilità di alternative e comunque per
una consistenza volumetrica circoscritta, impianti serventi
di una costruzione principale per essenziali esigenze
tecnico-funzionali della medesima. In sostanza, si tratta di
impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione che non
possono essere in alcun modo ubicati all'interno di questa,
come possono essere —e sempre in difetto dell'alternativa—
quelli connessi alla condotta idrica, termica o
all'ascensore e simili, i quali si risolvono in semplici
interventi di trasformazione senza generare aumento alcuno
di carico territoriale o di impatto visivo”.
In altro precedente la medesima Sezione del Consiglio aveva
enunciato il principio opposto, sancendo l’indifferenza
della natura del volume edilizio nel giudizio di
compatibilità paesaggistica, ritenuto da escludere ogni
qualvolta sia stato creato nuovo volume, utile o tecnico che
sia: “È "ius receptum" il principio onde la natura del
volume edilizio realizzato, sia o meno qualificabile come
volume tecnico, non rileva sul giudizio di compatibilità
paesaggistica ex post delle opere, essendo in radice
precluse autorizzazioni postume per le opere abusive che
abbiano comportato la realizzazione di nuovi volumi”).
Ritiene la Sezione che a fronte del delineato contrasto
giurisprudenziale la soluzione possa essere individuata
nell’affermare che gli impianti tecnici, e i contenitori
degli stessi, sono sottratti al divieto di accertamento
della compatibilità paesaggistica stabilito per i nuovi
volumi, stante la funzione strettamente servente e
strumentale degli impianti stessi, in quanto non utilmente
collocabili all’interno della esistente volumetria del
fabbricato e destinati ad arrecare una utilità funzionale
all’edificio principale.
La nozione di impianti tecnici va quindi rigorosamente
ricostruita tenendo conto della natura strettamente
necessaria degli stessi e della loro attitudine a costituire
un accessorio esclusivamente tecnico dell’immobile
principale, che non possa essere allocato all’interno della
volumetria assentita.
---------------
La giurisprudenza ha condivisibilmente affermato la
necessità di una adeguata motivazione del parere in ordine
alla compatibilità paesaggistica dell’intervento, avendo
precisato che “Nell'adozione del suddetto parere, la
Soprintendenza esercita valutazioni che sono espressione di
discrezionalità tecnica, soggetta comunque al sindacato del
g.a., seppure nei ristretti limiti del difetto di
motivazione, illogicità manifesta ed errore di fatto, in
altri termini sotto il profilo dell'eccesso di potere, sub
specie delle figure sintomatiche dell'arbitrarietà,
dell'irragionevolezza, irrazionalità e travisamento dei
fatti.
Il parere negativo della Soprintendenza deve, infatti,
essere supportato dalla circostanziata dimostrazione della
valutazione dei relativi elementi fattuali a sostegno, per
cui la sanatoria dell'opera vincolata comprometterebbe
irrimediabilmente, e in rilevante misura, gli interessi che
il vincolo mira a tutelare, dovendo essere esplicitato per
quale ragione, materiale e specifica, le opere per le quali
si sta chiedendo la sanatoria siano incompatibili con il
vincolo”.
Motivazione richiesta anche in caso di parere favorevole:
“L'accertamento di compatibilità paesaggistica deve essere
rilasciato unitamente ad una congrua motivazione, che
descriva i criteri e le regole seguite per ritenere la
compatibilità o meno dell'opera con il vincolo imposto
sull'area”.
---------------
1.1. Con il ricorso in epigrafe depositato il 02.02.2010 il
ricorrente, in proprio e quale amministratore unico
dell’Hotel Ce. s.r.l., impugna il provvedimento n. 22613 del
29.10.2009 con cui il responsabile del competente servizio
del Comune di Somma Vesuviana, sulla scorta della nota della
Soprintendenza di Napoli del 19.11.2008, prot. 24665,
parimenti impugnata, ha respinto la richiesta di permesso di
costruire in sanatoria relativamente a talune opere ritenute
integranti il divieto di accertamento della compatibilità
paesaggistica in forza dell’art. 167, co. 4, lett. a), del
d.lgs. n. 42/2004, nella specie consistenti in un vano extra
corsa dell’ascensore inglobato in un torrino scala posto al
di sopra della copertura a tetto inclinato dell’edificio.
Tale opera faceva parte di un più ampio insieme di
interventi che sono stati invece assentiti con il
provvedimento all’esame, lesivo e quindi gravato solo
relativamente alla denegata sanatoria del predetto vano
extracorsa dell’ascensore.
...
2.1. Premette nella narrativa in fatto e nell’introduzione
del primo motivo il ricorrente che il torrino scale oggetto
dell’impugnato diniego di accertamento di conformità per
effetto del negativo parere della Soprintendenza e posto al
di sopra della copertura a tetto inclinato dell’edificio, è
stato realizzato per alloggiarvi la fine corsa
dell’ascensore e fuoriesce di soli 70 cm. dal colmo del
tetto e deriva dall’esigenza di allocare all’interno della
scala un ascensore che richiede, per poter essere in
funzione, un’altezza maggiore appunto di soli 70 cm.
rispetto alla falda inclinata del tetto.
Senza dunque tale tratto finale (c.d. fine corsa, ovvero
extracorsa dell’ascensore) l’impianto non può funzionare.
Allega l’esponente che già la Circolare del Ministero L.P.
n. 2474 del 31.03.1973 dispone che “sono da considerarsi
volumi tecnici quelli strettamente necessari per
contenere…l’extra corsa degli ascensori”, al pari
dell’art. 5 delle NTA comunali.
La indiscutibile qualificazione di volume tecnico del vano
in questione, per il ricorrente esclude qualsiasi rilevanza
paesaggistica ai sensi dell’art. 164, comma 4, lett. a del
D.Lgs. 22.01.2004, n. 42 rendendo assentibile
l’autorizzazione in sanatoria.
Invoca al riguardo la giurisprudenza del Tribunale (TAR
Campania–Napoli, Sez. VII, 03.04.2009, n. 1748) che ha
sancito l’illegittimità dell’operato della soprintendenza
confermando che i volumi quali quello di specie sono
sicuramente suscettibili di accertamento della compatibilità
paesaggistica.
2.2. Il motivo è fondato, al lume di una lettura delle norme
adeguata e ritagliata sulla peculiarità della fattispecie
controversa.
Non ignora il collegio l’orientamento del Tribunale,
confortato da Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 151/2014 e
Consiglio di Stato, Sez. VI, 5932/2014 che ha confermato la
sentenza di questo TAR n. 1748/2009 invocata dal deducente.
Orbene, la giurisprudenza del Tribunale, ha già affermato il
principio per il quale la stessa ratio che in materia
urbanistica porta ad escludere i volumi tecnici dal calcolo
della volumetria edificabile, induce ugualmente ad escludere
gli stessi dal divieto di rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica in sanatoria (TAR Campania–Napoli, Sez. VII,
15.12.2010, n. 27380; ID, n. 1748/2009; più di recente, TAR
Sardegna, Sez. II, 07.03.2012, n. 249).
Rileva al riguardo l’art. 167, comma 4, lett. a), del d.lgs.
n. 42/2004, a norma del quale l’autorità competente accerta
la compatibilità paesaggistica “per i lavori realizzati
in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica,
che non abbiano comportato creazione di superfici utili o di
volumi”.
Orbene, il Tribunale ha ritenuto di accreditare dell’inciso
“o di volumi”, un’interpretazione risolventesi in
un’endiadi, espressione di un concetto unitario, per cui
anche i volumi e non solo le superfici, soggiacciono al
divieto di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica in
sanatoria solo se sono utili, di talché quelli non utili,
ossia i volumi tecnici, sfuggono dal divieto de quo
(TAR Campania–Napoli, Sez. VII, n. 27380/2010).
Più in particolare, secondo TAR Campania, Napoli, Sez. VII,
01.09.2011 n. 4267, «l'interpretazione teleologica induce
a ritenere che —nonostante l'utilizzo della particella
disgiuntiva “o” nella frase “che non abbiano determinato
creazione di superfici utili o volumi”— il duplice
riferimento alle nuove superfici utili e ai nuovi volumi
costituisca un'endiadi, ossia una modalità di esprimere un
concetto unitario con due termini coordinati"».
Negli stessi termini TAR Campania, Napoli, Sez. VII,
01.09.2011 n. 4263; Id., 03.04.2009 n. 1748.
Deve peraltro doverosamente darsi atto che più di recente la
giurisprudenza, anche d’appello, ha espresso un’esegesi più
rigorosa dell’art. 167, co. 4, lett. a), del d.lgs. n.
42/2004 ritenendo ostativa all’accertamento di compatibilità
paesaggistica la creazione di nuovi volumi ancorché non
utili.
Si è di recente statuito infatti che “Il vigente art.
167, comma 4, del codice dei beni culturali e del paesaggio
preclude il rilascio di autorizzazioni in sanatoria, quando
siano stati realizzati volumi di qualsiasi natura (anche
’interrati'). Il divieto di incremento dei volumi esistenti,
imposto ai fini di tutela del paesaggio, si riferisce a
qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di
volume, senza che sia possibile distinguere tra volume
tecnico e altro tipo di volume, sia esso interrato o meno”
(Consiglio di Stato, Sez. VI, 02.07.2015 n. 3289). Tale
decisione ha riformato TAR Campania, Napoli, sez. VII, n.
6827/2009.
Anche la giurisprudenza di prime cure aveva già enunciato la
medesima esegesi affermando che “La giurisprudenza
nazionale è pacifica nel ritenere che l'art. 167, comma 4,
lett. a), d.lgs. n. 42 del 2004 preclude l'autorizzazione
paesaggistica in sanatoria, e quindi anche la sanatoria
edilizia che presuppone l'avvenuto rilascio del titolo
paesaggistico, per abusi edilizi concretanti nuova
superficie utile o nuovo volume realizzato, senza che sia
necessario, ai fini dell'assentibilità, valutarne in
concreto la compatibilità paesaggistica mediante un giudizio
tecnico-discrezionale” (TAR Sicilia-Palermo, Sez. I ,
10.04.2013 n. 802).
2.3. Segnala peraltro il Collegio che larga parte della
giurisprudenza si è mossa nel solco dell’orientamento
secondo cui è possibile l'accertamento di compatibilità
paesaggistica ex art. 167, comma 4, lett. a), nel caso di
volumi tecnici (cfr. TAR Campania-Napoli Sez. VII 10/05/2012
n. 2173; TAR Emilia Romagna-Parma, 15/09/2010 n. 435; TAR
Lombardia-Milano, Sez. IV, 05/03/2009 n. 1762).
Secondo quest’orientamento, infatti, i volumi tecnici,
proprio in ragione dei caratteri che li contraddistinguono e
che riposano sostanzialmente nelle loro ridotte dimensioni e
nella loro funzione accessoria e servente la res
principalis, sono inidonei ad introdurre un impatto sul
territorio eccedente la costruzione principale e, come tali,
sono ininfluenti ai fini del calcolo degli indici di
edificabilità.
Anche il TAR Lazio ha espresso suggerita lo stesso avviso
sancendo che “È possibile l'accertamento di compatibilità
paesaggistica ex art. 167, lett. a), d.lgs. n. 42 del 2004
nel caso di volumi tecnici” (TAR Lazio–Roma, Sez. I,
15.07.2013 n. 6997) .
Del pari il Consiglio di Stato si è espresso nel medesimo
senso con specifico e pertinente riguardo ai vani ascensore,
con pronuncia dunque calzante alla fattispecie per cui è
causa.
Confermando TAR Campania–Napoli, Sez. III, 25.05.2010 n.
8748 che aveva riconosciuto natura di volume tecnico a un
vano siffatto, il Consiglio ha chiaramente anche escluso che
un volume tecnico sia idoneo ad impattare il territorio e
l’ambiente.
Ha infatti precisato che “Occorre osservare che la
nozione di ‘volume tecnico', non computabile nella
volumetria ai fini in questione, corrisponde a un'opera
priva di qualsivoglia autonomia funzionale, anche solo
potenziale, perché è destinata a solo contenere, senza
possibilità di alternative e comunque per una consistenza
volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una
costruzione principale per essenziali esigenze
tecnico-funzionali della medesima. In sostanza, si tratta di
impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione che non
possono essere in alcun modo ubicati all'interno di questa,
come possono essere —e sempre in difetto dell'alternativa—
quelli connessi alla condotta idrica, termica o
all'ascensore e simili, i quali si risolvono in semplici
interventi di trasformazione senza generare aumento alcuno
di carico territoriale o di impatto visivo” (Consiglio
di Stato, Sez. VI, 31.03.2014 n. 1512) .
Opzione ribadita dal giudice d’appello che confermando la
sentenza della VII Sezione del Tribunale n. 1748 del 2009
invocata dal ricorrente, ha riaffermato che “La nozione
di "volume tecnico", non computabile nella volumetria,
corrisponde a un'opera priva di qualsivoglia autonomia
funzionale, anche solo potenziale, perché è destinata a solo
contenere, senza possibilità di alternative e comunque per
una consistenza volumetrica circoscritta, impianti serventi
di una costruzione principale per essenziali esigenze
tecnico-funzionali della medesima. In sostanza, si tratta di
impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione che non
possono essere in alcun modo ubicati all'interno di questa,
come possono essere —e sempre in difetto dell'alternativa—
quelli connessi alla condotta idrica, termica o
all'ascensore e simili, i quali si risolvono in semplici
interventi di trasformazione senza generare aumento alcuno
di carico territoriale o di impatto visivo” (Consiglio
di Stato sez. VI, 01.12.2014 n. 5932).
In altro precedente la medesima Sezione del Consiglio aveva
enunciato il principio opposto, sancendo l’indifferenza
della natura del volume edilizio nel giudizio di
compatibilità paesaggistica, ritenuto da escludere ogni
qualvolta sia stato creato nuovo volume, utile o tecnico che
sia: “È "ius receptum" il principio onde la natura del
volume edilizio realizzato, sia o meno qualificabile come
volume tecnico, non rileva sul giudizio di compatibilità
paesaggistica ex post delle opere, essendo in radice
precluse autorizzazioni postume per le opere abusive che
abbiano comportato la realizzazione di nuovi volumi”
(Consiglio di Stato, Sez. VI, 28.10.2013 n. 4257).
3.1. Ritiene la Sezione che a fronte del delineato contrasto
giurisprudenziale la soluzione possa essere individuata
nell’affermare che gli impianti tecnici, e i contenitori
degli stessi, sono sottratti al divieto di accertamento
della compatibilità paesaggistica stabilito per i nuovi
volumi, stante la funzione strettamente servente e
strumentale degli impianti stessi, in quanto non utilmente
collocabili all’interno della esistente volumetria del
fabbricato e destinati ad arrecare una utilità funzionale
all’edificio principale.
La nozione di impianti tecnici va quindi rigorosamente
ricostruita tenendo conto della natura strettamente
necessaria degli stessi e della loro attitudine a costituire
un accessorio esclusivamente tecnico dell’immobile
principale, che non possa essere allocato all’interno della
volumetria assentita.
Calando dunque nella fattispecie al vaglio della Sezione
quest’ultimo principio, risulta rafforzato il convincimento
in ordine all’illegittimità dell’impugnato diniego ove si
rifletta alla natura di impianto tecnico dell’ascensore per
cui è causa e del relativo vano extra corsa nonché alla
minima o anche solo trascurabile incidenza del piccolo
volume creato dalla ricorrente, consistente in una sporgenza
di soli 70 cm (dato non contestato da controparte) sulla
falda del tetto di un edificio multipiano, ossia in
definitiva in un piccolo corpo di fabbrica che determina una
modificazione dell’aspetto esteriore dell’immobile
complessivo, scarsamente ovvero totalmente non percepibile.
Discende quindi dalle considerazioni finora volte la
fondatezza del primo motivo di ricorso che va pertanto
accolto.
3.1. Da quanto argomentato consegue anche la fondatezza del
terzo motivo di ricorso, con il quale il deducente si duole
che la P.A. e in particolare la soprintendenza di Napoli
abbia del tutto omesso di specificare quali fossero le
ragioni assunte a base del negativo parere pronunciato,
essendosi limita ad affermare che “le opere hanno
comportato la realizzazione di un torrino scala e che
pertanto si è determinato un incremento delle volumetrie
esistenti”.
Rimarca per contro il Collegio che la giurisprudenza ha
condivisibilmente affermato la necessità di una adeguata
motivazione del parere in ordine alla compatibilità
paesaggistica dell’intervento, avendo precisato che “Nell'adozione
del suddetto parere, la Soprintendenza esercita valutazioni
che sono espressione di discrezionalità tecnica, soggetta
comunque al sindacato del g.a., seppure nei ristretti limiti
del difetto di motivazione, illogicità manifesta ed errore
di fatto, in altri termini sotto il profilo dell'eccesso di
potere, sub specie delle figure sintomatiche
dell'arbitrarietà, dell'irragionevolezza, irrazionalità e
travisamento dei fatti. Il parere negativo della
Soprintendenza deve, infatti, essere supportato dalla
circostanziata dimostrazione della valutazione dei relativi
elementi fattuali a sostegno, per cui la sanatoria
dell'opera vincolata comprometterebbe irrimediabilmente, e
in rilevante misura, gli interessi che il vincolo mira a
tutelare, dovendo essere esplicitato per quale ragione,
materiale e specifica, le opere per le quali si sta
chiedendo la sanatoria siano incompatibili con il vincolo”
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III, 27.01.2015 n. 303).
Motivazione richiesta anche in caso di parere favorevole: “L'accertamento
di compatibilità paesaggistica deve essere rilasciato
unitamente ad una congrua motivazione, che descriva i
criteri e le regole seguite per ritenere la compatibilità o
meno dell'opera con il vincolo imposto sull'area” (TAR
Liguria, Sez. I, 15.05.2010 n. 2584).
Ne consegue che secondo tali considerazioni in punto allo
spessore e ai contorni della motivazione che deve invece
assistere le valutazioni dell’autorità preposta riguardo
alla ritenuta assenza di compatibilità paesaggistica di un
intervento consistente in volume meramente tecnico, la
Soprintendenza avrebbe dovuto adeguatamente ed attentamente
esternare i fattori motivazionali, ancorati all’analisi
degli elementi ontologici dell’opera de qua, sulla cui
scorta sarebbe stato da escludere il vaglio di compatibilità
della stessa con il contesto paesistico ed ambientale alla
cui tutela e salvaguardia l’ordinamento commette all’organo
statale la funzione consultiva in materia.
Il difetto di una simile valutazione affligge il parere
impugnato colorandolo di illegittimità (TAR Campania-Napoli,
Sez. III,
sentenza 08.06.2016 n. 2902 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Sull'esclusione
da una gara d'appalto per mancato possesso di un requisito
di partecipazione.
La cognizione incidentale del giudice amministrativo, ai
sensi dell'art. 8 c.p.a., non può sindacare i fatti che la
parte ha deliberatamente omesso di sottoporre alla
cognizione principale del giudice civile.
L'esclusione da una gara, disposta in esito al riscontro
negativo circa il possesso di un requisito di
partecipazione, non postula la previa comunicazione di avvio
del procedimento, per costante giurisprudenza di questo
Consiglio, attenendo ad un segmento necessario di un
procedimento della cui pendenza l'interessato è già
necessariamente a conoscenza.
La disposizione contenuta nell'art. 38, lett. f), del d.lgs.
12.04.2006 n. 163, prevedendo che sono esclusi dalla
partecipazione alla gara gli operatori economici che,
secondo motivata valutazione della stazione appaltante,
hanno commesso grave negligenza o malafede nell'esecuzione
delle prestazioni affidate in pregressi rapporti, contempla
in realtà un fatto complesso che impone la distinzione tra
il giudizio afferente alla fase negoziale del pregresso
rapporto e il giudizio relativo all'esercizio di poteri
amministrativi.
Il primo giudizio è riservato all'Amministrazione che, quale
parte di un pregresso rapporto, può ritenere che l'altra
parte abbia posto in essere, nell'esecuzione delle
prestazioni, un comportamento connotato da grave negligenza
o malafede e decidere di risolvere il contratto stipulato.
In questo caso, qualora insorgano contestazioni, la
competenza a dirimerle spetta al giudice ordinario che
esercita un controllo pieno sulle cause interne che hanno
condotto alla interruzione del rapporto negoziale. Il
secondo giudizio spetta all'Amministrazione che, considerati
i pregressi rapporti negoziali, adotta, nell'esercizio di un
potere pubblico, la determinazione con la quale esclude una
impresa da una gara ovvero annulla una aggiudicazione già
disposta.
Si tratta di un potere discrezionale che deve valutare se il
fatto pregresso abbia concretamente reso inaffidabile
l'operatore economico con possibile pregiudizio
dell'interesse pubblico connesso alla realizzazione di
determinati servizi e in questo caso, se insorgono
contestazioni, la competenza a dirimerle spetta al giudice
amministrativo, che esercita un controllo sulle cause
esterne che hanno determinato la rottura del rapporto
fiduciario al fine di accertare se esiste una figura
sintomatica dell'eccesso di potere idonea a comportare
l'illegittimità degli atti amministrativi.
---------------
La cognizione incidentale del giudice amministrativo, ai
sensi dell'art. 8 c.p.a., non può sindacare i fatti -nel
caso di specie la gravità dell'inadempimento contrattuale
dell'impresa aggiudicataria che giustifichi la risoluzione
del contratto ai sensi degli artt. 1453 e 1455 c.c.- che la
parte ha deliberatamente omesso di sottoporre alla
cognizione principale del giudice civile, pur avendo essa
l'onere processuale di farlo, poiché le strategie
opportunistiche della parte, che ha deciso di non contestare
tali fatti davanti al giudice munito di apposita potestas
iudicandi, non possono condizionare né aggirare il
riparto di giurisdizione con lo strumentale ricorso
all'esercizio della cognizione incidentale da parte del
giudice amministrativo
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 08.06.2016 n. 2450 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
Collegio richiama un precedente analogo (in quel caso la
copertura era stata aumentata di 30 cm), sul quale la
Sezione ha ritenuto che “il rialzamento riscontrato non sia
in realtà idoneo a escludere l’accertamento di compatibilità
paesaggistica richiesto, non integrando la fattispecie
preclusiva correlata all’aumento di volume di cui all’art.
167, comma 4, invocato dall’amministrazione.”
A tale conclusione la Sezione è pervenuta non soltanto sulla
base di considerazioni fondante sulle disposizioni
urbanistiche del Comune resistente in quella controversia
(che evidentemente qui non rilevano), bensì tenendo conto
anche “…che l’ulteriore altezza realizzata è stata posta in
essere, pacificamente, per realizzare un intervento di
“risparmio energetico”; tale tipologia di interventi risulta
fortemente incoraggiata dall’ordinamento, realizzando
finalità pubblicistiche di sicura rilevanza” e che “… norme
di legge statale e regionale perseguono l’obiettivo della
realizzazione di edifici che garantiscano un superiore
indice di prestazione energetica (art. 11 del d.lgs. n. 115
del 2008, art. 146 della legge regionale n. 1 del 2005).”
È stato stabilito quindi, sulla base di tali premesse, che
“In tal quadro è da escludere, al fine di evitare che
l’ordinamento entri in contraddizione con sé stesso, che un
intervento edilizio … ispirato al perseguimento di finalità
che sono riconosciute anche di valenza pubblicistica (non
essendo contestato che l’intervento in parola è funzionale a
perseguire obiettivi di risparmio energetico), possa invece
essere ritenuto illegittimo da un punto di vista
paesaggistico, dovendo in senso contrario la preclusione di
cui all’art. 167, comma 4, del d.lgs. n. 42 del 2004 essere
ritenuta non applicabile in presenza di un intervento che
non costituisce aumento di volume … e che è ispirato a
finalità di contenimento di risparmio energetico" .
---------------
2. Innanzitutto la società ricorrente contesta la
legittimità dell’ordinanza impugnata nella parte in cui con
essa si sanziona l’aumento di volume derivante dai 25 cm di
altezza eccedenti la misura autorizzata con i titoli
edilizi. La ricorrente sostiene che, essendosi reso
necessario l’inspessimento dei solai al fine di realizzare
gli impianti di riscaldamento a pavimento, come previsto in
convenzione, l’aumento di volume e di altezza non
costituiscono difformità totale e neppure variazione
essenziale, potendosi al più parlare di volumi tecnici (in
relazione alla maggiore altezza dell’edificio); si veda la
relazione redatta da un tecnico incaricato dalla società
ricorrente (21.03.2016, depositata il 22.03.2016), che
registra variazioni complessive ancora minori di 25 cm.
Il Comune di Monteriggioni, dal canto suo, oltre a ricordare
la natura vincolante del parere soprintendentizio, osserva
che l’incremento di volume va non soltanto ricondotto
all’aumento di 25 cm di altezza (con conseguente modifica
della sagoma degli edifici), bensì anche nella realizzazione
di un volume interrato, eccedente il limite consentito dal
permesso di costruire del 2012 (13,70 mc). Da ciò parte
resistente trae la conseguenza che, ai sensi dell’art. 167,
comma quarto, lettera a), del d.lgs. n. 42/2004, che vieta
ogni incremento di volume in zona paesaggisticamente
vincolata, non sarebbe possibile per la società ricorrente
ottenere l’accertamento di compatibilità in sanatoria.
Orbene, deve osservarsi che nel provvedimento impugnato non
si menziona espressamente un aumento di volume localizzato
nel seminterrato, ma –al punto e) dell’elenco delle opere
da demolire– si parla della “chiusura di una porta, tra
l’altro non riportata negli elaborati grafici di cui alla
richiesta di accertamento di conformità in esame, di accesso
a un locale interrato posto sotto il corsello di
distribuzione ai posti auto e garage.”
Nella relazione dei funzionari tecnici del Comune –incaricati di effettuare un sopralluogo (23.08.2014) ai
fini dell’accertamento di conformità– si legge che con
riguardo ai due edifici denominati G e D, per quel che qui
rileva (aumento di volume), il maggiore spessore di tutti i
solai (fino a raggiungere i 25 cm di altezza in più
dell’edificio) ha comportato modifica della sagoma ma non
variazione dell’altezza utile interna dei singoli piani.
La Sezione in analoghi casi ha aderito all’interpretazione
rigorosa dell’art. 167, comma quarto, lettera a) del d.lgs.
n. 42/2004 (sent. n. 1216/2014, non appellata), e ciò anche
nei casi in cui i volumi realizzati in incremento rispetto
ai titoli edilizi siano da qualificare volumi tecnici o
siano interrati, secondo la giurisprudenza la predetta
disposizione del Codice dei Beni culturali impedisce la
sanatoria (cfr. TAR Campania – Napoli, VI, n. 1814/2016;
Cons. di Stato, VI, n. 3289/2015; TAR Toscana, III, n.
1216/2014, in una fattispecie che prevedeva modificazioni
della sagoma, ha aderito a tale orientamento).
Le questioni sostanziali da affrontare nella controversia in
esame, come si è accennato, sono essenzialmente due:
a) l’aumento di altezza degli edifici D e G e la sua
rilevanza ostativa al rilascio della sanatoria
paesaggistica;
b) la realizzazione di un volume interrato, sempre ai fini
della possibilità per la società ricorrente di ottenere
siffatta sanatoria.
Quanto al primo aspetto, il Collegio richiama un precedente
analogo (in quel caso la copertura era stata aumentata di 30
cm), sul quale, con sentenza n. 124/2015, la Sezione ha
ritenuto che “il rialzamento riscontrato non sia in realtà
idoneo a escludere l’accertamento di compatibilità
paesaggistica richiesto, non integrando la fattispecie
preclusiva correlata all’aumento di volume di cui all’art.
167, comma 4, invocato dall’amministrazione.”
A tale
conclusione la Sezione è pervenuta non soltanto sulla base
di considerazioni fondante sulle disposizioni urbanistiche
del Comune resistente in quella controversia (che
evidentemente qui non rilevano), bensì tenendo conto anche
“…che l’ulteriore altezza realizzata è stata posta in
essere, pacificamente, per realizzare un intervento di
“risparmio energetico”; tale tipologia di interventi risulta
fortemente incoraggiata dall’ordinamento, realizzando
finalità pubblicistiche di sicura rilevanza” e che “… norme
di legge statale e regionale perseguono l’obiettivo della
realizzazione di edifici che garantiscano un superiore
indice di prestazione energetica (art. 11 del d.lgs. n. 115
del 2008, art. 146 della legge regionale n. 1 del 2005).”
È
stato stabilito quindi, sulla base di tali premesse, che “In
tal quadro è da escludere, al fine di evitare che
l’ordinamento entri in contraddizione con sé stesso, che un
intervento edilizio … ispirato al perseguimento di finalità
che sono riconosciute anche di valenza pubblicistica (non
essendo contestato che l’intervento in parola è funzionale a
perseguire obiettivi di risparmio energetico), possa invece
essere ritenuto illegittimo da un punto di vista
paesaggistico, dovendo in senso contrario la preclusione di
cui all’art. 167, comma 4, del d.lgs. n. 42 del 2004 essere
ritenuta non applicabile in presenza di un intervento che
non costituisce aumento di volume … e che è ispirato a
finalità di contenimento di risparmio energetico.”
Alle su riportate considerazioni, dalle quali il Collegio
non ha motivo di discostarsi, si aggiungano le condivisibili
considerazioni svolte da parte ricorrente sia in ricorso sia
nella memoria depositata il 30.03.2016, in cui si
richiama anche il d.lgs. n. 56/2010, recante modifiche e
integrazioni alla disciplina di cui al decreto n. 115/2008
su menzionato, in attuazione della direttiva 2006/32/CE.
Orbene, l’art. 11 del d.lgs. da ultimo citato, come
modificato dal pure citato successivo d.lgs. del 2010 e
vigente al momento dell’istanza di accertamento di
conformità, prevede, al comma primo, che “Nel caso di
edifici di nuova costruzione, lo spessore delle murature
esterne, delle tamponature o dei muri portanti, superiori ai
30 centimetri, il maggior spessore dei solai e tutti i
maggiori volumi e superfici necessari ad ottenere una
riduzione minima del 10 per cento dell'indice di prestazione
energetica previsto dal decreto legislativo 19.08.2005,
n. 192, e successive modificazioni, certificata con le
modalità di cui al medesimo decreto legislativo, non sono
considerati nei computi per la determinazioni dei volumi,
delle superfici e nei rapporti di copertura, con riferimento
alla sola parte eccedente i 30 centimetri e fino ad un
massimo di ulteriori 25 centimetri per gli elementi
verticali e di copertura e di 15 centimetri per quelli
orizzontali intermedi. Nel rispetto dei predetti limiti è
permesso derogare, nell'ambito delle pertinenti procedure di
rilascio dei titoli abitativi di cui al titolo II del
decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n.
380, a quanto previsto dalle normative nazionali, regionali
o dai regolamenti edilizi comunali, in merito alle distanze
minime tra edifici, alle distanze minime dai confini di
proprietà, alle distanze minime di protezione del nastro
stradale, nonché alle altezze massime degli edifici.”
Il su riportato art. 11 è stato infine abrogato dall’art. 18
del d.lgs. n. 102/2014; l’art. 14 di detto testo normativo
(vigente dal 19.07.2014 ai sensi dell’art. 20, comma
primo) prevede, al comma sesto, che “6. Nel caso di edifici
di nuova costruzione, con una riduzione minima del 20 per
cento dell'indice di prestazione energetica previsto dal
decreto legislativo 19.08.2005, n. 192, e successive
modificazioni, certificata con le modalità di cui al
medesimo decreto legislativo, lo spessore delle murature
esterne, delle tamponature o dei muri portanti, dei solai
intermedi e di chiusura superiori ed inferiori, eccedente ai
30 centimetri, fino ad un massimo di ulteriori 30 centimetri
per tutte le strutture che racchiudono il volume riscaldato,
e fino ad un massimo di 15 centimetri per quelli orizzontali
intermedi, non sono considerati nei computi per la
determinazione dei volumi, delle altezze, delle superfici e
nei rapporti di copertura. Nel rispetto dei predetti limiti
è permesso derogare, nell'ambito delle pertinenti procedure
di rilascio dei titoli abitativi di cui al titolo II del
decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n.
380, a quanto previsto dalle normative nazionali, regionali
o dai regolamenti edilizi comunali, in merito alle distanze
minime tra edifici, alle distanze minime dai confini di
proprietà, alle distanze minime di protezione del nastro
stradale e ferroviario, nonché alle altezze massime degli
edifici. Le deroghe vanno esercitate nel rispetto delle
distanze minime riportate nel codice civile.”
Al di là dalla sussistenza in concreto di tutte le
condizioni previste dalla disposizione testé riportata, ciò
che appare certo è che non può ritenersi legittimo un
diniego di accertamento di conformità basato puramente e
semplicemente sull’aumento dell’altezza dovuto alla
realizzazione di un impianto di riscaldamento a pavimento
(come previsto dalla Convenzione: si veda, in atti, il
capitolato esecutivo delle opere previste, allegato B1,
punto 39; si vedano anche, nel permesso di costruire n.
9/2009 e in quello n. 12/2012, la lettera f) del punto 18
delle avvertenze e prescrizioni generali, che fa obbligo
alla ditta di rispettare la l. n. 10/1991, il cui art. 8
prevede incentivi per il miglioramento, fra l’altro,
dell’efficienza energetica) con conseguente necessità di
aumentare lo spessore dei solai. Oltretutto, l’aumento di
altezza di 25 cm corrisponde al 2% dell’altezza assentita
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 08.06.2016 n. 945 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La Sezione ha ritenuto di discostarsi dalla
giurisprudenza dominante con riguardo ai volumi interrati,
rilevando che “se è del tutto ragionevole che gli incrementi
volumetrici che interessino la superficie siano ex lege
considerati insanabili in quanto, nella normalità,
pregiudizievoli rispetto all’assetto riconoscibile del
territorio antropizzato, altrettanto non lo è il fatto che
allo stesso modo vengano considerati gli spazi ricavati nel
sottosuolo a cui non può essere riconosciuto il medesimo
valore culturale dei luoghi su cui ordinariamente si svolge
la vita umana.”
La Sezione ha quindi aderito, sotto il profilo considerato,
“all’orientamento giurisprudenziale secondo cui la nozione
di volume presa in considerazione dall’art. 167, comma 4,
lett. a), del D.Lgs. 42/2004 non coincide con quella
urbanistica (che implica il consumo di indici e non si
correla necessariamente con una trasformazione visibile ab
externo) ma ha una propria connotazione implicante la
creazione di manufatti fuori terra o la alterazione della
sagoma di quelli già esistenti; con la conseguenza che le
trasformazioni che avvengono nel sottosuolo non possono
essere considerate tout court insuscettibili di sanatoria,
dovendo la relativa rilevanza paesaggistica essere vagliata
caso per caso dagli organi competenti. Peraltro, affermare
la assoluta insanabilità di volumi o superfici interrate può
condurre a risultati incongrui…”.
La circolare del MIBAC n. 33 del 26.06.2009, nel fornire –al
fine dell’applicazione dell’art. 167, comma quarto e comma
quinti, del codice dei Beni culturali– alcune definizioni
sulle quali l’Ufficio legislativo di detto Ministero ha
espresso parere favorevole, chiarisce che per “volumi” si
intende “qualsiasi manufatto costituito da parti chiuse
emergente dal terreno o dalla sagoma di un fabbricato
preesistente indipendentemente dalla destinazione d’uso del
manufatto, ad esclusione dei volumi tecnici”. La nozione
così delineata è formulata in modo da escludere chiaramente
i volumi non emergenti dal terreno.
---------------
4. Per quanto attiene al volume interrato, osserva il
Collegio che la Sezione ha ritenuto (con sentenza n.
338/2015) di discostarsi dalla giurisprudenza dominante con
riguardo ai volumi interrati, rilevando che “se è del tutto
ragionevole che gli incrementi volumetrici che interessino
la superficie siano ex lege considerati insanabili in
quanto, nella normalità, pregiudizievoli rispetto
all’assetto riconoscibile del territorio antropizzato,
altrettanto non lo è il fatto che allo stesso modo vengano
considerati gli spazi ricavati nel sottosuolo a cui non può
essere riconosciuto il medesimo valore culturale dei luoghi
su cui ordinariamente si svolge la vita umana.”
La Sezione ha quindi aderito, sotto il profilo considerato,
“all’orientamento giurisprudenziale secondo cui la nozione
di volume presa in considerazione dall’art. 167, comma 4,
lett. a), del D.Lgs. 42/2004 non coincide con quella
urbanistica (che implica il consumo di indici e non si
correla necessariamente con una trasformazione visibile ab
externo) ma ha una propria connotazione implicante la
creazione di manufatti fuori terra o la alterazione della
sagoma di quelli già esistenti (TAR Brescia sez. I,
08/01/2015 n. 14; v. TAR Brescia Sez. I 15.10.2014 n.
1057; TAR Napoli Sez. VII 10.02.2014 n. 930; TAR
Torino Sez. II 17.12.2011 n. 1310; circolare del
Ministero per i Beni e le Attività Culturali n. 33 del 26.06.2009); con la conseguenza che le trasformazioni che
avvengono nel sottosuolo non possono essere considerate tout
court insuscettibili di sanatoria, dovendo la relativa
rilevanza paesaggistica essere vagliata caso per caso dagli
organi competenti.
Peraltro, affermare la assoluta insanabilità di volumi o
superfici interrate può condurre a risultati incongrui…”.
La circolare del MIBAC n. 33 del 26.06.2009, nel fornire
–al fine dell’applicazione dell’art. 167, comma quarto e
comma quinti, del codice dei Beni culturali– alcune
definizioni sulle quali l’Ufficio legislativo di detto
Ministero ha espresso parere favorevole, chiarisce che per
“volumi” si intende “qualsiasi manufatto costituito da parti
chiuse emergente dal terreno o dalla sagoma di un fabbricato
preesistente indipendentemente dalla destinazione d’uso del
manufatto, ad esclusione dei volumi tecnici”. La nozione
così delineata è formulata in modo da escludere chiaramente
i volumi non emergenti dal terreno.
In applicazione dei su esposti principi, la doglianza in
esame va accolta.
5. La fondatezza delle censure esaminate comporta
l’illegittimità del diniego di accertamento di compatibilità
paesaggistica e contestuale ordine di demolizione, con
assorbimento delle ulteriori doglianze formulate, stante
l’assenza del presupposto (aumento di volumetria e altre
difformità rilevanti) sul quale l’amministrazione ha basato
l’applicazione dell’art. 167, comma quarto, del codice dei
Beni culturali.
È superfluo sottolineare che le altre
difformità (diverso posizionamento di alcuni elementi
esterni), pur indicate nel provvedimento impugnato, non sono
tali da impedire la sanatoria paesaggistica, come per altro
sembra aver ritenuto la stessa Soprintendenza che ha
motivato il provvedimento in autotutela (nota del 17.06.2015) con riguardo al solo aumento di volumetria.
In conclusione, il ricorso va accolto e, per l’effetto,
l’ordinanza e gli altri atti impugnati devono essere
annullati
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 08.06.2016 n. 945 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI:
Tarsu con verifica in loco e contraddittorio.
La procedura di accertamento della tassa sui rifiuti deve
essere ancorata, in primis, a criteri fattuali, che
presuppongono verifiche in loco e concreto appuramento delle
condizioni reali; di contro, il potere comunale di avvalersi
di presunzioni semplici ai fini del predetto accertamento
deve essere utilizzato in via residuale, nel caso in cui il
contribuente si dimostri scarsamente collaborativo con
l'ente.
All'uopo, è onere dell'ente comunale stesso attivare un
confronto preventivo con il contribuente, allorché intenda
accertare una maggiore imponibilità di talune aree ai fini
dell'imposta sui rifiuti, in difformità rispetto a quanto
dichiarato spontaneamente dalla parte; il confronto
preventivo è necessario proprio per rispettare la procedura
di accertamento prevista dall'articolo 73 del Dlgs 507/1993,
volta a parametrare la pretesa tributaria alle reali ed
effettive condizioni delle aree su cui viene esercitata.
Sono le conclusioni che si leggono nella
sentenza 03.06.2016 n. 451/02/16
della Ctp di Frosinone (Presidente Costantino Ferrara,
Relatore Giorgio Pacetti).
La vertenza prende le mosse dal ricorso proposto da una srl
del frusinate, contro degli avvisi di accertamento Tarsu
relativi alle annualità dal 2010 al 2013, emessi dal
concessionario del servizio di accertamento e riscossione
tributi per conto del comune di Ferentino (Fr).
La società
lamentava il fatto che, nonostante le ripetute istanze
rivolte all'ente, invitandolo a disporre una verifica
diretta in loco, si era vista recapitare direttamente gli
accertamenti, basati su elementi presuntivi e non fattuali.
In tal senso, deve tenersi presente che l'articolo 73 del dlgs 507/1993, rubricato proprio «poteri dei comuni»,
individua una sequenza procedimentale che l'ente deve
seguire per condurre l'accertamento.
Al co. 1, la norma
concede all'ufficio comunale la possibilità di «rivolgere al
contribuente motivato invito a esibire o trasmettere atti e
documenti, comprese le planimetrie dei locali e delle aree
scoperte, e a rispondere a questionari, relativi a dati e
notizie specifici, da restituire debitamente sottoscritti».
L'accertamento presuntivo, di contro, è previsto al co. 3
della stessa norma, da utilizzarsi tuttavia «in caso di
mancata collaborazione del contribuente od altro impedimento
alla diretta rilevazione».
Per tali ragioni, la Ctp ha
ritenuto che la mancata attivazione di un confronto
preventivo col contribuente, unitamente all'inerzia
dell'amministrazione a effettuare verifiche in loco,
dovessero leggersi come questioni invalidanti.
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
( ) Appare dirimente, ai fini della soluzione della presente
controversia, analizzare il comportamento tenuto
dall'amministrazione e dal contribuente nella formazione
della pretesa tributaria, alla luce delle menzionate norme
che regolano i poteri degli enti comunali (o di chi agisca
per lor conto) nell'ambito dell'accertamento della Tarsu.
In particolare, l'articolo 73 del dlgs 507/1993, rubricato
proprio «poteri dei comuni», individua una sequenza
procedimentale che l'ente deve seguire «ai fini del
controllo dei dati contenuti nelle denunce o acquisiti in
sede di accertamento d'ufficio tramite rilevazione della
misura e destinazione delle superfici imponibili».
( )
Da ultimo, al comma 3, la norma concede un'ulteriore
possibilità all'ente, da utilizzarsi «in caso di mancata
collaborazione del contribuente o altro impedimento alla
diretta rilevazione, l'accertamento può essere effettuato in
base a presunzioni semplici aventi i caratteri previsti
dall'articolo 2729 del codice civile».
Nel caso di specie, tuttavia, è stato lo stesso contribuente
a sollecitare più volte l'amministrazione, affinché fosse
disposta una verifica diretta, volta ad accertare
l'effettiva (ed eventuale) imponibilità delle aree in
parola; all'uopo, al ricorso vengono allegate le varie
istanze presentate, a cui non è stato dato alcun seguito e,
sul punto, nulla controdeduce la società concessionaria, che
non contesta né smentisce tale fatto, limitandosi a dire che
la norma invocata utilizza il termine «può», indicando
dunque una «facoltà» per l'ente comunale e non anche un
obbligo.
Invero, la tesi del concessionario sul punto appare
pretestuosa, poiché se fosse possibile per il comune
disattendere in toto le modalità accertative «ordinarie»,
basate su una effettiva verifica e valutazione dei locali e
delle aree, per virare automaticamente sull'accertamento
«per presunzioni», stabilito dal comma 3 del citato articolo
73, il contribuente si troverebbe di fatto ingabbiato in una
situazione in cui dover sottostare alla pretesa comunale,
così come determinata in maniera unilaterale e automatica
dall'ente stesso.
( )
In ragione di tale premessa, devono ritenersi fondate le
doglianze relative alla mancata attivazione di un confronto
preventivo tra la società e l'amministrazione, volta
all'accertamento della reale ed effettiva consistenza della
materia imponibile da ricondurre a tassazione, alla carenza
di motivazione degli avvisi, invero sforniti di elementi
sufficienti a sorreggere la pretesa, e violazione delle
norme che regolano le modalità di accertamento della Tarsu,
in particolare del citato articolo 73. ( )
(articolo ItaliaOggi Sette del 27.06.2016). |
APPALTI:
La Corte di Giustizia interviene ancora in tema di requisiti
di partecipazione: estensione dell’avvalimento e rigorosa
predeterminazione delle cause di esclusione.
---------------
Appalti pubblici – Requisiti di partecipazione – Soggetto
terzi – Avvalimento – Estensione.
Appalti pubblici – Requisiti di partecipazione – Esclusione
– Obblighi – Rigorosa predeterminazione – Necessità.
Gli artt. 47 e 48 della direttiva
2004/18/CE, relativa al coordinamento delle procedure di
aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di
forniture e di servizi, devono essere interpretati nel senso
che non ostano ad una normativa nazionale che autorizza un
operatore economico a fare affidamento sulle capacità di uno
o più soggetti terzi per soddisfare i requisiti minimi di
partecipazione ad una gara d'appalto che tale operatore
soddisfa solo in parte.
Il principio di parità di trattamento e l'obbligo di
trasparenza devono essere interpretati nel senso che ostano
all'esclusione di un operatore economico da una procedura di
aggiudicazione di un appalto pubblico in seguito al mancato
rispetto, da parte di tale operatore, di un obbligo che non
risulta espressamente dai documenti relativi a tale
procedura o dal diritto nazionale vigente, bensì da
un'interpretazione di tale diritto e di tali documenti
nonché dal meccanismo diretto a colmare, con un intervento
delle autorità o dei giudici amministrativi nazionali, le
lacune presenti in tali documenti. In tali circostanze, i
principi di parità di trattamento e di proporzionalità
devono essere interpretati nel senso che non ostano al fatto
di consentire all'operatore economico di regolarizzare la
propria posizione e di adempiere tale obbligo entro un
termine fissato dall'amministrazione aggiudicatrice.
---------------
Nell’affrontare una questione sollevata dal Consiglio di
giustizia amministrativa del 10.12.2014, la sesta sezione
della Corte europea ribadisce due indicazioni di apertura in
tema di avvalimento nonché di estensione del favor
partecipationis, contrario al proliferare delle cause di
esclusione nei diversi bandi.
Sotto il primo profilo secondo la giurisprudenza
comunitaria, ribadita dalla sentenza e conforme
all’obiettivo dell’apertura degli appalti pubblici alla
concorrenza nella misura più ampia possibile, la direttiva
2004/18 consente il cumulo delle capacità di più operatori
economici per soddisfare i requisiti minimi di capacità
imposti dall’amministrazione aggiudicatrice, purché alla
stessa si dimostri che il candidato o l’offerente che si
avvale delle capacità di uno o di svariati altri soggetti
disporrà effettivamente dei mezzi di questi ultimi che sono
necessari all’esecuzione dell’appalto. Ciò viene ribadito
anche nell’ottica di facilitare l’accesso delle piccole e
medie imprese agli appalti pubblici.
In termini delimitativi di tale regola generale la stessa
Corte ha tuttavia rilevato che non si può escludere
l’esistenza di lavori che presentino peculiarità tali da
richiedere una determinata capacità che non si ottiene
associando capacità inferiori di più operatori. Solo in
un’ipotesi del genere l’amministrazione aggiudicatrice
potrebbe legittimamente esigere che il livello minimo della
capacità in questione sia raggiunto da un operatore
economico unico o, eventualmente, facendo riferimento ad un
numero limitato di operatori economici, laddove siffatta
esigenza sia connessa e proporzionata all’oggetto
dell’appalto di cui trattasi. La Corte (nella giurisprudenza
richiamata in sentenza) ha peraltro precisato che, poiché
tale ipotesi costituisce una situazione eccezionale, i
requisiti in questione non possono assurgere a regola
generale nella normativa nazionale. Il caso di specie,
secondo la Cge, fuoriesce da tali ristretti ambiti
derogatori della regola generale.
Sotto il secondo profilo, la Corte coglie l’occasione per
ribadire che tutte le condizioni e le modalità della
procedura di aggiudicazione debbono essere formulate in
maniera chiara, precisa e univoca nel bando di gara o nel
capitolato d’oneri, così da permettere, da un lato, a tutti
gli offerenti ragionevolmente informati e normalmente
diligenti di comprenderne l’esatta portata e d’interpretarle
allo stesso modo e, dall’altro, all’amministrazione
aggiudicatrice di essere in grado di verificare
effettivamente se le offerte degli concorrenti rispondano ai
criteri che disciplinano l’appalto in questione.
In tale ottica, gli stessi principi di trasparenza e di
parità di trattamento che disciplinano tutte le procedure di
aggiudicazione di appalti pubblici richiedono che le
condizioni sostanziali e procedurali relative alla
partecipazione ad un appalto siano chiaramente definite in
anticipo e rese pubbliche, in particolare gli obblighi a
carico degli offerenti, affinché questi ultimi possano
conoscere esattamente i vincoli procedurali ed essere
assicurati del fatto che gli stessi requisiti valgono per
tutti i concorrenti.
Si tratta di una sostanziale conferma della bontà della
regola, contenuta nell’art. 46, comma 1-bis, del codice
appalti previgente (d.lgs. 12.04.2006, n. 163), che ha
formalizzato tali indicazioni in termini più facilmente
applicabili (Corte
di giustizia U.E., Sez. VI,
sentenza 02.06.2016 C-27/15 -
commento tratto da www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In base alla normativa e allo stato della
giurisprudenza al tempo dell’atto impugnato, la
ricostruzione di un rudere non costituisce mai un intervento
di restauro e risanamento conservativo ma invece:
a) una ristrutturazione edilizia allorché il manufatto sia
completo di copertura e strutture orizzontali in modo che
sia possibile definirne esattamente la consistenza;
b) un intervento di nuova costruzione nell'ipotesi in cui
l’organismo edilizio sia dotato di sole mura perimetrali ma
privo di copertura, poiché in tal caso mancano gli elementi
necessari e sufficienti a stabilire le dimensioni e le
caratteristiche dell'edificio da recuperare.
---------------
Il ricorso è
infondato.
Va premesso che le questioni che il Collegio è chiamato a
risolvere si identificano, da un lato, nella individuazione
del tipo di intervento per il quale è stato chiesto il
permesso di costruire e del regime urbanistico-edilizio
dell’area di intervento e, dall’altro, nella conseguente
verifica della compatibilità del tipo di intervento previsto
con il regime urbanistico dell’area così come individuato.
Il tutto nel presupposto che:
a) il rilascio del permesso di costruire costituisce per
l’amministrazione comunale l’oggetto di un vero e proprio
atto dovuto subordinato alla sola preventiva (positiva)
verifica della conformità del progetto presentato alla
normativa urbanistico-edilizia disciplinante l’edificazione
nell’area di intervento (e in questa prospettiva sono
inammissibili le censure di disparità di trattamento o
eccesso di potere in senso proprio, che presuppongono
un’attività amministrativa discrezionale, così come
infondate risultano le censure relative al difetto di
motivazione e all’omissione di garanzie partecipative
formulate sia in riferimento alla norma generale
dell’articolo 3 della legge 07.08.1990, n. 241 che in
rapporto alla norma dell’articolo 10-bis, dato che, a
prescindere dalla maggiore o minore ampiezza degli enunciati
motivatori, se risulta la contrarietà del progetto alla
normativa di riferimento, il diniego costituisce atto dovuto
con tutte le relative conseguenze);
b) il comune di Formia ha denegato il permesso nel
presupposto che l’intervento progettato, che esso ha
qualificato come di “nuova costruzione”, fosse
incompatibile con la disciplina dettata dagli articoli 19 e
36 delle n.t.a. del P.R.G. comunale che nella area di
intervento consentirebbe esclusivamente interventi di
manutenzione ordinaria o straordinaria.
Ciò premesso può darsi risposta alla questioni sopra
sintetizzate.
La prima attiene –come accennato– alla qualificazione
dell’intervento proposto dalla ricorrente.
Al riguardo in estrema sintesi va rilevato che la
qualificazione di tale intervento come di “nuova
costruzione” prospettata dall’atto impugnato è corretta,
non essendo condivisibile l’assunto del ricorso secondo cui
si tratterebbe di intervento di restauro e risanamento
conservativo.
Secondo la definizione dell’articolo 3, lettera c) del
D.P.R. 06.06.2001, n. 380 il restauro e risanamento
conservativo comprende “gli interventi edilizi rivolti a
conservare l'organismo edilizio e ad assicurarne la
funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che,
nel rispetto degli elementi tipologici, formali e
strutturali dell'organismo stesso, ne consentano
destinazioni d'uso con essi compatibili. Tali interventi
comprendono il consolidamento, il ripristino e il rinnovo
degli elementi costitutivi dell'edificio, l'inserimento
degli elementi accessori e degli impianti richiesti dalle
esigenze dell'uso, l'eliminazione degli elementi estranei
all'organismo edilizio”. Da questa definizione si ricava
agevolmente che il presupposto di un intervento di restauro
e risanamento conservativo è un manufatto edilizio (“l’organismo
edilizio”) completo di tutti i suoi elementi
costitutivi, primi tra tutti la muratura perimetrale e la
copertura, che permettono di stabilire superfici, volumi e
sagoma.
Dalla relazione tecnica allegata alla istanza di permesso di
costruire risulta che il manufatto è stato distrutto
dall’esercito tedesco durante la sua ritirata nella seconda
guerra mondiale (in tal periodo il manufatto fu adattato a
uso caserma per la sua favorevole posizione) ed esso è
descritto come segue: “l’antico fabbricato rurale si
presenta alla stato attuale come una costruzione
dell’altezza di circa un piano, priva di copertura e con
alcune porzioni delle murature verticali crollate per il
passare del tempo e l’incuria, cui è addossato il piccolo
manufatto bellico in cemento armato coperto con una pesante
soletta piena in stato di avanzato degrado”. I relativi
elaborati grafici e la documentazione fotografica (allegati
4 e 5 al ricorso) confermano che la qualificazione del
manufatto della ricorrente come “rudere” da parte
dell’atto impugnato è perfettamente rispondente alla realtà.
In base alla normativa e allo stato della giurisprudenza al
tempo dell’atto impugnato, la ricostruzione di un rudere non
costituisce mai un intervento di restauro e risanamento
conservativo ma invece:
a) una ristrutturazione edilizia allorché il manufatto sia
completo di copertura e strutture orizzontali in modo che
sia possibile definirne esattamente la consistenza;
b) un intervento di nuova costruzione nell'ipotesi in cui
l’organismo edilizio sia dotato di sole mura perimetrali ma
privo di copertura, poiché in tal caso mancano gli elementi
necessari e sufficienti a stabilire le dimensioni e le
caratteristiche dell'edificio da recuperare (Consiglio di
Stato, IV, 17.02.2014 n. 735).
Nella fattispecie, quindi, quanto progettato dalla
ricorrente costituiva indiscutibilmente un intervento di
nuova costruzione dato che il manufatto era privo non solo
di copertura ma anche in parte della muratura perimetrale.
La ricorrente nella memoria depositata in prossimità
dell’udienza pubblica ha invocato le modifiche dell’articolo
3 D.P.R. n. 380 citato introdotte, in epoca successiva ai
fatti di causa, dall'art. 30, comma 1, lett. a), D.L.
21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla
legge 09.08.2013, n. 98, che qualificano come interventi di
ristrutturazione “quelli volti al ripristino di edifici,
o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti,
attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile
accertarne la preesistente consistenza”.
Va però rilevato che queste modifiche confermano la
correttezza dell’inquadramento dell’intervento da parte
dell’atto impugnato, dato che esse sono intervenute
successivamente al medesimo e quindi non solo sono
inapplicabili alla controversia all’esame ma confermano che,
prima di esse, la ricostruzione di un rudere, cioè dei resti
di un organismo edilizio privo in tutto o in parte di
copertura e/o strutture perimetrali, costituisse un
intervento di nuova costruzione.
Per quanto concerne il regime urbanistico dell’area, l’atto
impugnato reca un riferimento agli articoli 19 e 36 delle
n.t.a. del P.R.G. comunale.
La prima previsione stabilisce testualmente che “nel
presente testo vengono recepite le previsioni e le norme di
destinazione d’uso … relative alla salvaguardia delle coste
ai sensi della legge 02.07.1974, n. 30 e successive
modifiche e integrazioni …”. La seconda si riferisce
alle sottozone F; in particolare da quel che è dato
comprendere l’area di progetto è classificata come sottozona
F3, parco pubblico e parco pubblico di interesse
paesaggistico e archeologico, in cui non è ammessa nuova
edificazione ma soltanto la manutenzione ordinaria e
straordinaria delle costruzioni esistenti.
In ricorso si afferma che l’articolo 19 delle n.t.a. deve
ritenersi ormai abrogato dato che richiama una normativa,
quella sulla tutela delle coste, che è stata superata dalle
disposizioni della cd. Legge Galasso e dalla disciplina
recata dai piani paesistici regionali (che ammettono nella
aree costiere gli interventi di restauro e risanamento
conservativo).
Quanto all’articolo 36 si afferma che i relativi vincoli da
un lato sono decaduti, risalendo il P.R.G. comunale al 1980,
e dall’altro che gli stessi si porrebbero in contrasto con
le previsioni del piano territoriale paesistico regionale
adottato nel 2007.
Le argomentazioni della ricorrente sono infondate.
Va premesso che la circostanza che l’articolo 5, comma 42,
della legge regionale 13.08.2011, n. 10 abbia abrogato la
legge regionale n. 30 del 1974 non rileva nel giudizio dato
che si tratta di abrogazione successiva alla data dell’atto
impugnato.
Ciò premesso va rilevato che anche se si ritenesse corretta
la tesi della ricorrente secondo cui le previsioni di tale
legge (o meglio quelle della legge regionale 25.10.1976, n.
52, integrative e modificative della legge n. 30 del 1974)
non sarebbero applicabili in quanto dovrebbero trovare
invece applicazione quelle del piano paesaggistico del 1998
che consentirebbero un intervento del tipo di quello
progettato, quest’ultimo sarebbe comunque inammissibile
perché non consentito dall’articolo 36 delle n.t.a. al
P.R.G., cioè delle previsioni che in zona F3 vietano nuove
edificazioni.
Il vincolo dell’articolo 36 deve d’altra parte intendersi
tuttora efficace dato che il vincolo a parco non costituisce
un vincolo di preordinazione all’esproprio ma un vincolo
conformativo (Consiglio di Stato, sez. V, 11/06/2013, n.
3234, Consiglio di Stato, sez. IV, 28/12/2012, n. 6700) come
tale non soggetto a decadenza ed efficace a tempo
indeterminato.
L’affermazione secondo cui l’articolo 36 sarebbe stato reso
inefficace dal piano territoriale paesistico adottato nel
2007 o con esso si porrebbe in contrasto risulta poco
chiara. L’articolo 23-bis della legge regionale 06.08.1998,
n. 24 infatti nelle more della definitiva approvazione del
P.T.P.R. si limita a vietare “interventi che siano in
contrasto con le prescrizioni di tutela previste nel PTPR
adottato” ma non prevede certo una indiscriminata
decadenza delle previsioni dei piani comunali e della
normativa da questi ultimi prevista relativa
all’edificazione che pertanto continua ad applicarsi salvo
che si ponga in contrasto (cioè risulti meno restrittiva)
con la normativa di tutela del P.T.P.R.; nella fattispecie
non sussiste all’evidenza alcun contrasto dato che la
normativa comunale è più restrittiva di quella del P.T.P.R.
(che infatti la ricorrente invoca per sostenere
l’inapplicabilità di quella comunale).
In definitiva, quindi, il diniego di permesso di costruire
impugnato è giustificato dalla contrarietà del progetto
della ricorrente alle previsioni dell’articolo 36 n.t.a.
P.R.G. che vietano in zona F3 interventi di nuova
costruzione.
Il ricorso va quindi respinto. Le spese di giudizio seguono
la soccombenza e sono liquidate in dispositivo
(TAR Lazio-Latina,
sentenza 01.06.2016 n. 355 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Mutamento di destinazione d'uso giuridicamente rilevante.
Il mutamento di destinazione d'uso
giuridicamente rilevante è soltanto quello tra categorie
funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, da
individuarsi tenendo conto della destinazione indicata
nell'ultimo titolo abilitativo relativo all'immobile ovvero
della sua tipologia, nonché delle attitudini funzionali che
il bene stesso viene ad acquisire in caso di esecuzione di
nuovi lavori.
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MASSIMA
6. Con riguardo, poi, al mutamento di destinazione
d'uso, il gravame denuncia una sovrapposizione che il
Tribunale avrebbe effettuato tra questo ed i lavori di
manutenzione ordinaria di cui alla comunicazione del
06/11/2008; orbene, la tesi non può essere accolta.
Premesso che, anche in questo caso, la doglianza si risolve
in un inammissibile vizio di motivazione, osserva comunque
il Collegio che lo stesso non trova fondamento; l'ordinanza,
infatti, ha prima rilevato che i lavori, denunciati come di
manutenzione ordinaria, tali non erano attesa la loro
portata (già richiamata e, peraltro, non contestata), quindi
ha sottolineato che i medesimi interventi costituivano
-almeno in termini di fumus- un ulteriore momento di
quella trasformazione d'uso che i ricorrenti stavano ponendo
in essere.
Trasformazione che poi gli stessi contestano, in questa
sede, sul presupposto che l'isola di Palmarola sarebbe priva
di ogni opera di urbanizzazione, sì da rendere impossibile
ogni aggravio del carico urbanistico; tesi palesemente
inammissibile, poiché -ancora- fondata su elementi di fatto
che questa Corte non è chiamata a valutare.
Al riguardo, peraltro, occorre ribadire che, per costante e
condiviso indirizzo di questa Corte, «la
destinazione d'uso è un elemento che qualifica la
connotazione dell'immobile e risponde agli scopi di
interesse pubblico perseguiti dalla pianificazione. Essa,
infatti, individua il bene sotto l'aspetto funzionale,
specificando le destinazioni di zona fissate dagli strumenti
urbanistici in considerazione della differenziazione
infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata
dalla normativa sugli standard, diversi per qualità e
quantità proprio a seconda della diversa destinazione di
zona. Soltanto gli strumenti di pianificazione, generali ed
attuativi, possono decidere, fra tutte quelle possibili, la
destinazione d'uso dei suoli e degli edifici, poiché alle
varie e diverse destinazioni, in tutte le loro possibili
relazioni, devono essere assegnate -proprio in sede
pianificatoria- determinate qualità e quantità di servizi.
L'organizzazione del territorio comunale e la gestione dello
stesso vengono quindi realizzate attraverso il coordinamento
delle varie destinazioni d'uso e le modifiche non consentite
di queste incidono negativamente sull'organizzazione dei
servizi, alterando appunto la possibilità di una gestione
ottimale del territorio»
(Sez. 3, n. 38005 del 16/05/2013, Farieri, Rv. 257689).
Ciò dato, il mutamento di destinazione
d'uso giuridicamente rilevante è soltanto quello tra
categorie funzionalmente autonome dal punto di vista
urbanistico, da individuarsi tenendo conto della
destinazione indicata nell'ultimo titolo abilitativo
relativo all'immobile ovvero della sua tipologia, nonché
delle attitudini funzionali che il bene stesso viene ad
acquisire in caso di esecuzione di nuovi lavori
(Sez. 3, n. 39897 del 24/06/2014, Filippi, Rv. 260422);
esattamente quel che è dato ravvisare -quantomeno in questa
fase cautelare- nella trasformazione di un locale da grotta
ipogea ad immobile abitabile, come ben evidenziato ancora
nell'ordinanza impugnata (tratto da www.lexambiente.it -
Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 27.05.2016 n. 22269). |
APPALTI:
Interdittiva antimafia sprint. La misura può
anticipare l'accertamento penale. Lo hanno ribadito i
giudici del Consiglio di stato: bastano rilievi sintomatici.
La misura dell'interdittiva antimafia può essere emessa
dalla Amministrazione in una logica di anticipazione della
soglia di difesa dell'ordine pubblico economico e non
postula, come tale, l'accertamento in sede penale di uno o
più reati che attestino il collegamento o la contiguità
dell'impresa con associazioni di tipo mafioso.
È quanto hanno ribadito i giudici della III Sez. del
Consiglio di Stato con la
sentenza
26.05.2016 n. 2232.
Secondo i supremi giudici amministrativi, anche in ossequio
ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, la misura
dell'interdittiva può perciò, basarsi «anche sul solo
rilievo di elementi sintomatici che dimostrino il concreto
pericolo (anche se non la certezza) di infiltrazioni della
criminalità organizzata nell'attività imprenditoriale (Cons. st., sez. III,
01.09.2014, n. 4441)».
Nel caso sottoposto all'attenzione del Consiglio di stato
emergeva che l'impresa con la quale si era associata la Alfa
era gestita di fatto da un soggetto il quale, come accertato
in sede penale, concordava con presunti gruppi criminali le
offerte da presentare, al fine di favorire gli interessi di
quel sodalizio mafioso, nell'ambito di relazioni illecite e
inquinate dallo scopo di alterare le aste e di indirizzare
l'assegnazione degli appalti a imprese contigue alla
predetta organizzazione.
Ciò attestava, secondo i giudici, con valenza indiziaria
particolarmente significativa, la partecipazione al vincolo
collusivo accertato in sede penale a carico della prima
impresa, o, in ogni caso, il rischio che la società
destinataria dell'interdittiva in esame venisse condizionata
o inquinata da illeciti accordi intesi a favorire la
criminalità.
Ai giudici di palazzo Spada veniva chiesto di esprimersi,
quindi, circa la legittimità dell'interdittiva antimafia
emessa dalla Prefettura nei confronti della società Alfa, in
virtù della sopravvenuta assoluzione di Caio il cui ruolo,
quale titolare dell'omonima impresa individuale, era stato
giudicato, nell'originaria valutazione di contiguità mafiosa
della Alfa, significativo del presupposto pericolo di
permeabilità dell'impresa alle infiltrazioni della
criminalità organizzata.
Il Tar aveva giudicato legittima l'interdittiva controversa,
sulla base della valorizzazione del ruolo assunto dal
fratello di Caio «quale soggetto condannato, nel medesimo
processo, per il reato di associazione mafiosa e
identificato quale effettivo amministratore dell'impresa
(solo) formalmente intestata al fratello ed implicato, come
tale, in un vincolo di collusione con il “clan dei
casalesi”, finalizzato all'alterazione delle procedure per
l'affidamento di appalti pubblici»
(articolo ItaliaOggi Sette del 04.07.2016).
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MASSIMA
3.- Deve premettersi che la misura
dell’interdittiva antimafia può essere emessa dalla
Amministrazione in una logica di anticipazione della soglia
di difesa dell’ordine pubblico economico e non postula, come
tale, l’accertamento in sede penale di uno o più reati che
attestino il collegamento o la contiguità dell’impresa con
associazioni di tipo mafioso
(Cons. St., sez. III, 03.05.2016, n. 1743; sez. III,
15.09.2014, n. 4693), potendo, perciò,
basarsi anche sul solo rilievo di elementi sintomatici che
dimostrino il concreto pericolo (anche se non la certezza)
di infiltrazioni della criminalità organizzata nell’attività
imprenditoriale
(Cons. St., sez. III, 01.09.2014, n. 4441).
4.- In considerazione dei principi già affermati da questa
Sezione (cfr. sent. 03.05.2016, n. 1743), rileva il Collegio
che l’interdittiva controversa risulta emanata in conformità
ai relativi parametri valutativi e deve intendersi immune
dai vizi ad essa ascritti dalla società appellante. |
ESPROPRIAZIONE:
La p.a. ristora sempre l'espropriato. Tar
Piemonte: illegittimità non elimina dovere.
La declaratoria di illegittimità dell'art. 43 dpr 08.06.2001
n. 327, non elimina il dovere dell'Amministrazione di
ristorare i proprietari espropriati del pregiudizio
cagionato dall'occupazione sine titulo e dalla irreversibile
trasformazione dell'ente.
A rimarcarlo sono stati i giudici della I Sez. del
TAR Piemonte con la
sentenza
26.05.2016 n. 747.
Secondo i giudici amministrativi torinesi resta pertanto
fermo il dovere dell'Amministrazione o di raggiungere un
accordo transattivo con gli interessati che determini il
definitivo trasferimento della proprietà dell'immobile,
accompagnandosi esso anche al doveroso risarcimento del
danno da occupazione illegittima, o di procedere
all'adozione di un nuovo provvedimento di acquisizione
sanante ai sensi del sopravvenuto art. 42-bis T.u. approvato
con dpr n. 327 del 2001.
Il Tar ha, poi, affermato che l'obbligo giuridico delle
amministrazioni intimate consiste nel far venir meno
l'occupazione sine titulo dei terreni di proprietà di un
soggetto privato e di adeguare la situazione di fatto a
quella di diritto, «restituendo l'immobile al legittimo
titolare dopo aver demolito quanto ivi realizzato, atteso
che la realizzazione dell'opera pubblica sul fondo
illegittimamente occupato costituisce un mero fatto, non in
grado di assurgere a titolo dell'acquisto e come tale
inidoneo a determinare il trasferimento della proprietà, che
come detto può dipendere solo da un formale atto di
acquisizione dell'Amministrazione (sul punto, da ultimo Tar
Palermo sez. II, 11.01.2013, n. 24; Consiglio di stato,
sez. IV, n. 4833/2009 e n. 676/2011)».
Altro obbligo della p.a. sarà quello di risarcire al
proprietario il danno da questi sofferto per il mancato
godimento dell'immobile di sua proprietà per tutto il
periodo di occupazione illegittima, decorrente dal giorno
successivo a quello di scadenza del termine di occupazione
temporanea d'urgenza fino all'effettivo rilascio.
Nel caso sottoposto all'attenzione dei giudici piemontesi,
poiché il Comune aveva comunque manifestato in giudizio
l'intento di acquisire le aree, è sembrato ai giudici
indispensabile, pronunciare una condanna che imponga
innanzitutto all'amministrazione di determinarsi in tempi
certi, facendo così cessare l'illecito permanente.
È stato, quindi, ordinato all'amministrazione, entro
sessanta giorni dalla comunicazione della sentenza, di
provvedere alla restituzione delle aree, previa riduzione in
pristino delle medesime, ovvero alla loro definitiva
acquisizione ai sensi dell'art. 42-bis del dpr 327/2001
(articolo ItaliaOggi Sette del 04.07.2016).
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MASSIMA
2) Ritiene il Collegio di dover precisare, in relazione
alle domande formulate da parte ricorrente, che il presente
ricorso rientra nella giurisdizione del Giudice
Amministrativo: la Corte di Cassazione ha infatti affermato
che “rientrano nella giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo le controversie, anche
di natura risarcitoria, relative ad occupazioni illegittime
preordinate all'espropriazione, attuate in presenza di un
concreto esercizio del potere ablatorio, riconoscibile per
tale in base al procedimento svolto ed alle forme adottate,
in consonanza con le norme che lo regolano, pur se poi
l'ingerenza nella proprietà privata e la sua utilizzazione,
nonché l'irreversibile trasformazione della stessa, siano
avvenute senza alcun titolo che le consentiva.”
(Cass. SSUU 7938/2013).
Nel caso di specie è indubbio che vi sia stata una ben
chiara (e persino legittima) iniziale manifestazione di
potere ablatorio, non portata a termine secondo i tempi
prescritti nell’ambito del procedimento; è quindi evidente
che si è protratta una ingerenza nella proprietà privata,
nonché realizzata una trasformazione delle aree, senza
titolo, e tuttavia come conseguenza di una procedura
ablatoria debitamente iniziata e di un successivo mancato
esercizio delle prerogative pubblicistiche, indispensabili
al completamento della stessa.
La controversia,
infine, oltre ad appartenere, per le
ragioni evidenziate, quanto all’occupazione illegittima alla
giurisdizione del GA, rientra tra le ipotesi di
giurisdizione esclusiva di quest’ultimo, prevista dall’art.
133 lett. g) del c.p.a., nel cui ambito è dato al giudice
anche pronunciare le cosiddette “condanne pubblicistiche”,
e quindi condannare l’amministrazione ad adottare, ove
necessario, un provvedimento, con l’unico limite, di cui
all’art. 34, co. 2, c.p.a., di non potersi esprimere su
poteri non ancora esercitati.
3) I ricorrenti hanno chiesto, in via principale,
l’annullamento del decreto di acquisizione ex art. 43 DPR
327/2001. Proprio perché ad essere dichiarata
incostituzionale è stata la stessa disposizione di legge che
fonda ed attribuisce il potere sfociato nell'adozione del
provvedimento impugnato, il vizio che ne scaturisce è quello
previsto dall'art. 21-septies della legge n. 241 del 1990,
ossia il difetto assoluto di attribuzione, presidiato dalla
sanzione della nullità dell'atto adottato a tutela di un
interesse generale all'eliminazione dall'ordinamento di
fattispecie pubblicistiche radicalmente in contrasto con lo
stesso.
In tale senso deve pertanto concludersi per l'accoglimento
della domanda, con declaratoria tuttavia non della sola
illegittimità, ma della nullità del provvedimento impugnato.
4) Vengono quindi in esame la domanda restitutoria e di
risarcimento dei danni.
4.1 La declaratoria di illegittimità dell'art. 43 d.p.r.
08.06.2001 n. 327, non elimina il dovere
dell'Amministrazione di ristorare i proprietari espropriati
del pregiudizio cagionato dall'occupazione sine titulo
e dalla irreversibile trasformazione dell'ente.
Resta pertanto fermo il dovere dell'Amministrazione o di
raggiungere un accordo transattivo con gli interessati che
determini il definitivo trasferimento della proprietà
dell'immobile, accompagnandosi esso anche al doveroso
risarcimento del danno da occupazione illegittima, o di
procedere all'adozione di un nuovo provvedimento di
acquisizione sanante ai sensi del sopravvenuto art. 42-bis
T.U. approvato con D.P.R. n. 327 del 2001.
Va affermato l’obbligo giuridico delle
amministrazioni intimate:
- in primo luogo, di far venir meno
l'occupazione sine titulo dei terreni di proprietà del
ricorrente e di adeguare la situazione di fatto a quella di
diritto, restituendo l'immobile al legittimo titolare dopo
aver demolito quanto ivi realizzato, atteso che la
realizzazione dell'opera pubblica sul fondo illegittimamente
occupato costituisce un mero fatto, non in grado di
assurgere a titolo dell'acquisto e come tale inidoneo a
determinare il trasferimento della proprietà, che come detto
può dipendere solo da un formale atto di acquisizione
dell'Amministrazione
(sul punto, da ultimo TAR Palermo sez. II, 11.01.2013, n.
24; Consiglio di Stato, sez. IV, n. 4833/2009 e n.
676/2011);
- in secondo luogo, di risarcire al
proprietario il danno da questi sofferto per il mancato
godimento dell’immobile di sua proprietà per tutto il
periodo di occupazione illegittima, decorrente dal giorno
successivo a quello di scadenza del termine di occupazione
temporanea d’urgenza fino all’effettivo rilascio.
Nel caso di specie, avendo il Comune comunque manifestato in
giudizio l’intento di acquisire le aree, pare al Collegio
indispensabile, pronunciare una condanna che imponga
innanzitutto all’amministrazione di determinarsi in tempi
certi, facendo così cessare l’illecito permanente.
Deve quindi essere ordinato all’amministrazione, entro
sessanta giorni dalla comunicazione della presente sentenza,
di provvedere alla restituzione delle aree, previa riduzione
in pristino delle medesime, ovvero alla loro definitiva
acquisizione ai sensi dell’art. 42-bis del d.p.r. 327/2001.
4.2 Quanto alle voci risarcitorie e indennitarie si
profilano due diverse ipotesi: l’eventuale adozione del
provvedimento ex art. 42-bis del d.p.r. 327/2001 comporterà
il diritto per i ricorrenti alla corresponsione di un
indennizzo, secondo i parametri dettati da quella medesima
disposizione.
Sussiste tuttavia un danno da illegittima
occupazione delle aree (che cesserà solo con la restituzione
ovvero con l’adozione del provvedimento di acquisizione),
conseguente ad un mancato o comunque cattivo esercizio del
potere.
Per la quantificazione di questo danno, il
Collegio ritiene di seguire il proprio precedente
orientamento (si
veda la sentenza di questa Sezione n. 236 del 07.02.2014),
in cui si è stabilito che ai fini della
quantificazione del danno, si può fare applicazione, in via
analogica, ai criteri di liquidazione previsti e
disciplinati dall’art. 42-bis del D.P.R. 08.06.2001 n. 327
per il caso di “Utilizzazione senza titolo di un bene per
scopi di interesse pubblico”.
Tali criteri prevedono, in particolare:
- la liquidazione del pregiudizio
patrimoniale commisurato all’interesse del “cinque per
cento annuo” sul valore venale attuale del bene
determinato sulla base delle disposizioni dell’art. 37,
commi 3, 4, 5, 6 e 7, dello stesso D.P.R. 327/2001, nonché
- la liquidazione di un indennizzo per il pregiudizio non
patrimoniale forfettariamente determinato nella misura del “dieci
per cento del valore venale del bene”.
È stato precisato nella sopra citata decisione che “l’utilizzo
in via analogica di tali criteri appare al collegio
ragionevole:
- sia per evitare che la liquidazione di un medesimo evento
di danno possa condurre ad esiti illogicamente diversi a
seconda che la quantificazione sia operata dal giudice nel
processo, oppure dall’amministrazione in sede di emanazione
del provvedimento di acquisizione ex art. 42-bis D.P.R.
327/2001;
- sia perché, trattandosi di criteri equitativi e forfettari
di liquidazione del danno, essi consentono di ritenere
ricompresa nella somma complessivamente determinata dal
giudice anche quella diretta a ristorare il ricorrente del
danno derivante dalla diminuzione di valore e dal diminuito
godimento della residua porzione di terreno non occupata
dall’opera pubblica;
- sia infine perché, basandosi su valori attualizzati, essi
consentono di prescindere dal calcolo della rivalutazione
monetaria e degli interessi compensativi sulla somma
capitale determinata a titolo risarcitorio, altrimenti
doverosa alla luce della peculiare natura (di “valore”)
della relativa obbligazione”.
Ai fini dell’esatta quantificazione del danno risulta quindi
necessaria l’individuazione del valore venale del terreno
occupato, sia con riferimento alla data di inizio
dell’occupazione illegittima, sia con riferimento agli
attuali valori di mercato.
Parte ricorrente ha depositato come doc. 15 una perizia di
stima del 24.07.2009, mentre l’Amministrazione ha depositato
in data 09.03.2016 una perizia di stima del valore di
mercato al 2009 delle aree incluse nel PEEP. I valori
esposti nei documenti divergono tra loro in misura
significativa.
Ritiene pertanto il collegio necessario,
fermo l’ordine di restituzione o acquisizione nei
sovraesposti tempi certi, disporre verificazione volta alla
stima del valore venale
(attuale, in modo da comprendere già rivalutazione del
credito risarcitorio ed essere anche idoneo parametro per
l’eventuale indennizzo dovuto in seguito all’acquisizione)
delle aree, tenendo tuttavia conto delle reali
caratteristiche delle medesime, come sussistenti già prima
della realizzazione delle opere.
A tal fine viene incaricato il Direttore dell’Agenzia del
Territorio – Ufficio Provinciale di Torino, con facoltà di
delega, di determinare il valore venale attuale delle aree
oggetto di occupazione di proprietà dei ricorrenti,
raffrontando anche le perizie di parte.
Tale verificazione tecnica potrà esplicarsi mediante
sopralluogo in contraddittorio con le parti ed esame di
tutta la documentazione e del materiale istruttorio in atti.
In particolare, il verificatore dovrà:
- accertare il predetto valore venale alla data del
30.10.1991 (data di inizio della occupazione illegittima),
tenendo conto delle caratteristiche e della destinazione dei
terreni secondo la disciplina urbanistica comunale vigente a
quella data;
- accertare il predetto valore venale con riferimento agli
attuali valori di mercato, senza considerare l’avvenuta
realizzazione sui predetti terreni dell’opera pubblica;
La verificazione dovrà svolgersi nel rispetto dei seguenti
termini:
a) entro 10 giorni dalla comunicazione della presente
ordinanza, il direttore della predetta Agenzia comunicherà a
questo Tribunale il nominativo del verificatore designato;
b) entro i 20 giorni successivi alla predetta comunicazione,
il verificatore comunicherà ai difensori di tutte le parti
costituite, anche mediante fax o e-mail, la data, l’orario e
il luogo di inizio delle operazioni peritali;
c) le parti potranno designare propri consulenti tecnici
fino a quella data;
d) entro i 30 giorni successivi alla data di inizio delle
operazioni peritali, il verificatore trasmetterà uno schema
della propria relazione ai difensori delle parti, ovvero, se
nominati, ai consulenti tecnici di parte;
e) entro i 15 giorni successivi alla ricezione dello schema
di relazione, le parti o i rispettivi consulenti
trasmetteranno al verificatore le proprie eventuali
osservazioni e conclusioni;
f) entro i 15 giorni successivi al ricevimento dell’ultima
delle comunicazioni di cui sub e), il verificatore
depositerà presso la Segreteria della 1^ Sezione di questo
TAR la propria relazione finale, nella quale darà conto
delle osservazioni e delle conclusioni dei consulenti di
parte e prenderà specificamente posizione su di esse,
formulando conclusioni chiare e sintetiche sui quesiti
formulati.
Per eventuali richieste di proroga dei termini e di
chiarimenti, il verificatore formulerà istanza scritta al
Presidente, il quale provvederà con atto monocratico.
Il collegio si riserva di disporre eventuali supplementi
istruttori in esito al deposito della relazione peritale.
La segreteria metterà a disposizione del verificatore, a sua
richiesta ed ai fini di consultazione, il fascicolo di causa
con facoltà di estrarre copia degli atti.
Il verificatore potrà altresì accedere presso uffici
pubblici per prendere visione ed estrarre copia di atti e
documenti rilevanti ai fini dell’espletamento dell’incarico.
Su richiesta scritta dell’ente verificatore, le spese della
verificazione saranno determinate e liquidate con la
sentenza che definirà il giudizio. |
VARI:
Revoca della patente al giudice ordinario.
Nel caso in cui la revoca della patente di guida costituisca
mero atto di esecuzione di una sanzione accessoria disposta
con sentenza penale di condanna e la controversia si
incentri sulla concreta individuazione degli effetti della
sanzione, la giurisdizione sarà del giudice ordinario.
Lo hanno ribadito i giudici della I Sez. del TAR Abruzzo-Pescara con la
sentenza
26.05.2016
n. 200.
La giurisprudenza precedente (cfr. da ultimo, Tar
Emilia-Romagna, sede Bologna, sez. I, 06.05.2016, n. 500,
e sez. Parma, 02.03.2016, n. 72, Tar Trentino-Alto Adige,
sede Trento, 24.03.2016, n. 164, Tar Lombardia, sede
Milano, sez. I, 13.11.2015, n. 2400, e Tar Lazio, sede
Roma, sez. III, 05.03.2015 n. 3817) aveva già avuto modo
di evidenziare che quanto al periodo ostativo di tre anni
previsto dall'art. 219, comma 3-ter, del codice della
strada, la posizione azionata dal privato avrà i caratteri
del diritto soggettivo perché non si correla a poteri
discrezionali/autoritativi dell'Amministrazione, e pertanto
la cognizione della questione spetta al giudice ordinario
secondo i comuni canoni sul riparto della giurisdizione.
Con l'atto impugnato da Tizio veniva respinta la richiesta
volta ad ottenere il conseguimento di nuova patente di guida
e ciò in quanto il richiedente era stato condannato con
sentenza del Tribunale per i reati di cui agli artt. 186,
comma 2, lett. e), e 187 del codice della strada con revoca
della patente di guida, e non erano ancora decorsi tre anni
dal passaggio in giudicato di tale sentenza.
Tizio, nell'impugnare con il ricorso sottoposto
all'attenzione dei giudici amministrativi abruzzesi il
provvedimento in esame, lamentava il fatto che il periodo
ostativo di tre anni previsto dall'art. 219, comma 3-ter,
del dlgs n. 285 del 1992 («Quando la revoca della patente di
guida è disposta a seguito delle violazioni di cui agli
articoli 186, 186-bis e 187, non è possibile conseguire una
nuova patente di guida prima di tre anni a decorrere dalla
data di accertamento del reato») si sarebbe dovuto computare
dalla data di trasmissione della notizia di reato da parte
dell'autorità e che avrebbe dovuto essere computato nei tre
anni anche il periodo di sospensione della sentenza,
antecedente alla revoca (c.d. presofferto).
Tale questione, così come proposta, però esulava, in base a
quanto sopra detto dalla giurisdizione del giudice
amministrativo, in quanto la situazione giuridica fatta
valere in giudizio aveva evidente natura di diritto
soggettivo
(articolo ItaliaOggi Sette del 04.07.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Raggruppamento e abbruciamento.
Le attività di raggruppamento e
abbruciamento in piccoli cumuli in quantità giornaliere non
superiori a 3 m steri per ettaro dei materiali vegetali di
cui al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 185, comma 1, lett. f),
effettuate nel luogo di produzione, non sono sanzionate
penalmente ai sensi del D.Lgs. n. 152 del 2006, artt. 256 e
256-bis.
---------------
4. Il ricorso è fondato.
Per effetto di modifiche succedutesi al D.lgs. 152 del 2006,
trova applicazione, nella fattispecie in esame, l'art. 185,
comma 1, lett. f) del medesimo decreto, richiamato dal nuovo
comma 6-bis dell'art. 182, introdotto dall'art. 14, comma 8,
lettera bb), del decreto-legge 24.06.2014, n. 91,
convertito, con modificazioni, dalla legge 11.08.2014, n.
116.
Il citato comma 6-bis stabilisce che le attività di
raggruppamento e abbruciamento in piccoli cumuli e in
quantità giornaliere non superiori a tre metri steri per
ettaro dei materiali vegetali di cui all'articolo 185, comma
1, lettera f), effettuate nel luogo di produzione,
costituiscono normali pratiche agricole consentite per il
reimpiego dei materiali come sostanze concimanti o
ammendanti, e non attività di gestione dei rifiuti.
A sua volta la richiamata lettera f) dell'art. 185, comma 1,
prevede che non rientrano nel campo di applicazione della
parte quarta del D.Lgs. n. 152 del 2006, tra l'altro, la
paglia, gli sfalci e potature, nonché l'altro materiale
agricolo-forestale naturale non pericoloso utilizzato in
agricoltura, nella silvicoltura o per la produzione di
energia da tale biomassa mediante processi e con metodi che
non danneggiano l'ambiente ne mettono in pericolo la salute
umana.
Nell'interpretare tale disposizione, questa Corte aveva già
affermato che la combustione degli sfalci e
dei residui di potatura rientrava nella normale pratica
agricola, con la conseguenza che i materiali in questione
dovevano essere ritenuti esclusi dal novero dei rifiuti
(Sez. 3, n. 16474 del 07.03.2013).
Ora, ai sensi del richiamato comma 6-bis,
le attività di raggruppamento e abbruciamento in piccoli
cumuli e in quantità giornaliere non superiore a 3 m steri
per ettaro, dei materiali vegetali di cui all'art. 185,
comma 1, lett. f), effettuate nel luogo di produzione,
costituiscono normali pratiche agricole consentite per il
reimpiego dei materiali come sostanze concimanti o
ammendanti e non attività di gestione dei rifiuti.
La stessa disposizione aggiunge che, in ogni caso, nei
periodi di massimo rischio per gli incendi boschivi,
dichiarati dalle regioni, la combustione di residui vegetali
agricoli e forestali è sempre vietata e che i comuni e le
amministrazioni competenti in materia ambientale hanno la
facoltà di sospendere, differire o vietare la combustione
del materiale in caso di condizioni sfavorevoli o rischi per
l'incolumità e la salute umana.
Il quadro normativo si completa con l'art. 256-bis, comma 6,
secondo periodo, aggiunto dallo stesso decreto, e in vigore
dal 21.08.2014, secondo cui, fermo restando quanto previsto
dall'art. 182, comma 6-bis, medesimo decreto,
le sanzioni penali per la combustione illecita di
rifiuti non si applicano all'abbruciamento di materiale
agricolo forestale naturale, anche derivato dal verde
pubblico o privato.
Dunque, dal sistema normativo come sopra delineato, deve
desumersi che ora gli scarti vegetali sono
esclusi dal novero dei rifiuti e che l'abbruciamento in
piccoli cumuli e in quantità giornaliere non superiori a tre
metri steri per ettaro dei materiali vegetali di cui
all'articolo 185, comma 1, lettera f), effettuate nel luogo
di produzione, costituiscono normali pratiche agricole e non
attività di gestione dei rifiuti e ad essi non sono di
conseguenza applicabili sanzioni di cui all'art. 256-bis.
Deve, in conclusione, affermarsi il principio secondo cui
le attività di raggruppamento e abbruciamento in
piccoli cumuli in quantità giornaliere non superiori a 3 m
steri per ettaro dei materiali vegetali di cui al D.Lgs. n.
152 del 2006, art. 185, comma 1, lett. f), effettuate nel
luogo di produzione i non sono sanzionate penalmente ai
sensi del D.Lgs. n. 152 del 2006, artt. 256 e 256-bis
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 25.05.2016 n. 21936 -
tratto da www.lexambiente.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
La copia conforme è un diritto. L'agente della
riscossione non può dire no sulle cartelle. Secondo il Tar
Campania non ammessa alcuna scusa se non la perdita
dell'originale.
Non può negarsi, in astratto, il diritto d'acquisire copia
conforme delle cartelle di pagamento e l'agente della
riscossione avrà l'obbligo di ricercarle nei propri archivi
e di consentirne l'accesso al richiedente, salvo che lo
stesso agente della riscossione (non il suo difensore in
giudizio) non dichiari, fornendone prova certa, che per
alcune, o tutte, di esse, non è più in possesso
dell'originale o di eventuali copie.
Lo hanno affermato i giudici della I Sez. del Tar Campania-Salerno con la
sentenza
25.05.2016 n. 1305.
A parere dei giudici amministrativi campani nel caso in cui
l'agente della riscossione non fosse più in possesso
dell'originale della cartella o di qualche copia,
evidentemente, non potrà seguire l'accesso, ma ciò non per
un ostacolo giuridico, rappresentato dalla disposizione
dell'art. 26 del dpr 29.09.1973, n. 602, bensì in
applicazione del principio generale espresso dal noto brocardo: «Ad impossibilia nemo tenetur».
Inoltre circa, poi, l'esibizione delle cartelle esattoriali
da parte dell'agente per la riscossione, un ormai costante
orientamento della giurisprudenza (si veda: Tar Bari
(Puglia), sez. III, 27/2/2015, n. 381), messo in evidenza
dai giudici salernitani, in conformità al principio
enunciato dall'art. 26 del dpr n. 602/1973, ha osservato
che: «Non è sufficiente il mero deposito in semplice copia
degli estratti di ruolo, perché vanno esibiti gli atti in
copia integrale e conforme all'originale, allo scopo di
consentire la piena conoscenza del loro contenuto».
Estratti di ruolo e cartelle esattoriali: differenza e note
giurisprudenziali
Nella medesima sentenza in commento, poi il Tar ha
evidenziato che gli estratti di ruolo sono, senza ombra di
dubbio, qualcosa d'ontologicamente diverso dalle cartelle
esattoriali, delle quali replicano il ruolo, e che
l'esibizione dei primi non può quindi tener luogo
dell'ostensione delle seconde, anche alla luce delle
seguenti massime richiamate dagli stessi giudici campani:
«L'accesso ai documenti non può essere soddisfatto
dall'esibizione di un documento che l'Amministrazione, e non
il privato ricorrente, giudica equipollente, atteso che
elemento fondamentale dell'actio ad exhibendum è la
conformità del documento esibito dal privato all'originale;
è, quindi, obbligo dell'esattore conservare le cartelle di
pagamento elevate nei confronti dei contribuenti, che
conservano il diritto ad ottenerne visione, non potendo,
d'altra parte, essere considerati equipollenti gli eventuali
estratti di ruolo messi a disposizione dagli uffici del
Concessionario ovvero gli avvisi di ricevimento delle
cartelle di pagamento, dalle quali non può in alcun modo
desumersi la pretesa erariale portata ad esecuzione, con una
significativa lesione delle prerogative riservate al
contribuente dal nostro ordinamento» (Consiglio di stato,
sez. IV, n. 317/2016).
Ed ancora: «L'estratto di ruolo non può essere considerato
alla stregua delle cartelle di pagamento. In particolare, la
cartella esattoriale è prevista dall'art. 25, dpr 29.09.1973 n. 602, quale documento per la riscossione
degli importi contenuti nei ruoli e deve essere predisposta
secondo il modello approvato con decreto del Ministero delle
finanze. Gli estratti di ruolo sono invece degli elaborati
informatici formati dall'ente impositore contenenti, in
sintesi, gli elementi della pretesa creditoria.
La differenza ontologica tra i due documenti nemmeno può
essere superata dalla tendenziale omogeneità contenutistica
dei due atti. Non è, infatti, permesso all'Amministrazione e
al privato che eserciti funzioni pubbliche di sostituire
arbitrariamente il documento richiesto con altro, sebbene
equipollente» (Tar Campania, sez. VI, n. 5071/2015)
(articolo ItaliaOggi Sette del 04.07.2016). |
APPALTI:
Solo norme tecniche per appalti doc. Tar di
Salerno. Per i giudici le linee guida non sono idonee a
garantire i requisiti di qualità.
Nelle certificazioni di qualità, le norme
tecniche sono diverse dalle linee guida:
lo sottolinea il TAR Campania-Salerno, nella
sentenza 25.05.2016 n. 1295,
Sez. I.
La questione ha rilievo in quanto sia nel regime del Codice
appalti antecedente l’aprile 2016 (Dlgs 163/2006), sia per
le gare attuali (Dlgs 50/2016, articoli 87 e 90), per
forniture o servizi l’amministrazione può chiedere
concorrenti certificazioni di qualità su norme tecniche. Ad
ogni certificazione corrisponde una garanzia qualitativa di
un determinato livello di esecuzione: chi possiede una
certificazione è infatti ritenuto idoneo a prestare il
servizio o la fornitura, perché un organismo esterno di
certificazione attesta che il prodotto, processo produttivo
o il servizio, sono conformi a requisiti fissati appunto da
norme tecniche.
L’organismo certificatore si impegna poi ad effettuare
un’adeguata, ciclica vigilanza esterna su tale conformità
(Tar Lazio 923/2007). Nel caso specifico, si discuteva di
certificazioni relative ad una fornitura di distributori
automatici per bevande e alimenti in una scuola: il bando di
gara imponeva ai concorrenti varie certificazioni di
qualità, individuate con specifiche sigle: Iso 9000,
relativa alla qualità del servizio offerto; Iso 14001, sulla
sensibilità alle tematiche ambientali; Sa 8000, in tema di
responsabilità sociale e, infine, Iso 22000 come
certificazione alimentare. Erano anche ammesse
certificazioni equivalenti. Il problema è sorto per la
certificazione Sa 8000, relativa alla responsabilità
sociale, perché un’impresa riteneva di aver soddisfatto la
richiesta della scuola (certificato Sa 8000), fornendo un
certificato Iso 26000, a suo parere equivalente.
Questa opinione non è stata condivisa dal Tar, perché Iso
26000 non è un sistema di gestione certificabile, non può
cioè essere verificato il rispetto dei diritti umani del
lavoro da parte dell’azienda: chi ha un certificato SA 8000,
presumibilmente rispetta i diritti umani e del lavoro; chi
invece ha una documentazione Iso 26000, si impegna nel campo
della responsabilità sociale. Ambedue gli ambiti riguardano
l’organizzazione del lavoro, trattandosi di qualità etica
(quindi, non caratteristiche dello specifico prodotto quale,
ad esempio, la sua igiene), ma la documentazione Sa 8000 e
quella Iso 26000 non sono equivalenti.
Sottolinea infatti il giudice amministrativo che la
certificazione di qualità garantisce l’efficace affidabilità
aziendale ed imprenditoriale con standard uniformi (norme
tecniche), mentre la conformità a linee guida sulla
responsabilità sociale non è certificabile: Iso 26000, come
linea guida, è solo una norma internazionale, una guida a
concetti, principi e pratiche connesse alla responsabilità
sociale d’impresa, fonte di confronto con le parti
interessate (prima fra tutte il sindacato, per quanto
attiene i rapporti e le condizioni di lavoro). Di
conseguenza, la certificazione di conformità alla norma
tecnica Sa 8000 non può essere sostituita da una
dichiarazione di conformità alla linea guida Iso 26000.
Questo principio avrà rilevanza anche per l’imminente
adozione delle linee guida in materia di rating d’impresa da
parte dell’autorità anticorruzione: infatti, le imprese che
vorranno ottenere rating elevati, dovranno certificare anche
la social accountability 8000, come già accade (articolo 93
del Dlgs 50/2016) per ottenere riduzioni sulle garanzie
(cauzioni) da fornire per partecipare alle gare (articolo Il Sole 24 Ore del 23.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
---------------
MASSIMA
Il punto di partenza dell’analisi è rappresentato dalla
posizione della giurisprudenza amministrativa, secondo cui “il
principio di tassatività in materia di esclusione dalla gara
per l’affidamento di un pubblico appalto non preclude
all’amministrazione appaltante la facoltà di richiedere, a
pena di esclusione, tutti i documenti e gli elementi
ritenuti necessari o utili per identificare e selezionare i
partecipanti ad una procedura concorsuale, fermo restando il
rispetto del principio di proporzionalità, ai sensi degli
artt. 73 e 74, d. lg. n. 163 del 12.04.2006”
(TAR Cagliari (Sardegna), Sez. I, 10/05/2013, n. 390); per
un’applicazione in tema di certificazione etica SA
8000:2008, cfr. TAR Catania (Sicilia), Sez. III, 21/11/2013,
n. 2784.
Conformemente all’indirizzo testé espresso, nel
bando–disciplinare di gara dell’appalto in esame, a pag. 3,
è stato previsto che: “Per la distribuzione di sostanze
alimentari con attrezzature automatiche e semiautomatiche è
necessario il possesso delle seguenti certificazioni di
qualità: (…) 3. SA 8000 o equivalenti (Responsabilità
sociale)”.
Nella specie, peraltro, non viene affatto in rilievo (il
mancato esercizio del)la facoltà espulsiva della
concorrente, risultata priva della suddetta certificazione
etica, bensì semplicemente –giusta il tenore delle censure
sollevate– l’attribuzione –in favore dell’aggiudicataria– da
parte del seggio di gara, di cinque punti, per il possesso
della suddetta certificazione (conformemente alla griglia
dei punteggi, contenuta nel modulo, predisposto dalla
stazione appaltante, per la presentazione dell’offerta
tecnica); poiché, in particolare, il divario tra
l’aggiudicataria Un. s.r.l., prima graduata, e la ricorrente
Fo.Se. s.a.s., seconda graduata, è risultato pari ad appena
4,50 punti, è evidente che la mancata assegnazione dei
cinque punti in questione, per effetto dell’accertato
mancato possesso, in capo alla resistente, del certificato “SA
8000” o equivalente, determinerebbe la conseguenza della
riformulazione della graduatoria conclusiva, nel senso
auspicato dalla ricorrente medesima, con aggiudicazione
dell’appalto di servizi de quo, in suo favore.
Posto, infatti, che, per il possesso della certificazione di
qualità etica in oggetto, era prevista l’attribuzione di
cinque punti, in maniera standardizzata, appare al Collegio
evidente come l’acclarata mancanza, nel curriculum
dell’aggiudicataria, di detto certificato o di altro “equivalente”,
comporta necessariamente (l’accertamento dell’illegittimità
di detta attribuzione, e quindi) la sottrazione del
punteggio, alla stessa ascritto, in relazione al medesimo,
con conseguente riposizionamento in graduatoria dell’Un.
s.r.l., al secondo posto, e ascensione al primo posto
–comportante l’effetto dell’aggiudicazione della gara– in
favore della ricorrente.
Tanto stabilito, la res in iudicium deducta s’è
focalizzata sulla questione, se l’aver provato, la ditta
aggiudicataria, di aver conseguito –dalla Si.Cert.SAGL– “la
certificazione del sistema di gestione sociale secondo la
linea guida ISO 26000: 2010”, per il seguente campo
d’attività: “commercializzazione mediante distributori
automatici di bevande e prodotti alimentari confezionati”,
fosse, o meno, equivalente al possesso della certificazione
SA 8000, richiesta dalla lex specialis di gara.
Detta equivalenza è stata affermata, dallo stesso
responsabile della sede operativa di Salerno della
Si.Cert.SAGL, su richiesta del dirigente scolastico del
Liceo “Medi” di Battipaglia, nella nota del
25.02.2016, in copia agli atti, alla quale erano allegati,
sempre in copia, estratti:
A) della “norma italiana” UNI ISO 26000 – Guida alla
responsabilità sociale, edizione novembre 2010, dell’UNI
(Ente Nazionale Italiano di Unificazione – Milano);
B) dello standard internazionale SA 8000 – 2014, del SAI
(Social Accountability International – New York).
Dalla lettura di detti documenti, emerge che mentre l’ISO
26000 è una “norma” (internazionale), in tema di
responsabilità sociale delle organizzazioni, lo SA 8000 è
definito “uno standard volontario, verificabile
attraverso audit di terza parte, che definisce i requisiti
che devono essere soddisfatti dalle organizzazioni (…) in
ogni caso la certificazione può essere rilasciata solo per
ogni specifico luogo di lavoro”; e, più avanti: “Anche
se SA 8000 è universalmente applicabile, e in linea di
principio la certificazione è disponibile in qualsiasi Paese
o settore (…)”.
Dalla stessa documentazione in questione appare evidente la
ragione di fondo, per la quale ISO 26000 e SA 8000 non
possono essere (a dispetto dell’opinione espressa dalla Si.
Cert. SAGL, e fatta propria dall’Avvocatura Erariale), “equivalenti”:
mentre SA 8000 costituisce, a tutti gli effetti, una “certificazione
di qualità” (che attesta, nello specifico, il rispetto
dei diritti umani e del lavoro, da parte di una determinata
azienda), l’ISO 26000 viene, bensì qualificata come “norma
internazionale”, senza, peraltro, che se ne garantisca
la possibilità di certificarla (da parte di organismi
accreditati).
La ragione di ciò emerge, con estrema chiarezza, dalla
pagina, dedicata all’ISO 26000, sul sito CSR (Corporate
Social Responsibility, in italiano RSI Responsabilità
Sociale d’Impresa) dell’Unioncamere
(http://www.csr.unioncamere.it/), ove si legge quanto segue:
“Innanzi tutto ISO 26000 è un Linea Guida e non una
norma: ciò significa che essa non sarà certificabile da una
terza parte sul modello dei sistemi di gestione qualità,
ambiente salute sicurezza, o, per rimanere al tema della CSR,
SA8000, ma (è) una guida a concetti, principi e pratiche
connesse alla Responsabilità Sociale d’Impresa. Questo
significa, in pratica, che un’azienda o un’organizzazione
che volessero adottare queste nuove Linee Guida non possono
affidarsi a una società esterna che ne certifichi l’impegno
nel campo della responsabilità sociale, ma devono
confrontarsi con le proprie parti interessate, prima fra
tutte il sindacato per quanto attiene i rapporti e le
condizioni di lavoro, affinché siano loro a valutare se
rispettano o meno i contenuti di Iso 26000”.
Nel sito “Responsabilità sociale d’impresa”
(http://www.rsi.cittametropolitana.milano.it/), sotto la
voce “ISO 26000 – Caratteristiche generali”, in
maniera del tutto analoga, si legge: “È applicabile a
qualsiasi Organizzazione. Riconosce nel rispetto delle leggi
la base della RS ed incoraggia azioni che vadano oltre la
legge. Promuove la comprensione comune della RS. È
complementare ad altri strumenti ed iniziative. Tiene conto
delle differenze sociali, ambientali, legali, economiche.
Non è certificabile da una terza parte indipendente”.
Del resto, la società ricorrente ha prodotto, in allegato
all’atto introduttivo del giudizio, la pagina del sito
LinkedIn dedicata al Si.Cert.SAGL, ovvero all’ente di
certificazione, che ha rilasciato la censurata attestazione
del possesso, da parte dell’aggiudicataria, della “linea
guida” ISO 26000, nella quale sono indicati gli schemi
di certificazione, per i quali lo stesso Si.Cert.SAGL è “lead
auditor” (ISO 9001, ISO 14001, OHSAS 18001, ISO 22000,
ISO 27001, ISO 13485 e ISO 50001), tra i quali non è affatto
compreso quello in contestazione.
Ciò per la semplice, ma decisiva, ragione, che –giusta
quanto affermato anche in sede cautelare– lo stesso non è
passibile di certificazione, per una precisa scelta, in tal
senso, della stessa organizzazione che l’ha ideato,
ricavabile, con chiarezza, dalla lettura del documento 16,
prodotto da parte ricorrente (ovvero del dossier “UNI ISO
26000: la responsabilità sociale in concreto”, a cura
dell’UNI), dove –a pag. 31– si legge: “Come è noto, la
ISO 26000 non è un sistema di gestione e non è una norma
certificabile. In questo risiede, a mio giudizio, uno degli
aspetti maggiormente innovativi dello standard. Il gruppo di
lavoro mondiale dell’ISO sulla responsabilità sociale prese
la decisione di redigere delle linee guida non certificabili
sostanzialmente per due motivi.
In primo luogo, si intendeva puntare su un coinvolgimento
attivo dei portatori di interesse di un’organizzazione.
Affidare a terzi la certificazione delle iniziative
sostenibili attuate da un’organizzazione avrebbe
significato, infatti, trascurare il valore fondamentale che
ha l’identificazione e il coinvolgimento degli stakeholder
nella ISO 26000.
Un secondo motivo all’origine della decisione di non
certificare questa norma è stata la necessità di favorirne
la diffusione fra le piccole e medie organizzazioni, che
hanno minori possibilità finanziarie rispetto alle grandi.
Chiedere una certificazione comporta, infatti, dei costi che
spesso non sono alla portata di aziende e organizzazioni di
minori dimensioni.
Questa decisione non è stata, tuttavia, unanimemente accolta
con favore dai consulenti e dagli esperti di responsabilità
sociale e, a dir la verità, anche dagli enti di normazione.
Alcuni di questi ultimi –come il danese DS, il portoghese NP
e il brasiliano ABNT– hanno, infatti, pubblicato come
standard nazionali dei sistemi di gestione sulla
responsabilità sociale, che si richiamano in larga parte ai
contenuti della ISO 26000.
In occasione della revisione della norma, negli ultimi mesi
le voci di quanti chiedono la modifica della ISO 26000 in
uno standard certificabile hanno ripreso a levarsi con
forza. L’ISO ha correttamente segnalato che il processo di
revisione non prevede uno stravolgimento della norma, anche
nel caso in cui la maggioranza dei votanti ne chiedesse la
trasformazione in uno standard certificabile.
In quest’ultimo caso, la strada sarebbe quella della
presentazione da parte dell’ISO di un nuovo progetto di
norma (New Work Item Proposal) certificabile in materia di
responsabilità sociale, avviando ex novo un percorso
normativo e costituendo un Comitato tecnico o un Project
Committee. I sindacati e le associazioni imprenditoriali si
sono già da tempo espressi contro ogni tentativo di rendere
certificabile la norma e hanno sostenuto questa posizione
presso gli enti di normazione nazionali durante il processo
di revisione.
I risultati del voto saranno, comunque, oggetto di
discussione fra l’ISO e il PPO (Post Publication
Organization), l’organismo mondiale consultivo sulla ISO
26000, del quale fanno parte quattro rappresentanti per
ciascuna delle sei categorie di stakeholder che hanno
partecipato al gruppo di lavoro ISO sulla responsabilità
sociale. Al PPO sarà, infatti, chiesto di formulare una
propria raccomandazione ai vertici ISO sul futuro della
norma (…)”.
In definitiva, pur non potendosi escludere, giusta quanto
espresso dall’UNI, un’evoluzione della norma in argomento,
nel senso della sua parificazione ad uno standard
internazionale certificabile, allo stato esso rappresenta
un’entità, irriducibile alla nozione di certificazione; di
conseguenza, esso non può ritenersi “equivalente” al
certificato SA 8000, richiesto dal disciplinare di gara,
atteso che non può istituirsi alcuna equivalenza, già sul
piano logico, prima ancora che giuridico, tra ciò che è
certificabile, e ciò che non lo è.
Le ragioni dianzi espresse fondano, pertanto, l’accoglimento
del ricorso, con annullamento dell’atto gravato e
riformulazione della graduatoria, nei sensi sopra precisati,
e conseguente aggiudicazione dell’appalto, in favore della
ricorrente, già seconda classificata. |
APPALTI:
Aggiudicazioni, botte di ferro. Revoca: non si
può invocare il principio d'affidamento.
Tar Puglia interviene in materia di gare
pubbliche richiamando ampia giurisprudenza.
La valutazione dell'interesse pubblico alla revoca di un
provvedimento di aggiudicazione non può essere incisa dalla
situazione oggettiva di affidamento in capo al soggetto
privato e, pertanto, non potrà ritenersi illegittima la
revoca in relazione alla dedotta supremazia del principio di
affidamento.
È quanto ribadito dai giudici della II Sez. del TAR Puglia-Bari con la
sentenza
20.05.2016 n. 694.
Il thema decidendum vedeva la società Tizia spa sostenere
che la revoca dell'aggiudicazione di una gara sarebbe
illegittima per la mancanza della comunicazione di avvio del
procedimento.
Più nello specifico, la Tizia spa affermava che, essendo
intervenuta a suo favore l'aggiudicazione definitiva, essa
avrebbe avuto un interesse a partecipare al procedimento di
revoca dell'aggiudicazione suddetta.
La lesione degli interessi procedimentali, a parere di
Tizia, sarebbe tanto più grave in considerazione
dell'avvenuto consolidamento in capo a Tizia stessa
dell'affidamento legittimo circa l'intenzione della p.a. di
procedere alla stipula del contratto di appalto.
L'amministrazione resistente, in merito, eccepiva che il
provvedimento impugnato, alla luce delle risultanze della
nuova istruttoria, non poteva comunque avere un contenuto
diverso e che pertanto, l'eventuale apporto partecipativo
della ricorrente, ove reso praticabile dalla comunicazione
di avvio del procedimento, non avrebbe portato ad esiti
diversi da quelli cui è pervenuta la stazione appaltante.
La giurisprudenza richiamata dai giudici di Bari. I giudici
baresi hanno, quindi, richiamato sul punto, la
giurisprudenza del Consiglio di stato in merito all'art.
21-octies, secondo comma, della legge n. 241 del 1990,
secondo cui: «Tale norma distingue due diverse fattispecie.
La prima è generale e riguarda il caso in cui l'attività
amministrativa è vincolata e l'amministrazione ha violato
una norma che contempla un requisito formale o
procedimentale. La seconda ha carattere particolare e
riguarda il caso in cui è violata la norma che contempla il
requisito procedimentale della comunicazione di avvio del
procedimento. Tale ultima fattispecie, contrariamente a
quanto ritenuto dal primo giudice, si applica in presenza di
attività sia vincolata che discrezionale» (Cds, sez. VI,
27.04.2015, n. 2127).
E ancora: «La più recente
giurisprudenza del Consiglio di stato, facendo riferimento,
per ragioni di efficienza e speditezza, a un'accezione
sostanzialistica della violazione dell'art. 7, legge n. 241
del 1990, ha affermato che l'interessato che lamenta la
violazione dell'obbligo di comunicazione dell'avvio del
procedimento ha anche l'onere di allegare e dimostrare che,
grazie alla comunicazione, egli avrebbe potuto sottoporre
all'amministrazione elementi che avrebbero potuto condurla a
una diversa determinazione da quella che invece ha assunto».
Infatti «è vero che tale norma pone in capo
all'amministrazione (e non del privato) l'onere di
dimostrare, in caso di mancata comunicazione dell'avvio, che
l'esito del procedimento non poteva essere diverso. E
tuttavia, onde evitare di gravare la p.a. di una probatio
diabolica (quale sarebbe quella consistente nel dimostrare
che ogni eventuale contributo partecipativo del privato non
avrebbe mutato l'esito del procedimento), risulta
preferibile interpretare la norma in esame nel senso che il
privato non possa limitarsi a dolersi della mancata
comunicazione di avvio, ma debba anche quantomeno indicare o
allegare quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbe
introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la
comunicazione. Solo dopo che il ricorrente ha adempiuto
questo onere di allegazione (che la norma implicitamente
pone a suo carico), la p.a. sarà gravata dal ben più
consistente onere di dimostrare che, anche ove quegli
elementi fossero stati valutati, il contenuto dispositivo
del provvedimento non sarebbe mutato. Ne consegue che ove il
privato si limiti a contestare la mancata comunicazione di
avvio, senza nemmeno allegare le circostanze che intendeva
sottoporre all'amministrazione, il motivo con cui si lamenta
la mancata comunicazione deve ritenersi inammissibile»
(Cons. stato, VI, 29.07.2008, n. 3786; nello stesso
senso Cons. stato, V, 18.04.2012, n. 2257) (Consiglio di
stato, sez. VI, 04.03.2015, n. 1060; Tar Bari, sez. II, 06.10.2015,
n. 1283)
(articolo ItaliaOggi Sette del 27.06.2016).
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MASSIMA
3. – Con il primo motivo del ricorso R.G. n. 1505/2014
la società Ai.Me.Sy. S.p.A. sostiene che la revoca
dell’aggiudicazione sarebbe illegittima per la mancanza
della comunicazione di avvio del procedimento.
Più nello specifico, la ricorrente sostiene che, essendo
intervenuta a suo favore l’aggiudicazione definitiva, essa
avrebbe avuto un interesse a partecipare al procedimento di
revoca dell’aggiudicazione suddetta.
La lesione degli interessi procedimentali, a parere della
ricorrente, sarebbe tanto più grave in considerazione
dell’avvenuto consolidamento in capo all’Ai.Li.
dell’affidamento legittimo circa l’intenzione dell’Azienda
Ospedaliera di procedere alla stipula del contratto di
appalto.
L’amministrazione resistente, in merito, ha eccepito che il
provvedimento impugnato, alla luce delle risultanze della
nuova istruttoria, non poteva comunque avere un contenuto
diverso e che pertanto, l’eventuale apporto partecipativo
della ricorrente, ove reso praticabile dalla comunicazione
di avvio del procedimento, non avrebbe portato ad esiti
diversi da quelli cui è pervenuta la stazione appaltante.
Sul punto, si riporta quanto osservato recentemente dal
Consiglio di Stato in merito all’art. 21-octies, secondo
comma, della l. n. 241 del 1990 “…Tale norma distingue due
diverse fattispecie. La prima è generale e riguarda il caso
in cui l’attività amministrativa è vincolata e
l’amministrazione ha violato una norma che contempla un
requisito formale o procedimentale. La seconda ha carattere
particolare e riguarda il caso in cui è violata la norma che
contempla il requisito procedimentale della comunicazione di
avvio del procedimento.
Tale ultima fattispecie,
contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice, si
applica in presenza di attività sia vincolata che
discrezionale” (Consiglio di Stato, sez. VI, 27.04.2015,
n. 2127); e ancora “La più recente giurisprudenza del
Consiglio di Stato, facendo riferimento –per ragioni di
efficienza e speditezza- a un’accezione sostanzialistica
della violazione dell’art. 7 l. n. 241 del 1990, ha
affermato che l’interessato che lamenta la violazione
dell’obbligo di comunicazione dell’avvio del procedimento ha
anche l’onere di allegare e dimostrare che, grazie alla
comunicazione, egli avrebbe potuto sottoporre
all’amministrazione elementi che avrebbero potuto condurla a
una diversa determinazione da quella che invece ha assunto".
Infatti «è vero che tale norma pone in capo
all’Amministrazione (e non del privato) l’onere di
dimostrare, in caso di mancata comunicazione dell’avvio, che
l’esito del procedimento non poteva essere diverso. E
tuttavia, onde evitare di gravare la p.a. di una probatio
diabolica (quale sarebbe quella consistente nel dimostrare
che ogni eventuale contributo partecipativo del privato non
avrebbe mutato l’esito del procedimento), risulta
preferibile interpretare la norma in esame nel senso che il
privato non possa limitarsi a dolersi della mancata
comunicazione di avvio, ma debba anche quantomeno indicare o
allegare quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbe
introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la
comunicazione. Solo dopo che il ricorrente ha adempiuto
questo onere di allegazione (che la norma implicitamente
pone a suo carico), la p.a. sarà gravata dal ben più
consistente onere di dimostrare che, anche ove quegli
elementi fossero stati valutati, il contenuto dispositivo
del provvedimento non sarebbe mutato. Ne consegue che ove il
privato si limiti a contestare la mancata comunicazione di
avvio, senza nemmeno allegare le circostanze che intendeva
sottoporre all’Amministrazione, il motivo con cui si lamenta
la mancata comunicazione deve ritenersi inammissibile»
(Cons. Stato, VI, 29.07.2008, n. 3786; nello stesso
senso Cons. Stato, V, 18.04.2012, n. 2257…) (Consiglio
di Stato, sez. VI, 04.03.2015, n. 1060; TAR Bari, sez. II, 06.10.2015, n. 1283).
Nel motivo di ricorso de quo la ricorrente si è limitata a
contestare il mancato avvio della fase partecipativa, senza
allegare le circostanze che intendeva sottoporre alla
stazione appaltante e che avrebbero condotto all’adozione di
un provvedimento diverso (cfr. I motivo del ricorso
principale); ne consegue che tale censura deve ritenersi
inammissibile.
In ogni caso, l’amministrazione sul punto ha evidenziato
che: “la gravata revoca dell’aggiudicazione costituiva atto
dovuto, stante l’accertamento istruttorio circa il “non
allineamento della precedente gara rispetto alle attuali
esigenze di risultato clinico”, di talché l’eventuale
apporto partecipativo della “Ai.Li.Me.Sy.
s.p.a.”, ove reso praticabile dalla comunicazione di avvio
del procedimento, non avrebbe portato ad esiti diversi da
quelli cui è pervenuta la stazione appaltante”.
Per completezza e con specifico riferimento alla addotta
lesione del legittimo affidamento come fonte di
illegittimità del provvedimento di revoca impugnato si
richiamano:
- la sentenza del TAR Roma, sez. III, 10.01.2007, n.
76: “il Collegio non può che ritenere infondata la censura
dedotta dalla ricorrente e relativa all'inadeguata
valutazione del legittimo affidamento rispetto al
provvedimento di revoca oggetto di impugnazione. La
valutazione dell'interesse pubblico alla revoca del
provvedimento di aggiudicazione, infatti, non può essere
incisa dalla situazione oggettiva di affidamento in capo al
soggetto privato e, pertanto, non può ritenersi la
illegittimità della revoca in relazione alla dedotta
supremazia del principio di affidamento”;
- nonché la sentenza
n. 2602 del 14.05.2013 della V Sezione del Consiglio di
Stato secondo la quale: “…deve essere condivisa la tesi del
primo giudice secondo la quale ai sensi dell'art. 21-octies
della legge 07.08.1990, n. 241, il carattere doveroso
della determinazione di annullamento d'ufficio esclude la
rilevanza delle censure di incompetenza e di insufficienza
della comunicazione di avvio del procedimento di
annullamento e di quello di revoca del finanziamento (in
termini C. di S., V, 15.11.2012, n. 5772). In tale
situazione, nemmeno può essere dato rilievo all'affidamento
ingenerato nell'appellante, in quanto al momento
dell'adozione del provvedimento di autotutela il contratto
definitivo non era stato stipulato, per cui le rispettiva
posizioni non si erano ancora definitivamente consolidate”.
Tale motivo di ricorso deve pertanto essere integralmente
respinto perché infondato. |
APPALTI:
La revoca degli atti di gara può integrare un
illecito precontrattuale, ove si ponga in contrasto con le
regole di buona fede e correttezza di cui all’art. 1337 cod.
civ. riferite ad una Pubblica Amministrazione, in quanto la
responsabilità precontrattuale prescinde dall’eventuale
illegittimità del provvedimento amministrativo di autotutela
che formalizza la volontà dell’Amministrazione di annullare
o revocare gli atti di gara.
Essa non discende dalla violazione delle norme di diritto
pubblico che disciplinano l’agire autoritativo della P.A.,
ma deriva dalla violazione delle regole comuni (in
particolare del principio generale di buona fede in senso
oggettivo dell’art. 1337 Cod. civ.) che trattano del
“comportamento” precontrattuale, ponendo in capo alla
pubblica amministrazione doveri di correttezza e di buona
fede analoghi a quelli che gravano su un comune soggetto nel
corso delle trattative precontrattuali.
---------------
E' noto il principio secondo cui in caso di responsabilità
precontrattuale sia risarcibile il solo interesse negativo,
sotto la duplice veste di danno emergente e lucro cessante;
lì dove il danno emergente coincide con le spese sostenute
per la partecipazione alla gara e in previsione della
conclusione del contratto e il lucro cessante con la perdita
di ulteriori occasioni contrattuali, vanificate a causa
dell'impegno derivante dall'aggiudicazione non sfociata
nella stipulazione.
Diversamente, non si ritiene risarcibile il mancato utile,
né il danno da perdita di chance (legata alla impossibilità
di far valere nelle future contrattazioni il requisito
economico) né il danno curriculare, voci che invece
sarebbero state in astratto valutabili ai fini del
risarcimento per equivalente nel caso di revoca illegittima.
Siffatto orientamento è stato confermato dalla recente
sentenza del Consiglio di Stato, sez. III, del 10.03.2015,
n. 1228: “Osserva il collegio, in linea generale e sulla
scorta di consolidati principi, che:
a) il danno precontrattuale è riconducibile al solo interesse
negativo, include il danno emergente (per le spese sostenute
per la partecipazione alla gara e in previsione della
conclusione del contratto) e il lucro cessante (dovuto alla
perdita di ulteriori occasioni contrattuali, vanificate a
causa dell'impegno derivante dall'aggiudicazione non
sfociata nella stipulazione);
b) non rientra nel prisma del danno precontrattuale l'interesse
positivo, sub specie di utile di impresa, ossia i vantaggi
economici che sarebbero derivati dall'esecuzione del
contratto non venuto ad esistenza;
c) non è altresì risarcibile il danno c.d. curriculare (ovvero il
pregiudizio subìto dall'impresa a causa del mancato
arricchimento del curriculum professionale per non poter
indicare in esso l'avvenuta esecuzione dell'appalto),
trattandosi di danno-evento ex art. 1223 c.c., conseguente
alla mancata aggiudicazione e stipulazione del contratto,
dunque incompatibile con la struttura della responsabilità
precontrattuale; invero, la responsabilità precontrattuale
della p.a. non è responsabilità da provvedimento, ma da
comportamento, e presuppone la violazione dei doveri di
correttezza e buona fede nella fase delle trattative, in
quanto l'art. 1337 c.c. pone in capo alla p.a. obblighi
analoghi a quelli che gravano su un comune soggetto nel
corso delle trattative; in tal caso, spetta il solo
interesse negativo non essendosi verificata la lesione del
contratto; pertanto, il danno risarcibile è unicamente
quello consistente nella perdita derivata dall'aver fatto
affidamento nella conclusione del contratto e nei mancati
guadagni conseguenti alle altre occasioni contrattuali
perdute; il c.d. danno curriculare, ontologicamente non
diverso da quello legato al mancato perseguimento
dell'interesse positivo, non è pertanto risarcibile,
derivando dalla mancata esecuzione dell'appalto e non
dall'inutilità della trattativa”.
---------------
Sulla necessità che il soggetto richiedente il risarcimento
del danno fornisca adeguata prova sulla consistenza dello
stesso, la giurisprudenza ha affermato che: “Tali danni
devono essere, tuttavia, adeguatamente provati nell’an e nel
quantum dall’interessato in base alla regola generale
dell’onere probatorio, secondo cui spetta a chi agisce in
giudizio indicare e provare i fatti su cui fonda la pretesa
avanzata; la suddetta regola trova piena applicazione nel
giudizio risarcitorio in sede amministrativa, nel quale non
si riscontra quella disuguaglianza di posizioni tra
amministrazione e privato che giustifica l’applicazione del
principio dispositivo con metodo acquisitivo”.
---------------
MASSIMA
8. - Resta da
valutare se nel caso in esame, nonostante sia stata esclusa
l’illegittimità della revoca sotto i profili addotti dalla
ricorrente, residuino margini di responsabilità
precontrattuale della pubblica amministrazione; ciò in
quanto la Ai.Li.Me.Sy. S.p.A., a pagina 21
del ricorso introduttivo, rinvia alla responsabilità ai
sensi dell’art. 1337 c.c., nella denegata ipotesi in cui
questo Tribunale non avesse riconosciuto alla ricorrente il
diritto al risarcimento in forma specifica.
Appare opportuno preliminarmente richiamare i principi
generali elaborati dalla giurisprudenza amministrativa in subiecta materia, in relazione a vicende analoghe a quella
ora in esame, nelle quali l’atto di revoca era intervenuto
in fase avanzata del procedimento di scelta del contraente (cfr. Cons.
St., sez. VI, 01.02.2013 n. 633, e sez. IV, 07.02.2012, n. 662).
E’ stato in proposito statuito che la revoca degli atti di
gara può integrare un illecito precontrattuale, ove si ponga
in contrasto con le regole di buona fede e correttezza di
cui all’art. 1337 cod. civ. riferite ad una Pubblica
Amministrazione, in quanto la responsabilità precontrattuale
prescinde dall’eventuale illegittimità del provvedimento
amministrativo di autotutela che formalizza la volontà
dell’Amministrazione di annullare o revocare gli atti di
gara; essa non discende dalla violazione delle norme di
diritto pubblico che disciplinano l’agire autoritativo della
P.A., ma deriva dalla violazione delle regole comuni (in
particolare del principio generale di buona fede in senso
oggettivo dell’art. 1337 Cod. civ.) che trattano del
“comportamento” precontrattuale, ponendo in capo alla
pubblica amministrazione doveri di correttezza e di buona
fede analoghi a quelli che gravano su un comune soggetto nel
corso delle trattative precontrattuali (cfr. TAR Abruzzo,
Pescara, sez. I, 24.06.2013, n. 347. In merito vedasi
anche Cons. Stato, Ad. Plen., 05.09.2005, n. 6; Cons.
St., sez. V, 07.09.2009 n. 5245).
In relazione al caso in esame si evidenzia che:
- l’aggiudicazione alla Ai.Li.Me.Sy. S.p.A.
non era stata sospesa in sede cautelare;
- dopo l’Ordinanza di questo Tribunale n. 644 del 15.11.2013
(di rigetto dell’istanza cautelare formulata dalla El.
S.r.l. nel ricorso R.G. n. 1091/2013) la stazione appaltante
avrebbe potuto stipulare il contratto;
- l’Ai.Li. ha più volte sollecitato la stazione
appaltante (cfr. nota del 03.02.2014, allegato n. 11 al
ricorso);
- la revoca riporta la data del 27.10.2014.
A pagina 12 del ricorso, si evidenzia che durante questo
periodo la stazione appaltante non ha mai manifestato
l’intenzione di revocare l’aggiudicazione; ciò che sarebbe
stato invece imposto dal rispetto dei canoni di buona fede e
buona amministrazione. Ed anzi, in data 23.09.2013 si è
costituita innanzi a questo Tribunale sostenendo la
legittimità dell’aggiudicazione all’Ai.li.Me.Sy. S.p.A..
Alla luce di quanto sopra evidenziato e in applicazione dei
su richiamati principi, potrebbe in astratto ravvisarsi
nella fattispecie la lesione dell’affidamento ingenerato in
capo all’aggiudicataria dal provvedimento di aggiudicazione
medesimo e la violazione da parte della pubblica
amministrazione dei canoni di correttezza e buona fede che
integra, ai sensi dell’art. 1337 c.c., gli estremi della
responsabilità precontrattuale della pubblica
amministrazione.
Tuttavia, parte ricorrente non allega alcun principio di
prova in relazione ad alcuna delle voci di danno risarcibili
nel caso in esame.
Ed invero, è noto il principio secondo cui in caso di
responsabilità precontrattuale sia risarcibile il solo
interesse negativo, sotto la duplice veste di danno
emergente e lucro cessante; lì dove il danno emergente
coincide con le spese sostenute per la partecipazione alla
gara e in previsione della conclusione del contratto e il
lucro cessante con la perdita di ulteriori occasioni
contrattuali, vanificate a causa dell'impegno derivante
dall'aggiudicazione non sfociata nella stipulazione (in
merito si richiama altresì TAR Roma, sez. III, 10.01.2007, n. 76).
Diversamente, non si ritiene risarcibile il mancato utile,
né il danno da perdita di chance (legata alla impossibilità
di far valere nelle future contrattazioni il requisito
economico) né il danno curriculare, voci che invece
sarebbero state in astratto valutabili ai fini del
risarcimento per equivalente nel caso di revoca illegittima
(ipotesi diversa –si ribadisce- da quella in esame).
Siffatto orientamento è stato confermato dalla recente
sentenza del Consiglio di Stato, sez. III, del 10.03.2015, n. 1228: “Osserva il collegio, in linea generale e
sulla scorta di consolidati principi (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 15.09.2014, n. 4674; Sez. IV, 20.02.2014,
n. 790; Sez. VI, 01.02.2013, n. 633; Sez. V, 26.10.2009, n. 6529, Sez. V,
07.01.2009, n. 7; Ad. plen., 05.09.2005, n. 6), che:
a) il danno precontrattuale è
riconducibile al solo interesse negativo, include il danno
emergente (per le spese sostenute per la partecipazione alla
gara e in previsione della conclusione del contratto) e il
lucro cessante (dovuto alla perdita di ulteriori occasioni
contrattuali, vanificate a causa dell'impegno derivante
dall'aggiudicazione non sfociata nella stipulazione);
b) non rientra nel prisma del danno precontrattuale
l'interesse positivo, sub specie di utile di impresa, ossia
i vantaggi economici che sarebbero derivati dall'esecuzione
del contratto non venuto ad esistenza;
c) non è altresì risarcibile il danno c.d. curriculare
(ovvero il pregiudizio subìto dall'impresa a causa del
mancato arricchimento del curriculum professionale per non
poter indicare in esso l'avvenuta esecuzione dell'appalto),
trattandosi di danno-evento ex art. 1223 c.c., conseguente
alla mancata aggiudicazione e stipulazione del contratto,
dunque incompatibile con la struttura della responsabilità
precontrattuale; invero, la responsabilità precontrattuale
della p.a. non è responsabilità da provvedimento, ma da
comportamento, e presuppone la violazione dei doveri di
correttezza e buona fede nella fase delle trattative, in
quanto l'art. 1337 c.c. pone in capo alla p.a. obblighi
analoghi a quelli che gravano su un comune soggetto nel
corso delle trattative; in tal caso, spetta il solo
interesse negativo non essendosi verificata la lesione del
contratto; pertanto, il danno risarcibile è unicamente
quello consistente nella perdita derivata dall'aver fatto
affidamento nella conclusione del contratto e nei mancati
guadagni conseguenti alle altre occasioni contrattuali
perdute; il c.d. danno curriculare, ontologicamente non
diverso da quello legato al mancato perseguimento
dell'interesse positivo, non è pertanto risarcibile,
derivando dalla mancata esecuzione dell'appalto e non
dall'inutilità della trattativa” (in merito si richiama
altresì TAR Roma, sez. III, 10.01.2007, n. 76).
Si ribadisce, tuttavia, che la ricorrente non ha allegato
alcuna documentazione utile a comprovare l’esistenza del
lamentato danno; non ha comprovato le spese sostenute per
partecipare alla gara (limitandosi ad indicarle in un
prospetto dalla stessa redatto ed allegato al ricorso) né il
lucro cessante (perdita di ulteriori occasioni contrattuali,
vanificate a causa dell'impegno derivante
dall'aggiudicazione non sfociata nella stipulazione).
Sulla necessità che il soggetto richiedente il risarcimento
del danno fornisca adeguata prova sulla consistenza dello
stesso si richiama TAR Sicilia, Catania, sez. III, 16.02.2012, n. 436; TAR Bari, sez. I,
02.09.2014, n. 1048; TAR Roma, sez. III, 10.01.2007, n.
76.
Anche il TAR Napoli in merito ha affermato che: “Tali
danni devono essere, tuttavia, adeguatamente provati nell’an
e nel quantum dall’interessato in base alla regola generale
dell’onere probatorio, secondo cui spetta a chi agisce in
giudizio indicare e provare i fatti su cui fonda la pretesa
avanzata; la suddetta regola trova piena applicazione nel
giudizio risarcitorio in sede amministrativa, nel quale non
si riscontra quella disuguaglianza di posizioni tra
amministrazione e privato che giustifica l’applicazione del
principio dispositivo con metodo acquisitivo” (TAR
Napoli, sez. I, 07.06.2010, n. 12676; TAR Campania
Napoli, Sez. I, 08.02.2006 n. 1794).
Alla luce di quanto sopra evidenziato la richiesta
risarcitoria de qua deve essere dichiarata
inammissibile (TAR Puglia-Bari, Sez. II,
sentenza
20.05.2016 n. 694
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Le valutazioni delle
offerte tecniche da parte delle commissioni di gara sono
espressione di ampia discrezionalità tecnica e, come tali,
sono sottratte al sindacato di legittimità del giudice
amministrativo, salvo che non siano manifestamente
illogiche, irrazionali, irragionevoli, arbitrarie ovvero
fondate su di un altrettanto palese e manifesto travisamento
dei fatti.
Ovvero ancora salvo che non venga censurata la plausibilità
dei criteri valutativi o la loro applicazione, non essendo
sufficiente che la determinazione assunta sia, sul piano del
metodo e del procedimento seguito, meramente opinabile, in
quanto il giudice amministrativo non può sostituire -in
attuazione del principio costituzionale di separazione dei
poteri- proprie valutazioni a quelle effettuate
dall'autorità pubblica, quando si tratti di regole
(tecniche) attinenti alle modalità di valutazione delle
offerte.
---------------
Orbene,
secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, le
valutazioni delle offerte tecniche da parte delle
commissioni di gara sono espressione di ampia
discrezionalità tecnica e, come tali, sono sottratte al
sindacato di legittimità del giudice amministrativo, salvo
che non siano manifestamente illogiche, irrazionali,
irragionevoli, arbitrarie ovvero fondate su di un
altrettanto palese e manifesto travisamento dei fatti (ex
multis, Cons. St., sez. V, 30.04.2015, n. 2198;
23.02.2015, n. 882; 26.03.2014, n. 1468); ovvero ancora
salvo che non venga censurata la plausibilità dei criteri
valutativi o la loro applicazione, non essendo sufficiente
che la determinazione assunta sia, sul piano del metodo e
del procedimento seguito, meramente opinabile, in quanto il
giudice amministrativo non può sostituire -in attuazione
del principio costituzionale di separazione dei poteri-
proprie valutazioni a quelle effettuate dall'autorità
pubblica, quando si tratti di regole (tecniche) attinenti
alle modalità di valutazione delle offerte (Cfr. Consiglio
di Stato sez. V, 28.10.2015, n. 4942 e Cons. Stato, sez. V,
26.05.2015, n. 2615) (TAR Puglia-Bari, Sez. II,
sentenza
20.05.2016 n. 694
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: I
parcheggi pertinenziali, in quanto espressamente individuati
dal legislatore quali opere di urbanizzazione, non soggiacciono al
contributo di costruzione.
Deve ribadirsi che la legge n. 122/1989
nell'innovare la disciplina dei parcheggi (anche ex art. 2,
comma 2, incrementando la misura minima obbligatoria di
parcheggi pertinenziali nei nuovi edifici -il rapporto di 1
mq./20 mc. stabilito inizialmente dall’art. 41-sexies, comma
1, della legge 1150/1942 nel testo aggiunto dall’art. 18
della legge 06.08.1967 n. 765 è stato portato a 1 mq./10mc.-
e nello stabilire all'art. 9, comma 1, il principio secondo
cui i parcheggi pertinenziali possono essere realizzati
anche in deroga agli strumenti urbanistici e ai regolamenti
edilizi vigenti), all'art. 11, comma 1, ha equiparato i
parcheggi pertinenziali alle opere di urbanizzazione anche
per quanto riguarda la gratuità del titolo edilizio.
Invero, i parcheggi pertinenziali vanno complessivamente
qualificati come opere di urbanizzazione e, quindi, a tutti
(e non già soltanto a quelli previsti per la fruizione
collettiva) è stato riconosciuto un rilievo pubblico: può
concordarsi in proposito con la tesi per cui la gratuità non
va estesa anche ai parcheggi pertinenziali che eccedono la
misura minima di legge, atteso che, in carenza di una
espressa disposizione di legge in tal senso (e pur nella
opinabilità della questione) la interpretazione teleologica
consente di affermare che la qualificazione dei parcheggi
pertinenziali come opere di urbanizzazione ex art. 11, comma
1, della legge 122/1989 debba rimanere circoscritta entro i
confini tracciati dall'art. 41-sexies, comma 1, della legge
1150/1942 (di guisa che per i parcheggi eccedenti il “tetto”
di dotazione obbligatoria trova applicazione il disposto di
cui al D.M più volte citato).
Per le chiarite ragioni, quindi, non può accedersi alla tesi
del Comune secondo cui a cagione della assenza di espressa
abrogazione del citato dm 10.05.1977, n. 312400 i parcheggi
"equiparati" alle opere di urbanizzazione e conseguentemente
esenti dal contributo di costruzione siano soltanto quelli
destinati ad uso collettivo.
E' agevole replicare, sul punto, che nulla prova la mancata
abrogazione in parte qua del D.M. 10.05.1977 in quanto la
equiparazione di cui all'art. 11, comma 1, della legge n.
122/1989 dei parcheggi pertinenziali alle opere di
urbanizzazione non opera per quelli eccedenti la dotazione
obbligatoria che quindi risultano normati dal citato D.M.
(da interpretarsi nel senso comprensivo dei tornelli di
manovra cui si è fatto in precedenza riferimento).
Le considerazioni che precedono valgono anche, e a maggiore
ragione, per gli spazi di manovra e di accesso ai garages,
dovendosi conseguentemente e del tutto logicamente
assoggettare anche tali superfici allo stesso regime
giuridico dei parcheggi pertinenziali, in questo caso esenti
dal riferito contributo di costruzione, in quanto che senza
i corselli di accesso le autorimesse non sarebbero tali.
---------------
La Sezione, come già affermato in altre pronunce, non
condivide affatto le pur autorevoli argomentazioni di una
parte della giurisprudenza, invocata dalla ricorrente, sulla
autoresponsabilità della amministrazione per l’affidamento
riposto dal privato sulla prima liquidazione (ndr: del
contributo di costruzione), che pertanto sarebbe
modificabile, negli ordinari termini prescrizionali, solo se
viziata da errori così evidenti da essere immediatamente
riconoscibili, perché l’equilibrio finanziario
dell'intervento costruttivo deve essere noto all'interessato
prima di iniziarlo, affinché possa fondarvi a ragion veduta
le sue scelte e valutazioni imprenditoriali.
In contrario, il Collegio osserva che, poiché la
determinazione dell'onere appartiene, pacificamente,
all'area delle attività paritetiche e non provvedimentali ed
è regolata, fin nel dettaglio, da fonti di rango normativo,
il relativo credito non è nella disponibilità
dell'Amministrazione, che non ha alcun potere di imporre e
pretendere un contributo diverso da quello dovuto.
Pertanto, ove avvenga, l’errore potrà (anzi dovrà) sempre
essere rettificato entro l'ordinario termine prescrizionale
e, al più, potrebbe eventualmente determinare una
responsabilità per danni, ove ne ricorrano tutti i
presupposti soggettivi (colpa) e oggettivi (es. non
remuneratività dell'intervento costruttivo), ma non certo un
contributo minore di quello dovuto.
--------------
... per l'annullamento, previa sospensiva:
a) del provvedimento in data 23.04.2009, con cui il comune
di Vignola ha rideterminato in €. 61.482,42 il contributo di
costruzione relativo al permesso di costruire n. 12549
rilasciato alla società ricorrente in data 16.09.2005 e con
cui ha inoltre inviato la stessa a pagare la somma di €.
40.502,15;
b) del provvedimento in pari data con cui lo stesso Comune
ha rideterminato in €. 126.480,00 il contributo di
costruzione relativo al permesso di costruire 12553
rilasciato alla ricorrente il 20/07/2005 e con cui, inoltre,
ha inviato la ricorrente a pagare la somma di 44.782,46.
E per l’accertamento dell’insussistenza del debito della
ricorrente verso il Comune per le predette somme, con
conseguente condanna del Comune a restituire le somme di cui
è causa, qualora le stesse debbano essere versate o siano
iscritte a ruolo in esecuzione delle determinazioni
impugnate.
...
Il Collegio osserva che già in precedenti sentenze questa Sezione si è
pronunciata sulla rideterminazione dei contributi
urbanistici da parte del comune di Vignola, anche con
specifico riferimento al sopravvenuto assoggettamento a tale
contribuzione degli interventi edilizi concernenti la
realizzazione sia dei parcheggi pertinenziali sia delle
superfici relative ai corselli di manovra e di accesso ai
garage interrati (TAR Emilia Romagna sez. II, n. 939
del 2014 e 16/4/2010 n. 3533).
I corrispondenti motivi di
ricorso (quinto motivo relativo ai corselli di accesso ai
garages e sesto motivo relativo ai parcheggi pertinenziali
interrati) sono fondati e vanno pertanto accolti,
conformandosi alle puntuali determinazioni del Consiglio di
Stato (Cons. Stato, 28/11/2012 n. 6033) il quale ha
rilevato, in parziale riforma della sentenza di questo
TAR (Tar BO, sez. II, 16.04.2010, n. 3533), che i
parcheggi pertinenziali, in quanto espressamente individuati
quali opere di urbanizzazione, non soggiacciono al
contributo di costruzione.
Il Consiglio di Stato ha
precisato quanto segue: "Deve sul punto ribadirsi, infatti,
che la legge n. 122/1989 nell'innovare la disciplina dei
parcheggi (anche ex art. 2, comma 2, incrementando la misura
minima obbligatoria di parcheggi pertinenziali nei nuovi
edifici -il rapporto di 1 mq./20 mc. stabilito inizialmente
dall’art. 41-sexies, comma 1, della legge 1150/1942 nel testo
aggiunto dall’art. 18 della legge 06.08.1967 n. 765 è
stato portato a 1 mq./10mc.- e nello stabilire all'art. 9,
comma 1, il principio secondo cui i parcheggi pertinenziali
possono essere realizzati anche in deroga agli strumenti
urbanistici e ai regolamenti edilizi vigenti), all'art. 11,
comma 1, ha equiparato i parcheggi pertinenziali alle opere
di urbanizzazione anche per quanto riguarda la gratuità del
titolo edilizio.
Tale decisione del Consiglio di Stato è
stata di recente condivisa da questo TAR con la già
citata sentenza di questa Sezione n. 939 del 2014, ove si è
osservato che i parcheggi pertinenziali vanno quindi
complessivamente qualificati come opere di urbanizzazione e
quindi che a tutti (e non già soltanto a quelli previsti per
la fruizione collettiva) è stato riconosciuto un rilievo
pubblico: può concordarsi in proposito con la tesi per cui
la gratuità non va estesa anche ai parcheggi pertinenziali
che eccedono la misura minima di legge, atteso che, in
carenza di una espressa disposizione di legge in tal senso
(e pur nella opinabilità della questione) la interpretazione
teleologica consente di affermare che la qualificazione dei
parcheggi pertinenziali come opere di urbanizzazione ex art.
11, comma 1, della legge 122/1989 debba rimanere circoscritta
entro i confini tracciati dall'art. 41-sexies, comma 1, della
legge 1150/1942 (di guisa che per i parcheggi eccedenti il
“tetto” di dotazione obbligatoria trova applicazione il
disposto di cui al D.M più volte citato).
Per le chiarite
ragioni, quindi, non può accedersi alla tesi del Comune
secondo cui a cagione della assenza di espressa abrogazione
del citato dm 10.05.1977, n. 312400 i parcheggi
"equiparati" alle opere di urbanizzazione e conseguentemente
esenti dal contributo di costruzione siano soltanto quelli
destinati ad uso collettivo.
E' agevole replicare, sul
punto, che nulla prova la mancata abrogazione in parte qua
del D.M. 10.05.1977 in quanto la equiparazione di cui
all'art. 11, comma 1, della legge n. 122/1989 dei parcheggi pertinenziali alle opere di urbanizzazione non opera per
quelli eccedenti la dotazione obbligatoria che quindi
risultano normati dal citato D.M. (da interpretarsi nel
senso comprensivo dei tornelli di manovra cui si è fatto in
precedenza riferimento). Le considerazioni che precedono
valgono anche, e a maggiore ragione, per gli spazi di
manovra e di accesso ai garages, dovendosi conseguentemente
e del tutto logicamente assoggettare anche tali superfici
allo stesso regime giuridico dei parcheggi pertinenziali, in
questo caso esenti dal riferito contributo di costruzione,
in quanto che senza i corselli di accesso le autorimesse non
sarebbero tali" (TAR Emilia Romagna –BO- sez. II, n.
3533 del 2010 cit.).
Per quanto concerne, invece, i primi tre motivi di ricorso,
tutti incentrati, in concreto, sul preteso effetto auto
vincolante della primigenia liquidazione effettuata dal
Comune e successivamente integrata con il computo, anche,
degli ulteriori mq. di S.U. convenzionata, e di ulteriori
mq. di superficie non residenziale, la Sezione, come già
affermato nelle più volte citate pronunce, non condivide
affatto le pur autorevoli argomentazioni di una parte della
giurisprudenza, invocata dalla ricorrente, sulla
autoresponsabilità della amministrazione per l’affidamento
riposto dal privato sulla prima liquidazione, che pertanto
sarebbe modificabile, negli ordinari termini prescrizionali,
solo se viziata da errori così evidenti da essere
immediatamente riconoscibili, perché l’equilibrio
finanziario dell'intervento costruttivo deve essere noto
all'interessato prima di iniziarlo, affinché possa fondarvi
a ragion veduta le sue scelte e valutazioni imprenditoriali.
In contrario, il Collegio osserva che, poiché la
determinazione dell'onere appartiene, pacificamente,
all'area delle attività paritetiche e non provvedimentali ed
è regolata, fin nel dettaglio, da fonti di rango normativo,
il relativo credito non è nella disponibilità
dell'Amministrazione, che non ha alcun potere di imporre e
pretendere un contributo diverso da quello dovuto.
Pertanto,
ove avvenga, l’errore potrà (anzi dovrà) sempre essere
rettificato entro l'ordinario termine prescrizionale e, al
più, potrebbe eventualmente determinare una responsabilità
per danni, ove ne ricorrano tutti i presupposti soggettivi
(colpa) e oggettivi (es. non remuneratività dell'intervento
costruttivo), ma non certo un contributo minore di quello
dovuto (vedi altresì ampiamente il punto 2.1. sent. Cons.
Stato, 28/11/2012 n, 6033).
Parimenti deve essere respinto il quarto motivo di gravame,
non essendo condivisibile la tesi della ricorrente secondo
la quale la ulteriore S.U. corrispondente all’incremento
della capacità edificatoria del lotto, riconosciuta per
l'edilizia convenzionata ai sensi dell'articolo 64 delle
N.T.A. del P.R.G., non avrebbe dovuto essere computata.
Infatti, come chiarito dal precedente specifico di questo
TAR (Tar BO, sez. II, 16.04.2010, n 3533, confermato
sul punto dal Consiglio di Stato (Cons. Stato, 28/11/2012 n.
6033 e anche dalla successiva sentenza di questa Sezione n.
939 del 2014 cit.), l’incremento è dovuto in base
all'esplicita previsione dell'art. 16 della convenzione
attuativa, la quale prevede che il convenzionamento "non
determina riduzione di oneri", oneri che nella terminologia
corrente in materia sono tutti quelli necessari ad ottenere
il permesso di costruire e cioè sia quelli corrispettivi
alla fruizione delle opere di urbanizzazione (oneri di
urbanizzazione in senso stretto) che quelli commisurati al
costo di costruzione, entrambi contributi che il privato
deve corrispondere per ottenere il titolo.
Del resto
l'art.16, nello stabilire, per il maggiore indice
riconosciuto per edilizia convenzionata, un prezzo a mq.
pari a euro 516, pone a carico del Comune il solo obbligo di
erogare i buoni casa per l'acquisto, senza prevedere alcun
ulteriore beneficio o forma di compensazione (ma anzi
escludendo espressamente qualsiasi "riduzione di oneri").
In conclusione il ricorso deve essere parzialmente accolto,
entro i limiti indicati in sede di esame del quinto e del
sesto motivo di ricorso, con conseguente obbligo
dell'amministrazione di ricalcolare il contributo dovuto in
applicazione dei criteri sopra indicati e di restituire alla
ricorrente tutte le somme da essa versate in eccedenza,
maggiorate degli interessi al tasso legale (TAR Emilia
Romagna-Bologna, Sez. II,
sentenza 20.05.2016 n. 539 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sull'accertamento
se, a séguito del versamento del contributo di costruzione
(a mezzo di assegno bancario, con quietanza del Comune del
12/10/2005 apposta sulla scheda oneri) nelle mani di
funzionario che si è poi appropriato della relativa somma di
denaro –sì da patteggiare successivamente in sede penale per
il reato di “peculato”–, i ricorrenti siano o meno tenuti a
corrispondere all’Amministrazione quanto viene loro imputato
di non avere a suo tempo versato in tesoreria comunale.
la peculiare situazione determinatasi
nel caso di specie –con il Responsabile dello Sportello
Unico per l’Edilizia del Comune di Zocca che ha incassato,
senza averne titolo, quanto dovuto dalla ricorrente a titolo
di contributo per il costo di costruzione e di oneri di
urbanizzazione e ha poi distratto quella somma a proprio
profitto– integra un’ipotesi riconducibile alla fattispecie
di cui all’art. 1189 cod. civ. (“Il debitore che esegue il
pagamento a chi appare legittimato a riceverlo in base a
circostanze univoche, è liberato se prova di essere stato in
buona fede. Chi ha ricevuto il pagamento è tenuto alla
restituzione verso il vero creditore, secondo le regole
stabilite per la ripetizione dell’indebito”), posto che il
titolare dell’impresa individuale instante adduce la buona
fede circa le modalità di versamento della somma di denaro
spettante all’Amministrazione comunale, e imputa alla stessa
di avere omesso di vigilare sulla condotta del funzionario,
colpevolmente favorendo la formazione di un legittimo
affidamento del privato (sia esso persona fisica o impresa)
in ordine alla regolarità di detta condotta, oltretutto
contraddistinta da numerosi episodi analoghi.
La buona fede, in particolare, appare agevolmente
rinvenibile in un caso in cui il debitore, proprio per la
natura pubblica del soggetto che funge da controparte, ha
valide ragioni per ritenere che il comportamento di
quest’ultimo sia improntato a correttezza e al rispetto
della legalità, tenuto anche conto della circostanza che, a
norma dell’art. 180, comma 1, del «testo unico delle leggi
sull’ordinamento degli enti locali» (d.lgs. n. 267/2000), la
“riscossione costituisce la successiva fase del procedimento
dell’entrata, che consiste nel materiale introito da parte
del tesoriere o di altri eventuali incaricati della
riscossione delle somme dovute all’ente”, sicché non appare
ragionevolmente esigibile dal cittadino comune (o da
un’impresa privata, come è avvenuto nella specie) la
conoscenza analitica dei soggetti di volta in volta
autorizzati in tal senso dall’Amministrazione comunale, e
non è dunque ascrivibile a tali soggetti una insufficiente
diligenza o comunque un affidamento “colpevole” se essi
hanno accolto la richiesta di pagamento diretto rivolta loro
da funzionario che non aveva in realtà titolo all’incasso
del denaro.
Né, poi, è significativo che l’assegno bancario sia stato
consegnato al funzionario infedele senza l’indicazione
dell’intestatario –nel dichiarato presupposto che l’ufficio
comunale avrebbe in séguito provveduto ad integrarlo in
parte qua–, in quanto la contestuale restituzione della c.d.
“scheda oneri” con il timbro “pagato” (situazione richiamata
anche dal giudice penale quale prassi osservata dal
funzionario infedele per ingannare gli interessati)
rappresentava circostanza in sé convincente, secondo un
parametro di diligenza media, della correttezza della
procedura in atto e dell’incasso della somma da parte
dell’ente, in un contesto ambientale riconducibile alla
medesima Amministrazione ed in relazione ad un funzionario
investito della funzione di Responsabile dello Sportello
Unico per l’Edilizia, quindi in condizioni che
ragionevolmente escludevano la sussistenza di motivi per
dubitare della liceità della condotta dell’interlocutore
pubblico.
Con specifico riferimento al caso ora in trattazione, va
ulteriormente osservato che il ricorrente ha avuto
un’ulteriore ragione per fare affidamento sulla regolarità
del pagamento effettuato relativamente a detto contributo,
poiché la relativa quietanza, oltre ad essere stata
rilasciata, come si è detto, sulla scheda oneri, risulta
anche espressamente riportata sul permesso di costruire n.
48 rilasciato dal Comune il 10/10/2005.
Quanto, poi, alla responsabilità del creditore nel
determinarsi delle circostanze univoche e concludenti che
hanno dato luogo all’insorgere della situazione apparente
per il privato, si presenta decisiva la circostanza che il
comportamento illecito del funzionario si sia svolta
all’interno della sfera di sorveglianza dell’Amministrazione
e in occasione dell’esercizio dei compiti a lui assegnati,
con la conseguenza che l’omessa adozione di misure
organizzative adeguate, e quindi l’insufficienza dei
controlli, ha favorito la condotta ingannevole del
funzionario nonché il legittimo convincimento del privato,
derivante da errore scusabile, che lo stato di fatto
rispecchiasse la realtà giuridica.
---------------
La presente controversia ha quale oggetto l’accertamento
dell’esistenza o meno di un debito della impresa individuale
di cui il ricorrente è titolare nei confronti del comune di
Zocca a titolo di contributi urbanistici (costo di
costruzione e oneri di urbanizzazione primaria e secondaria)
connessi al rilascio del permesso costruire n. 48 del 2005
per l’importo complessivo di € 12.215,39 che l’odierno
ricorrente afferma di avere corrisposto all’amministrazione
comunale e che questa, all’opposto, nega di avere ricevuto.
Nel peculiare caso di specie, il Collegio è chiamato ad
accertare se, a séguito del versamento dei suddetti oneri (a
mezzo di assegno bancario, con quietanza del Comune del
12/10/2005 apposta sulla scheda oneri v. doc. n. 6 del
ricorrente) nelle mani di funzionario che si è poi
appropriato della relativa somma di denaro –sì da
patteggiare successivamente in sede penale per il reato di
“peculato”–, i ricorrenti siano o meno tenuti a
corrispondere all’Amministrazione quanto viene loro imputato
di non avere a suo tempo versato in tesoreria comunale.
Come
è noto, l’art. 1189 cod. civ., che riconosce efficacia
liberatoria al pagamento effettuato dal debitore in buona
fede a chi appare legittimato a riceverlo, si applica, per
identità di ratio, sia all’ipotesi di pagamento effettuato
al creditore apparente, sia all’ipotesi in cui il pagamento
viene effettuato a persona che appaia autorizzata a
riceverlo per conto del creditore effettivo, ove
quest’ultimo abbia determinato o concorso a determinare
l’errore del solvens, facendo sorgere nel soggetto in buona
fede una ragionevole presunzione circa la rispondenza alla
realtà dei poteri rappresentativi dell’accipiens (v. tra le
altre, Cass. civ., Sez. II, 13.09.2012 n. 15339).
La
norma deroga al principio generale stabilito dall’art. 1188
cod. civ., secondo cui il pagamento è liberatorio solo se
effettuato al creditore o al suo rappresentante, ed è
collegata all’istituto dell’apparenza giuridica,
configurabile solo se l’apparenza risulti giustificata da
circostanze univoche e concludenti riferibili al creditore,
sì da far sorgere nel debitore un ragionevole affidamento,
esente da colpa, sull’effettiva sussistenza della facoltà
apparente dell’accipiens di ricevere il pagamento; in
presenza di tale prova –a carico del debitore–, incombe
sul creditore l’onere di provare a sua volta che il solvens
non ignorasse la reale situazione, ovvero che l’affidamento
dello stesso fosse determinato da colpa.
Questo TAR si è
già pronunciato su questione uguale a quella attualmente in
esame con la sentenza della prima sezione n. 380 del 2014,
ivi svolgendo considerazioni e pervenendo ad un esito, dai
quali il Collegio non ravvisa motivo alcuno per discostarsi
nel decidere la presente causa.
Orbene, la peculiare
situazione determinatasi nel caso di specie –con il
Responsabile dello Sportello Unico per l’Edilizia del Comune
di Zocca che ha incassato, senza averne titolo, quanto
dovuto dalla ricorrente a titolo di contributo per il costo
di costruzione e di oneri di urbanizzazione e ha poi
distratto quella somma a proprio profitto– integra
un’ipotesi riconducibile alla fattispecie di cui all’art.
1189 cod. civ. (“Il debitore che esegue il pagamento a chi
appare legittimato a riceverlo in base a circostanze
univoche, è liberato se prova di essere stato in buona fede.
Chi ha ricevuto il pagamento è tenuto alla restituzione
verso il vero creditore, secondo le regole stabilite per la
ripetizione dell’indebito”), posto che il titolare
dell’impresa individuale instante adduce la buona fede circa
le modalità di versamento della somma di denaro spettante
all’Amministrazione comunale, e imputa alla stessa di avere
omesso di vigilare sulla condotta del funzionario,
colpevolmente favorendo la formazione di un legittimo
affidamento del privato (sia esso persona fisica o impresa)
in ordine alla regolarità di detta condotta, oltretutto
contraddistinta da numerosi episodi analoghi.
La buona fede,
in particolare, appare agevolmente rinvenibile in un caso in
cui il debitore, proprio per la natura pubblica del soggetto
che funge da controparte, ha valide ragioni per ritenere che
il comportamento di quest’ultimo sia improntato a
correttezza e al rispetto della legalità, tenuto anche conto
della circostanza che, a norma dell’art. 180, comma 1, del
«testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali»
(d.lgs. n. 267/2000), la “riscossione costituisce la
successiva fase del procedimento dell’entrata, che consiste
nel materiale introito da parte del tesoriere o di altri
eventuali incaricati della riscossione delle somme dovute
all’ente”, sicché non appare ragionevolmente esigibile dal
cittadino comune (o da un’impresa privata, come è avvenuto
nella specie) la conoscenza analitica dei soggetti di volta
in volta autorizzati in tal senso dall’Amministrazione
comunale, e non è dunque ascrivibile a tali soggetti una
insufficiente diligenza o comunque un affidamento
“colpevole” se essi hanno accolto la richiesta di pagamento
diretto rivolta loro da funzionario che non aveva in realtà
titolo all’incasso del denaro; né, poi, è significativo che
l’assegno bancario sia stato consegnato al funzionario
infedele senza l’indicazione dell’intestatario –nel
dichiarato presupposto che l’ufficio comunale avrebbe in
séguito provveduto ad integrarlo in parte qua–, in quanto
la contestuale restituzione della c.d. “scheda oneri” con il
timbro “pagato” (situazione richiamata anche dal giudice
penale quale prassi osservata dal funzionario infedele per
ingannare gli interessati) rappresentava circostanza in sé
convincente, secondo un parametro di diligenza media, della
correttezza della procedura in atto e dell’incasso della
somma da parte dell’ente, in un contesto ambientale
riconducibile alla medesima Amministrazione ed in relazione
ad un funzionario investito della funzione di Responsabile
dello Sportello Unico per l’Edilizia, quindi in condizioni
che ragionevolmente escludevano la sussistenza di motivi per
dubitare della liceità della condotta dell’interlocutore
pubblico.
Con specifico riferimento al caso ora in
trattazione, va ulteriormente osservato che il ricorrente ha
avuto un’ulteriore ragione per fare affidamento sulla
regolarità del pagamento effettuato relativamente a detto
contributo, poiché la relativa quietanza, oltre ad essere
stata rilasciata, come si è detto, sulla scheda oneri,
risulta anche espressamente riportata sul permesso di
costruire n. 48 rilasciato dal Comune il 10/10/2005 (v. doc.
n. 5 del ricorrente).
Quanto, poi, alla responsabilità del
creditore nel determinarsi delle circostanze univoche e
concludenti che hanno dato luogo all’insorgere della
situazione apparente per il privato, si presenta decisiva la
circostanza che il comportamento illecito del funzionario si
sia svolta all’interno della sfera di sorveglianza
dell’Amministrazione e in occasione dell’esercizio dei
compiti a lui assegnati, con la conseguenza che l’omessa
adozione di misure organizzative adeguate, e quindi
l’insufficienza dei controlli, ha favorito la condotta
ingannevole del funzionario nonché il legittimo
convincimento del privato, derivante da errore scusabile,
che lo stato di fatto rispecchiasse la realtà giuridica.
Di qui la fondatezza della pretesa del ricorrente a vedersi
dichiarare liberato dall’obbligo di pagamento di una somma
di denaro che l’Amministrazione comunale assume ancora
dovuta, posto che il pregresso pagamento nelle mani del
funzionario infedele –in virtù del principio dell’apparenza
giuridica– aveva determinato l’estinzione dell’obbligazione
e la necessità che l’ente locale si rivalesse a quel punto
sul proprio dipendente. Pertanto, nei termini indicati il
ricorso va accolto, con accertamento dell’insussistenza di
alcun debito del ricorrente nei confronti del comune di
Zocca relativamente ai contributi per costo di costruzione e
per oneri di urbanizzazione di cui al permesso di costruire
n. 48 del 10/10/2005 e conseguente annullamento degli atti
impugnati.
Quale ulteriore conseguenza del suddetto
accertamento, deve essere accolta anche la domanda con cui
il ricorrente, a seguito della rideterminazione, da parte
del Comune, dei contributi urbanistici (per un minore
importo rispetto a quello originariamente preteso), chiede
la restituzione dell’importo differenziale tra quanto
originariamente corrisposto a tale titolo e l’importo ora
ricalcolato dal Comune.
In ragione di ciò l’Amministrazione
comunale deve essere condannata alla restituzione della
differenza tra l’importo a suo tempo versato in eccedenza
dall’interessato, avendo il permesso di costruire n. 48/2005
allora quantificato in € 12.215,98 l’importo complessivo
dovuto e avendo ora il Comune di Zocca rideterminato
quell’importo in € 8.116,74, con l’effetto di dover essere
resa al ricorrente la somma di € 4.099,24, con l’aggiunta
degli interessi legali dalla domanda giudiziale (data di
notificazione del ricorso) al saldo –dovendosi presumere,
per il calcolo erroneo, la buona fede dell’accipiens, in
assenza di prova contraria–, mentre non compete la
rivalutazione monetaria trattandosi di pagamento di indebito
oggettivo ex art. 2033 cod. civ. (v., ex multis, TAR
Sicilia, Catania, Sez. I, 28.06.2013 n. 1921) e
difettando d’altronde la dimostrazione dell’eventuale
maggior danno subito.
Va respinta, infine, la domanda di
risarcimento dei danni, nessuna prova essendo stata fornita
in tal senso dal ricorrente
(TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II,
sentenza 20.05.2016 n. 538 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il cittadino non deve pagare due volte.
Versamento nelle mani di funzionario infedele.
Il cittadino è libero dall'obbligo di pagamento di una somma
di denaro che l'Amministrazione comunale assume ancora
dovuta, anche se il pregresso pagamento sia avvenuto nelle
mani di un funzionario infedele, che ha intascato quanto
dovuto.
E ciò in virtù del principio dell'apparenza giuridica che
determina l'estinzione dell'obbligazione e la necessità che
l'ente locale si rivalga sul proprio dipendente.
Lo hanno affermato i giudici della II
Sez. del TAR Emilia Romagna-Bologna con la
sentenza
20.05.2016 n. 537.
Il thema decidendum. La questione sottoposta all'attenzione
dei giudici bolognesi aveva quale oggetto l'accertamento
dell'esistenza o meno di un debito di una società ricorrente
nei confronti di un comune a titolo di contributo relativo
al costo di costruzione connesso al rilascio del permesso
costruire. Nel peculiare caso di specie, i giudici
amministrativi sono stati chiamati ad accertare se, a
seguito del versamento degli oneri di urbanizzazione (a
mezzo di assegno bancario) nelle mani di funzionario che si
è poi appropriato della relativa somma di denaro –sì da
patteggiare successivamente in sede penale per il reato di
«peculato»– la ricorrente sia o meno tenuta a corrispondere
all'Amministrazione quanto viene loro imputato di non avere
a suo tempo versato in tesoreria comunale.
Il codice civile ed il pagamento in buona fede. I giudici
bolognesi hanno richiamato l'art. 1189 cod. civ. che
riconosce efficacia liberatoria al pagamento effettuato dal
debitore in buona fede a chi appare legittimato a riceverlo,
si applica, per identità di ratio, sia all'ipotesi di
pagamento effettuato al creditore apparente, sia all'ipotesi
in cui il pagamento viene effettuato a persona che appaia
autorizzata a riceverlo per conto del creditore effettivo,
ove quest'ultimo abbia determinato o concorso a determinare
l'errore del solvens.
Tale norma, è stato osservato dal Tar, deroga al principio
generale stabilito dall'art. 1188 cod. civ., secondo cui il
pagamento è liberatorio solo se effettuato al creditore o al
suo rappresentante, ed è collegata all'istituto
dell'apparenza giuridica, configurabile solo se l'apparenza
risulti giustificata da circostanze univoche e concludenti
riferibili al creditore, sì da far sorgere nel debitore un
ragionevole affidamento.
La buona fede.
Secondo il Tar per l'Emilia Romagna, quindi, la peculiare
situazione determinatasi nel caso di specie integra
un'ipotesi riconducibile alla fattispecie di cui all'art.
1189 cod. civ. posto che la società instante adduce la buona
fede circa le modalità di versamento della somma di denaro
spettante all'Amministrazione comunale
(articolo ItaliaOggi Sette del 04.07.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Opera senza titolo da demolire. Violazione fasce
di rispetto, la multa non è sufficiente.
Sentenza del Tar Veneto sui limiti derivanti
dall'applicazione del codice della strada.
Non si può applicare una semplice sanzione pecuniaria in
caso di violazione delle disposizioni sulle fasce di
rispetto previste dal codice della strada, ma in ogni caso
le opere eseguite senza titolo dovranno essere demolite.
Lo hanno affermato i giudici della Sez. II del TAR Veneto con la
sentenza 19.05.2016 n. 543.
La società Alfa era ricorsa ai giudici amministrativi in
quanto proprietaria di uno stabilimento industriale e con
denuncia di inizio attività comunicava l'avvio dei lavori
per la costruzione di una recinzione sul fronte strada sui
lati sud ed ovest del fondo di proprietà e sul lato est.
Il comune inibiva in autotutela gli effetti della denuncia
di inizio attività perché l'altezza della recinzione era
contrastante con quanto prescritto dal regolamento edilizio
e la distanza della recinzione dalla strada contrastava con
quanto previsto dalle norme tecniche di attuazione e dal
regolamento edilizio per quanto concerne la fascia di
rispetto stradale.
Successivamente la medesima società presentava una ulteriore
denuncia di inizio attività per la costruzione di un muro di
contenimento su uno scolo con il parere favorevole del
Consorzio di bonifica che tuttavia aveva espressamente
prescritto di non realizzare alcuna recinzione sovrastante
il muro di contenimento.
Nel corso di sopralluoghi effettuati il comune accertava la
presenza di una recinzione nell'alveo dello scolo in
contrasto con il parere espresso dal Consorzio di bonifica,
e una recinzione sul fronte strada apposta a 40 cm dalla
sede stradale, in fascia di rispetto.
Con ordinanza il comune disponeva la demolizione e la
riduzione in pristino della recinzione realizzata
all'interno della fascia di rispetto stradale. Secondo i
giudici veneziani l'ordine di rimozione della recinzione
costituisce esercizio di un'attività vincolata a tutela
della sicurezza stradale ai sensi dell'art. 16, comma 5, del
codice della strada, per il quale (cfr. Tar Toscana, sez.
III, 12.03.2013, n. 405; Consiglio di stato, sez. IV, 14.04.2010, n. 2076) la violazione delle disposizioni sulle
fasce di rispetto comporta comunque la sanzione
amministrativa accessoria dell'obbligo per l'autore della
violazione stessa del ripristino dei luoghi a proprie spese,
fermo restando il contrasto della recinzione anche con gli
strumenti urbanistici che recano puntuali prescrizioni sulla
costruzione delle recinzioni che risultavano violate
dall'intervento
(articolo ItaliaOggi Sette del 27.06.2016).
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MASSIMA
Le censure proposte avverso l’ordinanza n. 33 prot. n.
10049 del 23.12.2009, che ha disposto la rimozione della
recinzione realizzata all’interno della fascia di rispetto
stradale, sono invece infondate e devono essere respinte.
Infatti come chiarito dal Comune nella memoria di replica
senza che sul punto vi siano state contestazione dalla parte
ricorrente neppure in sede di trattazione orale, le censure
proposte muovo dall’erroneo assunto che la recinzione sia
ricompresa all’interno del perimetro del centro abitato.
Invece la stessa si trova al di fuori del centro abitato
così come delimitato dalla deliberazione della Giunta
comunale n. 78 del 28.11.2003, con la conseguenza che
trovano applicazione l’art. 16, comma 1, lett. c), del Dlgs.
30.04.1992, n. 285, e l’art. 26, comma 8, del DPR
16.12.1992, n. 495, i quali rispettivamente vietano “impiantare
alberi lateralmente alle strade, siepi vive o piantagioni
ovvero recinzioni” disponendo che “la distanza dal
confine stradale, fuori dai centri abitati, da rispettare
per impiantare lateralmente alle strade, siepi vive o
piantagioni di altezza superiore ad 1 m sul terreno, non può
essere inferiore a 3 m. Tale distanza si applica anche per
le recinzioni di altezza superiore ad 1 m sul terreno
costituite come previsto al comma 7, e per quelle di altezza
inferiore ad 1 m sul terreno se impiantate su cordoli
emergenti oltre 30 cm dal suolo”.
E’ pertanto evidente che
l’ordine di rimozione della recinzione che ha un’altezza di
167 cm ed è posta a 40 cm dal ciglio stradale
(cfr. la documentazione fotografica che accompagna il
verbale di sopralluogo del 28.10.2009, di cui al doc. 8
allegato al primo elenco di documenti delle difese del
Comune)
costituisce esercizio di un’attività vincolata a tutela
della sicurezza stradale ai sensi dell’art. 16, comma 5, del
codice della strada, per il quale
(cfr. Tar Toscana, Sez. III, 12.03.2013, n. 405; Consiglio
di Stato, Sez. IV, 14.04.2010, n. 2076)
la violazione delle disposizioni sulle fasce di rispetto
comporta comunque la sanzione amministrativa accessoria
dell'obbligo per l'autore della violazione stessa del
ripristino dei luoghi a proprie spese, fermo restando il
contrasto della recinzione anche con gli strumenti
urbanistici, e segnatamente l’art. 72 del regolamento
edilizio e dell’art. 7, comma 1, lett. b) del prontuario per
la qualità architettonica che recano puntuali prescrizioni
sulla costruzione delle recinzioni che risultano violate
dall’intervento.
Ne discende l’infondatezza anche della pretesa della Società
ricorrente di veder applicata una semplice sanzione
pecuniaria si sensi dell’art. 37 del DPR 06.06.2001, n. 380,
fondata sull’argomento che si tratterebbe di un intervento
assoggettato ad una denuncia di inizio attività anziché ad
un permesso di costruire, perché
la violazione delle disposizioni sulle fasce di rispetto
previste dal codice della strada e la difformità dalle
prescrizioni edilizie ed urbanistiche comporta in ogni caso
che le opere eseguite senza titolo debbano essere demolite
(ex pluribis cfr. Tar Piemonte, Sez. II, 25.03.2016,
n. 391).
In definitiva deve essere dichiarata l’improcedibilità del
ricorso per sopravvenuta carenza di interesse relativamente
all’impugnazione dell’ordinanza n. 32 prot. n. 10037 del
23.12.2009, perché le opere per le quali la medesima
ingiungeva la demolizione sono state regolarizzate in corso
di causa, mentre il ricorso deve essere respinto
relativamente alle censure proposte avverso l’ordinanza n.
33 prot. n. 10049 del 23.12.2009, che ha disposto la
rimozione della recinzione realizzata all’interno della
fascia di rispetto stradale. |
AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI: Verde
pubblico aperto a Fido. Sproporzionato il divieto di accesso
imposto dal comune. Il Tar Lazio: ad
assicurare l'igiene è sufficiente la norma statale che
impone la paletta.
Verde pubblico cittadino aperto a Fido. È annullata
l'ordinanza del comune che proibisce in modo indiscriminato
l'accesso al parco ai cani perché il divieto risulta
sproporzionato: ad assicurare l'igiene nelle aree, infatti,
deve ritenersi sufficiente la legislazione statale che
impone a proprietari e detentori di munirsi di guinzaglio e
paletta per gli amici a quattro zampe.
Compete invece all'amministrazione locale garantire i
controlli più adeguati affinché sia mantenuto il decoro
nelle strutture. E l'associazione animalista ha piena
legittimazione a far rimuovere il provvedimento illegittimo
perché l'ordinanza del sindaco ha effetti dannosi sui
piccoli amici dell'uomo, mentre lo statuto del sodalizio ne
prevede la tutela.
È quanto emerge dalla
sentenza 17.05.2016 n. 5836, pubblicata dalla
Sez. II-bis del TAR Lazio-Roma.
Normativa e cogenza.
È compito dell'amministrazione locale punire i padroni
quando i cani sono lasciati liberi di scorrazzare nei parchi
pubblici, magari vicino ai bambini, e gli escrementi non
vengono raccolti. Il punto è che il sindaco del comune ha
già i poteri per reprimere le condotte incivili senza
ricorrere a ordinanze ad hoc: la normativa generale
impone la museruola oltre che il guinzaglio e la paletta
nelle aree verdi pubbliche e gli strumenti offerti dalla
legge risultano sufficienti a garantire la pulizia dei
parchi accanto alla sicurezza delle persone, laddove è il
comune a dover rendere cogenti le norme. Inutile dunque
contestare la legittimazione dell'associazione animalista,
visto che l'ordinanza illegittima adottata dall'ente incide
in modo diretto sul suo scopo istituzionale.
Le spese di giudizio sono compensate per la peculiarità
della controversia.
Zona riservata.
L'ingresso di Fido nelle aree verdi delle città è una
questione che genera un grosso contenzioso. Il comune, per
esempio, non può vietare l'ingresso ai cani se i parchi
cittadini sono abbastanza grandi per creare una zona
riservata dove i bambini possono giocare in tutta sicurezza
e pulizia. Troppo gravoso il sacrificio dello stop imposto
agli amici di Fido: fra gli obiettivi della pianificazione
urbanistica, infatti, c'è anche la necessità di assicurare
il benessere degli animali d'affezione. È quanto emerge
dall'ordinanza 2098/15, pubblicata dalla prima sezione del
Tar Lombardia, sede staccata di Brescia.
Oasi da dividere.
Accolto il ricorso dell'Enpa, la protezione nazionale
animali: sospesa la delibera consiliare. Sussistono i
presupposti per concedere la tutela cautelare richiesta
dall'ente. Il parco proibito a Fido è il più esteso della
città, con una superficie pari al 24% di tutte le aree verdi
pubbliche. Ma soprattutto risulta grande abbastanza per
essere suddiviso in settori in modo da soddisfare le
esigenze di tutti i tipi di utenti.
E fra l'altro risulta ben controllabile perché è a
pagamento, anche se i residenti e i minori di dodici anni
possono entrare senza biglietto: si tratta di una struttura
particolarmente prestigiosa e lo stop non può essere
compensato con l'accesso a altre «oasi», non
parimenti attrezzate. E se i proprietari non rimuovono gli
escrementi dei piccoli amici può intervenire di nuovo il
comune con la chiusura. Per le aree più piccole, invece, va
bene l'off limits.
Ingresso libero.
Oltre che ai giardini pubblici il cane ben può entrare nelle
strutture sportive o nei cortili delle scuole per
accompagnare i bambini a lezione: è infatti illegittima
l'ordinanza del comune motivata su esigenze di igiene che
impone di lasciare Fido fuori dal parco laddove obbliga nel
contempo l'accompagnatore a munirsi di paletta. È quanto
emerge dalla sentenza 611/2013, pubblicata dal Tar
Basilicata.
Libertà di movimento.
Anche qui è accolto il ricorso dell'associazione animalista
che lamenta la violazione dell'articolo 50 del decreto
legislativo 267/2000 in tema di ordinanze contingibili e
urgenti del sindaco. Il provvedimento del comune limita
troppo la libertà di circolazione delle persone ed è
comunque emesso in violazione dei principi di adeguatezza e
proporzionalità: a soddisfare le esigenze di pulizia, che
tanto stanno a cuore alla giunta del piccolo paese lucano,
basta la disposizione che obbliga l'accompagnatore del cane
«rimuovere le eventuali deiezioni con apposite palette,
sacchetti di plastica o qualsiasi altro strumento idoneo
predisposte all'uso e di provvedere al loro smaltimento nei
rifiuti indifferenziati». E la disposizione
dell'ordinanza resta in vigore. Le spese seguono la
soccombenza: l'associazione ha ottenuto il gratuito
patrocinio.
Eccesso di potere.
Infine. È impossibile vietare l'accesso al parco ai cani con
guinzaglio senza motivare sui rischi per i cittadini. Viene
annullata per «eccesso di potere» l'ordinanza del
comune che prescrive l'off limits dal verde pubblico
ai cani, anche se portati al guinzaglio. Il sindaco è
preoccupato per gli escrementi delle bestiole: possono
diventare un rischio per la salute dei cittadini, oltre che
un problema per il decoro urbano.
Ma non è possibile porre un divieto tout court
laddove il provvedimento non motiva i pericoli per i
residenti sulla base di accertamenti sanitari. È quanto
emerge dalla sentenza 593/2012, pubblicata dalla seconda
sezione del Tar Piemonte, che conferma lo stop deciso in via
cautelare.
Sindaco anti-deiezioni.
L'unico dovere che la legge impone ai padroni di Fido è
quello di condurre gli animali al guinzaglio con l'obbligo
di un'adeguata museruola, quando si trovano nelle vie o in
altri luoghi pubblici (articolo 83 del dpr 320/1954). E il
sindaco non può tuttavia bandire gli animali dai parchi
pubblici senza il provvedimento risulti fondato su dati o
accertamenti medico-veterinari. Accolto il ricorso
dell'articolazione ambientalista dell'associazione dei
consumatori: l'ordinanza è annullata nella misura in cui
limita la libertà di passeggiare nei parchi, creando disagi
agli animali e ai loro proprietari.
Rischio-salute.
Il comune si limita ad affermare che la presenza dei cani
potrebbe avere conseguenze dannose per la salubrità dei
cittadini, ma non spiega quali siano i rischi, mentre
l'esercizio del potere sindacale non può prescindere dalla
sussistenza di una situazione di effettivo e concreto
pericolo per la salute pubblica.
Insomma: se la preoccupazione dell'amministrazione, pure
legittima, è rappresentata dagli escrementi degli animali
non raccolti dai proprietari «il sindaco», osservano
i giudici amministrativi, «anziché vietare l'ingresso dei
cani nelle aree verdi, avrebbe potuto potenziare il
controllo da parte della polizia municipale, sanzionando i
trasgressori dell'obbligo»
(articolo ItaliaOggi Sette del 20.06.2016).
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MASSIMA
Positivamente delibata la sussistenza della
legittimazione ad agire in capo all’associazione ricorrente,
ritiene il Collegio, in adesione al costante orientamento
giurisprudenziale formatosi su fattispecie analoghe (ex
plurimis: TAR Potenza, 17.10.2013, n. 611; TAR Reggio
Calabria, 28.05.2014, n. 225; TAR Milano, 22.10.2013 n.
2431; TAR Sardegna, 27.02.2016 n, 128; TAR Venezia,
12.04.2012, n. 502), che debba ritenersi la fondatezza del
ricorso in esame.
L’ordinanza sindacale che rechi il divieto
assoluto di introdurre cani, anche se custoditi, nelle aree
destinate a verde pubblico -pur se in ragione delle
meritevoli ragioni di tutela dei cittadini in considerazione
della circostanza che i cani vengono spesso lasciati senza
guinzaglio e non ne vengono raccolte le deiezioni- risulta
essere eccessivamente limitativa della libertà di
circolazione delle persone ed è comunque posta in violazione
dei principi di adeguatezza e proporzionalità, atteso che lo
scopo perseguito dall'Ente locale di mantenere il decoro e
l'igiene pubblica, nonché la sicurezza dei cittadini, può
essere soddisfatto attraverso l’attivazione dei mezzi di
controllo e di sanzione rispetto all’obbligo per gli
accompagnatori o i custodi di cani di rimuovere le eventuali
deiezioni con appositi strumenti e di condurli in aree
pubbliche con idonee modalità di custodia (guinzaglio e
museruola) trattandosi di obblighi imposti dalla disciplina
generale statale, cosicché il Sindaco può fronteggiare
comportamenti incivili da parte dei conduttori di cani, al
fine di prevenire le negative conseguenze di tali condotte,
con l'esercizio degli ordinari poteri di prevenzione,
vigilanza, controllo e sanzionatori di cui dispone
l'Amministrazione.
Ed invero, le esigenze poste a fondamento
della gravata ordinanza risultano già compiutamente
salvaguardate dalla disciplina vigente in materia, che
impone di condurre i cani al guinzaglio e di rimuovere le
eventuali deiezioni, dovendo quindi l’Amministrazione
Comunale adoperarsi –in luogo dell’indiscriminato divieto di
accesso dei cani alle aree verdi pubbliche– al fine di
rendere cogenti tali misure mediante una efficace azione di
controllo e di repressione, in tal modo rendendo possibile
il raggiungimento del pubblico interesse attraverso
strumenti idonei e nel rispetto del principio di
proporzionalità dei mezzi rispetto ai fini perseguiti.
La gravata ordinanza, pertanto, in relazione ai dichiarati
scopi perseguiti, appare essere posta in violazione dei
principi di adeguatezza e di proporzionalità dell’azione
amministrativa, atteso che lo scopo di mantenere il decoro e
l’igiene pubblica, nonché la sicurezza dei cittadini, è già
adeguatamente soddisfatto attraverso l’imposizione, di cui
alla disciplina statale, agli accompagnatori o custodi di
cani di rimuovere le eventuali deiezioni con appositi
strumenti e di condurli al guinzaglio.
In conclusione, il ricorso in esame deve essere accolto, con
conseguente annullamento, in parte qua, della gravata
ordinanza, nei limiti di interesse. |
APPALTI:
Garanzie valide se la banca non contesta. Tar del
Lazio. Per i giudici le referenze non vanno interpretate
formalisticamente.
Poiché per il principio della «massima partecipazione alle
gare pubbliche», la sostanza prevale sulla forma, se le
referenze bancarie provano di fatto la capacità
economico-finanziaria per stare in gara, le loro differenti
diciture riflettono solo logiche proprie delle emittenti e
non implicano che siano false e irregolari.
Il TAR Lazio-Roma, I Sez. -
sentenza
17.05.2015 n. 5812, ha dato ragione a un’impresa che era stata esclusa
da un bando per non aver presentato valide garanzie bancarie
e ha così annullato le sanzioni che l’Anticorruzione le
aveva inflitto per infrazione dolosa (accesso alle gare
sospeso per tre mesi, multa e annotazione nel casellario
informatico), dopo che le banche nei controlli successivi le
avevano ritenute solo attestazioni generiche.
Per la ricorrente, invece, le tre referenze presentate –il
bando ne chiedeva due– erano tutte idonee al netto delle
formule dichiarative e l’Anac aveva violato le norme su
sanzioni e controlli di tali requisiti (Dlgs 163/2006,
articoli 6 e 48) poiché questi ultimi erano dimostrabili già
dai bilanci societari, essendo le prime solo lettere di
affidabilità e non requisito «rigido» (Consiglio di Stato,
sentenza 5542/2013).
Stando ai rilievi ex-post delle banche, per i giudici la
ditta era economicamente affidabile al momento della gara:
la prima referenza, pur se «mera certificazione», era stata
accettata dalla Pa, anche se non richiamava l’«attestazione
di capacità economico-finanziaria»; la seconda, pur se
l’istituto non confermava l’affidabilità d’impresa per la
successiva chiusura del conto, era «senza alcun dubbio»
valida al rilascio; la terza, «non veritiera» per un
rapporto estinto già due anni prima del bando, non era mai
stata smentita, né contestata e poteva riferirsi pure a
rapporti debitori-creditori.
Per il Tar, infatti, queste referenze vanno «interpretate
liberamente e non formalisticamente, quali meri elementi
indiziari della necessaria capacità economico-finanziaria
(non si spiegherebbe, altrimenti, perché ne venivano chieste
due), in tal senso sottoposte alla ragionevole valutazione
della stazione appaltante (anche mediante richieste
istruttorie e di integrazioni documentali...)».
Le imprese in questi casi restano «di regola estranee -e
quindi indenni da responsabilità- rispetto ai contenuti ed
alle forme delle medesime dichiarazioni, in quanto
provenienti da meri operatori economici privati, mossi da
pur legittime finalità di lucro, pur abilitati all’esercizio
del credito, operanti a loro volta in un regime
concorrenziale riconosciuto come asimmetrico rispetto alle
imprese proprie clienti, ed intrattenenti possibili rapporti
contrattuali anche con più operatori partecipanti alla
medesima gara».
Riaffidando alla ditta la possibilità di partecipare agli
appalti, il collegio ha chiarito che le garanzie bancarie
sono incontestabili se, come in questo caso, al di là di
formali distinzioni tra «certificazione» e «attestazione»
per il valore di gara, «nessun istituto bancario ha
espressamente sconfessato» la veridicità e il contenuto
degli atti, posto che, per le stesse ragioni, viene meno non
solo il dolo o la colpa grave riconosciuta dall’Anac, «bensì
lo stesso presupposto di fatto e di diritto per
l’irrogazione delle impugnate sanzioni» (articolo Il Sole 24 Ore del 30.06.2016). |
VARI:
Dati personali, consenso orale. C'è una
differenza rispetto alle informazioni sensibili.
Una sentenza della Corte di cassazione
sull'invio di sms di natura pubblicitaria.
Esiste una sostanziale distinzione tra il trattamento di
dati personali comuni e quello di dati sensibili. In
quest'ultimo caso, infatti, affinché il trattamento possa
essere considerato legittimo, deve necessariamente
sussistere il relativo consenso rilasciato in forma scritta,
requisito che, invece, non risulta necessario al fine del
trattamento di dati personali comuni, per i quali il
consenso può essere anche espresso oralmente, purché sia
possibile fornirne prova «documentale».
È quanto
riaffermato dalla Corte di Cassazione -Sez. I civile- nella
sentenza 16.05.2016 n. 9982 (pres. Di Palma, est.
Giancola), con la quale ha messo la parola fine a un lungo
procedimento avviatosi nel febbraio 2008 quando un avvocato,
titolare di tre utenze di telefonia mobile aveva fatto
ricorso, ai sensi dell'art. 152 e 7, comma 4, lett. b), del
dlgs n. 196 del 2003, al tribunale di Milano chiedendo che
fossero ordinati alla convenuta l'interruzione di ogni
illegittimo trattamento ed uso per finalità promozionali dei
suoi dati personali e che la medesima società fosse
condannata al risarcimento dei danni patrimoniali e non
patrimoniali arrecati alla sua vita lavorativa e sociale dai
continui messaggi di contenuto promozionale e pubblicitario.
Il tribunale di Milano, nel contraddittorio delle parti,
dichiarava cessata la materia del contendere sulla domanda
inibitoria (intimare alla società convenuta l'immediata
cessazione del trattamento dati personali per finalità
promozionali, invio materiale pubblicitario e altro) mentre
rigettava l'ulteriore domanda di risarcimento del danno
proposta dal ricorrente e lo condannava al pagamento in
favore del gestore convenuto delle spese del giudizio.
Ora, al termine del successivo gradi di appello, la
Cassazione, sancendo che il gestore telefonico può provare
il consenso del cliente alla ricezione di sms pubblicitari
anche attraverso registrazioni e riproduzioni informatiche,
ha chiarito che il Codice della privacy, laddove si
riferisce alla categoria dei cosiddetti documenti, non
contempli solamente gli atti pubblici e le scritture
private, ma «fa riferimento a qualsiasi oggetto idoneo e
destinato a fissare in qualsiasi forma, anche non grafica,
la percezione di un fatto storico al fine di rappresentarlo
in avvenire».
Secondo i supremi giudici, infatti, in tema di trattamento
dei dati personali comuni per finalità promozionali e
commerciali, valgono tre regole. In primo luogo la
previsione introdotta dall'articolo 23, comma 3, del dlgs n.
196 del 2003 (Codice privacy), secondo cui il consenso al
trattamento è validamente prestato, tra l'altro, se è
documentato per iscritto, «attiene non alla forma di
manifestazione del consenso in questione, come, invece,
stabilito per il trattamento dei dati sensibili di cui al
comma 4 dello stesso art. 23, ma al contenuto dell'onere
probatorio gravante sul titolare dei dati personali».
In secondo luogo «al titolare dei dati personali è imposto
di dare documentazione per iscritto dell'assenso anche orale
esplicitato dall'utente del servizio, al trattamento dei
medesimi suoi dati per scopi pubblicitari e promozionali
aggiuntivi rispetto al fornito servizio di telefonia
mobile».
Infine la documentazione per iscritto «può essere
integrata anche da riproduzioni meccaniche o informatiche di
cui all'articolo 2712 c.c., effettuate dal titolare del
trattamento, salva l'eventuale, successiva verifica
dell'idoneità, adeguatezza e sufficienza del contenuto
dell'acquisita annotazione».
Al riguardo, giova anche ricordare che secondo i giudici in
tema di efficacia probatoria delle riproduzioni meccaniche
di cui all'art. 2712 c.c., il «disconoscimento» che
fa perdere alle riproduzioni stesse la loro qualità di
prova, e che va distinto dal «mancato riconoscimento»,
diretto o indiretto, il quale, invece, non esclude che il
giudice possa liberamente apprezzare le riproduzioni
legittimamente acquisite, pur non essendo soggetto ai limiti
e alle modalità di cui all'art. 214 c.p.c., deve tuttavia
essere chiaro, circostanziato ed esplicito, dovendo
concretizzarsi nell'allegazione di elementi attestanti la
non corrispondenza tra realtà fattuale e realtà riprodotta
(principio già recentemente affermato dalla Cass. n. 2117
del 2011; n. 33122 del 2015).
Nella specie, il giudice di merito ha ritenuto che il
ricorrente non avesse contestato il dato annotato ma
infondatamente la validità di un consenso espresso in forma
non scritta e trasposto nel sistema informatico interno al
gestore convenuto
(articolo ItaliaOggi Sette del 20.06.2016). |
TRIBUTI:
Canoni concessori, un rebus. Imposizione limitata
alla durata della chiusura stradale. Il Consiglio di stato
ha cambiato idea sul pagamento creando confusione nei
comuni.
Continua a essere dibattuta la questione dell'applicazione
da parte dei comuni del canone concessorio non ricognitorio
per l'utilizzo della sede stradale da parte delle aziende
erogatrici di pubblici servizi, che rappresenta un'entrata
importante per i bilanci locali.
I contrasti sui presupposti di legge per richiedere il
pagamento del canone sono emersi di recente anche
all'interno del Consiglio di Stato che con la sentenza
1926/2016, contrariamente a quanto sostenuto con la
pronuncia 6459/2014, ha affermato che non può essere
richiesto per qualsiasi utilizzo della sede stradale da
parte delle aziende erogatrici di acqua, luce e gas, ma solo
per lo spazio soprastante ad essa e a condizione che limiti
il suo tipico uso pubblico.
In senso contrario, invece, con una decisione precedente, si
era espresso lo stesso giudice amministrativo, riconoscendo
al canone la sua natura di corrispettivo per l'uso
particolare del suolo e del sottosuolo da parte del
concessionario.
Con la recente
sentenza 12.05.2016 n. 1926 i giudici
di palazzo Spada hanno precisato che quello che rileva, al
fine di fondare la pretesa dell'ente locale, «non è un
qualunque utilizzo della sede stradale (nonché dello spazio
soprastante e sottostante ad essa), bensì un utilizzo
singolare che incida in modo significativo sull'uso pubblico
della risorsa viaria».
Ciò che conta è l'uso della sede
stradale, che l'articolo 3 del Codice della strada (decreto
legislativo 285/1992) definisce come la superficie compresa
entro i confini stradali. Questa comprende la carreggiata e
le fasce di pertinenza. Dunque, secondo il giudice
d'appello, la norma di legge esclude che il presupposto per
l'imposizione di un canone possa essere costituito dall'uso
del sottosuolo, con la posa di cavi e tubi interrati.
L'imposizione è da ritenere «legittima per il tratto di
tempo durante il quale le lavorazioni di posa e
realizzazione dell'infrastruttura a rete impediscono la
piena fruizione della sede stradale». Del resto, osservano i
giudici, per l'assoggettamento al canone anche l'occupazione
del soprasuolo deve essere esclusiva e tale da impedire
l'uso pubblico della strada.
Questa pronuncia, che ha un'incidenza negativa sui bilanci
comunali, non è condivisibile e fornisce un'interpretazione
meramente letterale e non coordinata delle varie norme
contenute nel suddetto Codice.
Si ritiene corretta, invece, la tesi espressa dallo stesso
Consiglio di stato laddove non ha escluso dall'esigibilità
del canone l'utilizzo del sottosuolo stradale. In effetti,
mentre il citato articolo 27 del Codice della strada fa
riferimento all'uso o all'occupazione delle strade e delle
loro pertinenze, il successivo articolo 28, che disciplina
gli obblighi dei concessionari di linee elettriche,
telefoniche, di servizi di oleodotti, metanodotti,
distribuzione di acqua potabile o gas, dispone che le
concessioni possono essere sia «aeree che sotterranee» e che
i concessionari hanno l'obbligo di osservare le condizioni e
le prescrizioni imposte dall'ente proprietario per la
conservazione della strada e per la sicurezza della
circolazione.
Le domande rivolte a conseguire provvedimenti di
autorizzazione o concessione che riguardano strade non
statali devono essere presentate all'ente proprietario, che
è competente a concedere all'azienda di servizi (acqua,
luce, gas) anche l'occupazione del sottosuolo. Va rilevato
che queste aziende utilizzano il soprasuolo stradale solo
per il tempo necessario a eseguire i lavori, mentre è
l'occupazione del sottosuolo che ha una lunga durata (29
anni). E questa occupazione costituisce ex lege il
presupposto per il pagamento del canone concessorio
(articolo ItaliaOggi del 28.06.2016). |
CONDOMINIO: Ascensore
difettoso, danni risarciti dallo stabile. Sicurezza
impianti. Responsabilità per gli incidenti.
Non si scherza con la sicurezza degli ascensori: non solo
per chi li usa, ma anche per i risvolti giuridici: il
condominio può essere chiamato a rispondere dei danni.
Soprattutto se l’amministratore non avverte che il mezzo può
essere pericoloso.
Lo ha detto il TRIBUNALE di Larino, con la
sentenza
07.05.2016, affrontando il caso di alcuni inquilini di un
appartamento in condominio vittime di un ascensore
“impazzito” che, dopo aver velocemente raggiunto il secondo
piano si bloccava e, quindi, riprendeva bruscamente la
discesa, fermandosi repentinamente tra il primo e il secondo
piano.
Dopo essere stati liberati dai Vigili del fuoco
ricorrevano al Pronto soccorso, dove ad uno veniva
diagnosticato un trauma distorsivo del rachide cervicale e
all’altro anche un trauma distrattivo della regione lombare.
I due inquilini trascinavano in giudizio il condominio per
vedersi riconosciuto il risarcimento dei danni fisici
patiti, invocandone la responsabilità per il danno cagionato
dalle cose in custodia (articolo 2051 del Codice civile), in
considerazione del fatto che l’insidia proveniente
dall’ascensore non risultava segnalata e neppure visibile.
Il condominio replicava che l’ascensore risultava
esclusivamente accessibile ai condòmini ai quali erano state
consegnate le chiavi di accesso e non, pertanto, ai loro
inquilini, e che all’interno dell’ascensore era ben visibile
la targhetta con il peso massimo consentito (240
chilogrammi), concludendo pertanto per il rigetto della
domanda. In ogni caso, chiamava in giudizio la propria
assicuratrice, dalla quale pretendeva di essere “manlevata”
in caso di condanna. Quest’ultima, costituendosi in
giudizio, attribuiva la responsabilità dell’evento dannoso
alla società incaricata della manutenzione .
Il Tribunale di Larino ha dato però ragione agli inquilini,
ritenendo, in particolare, che «nella sfera di applicazione
dell’articolo 2051 Codice civile ricadono, secondo
l’orientamento giurisprudenziale ormai prevalente, una
molteplicità di eventi e una ricca casistica nella quale
sono variegate le ipotesi di fatti riconducibili ai danni
causati dalle res in custodia del condominio».
Ciò posto, ha considerato come «le chiavi dell’ascensore
erano legittimamente detenute dagli inquilini i quali, come
riferito in sede di deposizione
testimoniale, pur avendo già registrato il contratto di
locazione ed avendo effettuato dei pagamenti al condominio
convenuto, non erano a conoscenza del malfunzionamento
dell’ascensore» e che, pertanto, la tutela di cui
all’articolo 2051 del Codice civile doveva anche essere
apprestata in favore degli anzidetti inquilini, titolari di
regolare contratto di locazione.
Infine, sulla mancata prova in merito all’apposizione di un
cartello di pericolo da parte dell’amministratore, il
Tribunale diceva che «anche a voler ammettere l’esistenza di
un cartello della portata di quello riferito
dall’amministratore di condominio, esso non era comunque
idoneo a segnalare adeguatamente il malfunzionamento
dell’ascensore». Non sono state prese in considerazione le
presunte manchevolezze della ditta che curava la
manutenzione dell’impianto considerato che «la
responsabilità ex articolo 2051 Codice civile non è elisa
dall’incarico di manutenzione dell’ascensore affidato ad
un’apposita ditta, in quanto l’impianto resta nella sfera di
disponibilità e controllo dell’amministratore dello stabile
che continua a mantenere il potere-dovere di controllarne il
funzionamento e di intervenire allo scopo di eliminare
situazioni di pericolo».
Per il Tribunale la persistente
responsabilità dell’amministratore, pur in presenza di un
manutentore, risulta «essenziale al fine di evitare che si
determini un vuoto nella vigilanza e custodia nel caso di
affidamento della manutenzione di beni o servizi comuni ad
un’impresa specializzata ove quest’ultima ometta di
effettuare le dovute opere di manutenzione, o non sia
autorizzata dal condominio a effettuare lavori di
straordinaria manutenzione».
La recentissima
sentenza 27.06.2016 n.
26581 della Corte di Cassazione, Sez. IV penale, mostra, nella motivazione, di andare nella
stessa direzione, cassando con rinvio una sentenza di
assoluzione da lesione colpose in circostanze analoghe
perché nella motivazione non era stato dimostrato che i
lavori di manutenzione e messa in sicurezza fossero stati
adeguati e sufficienti a escludere responsabilità degli
imputati assolti (amministratore ma anche, in questo caso,
tecnici-manutentori) (articolo Il Sole 24 Ore del 28.06.2016). |
VARI: Molestatore
della strada rifà l'esame. Tar Emilia Romagna.
Il molestatore seriale degli automobilisti può essere
destinatario di un provvedimento di revisione della patente
anche se non ha ancora provocato incidenti. Ma solo
esasperato le persone.
Lo ha chiarito il TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, con la
sentenza
04.05.2016 n. 467.
Un automobilista agitato ha collezionato una serie di
denunce per molestie a seguito di ripetute manovre
pericolose. Contro il conseguente provvedimento di revisione
della patente ha proposto ricorso ma senza successo al Tar.
Se numerosi cittadini, in tempi e luoghi diversi, richiedono
l'intervento delle forze di polizia per il comportamento
anomalo di un soggetto, è lecito adottare un provvedimento
di revisione della licenza di guida, a tutela della
sicurezza della circolazione.
Nel caso esaminato dal collegio l'automobilista ha
ripetutamente litigato senza motivo con altri automobilista
costringendoli alla richiesta di intervento delle forze
dell'ordine. Con la revisione della patente si potrà
verificare il mantenimento dell'idoneità tecnica
dell'autista attaccabrighe
(articolo ItaliaOggi Sette del 04.07.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Responsabile dei danni anche il direttore lavori.
Difetti di costruzione. Le condizioni per la «chiamata in
causa».
Tutti responsabili per i difetti di costruzione del
condominio: lo stabilisce l’articolo 1669 del Codice civile
in materia di rovina e difetti di cose immobili, che
presuppone un genere di responsabilità nella quale incorre
certamente l’appaltatore che ha materialmente edificato il
fabbricato, ma anche tutti quei soggetti che, a vario
titolo, hanno concorso alla realizzazione dell’opera, in
particolare, il progettista e il direttore dei lavori che
hanno concorso alla determinazione dell’evento dannoso.
Un principio
richiamato dalla Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la
sentenza 03.05.2016 n. 8700.
Con specifico riferimento a quest’ultima figura
professionale, infatti, per il direttore dei lavori -nominato dal committente o dall’appaltatore- la
responsabilità assume i contorni di quella
extracontrattuale, pertanto, può anche concorrere con quella
di questi ultimi ma solo quando le rispettive azioni o
omissioni, costituiscono autonomi fatti illeciti che hanno
contribuito causalmente a produrre l’evento dannoso.
Il
direttore dei lavori, quindi, in particolare quando viene
nominato dall’appaltatore, risponde del fatto dannoso
cagionato sia qualora non si accorga del pericolo, sulla
scorta dell’esigibile capacità tecnica e perizia applicabile
al caso concreto, ma anche qualora ometta di assegnare le
dovute direttive, eventualmente esprimendo anche il suo
dissenso nella prosecuzione dei lavori qualora non venissero
concretamente seguite.
Tali principi sono stati espressi dalla II sezione civile
della Corte di Cassazione, nella sentenza n. 8700,
pubblicata in data 03.05.2016, relatore Orilia.
Il condominio citava in giudizio l’impresa costruttrice,
nonché venditrice dell’immobile in condominio, per ottenere
il risarcimento dei danni da infiltrazioni d’acqua e
umidità. Nel costituirsi in giudizio, questa negava ogni
responsabilità ritenendo che i danni, ove effettivamente
esistenti, fossero imputabili in via esclusiva al
progettista nonché direttore dei lavori, chiedeva pertanto
la sua chiamata in causa.
Dopo i gradi di merito la causa arriva in Cassazione, che
afferma: «Costituisce obbligazione del direttore dei lavori
l’accertamento della conformità sia della progressiva
realizzazione dell’opera al progetto, sia delle modalità
dell’esecuzione di essa al capitolato e/o alle regole della
tecnica e pertanto egli non si sottrae a responsabilità ove
ometta di vigilare e di impartire le opportune disposizioni
al riguardo, nonché di controllarne l’ottemperanza da parte
dell’appaltatore ed, in difetto, di riferirne al
committente».
E queste responsabilità sarebbero emerse
chiaramente dalla Ctu, né il direttore dei lavori si sarebbe
potuto avvalere del «principio dell’esclusione di
responsabilità per danni in caso di soggetto ridotto a mero
esecutore di ordini (...) si attaglia, ricorrendone
determinate condizioni, alla figura dell’appaltatore, ma non
a quella del direttore dei lavori il quale -come si è visto- assume, per le sue peculiari capacità tecniche, precisi
doveri di vigilanza correlati alla particolare diligenza
richiestagli: ragionare diversamente significa negare in
radice la figura del direttore dei lavori».
Inoltre, prosegue la Cassazione, con riferimento al
direttore dei lavori nominato dall’appaltatore «è stato
altresì precisato che egli risponde del fatto dannoso
verificatosi sia se non si è accorto del pericolo,
percepibile in base alle norme di perizia e capacità tecnica
esigibili nel caso concreto, che sarebbe potuto derivare
dall’esecuzione delle opere, sia se ha omesso di impartire
le opportune direttive al riguardo nonché di controllarne
l’ottemperanza, al contempo manifestando il proprio dissenso
alla prosecuzione dei lavori stessi ed astenendosi dal
continuare la propria opera di direttore se non venissero
adottate le cautele disposte».
Siamo, quindi, davanti a una responsabilità
extracontrattuale da valutare alla stregua della diligenza e
competenza professionale esigibile in questi casi, che può
anche concorrere con quella del committente e
dell’appaltatore «se le rispettive azioni o omissioni,
costituenti autonomi fatti illeciti, hanno contribuito
causalmente a produrlo» (articolo Il Sole 24 Ore del 21.06.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Opere edili, il tempismo è tutto. Serve un vero
cantiere. Non bastano sbancamento o muri. La giurisprudenza
recente: decade chi non dimostra di realizzare i lavori
entro un anno.
Decaduta.
L'impresa di costruzioni non ha più titolo per realizzare i
quattro edifici previsti nell'ambito del piano di
lottizzazione. E ciò perché non ha davvero dato inizio ai
lavori entro un anno dal rilascio del titolo edilizio: è
escluso che possa fare testo la sola attività di sbancamento
compiuta; invece serve anche un'adeguata organizzazione del
cantiere per dimostrare che la società titolare della
concessione ha intenzione di realizzare l'opera assentita
dal comune, vale a dire il lotto di edilizia residenziale.
È
quanto emerge dalla
sentenza
02.05.2016 n. 1187, pubblicata dalla
I Sez. del TAR Sicilia-Catania.
Atto dovuto.
Stando all'azienda, le foto depositate in giudizio
dimostrerebbero che le attività sono cominciate perché, si
sostiene nel ricorso, sono state gettate le fondamenta dei
fabbricati e le immagini ritraggono i mezzi necessari allo
scavo, il fabbricato realizzato per il deposito degli
attrezzi e perfino il sistema di videosorveglianza.
Fa fede
viceversa il sopralluogo svolto dai tecnici dell'ufficio di
staff politica del territorio del comune: le foto prodotte
dall'impresa edile risalgono a un'epoca precedente alla
comunicazione di avvio dei lavori, mentre la decadenza
decretata dall'ente si rivela «un atto consequenziale e
vincolato» perché manca ogni indizio di un vero e proprio
via libera alle ruspe nel termine annuale di cui
all'articolo 15 del Testo unico dell'edilizia.
Senza indizi.
Non basta aver costruito il muro al confine per ritenere
avviato l'intervento.
È quanto emerge dalla
sentenza
21.12.2015 n. 1382, pubblicata dalla II Sez. del TAR Veneto,
uno dei precedenti in termini.
Niente da fare per il
proprietario del fondo che ha sottoscritto con il confinante
un preliminare di vendita del suo terreno, autorizzandolo da
subito a costruire. Il punto è che nei dodici mesi
successivi alla concessione del permesso non risulta svolta
alcuna attività che consenta di riconoscere l'intendimento
di portare a termine il progetto edilizio autorizzato: non
tornano infatti utili lavori fittizi e simbolici per eludere
l'avvio dei lavori e dunque sfuggire alla successiva
decadenza.
L'unica opera presente sul terreno è riferibile
al cantiere aperto dalla società confinante sul lotto
vicino: sono gli operai della società ad avere realizzato la
muratura rinvenuta dagli ispettori mandati
dall'amministrazione. Insomma: «appaiono condivisibili»,
osservano i giudici, le conclusioni cui è pervenuto il
comune sulla mancanza di indizi di un serio inizio dei
lavori.
Assunto infondato.
Neppure chi spianato o soltanto picchettato il terreno dove
si vuole edificare l'opera evita la decadenza annuale dal
permesso ottenuto dal comune. E l'amministrazione locale per
stanare chi non ha cominciato in tempo i lavori ricorre alle
immagini scaricate da Google Maps in modo da provare in modo
certo l'intervenuta «prescrizione».
È quanto emerge dalla
sentenza
03.10.2014 n. 1515 pubblicata dalla III sez. del TAR
Toscana.
Niente da fare per l'ex titolare
dell'autorizzazione non sfruttata dopo che il comune ha
dichiarato la decadenza per mancato tempestivo avvio dei
lavori ai sensi dell'art. 15 del testo unico dell'edilizia.
Non risultano sufficienti a evitare la «tagliola» dell'ente
le mere «verifiche del caso», vale a dire un semplice
picchettamento per determinare l'esatta posizione del
capannone da realizzare.
In realtà dopo aver rimosso il
terreno vengono fuori le rocce, e gli operai sono costretti
a fermarsi: troppo presto per poter invocare un regolare
inizio dei lavori in base all'articolo 15 del dpr 380/2001,
che esclude la sussistenza di effetti interruttivi anche in
caso di meri scavi di sondaggio. E altrettanto vale
nell'ipotesi di livellamento.
L'amministrazione locale porta
in giudizio le foto tratte da Google Maps per dimostrare che
nell'ottobre 2011 i lavori di cui al permesso di costruire
in considerazione non erano ancora stati avviati. Ma prima
ancora delle immagini scaricate dal motore di ricerca pesa
l'infondatezza dell'assunto del titolare del permesso.
Sul
fronte penale, infine, è intervenuta la Corte di Cassazione con la
sentenza
03.03.2016 n. 25806 (data udienza) ricordando che configurano l'abuso
edilizio i lavori realizzati dopo la decadenza dal permesso
di costruire per il mancato avvio dei lavori.
---------------
Al comune sta riconoscere la forza
maggiore.
Addio lavori se non si dà corso alla Dia entro un anno né
viene richiesta all'amministrazione locale una proroga ad
hoc del titolo edilizio. Passa infatti l'orientamento di
giurisprudenza più restrittivo secondo cui serve un
provvedimento espresso del comune che riconosce i motivi di
forza maggiore per i quali non sono cominciati in modo
tempestivo gli interventi previsti dalla denuncia di inizio
attività.
È quanto emerge dalla
sentenza
29.01.2016 n. 201, pubblicata
dalla II Sez. del TAR Lombardia-Milano.
Non bastano i
lavori già realizzati entro un anno dalla presentazione
della Dia a dimostrare che l'impresa abbia davvero la seria
intenzione di realizzare l'opera: risultano a tal proposito
insufficienti l'abbattimento della tettoia, la rimozione
della pavimentazione antistante, la deviazione della
fognatura e la chiusura delle finestre.
E ciò perché non
soltanto è escluso che si tratti di attività previste dalla
denuncia presentata ma soprattutto non risultano
assolutamente necessarie per costruire l'edificio che è
oggetto della segnalazione all'autorità. Quanto alle cause
di forza maggiore, serve un provvedimento esplicito,
diversamente da quanto capita con l'accertamento
dell'intervenuta decadenza dalla possibilità di svolgere i
lavori.
Non si può infatti osservare che la sussistenza di
cause di forza maggiore di per sé impediscano la decadenza
dalla Dia perché serve un esercizio di discrezionalità da
parte dell'amministrazione, che deve verificare l'esistenza
di un impedimento oggettivo (articolo ItaliaOggi Sette del 27.06.2016). |
TRIBUTI:
Cabine fotografiche, no imposta sulla pubblicità.
Le affissioni sulle cabine fotografiche, all'interno delle
quali è possibile fare le fototessere automatiche,
rappresentano l'insegna dell'azienda e hanno lo scopo di
indicare il luogo (o i luoghi succursali) ove viene in
concreto svolta l'attività: di conseguenza, se dette
affissioni rispettano il limite dimensionale di 5 mq, per le
stesse non è dovuta alcuna imposta comunale sulla
pubblicità.
È quanto afferma la Ctp di Brescia nella
sentenza 21.04.2016 n. 331/02/16 .
La società incaricata della riscossione delle imposte per il
comune di Lonato (in provincia di Brescia) avanzava una
richiesta relativa all'imposta sulla pubblicità, diretta a
un contribuente operante nel campo della fototessere. In
particolare, l'imposta veniva richiesta per i manifesti,
ritenuti a scopo pubblicitario, affissi sulle cabine per le
fototessere, solitamente ubicate in luoghi di transito (tipo
stazioni ferroviarie o uffici pubblici).
Il contribuente, impugnando l'avviso dinanzi alla Ctp di
Brescia, invocava l'esenzione di cui all'articolo 17, comma
1-bis, dl n. 507/1993, secondo cui l'imposta non è dovuta
per le insegne di esercizio di attività commerciali che
contraddistinguono la sede in cui viene svolta l'attività, a
condizione che l'affissione rispetti il limite di 5 mq.
Il collegio di primo grado ha annullato l'atto, osservando
che la cabina fotografica, benché renda un servizio
automaticamente attivato dall'utente, costituisce una sorta
di sede succursale dell'azienda e, comunque, un luogo dove è
possibile fruire dei servizi resi da questa. Così che, le
affissioni, a prescindere dal messaggio pubblicitario, hanno
lo scopo di indicare il luogo di svolgimento dell'attività
e, nei limiti dimensionali predetti, debbono considerarsi
insegna esente dall'imposta sulla pubblicità.
Nelle motivazioni della sentenza, la Ctp ha anche richiamato
l'orientamento della Corte di Cassazione, secondo cui la
norma invocata «non consente di introdurre distinzioni in
relazione al concorso dello scopo pubblicitario con la
funzione propria dell'insegna, purché la stessa, oltre a
essere installata nella sede dell'attività a cui si
riferisce o nelle pertinenze accessorie, e ad avere la
funzione di indicare il luogo di svolgimento dell'attività,
si mantenga nel predetto limite dimensionale» (Cass. n.
5337/2013).
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] Con ricorso spedito in data 29/07/2015 e ricevuto
in data 03/08/2015, ... srl impugnava l'avviso di
accertamento n.., notificato in data 14/05/2015, con il
quale veniva richiesta la somma complessiva di 189,00,
comprensiva di interessi e accessori, per l'anno 2015, per
imposta comunale sulla pubblicità in relazione a insegne
pubblicitarie su cabine per l'effettuazione di fotografie,
ubicate nel comune di ...
Sostiene la società ricorrente che dette insegne sono esenti
dal tributo, atteso che esse rientrano nel concetto di
insegna di esercizio, ex art. 2-bis, comma 1, legge n.
75/2002 e art. 10, legge 448/2001, trattandosi di insegne
finalizzate a indicare il luogo ove viene svolta l'attività
commerciale e la cui superficie è inferiore mq 5.
A tal fine richiama la sentenza della Corte di cassazione n.
5337/2013, che stabilisce come la cabina fotografica
costituisca luogo di esercizio dell'attività e quindi
l'insegna vada identificata a insegna di esercizio,
concludendo per l'annullamento dell'atto impugnato.
Costituendosi in giudizio la concessionaria ribadiva la
legittimità dell'accertamento e del recupero fiscale,
concludendo per il rigetto del ricorso.
All'esito dell'udienza di discussione, osserva la
Commissione come l'esenzione invocata dalla società
ricorrente sia disciplinata dall'art. 17, comma 1-bis, dl n.
507/1993, che prevede che l'imposta non sia dovuta per le
insegne di esercizio di attività commerciali e di produzione
di beni o servizi che contraddistinguono la sede ove si
svolge l'attività cui si riferiscono, con il limite di una
superficie complessiva che non superi i 5 mq. (disposizione
riprodotta nell'art. 2-bis, dl n. 13/2002.
Afferma la Suprema corte nella sentenza sopra riportata
(Cass. Sezione VI civile n. 5337/2013) che la norma di cui
al dl 507/1993 «non consente di introdurre distinzioni in
relazione a concorso dello scopo pubblicitario con la
funzione propria dell'insegna stessa, purché la stessa,
oltre a essere installata nella sede dell'attività a cui si
riferisce o nelle pertinenze accessorie e avere la funzione
di indicare al pubblico il luogo di svolgimento
dell'attività, si mantenga nel predetto limite dimensionale»
(mq 5).
Nella fattispecie, non può dubitarsi che la cabina
fotografica, come riconosciuto dalla Cassazione, benché
renda un servizio automaticamente attivato dall'utente,
costituisca una sorta di sede succursale dell'azienda e,
comunque, un luogo dove si svolge l'attività di
quest'ultima. Se così è e se, come nel nostro caso, si
rientra nelle metrature previste dalla norma, la società
ricorrente aveva diritto all'esenzione di imposta, per cui
il ricorso va ritenuto fondato e va accolto. ritenendo,
comunque, la Commissione, di dover compensare le spese di
causa, in ragione dell'esiguità del valore della stessa e
della relativa novità del principio enunciato dalla Suprema
corte
(articolo ItaliaOggi Sette del 20.06.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le controversie in tema
di oneri di urbanizzazione e di costo di costruzione
introducono un giudizio sul rapporto, sicché le questioni
concernenti l’esistenza e l’entità del debito involgono
posizioni di diritto soggettivo e sottintendono atti
amministrativi di natura non autoritativa ma paritetica.
Non opera, dunque, in simili casi l’istituto del
silenzio-assenso di cui all’art. 20 della legge n. 241 del
1990, espressamente circoscritto dalla norma ai
“procedimenti ad istanza di parte per il rilascio di
provvedimenti amministrativi”.
----------------
Quanto alla pretesa esenzione dal contributo di costruzione,
la questione riguarda l’àmbito di operatività dell’art. 17,
comma 3, lett. a), del d.P.R. n. 380 del 2001, secondo cui
il contributo non è dovuto “per gli interventi da realizzare
nelle zone agricole, ivi comprese le residenze, in funzione
della conduzione del fondo e delle esigenze
dell’imprenditore agricolo a titolo principale, ai sensi
dell’articolo 12 della legge 09.05.1975, n. 153”, norma già
contenuta nell’art. 9, comma 1, lett. a), della legge n. 10
del 1977, e poi fatta propria anche dall’art. 30, comma 1,
lett. a), della legge reg. n. 31 del 2002 (applicabile alla
fattispecie ratione temporis).
A tal proposito la giurisprudenza ha evidenziato che:
- il beneficio presuppone il concomitante concorso di due
requisiti: sul piano soggettivo la qualitas di
imprenditore agricolo, sul piano oggettivo il nesso di
preordinazione funzionale delle opere alla conduzione del
fondo;
- la sussistenza di tale duplice condizione deve ricorrere
al momento in cui l’interessato produce la relativa istanza,
che deve essere corredata da una sufficiente prova
documentale circa il possesso dei relativi presupposti, onde
la sussistenza di una soltanto di esse non può ritenersi
requisito sufficiente per la gratuità nell’intervento
edilizio;
- per quel che concerne, in particolare, il requisito
oggettivo, la mera indicazione dell’impiego del bene e della
sua localizzazione non soddisfa la dimostrazione del nesso
di strumentalità tra l’opera per cui è chiesto il titolo
edilizio e l’attività agricola, atteso che non tutte le
opere realizzate in zona agricola sono, per tale solo fatto,
funzionali alla conduzione del fondo, sicché spetta al
privato fornire un riscontro documentale di tale
destinazione.
---------------
... per
l’annullamento e/o declaratoria di nullità del provvedimento
del Comune di Monteveglio prot. n. 5145/UTC/CP/fb del
25.05.2007, recante il diniego di esonero del ricorrente dal
contributo di costruzione per imprenditore agricolo, con
conseguente rigetto della domanda di rimborso avanzata
dall’interessato;
per l’accertamento del diritto del ricorrente al rimborso
della somma di € 15.858,58, oltre agli interessi legali
dalla domanda al saldo.
...
Il ricorso è infondato.
Quanto, innanzi tutto, all’invocata formazione del
silenzio-accoglimento sulla richiesta di riconoscimento
dell’esenzione dal contributo di costruzione a norma
dell’art. 17, comma 3, lett. a), del d.P.R. n. 380 del 2001
e alla denunciata conseguente tardiva e illegittima adozione
dell’atto comunale di diniego, il Collegio rileva che, per
costante giurisprudenza, le controversie in tema di oneri di
urbanizzazione e di costo di costruzione introducono un
giudizio sul rapporto, sicché le questioni concernenti
l’esistenza e l’entità del debito involgono posizioni di
diritto soggettivo e sottintendono atti amministrativi di
natura non autoritativa ma paritetica (v., ex multis,
Cons. Stato, Sez. V, 14.10.2014 n. 5072). Non opera, dunque,
in simili casi l’istituto del silenzio-assenso di cui
all’art. 20 della legge n. 241 del 1990, espressamente
circoscritto dalla norma ai “procedimenti ad istanza di
parte per il rilascio di provvedimenti amministrativi”.
Quanto, poi, alla pretesa esenzione dal contributo di
costruzione, la questione riguarda l’àmbito di operatività
dell’art. 17, comma 3, lett. a), del d.P.R. n. 380 del 2001,
secondo cui il contributo non è dovuto “per gli
interventi da realizzare nelle zone agricole, ivi comprese
le residenze, in funzione della conduzione del fondo e delle
esigenze dell’imprenditore agricolo a titolo principale, ai
sensi dell’articolo 12 della legge 09.05.1975, n. 153”,
norma già contenuta nell’art. 9, comma 1, lett. a), della
legge n. 10 del 1977, e poi fatta propria anche dall’art.
30, comma 1, lett. a), della legge reg. n. 31 del 2002
(applicabile alla fattispecie ratione temporis).
A tal proposito la giurisprudenza (v. TAR Sicilia, Palermo,
Sez. II, 13.04.2012 n. 770) ha evidenziato che:
- il beneficio presuppone il concomitante concorso di due
requisiti: sul piano soggettivo la qualitas di
imprenditore agricolo, sul piano oggettivo il nesso di
preordinazione funzionale delle opere alla conduzione del
fondo;
- la sussistenza di tale duplice condizione deve ricorrere
al momento in cui l’interessato produce la relativa istanza,
che deve essere corredata da una sufficiente prova
documentale circa il possesso dei relativi presupposti, onde
la sussistenza di una soltanto di esse non può ritenersi
requisito sufficiente per la gratuità nell’intervento
edilizio;
- per quel che concerne, in particolare, il requisito
oggettivo, la mera indicazione dell’impiego del bene e della
sua localizzazione non soddisfa la dimostrazione del nesso
di strumentalità tra l’opera per cui è chiesto il titolo
edilizio e l’attività agricola, atteso che non tutte le
opere realizzate in zona agricola sono, per tale solo fatto,
funzionali alla conduzione del fondo, sicché spetta al
privato fornire un riscontro documentale di tale
destinazione.
Legittimamente, allora, l’Amministrazione comunale si è
nella circostanza espressa per la mancata dimostrazione
della sussistenza del requisito oggettivo. Il richiamo al «piano
di sviluppo aziendale» era invero meramente
esemplificativo di uno degli atti utili a comprovare la
spettanza del beneficio (si è aggiunto “senza documentare
in alcun modo siffatta asserita destinazione”), peraltro
privo di riscontro anche nel presente giudizio, nulla avendo
a tal fine esibito il ricorrente, il quale si limita a
ribadire l’utilizzazione dell’immobile ristrutturato quale
residenza per i dipendenti della sua azienda agricola ma di
tale intento non fornisce riprova documentale alcuna.
Il ricorso, pertanto, va respinto
(TAR Emilia Romagna-Bologna,
Sez. I,
sentenza 20.04.2016 n. 426
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI:
Niente Tari in aree di produzione rifiuti.
Nella determinazione della superficie su cui calcolare la
Tari non si deve tener conto delle aree in cui si producono
in via prevalente e continuativa rifiuti speciali; devono
considerarsi speciali i c.d. rifiuti di imballaggio, in ogni
caso se «terziari», mentre quelli «secondari» solo nel caso
in cui non venga disposta apposita raccolta differenziata.
È quanto si legge nella
sentenza
19.04.2016 n. 148/02/16 della Ctp di Como, con la
quale sono stai annullati degli avvisi di pagamento emessi
dal comune di Senna Comasco, in relazione a una pretesa Tari
per aree su cui vengono prodotti esclusivamente rifiuti di
imballaggio.
La Ctp fa espresso riferimento, nella propria decisione al
Decreto Ronchi (dlgs 22/1997); in base a tale norma, i
rifiuti vanno distinti in tre categorie: 1) rifiuti urbani,
2) rifiuti speciali, 3) rifiuti pericolosi. I primi sono
sempre soggetti a tassazione, i terzi sono sempre esclusi,
mentre i secondo sono tassabili solo laddove il comune li
abbia assimilati ai rifiuti urbani.
La legge 147/2013 istitutiva della Tari ha stabilito che,
nel computo della superficie tassabile, non si debba tener
conto di quella parte dove si formano i rifiuti speciali al
cui smaltimento sono tenuti a provvedere a proprie spese i
produttori stessi. Per quanto riguarda gli imballaggi, essi
si distinguono in: 1) imballaggi primari, ovvero il primo
involucro o contenitore del prodotto che riveste
direttamente l'articolo per la vendita; 2) imballaggi
secondari, che costituiscono, nel punto di vendita, il
raggruppamento di un certo numero di unità di vendita; 3)
imballaggi terziari, ossia imballaggio per il trasporto,
concepiti in modo da facilitare la manipolazione e il
trasporto di un certo numero di unità di vendita per evitare
la loro manipolazione e i danni connessi al trasporto.
In tema di smaltimento, si considerano sempre rifiuti
«speciali» i rifiuti di imballaggio «terziari», mentre per
quelli secondari occorre valutare se sia stata adottata una
specifica raccolta differenziata: altrimenti, anche tali
rifiuti si considerano speciali e sono esclusi dalla Tari.
È illegittima, dunque, l'assimilazione ai rifiuti urbani dei
rifiuti di imballaggio terziari (e anche secondari, ove il
comune non abbia predisposto l'apposta differenziata), così
come è illegittima l'imposta pretesa sulle aree ove tali
rifiuti vengono prodotti in via prevalente e continuativa.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] E invero come fondatamente eccepisce il ricorrente
la nuova normativa sulla Tari introdotta dalla legge di
stabilità n. 147/2014 prevede che «nella determinazione
della superficie assoggettabile a Tari non si tiene conto di
quella parte di essa ove si formano in via continuativa e
prevalente rifiuti speciali al cui smaltimento sono tenuti a
provvedere a proprie spese i relativi produttori a
condizione che dimostrino l'avvenuto trattamento in
conformità con la normativa vigente».
La nuova imposta non è
dovuta sulle aree industriali ove si formano in via
continuativa e prevalente rifiuti speciali non assimilabili
ai rifiuti urbani. Pertanto essendo stato introdotto il
divieto di assimilazione ai rifiuti urbani la delibera del
comune che determina gli acconti da versare anche in
relazione a tale tipologia di rifiuti è priva di base
normativa e va disapplicata.
Come affermato dalla sentenza della Corte di cassazione n.
627 del 2012, «dall'esame del Titolo II del decreto Ronchi
si ricava che i rifiuti di imballaggio costituiscono oggetto
di un regime speciale rispetto a quello dei rifiuti in
genere, regime caratterizzato essenzialmente
dall'attribuzione ai produttori e agli utilizzatore della
loro «gestione» (termine che comprende tutte le fasi, dalla
raccolta allo smaltimento) (art 38 cit); ciò, vale in
assoluto per gli imballaggi terziari, per i quali è
stabilito il divieto di immissione nel normale circuito di
raccolta dei rifiuti urbani cioè in sostanza il divieto di
assoggettamento al regime di privativa comunale, mentre gli
imballaggi secondari è ammessa solo raccolta differenziata
da parte dei commercianti al dettaglio che non li abbiano
restituiti agli utilizzatori (art. 43).
Ne deriva che i
rifiuti degli imballaggi terziari, nonché quelli degli
imballaggi secondari ove non sia attivata la raccolta
differenziata, non possono essere assimilati dai comuni ai
rifiuti urbani, nell'esercizio del potere a essi restituito
dall'art. 21 del decreto Ronchi e dalla successiva
abrogazione dell'art. 39 della legge n. 146 del 1994 e i
regolamenti che una tale assimilazione abbiano previsto
vanno perciò disapplicati in parte qua dal giudice
tributario».
L'esclusione dalla tassa riguarda solo la parte
di superficie in cui per struttura e destinazione si formano
esclusivamente rifiuti speciali con onere della prova a
carico del contribuente.
Onere della prova che nella specie
può ritenersi assolto attraverso la presentazione di
distinta denuncia per le aree adibite ad attività
industriali dalle aree adibite a uffici, con le planimetrie
dello stabilimento e con i formulari di smaltimento tramite
operatori autorizzati. [omissis]
(articolo ItaliaOggi Sette del 04.07.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Ove
gli interventi edilizi ricadano in zona assoggettata a
vincolo paesaggistico, stante l'alterazione dell'aspetto
esteriore, gli stessi risultano soggetti alla previa
acquisizione dell'autorizzazione paesaggistica, con la
conseguenza che, quand'anche si ritenessero le opere
pertinenziali o precarie e, quindi, assentibili con mera
D.I.A., l'applicazione della sanzione demolitoria è,
comunque, doverosa ove non sia stata ottenuta alcuna
autorizzazione paesistica.
---------------
L'onere di fornire la prova dell'epoca di realizzazione di
un abuso edilizio incombe sull'interessato, e non
sull'amministrazione, che, in presenza di un'opera edilizia
non assistita da un titolo edilizio che la legittimi, ha
solo il potere-dovere di sanzionarla ai sensi di legge e di
adottare, ove ricorrano i presupposti, il provvedimento di
demolizione.
---------------
E’ irrilevante la dedotta circostanza che la ricorrente non
avrebbe realizzato alcun intervento edilizio sull’immobile
successivamente al suo acquisto avvenuto solo nel 2005.
L'ordinanza di demolizione, infatti, può legittimamente
essere emanata nei confronti del proprietario dell'opera
abusiva, anche se non responsabile della relativa
esecuzione, trattandosi di illecito permanente sanzionato in
via ripristinatoria, a prescindere dall'accertamento del
dolo o della colpa del soggetto interessato.
---------------
In presenza di un abuso edilizio “l’ordinanza di demolizione
non richiede, in linea generale, una specifica motivazione;
l’abusività costituisce di per sé motivazione sufficiente
per l’adozione della misura repressiva in argomento. Ne
consegue che, in presenza di un’opera abusiva, l’autorità
amministrativa è tenuta ad intervenire affinché sia
ripristinato lo stato dei luoghi, non sussistendo alcuna
discrezionalità dell’amministrazione in relazione al
provvedere”.
Infatti “l’ordinanza di demolizione di opere edilizie
abusive è atto dovuto e vincolato e non necessita di
motivazione ulteriore rispetto all’indicazione dei
presupposti di fatto e all’individuazione e qualificazione
degli abusi edilizi”.
Ed, ancora, “presupposto per l'emanazione dell'ordinanza di
demolizione di opere edilizie abusive è soltanto la
constatata esecuzione di queste ultime in assenza o in
totale difformità del titolo concessorio, con la conseguenza
che, essendo l’ordinanza atto dovuto, essa è
sufficientemente motivata con l’accertamento dell’abuso,
essendo “in re ipsa” l’interesse pubblico alla sua
rimozione” .
---------------
Nel vagliare un intervento edilizio consistente in una
pluralità di opere, deve effettuarsene una valutazione
globale atteso che “la considerazione atomistica dei singoli
interventi non consente di comprendere l'effettiva portata
dell'operazione” ovvero di “scomporla in distinte fasi,
cosicché possano individuarsi interventi soggetti ad
autorizzazione ed altri soggetti a concessione, ma va
valutata nella sua unitarietà e risulta soggetta al regime
concessorio”.
---------------
La giurisprudenza ha ritenuto rilevante, dal punto di vista
della tutela del paesaggio, anche la realizzazione di volumi
interrati.
Invero, "Il vigente art. 167, comma 4, del Codice dei beni
culturali e del paesaggio preclude il rilascio di
autorizzazioni in sanatoria, quando siano stati realizzati
volumi di qualsiasi natura, anche interrati. Il divieto di
incremento dei volumi esistenti, imposto ai fini di tutela
del paesaggio, si riferisce a qualsiasi nuova edificazione
comportante creazione di volume, senza che sia possibile
distinguere tra volume tecnico e altro tipo di volume, sia
esso interrato o meno”.
---------------
Priva di pregio risulta la censura incentrata sulla
omissione della fase partecipativa al procedimento
(violazione dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990) in
quanto i provvedimenti repressivi degli abusi edilizi sono
provvedimenti tipizzati e vincolati, che presuppongono un
mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere
realizzate e sul carattere non assentito delle medesime.
---------------
Quanto alla mancata individuazione dell’oggetto
dell’eventuale successiva acquisizione al patrimonio
comunale, la costante giurisprudenza di questo Tribunale, ha
affermato l’irrilevanza di tale omissione che deve essere
colmata, pena la sua illegittimità, con il successivo atto
di acquisizione.
---------------
Infine, alla luce della giurisprudenza pacifica, alcun
obbligo ricade sull’amministrazione di far luogo a previe
valutazione di “sanabilità” dell’intervento ex art. 36 del
D.P.R. 380 del 2001, sol perché “proponibile” la relativa
istanza.
---------------
Il ricorso è in parte inammissibile e in parte infondato.
Oggetto della presente controversia sono i provvedimenti
adottati dal Comune di Anacapri (di sospensione dei lavori
prima, e di demolizione poi) a fronte della realizzazione di
numerose opere negli stessi descritte realizzate dalla
ricorrente in assenza di alcun titolo edilizio in area
paseaggisticamente vincolata.
Il ricorso è inammissibile (cfr. avviso dato alle parti in
udienza ai sensi dell’art. 73, comma 3, c.p.a.) nella parte
in cui si rivolge avverso i provvedimenti di sospensione dei
lavori in quanto ai sensi dell’art. 27, comma 3, del D.P.R.
n. 380/2001 l’ordine di sospensione ha effetto fino
all’adozione dei provvedimenti definitivi di cui ai
successivi articoli da adottarsi nel termine (non
perentorio) di 45 gg..
Nella fattispecie, il Comune ha
emesso, ai sensi dell’art. 31, il provvedimento di
demolizione n. 4844 dell’11.04.2011 il che ha fatto
venire meno l’efficacia degli atti di sospensione dei lavori
(peraltro, adottati lo stesso giorno).
Venendo al merito, deve osservarsi come l’interessata non
abbia fornito alcun elemento atto a smentire le risultanze
istruttorie del Comune relativamente a un intervento
edilizio che, per come descritto nell’ingiunzione impugnata
(si tratta, in particolare, di opere, che come meglio si
dirà, hanno comportato la realizzazione di nuovi volumi e
superfici, sbancamenti di terreno e modifica dei prospetti),
ha indubitabilmente determinato nel suo complesso una
duratura trasformazione edilizia e urbanistica del
territorio in zona assoggettata a vincolo paesaggistico
(giusta D.M. 20.03.1951) e ciò avrebbe richiesto per lo meno
la previa acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica con
la conseguenza che la sanzione demolitoria era doverosa.
In
proposito, la giurisprudenza ha statuito che ove gli
interventi edilizi ricadano in zona assoggettata a vincolo
paesaggistico, stante l'alterazione dell'aspetto esteriore,
gli stessi risultano soggetti alla previa acquisizione
dell'autorizzazione paesaggistica, con la conseguenza che,
quand'anche si ritenessero le opere pertinenziali o precarie
e, quindi, assentibili con mera D.I.A., l'applicazione della
sanzione demolitoria è, comunque, doverosa ove non sia stata
ottenuta alcuna autorizzazione paesistica (questo Trib.,
sez. IV, 23.10.2013, n. 4676).
In particolare, la ricorrente non ha esibito alcun titolo
legittimamente le opere realizzate, limitandosi ad affermare
che l’immobile non ha subito modifiche da tempo
immemorabile. In argomento la giurisprudenza ha affermato
che l'onere di fornire la prova dell'epoca di realizzazione
di un abuso edilizio incombe sull'interessato, e non
sull'amministrazione, che, in presenza di un'opera edilizia
non assistita da un titolo edilizio che la legittimi, ha
solo il potere-dovere di sanzionarla ai sensi di legge e di
adottare, ove ricorrano i presupposti, il provvedimento di
demolizione (TAR Campania Napoli, sez. VIII, 02.07.2010, n. 16569).
E’, altresì, irrilevante la dedotta circostanza che la
ricorrente non avrebbe realizzato alcun intervento edilizio
sull’immobile successivamente al suo acquisto avvenuto solo
nel 2005. L'ordinanza di demolizione, infatti, può
legittimamente essere emanata nei confronti del proprietario
dell'opera abusiva, anche se non responsabile della relativa
esecuzione, trattandosi di illecito permanente sanzionato in
via ripristinatoria, a prescindere dall'accertamento del
dolo o della colpa del soggetto interessato (cfr. questo
Trib. Sez. III, 08.01.2016, n. 14).
Il Comune nell’ingiungere la demolizione delle opere in
questione ha legittimamente applicato l’art. 31 del D.P.R.
n. 380 del 2001 essendo state realizzate delle variazioni
essenziali su un organismo edilizio preesistente ricadente
in zona assoggettata a vincolo paesaggistico (a tale
riguardo il successivo art. 32 stabilisce che ogni
intervento definito come variazione essenziale ai sensi del
comma 1, è valutato e sanzionato, ai sensi degli artt. 31 e
44, come eseguito in totale difformità dal permesso qualora
riguardi un bene collocato in area protetta).
In relazione ai dedotti vizi motivazionali dell’atto, il
Collegio evidenzia come la giurisprudenza abbia da tempo
affermato che in presenza di un abuso edilizio “l’ordinanza
di demolizione non richiede, in linea generale, una
specifica motivazione; l’abusività costituisce di per sé
motivazione sufficiente per l’adozione della misura
repressiva in argomento. Ne consegue che, in presenza di
un’opera abusiva, l’autorità amministrativa è tenuta ad
intervenire affinché sia ripristinato lo stato dei luoghi,
non sussistendo alcuna discrezionalità dell’amministrazione
in relazione al provvedere” (TAR Lazio Roma, sez. I, 19.07.2006, n. 6021); infatti “l’ordinanza di demolizione
di opere edilizie abusive è atto dovuto e vincolato e non
necessita di motivazione ulteriore rispetto all’indicazione
dei presupposti di fatto e all’individuazione e
qualificazione degli abusi edilizi” (TAR Marche Ancona,
sez. I, 12.10.2006, n. 824) ed, ancora, “presupposto
per l'emanazione dell'ordinanza di demolizione di opere
edilizie abusive è soltanto la constatata esecuzione di
queste ultime in assenza o in totale difformità del titolo concessorio, con la conseguenza che, essendo l’ordinanza
atto dovuto, essa è sufficientemente motivata con
l’accertamento dell’abuso, essendo “in re ipsa” l’interesse
pubblico alla sua rimozione” (Consiglio di Stato, sez. V, 29.05.2006 n. 3270).
Il provvedimento è, pertanto, sorretto, contrariamente a
quanto dedotto, da idonea motivazione considerato che nella
fattispecie la ricorrente, da un lato, non ha contestato la
consistenza delle opere realizzate (che sono state
puntualmente descritte nell’atto), dall’altro, non è stata
in grado di esibire alcun titolo autorizzativo idoneo.
Deve, inoltre, rilevarsi che l’intervento edilizio
realizzato, pur riguardando una pluralità di opere deve
essere globalmente considerato.
Questa Sezione ha affermato
che nel vagliare un intervento edilizio consistente in una
pluralità di opere, come qui accade, deve effettuarsene una
valutazione globale atteso che “la considerazione atomistica
dei singoli interventi non consente di comprendere
l'effettiva portata dell'operazione” (cfr. in tali sensi,
Tar Campania, Napoli, questa sezione sesta, sentenze n. 5835
del 18.12.2013, n. 1114 del 05.03.2012; n. 26787 del
03.12.2010; 16.04.2010, n. 1993; 25.02.2010,
n. 1155; 09.11.2009, n. 7053; Tar Lombardia, Milano,
sezione seconda, 11.03.2010, n. 584), ovvero di
“scomporla in distinte fasi, cosicché possano individuarsi
interventi soggetti ad autorizzazione ed altri soggetti a
concessione, ma va valutata nella sua unitarietà e risulta
soggetta al regime concessorio” (così la giurisprudenza
sopra riportata e così già Tar Puglia, Bari, sezione
seconda, 16.07.2001, n. 2955).
In ogni caso, dalla sola descrizione dell’intervento
edilizio eseguito si evince che la ricorrente ha realizzato
nuovi volumi e superfici (così l’ampliamento della
superficie di 10,15 mq. per 31,26 mc. e la creazione del
piano seminterrato), nonché, alterato il prospetto del
fabbricato preesistente e ciò avrebbe richiesto il previo
rilascio del permesso di costruire e dell’autorizzazione
paesaggistica.
Deve, inoltre, osservarsi, che la giurisprudenza ha ritenuto
rilevante, dal punto di vista della tutela del paesaggio,
anche la realizzazione di volumi interrati (cfr. censura sul
punto e C.d.S., sez. VI, 02.07.2015, n. 3289 che ha affermato
che “Il vigente art. 167, comma 4, del Codice dei beni
culturali e del paesaggio preclude il rilascio di
autorizzazioni in sanatoria, quando siano stati realizzati
volumi di qualsiasi natura, anche interrati. Il divieto di
incremento dei volumi esistenti, imposto ai fini di tutela
del paesaggio, si riferisce a qualsiasi nuova edificazione
comportante creazione di volume, senza che sia possibile
distinguere tra volume tecnico e altro tipo di volume, sia
esso interrato o meno”).
Priva di pregio risulta la censura incentrata sulla
omissione della fase partecipativa al procedimento
(violazione dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990) in
quanto i provvedimenti repressivi degli abusi edilizi sono
provvedimenti tipizzati e vincolati, che presuppongono un
mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere
realizzate e sul carattere non assentito delle medesime.
E’, altresì, infondato il motivo di ricorso con il quale si
deduce l’incompetenza del dirigente che ha adottato l’atto
in favore del Sindaco (in mancanza di una apposita normativa
statutaria e regolamentare attributiva del potere).
La Sezione ha avuto modo di ripercorrere i percorsi
normativi avviati dall'art. 51, comma 3, l. 08.06.1990 n.
142, proseguiti dalla l. 127 del 1997 e dalla l. n. 191 del
1998 che, da ultimo, ha modificato l'art. 6 della l. 127/97
introducendo la lettera f-bis secondo la quale spettano ai
dirigenti "tutti i provvedimenti di sospensione dei lavori,
abbattimento e riduzione in pristino di competenza comunale,
nonché i poteri di vigilanza edilizia e di irrogazione delle
sanzioni amministrative previsti dalla vigente legislazione
statale e regionale in materia di prevenzione e repressione
dell'abusivismo edilizio e paesaggistico-ambientale", così
espressamente attribuendo alla dirigenza la competenza anche
in materia di applicazione di sanzioni.
Percorsi di cui è traccia anche all'interno del Testo unico
sull'edilizia, emanato con il d.P.R. 380 del 2001, che
attribuisce le misure sanzionatorie in subjecta materia
sempre "al dirigente o al responsabile del competente
ufficio comunale" facendo in tal modo venir meno la
competenza sindacale, già affermata dalla legge n. 47 del
1985, e percorsi che -"in presenza dell'assestamento
nell'ordinamento della summa divisio di competenze fra
organi politici ed amministrativi"- non possono essere oltre
posti in discussione, quanto a portata e cogenza immediata,
dalla (peraltro qui solo) eventuale mancanza di emanazione
della normativa secondaria (cfr., da ultimo, Tar Campania,
questa VI sezione, sentenza n. 2293 del 18.05.2012 e, amplius ex multis in precedenza, sentenze n. 1107 del
05.03.2012 e n. 1464 del 15.03.2010).
Quanto alla mancata individuazione dell’oggetto
dell’eventuale successiva acquisizione al patrimonio
comunale, la costante giurisprudenza di questo Tribunale, ha
affermato l’irrilevanza di tale omissione che deve essere
colmata, pena la sua illegittimità, con il successivo atto
di acquisizione (ex multis, TAR, Campania, Napoli, sez. IV, 21.09.2002, n. 5429).
Infine, alla luce della giurisprudenza pacifica, alcun
obbligo ricade sull’amministrazione di far luogo a previe
valutazione di “sanabilità” dell’intervento ex art. 36 del
D.P.R. 380 del 2001, sol perché “proponibile” la relativa
istanza (che, peraltro, non risulta nemmeno presentata).
In conclusione, il ricorso deve essere respinto nella parte
in cui si dirige avverso l’ordine di demolizione mentre deve
essere dichiarato inammissibile relativamente alle
ingiunzioni di sospensione dei lavori
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 13.04.2016 n. 1814 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: L’«interesse
pubblico» non salva l’ingresso abusivo. Violazioni edilizie.
Non serve valutare le situazioni coinvolte.
Viola il Testo Unico per l’Edilizia e legittima l’ordine di
demolizione la realizzazione di un ingresso indipendente in
condominio difforme alla licenza, a nulla rilevando la
valutazione delle ragioni d’interesse pubblico o la
comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti o
sacrificati.
Lo precisa il TAR
Basilicata, con
sentenza 26.03.2016 n.
297.
Il caso parte dalla richiesta di ottenere l’annullamento,
previa sospensione dell’efficacia, dell’ordinanza con cui il
responsabile del Settore tecnico aveva ordinato la
remissione in pristino di un appartamento.
Secondo gli
accertamenti e il sopralluogo disposto dall’ente,
nell’immobile erano state rinvenute opere difformi alla
licenza edilizia a suo tempo concessa. Il bene, compresa
l’apertura contestata –rileva il proprietario– era stato
edificato in maniera più che legittima.
In realtà, replica
il Comune, di ciò non vi era prova agli atti. Anzi, proprio
dal progetto allegato alla concessione, emergeva
l’irregolarità: la porta di accesso all’appartamento in
questione era stata prevista in corrispondenza della scala
condominiale. L’attuale ingresso, invece, risulta situato su
un altro lato dell’edificio. A confermarlo, anche i grafici
e le riproduzioni fotografiche.
Quanto, poi, alla circostanza –addotta dalla difesa dei
ricorrenti– inerente il fatto che l’elaborato grafico non
sarebbe utilizzabile, in quanto “progetto di massima”,
avente mera finalità descrittiva dell’opera, anch’essa non
può avere alcun pregio. A ben vedere, prosegue il Tar, è la
stessa concessione edilizia a fare obbligo in capo ai
destinatari di “attenersi al progetto presentato”. E non
evita la demolizione neppure il fatto che l’amministrazione
non abbia contestato gli abusi edilizi compiuti dagli altri condòmini.
Del resto –conclude il Tribunale– l’ordine di
demolizione di opere abusive, come tutti i provvedimenti
sanzionatori in materia edilizia «è atto vincolato e non
richiede una specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati, né una
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione» (articolo Il Sole 24 Ore del 21.06.2016).
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MASSIMA
6. Col secondo motivo, si è sostenuto che l'ordinanza di
demolizione n. 13/2015 sarebbe illegittima per carenza di
motivazione e per violazione dei principi di diritto, primo
tra tutti quello dell’affidamento incolpevole del
ricorrente, in quanto:
- le opere contestate come abusive risulterebbero essere
state edificate da notevole lasso di tempo;
- l’Amministrazione resistente non avrebbe mai contestato
e/o eccepito alcuna irregolarità per il passato;
- il sig. Gi.An.Do., al momento della realizzazione delle
opere, non sarebbe stato né proprietario, né esecutore e né
committente dei lavori, avendo acquistato l’appartamento in
questione nello stato di fatto e di diritto in cui oggi si
trova.
6.1. La doglianza va disattesa.
In senso contrario, va richiamato il condivisibile
orientamento, secondo cui l’ordine di
demolizione di opere abusive, come tutti i provvedimenti
sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato e non
richiede una specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati, né una
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione; non vi è un
affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione
di fatto abusiva, che il mero decorso del tempo non sana, e
l’interessato non può dolersi del fatto che
l’Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i
dovuti atti repressivi
(cfr., ex multis, TAR Lazio - sez. I, 27.11.2015, n.
13449; TAR Basilicata, 10.03.2015, n. 164; id. 29.11.2014,
n. 813; C.d.S., sez. IV, 11.01.2011, n. 79).
Peraltro, l’ordinanza di demolizione di una
costruzione abusiva può legittimamente essere emanata nei
confronti del proprietario attuale, anche se non
responsabile dell’abuso, atteso che l’abuso edilizio
costituisce illecito permanente e l’ordinanza stessa ha
carattere ripristinatorio e non prevede l’accertamento del
dolo o della colpa del soggetto cui si imputa la
trasgressione; l’ordine di demolizione e gli altri
provvedimenti repressivi, quindi, devono considerarsi
legittimamente rivolti nei confronti di chi abbia la
disponibilità materiale dell’opera, indipendentemente dal
fatto che l'abbia concretamente realizzata
(cfr. TAR Lazio, sez. I, 14.08.2015, n. 10829).
7. Col terzo motivo, parte ricorrente ha dedotto la
violazione degli artt. 31, 32 e 37 del citato d.P.R. n.
380/2001, e degli artt. 2 e 3 della legge regionale n.
28/1991. In particolare, nessuna delle presunte violazioni
accertate dall'amministrazione rientrerebbe legittimamente
nelle previsioni del citato art. 31, né le stesse
costituirebbero variazioni essenziali ai sensi del
successivo art. 32 d.P.R. n. 380/2001.
7.1. Ritiene,
in senso contrario, il Collegio che
l’intervento realizzato, ovverosia la chiusura del varco di
accesso all’appartamento in questione dalla scala
condominiale, e la realizzazione di una porta in un diverso
prospetto dell’edificio, in difformità rispetto a tutti gli
altri appartamenti del condominio, costituisca quantomeno un
mutamento delle caratteristiche dell’intervento edilizio
assentito, ovverosia una “variazione essenziale” ai
sensi dell’art. 32, n. 1, lett. d) d.P.R. n. 380/2001,
venendo in rilievo la modificazione di elementi costitutivi
dell’edificio ed un’alterazione dell'originaria fisionomia e
consistenza fisica dell’immobile.
7.2. Non persuade, poi il richiamo all’art. 3, n. 1, della
legge regionale 28/1991, il quale non esclude affatto dal
novero delle variazioni essenziali l’apertura di porte,
bensì i soli balconi.
7.3. Neppure convince l’assimilazione dell’opera realizzata
ad una c.d. “porta-finestra”, in quanto nella
fattispecie in trattazione non viene in considerazione il
mero ampliamento di una finestra, bensì la realizzazione
dell’accesso principale all’appartamento in modo del tutto
difforme rispetto al progetto assentito.
8. E’ destituita di fondamento in fatto,
alla luce delle considerazioni innanzi svolte, ed in
disparte ogni valutazione circa la sua ammissibilità,
l’ulteriore censura secondo cui l’ordinanza
impugnata avrebbe dovuto essere notificata anche agli altri
condomini, versando le pareti dei piani superiori dello
stesso edificio condominiale nella stessa identica
situazione. Infatti, l’apertura del varco d’accesso su altro
prospetto dell’edificio caratterizza il solo appartamento di
proprietà degli odierni ricorrenti.
8.1. Del pari, non si ravvisano né la dedotta impossibilità
giuridica della rimessione in pristino, trattandosi appunto
di ripristinare le condizioni dell’immobile secondo le
specifiche del progetto assentito, né le pretese lesioni “del
decoro architettonico dell’edificio”, semmai recate
dall’opera abusiva.
9. Con l’ultimo motivo, i ricorrenti hanno lamentato che “l'Amministrazione
resistente ha impartito contestualmente (e
contraddittoriamente) sia l'ordine di demolizione ex art.
31-32 TUED e sia l'ordine di pagamento della sanzione
pecuniaria di cui all'art. 37, comma 4, TUED. […]".
Si tratta di un'evidente ed insanabile contraddizione:
mentre,
infatti, l'art. 31 TUED sanziona con la
demolizione le opere che siano totalmente abusive ovvero
eseguite in totale difformità e/o con variazioni essenziali
rispetto al progetto assentito, l'art. 37, comma 4, TUED
commina la sola sanzione pecuniaria, tra il minimo di Euro
516 ed il massimo di Euro 5164, ogni violazione di minore
entità che "risulti conforme alla disciplina urbanistica
ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione
dell'intervento, sia al momento della presentazione della
domanda”.
9.1 La censura coglie nel segno.
A ben vedere, il Comune intimato, pur avendo qualificato le
opere realizzate come abusive, perché realizzate in
difformità rispetto alla ripetuta concessione edilizia n.
30/1997, ha poi ingiunto la rimessione in pristino dello
stato dei luoghi ai sensi dell’art. 37 del d.P.R. n.
380/2001, concernente le opere eseguite in assenza o in
difformità dalla denuncia di inizio di attività o
segnalazione certificata di inizio di attività, ed ha,
altresì, espressamente applicato “l’indennità pecuniaria”
di cui all’art. 37, n. 4, del medesimo decreto, concernente
la sanatoria dell’intervento realizzato in conformità alla
disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento
della realizzazione dell’intervento, sia al momento della
presentazione della domanda.
9.2. In tal senso, quindi, deve ritenersi che l’atto
contestato sia affetto da contraddittorietà, posto che
l’Amministrazione ha disposto misure tra loro diverse ed
alternative, tali da fare insorgere seri dubbi
sull’effettiva volontà sottesa al provvedimento impugnato. |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Servizi
idrici, documenti accessibili. Tar Lazio. Il condominio ha
diritto di visionare gli atti per tutelare i propri
interessi e ottenere il rimborso dei danni.
Il condominio, in persona del suo
amministratore, ha diritto ad avere accesso ai documenti
amministrativi relativi alle rilevazioni e monitoraggi
effettuati dalla società che gestisce il servizio idrico
delle fognature, in relazione a eventi di sversamento di
acque nere.
È questo il principio affermato dalla II Sez. del
TAR Lazio-Roma con la
sentenza
15.03.2016 n. 3287, in un caso in
cui un condominio aveva promosso ricorso contro il silenzio
del gestore della rete fognaria comunale all’istanza di
accesso agli atti per il rilascio di copia delle rilevazioni
dei monitoraggi e delle relazioni tecniche relativi a
prolungati e ripetuti sversamenti di acque nere fuoriuscenti
dal manto stradale antistante l’edificio condominiale.
Il
condominio aveva fondato il proprio ricorso sulla necessità
di conoscere il contenuto dei documenti al fine di tutelare
i propri diritti (rimessione in pristino e risarcimento del
danno), tenuto conto del danno ingiusto subito a seguito
dell’omessa manutenzione della rete fognaria comunale che
aveva cagionato gli sversamenti.
Il tribunale amministrativo ha specificato che l’interesse
che deve sottendere l’istanza di accesso agli atti va inteso
in senso ampio, in quanto la documentazione richiesta deve
essere, genericamente, mezzo utile per la difesa
dell’interesse giuridicamente rilevante.
Con riferimento al soggetto destinatario dell’istanza di
accesso agli atti, il giudice amministrativo ha specificato
che, ai sensi della legge 241/1990, si intendono per
pubbliche amministrazioni tutti i soggetti di diritto
pubblico e i soggetti di diritto privato che svolgono
attività di pubblico interesse e limitatamente a tale
attività (per esempio, le società partecipate). Quanto
all’oggetto dell’istanza, invece, si deve trattare di atti
amministrativi, cioè atti e documenti detenuti da una
pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico
interesse.
Sulla scorta di queste considerazioni, il Tar Lazio ha
accolto il ricorso del condominio, in quanto appariva
evidente il suo interesse ad esaminare la documentazione
richiesta al fine di tutelare i propri diritti (consistenti
nel diritto di richiedere la rimozione della causa degli
sversamenti, nonché il risarcimento dei danni), e ha dunque
ordinato al gestore del servizio idrico di consentire la
visione e l’estrazione di copia dei documenti richiesti (articolo Il Sole 24 Ore del 28.06.2016).
---------------
MASSIMA
2. Il ricorso è fondato alla luce delle seguenti
considerazioni.
2.1. Parte ricorrente censura nella sostanza la violazione
dei principi generali in materia di accesso per il
comportamento inerte della società Acea Ato 2 Spa, che
gestisce il servizio idrico integrato nell’Ambito
territoriale della città di Roma, sull’istanza di accesso
alla documentazione richiesta, come sopra indicata, per la
visione da parte del Condominio ricorrente.
2.2. Al riguardo l'art. 22 della legge n. 241 del 1990
individua i soggetti interessati all'accesso ai documenti
amministrativi in tutti coloro che abbiano un interesse
diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una
situazione tutelata e collegata al documento al quale si
chiede l'accesso (comma 1); ai sensi del successivo art. 25,
il diritto di accesso si esercita mediante esame ed
estrazione di copia dei documenti amministrativi, nei modi e
con i limiti indicati dalla legge (comma 1), e la richiesta
di accesso ai documenti deve essere motivata e va rivolta
all’Ente che ha formato il documento o che lo detiene
stabilmente (comma 2).
Alla stregua della richiamata disciplina sul procedimento
amministrativo, i portatori di un interesse
specifico hanno diritto di accesso ai documenti
amministrativi per la tutela di situazioni giuridicamente
rilevanti, intendendo per tali le situazioni giuridiche
soggettive che presentino un collegamento diretto e attuale
con il procedimento amministrativo cui la richiesta di
accesso si riferisce.
In particolare, deve ritenersi che la
nozione di interesse giuridicamente rilevante sia più ampia
rispetto a quella dell’interesse all’impugnazione,
caratterizzato dall’attualità e concretezza dell’interesse
medesimo, e consenta la legittimazione all’accesso a
chiunque possa dimostrare che il provvedimento o gli atti
endoprocedimentali abbiano dispiegato o siano idonei a
dispiegare effetti diretti o indiretti nei suoi confronti,
indipendentemente dalla lesione di una posizione giuridica.
D’altra parte, tale concetto di interesse giuridicamente
rilevante non è tale da consentire a chiunque l’accesso agli
atti amministrativi: l'esercizio del diritto di accesso è
autorizzato solo se sostenuto dall'esigenza di tutelare un
interesse giuridicamente rilevante, intendendosi per tale un
interesse serio, effettivo, concreto, attuale e, in
definitiva, ricollegabile all'istante da un preciso e ben
identificabile nesso funzionale alla realizzazione di
esigenze di giustizia. L'interesse all'accesso e la sua
rilevanza ai fini della proposizione di un eventuale
giudizio, va inteso in senso ampio, in quanto la
documentazione richiesta deve essere, genericamente, mezzo
utile per la difesa dell'interesse giuridicamente rilevante,
e non strumento di prova diretta della lesione di tale
interesse (cfr
Cons. Stato, sez. V, 20.01.2015, n. 166; idem, sez. V,
23.09.2015, n. 4452; idem, sez. III, 27.10.2015, n. 4903;
Tar Lazio, Roma, sez. I, 10.11.2015, n. 12703; Tar Veneto,
sez. III , 10.12.2015, n. 1318).
A ciò va aggiunto che il citato art. 22 individua i
documenti amministrativi in quelli "detenuti da una
pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico
interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o
privatistica della loro disciplina sostanziale" (comma
1, lett. d) e per pubblica amministrazione “tutti i
soggetti di diritto pubblico e i soggetti di diritto privato
limitatamente alla loro attività di pubblico interesse
disciplinata dal diritto nazionale o comunitario” (comma
1, lett. e).
In conformità alla predetta norma, l'Ente
destinatario dell'esercizio del diritto di accesso va
individuato nel soggetto pubblico o privato che, in
relazione alla propria attività amministrativa di pubblico
interesse detiene -o comunque è tenuta a detenere- i
documenti amministrativi che ineriscono alle predette
attività ad essa riconducibili.
Del resto, diversamente opinando, il diritto di accesso,
riconosciuto dalla legge come posizione strumentale alla
partecipazione procedimentale e alla imparzialità e
trasparenza dell'azione amministrativa, risulterebbe
facilmente vanificato nel suo esercizio concreto, dalla mera
asserzione di irreperibilità del documento richiesto presso
un soggetto che per la tipologia dell’attività esercitata
invece sarebbe stata tenuta alla sua detenzione, ai sensi di
legge: “l'istituto dell'accesso trova applicazione nei
confronti di ogni tipologia di attività della p.a., compresi
gli atti di diritto privato, gli atti posti in essere dal
soggetto gestore di pubblico servizio” (cfr. Cons.
Stato, Ad. Plen. n. 4 del 1999; Cons. Stato, sez. VI,
12.01.2011, n. 116; idem, sez. VI, 28.03.2013, n. 1835; Tar
Calabria, Reggio Calabria, 06.07.2011, n. 552). |
EDILIZIA PRIVATA: La mera esecuzione di lavori di sbancamento
è, di per sé, inidonea per ritenere soddisfatto il
presupposto dell'effettivo "inizio dei lavori" entro
il termine di un anno dal rilascio del permesso di costruire
a pena di decadenza del titolo abilitativo (art. 15, d.P.R.
06.06.2001, n. 380), essendo necessario, al fine di
escludere la configurabilità del reato di costruzione
abusiva, che lo sbancamento sia accompagnato dalla compiuta
organizzazione del cantiere e da altri indizi idonei a
confermare l'effettivo intendimento del titolare del
permesso di costruire di realizzare l'opera assentita
(in motivazione la Corte ha precisato che detti indizi
consistono nell'impianto del cantiere, nell'innalzamento di
elementi portanti, nell'elevazione di muri e nell'esecuzione
di scavi coordinati al gettito delle fondazioni del
costruendo edificio).
Dopo l'inutile scadenza dei termini di
inizio e fine lavori edilizi contenuti nella concessione ad
edificare (e che decorrono dal rilascio della concessione e
non dal ritiro della stessa da parte dell'interessato), la
concessione è "tamquam non esset", con la conseguenza
che i lavori edilizi iniziati o ultimati dopo la scadenza
sono realizzati in assenza di titolo abilitativo, e vanno
soggetti alla sanzione penale di cui all'art. 20 della legge
28.02.1985 n. 47 (ora art. 44 del D.P.R. 06.06.2001).
Il d.P.R. n. 380 del 2001, art. 15, comma 2, sancisce la
decadenza del permesso di costruire per decorso del termine
di inizio o di ultimazione dei lavori.
La legge non precisa la nozione di "inizio
dei lavori": tale nozione, però, secondo
l'interpretazione giurisprudenziale costante, deve
intendersi riferita a concreti lavori edilizi. In questa
prospettiva i lavori debbono ritenersi "iniziati"
quando consistano nel concentramento di mezzi e di uomini,
cioè nell'impianto del cantiere, nell'innalzamento di
elementi portanti, nella elevazione dì muri e nella
esecuzione di scavi coordinati al gettito delle fondazioni
del costruendo edificio.
Va salvaguardata, in effetti, l'esigenza di evitare che il
termine prescritto possa essere eluso con ricorso ad
interventi fittizi e simbolici.
I soli lavori di sbancamento, non accompagnati dalla
compiuta organizzazione del cantiere e da altri indizi
idonei a confermare l'effettivo intendimento del titolare
del permesso di costruire di addivenire al compimento
dell'opera assentita, attraverso un concreto, continuativo e
durevole impiego di risorse finanziarie e materiali, non
possono ritenersi idonei a dare dimostrazione dell'esistenza
dei presupposti indispensabili per configurare un effettivo
inizio dei lavori.
---------------
3. Il ricorso in Cassazione del Procuratore della
Repubblica, presso il Tribunale di Asti è fondato e deve
accogliersi.
Per il capo A) la contestazione è relativa alla costruzione
del capannone con strutture in cemento armato di dimensioni
di m. 21,30x48,90, altezza di 4,40, con il permesso di
costruire dichiarato decaduto con provvedimento del
27.09.2011 dell'autorità amministrativa. Il permesso di
costruzione era stato rilasciato il giorno 11.10.2007; nel
settembre 2011 -dopo la scadenza dei 36 mesi dal permesso-
in un sopralluogo si accertava il mancato inizio dei lavori.
Il 27.09.2011 il Comune di Asti dichiarava decaduto il
permesso di costruire rilasciato all'imputato. Il 28 ottobre
ad un nuovo sopralluogo si rilevava la costruzione dì cui
all'imputazione.
Il giudice del merito ritiene che le "operazioni di
tracciamento e di spianamento del terreno ... propedeutiche
alla realizzazione del capannone" costituiscono inizio
dei lavori, con conseguente illegittimità del provvedimento
di decadenza adottato dal Comune dì Asti.
Tale argomentazione non è conforme alla costante
giurisprudenza della Corte di Cassazione, che ha ritenuto
irrilevanti gli scavi ai fini dell'inizio di una
costruzione.
La mera esecuzione di lavori di sbancamento
è, di per sé, inidonea per ritenere soddisfatto il
presupposto dell'effettivo "inizio dei lavori" entro
il termine di un anno dal rilascio del permesso di costruire
a pena di decadenza del titolo abilitativo (art. 15, d.P.R.
06.06.2001, n. 380), essendo necessario, al fine di
escludere la configurabilità del reato di costruzione
abusiva, che lo sbancamento sia accompagnato dalla compiuta
organizzazione del cantiere e da altri indizi idonei a
confermare l'effettivo intendimento del titolare del
permesso di costruire di realizzare l'opera assentita
(in motivazione la Corte ha precisato che detti indizi
consistono nell'impianto del cantiere, nell'innalzamento di
elementi portanti, nell'elevazione di muri e nell'esecuzione
di scavi coordinati al gettito delle fondazioni del
costruendo edificio) (Sez. 3, n. 7114 del 27/01/2010 - dep.
23/02/2010, Viola e altro, Rv. 246220).
Dopo l'inutile scadenza dei termini di
inizio e fine lavori edilizi contenuti nella concessione ad
edificare (e che decorrono dal rilascio della concessione e
non dal ritiro della stessa da parte dell'interessato), la
concessione è "tamquam non esset", con la conseguenza
che i lavori edilizi iniziati o ultimati dopo la scadenza
sono realizzati in assenza di titolo abilitativo, e vanno
soggetti alla sanzione penale di cui all'art. 20 della legge
28.02.1985 n. 47 (ora art. 44 del D.P.R. 06.06.2001)
(Sez. 3, n. 21022 del 19/03/2003 - dep. 13/05/2003, Ruggia,
Rv. 225302).
Il d.P.R. n. 380 del 2001, art. 15, comma 2, sancisce la
decadenza del permesso di costruire per decorso del termine
di inizio o di ultimazione dei lavori.
La legge non precisa la nozione di "inizio
dei lavori": tale nozione, però, secondo
l'interpretazione giurisprudenziale costante, deve
intendersi riferita a concreti lavori edilizi. In questa
prospettiva i lavori debbono ritenersi "iniziati"
quando consistano nel concentramento di mezzi e di uomini,
cioè nell'impianto del cantiere, nell'innalzamento di
elementi portanti, nella elevazione dì muri e nella
esecuzione di scavi coordinati al gettito delle fondazioni
del costruendo edificio.
Va salvaguardata, in effetti, l'esigenza di evitare che il
termine prescritto possa essere eluso con ricorso ad
interventi fittizi e simbolici.
I soli lavori di sbancamento, non accompagnati dalla
compiuta organizzazione del cantiere e da altri indizi
idonei a confermare l'effettivo intendimento del titolare
del permesso di costruire di addivenire al compimento
dell'opera assentita, attraverso un concreto, continuativo e
durevole impiego di risorse finanziarie e materiali, non
possono ritenersi idonei a dare dimostrazione dell'esistenza
dei presupposti indispensabili per configurare un effettivo
inizio dei lavori.
Nella fattispecie in esame non risulta, in particolare, che
gli scavi, come descritti in Sentenza, possano qualificarsi
come scavi di fondazione, caratterizzati da quel "cospicuo
movimento di terra, anche in profondità, idoneo a contenere
la platea di fondazione"
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 03.03.2016 n. 25806 - data udienza). |
EDILIZIA PRIVATA:
La norma di cui all'artt. 96, sub f), del R.D. 25.07.1904 n.
523 recita "Sono lavori ed atti vietati in modo assoluto
sulle acque pubbliche, loro alvei, sponde e difese i
seguenti...le piantagioni di alberi e di siepi, le
fabbriche, gli scavi e lo smovimento del terreno a distanza
del piede degli argini e loro accessori come sopra, minore
di quella stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse
località, ed in mancanza di tali discipline a distanza
minore di metri quattro per le piantagioni e smovimento del
terreno e di metri dieci per le fabbriche e gli scavi".
Il reato ha natura di pericolo sicché, per la sussistenza
della fattispecie contravvenzionale, non occorre l'ulteriore
verifica che l'azione illecita abbia recato nocumento
all'alveo del corso d'acqua o alle sue sponde.
---------------
1. Per illustrare la sua censura, il ricorrente muove dal
presupposto del reato contestato, relativo allo spostamento
dell'area di sedime del manufatto. Secondo l'imputato, non
rientrerebbe nel divieto posto dall'art. 96, comma 1, lett.
f), RD n. 523/1904 il comportamento consistente
nell'allontanamento di un manufatto dall'argine, quando
realizzato nel limite dei 10 metri.
Infatti, la diversa interpretazione sarebbe contraria alla
lettera della norma ed all'interesse pubblico ed, in ogni
caso, contrasterebbe con lo spirito dell'art. 1 della Legge
Regionale Toscana n. 21/2012, che consente gli interventi
volti a garantire la fruibilità pubblica all'interno delle
fasce di larghezza di dieci metri dal piede dell'argine, ove
non compromettano l'efficacia e l'efficienza dell'opera
idraulica e non alterino il buon regime delle acque.
Aggiunge il Severi che la norma a lui contestata, se ponesse
un divieto assoluto, dovrebbe sempre prescindere dalla
preventiva valutazione delle amministrazioni competenti,
sicché gli stessi giudici di merito avrebbero in qualche
modo ammesso che la fattispecie non potesse essere riferita
al divieto di cui all'art. 96 citato. Ciò anche perché lo
spostamento dell'area di sedime non sarebbe elemento
sufficiente a qualificare l'intervento come nuova
costruzione.
2. Il motivo è infondato, ma il reato si è medio tempore
prescritto.
La norma di cui all'artt. 96, sub f), del R.D. 25.07.1904 n.
523 recita "Sono lavori ed atti vietati in modo assoluto
sulle acque pubbliche, loro alvei, sponde e difese i
seguenti...le piantagioni di alberi e di siepi, le
fabbriche, gli scavi e lo smovimento del terreno a distanza
del piede degli argini e loro accessori come sopra, minore
di quella stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse
località, ed in mancanza di tali discipline a distanza
minore di metri quattro per le piantagioni e smovimento del
terreno e di metri dieci per le fabbriche e gli scavi".
Il reato ha natura di pericolo sicché, per la sussistenza
della fattispecie contravvenzionale, non occorre l'ulteriore
verifica che l'azione illecita abbia recato nocumento
all'alveo del corso d'acqua o alle sue sponde [Sez. 3,
Sentenza n. 36502 del 21/09/2006 Ud. (dep. 03/11/2006) Rv.
235531].
Nella specie, come ammette lo stesso ricorrente,
l'originario manufatto è stato demolito e successivamente
ricostruito in luogo fisicamente diverso, ancorché
adiacente. Si tratta dunque naturalisticamente di una nuova
costruzione, come tale rientrante nella nozione astratta di
"costruzione di fabbriche" prevista dal reato
contestato. La violazione è assoluta -dunque non
condizionata alla preventiva valutazione dell'autorità
amministrativa- sicché in tal senso va emendata la
motivazione del giudice d'appello.
Tuttavia, tale non corretto riferimento non inficia la
ratio decidendi della Corte d'Appello, laddove
puntualizza chiaramente che la violazione in parola rileva
essenzialmente sul piano penale (ed a prescindere da quello
edilizio), giacché la norma incriminatrice, a tutela delle
acque pubbliche e pertanto dell'interesse collettivo, impone
limiti e regole molto più cogenti di quelle dettate a
presidio delle norme urbanistiche, per ciò solo
insuscettibili di deroghe
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 13.01.2016 n. 4376 - data udienza). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI:
Dati ambientali a disposizione.
Con la tutela del verde non si scherza. La trasparenza nella
protezione dell'ambiente è ancora più incisiva rispetto alle
misure garantite dalla legge 241/1990 che disciplina i
rapporti fra cittadini e amministrazioni. E ciò sia per i
soggetti legittimati a chiedere sia per la qualità degli
atti.
E così se qualcuno si accorge che all'interno del parco sono
stati tagliati alberi di alto fusto la regione non può
negare l'accesso agli atti per sapere chi e perché ha
autorizzato l'operazione.
È quanto emerge dalla
sentenza 19.11.2015 n. 1747, pubblicata dal TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. I.
L'ente ha trenta giorni per dare accesso alle carte.
L'ostensione delle informazioni ambientali, infatti, è
garantita dall'articolo 3, comma 1, del decreto legislativo
195/2005, che a sua volta dà attuazione alla direttiva
europea 2003/4/Ce
(articolo ItaliaOggi Sette del 20.06.2016).
---------------
MASSIMA
2. Il ricorso deve trovare accoglimento.
Nel caso di specie si tratta di un’informazione ambientale
attinente cioè allo stato degli elementi ambientali e il
d.lgs. 195/2005 introduce una disciplina particolare
estendendo la conoscenza delle informazioni relative
all’ambiente a chiunque ne faccia richiesta senza che questi
debba dimostrare il proprio interesse.
In particolare, ai sensi degli artt. 1 e 2 del d.lgs. citato
deve essere garantito il diritto all’informazione
per garantire ai fini della più ampia trasparenza che
l’informazione ambientale sia sistematicamente e
progressivamente messa a disposizione del pubblico e diffusa
in forma o formati consultabili. La pubblica amministrazione
è tenuta a rendere l’informazione ambientale detenuta a
chiunque ne faccia richiesta senza che questi debba
dichiarare e dimostrare il proprio interesse.
Nel caso di specie, alla luce della rappresentazione fornita
dalle parti, l’informazione richiesta ha carattere
ambientale riguardando il taglio di alberi avvenuto in zona
protetta e le ragioni a fondamento degli atti autorizzativi,
con la conseguenza che la ricorrente ha diritto di accedere
agli atti richiesti.
È sufficiente evidenziare sul punto (Cons. St. 4636/2015)
che l’art. 3, comma 1, d.lgs. n. 195 del
2005, ha previsto un accesso facilitato (rispetto a quello
disciplinato dall'art. 22 della legge n. 241 del 1990) per
le informazioni ambientali, al fine di assicurare, per la
rilevanza della materia, la maggiore trasparenza possibile
dei relativi dati.
Il regime di pubblicità in materia ambientale ha carattere
tendenzialmente integrale, sia per ciò che concerne la
legittimazione attiva, con un ampliamento dei soggetti
legittimati all'accesso, e sia per il profilo oggettivo,
prevedendosi un'area di accessibilità alle informazioni
ambientali svincolata dai più restrittivi presupposti
dettati in via generale dagli artt. 22 e segg. della legge
n. 241 del 1990.
La richiesta è pertanto adeguatamente formulata e
circostanziata.
Deve pertanto essere accertata l’illegittimità del diniego
opposto da parte resistente e deve contestualmente essere
ordinato alla pubblica amministrazione resistente di esibire
a parte ricorrente i documenti richiesti entro il termine di
30 giorni dalla comunicazione in via amministrativa o
notificazione, se anteriore, della presente sentenza. |
INCARICHI PROFESSIONALI: Avvocati,
pubblicità nei limiti. Indicabile l'attività prevalente ma
niente autocelebrazione. La sentenza del Cnf delimita i
confini all'interno dei quali può muoversi il
professionista.
È deontologicamente scorretto il comportamento dell'avvocato
che si «pavoneggia» sulla stampa. La pubblicità
professionale, infatti, non può essere né comparativa né
autocelebrativa, ma esclusivamente di natura conoscitiva. Il
professionista, in sostanza, può provvedere alla sola
indicazione delle attività prevalenti o del proprio
curriculum.
È il principio che emerge dalla
sentenza 11.11.2015 n. 163 del Consiglio nazionale
forense, pubblicata il 25 giugno scorso sul portale
dedicato.
Nel dettaglio, la colpa dell'avvocato in questione sarebbe
quella di aver rilasciato un articolo-intervista per un
periodico mensile dove viene enfatizzata più volte la sua
capacità professionale utilizzando frasi dal contenuto
autoelogiativo come: «la sua grande soddisfazione è quella
di aver fondato uno studio che, oltre ad essere diventato un
punto di riferimento per i suoi clienti, è una fucina di
professionisti»; ancora, un secondo virgolettato attribuito
all'avvocato in questione, e nel mirino dell'ordine, è: «io
sono sempre in giro per il mondo, passo da un consiglio di
amministrazione all'altro, da un collegio sindacale
all'altro, mi muovo in continuazione, mi informo e mi
documento su ogni cosa, sono curioso di tutto e tengo la
mente in perenne ebollizione».
Infine: «la stima e il
rispetto che si rispecchia in questo studio associato che
non è mai stato e non sarà mai un condominio di avvocati, ma
una fucina di professionisti dove ognuno dà il meglio di se
stesso».
In particolare, il Cnf richiama l'art. 18 del
codice deontologico forense, laddove prevede, nel
disciplinare i rapporti con la stampa, che l'avvocato debba
«ispirarsi a criteri di equilibrio e misura nel rilasciare
interviste, per il rispetto dei doveri di discrezione e di
riservatezza» e che «è fatto divieto di enfatizzare la
propria capacità professionale». L'art. 17, invece,
stabilisce che l'informazione debba «essere conforme a
verità e correttezza», deve «rispettare la dignità e il
decoro della professione» e non deve «assumere i connotati
della pubblicità ingannevole, elogiativa, comparativa».
La
sentenza è anche l'occasione, per il Cnf, di tornare sul
decreto Bersani, che se da un lato ha abrogato le
disposizioni che non consentivano la pubblicità informativa
relativamente alle attività professionali, dall'altro «non
ha affatto abrogato l'art. 38, comma 1, del rdl n. 1578/1933,
il quale punisce comportamenti non conformi alla dignità e
al decoro professionale»
(articolo ItaliaOggi del 28.06.2016).
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La
“pubblicità” professionale non deve essere comparativa né
autocelebrativa.
L’informazione sull’attività
professionale, ai sensi degli artt. 17 e 17-bis cod. deont.
(ora, 17 e 35 ncdf), deve essere rispettosa della dignità e
del decoro professionale e quindi di tipo semplicemente
conoscitivo, potendo il professionista provvedere alla sola
indicazione delle attività prevalenti o del proprio
curriculum, ma non deve essere mai né comparativa né
autocelebrativa (nel caso di specie, in una intervista ad un
quotidiano, il professionista dichiarava di distinguersi
dagli altri avvocati, a suo dire non altrettanto informati e
documentati).
Consiglio Nazionale Forense (pres. Alpa, rel. Pasqualin),
sentenza 11.11.2015 n. 163.
NOTA:
In senso conforme, tra le altre, Consiglio Nazionale Forense
(pres. f.f. Salazar, rel. Sica), sentenza del 19.12.2014, n.
194, Consiglio Nazionale Forense (Pres. f.f. Vermiglio, Rel.
Pasqualin), sentenza del 15.10.2012, n. 152 (link a
www.codicedeontologico-cnf.it). |
TRIBUTI: Imposta
comunali sugli immobili. È dovuta sul bene sequestrato.
Il chiarimento contenuto in una sentenza
della Suprema corte di cassazione.
È tenuto a pagare l'Ici il contribuente al quale viene
notificato il sequestro giudiziario di un immobile di cui
risulti titolare, ancorché non abbia più la disponibilità
del bene. Il pagamento dell'imposta comunale deve essere
effettuato fino all'emanazione del decreto di confisca
dell'immobile.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, con la
sentenza 30.10.2015 n. 22216.
Per i giudici di piazza Cavour, «il sequestro non
comporta, al contrario della confisca, la perdita della
titolarità dei beni ad esso sottoposti». Precisa la
Cassazione, inoltre, che «fino al sopravvenire del
decreto di confisca deve intendersi sussistente il requisito
del possesso quanto alla soggettività passiva ai fini Ici».
Del resto, «sostenere la perdita della soggettività
passiva d'imposta sin dall'adozione della misura del
sequestro poggia sul concetto di “disponibilità” del bene,
che è estraneo alla delimitazione della soggettività passiva
d'imposta, quale desumibile dal combinato disposto del dlgs
n. 504 del 1992, art. 1, comma 2, e dell'art. 3».
In effetti, il possesso o meno di fatto di un immobile o la
mancanza di disponibilità del bene non hanno alcuna
rilevanza ai fini dell'assoggettamento a imposizione. La
stessa regola vale per l'Imu. Non caso nella pronuncia viene
richiamato l'articolo 3 della disciplina Ici, che si applica
anche all'Imu, il quale per il riconoscimento della
soggettività passiva richiede la titolarità del bene.
L'Ici e l'Imu sono dovute dai contribuenti per anni solari,
proporzionalmente alla quota di possesso, di diritto,
dell'immobile e in relazione ai mesi dell'anno per i quali
il bene è stato posseduto. Se il possesso si è protratto per
almeno 15 giorni, il mese deve essere computato per intero.
Va evidenziato, poi, che la prova della proprietà o della
titolarità dell'immobile non è data dalle iscrizioni
catastali, ma dalle risultanze dei registri immobiliari. In
caso di difformità è tenuto al pagamento dell'imposta il
soggetto che risulti titolare da questi registri
(commissione tributaria regionale del Lazio, prima sezione,
sentenza 90/2006). Quindi, per l'assoggettamento agli
obblighi tributari non è probante quello che risulti
iscritto in catasto.
Oltre al proprietario e all'usufruttuario, sono soggetti
passivi anche il superficiario, l'enfiteuta, il locatario
finanziario, i titolari dei diritti di uso e abitazione,
nonché il concessionario di aree demaniali. Rientra tra i
diritti reali, poi, il diritto di abitazione che spetta al
coniuge superstite, in base all'articolo 540 del codice
civile
(articolo ItaliaOggi Sette del 20.06.2016).
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MASSIMA
... deve osservarsi che la tesi esposta dalla
ricorrente, al fine di sostenere la perdita della
soggettività passiva d'imposta sin dall'adozione della
misura del sequestro poggia sul concetto di "disponibilità"
del bene, che è estraneo alla delimitazione della
soggettività passiva d'imposta, quale desumibile dal
combinato disposto dell'art. 1 comma 2, e dell'art. 3 del D.
Lgs. n. 504/1992.
Come, infatti, più volte statuito da questa Corte (cfr.
Cass. civ. sez. V 09.10.2009, n. 21541; Cass. civ. sez. V
26.02.2010, n. 4753 e Cass. civ. sez. V 09.05.2013, n.
10987), dalla lettura congiunta delle citate norme si desume
che soggetto passivo dell'imposta comunale
sugli immobili può essere soltanto il proprietario o il
titolare di un diritto reale di godimento sull'immobile, di
modo che la nozione di possesso di fabbricati, aree
fabbricabili e di terreni agricoli, di cui al comma 2
dell'art. 1 del D.Lgs. n. 504/1992, va riferita propriamente
a quella corrispondente alla titolarità del diritto di
proprietà o di diritto reale minore sull'immobile
(art. 3, 1° comma, del D.Lgs. n. 504/1992).
Tale interpretazione ha trovato conferma nella
giurisprudenza di questa Corte anche con specifico
riferimento alla problematica inerente al riconoscimento
dell'indennità di esproprio a seguito di procedura
espropriativa, pur in ipotesi di omessa o infedele
dichiarazione ICI da parte del soggetto sottoposto a detta
procedura (cfr. Cass. civ. sez. I 12.10.2007, n. 21433;
Cass. civ. sez. I 03.01.2008, n. 19), essendosi affermato
che l'occupazione d'urgenza, per il suo
carattere coattivo, non priva il proprietario del possesso
dell'immobile, in quanto il bene continua ad appartenergli
finché non interviene il decreto di esproprio, mentre
nell'occupante, che riconosce la proprietà in capo
all'espropriando, manca l'animus rem sibi habendi,
sicché lo stesso deve essere qualificato come mero
detentore.
1.2.1. Né detto orientamento è contraddetto dalla più
recente pronuncia di questa Corte, Cass. civ. sez. V
20.03.2015, n. 5626, che ha ritenuto il
proprietario non tenuto al pagamento dell'ICI in caso di
occupazione temporanea d'urgenza seguita da effettiva
immissione della Pubblica Amministrazione nel possesso del
bene, avuto riguardo alla natura del tutto peculiare della
fattispecie, evidenziata dalla pronuncia richiamata,
fattispecie nella quale, ancora applicabile l'istituto
dell'occupazione acquisitiva, sin dal momento
dell'occupazione d'urgenza si era pacificamente realizzata
l'irreversibile trasformazione del fondo. |
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