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88-PIANI PIANIFICATORI ED ATTUATIVI (aree a standard)
89-PISCINE
90-PUBBLICO IMPIEGO
91-PUBBLICO IMPIEGO (quota annuale iscrizione ordine professionale)
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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di GIUGNO 2016

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aggiornamento al 23.06.2016

aggiornamento al 14.06.2016

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 23.06.2016

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UTILITA'

AMBIENTE-ECOLOGIAManuale operativo Sistri (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, 07.06.2016).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U. 17.06.2016 n. 140 "Regolamento di disciplina delle funzioni del Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri in materia di misurazione e valutazione della performance delle pubbliche amministrazioni" (D.P.R. 09.05.2016 n. 105).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

INCARICHI PROFESSIONALI: A. Galbiati, I servizi legali nel nuovo Codice dei Contratti (20.06.2016 - link a www.studiospallino.it).

APPALTI: Appalti Griglia delle dichiarazioni la cui irregolarità essenziale/non essenziale comporta esclusione o soccorso istruttorio (19.06.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

EDILIZIA PRIVATA: Decreto-Scia, nuovo computo dei termini nei procedimenti: un salto nel buio (17.06.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTI: L. Cocchi, Prime osservazioni sul nuovo rito degli appalti (16.06.2016 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Appalti: le forme dei contratti conseguenti ai sistemi di gara, in attuazione dell'articolo 32, comma 14, del d.lgs. 50/2016 (15.06.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTI: G. Taccogna, L’aggiudicazione degli appalti pubblici nel d.lgs. n. 50 del 2016 - prime considerazioni (14.06.2016 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Incarichi ad avvocati. Stralcio slides per procedura semplificata (14.06.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTI: Modello di relazione unica finale e di programmazione controlli con campi moduli, per semplificare la compilazione (07.06.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTI: Appalti: modalità per il controllo sull'esecuzione dei contratti (art. 31, comma 12) (04.06.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTI: Appalti: il conflitto di interesse nega la fiduciarietà (04.06.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTI: Appalti: Modello di relazione unica finale (articolo 99) (02.06.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTI: Appalti: proposta di aggiudicazione, aggiudicazione ed efficacia. Iter e suggerimenti (01.06.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

PUBBLICO IMPIEGO: OGGETTO: Corresponsione dell'assegno per il nucleo familiare - Rivalutazione dei livelli di reddito a decorrere dal 01.07.2016 (MEF-RGS, circolare 14.06.2016 n. 19).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Chiarimenti interpretativi relativi a quesiti posti dalla stampa specializzata in occasione del convegno Il Sole 24ore per i 130anni del Catasto (Agenzia delle Entrate, circolare 13.06.2016 n. 27/E).
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INDICE
 
 1. TEMATICHE CATASTALI
1.1 Fabbricati collabenti
1.2 Fabbricati in corso di costruzione e in corso di definizione
1.3 Telefonia mobile e impianti eolici
1.4 Processi di revisione della rendita catastale ex comma 335
1.5 Rendita autonoma per gli “imbullonati”
1.6 Impianti di risalita
1.7 Accatastamento unico e unione di fatto ai fini fiscali
 
 2 CONTRATTI DI LOCAZIONE
2.1 La solidarietà nella registrazione
2.2 Nuova registrazione e ravvedimento operoso
2.3 Proroga tacita del contratto di locazione
 
  3 COMPRAVENDITE
3.1 Mancata vendita dell’immobile entro l’anno
3.2 Trasferimenti immobiliari nell’ambito delle vendite giudiziarie
3.3 Agevolazione “prima casa”
3.4 Deduzione su acquisto e locazione a canoni bassi e impresa di costruzione
3.5 Deduzione su acquisto e locazione a canoni bassi di abitazioni e tipo di contratto
 
 4 LEASING ABITATIVO
4.1 Leasing abitativo, quando va verificata l’età
4.2 Detrazione dei canoni di leasing di abitazioni e spese accessorie
 
 5 DETRAZIONI SU RISTRUTTURAZIONI, RISPARMIO ENERGETICO, BONUS MOBILI
5.1 Bonus mobili per casa comprata ristrutturata
5.2 Beni significativi

PATRIMONIO: D.M. 12.05.2016 - Prescrizioni per l'attuazione, con scadenze differenziate, delle vigenti normative in materia di prevenzione degli incendi per l'edilizia scolastica (GU n. 121 del 25.05.2016) - TABELLA DI SINTESI DELLE PRESCRIZIONI E DELLE SCADENZE (ANCI, nota 12.05.2016 n. 22/DIPES/VN/SG/mf-16 di prot.).

AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI: Circolare recante chiarimenti interpretativi relativi alla disciplina delle ordinanze contingibili ed urgenti di cui all'art. 191 del d.lgs. 03.04.2006, n. 152 (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, circolare 22.04.2016 n. 5982 di prot.).

A.N.AC. (già AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI)

APPALTITetto all'autonomia dei comuni. Possono appaltare direttamente servizi fino a 209 mila euro. I chiarimenti dell'Anticorruzione sulla disciplina transitoria del nuovo codice appalti.
Piccoli comuni ammessi ad appaltare servizi e forniture fino a 209 mila euro di importo e lavori fino a un milione senza ricorrere a centrali di committenza; procedure negoziate affidabili con le vecchie norme del Codice De Lise se conseguenti a gare andate deserte o ad avvisi esplorativi banditi prima del 20.04.2016.

Sono questi alcuni dei chiarimenti resi dall'Autorità nazionale anticorruzione sul nuovo codice dei contratti pubblici (comunicato del Presidente 08.06.2016) sotto forma di Faq pubblicate sul sito www.anticorruzione.it.
Le tredici risposte riguardano questo primo periodo di applicazione del decreto 50/2016 e hanno lo scopo di fornire indicazioni su alcuni delicati profili della fase transitoria, disciplinata dall'articolo 216 del decreto delegato.
Un particolare rilievo assume il chiarimento su come si devono comportare i comuni non capoluogo di provincia in attesa della messa a regime del sistema di qualificazione delle imprese e, in particolare, se hanno la possibilità di procedere autonomamente all'affidamenti di lavori, servizi e forniture.
L'Anac chiarisce che questi enti locali possono procedere all'acquisizione di servizi e forniture di importo inferiore a 40 mila euro e di lavori di importo inferiore a 150 mila euro direttamente e autonomamente, nonché attraverso l'effettuazione di ordini a valere su strumenti di acquisto messi a disposizione dalle centrali di committenza. L'unica condizione è che devono essere iscritti all'anagrafe unica delle stazioni appaltanti.
Per gli importi superiori ai tetti citati sarebbe necessario iscriversi al sistema di qualificazione delle stazioni appaltanti gestito dall'Anac, ma la stessa Autorità precisa che l'iscrizione al (costituendo) sistema di qualificazione «si intende sostituita dall'iscrizione all'Anagrafe unica delle stazioni appaltanti di cui all'articolo 33-ter della legge 221/2012».
Il che significa sostanzialmente che i piccoli comuni possono procedere autonomamente fino alla soglia comunitaria dei 209 mila euro per appalti di servizi e forniture e fino a un milione di lavori.
Viene data soluzione anche al tema delle modifiche contrattuali sui contratti affidati prima del 20.04.2016: si applicheranno le vecchie norme «in quanto si tratta di fattispecie relative a procedure di aggiudicazione espletate prima dell'entrata in vigore del nuovo Codice». Fermo restando il divieto generale di rinnovo tacito e di proroga del contratto, l'Autorità chiarisce che le norme del codice De Lise si applicheranno a «rinnovo del contratto o modifiche contrattuali derivanti da rinnovi già previsti nei bandi di gara; consegne, lavori e servizi complementari; ripetizione di servizi analoghi; proroghe tecniche, purché limitate al tempo strettamente necessario per l'aggiudicazione della nuova gara; varianti per le quali non sia prevista l'indizione di una nuova gara».
Per le procedure negoziate affidate dopo il 20 aprile ma a seguito di gare andate deserte (bandite prima del 20 aprile) la soluzione è la stessa: si applicano le vecchie norme quando sono state presentate offerte irregolari o inammissibili o quando vi sia stata mancanza assoluta di offerte. Questo però a condizione che «la procedura negoziata sia tempestivamente avviata», se quindi la stazione appaltante temporeggia rischia di essere censurata dall'Anac.
Il Codice del 2006 è applicabile anche per gli avvisi esplorativi pubblicati prima del 20.04.2016 a condizione che la procedura negoziata conseguente alla selezione del mercato «sia avviata entro un termine congruo dalla data di ricevimento delle manifestazioni di interesse e non siano intervenuti atti che abbiano sospeso, annullato o revocato la procedura di gara» (articolo ItaliaOggi del 17.06.2016).

LAVORI PUBBLICIProject financing, più chiarezza sui rischi ai privati. Anac. Linee guida su partenariati ed esclusione.
Più chiarezza sulla ripartizione dei rischi nei partenarati pubblico-privati (Ppp) e valutazione del curriculum professionale delle imprese come elemento per l’esclusione dalle gare.
Oltre al rating di impresa (si veda «Il Sole 24 Ore» di sabato 11 giugno) l’Anac ha pubblicato altre due bozze di Linee guida, in consultazione fino al 27 giugno, per l'attuazione del codice appalti (Dlgs 50/2016).
Circa il Ppp, la «matrice dei rischi», il documento che la letteratura sul project financing di opere pubbliche considera da anni fondamentale per la corretta allocazione dei rischi tra amministrazione e affidatario privato, entra per la prima volta in un documento ufficiale attuativo delle norme sugli appalti.
Finora era presente solo in modo volontario nei contratti di concessione e Ppp, mentre ora (scrive l'Anac) «deve essere allegata al contratto». In sostanza si tratta di una tabella che evidenzia tutti gli specifici rischi legati all'esecuzione del contratto, raggruppabili a grandi linee in «rischi di costruzione», «di domanda» e «di disponibilità» (più altri specifici), indicando la probabilità del verificarsi dell'evento, la possibilità o meno di mitigare tale rischio, i costi o ritardi che il verificarsi di tale rischio comporterebbe, e soprattutto a chi deve essere allocato tale rischio, la Pa o l'affidatario privato, o «in gestione condivisa».
Circa il monitoraggio dell'effettivo trasferimento del rischio al privato (per tutta la durata del contratto), l’Anac ritiene che gli strumenti chiave debbano essere: 1) la matrice dei rischi; 2) il flusso informativo costante dal privato alla Pa sull’esecuzione preferibilmente tramite piattaforma informatica comune; 3) un periodico resoconto economico-gestionale per il tramite del Rup.
Con le linee guida dedicate alle cause di esclusione dalle gare l’Anac prova a circoscrivere i comportamenti delle imprese che possono compromettere il rapporto di fiducia con la stazione appaltante e portare al cartellino rosso. Si tratta dei «gravi illeciti professionali» come le carenze di esecuzione di un precedente appalto o l'omissione di informazioni necessarie al corretto svolgimento della procedura di gara. Tocca all’Anac fornire una bussola capace di uniformare i comportamenti delle amministrazioni, evitando che applicazioni del tutto discrezionali di questa norma finiscano per nuocere alle imprese dando nuova stura ai ricorsi .
Tra le indicazioni spicca quella che autorizza l’esclusione da gare bandite anche da amministrazioni diverse da quelle con cui sono sorti problemi. Purché la decisione della stazione appaltante sia adeguatamente motivata, in contraddittorio con l'impresa e riguardi fatti che accaduti entro un limite temporale stabilito in un limite massimo di cinque anni per i reati e di tre anni per gli illeciti professionali
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIIl rating d'impresa ineludibile. Valutazione obbligatoria per partecipare alle gare d'appalto. L'Anac vuole rendere più trasparenti le aggiudicazioni. La legalità contribuisce al punteggio.
Rating di impresa obbligatorio per qualificarsi alle gare di appalto di contratti pubblici; rating di legalità considerato elemento premiale, così come l'assenza di iscrizione di riserve; penalizzate le imprese soccombenti e condannate alle spese per lite temeraria o per inammissibilità del ricorso; valutata positivamente la regolarità contributiva e il pagamento entro 30 giorni dei subappaltatori; attenzione anche al patrimonio netto e al rapporto costo del personale/fatturato.

Sono questi alcuni degli elementi sui quali l'Anac sta impostando le linee guida sul rating di impresa, di cui venerdì è stato pubblicato il documento di consultazione (osservazioni sul sito Anac entro il 27 giugno), insieme ad altri due sull'esclusione per grave illecito professionale e sul monitoraggio sulla permanenza, in capo all'operatore economico di un PPP, del cosiddetto rischio di domanda.
Nel documento di consultazione viene formulata una proposta, attuativa dell'articolo 83, comma 10, del decreto 50/2016, che parte dal principio che il rating di impresa, necessario per la qualificazione agli appalti di lavori, deve valere anche per gli appalti di forniture e di servizi e anche per le imprese straniere che partecipano ad appalti in Italia. L'Anac parte dalla scelta di attribuire un unico punteggio finale «che sintetizzi in un dato numerico tutte le informazioni che lo compongono», attraverso il metodo della «somma ponderata».
Saranno presi in considerazione, nell'ipotesi formulata da Anac, sia elementi positivi, sia elementi negativi con un evidente spinta all'adozione di modelli di prevenzione degli illeciti (es. legge 231/2001). Fondamentali, nell'attribuzione dei punteggi, i requisiti reputazionali sul comportamento dell'impresa che l'Anac precisa, opportunamente, che non dovranno essere influenzati da valutazioni discrezionali delle stazioni appaltanti.
Conteranno quindi gli indici espressivi della capacità strutturale dell'impresa, diversi da quelli utilizzati nella qualificazione, ma che hanno un riflesso sulla performance e affidabilità, esempio il patrimonio netto e il rapporto fra costo del personale e fatturato. Altro elemento sarà il rispetto dei tempi e dei costi previsti per l'esecuzione, con una premialità per la consegna senza iscrizione di riserve.
Verrà valutata anche l'incidenza del contenzioso sia in sede di partecipazione alle gare sia di esecuzione dei contratti. In questi casi si penalizzerà chi è stato condannato per lite temeraria e per inammissibilità del ricorso per carenza di legittimazione attiva, mentre non si considereranno le soccombenze in caso di precontenzioso vincolante presso l'Anac.
Il rating di legalità (opzionale per le imprese con fatturati oltre 2 milioni), rilevato dall'Anac in collaborazione con l'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, sarà elemento premiale ai fini dell'attribuzione del rating di impresa. La regolarità contributiva, compresi i versamenti alle casse edili, valutata con riferimento ai tre anni precedenti, varrà come elemento premiale; invece l'irregolarità, anche se non definitivamente accertata, rileverà come penalità. Un'attenzione particolare anche alle misure sanzionatorie amministrative per i casi di omessa o tardiva denuncia obbligatoria delle richieste estorsive e corruttive da parte delle imprese titolari di contratti pubblici, comprese le imprese subappaltatrici e le imprese fornitrici di materiali, opere e servizi.
L'Anac ipotizza anche che il rating di impresa possa essere utilizzato «come criterio di preferenza» per la scelta degli offerenti nelle procedure ristrette, nel dialogo competitivo e nel partenariato per l'innovazione (e quando si limita il numero dei candidati invitati a presentare offerta, cosiddetta forcella). Per l'Autorità, inoltre, potrebbe essere valutato positivamente il fatto che l'impresa paghi entro 30 giorni i subappaltatori (articolo ItaliaOggi del 14.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIGare, verifica ad ampio raggio per le cause di esclusione. Appalti. Le indicazioni Anac su illeciti professionali e rating.
La valutazione dei gravi illeciti professionali incidenti sull’integrità e sull’affidabilità dell’operatore economico deve essere svolta a spettro ampio, considerando non solo le risoluzioni di contratti, ma anche le condanne definitive per una serie di reati che riguardano l’attività professionale.
L’Autorità nazionale anticorruzione ha posto in consultazione (con osservazioni da presentare entro il 27 giugno; si veda anche Il Sole 24 Ore di sabato) un secondo gruppo di linee-guida attuative del nuovo Codice appalti, per disciplinare l’analisi dei gravi illeciti professionali commessi dagli operatori economici nella verifica dei motivi di esclusione, il rating delle imprese partecipanti agli appalti pubblici e il monitoraggio degli interventi realizzati con il partenariato pubblico-privato.
Il documento che analizza le modalità con cui devono essere gestiti i requisiti di ordine generale previsti dall’articolo 80, comma 5, lettera c), del Dlgs 50/2016 evidenziano che tra i gravi illeciti professionali rientrano le condanne definitive per esercizio abusivo della professione, delitti di falso, reati fallimentari, societari e tributari. Nel complesso degli elementi indicativi di comportamenti scorretti rientrano anche i provvedimenti dell’Antitrust e quelli sanzionatori della stessa Anac.
Per la verifica delle risoluzioni contrattuali, la stazione appaltante può accedere al casellario informatico dell’Anac o chiedere alle amministrazioni che hanno risolto il contratto con l’operatore economico.
Sul motivo di esclusione determinato da tentativi del concorrente di influenzare il processo decisionale dell’amministrazione o di ottenere dati riservati, le linee-guida evidenziano la necessità di una denuncia all’autorità giudiziaria. Analogo percorso va rapportato alle false dichiarazioni o alla presentazione di falsi documenti fuorvianti le decisioni dell’amministrazione, rese in sede di sviluppo della gara.
Il documento posto in consultazione è utile per le stazioni appaltanti come primo riferimento per l’applicazione della norma contenuta nell’articolo 80 in questa prima fase di applicazione del Codice.
L’Anac prefigura anche le basi per il futuro sistema di rating per le imprese partecipanti alle gare di appalto, ma sottopone alla consultazione un documento che sollecita un’analisi a spettro ampio sul metodo per calcolare il rating, sugli indici reputazionali da valutare (per evitare che siano utilizzati più volte nella gara con finalità diverse) e sulla ponderazione di questi elementi.
Il sistema di rating è peraltro destinato a una fase di sperimentazione, che dovrà consentire di comprendere anche come calibrare al meglio le metodologie per attribuire premi e penalità agli operatori.
Infine l’Anac propone in consultazione le linee-guida per il monitoraggio sugli interventi realizzati mediante partenariato pubblico-privato, focalizzando l’attenzione sull’analisi che le stazioni appaltanti devono svolgere sulla permanenza in capo all’operatore economico dei rischi allo stesso trasferiti (come il rischio di domanda e il rischio di disponibilità).
Gli strumenti principali per il monitoraggio sono individuati in un articolato sistema a matrice e nella definizione di clausole contrattuali molto strutturate, nonché nella dettagliata regolazione delle circostanze e delle modalità di revisione del piano economico-finanziario
(articolo Il Sole 24 Ore del 13.06.2016).

APPALTIIn gara premiate le imprese puntuali e poco litigiose. Anac. Le linee guida per il rating.
Arriva il rating di impresa per gli appalti pubblici. L’Autorità anticorruzione ha appena pubblicato il secondo pacchetto di linee guida di attuazione del Dlgs 50 del 2016, da sottoporre alla consultazione degli operatori fino al 27 giugno. E, tra questi tre documenti, compaiono anche le prime indicazioni su uno dei tasselli più attesi del nuovo sistema: il rating di impresa.
Sarà utilizzato in fase di accesso alle gare, per integrare la normale qualificazione, e si tradurrà nell’assegnazione di un punteggio che potrà arrivare al massimo a quota cento. Questo numero sarà la somma ponderata di alcune valutazioni sui requisiti reputazionali dell’impresa: capacità professionale, rispetto dei tempi, incidenza del contenzioso, regolarità contributiva, sanzioni per omessa denuncia di tentativi di corruzione. In questo modo sarà possibile escludere le imprese che non sono in salute o che risultano in odore di corruzione. Non si partirà, però, da subito. Ci sarà prima una fase sperimentale, in collaborazione con le Soa, per limare le criticità.
La prima questione affrontata dall’Anac riguarda l’algoritmo di calcolo, ovvero il sistema di punteggi nel quale far confluire il rating. L’Authority sceglie la soluzione di un unico punteggio finale che sintetizzi in un dato numerico tutte le informazioni che lo compongono e, più nello specifico, il meccanismo della «somma ponderata» dei vari elementi. Ogni impresa viene sottoposta obbligatoriamente a una valutazione e ottiene un punteggio pari a un massimo di cento. Nel corso del tempo, poi, questo rating sarà aggiornato e potrà crescere o diminuire, in considerazione di una serie di elementi.
Proprio questi requisiti reputazionali sono oggetto dell’analisi dell’Authority. La premessa è che bisogna evitare intrecci e duplicazioni con altri capitoli del Codice dove ci sono previsioni simili, come la sezione dedicata alle cause di esclusione. L’Anac, in dettaglio, valuterà la capacità strutturale (tramite indicatori da individuare), il rispetto dei tempi e dei costi (si guarderà ai comportamenti in fase di esecuzione), l’incidenza del contenzioso (sarà considerato solo il contenzioso con esito negativo), la presenza del rating di legalità dell’Antitrust, la regolarità contributiva, le sanzioni per omessa denuncia di richieste estorsive.
Accanto a questi, saranno valutati tutti i comportamenti tenuti in sede di esecuzione, potenzialmente idonei a configurare una causa di esclusione dall’appalto. Per ognuno di questi elementi, in una seconda fase, sarà determinato il peso all’interno del rating complessivo. Ad ogni indice, poi, sarà attribuita una valenza temporale: i comportamenti che incidono per più di due anni avranno un peso maggiore. Tramite condotte virtuose, sarà possibile recuperare punti.
Il rating avrà un effetto premiante in sede di accesso alla gara. Nel caso di una procedura a inviti, invece, potrà servire come criterio di preferenza nella scelta dei soggetti da invitare. Il sistema, comunque, andrà oliato prima di diventare operativo. Sarà necessario un periodo per allineare la raccolta di dati che sono già nella disponibilità dell’Anac alle esigenze del rating e per testare l’impatto sul mercato. «Per tali ragioni -spiega l’Autorità- è ipotizzabile avviare un periodo sperimentale», in stretta collaborazione con le Soa
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.06.2016).

LAVORI PUBBLICI: Sanzioni per falso ancora applicabili. L'Anac sulle attestazioni Soa.
Ancora applicabili le sanzioni per falsa dichiarazione o falsa documentazione ai fini dell'attestazione Soa delle imprese di costruzioni. Le Soa devono sempre comunicare se hanno riscontrato fattispecie sanzionabili ai fini dell'irrogazione delle sanzioni.

Lo precisa l'Autorità nazionale anticorruzione nel comunicato del Presidente 31.05.2016 pubblicato sul sito il primo giugno.
Con il vecchio codice, le Soa (società organismi di attestazione) accertavano la sussistenza oggettiva della falsa dichiarazione o falsa documentazione, dichiaravano la decadenza dell'attestazione, segnalando il fatto all'Anac che procedeva all'iscrizione nel casellario informatico ai fini dell'esclusione dalle gare.
Il problema è che questa procedura non compare più nel nuovo codice perché si rinvia a linee guida Anac che dovranno uscire entro un anno, fermo restando che all'Anac spetta il compito di vigilare sul sistema. Il comunicato siglato da Raffaele Cantone, anche per garantire continuità con il precedente sistema, chiarisce che «nelle more dell'adozione delle citate linee guida e della necessaria conseguente revisione del Regolamento che disciplina l'esercizio del potere sanzionatorio, l'Autorità ritiene ancora applicabile, per i fatti commessi prima dell'entrata in vigore del nuovo Codice, la disciplina dell'art. 40, comma 9-quater, dlgs 163/2006, in ragione dell'applicazione alle sanzioni amministrative de quibus del principio di legalità e di ultrattività, di cui all'art. 1 della legge 689/1981
».
Per quanto concerne, invece, eventuali illeciti commessi durante il «regime transitorio» permane l'obbligo delle Soa di avviare i procedimenti di verifica della documentazione e delle dichiarazioni esibite dall'impresa e di comunicare all'Autorità l'avvio e gli esiti dei procedimenti. Applicabili anche le sanzioni del vecchio codice (articolo ItaliaOggi del 04.06.2016).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALIIl limite di spesa previsto dall’art. 9, comma 28, del decreto-legge 31.05.2010, n. 78, non trova applicazione nei casi in cui l’utilizzo di personale a tempo pieno di altro Ente locale, previsto dall’art. 1, comma 557, della legge 30.12.2004, n. 311, avvenga entro i limiti dell’ordinario orario di lavoro settimanale, senza oneri aggiuntivi, e nel rispetto dei vincoli posti dall’art. 1, commi 557 e 562, della legge 27.12.2006, n. 296.
La minore spesa dell’ente titolare del rapporto di lavoro a tempo pieno non può generare spazi da impiegare per spese aggiuntive di personale o nuove assunzioni.

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Questione di massima in merito alla applicabilità dei limiti di spesa di cui all’art. 9, comma 28, del d.l. n. 78/2010, nel caso in cui gli Enti utilizzano, ai sensi dell’art. 1, comma 557, della legge n. 311/2004, l’attività lavorativa di dipendenti a tempo pieno di altre Amministrazioni locali entro i limiti dell’ordinario orario di lavoro settimanale, sostituendosi, in tutto o in parte, all’Ente titolare del rapporto di lavoro sul piano economico, organizzativo e funzionale.
...
La Sezione delle autonomie della Corte dei conti, pronunciandosi sulla questione di massima posta dalla Sezione regionale di controllo per la Regione Piemonte con la deliberazione n. 33/2016/SRCPIE/QMIG, enuncia il seguente principio di diritto: “
Il limite di spesa previsto dall’art. 9, comma 28, del decreto-legge 31.05.2010, n. 78, convertito dalla legge 30.07.2010, n. 122, non trova applicazione nei casi in cui l’utilizzo di personale a tempo pieno di altro Ente locale, previsto dall’art. 1, comma 557, della legge 30.12.2004, n. 311, avvenga entro i limiti dell’ordinario orario di lavoro settimanale, senza oneri aggiuntivi, e nel rispetto dei vincoli posti dall’art. 1, commi 557 e 562, della legge 27.12.2006, n. 296. La minore spesa dell’ente titolare del rapporto di lavoro a tempo pieno non può generare spazi da impiegare per spese aggiuntive di personale o nuove assunzioni” (Corte dei Conti, Sez. Autonomie, deliberazione 20.06.2016 n. 23).

TRIBUTI: Tributi locali, condono a tempo.
La definizione agevolata delle violazioni tributarie è un evento eccezionale e ha un ambito temporale sempre limitato. I comuni, dunque, non possono istituire con regolamento il condono dei tributi locali a loro scelta per un tempo indefinito. La sanatoria prevista dalla legge 289/2002, infatti, non era proiettata nel futuro, ma riguardava solo le violazioni commesse negli anni antecedenti alla sua entrata in vigore.

Lo ha chiarito la Corte dei conti, sezione regionale di controllo per la Campania, con il parere 20.05.2016 n. 143.
Nel caso in esame, il comune di Ottaviano ha chiesto alla sezione regionale di controllo della Corte dei conti se fosse possibile prevedere con regolamento la definizione agevolata delle violazioni tributarie commesse dai contribuenti fino al 2014, escludendo le sanzioni e gli interessi. Per i giudici contabili, non si possono introdurre fattispecie di condono per un periodo indefinito, ancorché la legge non fissi espressamente l'ambito di operatività della sanatoria.
L'articolo 13 della legge 289/2002 «deve essere oggetto di stretta interpretazione considerato che l'istituzione di meccanismi di «definizione agevolata» relativamente ad obblighi rimasti totalmente o parzialmente inadempiuti da parte di contribuenti ha (o dovrebbe avere) indubbiamente natura di evento eccezionale nell'ambito dell'ordinamento giuridico».
Pertanto, il 31.12.2002 rappresenta «un limite temporale invalicabile» per la regolarizzazione di errori e omissioni. Al riguardo il Tar Sicilia, prima sezione, con la sentenza 1765/2014, ha affermato che è illegittimo per eccesso di potere il regolamento comunale che ha istituito il condono delle violazioni commesse dai contribuenti in materia di tassa rifiuti a distanza di sette anni dall'entrata in vigore della legge che ha dato ai comuni questa facoltà.
Anche per il Tar il condono dei tributi locali poteva essere deliberato solo per gli obblighi «precedentemente non adempiuti» alla data di entrata in vigore della legge stessa, limitatamente ai periodi d'imposta antecedenti il 2003. Del resto l'esercizio di un potere in materia tributaria da parte dell'ente locale, una volta spirato il termine previsto dalla legge statale autorizzativa, «comporta la carenza del potere medesimo».
Con quest'ultimo parere i giudici contabili si sono allineati alla tesi della Cassazione che ha già preso posizione sulla questione, dichiarando illegittima la delibera del comune di Roma che aveva istituito il condono delle liti pendenti instaurate dopo l'entrata in vigore della Finanziaria 2003. La sezione tributaria della Corte di cassazione, con le sentenze 12675 e 12679/2012, ha precisato che la sanatoria era ammessa solo per gli obblighi non adempiuti dal contribuente fino al 2002 e per i procedimenti contenziosi già pendenti.
I comuni, quindi, non hanno il potere di deliberare la sanatoria a distanza di anni da quando il legislatore gli ha riconosciuto questa facoltà. Nonostante l'articolo 13 della legge 289/2002 non ponesse alcun limite temporale e non ne condizionasse l'efficacia alle violazioni commesse e alle controversie instaurate fino all'entrata in vigore della norma.
La Finanziaria 2003 ha attribuito agli enti locali il potere di disciplinare con regolamento la riduzione dell'ammontare delle imposte e tasse loro dovute, escludendo o riducendo gli interessi e le sanzioni a carico del contribuente. L'unico obbligo imposto espressamente ex lege, nel rispetto dello Statuto del contribuente (legge 212/2000), riguardava il termine minimo che doveva intercorrere tra l'entrata in vigore del regolamento e gli adempimenti posti a carico del contribuente.
Era poi lasciata agli enti la scelta di fissare autonomamente il termine entro il quale fosse possibile regolarizzare le violazioni commesse, purché non inferiore a 60 giorni dalla data di pubblicazione dell'atto regolamentare (articolo ItaliaOggi del 09.06.2016).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIntegrativi, niente sanatoria sulle applicazioni «errate». Corte conti. Danno erariale per l’indennità a chi lavora di mattina.
Se la turnazione dei vigili è irregolare, scatta il danno all’erario e non interviene la sanatoria prevista dall’articolo 4, comma 3, del Dl 16/2014.
La Corte dei conti, Sez. giurisdizionale Marche, con la sentenza 19.05.2016 n. 25, lo ha affermato in modo molto chiaro.
Il fatto contestato riguarda l’erogazione dell’indennità di turno in favore di un vigile urbano a fronte di una prestazione lavorativa che in realtà non risultava articolata effettivamente su turni, essendo stato il servizio svolto quasi sempre di mattina.
Dalle programmazioni settimanali risulta, infatti, la prevalenza di settimane in cui il dipendente ha svolto la prestazione lavorativa per un solo pomeriggio su sei giorni di lavoro; in numero inferiore risultano le settimane ove la programmazione ha previsto due pomeriggi, mentre per qualche settimana la prestazione è stata programmata nella sola fascia oraria antimeridiana.
L’articolo 22, comma 2, del contratto nazionale del 14.09.2000 prevede che «le prestazioni lavorative svolte in turnazione, ai fini della corresponsione della relativa indennità, devono essere distribuite nell’arco del mese in modo tale da far risultare una distribuzione equilibrata e avvicendata dei turni effettuati in orario antimeridiano, pomeridiano e, se previsto, notturno, in relazione alla articolazione adottata nell’ente».
Per l’Aran (orientamento applicativo Ral 748/2011), le Pa possono riconoscere l’indennità, a patto che, per ciascuno dei turni antimeridiano, pomeridiano ed eventualmente notturno, stabiliti dall’articolazione dell’ente («distribuzione avvicendata»), il dipendente ne abbia prestato un numero in orario antimeridiano sostanzialmente equivalente a quelli in orario pomeridiano («distribuzione equilibrata»); questo salvo una differenza di una o due unità (oscillazione del 10%).
La Corte ha accolto la tesi della Procura, eccetto che per un convenuto, ritenuto non responsabile per l’irrilevanza del suo apporto decisionale, condannando, per le rispettive condotte alla base del danno, il comandante e il vicecomandante, che per inciso era anche il percettore del compenso indebito.
Importanti sono le motivazioni. Per la Corte, lo svolgimento, da parte di un vigile urbano, di un servizio articolato in turni non distribuiti in modo equilibrato fra mattina, pomeriggio ed eventualmente notte, non dà diritto all’indennità prevista dall’articolo 22 del contratto nazionale del 14.09.2000. In altre parole, se si lavora prevalentemente solo di mattina o di pomeriggio, non si può percepire l’indennità di turno, che invece spetta solo se la prestazione è distribuita in modo equilibrato fra le diverse fasce orarie. In caso contrario, il compenso accessorio è illegittimo e fonte di danno all’erario.
Ancor più importante, però, è la risposta alla questione pregiudiziale relativa alla portata dell’articolo 4, comma del Dl 16/2014, in cui è prevista la non applicazione dell’articolo 40, comma 3-quinquies, quinto periodo del Dlgs 165/2001 (nullità delle clausole dei contratti collettivi integrativi in caso di violazione dei vincoli e dei limiti di competenza imposti dalla contrattazione nazionale o dalle norme di legge), agli atti di costituzione e di utilizzo dei fondi, comunque costituiti, per la contrattazione decentrata adottati prima dei termini di attuazione della riforma Brunetta, a patto che non abbiano comportato il riconoscimento giudiziale della responsabilità erariale, se adottati dalle regioni e dagli enti locali che hanno rispettato i vincoli di finanza pubblica.
Per la Corte, l’articolo 4, comma 3, non si applica al caso di specie, poiché la “sanatoria” si riferisce solo all’ipotesi in cui la contrattazione integrativa non abbia rispettato i vincoli derivanti dalla legge e dai contratti nazionali. Al contrario, nel giudizio, non viene contestata l’illegittimità della contrattazione integrativa rispetto ai vincoli anche finanziari ad essa imposti, ma viene valutata una condotta specifica dei convenuti (erogazione/percezione dell’indennità di turno in assenza di turni pomeridiani-notturni) con cui si è violato e non si è dato adempimento al contratto integrativo in vigore nel Comune, conforme, sul punto, all’articolo 22 del contratto nazionale del 14.09.2000.
In altre parole, la “sanatoria” scatta solo se gli atti di costituzione dei fondi o le clausole contrattuali non rispettano la disciplina di livello nazionale. È precluso ogni suo effetto, invece, nei casi di applicazione “sbagliata” di decentrati in regola
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.06.2016).

SEGRETARI COMUNALI: Giudici in ordine sparso sui diritti di rogito.
Quella dei diritti di rogito dei segretari comunali sembra ormai una stucchevole partita di tennis.

L'ultimo colpo è stato quello della Corte dei conti Liguria, che nel parere 12.05.2016 n. 49 ha ribadito la tesi della magistratura contabile, in base alla quale l'emolumento spetta solo agli appartenenti alla categoria C (con esclusione quindi di quelli equiparati ai dirigenti), mentre va riconosciuto in ogni caso ai vicesegretari, anche quando il titolare appartiene alle fasce A e B.
La stessa lettura era stata fornita qualche settimana fa dalla sezione Marche (parere n. 90/2016), in aderenza con i principi di diritto espressi dalla sezione autonomie (deliberazione n. 21/2015). Ma dall'altra parte del campo si sono schierati la Corte costituzionale e, da ultimo, il Tribunale lavoro di Milano, secondo i quali i diritti di rogito competono a tutti i segretari che operano negli enti privi di personale con qualifica dirigenziale, a prescindere dalla fascia professionale in cui è inquadrato il segretario. Mentre la Consulta si è espressa in una sentenza di rigetto (la n. 75/2016), che tipicamente ha effetto solo inter partes, i giudici meneghini hanno assunto una posizione tranchant.
Ancor più rigida la Ragioneria generale dello Stato, che nel parere n. 26297/2016 non solo ha confermato il niet per i segretari di fascia A e B, ma ha sostenuto che, in tali casi, i soldi non spettano neppure ai vice (articolo ItaliaOggi dell'01.06.2016).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Consiglieri, accesso a 360°. Il comune non può sindacare le richieste. L'ente non può porre a carico degli istanti un obbligo di motivazione.
In materia di diritto di accesso dei consiglieri comunali, ai sensi dell' art. 43 del dlgs n. 267/2000, possono considerarsi legittime le norme regolamentari che impongono al consigliere comunale di motivare la propria richiesta di accesso agli atti; ovvero che affidano al sindaco il potere di verificare che l'informazione richiesta attenga al mandato del consigliere; oppure che limitano il diritto di visione degli atti quando ciò si traduca in «un potere di inchiesta, di ispezione o di verifica»?

Il «diritto di accesso» e il «diritto di informazione» dei consiglieri comunali in ordine agli atti in possesso dell'amministrazione comunale, utili all'espletamento del proprio mandato, trovano la loro disciplina specifica nel citato art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000, che si differenzia rispetto al pur ampio diritto di accesso riconosciuto al cittadino dall'articolo 10 del medesimo decreto legislativo.
Il termine «utili», contenuto nella citata disposizione del Tuel, garantisce, infatti, l'estensione di tale diritto di accesso a qualsiasi atto ravvisato utile per l'esercizio del mandato (cfr. Cds n. 6963/2010) senza che alcuna limitazione possa derivare dall'eventuale natura riservata delle informazioni richieste.
Anche la Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, con parere reso in data 09.04.2014, ha specificato che l'accesso del consigliere non può essere soggetto ad alcun onere motivazionale, giacché diversamente opinando sarebbe introdotta una sorta di controllo dell'ente, attraverso i propri uffici, sull'esercizio del mandato del consigliere comunale.
Tale commissione, infatti, considerato che il consigliere è comunque vincolato al segreto d'ufficio, ha ritenuto che gli unici limiti all'esercizio del diritto di accesso dei consiglieri comunali si rinvengono, per un verso, nel fatto che esso non deve sostanziarsi in richieste assolutamente generiche, ovvero meramente emulative (fermo restando che la sussistenza di tali caratteri necessita di attento e approfondito vaglio, al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazioni al diritto stesso), nonché, per altro verso, nel fatto che esso debba avvenire in modo da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali.
Conseguentemente, gli uffici comunali e il sindaco non hanno il potere di sindacare il nesso intercorrente tra l'oggetto delle richieste di informazioni avanzate da un consigliere comunale e le modalità di esercizio del munus da questi espletato.
Ciò, anche nel rispetto della separazione dei poteri (art. 4 e art. 14 del decreto legislativo n. 165/2001) sancita per gli enti locali dall'art. 107 del decreto legislativo n. 267/2000 che richiama il principio per cui i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano agli organi di governo, essendo riservata ai dirigenti la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica.
Peraltro, ai sensi dell'art. 42, comma 1, del Tuel il consiglio è l'organo di indirizzo e «di controllo politico-amministrativo»; sicché, il controllo del sindaco sull'operato anche dei singoli consiglieri si porrebbe in contrasto alla predetta normativa.
Nel caso di specie si rende, pertanto, opportuna la revisione delle disposizioni che impongono l'obbligo motivazionale a carico dei consiglieri richiedenti l'accesso e che affidano al sindaco il potere di verifica. Tuttavia l'ente, attraverso l'esercizio della propria potestà regolamentare, può optare, tra le varie opzioni possibili, per la disciplina che, in concreto, meglio contemperi esigenze concorrenti.
In particolare, quelle di garanzia delle condizioni più adeguate all'espletamento del mandato da parte dei consiglieri comunali e quelle di salvaguardia della funzionalità degli uffici e del normale espletamento del servizio da parte del personale dipendente, nonché quella di tutela della sicurezza degli uffici, del personale e del patrimonio (articolo ItaliaOggi del 17.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Personale distaccato. Compenso incentivante.
Nell'ipotesi di comando/distacco di personale da ente pubblico a cooperativa cui è stata appaltata la gestione corrente, non pare sussistano i presupposti per corrispondere compensi incentivanti, in quanto all'uopo è necessaria un'attività di pianificazione e programmazione, da realizzare annualmente, a seguito della quale i dipendenti siano coinvolti in attività e concrete azioni di miglioramento, da valutare a posteriori in relazione al grado di raggiungimento dell'obiettivo programmato.
L'Ente ha chiesto un parere in ordine ad alcune problematiche connesse alla possibilità di corrispondere il compenso incentivante a personale 'distaccato' (due dipendenti) presso una cooperativa, cui nel corso del 2015 è stata appaltata la gestione corrente. Si precisa che i dipendenti interessati non hanno più un rapporto di servizio diretto con l'Ente e, quindi, si è posta la questione relativa alla possibilità di riscontrare, nei loro confronti, una qualsivoglia forma remunerativa collegata alla realizzazione di progetti obiettivo o premi legati alla produttività collettiva.
Preliminarmente si osserva che, nel caso prospettato, si è applicato l'istituto del comando/distacco da ente pubblico a soggetto privato, fattispecie non esclusa in considerazione dell'intervenuta privatizzazione del pubblico impiego e della conseguente riconducibilità di siffatta determinazione nell'ambito del potere direttivo del privato datore di lavoro
[1].
Premesso un tanto, è importante evidenziare che, agendo l'Azienda distaccante alla stregua di privato datore di lavoro, la definizione delle condizioni e modalità di utilizzo del personale distaccato/comandato, ed altresì degli oneri economici ad esso relativi, può essere stabilita tramite accordo tra le parti.
Particolare rilevanza assume, infatti, la volontà di inserire eventualmente specifiche clausole contrattuali volte a definire in dettaglio lo svolgimento di attività lavorative che comportino l'erogazione di indennità o compensi disciplinati nella contrattazione collettiva di pertinenza.
Tali determinazioni, riferite agli istituti applicabili e riconoscibili ai dipendenti distaccati/comandati, potrebbero comportare conseguentemente risvolti concreti anche sulla determinazione del fondo risorse decentrate dell'Ente di appartenenza, deputato alla corresponsione del trattamento accessorio.
Si osserva che l'istituto del comando/distacco è comunque caratterizzato da una situazione di temporaneità e che la prestazione lavorativa è resa, per un determinato periodo, non in favore del proprio datore di lavoro, ma in favore del soggetto utilizzatore.
Il datore di lavoro distaccante rimane responsabile, per tutta la durata del distacco, del trattamento economico e giuridico del lavoratore ed è pertanto fondamentale che le parti stabiliscano di comune accordo le modalità di rimborso dei costi relativi al trattamento economico dei lavoratori, sia di quello fondamentale che di eventuali ulteriori voci correlate a particolari prestazioni rese dai dipendenti.
Per quanto concerne, nello specifico, la corresponsione del compenso incentivante, la giurisprudenza amministrativa ha sottolineato che la produttività può essere erogata ad ogni buon conto soltanto nel caso in cui il responsabile dell'ente (distaccante) abbia approvato, preventivamente, l'azione di miglioramento e, a consuntivo, ne abbia accertato la concreta realizzazione
[2].
Pertanto, la disciplina relativa ai compensi incentivanti, secondo quanto previsto dai contratti collettivi di comparto, condiziona la corresponsione del premio relativo al raggiungimento dell'obiettivo programmato, tenuto conto di parametri oggettivi, quali il tempo e il livello di professionalità, oltre alla capacità di iniziativa e all'impiego partecipativo alla realizzazione del progetto obiettivo.
In linea generale, necessita un'attività di pianificazione e programmazione, da realizzare annualmente, a seguito della quale i dipendenti siano coinvolti in attività e concrete azioni di miglioramento, che siano state ideate, pianificate e approvate.
La Corte dei conti ha inoltre rimarcato come la disciplina contrattuale esistente sia rivolta a differenziare le posizioni e le valutazioni dei singoli dipendenti, al fine di incentivare una più efficiente utilizzazione delle risorse lavorative e di superare il fenomeno negativo delle retribuzioni incentivanti distribuite 'a pioggia'
[3].
In conclusione, sulla scorta delle indicazioni fornite dall'Amministrazione istante e in assenza di ulteriori elementi, alla luce delle considerazioni sopra esposte, non pare sussistano i presupposti richiesti per una corretta erogazione del premio incentivante, nella peculiare realtà illustrata.
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[1] Cfr. art. 2104 del c.c e art. 5 del d.lgs. 165/2001.
[2] Cfr. Cons. di Stato, sez. V, n. 8949 del 16.12.2010.
[3] Cfr. Corte dei conti, sez. reg. di controllo per la Liguria, deliberazione n. 4/2015
(16.06.2016 -
link a www.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Referendum, norme certe. Non basta lo statuto. Serve il regolamento. Deve essere la fonte regolamentare a prevedere le fasi della consultazione.
Affinché sia ammissibile una richiesta di consultazione referendaria comunale, la disciplina regolamentare di dettaglio, se specificamente prevista dallo statuto comunale, deve considerarsi presupposto imprescindibile per l'attivazione della consultazione stessa?
L'eventuale approvazione del regolamento da parte del consiglio comunale, con la previsione di norme transitorie per lo svolgimento del referendum, ferma restando la verifica dell'ammissibilità del quesito da demandare all'esame di un organismo che sostituisca l'abrogato difensore civico, potrebbe sanare l'eventuale mancanza?

Il nostro ordinamento presta una particolare attenzione alla partecipazione diretta del cittadino nella vita delle istituzioni locali. Giova ricordare, in proposito, che l'Italia ha fatto propri i principi della Carta europea dell'autonomia locale a cui ha aderito sottoscrivendo la relativa convenzione, poi ratificata con la legge 30.12.1989, n. 439. Gli istituti di partecipazione e gli organismi consultivi del cittadino trovano una loro concretizzazione nel Tuel n. 267/2000 e, indipendentemente dalla dimensione demografica dell'ente, fanno parte del contenuto necessario e non meramente facoltativo dello statuto.
Un rinvio allo statuto è previsto dal comma 3 dell'art. 8 del citato decreto legislativo n. 267/2000 in merito alla previsione di forme di consultazione della popolazione, nonché alle procedure per l'ammissione di istanze, petizioni e proposte di cittadini singoli o associati dirette a promuovere interventi per la migliore tutela di interessi collettivi con la determinazione delle garanzie per il loro tempestivo esame.
La norma dispone che «possono» essere, altresì, previsti referendum anche su richiesta di un adeguato numero di cittadini, che (comma 4) devono comunque riguardare materie di esclusiva competenza locale.
Fermo restando l'obbligo di previsione degli istituti di partecipazione, il referendum, si configura, dunque, quale elemento meramente eventuale e facoltativo dello statuto comunale che una volta previsto deve, però, essere compiutamente disciplinato dal regolamento.
Nel caso di specie, lo statuto comunale rimanda ad apposito regolamento comunale la disciplina delle modalità operative del referendum, fornendo peraltro una serie di indicazioni di dettaglio che dovrebbero essere recepite dal medesimo regolamento.
Il regolamento, conformemente al parere del Consiglio di stato, sez. I, 08.07.1998, n. 464, reso, su richiesta dell'amministrazione dell'interno, in relazione ad una fattispecie analoga e il cui orientamento è stato successivamente confermato dallo stesso Consiglio di stato, sez. IV, con la sentenza n. 3769/2008, si prospetta, infatti, in funzione complementare ed integrativa rispetto alle previsioni statutarie, tanto da rendere inapplicabile l'istituto del referendum consultivo in mancanza dello stesso.
La giurisprudenza amministrativa formatasi in materia ritiene, infatti, che debba essere la fonte regolamentare a «prevedere le varie fasi nelle quali si articola la consultazione, dall'iniziativa sino alla proclamazione dei risultati» inclusi i sistemi con cui sindacare l'ammissibilità della consultazione.
Del resto, i cittadini interessati all'approvazione del regolamento potranno sensibilizzare l'ente affinché proceda in tal senso, atteso che le previsioni dello statuto, non consentono alcun margine discrezionale da parte dell'amministrazione.
Ferma restando l'ammissibilità dell'adozione di un regolamento attuativo per consentire, con specifiche norme transitorie, anche il regolare espletamento della procedura già avviata, deve essere garantito ai promotori l'effettivo esercizio entro i termini previsti dallo statuto.
Peraltro, le eventuali soluzioni tecniche da adottare con le norme transitorie, in assenza delle modifiche statutarie, devono comunque essere coerenti con le disposizioni di tale ultimo strumento.
In particolare, l'art. 2, comma 186, lett. a) della legge 23.12.2009, n. 191, pur avendo soppresso la figura del difensore civico comunale, ha stabilito che le relative funzioni possono essere attribuite, mediante convenzione, al difensore civico della provincia (articolo ItaliaOggi del 10.06.2016).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Quorum strutturale.
Qual è il quorum strutturale necessario per la validità delle sedute del consiglio comunale in seconda convocazione?
L'art. 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 demanda al regolamento comunale, «nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto», la determinazione del «numero dei consiglieri necessario per la validità delle sedute», con il limite che detto numero non può, in ogni caso, scendere sotto la soglia del «terzo dei consiglieri assegnati per legge all'ente, senza computare a tale fine il sindaco e il presidente della provincia».
Il citato art. 38, va letto in combinato disposto con l'art. 273, comma 6, dello stesso Tuel il quale detta una disciplina transitoria che legittima l'applicazione, tra gli altri, dell'art. 127 del T.u. n. 148/1915, fino all'adeguamento della normativa locale ai criteri indicati dal decreto legislativo n. 267/2000.
Nel caso di specie, il consiglio comunale è composto da 24 consiglieri più il sindaco, pertanto sarebbe necessaria la presenza di almeno 8 consiglieri al fine della validità delle sedute.
Tuttavia è stato chiesto se sia possibile applicare la disposizione recata dal regolamento sul funzionamento del consiglio comunale in base alla quale le sedute di seconda convocazione sono valide purché intervengano almeno quattro membri, salvo le eccezioni previste dalla legge e dallo statuto.
La normativa regolamentare risulta conformata all'art. 127 del T.u. 148/1915 che prevede, per la validità delle sedute di prima convocazione, la presenza della metà dei consiglieri assegnati mentre, in seconda convocazione, quella di almeno quattro membri.
In merito, appare inoltre utile richiamare le osservazioni formulate dal Consiglio di stato con sentenza n. 3357 del 2010, in base alle quali, una volta adottato il regolamento recante le norme sul funzionamento del consiglio comunale, queste ultime, ancorché illegittime, non possono essere disapplicate se non previo ritiro.
Pertanto, considerata la discrasia tra le disposizioni contenute nel regolamento consiliare e le previsioni recate dal citato art. 38, comma 2, del Tuel, l'ente locale dovrà adeguare la fonte regolamentare ai criteri previsti dalla legge, anche al fine di non esporre gli atti adottati al rischio di eventuali impugnative (articolo ItaliaOggi del 03.06.2016).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Prima le interrogazioni. Devono essere trattate all'inizio della seduta. Agli atti di sindacato non si applica la disciplina sulla modifica dell'odg.
Il presidente del consiglio comunale può opporre un diniego alla richiesta di invertire l'odg di una seduta di consiglio, formulata da un gruppo consiliare al fine di posporre l'esame degli atti di sindacato ispettivo?

Nel caso di specie, il regolamento del consiglio comunale prevede che «la trattazione delle interrogazioni avviene nella parte iniziale della seduta secondo l'ordine cronologico di presentazione».
La stessa fonte regolamentare dispone inoltre che il presidente del consiglio possa modificare l'ordine di trattazione degli argomenti inseriti all'odg anche su proposta di un gruppo consiliare e che, in caso di opposizione, la richiesta debba essere messa ai voti ed eventualmente accolta a maggioranza dei votanti.
In considerazione del quadro normativo delineato, appare corretto il diniego opposto dal presidente del consiglio alla richiesta, formulata da un gruppo consiliare, di voler posporre la trattazione delle interrogazioni. Ciò in quanto il regolamento del consiglio comunale prevede espressamente che la trattazione dei suddetti atti di sindacato ispettivo debba avvenire «nella parte iniziale della seduta».
Pertanto, agli atti in questione non può essere applicata la disciplina sulla modifica dell'ordine di trattazione degli oggetti dell'odg prevista, in generale, dalla citata normativa regolamentare (articolo ItaliaOggi del 03.06.2016).

NEWS

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGORivoluzione audit nella p.a.. In g.u. il decreto sulla valutazione delle performance.
Rivoluzione audit nella p.a. Arrivano i nuovi organismi interni di valutazione costituiti in forma monocratica o collegiale. I componenti saranno nominati da ciascuna amministrazione tra i soggetti iscritti all'elenco nazionale dei componenti degli organismi indipendenti di valutazione, tenuto dalla Funzione pubblica. Tra le funzioni, verificare la correttezza dei processi di misurazione, monitoraggio, valutazione e rendicontazione della performance organizzativa e individuale.

Lo prevede il dpr 09.05.2016 n. 105 sulle funzioni attribuite a palazzo Vidoni in materia di misurazione e valutazione delle performance della p.a., pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 140 del 17.06.2016. Il dpr, anticipato da ItaliaOggi il 29 aprile scorso, attua alcuni criteri direttivi contenuti nella delega Madia (legge 124/2015) e che saranno trasposti in un dlgs ad hoc in materia di valutazione dei dipendenti.
A cominciare dalla riduzione degli adempimenti in materia di programmazione anche attraverso una maggiore integrazione con il ciclo di bilancio. In attesa che arrivi il dlgs, le norme del regolamento avranno un'applicazione limitata per le regioni e gli enti locali che definiranno il proprio convolgimento con appositi protocolli d'intesa sottoscritti da Conferenza delle regioni, Anci e Upi.
Il dipartimento della Funzione pubblica a cui sono transitate le competenze in materia, un tempo in mano all'Anac e prima ancora alla Civit, dovrà tenere conto delle esperienze maturate sul territorio, coinvolgendo gli enti nel confronto fra amministrazioni e nello sviluppo di buone pratiche.
Rafforzati gli Oiv, gli Organismi indipendenti di valutazione, che risultano potenziati con nuove funzioni, ma ne perdono una, ossia il monitoraggio del livello di benessere organizzativo. Sarà infatti compito dei dirigenti effettuare a questo scopo indagini sul personale dipendente, in modo che gli Oiv possano focalizzarsi «sulle loro funzioni fondamentali ad ulteriore garanzia di efficacia e indipendenza» (articolo ItaliaOggi del 18.06.2016).

TRIBUTIAtti, firma chiara. Uniformità nei criteri da usare. Nota delle Entrate sul responsabile procedimento.
L'Agenzia delle entrate detta le regole per l'individuazione del responsabile del procedimento. Che nella maggior parte dei casi non coincide con il funzionario che gestisce la pratica. I direttori provinciali, degli uffici periferici e dei Cam, in base alla rilevanza (anche economica) dei singoli provvedimenti adottati, possono decidere se riservare per se stessi tali ruolo oppure designare dirigenti o funzionari (Pos, Pot e titolari di posizioni organizzative e professionali o di posizioni di responsabilità).
A tale fine possono essere utilizzati atti puntuali o criteri automatici di individuazione, purché siano noti ex ante i soggetti che dovranno assumere tale veste (per esempio: i capi team per gli atti emessi dal rispettivo gruppo di lavoro). In ogni caso, la designazione non comporta l'attribuzione di funzioni aggiuntive, né tantomeno di competenze dirigenziali a funzionari privi della relativa qualifica.

Queste le indicazioni operative fornite dal direttore centrale del personale delle Entrate, Margherita Maria Calabrò, in una nota diramata alle Direzioni centrali e regionali nei giorni scorsi.
La figura del responsabile del procedimento, prevista dall'articolo 5 della legge n. 241/1990, ha un compito di «predisposizione, istruttoria, impulso e coordinamento per il corretto e sollecito svolgimento dei singoli atti in cui il procedimento è composto». Tale ruolo «non va confuso con il referente di una specifica trattazione», prosegue la nota, dal momento che il funzionario dell'Agenzia assegnatario della pratica è il soggetto a cui il contribuente può rivolgersi per avere informazioni o chiarimenti, ma non il responsabile dell'azione amministrativa.
Una precisazione che è salutata con favore dalle sigle sindacali, dal momento che in passato non sono mancati casi di singoli dipendenti raggiunti da azioni legali dei contribuenti ritenutisi danneggiati.
«Ora si tratta di modificare le procedure operative, in quanto negli atti che scaturiscono dai programmi informatici (per esempio Aures) la dicitura responsabile del procedimento esce di default con il nome del funzionario», spiega la segreteria nazionale di Flp Ecofin-Agenzie fiscali, «riteniamo sia necessario individuare in modo omogeneo i livelli di responsabilità, che sono diversi, ai fini dell'individuazione del responsabile del procedimento, tra titolari di Pos e Pot e i destinatari degli artt. 17 e 18 del contratto integrativo, per evitare che su questo si apra un nuovo fronte di comportamenti e azioni diverse ufficio per ufficio. Va detto però che un passo in avanti è stato fatto e ne diamo atto all'Agenzia» (articolo ItaliaOggi del 18.06.2016).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Obbligatori i corsi di privacy. Tenuti dipendenti pubblici e privati. E professionisti. Lo prevede il regolamento europeo. Sanzioni per le imprese fino al 2% del fatturato.
Obbligatori corsi privacy per dipendenti pubblici e privati. E anche i professionisti esterni, che lavorano per la p.a. o per un'azienda, dovranno dimostrare la loro conoscenza delle disposizioni sulla protezione dei dati personali.

Il regolamento europeo sulla privacy, n. 679/2016, prescrive ai titolari di trattamento (aziende e pubbliche amministrazioni) di far seguire dai propri collaboratori appositi corsi per acquisire conoscenze sulla normativa europea e nazionale in materia di protezione dei dati.
La norma di riferimento è l'articolo 29 del regolamento europeo, secondo cui il responsabile del trattamento, o chiunque agisca sotto la sua autorità o sotto quella del titolare del trattamento, che abbia accesso a dati personali non può trattare tali dati se non è istruito in tal senso dal titolare del trattamento, salvo che lo richieda il diritto dell'Unione o degli stati membri. Bisogna fare comunque uno sforzo per capire il linguaggio tecnico utilizzato.
La traduzione è che chi tratta dati personali nell'ambito di un ente pubblico o di una organizzazione di impresa deve essere stato istruito e deve dimostrare di conoscere gli adempimenti di privacy. L'obbligo è particolarmente cogente. Si pensi all'articolo 83, paragrafo 4, del regolamento, che assoggetta, tra le altre, la violazione dell'articolo 29 alla sanzione amministrativa pecuniaria fino a 10 milioni di euro, o per le imprese, fino al 2 % del fatturato mondiale totale annuo dell'esercizio precedente, se superiore.
Un analogo obbligo era espressamente previsto dall'allegato «b» al codice della privacy, nella versione originaria relativa al documento programmatico sulla sicurezza.
L'obbligo è stato formalmente abrogato, ma non è venuto meno l'obbligo di garantire la protezione dei dati e la sicurezza dei trattamenti.
Nel regolamento europeo (che diventerà operativo dal 25.05.2018) imprese e p.a. devono preoccuparsi di dimostrare la liceità dei trattamenti dei dati da loro effettuati (principio di responsabilizzazione). A carico del titolare del trattamento si pone anche la prova di avere reso edotti tutti coloro che trattano dati dei rischi del trattamento. Sul piano del risarcimento del danno, un titolare del trattamento, pubblico o privato, potrà difendersi se dimostra che l'evento dannoso non gli è imputabile.
Anche a questo fine il titolare del trattamento dovrà dimostrare di avere addestrato il personale al rispetto delle prerogative dell'interessato. I dipendenti e collaboratori devono essere formati al loro ingresso in azienda o nell'ente e in occasione di novità organizzative o normative significative. Gli interventi di formazione e la loro adeguatezza alla realtà lavorativa potranno essere presi in considerazione per calibrare le sanzioni amministrative e la decisione sul risarcimento del danno.
La dimostrazione del grado di conoscenza della normativa sulla privacy riguarda non solo i dipendenti, ma anche chi agisce per l'ente pubblico o privato sulla base di un rapporto di lavoro autonomo e professionale (articolo ItaliaOggi del 18.06.2016).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGORiforma Madia, all’appello mancano 10 decreti. Prossime tappe la revisione delle regole sui premi di produttività degli statali e il riordino della dirigenza.
Archiviata mercoledì la questione «furbetti» insieme ai decreti su conferenza dei servizi e Scia, la riforma della Pa apre il secondo capitolo dell’attuazione, che conta una decina di decreti in attesa del primo via libera (mentre altri sei, tra i quali il taglio alle partecipate) stanno ultimando il passaggio in Parlamento prima di tornare a Palazzo Chigi.
In prima fila ci sono gli interventi paralleli su dirigenza e pubblico impiego, chiamati a decidere su articolo 18 e premi di produttività. Il passaggio è indispensabile per rinnovare i contratti nazionali, passati da 11 a 4 grazie al ridisegno approvato sempre mercoledì. Il dibattito sugli statali e le loro buste paga, insomma, entra ora nel vivo.
Lo stallo sul riordino della geografia del pubblico impiego ha infatti rappresentato finora un ottimo pretesto per non mettere mano ai nuovi contratti, su cui sia il governo sia i sindacati si giocano una parte importante della loro credibilità nella battaglia per rinnovare davvero la pubblica amministrazione: con il testo sui nuovi comparti, che la prossima settimana tornerà all’Aran per la sigla definitiva e sarà quindi in vigore nei primi giorni di luglio dopo l’ok della Corte dei conti, la partita si riapre ufficialmente.
Sul risultato finale giocherà però un ruolo determinante un altro pezzo della riforma Madia in arrivo, quello che appunto riscrive il testo unico del pubblico impiego e che entro la prima metà di luglio potrebbe arrivare sul tavolo del consiglio dei ministri insieme alla riforma della dirigenza: lì si riscriveranno le regole per i premi di produttività dei dipendenti pubblici. Viste le cifre, esili, che accompagnano i nuovi contratti (300 milioni, più una settantina, cioè lo 0,4% della massa salariale, che regioni ed enti locali devono stanziare), le sorti delle buste paga reali si giocheranno proprio su integrativi e premi. «Licenziamo i dipendenti pubblici che fanno i furbetti e valorizziamo i bravi», ha sintetizzato ieri in un tweet il premier Matteo Renzi: dopo il decreto anti-assenteismo, quindi, ora tocca alla seconda mossa.
Anche su questo aspetto la situazione è andata in stallo con il blocco contrattuale introdotto nel 2010. La riforma Brunetta aveva tentato di rivoluzionare il quadro imponendo una doppia regola, mai applicata. La quota maggioritaria delle risorse integrative deve andare alla produttività, e i premi devono andare per metà ai dipendenti «eccellenti», pari al 25% del totale, e per l’altra metà al 50% degli organici, collocati in fascia media, lasciando a secco l’ultimo quarto del personale.
Per la riforma Madia il sentiero è stretto, perché l’obiettivo è di superare la rigidità delle tre fasce, che ha contribuito non poco alla loro mancata attuazione, senza mettere in discussione il principio che concentra i premi su una quota di «migliori» e li azzera per una fascia di persone giudicate meno produttive. L’idea potrebbe tradursi nel mantenimento di una soglia in alto, che individua la quota di personale a cui attribuire i premi maggiori, e di una in basso, per blindare il concetto che non possono esserci premi per tutti, e ampliare gli spazi di autonomia della contrattazione.
Una semplificazione drastica, poi, dovrebbe arrivare per la giungla di regole che in questi anni ha creato il caos nella gestione dei fondi decentrati, quelli che finanziano la parte integrativa della busta paga, con l’obiettivo di cancellare le indennità che ancora “premiano” aspetti ordinari (e spesso in pratica la stessa presenza in servizio).
Il rafforzamento della contrattazione decentrata sarà anche una delle linee guida dell’atto di indirizzo con cui la Funzione pubblica aprirà ufficialmente le trattative dei rinnovi. L’altra punterà a evitare un mini-ritocco del tabellare uguale per tutti, introducendo una progressività che concentri gli effetti sulle fasce più basse e li alleggerisca via via che cresce il peso dello stipendio. L’atto di indirizzo, comunque, non indicherà soglie (e quindi nemmeno l’ipotesi di bloccare gli aumenti a quota 26mila euro circolata ma smentita da Palazzo Vidoni), ma il principio.
L’altro rebus da sciogliere con i rinnovi contrattuali è quello dell’incrocio con gli 80 euro, perché una fetta consistente del pubblico impiego si affolla fra 24mila e 26mila euro di reddito, cioè nella fascia in cui può bastare un piccolo aumento per uscire dal raggio d’azione del bonus. Due le ipotesi al momento:?inserire l’effetto 80 euro direttamente nelle tabelle, oppure indicare nell’atto di indirizzo l’esigenza di tenerne conto nella modulazione degli aumenti.
Sul fronte semplificazioni, invece, manca solo il tassello rappresentato dal via libera finale al Dpr taglia-tempi, quello che dimezza i termini per l’autorizzazione delle opere (infrastrutture e impianti produttivi) considerate «strategiche» e commissaria le amministrazioni che non rispettano il calendario abbreviato: dopo un tira e molla con le regioni, l’accordo è stato trovato sul passaggio attraverso un altro decreto, da scrivere entro due mesi dopo l’entrata in vigore del primo, per fissare i criteri con cui individuare gli interventi strategici. Il grosso del lavoro, comunque, è contenuto dalle riforme di Scia e conferenza dei servizi approvate mercoledì, che nella sintesi via twitter del premier produrranno «tempi certi, finalmente».
Gli effetti attesi sono stati riassunti in una serie di slide diffuse ieri sul sito della Funzione pubblica: agibilità immediata per gli edifici (oggi si aspettano 60 giorni), riduzione a tre dei regimi per le autorizzazioni (attività libera per la manutenzione ordinaria, Scia per la ristrutturazione e permesso di costruire per i nuovi edifici) e domanda unica online per aprire un’attività. Definite le regole, però, la possibilità di arrivarci davvero passa anche dalla riorganizzazione delle amministrazioni, a partire da Palazzo Chigi e ministeri la cui struttura sarà rivista dal secondo pacchetto di decreti attuativi in arrivo
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGOLicenziamento sprint per chi attesta il falso. Entro 48 ore il dipendente è a casa senza stipendio. Riforma Pa. Procedura accelerata per i «furbetti del cartellino».
La falsa attestazione della presenza in servizio porta direttamente al licenziamento senza preavviso del dipendente pubblico; si tratta della conferma di una fattispecie sanzionatoria già presente nell'ordinamento.

La novità -contenuta nel decreto attuativo approvato l’altro ieri dal Consiglio dei ministri- consiste nell'introduzione di un procedimento disciplinare speciale e “accelerato” riservato a un comportamento infedele ritenuto particolarmente grave sia per l'opinione pubblica che per l'efficienza stessa della Pa. Quello che nel gergo giornalistico viene additato come “furbetto del cartellino”, tecnicamente è definito come “falsa attestazione della presenza in servizio”.
Locuzione che il Governo ha voluto riempire di contenuti specificando che si verifica con qualunque modalità fraudolenta tesa ad ingannare l'amministrazione sull'orario di lavoro o sulla presenza in servizio. Perché scatti la procedura speciale è necessario che l'inganno venga accertato in flagranza ovvero tramite sistemi automatici di sorveglianza o rilevazione delle presenze.
Il primo che scopre il fatto, sia esso il responsabile del servizio o l'ufficio per i procedimenti disciplinari, deve immediatamente attivarsi adottando, con lo stesso atto, la sospensione del dipendente e la contestazione degli addebiti. Tempo massimo 48 ore e il dipendente è a casa senza stipendio, fatto salvo l'assegno alimentare pari al 50% del tabellare. Ma il termine è solo ordinatorio e il ritardo non avrà effetti invalidanti sul procedimento disciplinare ma, eventualmente, ne farà partire uno nuovo nei confronti del responsabile.
Al contrario il dirigente verrà licenziato qualora non si attivi nei confronti dell'Upd, non contesti gli addebiti o non sospenda il dipendente senza giustificato motivo. Se l'allontanamento del dipendente in 48 ore ha un effetto mediatico importante, non si deve sottovalutare che una contestazione degli addebiti frettolosa e potenzialmente imprecisa può rischiare di buttare nel cestino l'intero procedimento disciplinare.
Sempre nelle 48 ore e con lo stesso atto il dipendente dovrà essere convocato a sua difesa davanti all'Upd non prima di 15 giorni, rinviabili una sola volta al massimo di altri 5. Evidente a tutti l'ossessione per una tempistica “accelerata”.
In un procedimento ordinario che porti al licenziamento, la contestazione degli addebiti può avvenire entro 40 giorni e la convocazione ha un preavviso minimo di 20. Con lo stesso spirito il licenziamento dovrà avvenire entro 30 giorni dalla contestazione dell'addebito contro i 120 ordinariamente previsti. Ma ancora una volta il termine è indicativo poiché può essere tranquillamente superato ad libitum, salvo garantire il diritto alla difesa da parte del dipendente. Il ritardo non è neppure sanzionabile nei confronti del o dei responsabili.
Licenziato il dipendente il lavoro non è ancora finito perché i fatti dovranno passare al vaglio sia dell'Autorità giudiziaria che della Corte dei conti. La prima dovrà valutare la sussistenza di fattispecie penalmente rilevanti, mentre ai magistrati contabili spetterà il compito di valutare il danno all'immagine che dovrà tenere in debita considerazione la rilevanza che l'episodio ha avuto sui mezzi di informazione. Se accertato, il danno non potrà comunque essere quantificato in meno di sei mensilità
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.06.2016).

EDILIZIA PRIVATAL’imprecisione nella Scia non blocca l’attività. Adempimenti. L’ente decide lo stop solo per dati non veritieri sui requisiti o pericoli per salute e ambiente.
Il decreto legislativo di attuazione dell'articolo 5 della legge 124/2015, che sarà a breve pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, ha come obiettivo prioritario la semplificazione della procedura della Scia (segnalazione certificata di inizio attività) recentemente modificata con l'articolo 6 della legge 124.
Le novità più significative possono essere così sintetizzate. L'ente competente a ricevere la Scia (Comune, Camera di Commercio e così via) il quale, in sede di controllo, da effettuarsi tassativamente entro sessanta giorni, riscontra la carenza di requisiti previsti dalla legge speciale relativa alla attività intrapresa, deve intervenire in due modi se la carenza può essere regolarizzata dal privato:
- se la Scia contiene attestazioni non veritiere circa i requisiti posseduti o se l'attività comporta pericoli per i cosiddetti interessi sensibili come l'ambiente, la salute, i beni culturali l'ente deve decidere la sospensione dell'attività intrapresa;
- negli altri casi in cui la Scia non è conforme a legge l'ente deve prescrivere al privato le misure per la sua regolarizzazione, ma l'attività non viene sospesa.
Nel caso di Scia carente dei requisiti, il dipendente pubblico è responsabile della eventuale omissione dei provvedimenti inibitori da assumere entro sessanta giorni; non è però chiarita la natura di questa responsabilità.
Nei rispettivi siti gli enti destinatari della Scia devono pubblicare i moduli unificati (a livello nazionale) contenenti le notizie da dichiarare e i documenti da allegare.
I moduli sono adottati dai ministeri per le attività di loro competenza e dalla conferenza Stato-Regioni per le attività produttive e l'edilizia.
Considerato che questi moduli non saranno disponibili a breve il decreto impone agli enti di pubblicare nel sito (si ritiene da subito) l'elenco dei requisiti e della documentazione per ciascuna delle attività.
Da tempo però parecchi enti pubblicano moduli da essi elaborati che spesso soddisfano queste nuove prescrizioni.
Le novità collegate alla pubblicità sono due: l'ente può chiedere al privati notizie e documenti solo se il contenuto della Scia e dei documenti già inviati non corrispondono a quelli pubblicati nel sito; l'omessa pubblicazione nel sito e la richiesta di ulteriori notizie e documenti costituiscono illecito disciplinare punito con la sospensione dal servizio e la privazione della retribuzione da tre giorni a sei mesi.
Nel sito deve essere indicato anche lo “sportello unico” al quale va presentata la Scia e questo può avere più sedi per favorire l'accesso nel territorio. Dovrebbe coincidere con il Suap (sportello unico attività produttive) ma un chiarimento si impone visto anche il silenzio della relazione illustrativa su questo tema importante.
Il decreto legislativo aggiunge l'articolo 19-bis da applicare alla Scia che riguarda le attività economiche quando le norme di settore impongono anche l'ottenimento di attestazioni e simili o atti di assenso e simili rilasciati da enti diversi da quello che riceve la Scia.
È una tematica complessa che dovrà essere coordinata con l'articolo 17-bis (silenzio assenso tra Pubbliche amministrazioni) e l'articolo 14 (conferenza di servizi) della legge 241/1990.
Il decreto fissa le regole per due situazioni:
- se una attività è soggetta a Scia non solo dell'ente competente ma anche a altre Scia connesse (per esempio nell’edilizia o ambientale) o ad attestazioni di altri enti (per esempio vigili del fuoco) il privato può iniziare subito l'attività e il primo ente deve inviare la Scia agli altri enti che devono controllare gli aspetti di loro competenza;
- se per una attività soggetta a Scia occorre ottenere atti di “assenso” di altre Pa il privato deve, assieme all'invio della Scia, trasmettere anche la domanda per il rilascio di questo atto. L'inizio effettivo della attività soggetta a Scia in questo caso è subordinato all'assenso, unico caso di deroga al principio dell'immediata efficacia della Scia.
Con il nuovo articolo 18-bis si attua una definizione organica dello strumento della ricevuta rilasciata con la presentazione sia della Scia della domanda.
Viene precisato che: la data della protocollazione della ricevuta deve essere sempre quella della presentazione(ricezione) della Scia e della domanda; questi atti producono effetto anche senza il rilascio della ricevuta purché presentati all'ufficio competente; la ricevuta indica il termine entro cui l'ente deve rispondere (nel caso della Scia va inteso che l'ente dopo i sessanta giorni deve comunicare l'esito della verifica?)
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: Edilizia, meno lacci nei lavori. Agibilità, basta la segnalazione. Piccoli interventi liberi. Lo schema di decreto che attua la legge 124/2015 approvato dal consiglio dei ministri.
Pratiche edilizie in outsourcing. Con le segnalazioni certificate si sposta sul privato l'onere di verificare la regolarità edilizia e l'agibilità degli edifici.
Questa la direzione in cui si muove il decreto legislativo attuativo della legge 124/2015, esaminato in via preliminare dal consiglio dei ministri del 15.06.2016, che si occupa anche di titoli edilizi, mandando in soffitta la denuncia di inizio attività alternativa al permesso di costruire.
Il decreto dice addio anche al certificato di agibilità, sostituito dalla segnalazione certificata di agibilità. Vediamo le principali modifiche al Testo Unico dell'Edilizia (dpr 380/2001).
OPERE LIBERE
Si amplia l'elenco delle attività non assoggettate al rilascio di un titolo edilizio. Per effetto del decreto rientrano nell'attività edilizia libera (prima erano soggette a Comunicazione di inizio lavori) le opere precarie destinate a sopperire a necessità fino a 90 giorni; la pavimentazione e di finitura di spazi esterni, anche per aree di sosta; la realizzazione di intercapedini interamente interrate e non accessibili, vasche di raccolta delle acque, locali tombati; i pannelli solari, fotovoltaici, a servizio degli edifici, da realizzare al di fuori dei centri storici; aree ludiche senza fini di lucro e gli elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici.
TITOLI EDILIZI
La comunicazione di inizio lavori (Cil) diventa «Comunicazione di inizio lavori asseverata» e riguarda, per differenza, tutte le opere escluse da quelle libere (articolo 6) e quelle assoggettate a segnalazione certificata di inizio attività o a permesso di costruire.
Si tratta, ad esempio, degli interventi di manutenzione straordinaria, ma su parti diverse da quelle strutturali degli edifici o delle modifiche interne o delle modifiche di destinazione d'uso per fabbricati ad uso d'impresa.
SCIA
Ci vuole la Segnalazione certificata di inizio attività per gli interventi di manutenzione straordinaria su parti strutturali dell'edificio; gli interventi di restauro e di risanamento conservativo sempre su parti strutturali dell'edificio; interventi di ristrutturazione edilizia «pesante». La ristrutturazione edilizia «pesante» comprende gli interventi che portano a un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino modifiche della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti, o ancora che, limitatamente agli immobili compresi nei centri storici, comportino mutamenti della destinazione d'uso, oltre agli interventi che comportino modificazioni della sagoma di immobili sottoposti a vincoli.
Muore la Dia alternativa al permesso di costruire, sostituita dalla Scia alternativa al permesso di costruire. Quest'ultimo titolo servirà per le ristrutturazioni pesanti, per le nuove costruzioni e le ristrutturazioni urbanistiche (se disciplinati da piani attuativi comunque denominati), per le nuove costruzioni diretta esecuzione di strumenti urbanistici generali recanti precise disposizioni plano-volumetriche e anche per gli interventi di nuova costruzione qualora siano in diretta esecuzione di strumenti urbanistici generali recanti precise disposizioni plano-volumetriche.
AGIBILITÀ
Scompare il certificato sostituito dalla segnalazione certificata di agibilità, da presentare entro 15 giorni dall'ultimazione dei lavori di finitura di nuove costruzioni; ricostruzioni o sopraelevazioni, totali o parziali; oppure interventi sugli edifici esistenti che possano influire sulle condizioni igienico-sanitarie.
La mancata presentazione della segnalazione comporta l'applicazione della sanzione amministrativa pecuniaria da 77 a 464 euro. La segnalazione certificata di agibilità può riguardare anche singoli edifici o singole porzioni della costruzione, o singole unità immobiliari, purché siano completate e collaudate le opere strutturali connesse, siano certificati gli impianti.
PERMESSO DI COSTRUIRE
Il progettista, tenuto a d asseverare la conformità a leggi e strumenti urbanistici ed edilizi, deve sempre dichiarare la conformità del progetto alla disposizioni igienico-sanitarie e non solo, come ora previsto, nel caso in cui la verifica non comporti valutazioni tecnico-discrezionali.
COLLAUDO STATICO
Non sarà sempre necessario il collaudo statico. Per gli interventi di riparazione e per gli interventi locali sulle costruzioni esistenti, come definiti dalla normativa tecnica, il certificato di collaudo è sostituito dalla dichiarazione di regolare esecuzione resa dal direttore dei lavori.
AMBIENTE
Il decreto razionalizza la fase finale del procedimento di rilascio dell'autorizzazione integrata, rimodulando lo svolgimento della conferenza dei servizi In materia di bonifica di siti inquinati il decreto prevede che il proprietario del fondo inquinato possa auto-dichiarare la propria estraneità rispetto alla potenziale contaminazione dei siti, attestando di non avere operato presso il sito a qualsiasi titolo, anche tenuto conto dei collegamenti societari e di cariche direttive ricoperte in soggetti che abbiano invece operato in quel luogo.
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La Scia non libera gli enti dall'onere delle istruttorie.
Può costare caro ai funzionari pubblici restare inerti nei procedimenti amministrativi e farli concludere col silenzio assenso o con il consolidamento delle attività avviate con la Scia.
Il decreto attuativo della legge 124/2015 proprio di riforma della Scia (segnalazione certificata di inizio attività) incide in maniera molto rilevante sulla legge 241/1990 che regola il procedimento amministrativo, responsabilizzando in maniera molto forte gli apparati.
L'operazione è compiuta in particolare con l'inserimento nell'articolo 21 della legge sul procedimento amministrativo del nuovo comma 2-ter, ai sensi del quale «la decorrenza del termine previsto dall'articolo 19, comma 3, e la formazione del silenzio assenso ai sensi dell'articolo 20 non escludono la responsabilità del dipendente che non abbia agito tempestivamente nel caso in cui la segnalazione certificata o l'istanza del privato non fosse conforme alle norme vigenti».
L'articolo 19, comma 3, contiene il termine di 60 giorni dalla ricezione della Scia, entro il quale l'amministrazione accerta l'effettivo possesso dei requisiti e dei presupposti di legittimità e di diritto che consentono il legittimo avvio dell'attività imprenditoriale.
L'articolo 20 disciplina il silenzio-assenso, stabilendo che nei procedimenti ad istanza di parte il silenzio dell'amministrazione competente equivale a provvedimento di accoglimento della domanda, senza necessità di ulteriori istanze o diffide, se la medesima amministrazione non comunica all'interessata entro il termine finale del procedimento (stabilito dalla legge o dai regolamenti) il provvedimento di diniego.
Non poche amministrazioni hanno inteso queste disposizioni come una sorta di liberazione dall'onere di svolgere le istruttorie sulle pratiche e di concluderle con provvedimenti espressi.
In effetti, questo modo di agire è di per sé contrario all'obbligo, sempre posto dalla legge 241/1990, all'articolo 21, comma 1, di concludere ogni procedimento amministrativo con un provvedimento espresso.
Qualsiasi Scia, quindi, dovrebbe implicare l'apertura di un procedimento, da concludere entro 60 giorni, per la verifica dei presupposti oggetto della dichiarazione; allo stesso modo, tutti i procedimenti ad istanza di parte vanno conclusi entro la scadenza fissata, prima che si formi il silenzio assenso. Infatti, sia il silenzio assenso, sia la formazione implicita dell'autorizzazione all'esercizio dell'attività oggetto di Scia sono un rimedio all'inerzia della p.a.: quindi, strumenti straordinari, finalizzati a non lasciare cittadini e imprese privi di un titolo giuridico, anche se tacito.
La riforma della Scia, adesso, chiarisce che i dipendenti che non hanno esercitato i controlli sulle Scia entro i 60 giorni, o che hanno lasciato decorrere i termini del silenzio assenso senza istruire la pratica come dovuto, incorrono in responsabilità qualora si accerti, a posteriori, che la Scia era fondata su presupposti erronei o che il richiedente non aveva titolo alla formazione di un provvedimento tacito di assenso.
In parole più povere, gli strumenti di autoproduzione del titolo giuridico (Scia) o di formazione tacita dell'assenso non esentano in alcun modo la p.a. dal dovere di istruire le pratiche, per verificare la legittimità delle attività del privato entro i termini previsti. Non solo, infatti, se non si provvede si vìola il dovere di concludere ogni procedimento in modo espresso, ma si rischia di rispondere dei danni possibili eventualmente connessi all'inerzia che ha permesso alle Scia di consolidarsi senza verifiche nei 60 giorni, e alle istanze di ottenere assensi taciti, senza alcuna attività istruttoria che, se realizzata, avrebbe dovuto condurre al rigetto, invece che all'accoglimento (articolo ItaliaOggi del 17.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: Un catasto infrastrutture. Accelerati scavi e posa della banda ultra larga. In Gazzetta il dm che istituisce il Sinfi. In arrivo il dlgs che accelera i lavori.
Svolta per la banda ultra larga. Nasce il catasto nazionale delle infrastrutture. Con la finalità di accelerare i tempi di realizzazione della posa della fibra ottica e dell'utilizzo delle nuove tecnologie in materia di scavo. In assenza di infrastrutture disponibili, l'installazione delle reti di comunicazione elettronica ad alta velocità sarà «effettuata preferibilmente con tecnologie di scavo a basso impatto ambientale».
In concreto si avrà, una spinta all'utilizzo delle «tecnologie trenchless» che permettono la posa di manufatti e di condotte sotterranei limitando o addirittura eliminando la realizzazione di scavi a cielo aperto.

Queste le più importanti novità contenute nel dlgs attuativo della direttiva 2014/61/Ue recante misure volte a ridurre i costi dell'installazione di reti di comunicazione elettronica ad alta velocità (in via di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale).
Il decreto (che ha ricevuto il via libera dal consiglio dei ministri del 15.02.2016), che attua le disposizioni del decreto legge 12.09.2014 n. 133, convertito con modificazioni dalla legge 11.11.2014 n. 164, definisce le regole tecniche e le modalità per la costituzione, la consultazione e l'aggiornamento dei dati territoriali detenuti dalle pubbliche amministrazioni e dai soggetti proprietari o concessionari di infrastrutture di gas, luce, acqua e telecomunicazioni.
Gestione sistema informativo e disciplina fiscale applicabile agli operatori. Il «sistema informativo» gestito dal ministero dello Sviluppo economico e regolato da un decreto ministeriale dell'11/5/2016 (pubblicato sulla Gazzetta del 16/06/2016 n. 139), conterrà tutte le informazioni relative alle infrastrutture sul territorio, sia nel sottosuolo che nel sopra suolo.
Le p.a. avranno a disposizione 180 giorni dalla pubblicazione del dm per comunicare le informazioni al Sinfi (sistema informativo nazionale federato delle infrastrutture) e gli operatori avranno a disposizione invece 90 giorni. Un'altra novità di rilievo trattata nel dlgs (articolo 12, 3° comma) è quella relativa al regime fiscale cui possono essere assoggettati gli operatori.
Questi ultimi potrebbero essere tassati per la sola occupazione di suolo pubblico (Tosap e Cosap), privando così i comuni della possibilità di applicare altre tasse sui lavori, i cosiddetti oneri non ricognitori.
Tecnologie di scavo innovative. Una novità importante è quella prevista dall'articolo 5 del dlgs, dove viene disciplinato il coordinamento delle opere di genio civile e l'accesso all'infrastruttura in corso di realizzazione. Il dettato normativo prevede infatti che in assenza di infrastrutture disponibili, l'installazione delle reti di comunicazione elettronica ad alta velocità sia «effettuata preferibilmente con tecnologie di scavo a basso impatto ambientale» (cd. «tecnologie trenchless»).
Ma c'è un tassello in più, perché «le specifiche delle tecniche di posa su tralicci e pali, di scavo tradizionale e di scavo a basso impatto ambientale, nonché dei relativi ripristini sono definite dall'Ente nazionale italiano di unificazione attraverso le apposite norme tecniche e prassi di riferimento».
Questa statuizione dà potere all'ente incaricato di definire gli standard e contemporaneamente elimina la necessità di ricorrere continuamente a interventi normativi «di sblocco» delle tecnologie innovative.
Condomini. Ai proprietari di unità immobiliari, o il condominio ove costituito in base alla legge, viene riconosciuto (art. 8 del dlgs) «il diritto, ed ove richiestone, l'obbligo, di soddisfare tutte le richieste ragionevoli di accesso presentate da operatori di rete, secondo termini e condizioni eque e non discriminatorie, anche con riguardo al prezzo».
Nel caso in cui «un condominio anche di edifici esistenti realizzi da sé un impianto multiservizio in fibra ottica e un punto di accesso» ha il diritto e, ove richiestone, l'obbligo, di «soddisfare tutte le richieste ragionevoli di accesso presentate da operatori di rete, secondo termini e condizioni eque e non discriminatorie, anche con riguardo al prezzo» (articolo ItaliaOggi del 17.06.2016).

PUBBLICO IMPIEGO: P.a., licenziamenti a due facce. Non sarà facile rispettare il termine dei 30 giorni. DECRETI MADIA/ Il problema si pone in caso di falsificazioni collettive delle presenze.
Più veloci ma non più semplici i licenziamenti degli assenteisti. I problemi nascono dalla difficile combinazione tra i termini brevissimi del procedimento disciplinare (30 giorni), la garanzia del diritto alla difesa e la generale configurazione della falsificazione dei dati sulle presenze come violazione disciplinare «collettiva». Il procedimento disciplinare, come dimostrano i fatti di cronaca, non riguarda mai uno o pochi dipendenti: di solito, i «furbetti del cartellino» sono un'organizzazione di parecchi soggetti che si coprono a vicenda, mediante la falsificazione delle attestazioni della presenza.
Poiché la prima audizione per consentire agli incolpati di esporre le difese deve garantire loro un termine di almeno 15 giorni, è perfettamente chiaro che rispettare il termine di 30 giorni per concludere un procedimento disciplinare resta possibile se la scoperta del fatto riguardi uno o comunque pochi lavoratori; se si tratta di decine, quando non di centinaia, materialmente non si avrebbe il tempo per chiudere per ciascun procedimento per ogni dipendente entro i termini fissati.
Sia i dirigenti ai vertici delle strutture presso i quali i dipendenti infedeli lavorano, sia, soprattutto, gli uffici per i procedimenti disciplinari saranno chiamati a un super lavoro e a una corsa contro il tempo, che rischia di compromettere, nei fatti, il lodevole intento di mostrare il pugno di ferro contro l'assenteismo.
Il decreto deve spingere le amministrazioni a immaginare sistemi di controllo delle presenze più efficaci, visto che i dirigenti sono chiamati a una responsabilità disciplinare quasi oggettiva, nel caso si verifichino eventi di assenteismo.
Saranno sicuramente necessarie direttive molto rigorose per disciplinare l'attestazione della presenza in servizio, che non riguarda solo l'ingresso a inizio lavoro, ma l'intera giornata lavorativa, ma forse non saranno sufficienti. Occorrerà una vigilanza molto stretta. Non potendo immaginare, però, che i dirigenti possano impiegare il loro tempo stazionando ai tornelli e agli orologi marcatempo, probabilmente le amministrazioni dovranno effettuare investimenti in impianti video, concordando con le organizzazioni sindacali il tutto, per assicurare una vigilanza continuativa, specie nelle sedi decentrate, fuori dalla portata materiale del controllo dei vertici amministrativi. Ma anche in questo caso si pongono problemi, perché la riforma prevede che dalla propria attuazione «non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica».
Infine, occorrerebbe un urgente coordinamento con la questione dell'articolo 18. La brevità dei termini dei procedimenti disciplinari li espone tutti a errori che potrebbero essere considerati dal giudice del lavoro come causa di annullamento dei licenziamenti (articolo ItaliaOggi del 17.06.2016).

CONSIGLIERI COMUNALI: Liti pendenti, conflitti limitati. Al fine di valutare l'incompatibilità.
Con le elezioni amministrative in corso in molte città d'Italia, si ripropone, negli enti locali, l'esame delle incompatibilità alla carica degli amministratori. Si tratta di un limite al diritto costituzionalmente garantito all'elettorato passivo, ai sensi dell'art. 51 della Costituzione, che, pertanto, può essere ammesso soltanto laddove sussista il rischio di conflitto tra l'interesse personale dell'eletto e l'interesse collettivo che questi, come amministratore, è tenuto a perseguire.
La disciplina, nel dlgs n. 267/2000 si rinviene nell'art. 63, comma 1, che elenca le cause di incompatibilità con la carica di amministratore locale. Tra queste, vi è la pendenza di una lite con l'ente in cui si è amministratore, in qualità di parte di un procedimento civile o amministrativo. La lettura costituzionalmente orientata della norma ha delimitato il concetto di «parte», in senso strettamente processualistico.
La Cassazione ha ulteriormente precisato che, al dato formale, corrisponda una concreta contrapposizione di parti, una reale situazione di conflitto. È stata, per esempio, esclusa l'incompatibilità per il consigliere comunale, socio accomandante in una società di persone, la quale è controparte dell'ente, in un contenzioso innanzi al Tar, in quanto l'amministratore locale non è parte processuale, ma lo è la società di cui lo stesso è socio. Il legislatore, nel ragionevole esercizio della sua discrezionalità, in attuazione dell'art. 51 Cost., regolamenta il regime delle cause di incompatibilità e circoscrive l'ambito di applicabilità dell'istituto.
Laddove il conflitto, tra l'interesse pubblico e quello privato, non è ravvisato, anche solo potenzialmente, sono state previste le cosiddette esimenti, ovvero i casi in cui, nonostante la lite pendente, non sussiste incompatibilità: in materia tributaria, per liti connesse all'esercizio del mandato, per lite conseguente a sentenza di condanna in sede civile o amministrativa (articolo ItaliaOggi del 17.06.2016).

PUBBLICO IMPIEGOPa, arriva la stretta contro i «furbetti». Renzi: «È finita la pacchia per chi timbra e se ne va - La riduzione dei comparti riapre il dialogo sui contratti».
Un massimo di 48 ore per la sospensione dell’assenteista, che andrà convocato per il contraddittorio dopo 15 giorni e potrà chiedere uno slittamento di 5 giorni in caso di «oggettivo, oggettivo e assoluto impedimento» in vista del verdetto finale entro 30 giorni.

È il calendario il cuore delle nuove regole sui dipendenti pubblici che vengono individuati in flagrante oppure filmati mentre timbrano l’entrata e poi evitano l’ufficio, per arrivare a quello che il premier Matteo Renzi ha definito ieri in conferenza stampa un «licenziamento cattivo ma giusto», con cui «chi viene beccato a timbrare il cartellino e ad andarsene vede finalmente finita la pacchia».
Si gioca tutta sui termini la stretta su un fenomeno, quello dell’assenteismo, che da Sanremo ad Agrigento torna ciclicamente al centro delle cronache e delle riforme della pubblica amministrazione, ma che finora ha prodotto licenziamenti veri con il contagocce. Il lavoro di rifinitura rispetto alla versione approvata a gennaio si è concentrato sulla doppia esigenza di garantire tempi rapidi alle decisioni disciplinari, cancellando la «lunga trafila» evocata ieri dal premier, e tutelare il diritto di difesa del dipendente, senza il quale il decreto avrebbe rischiato di trasformarsi in una petizione di principio destinata a cadere davanti ai giudici delle leggi.
Per centrare il doppio obiettivo, il testo finale approvato ieri, che ora attende solo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale per diventare legge dello Stato, apre una finestra di difesa che dura 15 giorni, durante i quali il dipendente accusato di assenteismo «flagrante» può produrre memorie e difese in vista del contraddittorio, a cui può farsi accompagnare da un procuratore o da un rappresentante sindacale. Durante la sospensione, il dipendente avrà diritto all’assegno alimentare.
Tagliare davvero il traguardo nei tempi chiesti dalla riforma metterà sotto pressione dirigenti e uffici disciplinari, anche se ovviamente non basterà un ritardo per far cadere il tutto, e per evitare distrazioni interviene il capitolo delle sanzioni destinate ai dirigenti, oppure ai responsabili dei servizi negli enti più piccoli dove i dirigenti non ci sono. Sul punto, la polemica è stata sulla citazione esplicita del reato di «omissione di atti d’ufficio» a carico dei dirigenti che avrebbero ritardato l’avvio della procedura verso il licenziamento.
Giudici amministrativi e parlamentari hanno chiesto di toglierla, per evitare l’eccesso di delega che avrebbe messo a rischio la legittimità della nuova regola, ma va chiarito che all’atto pratico cambia poco rispetto alla previsione iniziale. «Per il dirigente che gira le spalle», come l’ha definito ieri la ministra per la Pa e l’Innovazione Marianna Madia, il decreto approvato ieri conferma il licenziamento per illecito disciplinare già scritto nel testo di gennaio, a cui affianca la segnalazione all’autorità giudiziaria, chiamata ad accertare «la sussistenza di eventuali reati». Ovvio che il reato in gioco resta quello dell’omissione di atti d’ufficio, per la quale l’articolo 328 del Codice penale prevede una reclusione da sei mesi a due anni: con una pena di questo tipo, è il caso di precisare, non si apre il carcere alla prima condanna.
Il pacchetto delle sanzioni a carico degli assenteisti non si esaurisce comunque qui, perché contempla anche un versante erariale, con la definizione delle modalità con cui i dipendenti condannati devono risarcire l’amministrazione per il «danno all’immagine» prodotto dal loro comportamento. Anche in questo caso, la riforma interviene su un filone già aperto dalle regole in vigore, ma gioca la carta della precisazione per legge di tempi e sanzioni per provare a tradurlo in pratica.
Gli assenteisti colti sul fatto vanno segnalati entro 15 giorni alla procura della Corte dei conti, che deve avviare l’azione di responsabilità entro 120 giorni dalla denuncia. Pesare il danno, e quindi il risarcimento, rimane compito della «valutazione equitativa» del giudice contabile, che dovrà muoversi però entro due parametri: la condanna non potrà essere inferiore a sei mensilità dell’ultimo stipendio, più interessi e spese di giustizia, e dovrà essere misurata anche sulla base della «rilevanza del fatto per i mezzi d’informazione».
La fortuna incontrata dal suo caso su giornali e televisioni, insomma, potrà aumentare il conto a carico dell’assenteista, sulla base del presupposto che un assenteismo “da prima pagina” danneggia l’immagine della Pa più di una vicenda confinata nelle brevi. Il collegamento fra i due fattori è indiscutibile ma il parametro è piuttosto atecnico, e ha fatto storcere il naso al Consiglio di Stato: alla base, però, ci sono ragioni più politiche che giuridiche.
Dal consiglio dei ministri di ieri è arrivato poi il via libera finale alla riforma dei comparti, che in base all’accordo raggiunto il 6 aprile scorso e poi passato all’esame dell’Economia riduce da 11 a 4 i contratti nazionali del pubblico impiego. Il passaggio era indispensabile per aprire le trattative sul rinnovo dei contratti, definiti da Renzi «un obbligo ma anche un impegno che ci sentiamo di prendere».
Costruito il quadro delle regole occorre cominciare a discutere su come gestire i soldi, 300 milioni più la quota a carico dei bilanci di regioni ed enti locali, messa a disposizione dall’ultima manovra: e sul punto le trattative promettono scintille
(articolo Il Sole 24 Ore del 16.06.2016).

EDILIZIA PRIVATAAl debutto il modello standard per la Scia. Semplificata la procedura per cittadini e imprese - Silenzio-assenso se la Pa non risponde entro 30 giorni.
Procedure e tempi standard, rafforzate nella versione finale da un divieto esplicito per le pubbliche amministrazioni di fare richieste ulteriori rispetto a quelle previste dal modello.
La «segnalazione certificata di inizio attività», cioè la comunicazione che va trasmessa alla Pa quando si avvia un intervento (nell’edilizia, per esempio, o nel commercio) che non ha bisogno di un’autorizzazione espressa, prova a raggiungere davvero gli obiettivi di semplificazione che erano alla base della sua introduzione. Per farlo, con il decreto attuativo della delega Madia approvato ieri in via definitiva dal consiglio dei ministri, punta tutto sulla strandardizzazione.
Il «manuale d’uso», che per ogni intervento precisa regole e procedure, è scritto in un decreto parallelo avviato ieri verso l’esame di consiglio di Stato e Parlamento, ma anche lo stesso principio ispira il quadro dei principi generali disegnato dal decreto ora arrivato al traguardo finale.
Ora tocca all’attuazione, che impegna la pubblica amministrazione nel suo complesso perché gli standard devono essere individuati da ogni livello di governo, ciascuno per le proprie competenze: nei ministeri è più facile, perché ogni ministro dovrà provvedere con decreto d’intesa con la Funzione pubblica, mentre regioni ed enti locali dovranno adottare i modelli in conferenza unificata. Il sistema dovrà essere pronto entro il 1° gennaio prossimo.
L’altro versante della semplificazione è nell’interlocutore unico, che dovrà smistare la documentazione quando la richiesta del cittadino o dell’impresa coinvolge le competenze di più uffici. L’assenso, anche silenzioso, dovrà di regola arrivare in 30 giorni, con avvio immediato dell’attività «segnalata» nella Scia: se poi un controllo individua vizi non irrimediabili, ci si potrà mettere in regola in 30 giorni senza interrompere l’attività. Vista l’ampiezza delle procedure in gioco, però, le scadenze possono variare a seconda dei casi, ma dovranno essere esplicite: l’ufficio che riceve l’istanza dovrà infatti rilasciare una ricevuta, anche in via telematica, nella quale è scritta la data entro cui deve arrivare la risposta, esplicita o tramite silenzio-assenso.
Come accade nel decreto anti-assenteismo, poi, a blindare il tutto intervengono le sanzioni: i dirigenti degli uffici che non pubblicano gli standard o che chiedono documenti ulteriori rispetto a quelli previsti dai modelli inciampano in un illecito disciplinare che a seconda della gravità del caso li sospenderà da servizio e stipendio per un periodo da tre giorni a sei mesi.
A completare il pacchetto delle semplificazioni approvate ieri in consiglio dei ministri arriva poi il regolamento che semplifica le procedure per le autorizzazioni paesaggistiche previste dal Codice dei beni culturali. Il decreto esclude dalle autorizzazioni anche nelle aree vincolate le opere interne che non alterano l’aspetto esteriore degli edifici, e prevede un iter alleggerito per una serie di opere considerate a basso impatto (per esempio gli incrementi non superiori a 100 metri cubi o al 10% della volumetria originaria) o per i rinnovi di autorizzazioni già ricevute in passato.
Il regolamento, a conferma del fatto che tra gli obiettivi di semplificazione e la loro traduzione pratica il passo non è breve, era previsto da un decreto del maggio 2014, ritoccato quattro mesi dopo dallo «sblocca-Italia», e avrebbe dovuto vedere la luce entro il novembre di quell’anno
(articolo Il Sole 24 Ore del 16.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAConferenza servizi, per chiudere 150 giorni (45 per casi semplificati). Autorizzazioni. La nuova disciplina si applicherà solo ai procedimenti avviati dopo l’entrata in vigore.
Cinque mesi per completare l’intera procedura nei casi più complessi, che possono scendere fino ad appena 45 giorni. Possibilità di svolgere le riunioni in via telematica e “asincrona”, cioè senza la presenza fisica dei rappresentanti delle varie amministrazioni. Una voce sola per tutte le Pa, per evitare sovrapposizioni, blocchi e veti. E acquisizione automatica dell’assenso di chi non si esprime.
Sono solo alcuni ingredienti della nuova conferenza di servizi che ieri il Consiglio dei ministri ha varato in via definitiva. Molte le conferme rispetto alla prima versione del decreto che attua la delega Madia, ma qualche novità di peso è arrivata all’ultimo minuto.
Soprattutto, accogliendo alcune osservazioni formulate da Consiglio di Stato, Conferenza unificata e Parlamento, è stato previsto che alle riunioni della conferenza possono essere invitati i privati interessati, inclusi i soggetti che hanno proposto il progetto, per depositare documenti e memorie. Ed è stata anche inserita una tagliola per regolare la fase transitoria: le norme ormai prossime alla pubblicazione si applicheranno, quindi, solo alle nuove procedure.
La strada ordinaria da seguire per acquisire pareri e intese di diverse amministrazioni diventa la conferenza semplificata. Andrà svolta in modalità “asincrona”, dice il decreto, cioè senza la presenza fisica dei vari rappresentanti delle amministrazioni coinvolte attorno a un tavolo, ma con scambio di documenti via mail. La conferenza deve essere indetta entro cinque giorni lavorativi dall’inizio del procedimento d’ufficio o dal ricevimento della domanda e deve concludersi in tempi certi.
Per la precisione, ai partecipanti alla conferenza vengono assegnati 45 giorni per fornire il proprio parere. Un ritmo serrato, dal momento che nella prima versione del decreto veniva fissato un limite massimo di 60 giorni. Il termine raddoppia e sale a 90 giorni per gli enti di tutela ambientale, paesaggistica, culturale e della salute dei cittadini. La mancata pronuncia entro il termine viene considerata alla stregua di un assenso incondizionato. Al contrario, gli eventuali dissensi devono essere «non superabili» per portare a una pronuncia negativa.
La seconda strada, da seguire «solo quando è strettamente necessaria», porta alla conferenza simultanea, cioè con la presenza dei rappresentanti delle amministrazioni, «ove possibile anche in via telematica». Anche in questo caso la conclusione del procedimento deve avvenire entro 45 giorni dalla prima riunione. E varrà la regola del rappresentante unico. Ciascun ente invitato, cioè, potrà farsi rappresentare da un unico soggetto. Nel caso di amministrazioni statali, addirittura, è previsto che parleranno tutte per bocca di un unico soggetto, «abilitato ad esprimere definitivamente in modo univoco e vincolante la posizione di tutte». A indicare il rappresentante unico sarà Palazzo Chigi o, nel caso di amministrazioni statali periferiche, il prefetto. In caso di disaccordo, le altre amministrazioni potranno mettere a verbale il loro parere negativo ma non potranno incidere sulla volontà del rappresentante unico.
Una terza alternativa viene prevista per i progetti di particolare complessità e per gli insediamenti produttivi di beni e servizi. Su motivata richiesta dell’interessato, corredata da uno studio di fattibilità, l’amministrazione potrà indire una conferenza preliminare «finalizzata a indicare al richiedente», le condizioni per ottenere il via libera. Per i progetti da sottoporre a valutazione di impatto ambientale si procede di norma con una sola conferenza di servizi da svolgere in forma simultanea e non con due procedimenti paralleli come accaduto finora. Fanno eccezione i procedimenti relativi a progetti sottoposti a valutazione ambientale di competenza statale.
Una volta conclusa la conferenza, resta la possibilità di fare opposizione. Ma non per tutti, Entro dieci giorni dalla conclusione della conferenza gli enti di tutela possono chiedere l’intervento del Consiglio dei ministri. Un chiarimento importante arriva, infine, nella parte che regola le norme transitorie. Le disposizioni del decreto, infatti, saranno applicate solo ai procedimenti avviati «successivamente alla data della sua entrata in vigore»
(articolo Il Sole 24 Ore del 16.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: Un solo sportello per la Scia. Moduli standard, info per e-mail, iter semplificati. CONSIGLIO DEI MINISTRI/ Ultimo sì al decreto sulla segnalazione attività.
One stop shop per la nuova Scia. Si va da un solo sportello per presentare la segnalazione certificata di inizio attività, anche quando ci sono procedimenti connessi di competenza di più p.a. e quando ci sono catene di Scia (l'una presupposto di altra).

La procedura semplificata è prevista dallo schema di decreto legislativo in attuazione dell'articolo 5 della legge 124/2015, approvato ieri in via definitiva dal Consiglio dei ministri.
Il decreto in commento stabilisce la disciplina generale applicabile alle attività private soggette a segnalazione certificata di inizio di attività (Scia), ma non vengono elencati i casi in cui si può ricorrere alla segnalazione. Anzi si rinvia a successivi decreti legislativi l'individuazione delle attività oggetto di mera comunicazione, di Scia o di silenzio assenso, nonché di quelle per le quali è necessario il titolo espresso. Tutte le attività private non espressamente disciplinate dai decreti o dalla normativa europea, statale o regionale non sono soggette a controllo preventivo.
Ma vediamo in dettaglio i profili di semplificazione.
Moduli standard e poco da chiedere. Il cittadino deve ricevere dalla p.a. moduli chiari e completi sulle circostanze da dichiarare e su eventuali documenti da allegare alle pratiche. Per l'edilizia e le attività produttive ci saranno modelli standard a livello italiano. Se i singolo enti non provvedono ai modelli standard, si attiva il potere sostitutivo, in salita, di regioni e stato. L'amministrazione deve stabilire prima che cosa serve, pubblicando sul sito i modelli e da subito tutte le dichiarazioni, attestazioni, asseverazioni e simili d allegare alla Scia.
Solo in via eccezionale la p.a. può chiedere documenti al cittadino. Anzi c'è un solo caso residuale, e cioè la mancata corrispondenza del contenuto dell'istanza, segnalazione o comunicazione e dei relativi allegati rispetto ai fatti che l'ente richiede in generale a corredo delle istanze/segnalazioni. Per il resto è vietata ogni richiesta di informazioni o documenti ulteriori rispetto a quelli che sono indicati preventivamente come necessari o di documenti in possesso di una pubblica amministrazione.
Stipendio in fumo. Se non si fa la pubblicazioni delle dichiarazioni/attestazioni che servono per la singola pratica, ci va di mezzo lo stipendio del funzionario pubblico: la sanzione disciplinare è della sospensione dal servizio con privazione della retribuzione da tre giorni a sei mesi. Lo stesso se si chiedono documenti diversi da quelli pubblicati.
Ricevuta. Il decreto obbliga a rilasciare una ricevuta della segnalazione o istanza presentata. Nella ricevuta si indica quando scatta il silenzio-assenso o il termine di conclusione del procedimento. Per i termini non si può giocare sulla differenza tra protocollazione dell'istanza e giorno (precedente) di effettiva presentazione: le due date devono essere identiche.
Controlli sulla Scia. Se durante i controlli sulla scia, emergono vizi regolarizzabili non si può sospendere l'attività, ma si apre un subprocedimento finalizzato alla regolarizzazione. La sospensione scatta, invece, in presenza di attestazioni non veritiere o di pericolo per la tutela dell'interesse pubblico in materia di ambiente, paesaggio, beni culturali, salute, sicurezza pubblica o difesa nazionale. L'atto motivato interrompe il termine di 60 giorni (previsto per i controlli dell'ente competente), che ricomincia a decorrere dalla data in cui il privato comunica l'adozione delle misure.
Sportello unico Scia. Si prevede un solo sportello, di regola telematico, per la presentazione della Scia. Si tratta di one stop shop anche per procedimenti connessi a più p.a. e per Scia a servizio di altre Scia.
Domicilio digitale. Tutti i cittadini hanno la possibilità di indicare un indirizzo e-mail per ricevere tutte le comunicazioni.
Silenzio-assenso. I termini del silenzio assenso decorrono dalla data di ricevimento della domanda del privato.
Responsabilità. È responsabile il funzionario pubblico che ha lasciato correre una Scia o una istanza non conforme alla normativa, per le quali è sempre possibile l'attività di vigilanza.
Enti locali e regioni. Devono adeguare i propri regolamenti alla nuova Scia entro il 01.01.2017 (articolo ItaliaOggi del 16.06.2016).

EDILIZIA PRIVATA: In edilizia uno snellimento dei regimi amministrativi.
Mappatura completa e precisa individuazione delle attività oggetto di procedimento di mera comunicazione o segnalazione certificata di inizio attività (Scia) o di silenzio-assenso, nonché quelle per le quali è necessario il titolo espresso, con conseguenti disposizioni normative di coordinamento. Semplificazione di regimi amministrativi in materia edilizia.

Lo prevede lo schema di decreto legislativo, approvato ieri dal consiglio dei ministri in via preliminare, recante «Norme in materia di regimi amministrativi delle attività private (Scia 2)», in attuazione della delega (legge 07.08.2015, n. 124).
Conferenza dei servizi. Via libera definitivo, invece, a un decreto legislativo recante norme per il riordino della disciplina in materia di conferenza dei servizi, in attuazione dell'articolo 2 della legge 07.08.2015, n. 124.
Nello specifico, spiega una nota di palazzo Chigi, si abbattono i tempi lunghi attivando la conferenza semplificata, che non prevede riunioni fisiche ma solo l'invio di documenti per via telematica; la conferenza simultanea con riunione (anche telematica) si svolge solo quando è strettamente necessaria; l'assenso delle amministrazioni che non si sono espresse si considera acquisito; ciascun livello di governo parlerà con una sola voce; il termine della conferenza, oggi di fatto indefinito, viene stabilito perentoriamente in al massimo cinque mesi.
Interpreti e traduttori nei procedimenti penali. Approvato, in esame definitivo, un decreto legislativo recante disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 04.03.2014, n. 32, di attuazione della direttiva 2010/64/Ue sul diritto all'interpretazione e alla traduzione nei procedimenti penali.
Viene previsto che, nei casi in cui l'interprete o il traduttore risieda nella circoscrizione di altro tribunale, il giudice possa chiedere al giudice delle indagini preliminari del luogo di residenza dell'ausiliario di procedere per rogatoria alle attività di identificazione, ammonimento e conferimento di incarico.
Vengono anche dettate le regole che attuano il diritto al colloquio con il difensore assistito gratuitamente dall'interprete, prevedendo che nei casi che legittimano l'assistenza gratuita dell'interprete a spese dello stato l'imputato abbia diritto a un colloquio soltanto in riferimento al singolo atto da compiere, salvo che si ravvisino particolari esigenze collegate all'esercizio del diritto di difesa. E che, nel caso di soggetti indagati o imputati non abbienti, le spese spettanti anche per l'interprete e il traduttore rimangono comunque a carico dello stato.
Inoltre viene previsto che nel caso di particolari situazioni di urgenza (per esempio, nelle ipotesi di incidente probatorio disposto con urgenza e abbreviazione dei termini ordinari per imminente pericolo di vita del testimone), in assenza di una traduzione scritta prontamente disponibile degli atti per i quali è obbligatoria, l'autorità giudiziaria ne disponga, con decreto motivato, se ciò non pregiudica il diritto di difesa dell'imputato, la traduzione orale anche in forma riassuntiva, dandone atto in apposito verbale.
Presso il ministero della giustizia sarà istituito l'elenco nazionale degli interpreti e traduttori iscritti negli albi dei periti di ogni tribunale.
Apparecchiature radio. Via libera definitivo al decreto legislativo di attuazione della direttiva 2014/53/Ue del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16.04.2014, concernente l'armonizzazione delle legislazioni degli stati membri relative alla messa a disposizione sul mercato di apparecchiature radio e che abroga la direttiva 1999/5/Ce.
Si stabiliscono i requisiti essenziali che devono essere rispettati nella fabbricazione delle stesse apparecchiature e si fissano disposizioni relative agli obblighi degli operatori economici (fabbricanti, importatori, distributori), alla verifica di conformità degli apparecchi radio e alle sanzioni applicabili.
Autorizzazione paesaggistica. Approvato in esame preliminare un regolamento che individua gli interventi esclusi dall'autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata, ai sensi dell'art. 12 del decreto legge 31.05.2014 n. 83. Il regolamento razionalizza le procedure per l'autorizzazione paesaggistica per gli interventi di lieve entità, come l'eliminazione delle barriere architettoniche.
Contrattazione p.a. L'esecutivo ha autorizzato il ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione Maria Anna Madia a esprimere il parere favorevole del governo sull'ipotesi di contratto collettivo nazionale quadro (Ccnq) per la definizione dei comparti di contrattazione collettiva e delle relative aree dirigenziali per il triennio 2016-2018, firmata il 05.04.2016.
Si riduce il numero dei comparti e delle aree di contrattazione. Sono individuati quattro comparti di contrattazione collettiva: comparto delle Funzioni centrali; comparto delle Funzioni locali; comparto dell'Istruzione e della ricerca; comparto della Sanità (articolo ItaliaOggi del 16.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGO: P.a., stretta leggera sui furbetti. Garantito l'assegno alimentare. Meno rischi per i dirigenti. CONSIGLIO DEI MINISTRI/ Ok definitivo al dlgs Madia. Statali infedeli sospesi entro 48 ore.
Si fa un po' più soft la stretta sui «furbetti del cartellino». Gli statali, scovati ad attestare il falso sulla propria presenza in ufficio, saranno sospesi dal lavoro senza stipendio entro 48 ore. Ma conserveranno comunque il diritto all'assegno alimentare (circa il 50% dello stipendio base).
Il procedimento disciplinare, che si potrà concludere con il licenziamento del dipendente, dovrà durare al massimo 30 giorni, calcolati dalla contestazione dell'addebito, durante i quali però lo statale messo sotto accusa avrà piene garanzie di contraddittorio. Sarà convocato per esporre la propria difesa con un preavviso di almeno 15 giorni e potrà farsi assistere da un procuratore o da un rappresentante sindacale. Per i dirigenti viene eliminato lo spauracchio del reato di omissione di atti d'ufficio. Se non fanno partire il procedimento disciplinare o omettono di sospendere il dipendente infedele, saranno segnalati all'autorità giudiziaria che dovrà decidere se ci sono profili di responsabilità penale.

Il decreto Madia, che opera un giro di vite sulla falsa attestazione delle presenze nella p.a., ha tagliato ieri il traguardo dell'approvazione definitiva da parte del consiglio dei ministri in una versione un po' più edulcorata che tiene conto dei rilievi mossi dal Consiglio di stato e dal parlamento.
Il dlgs modifica il Testo unico sul pubblico impiego (dlgs n. 165/2001), così come novellato dalla legge Brunetta (dlgs n. 150/2009), con disposizioni ad hoc per introdurre un giro di vite sulla falsa attestazione delle presenze. Rischierà il posto non solo chi altera i sistemi di rilevamento delle presenze, ma anche chi si avvale dell'aiuto di terzi per risultare in servizio o trarre in inganno la p.a. di appartenenza. Quindi per esempio chi si fa timbrare il cartellino dal collega. In questo caso sia lo statale assenteista sia il «complice» risponderanno entrambi di falsa attestazione.
Una volta accertata la violazione (in flagranza o attraverso strumenti di videosorveglianza), il dipendente pubblico sarà sospeso entro 48 ore dal responsabile della struttura presso cui presta servizio o dall'ufficio competente per i procedimenti disciplinari. La sospensione dal servizio sarà senza stipendio, ma, come richiesto dal Consiglio di stato e dalle commissioni parlamentari, verrà comunque garantito il diritto del dipendente a percepire l'assegno alimentare.
Come detto, con il provvedimento di sospensione, la p.a. dovrà procedere alla contestazione dell'addebito a carico del dipendente e da quel momento inizieranno a decorrere i 30 giorni per la chiusura dell'iter disciplinare. Il dipendente sarà convocato per il contraddittorio con un preavviso di almeno 15 giorni e fino alla data dell'audizione potrà inviare una memoria scritta o, in caso di grave impedimento, formulare istanza di rinvio del termine per l'esercizio della difesa per non più di 5 giorni.
L'accertamento della falsa attestazione in servizio comporterà l'obbligo di denuncia al pubblico ministero e di segnalazione alla competente procura regionale della Corte dei conti entro 15 giorni dall'avvio del procedimento disciplinare. La procura erariale, entro tre mesi dalla conclusione del procedimento disciplinare, potrà procedere per danno all'immagine nei confronti del dipendente infedele. L'ammontare del danno sarà quantificato anche in relazione alla rilevanza mediatica del fatto e in ogni caso non potrà essere inferiore a sei mensilità dell'ultimo stipendio.
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L'analisi/1 - Termini solo ordinatori.
Termini solo ordinatori, cioè senza scadenza fissa, per licenziare i dipendenti assenteisti. Così il testo definitivo del decreto legislativo attuativo della «riforma-Madia», approvato ieri in via definitiva dal Consiglio dei ministri, prova a risolvere i problemi procedurali posti dalla stesura iniziale dello scorso gennaio.
Il risultato, tuttavia, non pare possa mettere al riparo dal caos operativo e dal rischio dell'incremento esponenziale del contenzioso davanti al giudice del lavoro, che potrebbe giocare scherzi molto brutti alle pubbliche amministrazioni intenzionate a licenziare i «furbetti del cartellino». Specie dopo la sentenza della Cassazione che ritiene ancora applicabile al lavoro pubblico la tutela del reintegro nel posto di lavoro.
L'assenteismo è generalmente di massa, come dimostrato dal caso eclatante del comune di San Remo. Generalmente, sono molti i dipendenti che si organizzano per coprirsi tra loro, in modo che qualcuno timbri al posto degli altri, mentre si assentano.
Il governo ha fatto dell'abbreviazione dei termini ordinari, 120 giorni, a soli 30 un cavallo di battaglia per evidenziare una maggiore velocità e decisione nel licenziare gli assenteisti. Tuttavia, molti avevano osservato che l'abbreviazione dei termini per concludere il procedimento disciplinare, lasciando 20 giorni di tempo per convocare i dipendenti e consentire loro di esprimere le difese in contraddittorio, avrebbe compromesso le buone intenzioni, perché sarebbero rimasti a disposizione 10 giorni: troppo pochi, specie quando i dipendenti interessati siano decine.
Il testo finale, per rispondere a questi problemi, allora prevede che nei confronti degli assenteisti colti in flagranza o ripresi da mezzi di registrazione visiva il responsabile della struttura (o dell'ufficio dei procedimenti disciplinari se informato per primo) adotti il provvedimento motivato di sospensione dal lavoro immediatamente e comunque entro 48 ore dal momento in cui il soggetto competente ne viene a conoscenza. Già costituirà un problema comprovare il momento nel quale emerge la piena conoscenza del fatto.
In ogni caso, la violazione del termine di 48 ore non determinerà, come conseguenza, la decadenza dall'azione disciplinare né l'inefficacia della sospensione cautelare; potrà scattare eventualmente la responsabilità del dipendente che abbia lasciato trascorrere il termine di 48 ore che, comunque, come si vede non è perentorio.
Il rimedio alle critiche sulla tempistica viene dal correttivo previsto: il provvedimento che dispone la sospensione cautelare deve contenere anche la contestuale contestazione per iscritto dell'addebito disciplinare la convocazione dell'incolpato davanti all'ufficio per i procedimenti disciplinari. Ma, il tempo che si guadagna è irrisorio: infatti, la convocazione per il contraddittorio a difesa dell'incolpato deve avere un preavviso di almeno 15 giorni, nel corso dei quali l'incolpato può inviare memorie scritte o anche chiedere in caso di grave, oggettivo e assoluto impedimento chiedere il rinvio per non più di altri 5 giorni. Dunque, in ogni caso alle amministrazioni resterebbero al massimo 15 giorni, dopo le audizioni, per adottare i licenziamenti, a meno che il tempo a disposizione non si riduca a 10, nei casi di rinvio.
Il procedimento disciplinare si dovrebbe concludere entro 30 giorni dalla ricezione della contestazione dell'addebito. Tuttavia, si prevede che «la violazione dei suddetti termini non determina la decadenza dall'azione disciplinare, né l'invalidità della sanzione irrogata, salvo che non risulti irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa del dipendente».
Dunque, si consente anche di sforare i termini. Ma, la configurazione dei termini come solo ordinatori e non perentori di per sé lede il diritto alla difesa, perché l'incolpato non può sapere mai con precisione quando decade il potere del datore di lavoro di agire in via disciplinare. La violazione dei termini o, comunque, l'allungamento dei procedimenti sarà certamente oggetto di vasti ricorsi al giudice del lavoro, per violazione del diritto alla difesa e, comunque, della procedura, con richiesta di reintegro.
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L'analisi/2 - Resta il diritto all'assegno alimentare.
Assegno alimentare per gli assenteisti colti in flagrante e sospesi dal servizio. Il testo finale del decreto anti «furbetti del cartellino» ha accolto molte delle richieste di correzione alla formulazione iniziale, avanzate dal Consiglio di stato e dalle commissioni di camera e senato.
Viene, infatti, fatto salvo anche successivamente all'adozione immediata della sospensione «il diritto all'assegno alimentare nella misura stabilita dalle disposizioni normative e contrattuali vigenti» durante la sospensione.
Eliminata anche la configurazione come reato di omissione d'atti d'ufficio dei casi di omessa comunicazione all'ufficio dei procedimenti disciplinari, omessa attivazione del procedimento disciplinare ed omessa adozione della sospensione cautelare senza giustificato motivo, a carico sia dei dirigenti o responsabili di servizio presso i quali operano i dipendenti assenteisti, sia dei responsabili degli uffici dei procedimenti disciplinari.
Il testo approvato dal consiglio dei ministri dispone che tali omissioni costituiscono fattispecie di illecito disciplinare eventualmente punibile con il licenziamento ed impone che di ciò l'ufficio competente per il procedimento disciplinare ne dia notizia all'autorità giudiziaria «ai fini dell'accertamento della sussistenza di eventuali reati».
Resta l'obbligo di segnalare il fatto alla competente procura regionale della Corte dei conti avvengono entro quindici giorni dall'avvio del procedimento disciplinare. Resta anche la possibilità che la magistratura contabile avvii l'azione risarcitoria entro i 120 giorni successivi alla denuncia, senza possibilità di proroga anche per danno di immagine, come nel testo iniziale.
L'ammontare del danno risarcibile sarà determinato in via equitativa dal giudice, che terrà conto dell'impatto mediatico dell'evento, fermo restando che l'eventuale condanna non può essere inferiore a sei mensilità dell'ultimo stipendio in godimento, oltre interessi e spese di giustizia (articolo ItaliaOggi del 16.06.2016).

PUBBLICO IMPIEGOPa, tempi certi per licenziare i «furbetti». Oggi l’ok finale al decreto con il licenziamento in 30 giorni: il lavoratore avrà due settimane per difendersi.
Nel consiglio dei ministri di oggi pomeriggio la riforma della Pubblica amministrazione incasserà tre approvazioni definitive per i decreti che rivedono le sanzioni contro l’assenteismo e riformano la Conferenza dei servizi e la Scia, e ancora sulla «segnalazione certificata di inizio attività» arriverà il primo via libera al provvedimento che fissa l’elenco delle procedure caso per caso.
Nel menu del governo, poi, dovrebbe rientrare l’ok definitivo alla riforma dei comparti pubblici, che riduce da 11 a 4 i contratti nazionali del pubblico impiego e pone la premessa indispensabile alla ripresa delle trattative; sul decreto enti locali, che blocca le sanzioni per le Città metropolitane e le Province che nel 2015 hanno sforato il Patto di stabilità e si è poi allargato a norme su altri aspetti come la sanità e l’agricoltura, l’appuntamento è invece per l’inizio di settimana prossima, insieme al disegno di legge con le misure per la sicurezza urbana.
Sul piano politico, ovviamente, il piatto forte è rappresentato dal provvedimento che prevede la sospensione in 48 ore e il licenziamento in 30 giorni dei dipendenti pubblici pescati in flagrante nelle false timbrature. I correttivi del testo finale, che raccolgono le sollecitazioni arrivate dal Parlamento e dal Consiglio di Stato, puntano a blindare questo calendario, prevedendo che entro 48 ore arrivi la sospensione e la «contestuale» contestazione dell’addebito; da qui partono i 30 giorni per arrivare al licenziamento, ma per garantire il diritto alla difesa del dipendente il contraddittorio andrà fissato almeno 15 giorni dopo la sospensione: nel periodo di attesa del verdetto, poi, il dipendente sospeso avrà diritto all’assegno alimentare.
Per i dirigenti che non fanno partire subito il procedimento disciplinare sarà prevista la segnalazione all’autorità giudiziaria, che avrà il compito di valutare se ci sono gli estremi per contestare il reato di omissione d’atti d’ufficio.
Anche sulla Scia e la Conferenza dei servizi il lavoro di rifinitura dei testi conferma gli obiettivi di fondo, che sono quelli di garantire a imprese e cittadini tempi e procedure certe nella definizione delle autorizzazioni, e accoglie una serie di indicazioni che giudici amministrativi e commissioni parlamentari hanno scritto nei loro pareri.
Sulla segnalazione certificata che serve a far partire una serie di attività, in particolare nell’edilizia, il testo finale del decreto precisa che gli enti locali non potranno effettuare richieste ulteriori rispetto a quelle del modello standard, per assicurare che la procedura telematica scritta nella riforma sia davvero la strada unica chiesta dall’amministrazione pubblica. Anche in questo caso, il termine chiave è quello dei 30 giorni, entro i quali la Pa dovrà dare il via libera, anche con silenzio assenso. Nel decreto definitivo si prevede che il conteggio parta dall’arrivo della segnalazione.
Sulla conferenza dei servizi, accanto a un ripensamento tecnico che trasforma una serie di norme in correttivi alla legge 241/1990 per evitare una dispersione eccessiva delle regole, arrivano due modifiche importanti, chieste anche dalle imprese nel corso delle audizioni. La prima amplia e specifica le possibilità per i privati di partecipare e presentare documenti alla conferenza semplificata, e la seconda chiarisce che la riforma si applicherà a partire dalle nuove procedure
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.06.2016).

APPALTI: Comuni, aggregazioni rinviate. In attesa della qualificazione della Pa più spazi per gare in autonomia.
Appalti. Il nuovo codice nella fase transitoria ammorbidisce i vincoli a carico delle piccole amministrazioni.

Aggregazione delle stazioni appaltanti ferma un giro. I piccoli Comuni, almeno per qualche mese, saranno considerati qualificati e potranno fare in autonomia le gare entro i 209mila euro per servizi e forniture e fino a un milione di euro per i lavori di manutenzione ordinaria, purché utilizzino una procedura elettronica. Soglie molto più elevate di qualche settimane fa, quando queste stesse amministrazioni erano costrette a restare entro il bassissimo tetto di 40mila euro o a passare da un soggetto aggregatore.
È questo il paradossale effetto che deriva dall’entrata in vigore delle nuove norme del Codice appalti (Dlgs n. 50 del 2016) e che l’Anac ha messo nero su bianco in un comunicato datato 8 giugno 2016: in attesa che entrino in vigore le regole sulla qualificazione delle stazioni appaltanti, basta iscriversi all’Anagrafe unica tenuta proprio dall’Anticorruzione per fare tutto da soli, purché si passi da strumenti telematici di negoziazione, messi a disposizione da soggetti come Consip.
Per capire questo complesso intreccio di norme, bisogna partire dalla situazione del vecchio Codice (Dlgs n. 163 del 2006). L’articolo 33, comma 3-bis, consentiva ai Comuni non capoluogo di procedere all’acquisizione di lavori, beni e servizi solo tramite unioni di Comuni, accordi consortili o soggetti aggregatori. Unica eccezione: gli appalti sotto la soglia di 40mila euro, per i quali si poteva fare tutto in autonomia.
Quella norma, dopo una serie di proroghe, è andata in vigore lo scorso novembre, con qualche ritocco nella legge di Stabilità. Il nuovo Codice, rispetto a questo assetto, porta diverse correzioni. E stabilisce anzitutto, come spiega l’Anac, che i Comuni non capoluogo «possono procedere all’acquisizione di servizi di importo inferiore a 40mila euro e di lavori di importo inferiore a 150mila euro direttamente e autonomamente». Quindi, la soglia per l’autonomia nei lavori passa da 40mila a 150mila euro.
Sopra questi tetti, in base alla riforma, la stazione appaltante dovrà essere qualificata per fare le gare, secondo un sistema che sarà regolato dall’Anac. Un modo per garantire un alto livello di professionalità delle amministrazioni. C’è, però, un’eccezione molto rilevante: questa qualificazione, stando a quanto spiega l’Authority, «nel periodo transitorio si intende sostituita dall’iscrizione all’Anagrafe unica delle stazioni appaltanti».
Lo dice chiaramente l’articolo 216 del nuovo Codice: fino all’entrata in vigore del sistema di qualificazione, i relativi requisiti sono soddisfatti tramite la semplice iscrizione all’anagrafe. Questa iscrizione, però, non garantisce nessun controllo sulla professionalità delle amministrazioni, a differenza del sistema che arriverà. Lo testimonia il fatto che, ad oggi, sono circa 8mila i Comuni che compaiono negli elenchi dell’Anticorruzione. Praticamente tutti.
Quindi, per gli appalti dei piccoli Comuni, in attesa che si chiuda la fase transitoria con l’approvazione di un Dpcm che dovrà regolare la qualificazione delle stazioni appaltanti, dallo scorso 19 aprile c’è stata un’apertura parecchio importante.
In base a quanto spiega l’Autorità, per gli acquisti di forniture e servizi che arrivano fino a 209mila euro e per i lavori di manutenzione ordinaria che non superano il milione, «i Comuni non capoluogo di provincia, se iscritti all’Anagrafe unica delle stazioni appaltanti, possono procedere all’affidamento mediante utilizzo autonomo degli strumenti telematici di negoziazione», messi a disposizione da soggetti come Consip o da altre centrali di committenza.
Nell’immediato, quindi, non c’è nessun incentivo alle aggregazioni. Le piccole amministrazioni potranno continuare a fare gare in autonomia, entro soglie parecchio più alte del passato
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGOPer i dipendenti pubblici escluse le dimissioni online. Fine del rapporto di lavoro. Decreto del governo.
La procedura di comunicazione telematica delle dimissioni e delle risoluzioni consensuali è obbligatoria solo per i dipendenti privati, mentre non si applica ai rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni: lo stabilisce una norma (articolo 6, comma 3) contenuta nello schema di decreto correttivo del Jobs Act approvato in via preliminare dal Consiglio dei ministri venerdì scorso e in attesa di essere posto all’esame del Parlamento.
La norma risolve una questione interpretativa sorta all’indomani dell’entrata in vigore dell’articolo 26 del Dlgs n. 151/2015, che ha introdotto una nuova procedura obbligatoria per la presentazione delle dimissioni e delle risoluzioni consensuali. Sulla base di tale procedura le dimissioni sono valide solo se il lavoratore, da solo o mediante l’ausilio di una struttura abilitata, comunica su un apposito sito del ministero del Lavoro la propria intenzione di recedere dal rapporto.
La legge istitutiva di questa controversa procedura, nella versione antecedente al correttivo appena approvato, esonerava solo alcune tipologie di rapporti dall’obbligo di seguire la comunicazione telematica; considerato che il pubblico impiego non veniva contemplato nell’elenco delle esclusioni, molti commentatori avevano sollevato il dubbio che la procedura valesse anche per le amministrazioni.
Il ministero del Lavoro (prima con la circolare n. 12/2016, poi con le risposte alle Faq pubblicate sul sito www.cliclavoro.gov.it) ha sostenuto una posizione diversa, evidenziando che la procedura non sarebbe applicabile al lavoro pubblico in quanto il fenomeno delle dimissioni in bianco non sarebbe presente in tale settore; questa lettura era molto originale ma non si fondava su alcuna norma di legge.
L’entrata in vigore della norma correttiva risolve la questione, dando un fondamento normativo solido a tale lettura, chiarendo l’inapplicabilità sia della procedura telematica, sia della regola che dà diritto al lavoratore di revocare le dimissioni (o il consenso prestato alla risoluzione consensuale) entro 7 giorni dalla comunicazione: le dimissioni potranno continuare ad essere rassegnate in forma semplice, seguendo soltanto le norme del codice civile e quelle eventualmente fissate dalla contrattazione collettiva di riferimento.
Da notare che l’esclusione della procedura vale soltanto per i dipendenti delle amministrazioni pubbliche statali e locali rientranti nell’articolo 1, comma 2, del Dlgs n. 165/2001 (il testo unico sul pubblico impiego); questo significa che la procedura telematica dovrà, invece, essere obbligatoriamente seguita per i lavoratori delle imprese che operano in regime di diritto privato, pur avendo un azionista pubblica, come ad esempio le aziende municipalizzate.
La procedura telematica –secondo quanto previsto dal Dlgs n. 151/2015– non si applica neanche per le dimissioni e le risoluzioni consensuale convalidate presso alcune delle sedi protette per i rapporti di lavoro domestico e per gli atti compiuti dalla lavoratrice e dal lavoratore entro i primi tre anni di vita del bambino (in questo caso continua ad applicarsi la procedura speciale di convalida prevista dal Testo Unico Maternità).
La circolare n. 12/2016 ha aggiunto altre fattispecie alla lista delle esclusioni, esonerando dalla procedura i rapporti di lavoro in prova e quelli di lavoro marittimo (in quanto il relativo rapporto di lavoro sarebbe regolato da una normativa esclusiva); non è da escludere che nei prossimi mesi siano necessari ulteriori chiarimenti in merito a fattispecie speciali (quali, ad esempio, il lavoro degli sportivi professionisti, soggetto alle regole speciali della legge 91/1981)
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.06.2016).

EDILIZIA PRIVATA: La pratica del 65% va compilata online. Le istruzioni Enea in merito alla domanda di detrazione.
La pratica per la detrazione del 65% per la riqualificazione di un immobile (da utilizzarsi fino al 31.12.2016) deve essere compilata online, registrandosi sul sito http://finanziaria2016.enea.it/index.asp e accedendo poi alla propria tipologia di intervento realizzato. La documentazione deve essere inviata entro 90 giorni dalla data di fine lavori sempre online tramite il sito, quindi stampata, firmata e conservata per un eventuale controllo da parte delle autorità competenti.
Queste le istruzione Enea in merito all'invio della domanda di detrazione fiscale del 65% per riqualificazione degli immobili.
Il Caf (Centro assistenza fiscale) o il commercialista possono richiedere copia della pratica inviata e dei documenti conservati per procedere alla richiesta di detrazione in sede di dichiarazione dei redditi e devono avere copia del codice Cpid (codice personale identificativo) che viene ritornato all'utente per posta elettronica dall'Enea, una volta ricevuta la documentazione. Accedendo all'area personale del sito http://finanziaria2016.enea.it/index.asp  si potranno anche modificare le pratiche già inserite tramite l'apposito link «modifica pratica».
La modifica annulla e sostituisce la precedente pratica; al termine della correzione si dovrà, quindi, rinviare la pratica modificata per ottenere un nuovo codice Cpid. È importante non annullare la pratica prima ancora di averla modificata, cliccando sul link «annulla pratica». In questo modo la pratica originale viene cancellata e se sono già trascorsi 90 giorni dal termine dei lavori, il sistema non permetterà l'inserimento di una nuova pratica che sostituisca la vecchia e a nome dell'utente non sarà più presente nessuna pratica.
Inoltre è necessario conservare entrambe le ricevute, quella della prima compilazione e quella della successiva modifica, in modo da dimostrare di avere effettivamente inserito la propria pratica entro 90 giorni dal termine dei lavori e di averla modificata solo in seguito.
La comparsa di una segnalazione relativa a campi non compilati non deve necessariamente essere considerata come un errore, se tale compilazione non è obbligatoria. Tale segnalazione, infatti, può valere solo come promemoria. Continuare nella compilazione e immettere i dati che verranno accettati dal sistema (articolo ItaliaOggi del 15.06.2016).

PUBBLICO IMPIEGOAssenteisti, «segnalato» il dirigente che non punisce.
Verso il Cdm. Parola al giudice sulla contestazione dell’omissione di atti d’ufficio se non si avvia subito il procedimento disciplinare - In calendario anche le riforme di Scia e Conferenza dei servizi e l'ok finale all’intesa sui comparti.

Per i dirigenti pubblici che non attivano subito il procedimento disciplinare a carico degli assenteisti scatterà la segnalazione automatica all’autorità giudiziaria, che dovrà valutare caso per caso i presupposti per il reato di omissione d’atti d’ufficio.
Anti-assenteismo
Il decreto anti-assenteismo nella pubblica amministrazione è pronto per il Consiglio dei ministri con questo correttivo, chiesto da Consiglio di Stato e Parlamento e anticipato sul Sole 24 Ore dell’8 giugno. Il testo finale rafforza anche il calendario della procedura, con l’obiettivo di blindare gli obiettivi della sospensione in 48 ore e del licenziamento in 30 giorni per i dipendenti pubblici che vengono individuati in flagrante a timbrare l’entrata e poi evitare l’ufficio.
Per evitare rischi, il testo finale dovrebbe prevedere che la notifica sia «contestuale» alla contestazione, in modo da far partire subito il conto alla rovescia; nei casi, che a questo punto dovrebbero essere residuali, di ritardo, i 30 giorni partirebbero comunque dalla notifica. Per i dipendenti sospesi e in attesa del verdetto, infine, sarà previsto l’assegno alimentare, come accade negli altri casi di sospensione disciplinare.
Il nodo dei contratti
Insieme al via libera finale sui decreti che tagliano i tempi della conferenza dei servizi e introducono il modello standard per la Scia, il decreto anti-licenziamenti sarà il piatto forte nel menu del Consiglio dei ministri, che dovrebbe approvare anche l’intesa per ridurre da 11 a 4 i comparti pubblici, siglata da Aran e sindacati il 6 aprile e passata al vaglio dell’Economia, e quindi riavviare le trattative sul rinnovo dei contratti del pubblico impiego.
I tempi, in realtà, non sono immediati, perché l’intesa andrà esaminata entro 15 giorni dalla Corte dei conti, dopo di che servirà un mese per le riaggregazioni dei sindacati nei nuovi compartoni delle «funzioni centrali» (dove vengono “fusi” ministeri, agenzie ed enti pubblici) e della «conoscenza» (scuola, università e ricerca). Il contesto, insomma, si completerà ai primi di agosto, ma è probabile che le trattative vere e proprie entrino nel vivo in autunno, con il nuovo testo unico del pubblico impiego già definito. Sul piano economico, ieri la ministra per la Pa e la Semplificazione Marianna Madia ha smentito l’ipotesi di aumenti limitati sui redditi fino a 26mila euro, ma ha ribadito che «chi ne guadagna 200mila può aspettare».
In pratica, l’atto di indirizzo confermerà l’obiettivo di ritocchi salariali inversamente proporzionale ai livelli di reddito, ma toccherà ad Aran e sindacati provare a trovare la quadra fra le richieste e le risorse a disposizione.
Il decreto enti locali
In pista per il Consiglio dei ministri c’è anche il decreto enti locali, slittato venerdì scorso perché va ancora completato il quadro delle coperture su una serie di norme per regioni autonome (a partire dai 500 milioni di compartecipazione Irpef alla Sicilia), sanità e agricoltura.
Nel capitolo sugli enti locali che dà il nome al provvedimento è confermato l’azzeramento delle sanzioni da un miliardo per le Città metropolitane e le Province che hanno sforato il Patto di stabilità 2015 (si veda Il Sole 24 Ore di venerdì scorso), già scontato dalla finanza pubblica grazie ai surplus ottenuti dai Comuni: almeno per ora, però, non è previsto nessun ritocco alle penalità per i 126 Comuni (altri 58 non hanno mandato la certificazione secondo l’ultimo censimento) che hanno sforato i vincoli di finanza pubblica, per i quali l’Anci chiede di replicare le sanzioni soft (20% dello sforamento e 2% delle entrate correnti).
Il correttivo-investimenti
Nel cantiere del decreto entra poi il problema della frenata degli appalti prodotta dall’esigenza di adeguamento alle regole del nuovo Codice entrato in vigore senza un periodo transitorio adeguato (a maggio, come raccontato dal Sole 24 Ore di domenica, il valore dei bandi comunali è stato inferiore del 79% rispetto allo stesso mese del 2015).
Il blocco e i tempi tecnici per superarlo adeguandosi alle nuove regole rischiano di azzoppare la ripresa degli investimenti locali prodotta dall’addio al Patto di stabilità, che la Ragioneria generale stimava fra il 10 e 15%, e di ribloccare le risorse “liberate” già a fine 2015 dal cambio delle regole per i bilanci pubblici.
Il rischio, senza correttivi, è che i progetti avviati non arrivino all’aggiudicazione definitiva entro l’anno, e che quindi la spesa in conto capitale torni a congelarsi nell’avanzo di amministrazione: per evitare il problema si studia un correttivo che permetta di mantenere libere le risorse collegate a investimenti che arrivino entro fine anno al progetto definitivo ed esecutivo, anche nei casi in cui l’aggiudicazione ritardi di qualche mese, ma sul punto la discussione è ancora aperta
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: La farmacia non fa interferenza. Segnaletica stradale/parere del mintrasporti.
Le insegne delle farmacie possono anche essere di colore vivace ma quando sono posizionate vicino ai segnali e ai semafori non devono creare interferenze e devono essere posizionate parallelamente al senso di marcia dei veicoli.

Lo ha chiarito il Ministero dei Trasporti con il parere 26.05.2016 n. 3139 di prot..
Un comune ha richiesto chiarimenti circa il corretto posizionamento di insegne luminose in prossimità di impianti semaforici, stante la particolare tecnologia a led che rende molto brillanti le nuove insegne farmaceutiche. A parere del ministero oltre all'art. 23 del codice della strada occorre prestare particolare attenzione agli artt. 50 e 51 del regolamento stradale.
In particolare l'art. 23 del codice specifica che qualsiasi insegna non deve arrecare disturbo alla circolazione ovvero deve essere evitata qualsiasi interferenza con la guida. Stante l'obbligatorietà dell'insegna farmaceutica da un lato e la necessità di salvaguardare la sicurezza della circolazione stradale dall'altro, il comune ha richiesto istruzioni di dettaglio. L'art. 50 del regolamento del codice stradale, specifica la nota centrale, prevede che dentro ai centri abitati trovi applicazione il locale regolamento anche in riferimento all'apposizione delle insegne farmaceutiche.
In buona sostanza è nella piena facoltà del comune adottare provvedimenti che limitino l'intensità e la direzionalità dei fasci luminosi emessi dall'impianto pubblicitario. Per garantire la sicurezza della circolazione il primo cittadino può sempre imporre ulteriori restrizioni all'esercente anche in considerazione della resa cromatica degli impianti. Ma prima di tutto andrà verificata la corrispondenza delle installazioni con le previsioni del codice stradale ed in particolare con le distanze minime previste dall'art. 51 del regolamento stradale.
Queste distanze, prosegue il parere ministeriale, potranno essere derogate solo nel caso in cui l'insegna di esercizio sia collocata parallelamente al senso di marcia e in aderenza a un fabbricato esistente. In pratica quindi se l'insegna è perpendicolare al traffico non potrà essere posizionata a ridosso di un incrocio o di un semaforo (articolo ItaliaOggi del 14.06.2016).

EDILIZIA PRIVATAFotovoltaico senza scartoffie. Nessun accatastamento per l'impianto su tetti e balconi. Una circolare dell'Agenzia delle entrate sulle novità di fiscalità immobiliare 2016.
Gli impianti fotovoltaici perdono la rendita, per il solo fatto che gli stessi siano realizzati su edifici o su aree di pertinenza, anche a comune, non devono essere accatastati come unità autonome. E nei contratti di locazione, a prescindere dal fatto che il locatore sia il soggetto obbligato alla registrazione, permane la solidarietà passiva ai fini tributari con il conduttore.

Queste alcune delle precisazioni fornite dall'Agenzia delle entrate, con la circolare 13.06.2016 n. 27/E, nell'ambito della manifestazione dei 130 anni del Catasto.
Fotovoltaico. Le Entrate precisano che, con decorrenza dal 01.01.2016, alla luce del comma 21, dell'art. 1, legge 208/2015 (Stabilità 2016) e di recenti precisazioni (circ. 2/E/2016), per gli impianti dichiarati «autonomamente» in catasto devono essere considerati il suolo (impianti a terra), l'elemento strutturale (solaio o copertura) e gli eventuali locali che ospitano i sistemi di controllo e trasformazione (locali tecnici).
Con riferimento, invece, alle installazioni realizzate su edifici o aree di pertinenza (balconi, tetti, cortili e quant'altro), anche a comune, non vi è alcun obbligo di accatastamento come unità immobiliari «autonome» e, di conseguenza, di assegnazione di una specifica rendita, poiché gli stessi possono essere considerati come «assimilati» agli impianti di pertinenza degli immobili.
Nel caso in cui gli impianti siano collocabili quali pertinenze di impianti speciali e/o particolari (gruppi «D» ed «E»), a decorrere dal 1° gennaio scorso, il proprietario deve procedere con una variazione per la rideterminazione della rendita dell'unità immobiliare di cui l'impianto è pertinenza, ma esclusivamente quando il detto impianto incrementa il valore capitale di una percentuale pari al 15%.
Locazioni. Sul punto l'Agenzia ha preso atto delle novità introdotte dal comma 1, dell'art. 13, legge 431/1998 (locazioni abitative) che impongono al locatore di provvedere alla registrazione del contratto di locazione nel termine «perentorio» di 30 giorni dalla data della relativa stipula (con invio, nei successivi sessanta giorni, di una comunicazione documentata al conduttore e all'amministratore di condominio) e ha fornito i necessari chiarimenti sulla solidarietà passiva tributaria e sull'utilizzo dell'istituto del ravvedimento operoso, di cui all'art. 13, dlgs 472/1997.
In effetti, la nuova norma si poneva apparentemente in contrasto con l'art. 57, del dpr 131/1986 (Tur), che prevede la solidarietà tra il locatore e il conduttore, per la registrazione del contratto e il versamento dell'imposta di registro. L'Agenzia delle entrate ha confermato che la modifica introdotta ha natura esclusivamente civilistica e che, quindi, non impatta sulla disciplina tributaria, di cui all'art. 10 del Tur, con la conseguenza che, pur essendo posto a carico del locatore l'obbligo di registrazione del contratto, ai fini fiscali entrambi i soggetti (e l'eventuale intermediario, ai sensi della lettera d-bis, art. 10 del Tur) sono solidalmente responsabili.
Le Entrate precisano, inoltre, che rimangono inalterate le sanzioni prescritte dall'art. 69 del Tur (dal 120% al 240% dell'imposta dovuta o dal 60% al 120%, con un minimo di 200 euro, in caso di registrazione tardiva entro 30 giorni) con la possibilità del ravvedimento operoso. Con riferimento alla proroga «tacita» del contratto, le parti devono comunicare la stessa alle Entrate entro 30 giorni dal suo verificarsi, utilizzando l'apposito modello (RLI) al fine di evitare la sanzione, ravvedibile, del 30% dell'imposta di registro dovuta.
Prima casa. Con il comma 55, dell'art. 1 della Stabilità 2016, il legislatore ha introdotto la possibilità di acquistare un nuovo immobile, da parte di un soggetto che ha già beneficiato dell'agevolazione per l'unità abitativa già in possesso, purché lo stesso proceda nell'alienazione di quest'ultima entro un anno dal nuovo acquisto. L'Agenzia ha preliminarmente precisato che, in caso di mancata alienazione dell'immobile, già posseduto entro l'anno dal nuovo acquisto, il contribuente può segnalare detta circostanza, evitando di pagare le sanzioni prescritte, versando soltanto la differenza tra l'imposta ordinaria dovuta e l'imposta agevolata versata, applicando gli interessi al saggio legale ma evitando l'ulteriore aggravio del 30% a titolo di sanzione.
Non solo. Dopo la scadenza del termine annuale, il contribuente può utilizzare l'istituto del ravvedimento operoso, ottenendo la riduzione della sanzione, presentando una specifica istanza all'ufficio territoriale dell'Agenzia delle entrate, con il quale dichiari l'intervenuta decadenza dell'agevolazione ottenuta, tenendo conto della nuova modulazione della regolarizzazione, ma considerando che i diversi termini decorrono dal giorno in cui si è verificata la decadenza del bonus ovvero dal giorno in cui matura l'anno della stipula dell'atto (articolo ItaliaOggi del 14.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Furbetti, il dirigente può sospenderli senza contraddittorio Procedimento disciplinare contingentato in 30 giorni. Al prossimo consiglio dei ministri l'ok finale al decreto madia. Quando si applicano le norme del contratto.
Al via la riforma del procedimento disciplinare. All'ordine del giorno del prossimo consiglio dei ministri è atteso, per l'ok definitivo, lo schema del decreto legislativo recante modifiche all'art. 55-quater, introdotto nel decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 dall'art. 69, comma 1, del decreto legislativo n. 150/2009, contenente disposizioni più incisive e soprattutto più immediate sul licenziamento disciplinare nella pubblica amministrazione.
Rispetto allo schema di decreto approvato dal consiglio dei ministri in via preliminare il 20.01.2016, quello che entrerà in vigore dopo la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale dovrebbe comunque apportare alcune delle modifiche richieste dalle commissioni parlamentari I e XI della camera dei deputati e dal senato della repubblica, oltre che dal Consiglio di stato.
Il decreto si inserisce nel pacchetto di riforma del ministro della funzione pubblica, Marianna Madia.
La sanzione disciplinare del licenziamento, ferma la disciplina in tema di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo e salvo ulteriori ipotesi previste dal contratto collettivo (per la scuola l'art. 91 e seguenti del contratto 2007), continuerà senza modifiche ad applicarsi nei casi di cui alla lettera b, c), d), e) ed f) del comma 1 dell'art. 55-quater come di seguito sintetizzati:
- b) assenza priva di valida giustificazione ovvero mancata ripresa del servizio, in caso di assenza ingiustificata, entro il termine fissato dall'amministrazione;
- c) ingiustificato rifiuto del trasferimento disposto dall'amministrazione per motivate esigenze di servizio;
- d) falsità documentali o dichiarative commesse ai fini o in occasione dell'instaurazione del rapporto di lavoro ovvero di progressione di carriera:
- e) reiterazione nell'ambiente di lavoro di gravi condotte aggressive o moleste o minacciose o ingiuriose o comunque lesive dell'onore e della dignità personale altrui;
- f) condanna penale definitiva, in relazione alla quale è prevista l'interdizione perpetua dai pubblici uffici ovvero l'estinzione, comunque denominata, del rapporto di lavoro.
Le modifiche che il nuovo decreto legislativo introduce nell'art. 55-quater riguardano infatti la lettera a) del comma 1 dell'art. 55-quater (falsa attestazione della presenza in servizio). Si dispone infatti che costituisce falsa attestazione della presenza in servizio, oltre a quella realizzata mediante l'alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza, qualunque modalità fraudolenta posta in essere, anche avvalendosi di terzi per fare risultare il dipendente in servizio o trarre in inganno l'amministrazione presso la quale il dipendente presta la propria attività lavorativa circa il rispetto dell'orario di lavoro dello stesso. Della violazione risponderà anche chi ha agevolato la condotta fraudolenta, con la propria condotta attiva o omissiva.
Ma la vera novità consiste nella introduzione di una nuova fattispecie di sospensione cautelare obbligatoria che si applica, entro 48 ore e senza obbligo di preventiva audizione dell'interessato, in casi di falsa attestazione della presenza in servizio accertata in flagranza ovvero mediante strumenti di sorveglianza o di registrazione degli accessi o delle presenze. Al dipendente che sarà sospeso cautelativamente dal servizio dovrà comunque essere corrisposta un assegno alimentare, avente natura non retributiva, ma assistenziale, pari alla metà della retribuzione.
Altra importante novità è la durata dell'iter del procedimento disciplinare che dovrà essere ultimato entro il trentesimo giorno dalla data di notifica al dipendente del procedimento in corso.
Nel testo finale del decreto legislativo non potrà peraltro non mancare una precisazione circa la natura giuridica della omissione da parte del dirigente che non sanziona il dipendente infedele. E che a sua volta verrà sanzionato (articolo ItaliaOggi del 14.06.2016).

EDILIZIA PRIVATAFotovoltaico, i primi passi del nuovo modello unico. Ma la conoscenza ancora limitata della procedura frena le pratiche.
Autorizzazioni. Operativo da gennaio l’iter semplificato per installazioni fino a 20 kW.

Modello unico fotovoltaico, i primi passi. In vigore dallo scorso 24 novembre, la procedura semplificata per l’autorizzazione dei piccoli impianti di produzione di energia elettrica, aderenti o integrati sui tetti degli edifici, è pienamente operativa. E a dimostrarlo sono i dati forniti dal Gse (Gestore dei servizi energetici) che, da gennaio a oggi, ha ricevuto dai gestori di rete 600 richieste di attivazione del servizio di scambio sul posto e ha stipulato quasi 200 convenzioni.
Tuttavia, a frenare l’impiego della nuova procedura –che snellisce i passaggi per installare i sistemi domestici– è anche la scarsa conoscenza del modello stesso.
Secondo Anie (associazione confindustriale delle imprese elettrotecniche ed elettroniche) esiste un problema di scarsa informazione, anche a livello comunale, che inceppa il buon funzionamento di un meccanismo di per sé virtuoso.
Procedura più snella
Approvato dal ministero dello Sviluppo economico con il decreto del 19.05.2015 (che agisce su norme preesistenti), il modello è denominato “unico” perché sostituisce tutta la modulistica eventualmente adottata dai Comuni, dai gestori di rete (ad esempio Enel) e dal Gse, e riduce i diversi adempimenti finora previsti a due soli passaggi: la comunicazione preliminare e quella di fine lavori.
Entrambi i passaggi possono oggi essere indirizzati a un solo soggetto, cioè l’impresa distributrice sulla cui rete insiste il punto di connessione esistente, che si incarica di svolgere il ruolo di interfaccia unitaria con tutti gli altri soggetti coinvolti nell’iter autorizzativo.
La semplificazione è riservata agli impianti di piccola taglia, con potenza nominale fino a 20 kW e comunque non superiore a quella già disponibile in prelievo. Impianti aderenti o integrati ai tetti con la stessa inclinazione e lo stesso orientamento della falda, installati presso clienti finali già dotati di punti di prelievo in bassa tensione (dove non ci sia ulteriore produzione fotovoltaica), e per i quali sia richiesto l’accesso al regime di scambio sul posto.
«La procedura –commenta Davide Valenzano, responsabile degli Affari regolatori del Gse– è notevolmente snellita rispetto al passato. Prima dell’inizio dei lavori, chi intende realizzare l’impianto compila una comunicazione preliminare che viene trasmessa, per via informatica, al gestore della rete. Un passaggio che sostituisce ogni adempimento autorizzativo. Allo stesso modo, al termine dei lavori va poi inviata la seconda parte del documento, che comprende dati tecnici sull’impianto, la dichiarazione di conformità alle disposizioni normative di riferimento e la presa visione e accettazione del regolamento di esercizio e del contratto di scambio sul posto con il Gse».
Il modello, spiega lo stesso Gse, sta iniziando a funzionare. «Il flusso di domande processate dai gestori di rete, che sono oltre un centinaio in Italia, è partito da gennaio. Certo –prosegue Valenzano– come tutte le nuove procedure, per tirare bilanci complessivi bisogna ancora attendere».
Difficoltà applicative
In concreto, non mancano però le difficoltà. Soprattutto perché chi dovrebbe applicare la norma dimostra spesso di non conoscerla a fondo.
Durante questi primi mesi di applicazione, si sono infatti registrati casi di pratiche interrotte per la richiesta di documentazioni aggiuntive (fotografie, planimetrie, schemi dell’impianto), che il gestore della rete non era in realtà tenuto a presentare e che sono “ricadute” sull’utente finale.
Il tutto evidentemente in contrasto con lo spirito di semplificazione della disciplina. Un altro tipo di ostacolo è poi nato intorno alla questione dell’autorizzazione paesaggistica che, come chiarito anche dallo stesso decreto del Mise, non è invece richiesta per l’installazione degli impianti in edilizia libera o soggetti a Dia (cioè quelli trattati dal modello unico), se non in casi di vincolo peculiari.
«A complicare la situazione –commenta Alberto Pinori, presidente di Anie– c’è sicuramente il fatto che, come spesso accaduto in Italia in altri casi simili, il modello unico è contenuto in una norma non redatta ex novo, ma che a sua volta rimanda ad altre norme precedenti. Questo, aggiunto alla scarsa conoscenza dello strumento da parte di alcun funzionari degli enti locali, ha favorito in certi casi gli impedimenti, obbligando i titolari a rinunciare all’uso del modello unico. In fin dei conti, un’occasione mancata, pur in presenza di una procedura che costituisce una reale semplificazione per gli utenti»
(articolo Il Sole 24 Ore del 13.06.2016).

APPALTI - ENTI LOCALINel nuovo Dup il programma degli acquisti. Documento da approvare entro il 31 luglio ma crescono le incognite sulle competenze.
Contabilità. La riforma del Codice appalti impone la previsione biennale per tutte le operazioni di valore unitario pari o superiore a 40mila euro.

Sono ancora molti i dubbi e le incertezze procedurali che accompagnano la nuova edizione del documento unico di programmazione. Entro il 31 luglio la giunta deve presentare al Consiglio lo schema di Dup per la nuova programmazione 2017 e anni successivi con il parere di attendibilità e congruità dei revisori dei conti.
In base all’articolo 151 del Tuel, il Dup è composto dalla sezione strategica, di durata pari a quella del mandato amministrativo, e dalla sezione operativa, triennale. La sezione strategica sviluppa le linee programmatiche di mandato e individua gli indirizzi strategici, anche con riferimento alle partecipate, mentre la sezione operativa contiene i principali atti programmatori dell’ente, quali il piano delle opere pubbliche, i fabbisogni del personale, il piano delle alienazioni e valorizzazioni immobiliari, il piano degli acquisti e i piani triennali di razionalizzazione e riqualificazione della spesa.
Il Dup al 31 luglio anticipa i tempi previsti dalla legge per la programmazione degli acquisti di beni e servizi e dei lavori pubblici. Secondo l’articolo 21 del nuovo Codice degli appalti (Dlgs 50/2016), le amministrazioni pubbliche devono adottare il programma delle acquisizioni, che si compone del programma biennale degli acquisti di beni e servizi (di importo unitario pari o superiore a 40mila euro) e del programma triennale dei lavori pubblici. In attesa che sia emanato il decreto attuativo del ministro delle Infrastrutture (il termine è di 90 giorni dall’entrata in vigore del Codice), le amministrazioni sono infatti tenute ad applicare la disciplina precedente, in base alla quale la giunta deve adottare il programma dai lavori pubblici entro il 15 ottobre dell’anno antecedente al triennio di riferimento.
Per garantire la coerenza del sistema di programmazione occorre verificare la corrispondenza fra le previsioni di bilancio e quelle di realizzazione delle opere pubbliche già in sede di Dup. Anche se la normativa sulla programmazione dei lavori pubblici non lo prevede (perché non in linea con l’armonizzazione), per ogni intervento programmato occorre produrre il cronoprogramma, attraverso cui individuare l’esigibilità e quindi l’imputazione della spesa per ogni esercizio. Per le opere per le quali non è possibile predisporre il cronoprogramma dovrebbe essere fornita adeguata motivazione e seguire le indicazioni del principio contabile.
Anche la programmazione del fabbisogno del personale presente nella sezione operativa del Dup appare poco coordinata con la normativa di settore, secondo cui la competenza all’adozione dell’atto è assegnata alla giunta (Consiglio di Stato, sentenza 1208/2010).
Tempi e competenze per l’approvazione di questi diversi strumenti di programmazione dovranno dunque essere allineati. La presentazione del documento al consiglio entro il 31 luglio costituisce infatti il primo passo dell’intero ciclo di programmazione dell’ente. Il Consiglio potrà successivamente approvare il Dup come presentato dalla giunta o chiedere integrazioni e modifiche per la predisposizione dell’eventuale nota di aggiornamento. Poiché la legge non ha fissato un termine per la deliberazione consiliare, spetta al regolamento di contabilità disciplinarne le modalità. In ogni caso il Consiglio deve deliberare in tempo utile per consentire alla giunta la presentazione dell’eventuale aggiornamento del Dup entro la scadenza del 15 novembre.
Entro quel termine, infatti, la giunta deve presentare al consiglio, con lo schema di delibera del bilancio di previsione, la nota di aggiornamento del Dup, corredata dalla relazione dei revisori. Ciò in vista dell’approvazione consigliare entro il 31 dicembre del Dup e del preventivo 2017
(articolo Il Sole 24 Ore del 13.06.2016).

CONSIGLIERI COMUNALI: Professionisti amministratori è un aut aut. Interrogazione.
O professionisti o amministratori locali. L'aut aut che sta costringendo geometri, avvocati, architetti, ingegneri che siano stati eletti in amministrazioni locali a rinunciare all'incarico pubblico pur di preservare la propria attività professionale, finisce sul tavolo del governo. Sarà il ministro dell'interno, Angelino Alfano, a dover chiarire l'orientamento ufficiale dell'esecutivo sulla discussa norma del dl 78/2010 che, interpretata in modo restrittivo dalla sezione autonomie della Corte dei conti, ha posto i professionisti-amministratori locali davanti a un bivio.

Il numero uno del Viminale è stato chiamato in causa da un'interrogazione (Interrogazione a risposta in commissione 5-08842) del deputato Pd Simonetta Rubinato sottoscritta anche dai colleghi Floriana Casellato, Alessia Rotta, Diego Crivellari ed Ezio Primo Casati.
Oggetto del contendere è la lettura dell'art. 5 comma 5 del decreto che vieta ai titolari di cariche elettive la possibilità di percepire compensi per lo svolgimento di qualsiasi incarico conferito dalle p.a., eccezion fatta per i rimborsi spese e per eventuali gettoni di presenza che non possono superare l'importo di 30 euro a seduta.
Sull'interpretazione da dare alla norma si sono infatti alternate due opposte visioni. Quella, più a maglie larghe, del ministero dell'interno che ha circoscritto il divieto di cumulo ai soliti incarichi conferiti dalla p.a. in relazione alla carica elettiva, e quella restrittiva della sezione autonomie secondo cui «la disciplina vincolistica si riferisce a tutte le ipotesi di incarico comunque denominato».
Alfano dovrà chiarire non solo l'orientamento del governo sulla querelle ma anche «se e quali iniziative, anche normative, intenda adottare al fine di escludere la portata applicativa della disposizione a quegli incarichi eventualmente conferiti all'amministratore, nell'ambito della sua attività libero professionale, da enti diversi da quello di appartenenza» (articolo ItaliaOggi dell'11.06.2016).

PUBBLICO IMPIEGORiforma della dirigenza verso lo slittamento.
È sempre più probabile lo slittamento della riforma della dirigenza pubblica. Sulla strada che porta all'approvazione del decreto legislativo attuativo dell'art. 11 della legge Madia pesa come un macigno il ricorso alla Consulta presentato dalla regione Veneto. E anche il Consiglio di stato ha invitato il governo a un supplemento di riflessione.
Secondo l'amministrazione guidata da Luca Zaia, la norma in questione presenta diversi vizi di illegittimità costituzionale. Essa, infatti, si porrebbe in contrasto con la costante giurisprudenza della Corte, che ha ritenuto che l'impiego pubblico anche regionale deve ricondursi, per i profili privatizzati del rapporto, all'ordinamento civile e quindi alla competenza legislativa statale esclusiva, mentre i profili «pubblicistico-organizzativi» rientrano nell'ordinamento e organizzazione amministrativa regionale, e quindi appartengono alla competenza legislativa residuale delle regioni.
Al contrario, nell'art. 11 vengono stabiliti puntuali principi e criteri direttivi rivolti a disciplinare direttamente anche la dirigenza regionale, senza che intervenga alcuna distinzione e qualificazione, all'interno di questi, di quei «principi generali dell'ordinamento» che soli sarebbero idonei a vincolare la potestà legislativa regionale in materia. Inoltre, nello stabilire un principio generale di ampliamento delle ipotesi di mobilità senza considerare che la selezione dei dirigenti in servizio è avvenuta sulla base dell'accertamento di specifiche competenze tecniche da parte dell'ente che ha bandito il concorso, la legge Madia si porrebbe in contrasto anche con il principio di ragionevolezza e buon andamento.
La serietà di tale contestazioni è stata confermata dal Consiglio di stato, che nel parere rilasciato lo scorso 5 maggio in relazione al decreto sulla nomina dei dirigenti sanitari, ha evidenziato come il ricorso del Veneto metta a rischio la tenuta dell'intero disegno riformatore, di fatto invitando il governo a rimettere mano alla questione.
Da qui il probabile rinvio, anche perché i tempi sono strettissimi. La delega scade il 28 agosto e per di più il ministro Madia si è personalmente impegnata, nel marzo scorso, a sottoporre, preventivamente ad Anci il testo del decreto prima dell'esame preliminare in Consiglio dei ministri. Ma un testo definitivo, al momento, non c'è (articolo ItaliaOggi dell'11.06.2016).

AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI: Ordinanze d'urgenza motivate. Rifiuti.
Ordinanze contingibili e urgenti per la gestione dei rifiuti proporzionate, motivate ed emanate dando conto, in motivazione, del parere espresso dai competenti organi tecnico-sanitari. Tali ordinanze, sostanzialmente discrezionali (che, in caso di eccezionali e urgenti necessità ambientali e sanitarie, possono essere emanate dal sindaco, dal presidente della giunta regionale o della provincia) se emanate in assenza dell'acquisizione dei pareri tecnici sulle conseguenze ambientali devono ritenersi radicalmente illegittime.

Lo sottolinea il Ministero dell'ambiente con la circolare 22.04.2016 n. 5982, nella quale si mettono nero su bianco presupposti e limiti dei provvedimenti ex art. 191 «Codice ambientale» (dlgs 152/2006).
L'acquisizione del parere degli organi tecnico-sanitari locali, spiega il dicastero, «mira a contenere la discrezionalità dell'amministrazione la quale deve essere limitata dalla necessità di dar conto, nella scelta delle speciali forme (straordinarie, ndr) di gestione dei rifiuti delle valutazioni espresse dagli organi competenti». L'espressione «dar conto», peraltro, suggerisce un obbligo di acquisire il parere tecnico e di riportarlo in motivazione e non una necessità di adeguarsi al parere stesso.
Nella circolare si ricordano i presupposti del provvedimento: l'urgenza, la contingibilità, l'impossibilità di provvedere con metodi ordinari. Sotto tale profilo, si ribadisce che con l'ordinanza contingibile e urgente non si possono prorogare affidamenti pubblici di servizi (l'amministrazione dovrà effettuare una nuova gara a evidenza pubblica). Oltre a essere motivata, l'ordinanza dovrà avere una durata massima (sei mesi).
Nella circolare, infine, vengono indicati alcuni esempi di ordinanze contingibili e urgenti ammissibili: l'autorizzazione di depositi temporanei o siti di stoccaggio rifiuti in caso di eventi alluvionali o l'autorizzazione di centri raccolta che stiano effettuando lavori di rifacimento (articolo ItaliaOggi del 10.06.2016).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Chi usa il Sistri deve conservare per tre anni i documenti.
Gli utilizzatori del Sistri devono conservare a disposizione delle autorità di controllo per almeno tre anni dalla data di registrazione o di movimentazione la copia in formato elettronico di ogni movimento del registro cronologico e della scheda di movimentazione. Le schede per le operazioni di smaltimento dei rifiuti in discarica devono essere conservate al contrario a tempo indeterminato ed al termine dell'attività devono essere consegnati all'autorità che ha rilasciato l'autorizzazione. Per calcolare il numero di dipendenti della singola unità locale, occorre fare riferimento al numero medio degli addetti nell'anno solare precedente a quello a cui si riferisce il pagamento del contributo Sistri, indipendentemente dalla chiusura del bilancio.

Queste alcune delle novità contenute negli ultimi due documenti in materia di Sistri (manuale operativo Sistri e procedure di iscrizione e gestione del fascicolo aziendale) redatti dal ministero dell'ambiente guidato da Gian Luca Galetti.
Ma andiamo con ordine e cerchiamo di sintetizzare le novità attuative del decreto ministeriale del 30.03.2016 n. 78 entrato in vigore lo scorso 08.06.2016.
Registro cronologico. Gli operatori iscritti al Sistri comunicano le quantità e le caratteristiche qualitative dei rifiuti oggetto della loro attività mediante la compilazione del registro cronologico. Quest'ultimo è costituito dalle registrazioni cronologiche prodotte e firmate elettronicamente sul Sistri.
Le registrazioni cronologiche una volta firmate devono essere scaricate e conservate elettronicamente presso la sede legale dell'azienda. Queste, comunque, rimarranno anche negli archivi informatici del Sistri in modo che possano essere messe a disposizione delle autorità di controllo. Mediante l'utilizzo della applicazione «gestione azienda» accessibile in area autenticata del sito sistri (www.sistri.it) è possibile modificare la descrizione del registro cronologico assegnando identificativi personalizzati.
Tale funzionalità consente infatti di rinominare i registri cronologici al fine di renderli immediatamente individuabili nella consultazione o nella compilazione delle registrazioni cronologiche di ogni singolo registro in base alle esigenze operative.
Pagamento contributo Sistri. Il contributo è versato da ciascuna azienda iscritta per ciascuna attività di gestione dei rifiuti svolta all'interno dell'unità locale. Il contributo si riferisce all'anno solare di competenza, indipendentemente dal periodo di effettiva fruizione del servizio, e deve essere versato al momento dell'iscrizione.
Negli anni successivi, il contributo è versato entro il 30 aprile dell'anno al quale i contributi si riferiscono. Tale disposizione si applica anche agli operatori che hanno aderito volontariamente al Sistri anche qualora, nel medesimo anno solare, optino per il ritorno al sistema cartaceo.
Per le imprese, a esclusione di quelle di raccolta e trasporto dei rifiuti, il contributo, determinato in relazione alle quantità dei rifiuti ed, eventualmente, alla tipologia degli stessi, è dovuto per ciascuna unità locale e per la sede legale, qualora quest'ultima produca e/o gestisca rifiuti e per ciascuna operazione di recupero o smaltimento svolta all'interno dell'unità locale o della sede legale, qualora quest'ultima produca e/o gestisca rifiuti.
Per le unità locali in cui insistano più unità operative da cui originano in maniera autonoma rifiuti per le quali è stato richiesto un dispositivo per ciascuna unità operativa, il calcolo dei contributi è effettuato per ciascuna unità operativa (articolo ItaliaOggi del 10.06.2016).

ENTI LOCALI: Mini enti, spetta ai consigli rinviare la contabilità.
Gli enti locali fino a 5.000 abitanti possono rinviare al 2017 l'adozione del nuovo sistema di contabilità economico-patrimoniale, ma devono adottare una espressa deliberazione consiliare. In tal caso, l'obbligo di approvare il bilancio consolidato slitterà al 30.09.2018.

La tenuta della contabilità economico-patrimoniale rappresenta un ulteriore adempimento imposto dal dlgs 118/2011 agli città metropolitane, province e comuni, che devono garantire la rilevazione dei fatti gestionali nel rispetto del principio contabile generale n. 17 della competenza economica e dei principi applicati di cui agli allegati n. 1 e n. 4/3.
È bene precisare che si tratta di una rilevazione contestuale a quella in contabilità finanziaria, attraverso l'adozione del piano dei conti integrato, che «trasforma» gli accertamenti di entrata e gli impegni/liquidazioni in costi/oneri e ricavi/proventi e ne misura gli effetti patrimoniali.
Per la generalità degli enti non sperimentatori, il 2016 è il primo anno di applicazione delle nuove regole, dato che quasi tutti nel 2015 si sono avvalsi della facoltà di rinviarla di un anno.
Per i soli enti fino a 5.000 abitanti (comuni, ma anche unioni di comuni), l'art. 232, comma 2, del Tuel consente un ulteriore differimento al 2017. Per avvalersi di tale facoltà, però, occorre l'autorizzazione espressa del consiglio comunale. Pertanto, laddove gli enti non abbiano operato già nel 2015 un rinvio «secco» di due anni, è necessario adottare una nuova deliberazione.
La contabilità economico-patrimoniale è legata a doppio filo al bilancio consolidato, anch'esso imposto dal dlgs 118. Il consolidato, infatti, è un bilancio tipicamente civilistico, la cui redazione presuppone la corretta tenuta delle scritture economico-patrimoniali.
Per la generalità degli enti, il primo appuntamento con questo nuovo strumento è al 30.09.2017, allorché occorrerà approvare il bilancio consolidato 2016.
Per i mini enti che si sono avvalsi o si avvarranno della facoltà di proroga della contabilità economico-patrimoniale al 2017, invece, il primo consolidato dovrà essere approvato entro il 30.09.2018. Sempre che, prima di allora, tale obbligo non venga cancellato, come sarebbe probabilmente opportuno, per le amministrazioni di modeste dimensioni (articolo ItaliaOggi del 10.06.2016).

APPALTILa tutela ambientale premia. I criteri minimi dovranno essere applicati al 100% nel 2020. Le indicazioni in due decreti del ministero di Galletti pubblicati sulla G.U. del 07.06.2016.
Criteri ambientali minimi da rispettare negli appalti pubblici e valutabili in sede di offerta con incrementi premiali nei punteggi; applicazione progressiva dei Cam nelle specifiche tecniche e nelle clausole contrattuali, per passare dal 50% a fine 2015 al 100% nel 2020.

È quanto prevedono due decreti del ministero dell'ambiente del 24.05.2016 pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale del 07.06.2016, n. 131.
Il primo provvedimento è quello recante la determinazione dei punteggi premianti (nell'ambito del criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa) per l'affidamento di servizi di progettazione e lavori per la nuova costruzione, ristrutturazione e manutenzione degli edifici e per la gestione dei cantieri della pubblica amministrazione (ma il provvedimento si applica anche alle forniture di articoli di arredo urbano).
In esso è stabilito che verrà assegnato, alle offerte tecniche, un punteggio pari almeno al 5% del punteggio tecnico ai progetti che «prevedono l'utilizzo di materiali o manufatti costituiti da un contenuto minimo di materiale post-consumo, derivante dal recupero degli scarti e dei materiali rivenienti dall'assemblaggio dei prodotti complessi, maggiore rispetto a quanto indicato nelle corrispondenti specifiche tecniche».
Nel decreto, che modifica il precedente decreto ministeriale del dicembre 2015, si stabilisce anche uno specifico onere per il progettista, tenuto a dichiarare «se tale materiale o manufatto sia o meno utilizzato al fine del raggiungimento dei valori acustici riferiti alle diverse destinazioni d'uso degli immobili oggetto di gara» e ad allegare anche una dichiarazione del produttore dalla quale deve risultare la provenienza del materiale di recupero utilizzato (deve emergere se si tratta di materiale derivato da post-consumo o da scarti di lavorazione o da disassemblaggio dei prodotti complessi, o loro combinazione, per quanto tecnicamente possibile). Inoltre deve essere allegata anche l'attestazione se il manufatto o il materiale sia in possesso di marcatura Ce.
Il decreto integra inoltre l'allegato 1 al decreto ministeriale 05.02.2015 sui criteri ambientali per le forniture di articoli di arredo urbano definendo dei criteri premianti legati al maggiore contenuto di materiale riciclato, con un sistema impostato in analogia a quello dei prodotti da costruzione.
Il secondo decreto riguarda l'incremento progressivo della percentuale del valore a base d'asta a cui riferire l'obbligo di applicare le specifiche tecniche e le clausole contrattuali dei criteri ambientali minimi. Il testo riguarda i servizi di pulizia, anche resi in appalti di global service, e le forniture di prodotti per l'igiene, quali detergenti per le pulizie ordinarie, straordinarie; i servizi di gestione del verde pubblico e forniture di ammendanti, piante ornamentali e impianti di irrigazione; i servizi di gestione dei rifiuti urbani; le forniture di articoli di arredo urbano; le forniture di carta in risme e carta grafica.
Per tutti questi affidamenti si prevede che scatti l'obbligo, per le stazioni appaltanti, di inserire nella documentazione di gara almeno le «specifiche tecniche» e le «clausole contrattuali» dei criteri ambientali minimi, relativamente alle seguenti percentuali minime delle prestazioni da affidare: il 62% dal 01.01.2017, il 71% dal 01.01.2018, l'84% dal 01.01.2019; il 100% dal 01.01.2020.
Fino al 31.12.2016 le amministrazioni saranno comunque tenute a rispettare almeno la percentuale del 50% del valore a base d'asta a cui è da riferire l'obbligo di applicare le specifiche tecniche e le clausole contrattuali dei criteri ambientali minimi (articolo ItaliaOggi del 10.06.2016).

EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTIPannelli fotovoltaici esenti se installati su «unità speciali». I casi particolari. Le indicazioni.
Per gli impianti fotovoltaici su edifici la circolare dell’agenzia delle Entrate 36/2013 non prevede l’obbligo di accatastamento per quelli minimali.
Gli impianti attualmente accertati in catasto sono sostanzialmente distinguibili in due categorie. Una prima afferente gli impianti costituenti unità immobiliare finalizzate alla produzione di energia elettrica principalmente da immettere sul mercato (di norma categoria D/1 o D/10), e una seconda categoria di impianti a corredo di unità immobiliari aventi altra destinazione d'uso principale (spesso anche abitativa e categoria ordinaria).
Se si tratta di unità immobiliare in categoria speciale o particolare, fatta eccezione per il caso di pannelli fotovoltaici integrati nelle strutture (tetto o facciate dell'edificio) quindi inseparabili senza danneggiamento della struttura (per i quali non è consentito lo scorporo, secondo le indicazioni fornite dall'Agenzia delle Entrate), è sempre possibile presentare una dichiarazione di variazione per lo sgravio dei pannelli e delle relative apparecchiature e linee elettriche dal computo della rendita.
Per gli impianti fotovoltaici accertati in catasto come impianti a corredo di unità immobiliari a destinazione ordinaria, i pannelli non sono scomputabili dalla rendita, perché non strumentali a un ciclo produttivo, ma associabili ad impianti fissi di un fabbricato ordinariamente apprezzabili per usi diversi dell'unità immobiliare.
Per gli impianti fotovoltaici a terra e su serre agricole lo sgravio segue le stesse regole per gli impianti fotovoltaici realizzati nell'ambito degli edifici. In questa tipologia i pannelli sono sempre scorporabili. Di fatto è bene ricordare che le serre agricole, catastalmente e fiscalmente, non sono considerati fabbricati ma sono iscrivibili in catasto con reddito agrario e dominicale sulla base del quale scontano le imposte immobiliari. In tali casi, ferme restando le modalità di censimento indicate nella nota 31892 del 22.06.2012 della direzione centrale Catasto, dalla rendita catastale delle unità immobiliari censite in categoria D/10 dovrà essere scomputato l'incidenza dei pannelli e delle relative apparecchiature e linee elettriche.
Carroponti, gru e pese sono esclusi dalla stima della rendita nell'ambito dell'industria manifatturiera. Ma appare evidente l'escludibilità in ogni tipologia produttiva per analogia e, a maggior ragione, se si considera che spesso tali mezzi sono strumentali al solo spostamento per fini manutentivi delle apparecchiature e macchinari produttivi installati, da non considerare nella rendita
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

CONSIGLIERI COMUNALIAmministratori locali tutelati. Giro di vite contro le intimidazioni. Arresto in flagranza. Ok del senato sul ddl. Pene inasprite per gli atti ritorsivi. Scompare la diffamazione.
Più tutele per gli amministratori locali contro le intimidazioni. Chi usa violenza o minaccia contro sindaci, consiglieri e assessori per impedirne o turbarne l'attività, oppure per ottenere, ostacolare o impedire il rilascio di un provvedimento, andrà incontro alla reclusione da uno a sette anni secondo quanto previsto dall'art. 338 del codice penale.
E se colto in flagranza di reato potrà essere arrestato. Non solo. Chi compie atti di natura ritorsiva (lesioni personali, violenza privata, minaccia o danneggiamento) nei confronti dei componenti di un corpo politico, amministrativo o giudiziario a causa dell'adempimento del mandato o del loro servizio, subirà un inasprimento della pena che verrà aumentata da un terzo alla metà.
Nessun pericolo però per i giornalisti che non rischieranno più il carcere fino a nove anni se accusati di aver diffamato a mezzo stampa un politico, un amministratore pubblico o un magistrato. All'ultimo minuto, infatti, la diffamazione è stata espunta dall'elenco di reati per i quali il ddl sul contrasto delle intimidazioni a danno degli amministratori locali prevede l'aumento di pena.

«Abbiamo voluto evitare qualunque tipo di strumentalizzazione per non svilire un provvedimento che tutta l'Italia aspetta», ha spiegato a ItaliaOggi Giuseppe Cucca, relatore del disegno di legge che è stato approvato in prima lettura al senato con 180 sì, 43 astensioni (di M5S e Lega) e nessun voto contrario.
«Non ci sono mai stati dubbi sul fatto che il nuovo articolo 339-bis del codice penale, con cui si prevede un'aggravante qualora un certo tipo di reati sia commesso contro un amministratore locale a causa dell'adempimento del mandato, delle funzioni o del servizio, non si sarebbe applicato alla diffamazione a mezzo stampa. Per far scattare l'aumento di pena la diffamazione avrebbe dovuto avere natura ritorsiva richiedendo un dolo specifico da parte dell'autore».
«Nulla a che vedere», ha proseguito Cucca, «con la comune diffamazione a mezzo stampa, che non viene contemplata assolutamente e resta regolata dalla normativa vigente. In ogni caso per evitare altre strumentalizzazioni e polemiche infondate che avrebbero nuociuto all'intero impianto del ddl, abbiamo deciso di cancellare dal testo dell'articolo 3 anche il riferimento all'articolo 595 del codice penale e non vi sarà più alcun legame con il reato della diffamazione», conclude il senatore del Pd.
Il disegno di legge trae origine dal lavoro svolto dalla commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle intimidazioni ai danni degli amministratori locali, la quale, costituita all'inizio della legislatura, ha concluso la propria attività il 26.02.2015. La Commissione ha sollecitato un intervento urgente del parlamento per arginare un fenomeno che in 40 anni ha visto l'uccisione di 132 amministratori locali e 11 congiunti.
«La Costituzione», ha sottolineato Doris Lo Moro, capogruppo del Pd in commissione Antimafia, già presidente della commissione Intimidazioni e prima firmataria del disegno di legge, «pretende che a tutti i rappresentati delle istituzioni siano richieste dignità ed onore, ma queste persone vanno anche tutelate. Non si tratta di un privilegio, o tantomeno dell'ennesima tutela della casta, ma di proteggere persone che nel compimento del proprio dovere vengono fatte oggetto di intimidazioni e minacce e che peraltro rappresentano lo stato sul territorio. Per questo non condivido l'astensione dei senatori del Movimento 5 stelle».
La replica dei pentastellati non si è fatta attendere. «Ancora una volta il Pd e la maggioranza hanno approfittato di una norma sacrosanta per dare più tutela anche alla casta dei parlamentari che non ne aveva assolutamente bisogno», ha affermato il capogruppo M5s in commissione giustizia al senato, Enrico Cappelletti. «Abbiamo sempre condiviso la preoccupazione e la necessità di intervenire con una norma di maggiore tutela per gli amministratori locali. Ma non è accettabile che il Pd abbia esteso tutele anche ai parlamentari ed è proprio questo che abbiamo voluto denunciare con il nostro voto di astensione» (articolo ItaliaOggi del 09.06.2016).

APPALTIAppalti, a rischio un’impresa su 5. L’effetto-tagliola colpisce le Pmi: possibile esclusione per 5.500 unità.
Lavori pubblici. Con le nuove regole di qualificazione più difficile provare i requisiti per l’attestazione Soa.

Un’impresa di costruzione su cinque rischia di uscire dal mercato dei lavori pubblici. Mentre una su due potrebbe essere costretta a limitare il suo raggio d’azione. Il nuovo codice appalti (Dlgs n. 50/2016), nella parte che riguarda le attestazioni, pone tutti i presupposti per un massacro delle Pmi: per effetto della regola che impone di guardare agli ultimi cinque anni di fatturato per sottoscrivere il contratto Soa, molti operatori dovranno ridimensionarsi.
L’analisi del casellario Anac dà una dimensione preoccupante a questa valanga in arrivo: su 29mila imprese attestate, sono circa 14.500 quelle che in futuro rischiano il taglio di una categoria o di una classifica e sono quasi 5.500 quelle che potrebbero doversi limitare alle gare sotto i 150mila euro, che non prevedono attestazione Soa.
Il primo tassello di questo caos è stato piantato nell’ultimo milleproroghe (decreto n. 210/2015). Qui è stata rinviata fino al prossimo 31 luglio una previsione già in vigore da anni: per dimostrare i requisiti di fatturato, in fase di sottoscrizione del contratto Soa, si guardava ai dieci anni che precedono la firma.
Questo assetto serviva a favorire le imprese in un periodo di crisi. Con l’entrata in vigore del nuovo codice appalti, dal 19 aprile scorso, il regime di favore è stato cancellato. L’effetto di questo taglio è che si torna alla regola fissata dal Dpr n. 207/2010: la cifra di affari in lavori per la sottoscrizione dell’attestazione va dimostrata guardando al quinquennio antecedente la firma. Quindi, il mercato riparte da un sistema pensato per una fase di crescita. Analizzando gli effetti di questo cambiamento, si può intravedere un vero terremoto.
Lo spiega Edoardo Bianchi, vicepresidente dell’Ance con delega alle Opere pubbliche. Premesso che «noi abbiamo fiducia nel nuovo codice», con le nuove regole «nessuno potrà crescere. Gli ultimi cinque anni coincidono con il periodo più acuto di crisi. Quindi se per documentare la propria capacità un'impresa deve fare riferimento a questo periodo è chiaro che si troverà nel curriculum molti meno lavori».
Attualmente in Italia ci sono 29.302 attestazioni. Il nuovo regime è meno favorevole, perché porterà a tenere conto soltanto di anni nei quali la crisi era al suo apice. Così, andando a rinnovare le attestazioni, molti incontreranno sorprese. Considerando le attestazioni rinnovate, integrate o sottoscritte nel 2015, solo il 31,8% avrebbe confermato la sua vecchia classifica anche con il nuovo sistema: un’impresa su tre. La metà degli operatori avrebbe avuto dei problemi, come l’abbattimento di una classifica o la perdita di una categoria: il 49,5 per cento. Ma, soprattutto, il 18,7% avrebbe sofferto la sanzione più dura: l’uscita dal mercato.
Proiettando queste cifre su larga scala, viene fuori che solo 9.318 imprese resteranno indenni. Circa 14.500 si vedranno restringere il raggio d’azione, mentre quasi 5.500 usciranno dal mercato. Non si tratta –va specificato– di un problema immediato. I contratti con le Soa, infatti, hanno validità quinquennale e vanno sottoposti a verifica dopo tre anni. Chi aveva il contratto in scadenza si è affrettato a rinnovarlo con le vecchie regole, per usufruire del bonus.
«Considerando che il contratto di attestazione deve essere portato a conclusione entro 180 giorni dalla data della sua sottoscrizione -spiega il vicepresidente di Unionsoa, Rosario Parasiliti-, ne consegue che allo stato sulle Soa grava una considerevole mole di lavoro che dovrà necessariamente essere smaltita entro e non oltre il prossimo 18 ottobre».
Il problema su scala più ampia, allora, comincerà a porsi solo tra qualche mese. Potrebbe, però, trattarsi di un problema difficile da risolvere, anche perché sarà combinato ad altre criticità. All’orizzonte, infatti, ci sono difficoltà anche per le imprese che hanno un direttore tecnico che svolga il suo ruolo in deroga rispetto alla regola generale che prevede un titolo di studio. In base al nuovo codice, non potranno più attestarsi
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIASistri, in vigore il decreto Primo passo per la svolta. Ambiente. Ma per ora non cambia nulla sul piano operativo.
Comincia oggi il nuovo corso del Sistri (Sistema elettronico di tracciabilità dei rifiuti) anche se per ora, in attesa di futuri decreti e nuovi gestori dell’infrastruttura telematica, tutto rimane quasi uguale.
Infatti, oggi entra in vigore il nuovo “testo unico Sistri” previsto al Dm 30.03.2016, n. 78 che, con decorrenza immediata, abroga il precedente Dm 18.02.2011, n. 52 (si veda Il Sole 24 Ore del 25 maggio). Il Sistema si conferma per i rifiuti pericolosi. La gestione dei processi e dei flussi informativi è affidata ai Carabinieri. Un decreto stabilirà come connettere gli altri organi di controllo. L’interconnessione con il Corpo forestale dello Stato, per ora, è oggetto del Dm 15.01.2015.
Con sentenza 11.05.2016, n. 5569 il Tar Lazio ha dichiarato inammissibile, per carenza di interesse, il ricorso presentato da Selex Se.Ma. (attuale gestore Sistri) contro il bando con cui Consip ha indetto la gara per il nuovo affidamento del Sistri.
Le grandi aspettative delle imprese per un Sistri semplificato non sono contenute in questo nuovo testo, che però getta le basi affinché l’esperienza della tracciabilità elettronica dei rifiuti si trasformi in qualcosa di gestibile, almeno per giustificare i costi che le imprese sopportano. Sotto il profilo operativo, da oggi –dunque- non cambia nulla; gli obbligati all’iscrizione al Sistri e al pagamento dei contributi (il termine per il 2016 è scaduto lo scorso 30 aprile), continuano a operare come ieri e così faranno fino al restyling dell’infrastruttura telematica secondo le linee guida date dal decreto in esame.
Quindi, continueranno a usare registri e formulari cartacei, affiancando l’apparato procedurale Sistri fatto di chiavette, black box, schede, chiavi di accesso e collegamenti online che si interrompono entro pochi minuti. Gli errori per il momento non sono perseguibili poiché l’articolo 11, comma 3-bis, Dl 101/2013 (legge 125/2013) dispone la moratoria delle sanzioni “gestionali” fino al 31.12.2016. Per il futuro, l’articolo 23 del nuovo testo recepisce le doglianze espresse per anni dalle imprese.
Tale articolo traccia il solco invalicabile all’interno del quale il gestore del sistema che vincerà la gara in corso dovrà operare evitando anche sovrastrutture rivendute come necessarie per la difesa dell’ambiente. È il caso delle black box: si sovrappongono ai sistemi Gps e nulla aggiungono alla tutela dell’ambiente. Il perimetro del futuro gestore, in attuazione dell’articolo 11, comma 9-bis, Dl 101/2013, dispone che le procedure di affidamento del Sistri “assicurano”: sostenibilità dei costi; interazione con banche dati in uso alla Pa; interoperabilità con i gestionali delle imprese e generazione automatica del Mud; razionalizzazione e semplificazione del sistema, con l’abbandono dei dispositivi Usb per i trasportatori e delle black box e individuazione di strumenti idonei.
Si aggiungono: tenuta in formato elettronico di registri e formulari con compilazione in modalità offline e trasmissione asincrona dei dati. La riproposizione dei formati di registro e formulario facilita gli operatori che si confrontano con modelli conosciuti da tempo ed è fondamentale quando gli obbligati al Sistri si interfacciano con i non obbligati che continuano a produrre registri e formulari cartacei: se i formati non sono identici, si moltiplicano dati, errori e complicazioni.
La trasmissione asincrona sarà il vero punto di svolta; infatti, oggi è previsto che l’impresa si colleghi al server Selex Se.Ma. e invii i dati in contemporanea con l’operazione che si fa con i rifiuti. Quindi, deve connettersi più volte al giorno e ripetere le procedure.
Se la connessione non è disponibile, l’impresa deve rinviare la compilazione delle schede o mettere in atto complicate procedure alternative. La trasmissione asincrona invece, consente all’operatore di memorizzare i dati in locale (anche per più operazioni) e inviarli in unica soluzione a fine giornata quando la connessione è più agevole
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

TRIBUTIUffici tributi locali a caccia di false residenze. L'analisi/evasione di imu e iva sulle seconde case.
L'abitazione principale ai fini Ici ora Imu di cui al c. 2, art. 13, dl 201/2011, è l'immobile in cui il possessore e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente. L'alternativa per il contribuente è di scegliere l'unità immobiliare da destinare a propria abitazione principale, ovvero di beneficiare su di un solo fabbricato dell'aliquota agevolata e della detrazione prima casa.
La ragion d'essere della norma è di evitare che i coniugi, separando la loro residenza anagrafica in due diversi immobili, possano usufruire entrambi delle agevolazioni «prima casa» nell'ambito dello stesso comune, prassi frequente ai fini Ici, ma che ancora oggi continua con l'Imu. Nulla, però, viene stabilito dal legislatore relativamente all'ipotesi in cui i componenti del nucleo familiare abbiano stabilito la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili situati in comuni diversi.
La circolare Mef n. 3/DF/2012 statuisce nel caso in cui due coniugi fissano la loro residenza e dimora abituale in due immobili ubicati in diversi comuni, la possibilità di usufruire per entrambi delle agevolazioni prima casa, qualora non si tratti di una mera operazione elusiva, ma al contrario, sia motivata da un'effettiva e reale necessità. La circolare non è in grado di collocarsi all'interno del sistema di gerarchia delle fonti del diritto (Cass. n. 237/2009), rimanendo relegata da vincolo solo per l'amministrazione che l'ha emanata.
Per di più nella casistica giurisprudenziale sull'Ici, come abitazione principale viene recepito il concetto di residenza familiare, di ricondurre a unità immobiliare l'abitazione principale che costituisca la dimora abituale non solo del ricorrente, ma anche dei suoi familiari (Cass. 14389/2010), quindi in favore della famiglia e non dei singoli componenti. D'altra parte, il concetto di famiglia è da intendersi, come composta da coniugi e figli, la cui unicità determina di conseguenza la necessità di individuare un'unica residenza e un'unica dimora della stessa.
A tal fine giova richiamare gli artt. 43, 144, 145 e 146 del c.c., infatti l'art. 43 dispone: il domicilio di una persona è nel luogo in cui essa ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi. La residenza è nel luogo in cui la persona ha la dimora abituale. Mentre, l'art. 144, c. 1, detta espressamente: «I coniugi concordano tra loro l'indirizzo della vita familiare e fissano la residenza della famiglia secondo le esigenze di entrambi e quelle preminenti della famiglia stessa».
Tanto che in caso di disaccordo dei coniugi sulla fissazione della residenza della famiglia è previsto l'intervento sostitutivo dell'autorità giudiziaria ai sensi dell'art. 145 c.c.
L'art. 146 c.c. cita: «Il diritto all'assistenza morale e materiale previsto dall'art. 143 è sospeso nei confronti del coniuge che, allontanatosi senza giusta causa dalla residenza familiare, rifiuta di tornarvi». Dunque, convivenza e coabitazione dei coniugi costituiscono, di norma e di fatto, un obbligo coniugale che si concretizza in una delle ragioni dell'esistenza della famiglia stessa. In ogni caso, costituirà una situazione anomala ed eccezionale la non convivenza dei due coniugi spettando agli stessi di fornire la prova. Infine, anche la circolare Mef non consente di fruire delle agevolazioni prima casa indiscriminatamente per due coniugi che stabiliscono la loro residenza e dimora abituale in immobili ubicati in diversi comuni, ma pone un chiaro limite nel divieto dell'elusione tributaria.
In definitiva, ciò significa per l'amministrazione un'attenta analisi e vaglio sui motivi che comportano la scissione della residenza in immobili diversi, da quello familiare esclusivo, rimanendo un'eccezione all'unità della vita familiare dei coniugi e della prole, che comporta per l'ente impositore una valutazione caso per caso. A titolo semplificativo e al fine di una corretta istruttoria della posizione contributiva, possono essere annoverati: consumi di gas, acqua, energia elettrica, raccolta rifiuti con porta a porta, motivi di salute, verifica del luogo di lavoro, ciò anche al fine di evitare un possibile danno erariale.
In particolare, gli uffici dovranno concentrare la loro attività sui controlli del luogo di lavoro del contribuente, che spesse volte è distante anche centinaia di chilometri. In poche parole in quest'ultimo caso gli uffici dovranno prestare attenzione in quanto spesse volte le residenze fittizie si concentrano in seconde case ubicate in luoghi di villeggiatura, mentre il nucleo familiare conserva l'effettiva dimora in città.
In aggiunta all'elusione dell'Imu si affianca anche quella relativa ai fini Iva, infatti qualora il contribuente abbia acquistato una seconda casa in tale località, non abitandovi, paga l'Iva al 4% anziché al 10% rientrando quindi tale casistica tra le segnalazioni qualificate per l'Agenzia delle entrate, a cui l'ente è obbligato a comunicare (articolo ItaliaOggi dell'08.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: Alla gara europea con il tutor. Bruxelles lancia un servizio web gratuito per operare bene. Arriva online il vademecum per predisporre il documento unico e fare l'autodichiarazione.
Al via la guida online della Commissione Ue per la predisposizione del documento di gara unico europeo; un servizio gratis per adempiere all'obbligatoria compilazione dell'autodichiarazione necessaria per partecipare agli appalti pubblici.

La Commissione Ue ha infatti pubblicato sul proprio sito una guida per la compilazione on-line del Documento di gara unico europeo, consultabile al seguente indirizzo.
Si tratta di un servizio web gratuito a disposizione delle stazioni appaltanti e degli operatori economici per la redazione, step by step, del Dgue che dal 20 aprile scorso è obbligatorio per tutti i partecipanti alle procedure di affidamento di appalti pubblici, in base a quanto stabilito dall'articolo 85 del nuovo codice sui contratti pubblici (dlgs 50/2016).
Le amministrazioni sono tenute ad accettarlo e, sempre in base al nuovo codice n. 50/2016, deve essere predisposto sulla base del formulario della Commissione europea «esclusivamente» in forma elettronica. In realtà l'esclusività della redazione in forma elettronica è prevista soltanto dal decreto 50; a livello europeo questo obbligo scatta soltanto dal 2018.
Il Dgue consiste in una autodichiarazione «aggiornata come prova documentale preliminare in sostituzione dei certificati rilasciati da autorità pubbliche o terzi», in cui si conferma che l'operatore economico non si trovi nelle situazioni che determinano l'esclusione dalla gara (art. 80), è in possesso dei requisiti minimi per l'accesso alla gara (art. 83) e i criterio oggettivi (art. 91) che vengono indicati nel bando di gara per la riduzione del numero dei candidati/offerenti.
Utilizzando la procedura online messa a punto dalla Commissione Ue, la stazione appaltante potrà predisporre il Dgue e con la stessa piattaforma, l'operatore economico potrà procedere alla compilazione del modello standard (tradotto in tutte le lingue della Ue) che poi potrà essere stampato e inoltrato alla stazione appaltante con le altre parti dell'offerta.
Se si procede in via elettronica, il documento può essere esportato, salvato e presentato direttamente in formato elettronico; successivamente può anche essere riutilizzato ma soltanto se le informazioni sono ancora valide. Ovviamente se il Dgue contiene inesattezze, false dichiarazioni e elementi non riscontrabili con le «documenti complementari» rilasciati dalle p.a. o da terzi, il concorrente rischia l'esclusione dalla gara. Va ricordato che gli elementi oggetto di autodichiarazione vanno confermati da documenti complementari «su richiesta e senza indugio».
Inoltre nel documento di gara unico, in base al nuovo codice appalti, devono essere indicate anche «l'autorità pubblica o il terzo responsabile del rilascio dei documenti complementari». Nella fase di accertamento di quanto auto dichiarato si dovrà poi fare riferimento ai mezzi di prova (articolo ItaliaOggi del 07.06.2016).

INCARICHI PROFESSIONALIAvvocati, pubblicità trasparente. Maggior chiarezza possibile quando si tratta di compensi. La sentenza del Consiglio nazionale forense sulla vicenda Alt, il primo studio legale su strada.
Alla pubblicità degli avvocati è imposta la maggior chiarezza possibile. Soprattutto quando di mezzo ci sono i compensi. L'espressione «prima consulenza gratuita», in particolare, di per sé non chiarisce i limiti dell'offerta del servizio da parte dell'avvocato, esponendo il cliente, inconsapevole della natura della prestazione, se nel merito oppure orientativa, al rischio di dover poi pagare la parcella.

Sono alcuni principi che emergono dalla sentenza del Consiglio nazionale forense che ha di fatto chiuso l'annosa vicenda che riguardava il primo studio legale su strada Alt (Assistenza legale per tutti), che ha poi cambiato il nome in Al Assistenza legale, annullando il provvedimento disciplinare adottato dall'Ordine degli avvocati di Milano, contro il quale aveva presentato ricorso il cofondatore Cristiano Cominotto.
In particolare, secondo il Coa di Milano, la dicitura «Alt» rappresenterebbe «un perentorio invito al passante a fermarsi ed entrare nei locali dove si svolge attività legale», costituendo quindi «una modalità non conforme a dignità e decoro di captazione di clientela».
A parere del Cnf, però, «a fronte di un sistema di comunicazioni che indirizza ai cittadini un continuo flusso di messaggi», non si può ritenere che l'acronimo Alt, «possa avere particolare efficacia persuasiva tanto più perentoria». In virtù di questo, la sentenza specifica come le modalità utilizzate «non pongano in essere alcuna violazione delle norme deontologiche».
La vicenda che riguarda il primo negozio di assistenza legale su strada, nato sull'onda delle liberalizzazioni introdotte dal decreto Bersani del 2006, ha inizio nel 2009, quando il Coa di Brescia sanzionò la presunta infrazione delle norme deontologiche.
Nel 2010, venne dichiarata dalla Corte di Cassazione la competenza territoriale del Consiglio dell'Ordine degli avvocati di Milano a decidere nei confronti di Cominotto, mentre veniva confermata la sanzione della censura nei confronti dell'altro cofondatore, Francesca Passerini, inducendo lo studio a cambiare nome da «Alt» ad «Al assistenza legale».
Il Coa di Milano, nel 2012, sanzionava Cominotto con la censura, contro la quale venne presentato ricorso al Cnf. La dicitura «prima consulenza gratuita», secondo il Cnf, se da un lato «è in se stessa tale da non chiarire i limiti dell'offerta», dall'altro lato «non sono stati acquisiti elementi per valutare se in concreto l'attività dello studio si svolgesse, in rapporto alla richiesta di consulenza gratuita, con modalità tali da indurre in inganno il richiedente o se fosse condotta in modo corretto» (articolo ItaliaOggi del 07.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

SICUREZZA LAVORO: L'alunno cade, scuola colpevole. Dalla scivolata alla sedia contesa, fioccano le condanne. L'orientamento della Cassazione: censurare gli istituti per mancata o inadeguata prevenzione.
Arrivano, sempre più numerosi in Cassazione, i giudizi di responsabilità in ambito scolastico dai quali emerge l'orientamento di censurare le situazioni prive di misure preventive idonee ad evitare l'evento dannoso.
Di recente la Suprema Corte è stata chiamata a giudicare su svariati casi tra i quali la caduta di uno studente nel pavimento bagnato, l'incidente di un alunno in attività extracurriculari, la palla calciata da un ragazzo che ha colpito in faccia un docente.
Le tre situazioni avevano provocato seri danni alle vittime che per ottenere risarcimento hanno spinto le loro ragioni fino al Giudice di legittimità.
Il primo caso è stato deciso con la sentenza 25.02.2016 n. 3695 (Sez. III civile) che ha ravvisato l'addebito della scuola in punto di prevedibilità di un evento (seppur non voluto) e nella carenza di adeguata prevenzione.
Era accaduto in una scuola friulana che un'alunna si fosse provocata delle lesioni scivolando nel pavimento bagnato pressi i servizi.
Il ministero si era difeso riferendo che l'acqua sul pavimento non aveva origine da operazione di pulizia e facendo intendere che essa era presente per uno scorretto uso di rubinetti e lavandini, tuttavia restava provato che le condizioni del pavimento erano tali prima dell'ingresso dell'alunna caduta, tanto faceva dedurre che l'ingresso dell'alunna poteva e doveva essere evitato (da parte del personale scolastico; ad esempio ponendo il segnale bifacciale giallo di pericolo).
La Corte ha ammonito che la scuola ha l'obbligo di vigilare sulla sicurezza e l'incolumità dei ragazzi nel tempo in cui essi fruiscono delle prestazioni, dovendosi comprendere anche la cura dell'idoneità dei luoghi.
Il danneggiato ha solo l'onere di provare che l'evento cagionante si è verificato durante il momento scolastico, tanto a prescindere che sia invocata la responsabilità contrattuale (il cosiddetto “contatto sociale”) che quella extracontrattuale. La considerazione, poi, che l'allagamento del pavimento del bagno e degli spogliatoi comuni sia cosa frequente ne esclude l'eccezionalità e l'imprevedibilità quali esimenti di responsabilità per la scuola.
Anche per un'altra situazione la Cassazione con la sentenza 13.11.2015 n. n. 23202 ha accolto il ricorso dei genitori rinviando al giudice di appello affinché rivaluti il fatto (un alunno era caduto nell'atto di sedersi perché si contendeva la sedia con una compagna) secondo il principio che, in tema di responsabilità civile dei maestri e dei precettori, per superare la presunzione di responsabilità che grava sull'insegnante, è necessario dimostrare che sono state adottate, in via preventiva, tutte le misure disciplinari o organizzative idonee ad evitare il sorgere di una situazione di pericolo causativa dell'evento e che, nonostante l'adempimento di tale dovere, il fatto dannoso, solo per la sua repentinità e imprevedibilità ha impedito un tempestivo ed efficace intervento.
Diverso esito ha avuto invece il caso di una professoressa di educazione fisica colpita al volto da una pallonata durante la lezione: la Cassazione ha respinto il suo ricorso (sentenza 26.01.2016 n. 1322 - Sez. III civile)  confermando i dinieghi dei giudici di merito.
Un alunno mentre disputava una partita di pallavolo, alla guida di un docente, calciava impropriamente il pallone che finiva per colpire al volto la docente (impegnata a lato con un'altra classe) provocandole gravi danni. Il caso va a collocarsi nelle possibili figure dell'art. 2048 cc della responsabilità extracontrattuale, perché trattandosi di un docente non è applicabile il principio del contatto sociale (art. 1218 cc): pertanto il fatto costitutivo deve esser provato dal danneggiato, mentre il fatto impeditivo (ossia, il non aver potuto evitare l'evento) va provato dalla scuola.
Nel caso, l'azione si era consumata nel corso di una gara sportiva, sicché la Corte ha ritenuto di far rinvio al criterio che distingue un comportamento lecito da quello punibile nel collegamento funzionale tra gioco ed evento lesivo, escludendolo se l'atto è compiuto allo scopo di ledere oppure con una violenza incompatibile con le caratteristiche del gioco. Scartata la volontà di colpire l'insegnante, restava da valutare la funzionalità di un calcio al pallone con le regole del volley che ad avviso della Cassazione trova sussistenza.
La decisione suscita perplessità tanto evidenti (la docente non è stata risarcita, e nel frattempo è pure venuta a mancare) che la stessa sentenza nella parte conclusiva tenta di sedare annotando che l'asserita violenza (che avrebbe determinato l'illecito e quindi la risarcibilità) con cui il pallone sarebbe stato calciato era stata esclusa dalla Corte d'Appello e trattandosi di una valutazione tipicamente di merito restava preclusa ogni modifica e censura presso il giudice di legittimità (articolo ItaliaOggi del 07.06.2016).

EDILIZIA PRIVATAAbusi da demolire: i Pm di Reggio ripartono dal 1996.
In Calabria, nella parte d’Italia che soffre la presenza prolungata e violenta della mafia oggi più pericolosa –la ‘ndrangheta, che nel Reggino ha le sue radici– c’è uno Stato che non molla. Non è facile operare in un territorio così spesso tradito dalle istituzioni, che stenta a credervi ancora, quando non si mostra apertamente ostile. Eppure, a dispetto delle apparenze e dei facili nichilismi, pezzi dello Stato agiscono in silenzio e con delicatezza non limitandosi a “fare la propria parte”, ma anche quella di molti altri, con un plus di assunzione di responsabilità, operatività e cultura civica.
Accade, dunque, a Reggio Calabria, che da quasi due anni la Procura della Repubblica abbia messo mano al capitolo “abusi edilizi”, sostituendosi di fatto ai Comuni, che negli ultimi vent’anni non hanno eseguito le sentenze definitive di abbattimento o acquisizione al patrimonio pubblico degli immobili irregolari.
Inutile dilungarsi su questa tipologia di reato, che stronca il paesaggio, l’ambiente, l’urbanistica, il turismo, l’agricoltura e anche l’erario. E che presenta spesso delicati risvolti sociali.
A oggi i fascicoli catalogati dal nucleo di Pg formato dal Corpo forestale dello Stato sono 686, riguardano 21 Comuni, Reggio Calabria compresa; i più datati risalgono al 1996, i più recenti all’anno scorso, con eloquenti picchi nei periodi precedenti i condoni. Alcuni sono casi gravi, per collocazione o dimensioni, altri sfidano con protervia regole e proprietà statali, altri sono minutaglia; alcuni sono abitati, altri no; di alcuni edifici non si sa più a chi appartengano, altri conducono ad ambienti poco puliti. Tutti avrebbero dovuto già essere demoliti e invece sono ancora lì dopo dieci o vent’anni.
Come fare –si sono chiesti in Procura– per agire a fianco o al posto dei sindaci? Con che soldi? Utilizzando quali imprese? E soprattutto: da quali costruzioni cominciare? Tutti interrogativi cui troppo a lungo e troppi sindaci (non solo calabresi) hanno preferito non rispondere per paura, per non perdere voti, per ignavia personale e di sistema. Ma se si cercano davvero, le risposte arrivano.
I soldi ci sono: la Cassa depositi e prestiti mette a disposizione dei Comuni un fondo di rotazione pari a 50 milioni per anticipare le spese nel caso di inadempienza del proprietario condannato. Con questo denaro vanno indette le gare per demolire, smaltire macerie e rifiuti, riconsegnare al sindaco il terreno ripulito. Già, ma a chi affidare un lavoro impopolare e malvisto, specie in luoghi piccoli e ad alto rischio? I bandi –è la risposta– riguardano le imprese iscritte alle white list, tenute dalle prefetture, dunque un bacino garantito che esclude ditte dai profili incerti. Quanto alle priorità di esecuzione, dopo analisi e consulti, il pool antiabusivismo reggino ha scelto di rifarsi agli undici criteri di un Ddl ancora in mezzo al guado tra Camera e Senato.
Non è proprio una legge, ma quasi, ed elenca le condizioni di pericolosità strutturale, gli immobili in costruzione, quelli utilizzati per attività criminali, poi le lottizzazioni abusive, lasciando per ultime le case abitate da persone che non avrebbero un’alternativa.
Su questioni tanto delicate non esistono automatismi applicativi e per questo gli agenti del Corpo forestale inviati dai Pm sul territorio e negli archivi verificano minuziosamente la correttezza topografica e proprietaria degli immobili, l’effettiva situazione al 2016, e se è il caso, la chiariscono agli interessati o ai loro eredi, ma il tutto senza cedere di un millimetro sullo scopo finale: ristabilire la legalità. Ci vogliono tempo e costanza, ma le cose procedono anche se dopo l’enorme lavoro di verifica (tuttora in corso), le demolizioni finora eseguite sono solo due.
Altri casi sono stati definitivamente archiviati per scarsa entità o acquisizione da parte del Comune, ma anche chiudere la pendenza di una misera sopraelevazione dell’immigrato di ritorno significa dimostrare che lo Stato non dimentica, non è cieco né tanto meno un nemico per definizione
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

INCARICHI PROFESSIONALIEcco quando l’avvocato deve risarcire il cliente. Dalle prove-chiave dimenticate alla negligenza del domiciliatario.
Professioni. Per i giudici non va garantito il risultato ma occorre lavorare con correttezza.
La mancata indicazione di prove indispensabili per decidere la causa. Una scelta difensiva azzardata, fatta perché sollecitata dal cliente. La negligenza del collega domiciliatario. Sono diversi gli errori degli avvocati che, per i giudici, fanno scattare la responsabilità professionale e la condanna a risarcire i clienti.
E la casistica è articolata perché rispecchia i vari profili dell’attività che gli avvocati si impegnano a svolgere per i clienti: dalla fase di prima disamina della questione, con l’indicazione degli elementi che caratterizzano il fatto giuridico, alla fase di vera e propria gestione delle difese più idonee a raggiungere lo scopo.
L’obbligazione che l’avvocato assume è sempre legata a un’attività intellettuale con la quale vengono messi a disposizione del cliente i mezzi tecnici (le conoscenze e la sua organizzazione) propri del professionista il quale, se non deve garantire un risultato sempre positivo, certamente deve però offrire un grado di professionalità e di diligenza propria di un operatore qualificato.

È quanto affermano i giudici (come si legge nella rassegna di decisioni riportate in questa pagina) che si pronunciano sulla qualità dell’attività dell’avvocato chiamato in giudizio dal cliente non soddisfatto del suo operato.
Un particolare profilo di valutazione della condotta dell’avvocato sta innanzitutto nella genesi del rapporto professionale: il cliente vuole sapere dal professionista se le istanze sono fondate sul piano giuridico e se vale la pena investire tempo e denaro (non solo i compensi del legale, ma anche le somme per il contributo unificato) nel giudizio.
L’avvocato ha l’obbligo di informare il cliente sulle difficoltà del giudizio che intende intraprendere, sui rischi di insuccesso e sui costi che si dovranno sostenere con una prognosi quanto più possibile vicina alla realtà. Né è sufficiente, per l’avvocato, sostenere che è stato il cliente a insistere per una certa azione con poche chance di successo, perché la strategia difensiva è sempre un patrimonio del professionista che opera una scelta in prima persona (come ha affermato la Cassazione nella sentenza 10289/2015).
Attenzione, poi, alle prove: l’avvocato deve risarcire il cliente se non indica una prova indispensabile per la decisione del giudizio, a meno che non dimostri di non averlo potuto fare per fatto a lui non imputabile o di avere svolto tutte le attività che, nel caso concreto, potevano essergli ragionevolmente richieste (come ha spiegato la Cassazione nella sentenza 25963/2015).
Inoltre, all’avvocato è sempre richiesta una diligenza associata a un obbligo di correttezza, nel rapporto sia con il proprio assistito, sia con i terzi, sia con la controparte: quest’ultima non deve essere danneggiata intenzionalmente, anche se il legale difende gli intessi della parte rappresentata. Così, il Tribunale di Trieste ha condannato un avvocato a risarcire il danno a una parte (diversa dal suo cliente) che era stata intenzionalmente danneggiata con l’azione intrapresa (sentenza del 10.08.2015).
L’avvocato non è responsabile solo per la sua attività, ma anche per quella del domiciliatario. Per il Tribunale di Rimini (sentenza 240 del 15.02.2016), se il domiciliatario non compare formalmente in udienza, il cliente può chiedere i danni al difensore.
Ma non tutti gli errori degli avvocati portano alla condanna a risarcire il danno ai clienti. In primo luogo, non sempre l’errore determina un danno: per esempio, la mancata adozione di un’istanza nell’interesse del cliente potrebbe non avere conseguenze se si dimostra che l’assistito avrebbe comunque perso la causa. Infatti, l’avvocato non ha un’“obbligazione di risultato”, nel senso che non è tenuto a realizzare comunque l’esito positivo a favore della parte assistita quando non sussistono in fatto e in diritto i presupposti per questo risultato.
Un’altra ipotesi in cui l’avvocato può essere assolto, anche se ha commesso un errore, è quella in cui sia chiamato ad affrontare una questione di particolare difficoltà. Succede, ad esempio, quando il legale deve dare soluzione a un problema tecnico particolarmente complesso: in questo caso risponde solo per dolo o colpa grave e non per una condotta errata dovuta alla complessità del caso (come ha precisato la Cassazione nella sentenza 2954/2016).
Per coprire i danni causati ai clienti, la riforma contenuta nel Dpr 137/2012 ha introdotto l’obbligo di stipulare un’assicurazione professionale. Ma per gli avvocati la riforma forense (legge 247/2012) ha scritto un percorso ad hoc. Il ministro della Giustizia, sentito il Consiglio nazionale forense, deve stabilire le condizioni essenziali e i massimali minimi delle polizze.
Al momento la bozza di decreto trasmessa dal ministero è in consultazione presso l’avvocatura. Al termine di questa fase (che si chiuderà entro fine mese) il Cnf formulerà il parere per permettere al ministero di emanare il decreto. Così, l’obbligo di stipulare una polizza a copertura della responsabilità civile diventerà pienamente operativo anche per gli avvocati
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOEsuberi provinciali, entro dieci giorni le nuove assegnazioni. I Comuni attendono lo sblocco delle assunzioni.
Personale. Ultima fase per la ricollocazione dei dipendenti.

I dipendenti in soprannumero degli enti di area vasta e della Croce Rossa stanno preparando le valigie: entro il 17 giugno sapranno quale è il loro destino e il 17 luglio è il termine entro il quale dovranno presentarsi al nuovo datore di lavoro.
Queste scadenze sono determinate partendo dagli ultimi due comunicati, entrambi datati 15 aprile, pubblicati sul portale «mobilità.gov» dalla Funzione pubblica: nel primo, il Dipartimento avvertiva che era stata aggiornata la domanda e l'offerta di mobilità con gli ultimi dati provenienti dalle amministrazioni interessate; con il secondo veniva consentito ai dipendenti in esubero di esprimere le loro preferenze di assegnazione.
Per quest’ultima fase era inoltre determinato il termine di scadenza: le ore 24 del 18.05.2016. Le tappe successive, con i relativi termini, sono individuate invece dall’articolo 9 del Dm del 14.09.2015. Conclusa la fase in cui vengono manifestati i desiderata, la Funzione pubblica ha 30 giorni di tempo per procedere all’assegnazione dei lavoratori in eccedenza, e questi ultimi hanno a disposizione ulteriori 30 giorni per prendere servizio nell’amministrazione di destinazione.
Di conseguenza, prima di partire per le vacanze, tutti dovrebbero essere al loro nuovo posto di combattimento, nella speranza che non si debba ricorrere a un’ennesima proroga per intoppi imprevisti: la fase più delicata, infatti, è quella che è in corso di realizzazione proprio in queste settimane, vale a dire l’incrocio fra domanda di mobilità, offerta di mobilità e preferenze espresse dai dipendenti. E su questo processo non ci sono esperienze pregresse.
Quindi, dal 18 luglio si dovrebbero ripristinare le «ordinarie facoltà di assunzione previste dalla normativa vigente», per dirla alla maniera della legge di stabilità di quest’anno. Ma la cosa non è così automatica. È pur vero che il primo periodo del comma 234 della legge 208/2015 stabilisce il via libera alle assunzioni di personale per le amministrazioni locali nel momento in cui nell’ambito regionale tutto il personale interessato al processo di mobilità è stato collocato.
Ma il secondo periodo dello stesso comma impone agli enti di attendere l’imprimatur della Funzione pubblica, la quale attesterà la conclusione della procedura nella regione di appartenenza. Solo da questo momento le assunzioni saranno libere. In verità, il Dipartimento avrebbe potuto emettere questo comunicato anche prima del termine per la ricollocazione di tutto il personale, limitatamente ai casi nei quali era stato deliberato il completo riassorbimento da parte della regione: come accaduto, per fare sue esempi, in Emilia Romagna e in Veneto. Ma questo non è avvenuto, se si eccettua il personale della polizia locale, limitatamente ad alcune regioni: oltre alle due appena citate, le assunzioni dei vigili urbani sono state “liberate” in Basilicata, le Marche, il Lazio e il Piemonte.
Ma a che cosa è dovuto il mancato sblocco? Ufficiosamente, si dice che era necessario attendere la ricollocazione di tutti i dipendenti in esubero, per poter sfruttare anche ambiti sovraregionali se necessario. Ma i più maligni suggeriscono che il vero motivo sia da rinvenire nel risparmio di spesa a livello aggregato. Il ritardare la pubblicazione del comunicato si sostanzia, infatti, in un blocco delle assunzioni.
Gli effetti, però, stanno divenendo ormai insostenibili. A distanza di un anno e mezzo dall’emanazione della legge 190/2014, le amministrazioni, soprattutto di piccole dimensioni, si trovano in estrema difficoltà nel garantire anche i soli servizi minimi. Il pensionamento del responsabile dell’ufficio tecnico o di quello dell’ufficio finanziario manda in ginocchio l’intera struttura. L’unica soluzione è il ricorso alla sostituzione da parte del segretario comunale, il quale è spesso in convenzione con altre due o tre amministrazioni. Non a caso da più parti provengono richieste pressanti al Governo affinché sblocchi in tempi rapidi l’empasse che si è venuta a creare
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.06.2016).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Sistema Sistri, punto e a capo. Iter d'accesso e invio dati saranno riscritti da futuri dm. Dall'8 giugno in vigore il decreto n. 78/2016 per la tracciabilità telematica dei rifiuti.
In vigore dall'08.06.2016 il decreto Ambiente 78/2016, provvedimento recante le nuove regole sul funzionamento del sistema di tracciamento telematico dei rifiuti.
Il nuovo decreto ministeriale (in G.U. 24.05.2016, n. 120) conferma il panorama dei soggetti obbligati a iscriversi al Sistri così come, almeno nell'immediato, il complesso apparato software e hardware da utilizzare per tracciare i rifiuti e l'entità del contributo di iscrizione dovuto dagli operatori.
Parallelamente il nuovo decreto sovrascrive le procedure previste dall'uscente dm 52/2011 che i soggetti operanti in Sistri devono osservare per comunicare al Sistema i dati relativi ai rifiuti, da un lato introducendo alcuni snellimenti immediatamente spendibili e dall'altro affidando a futuri decreti (oltre alla rivisitazione dei citati contributi) la definizione di ulteriori regole operative.
In base allo stesso dm 78/2016 un'ulteriore fase di ottimizzazione del Sistema sarà inaugurata dal nuovo gestore del Sistri, il quale dovrà garantire un successivo alleggerimento della complessa macchina.
Che cosa non cambia.
Come accennato, il nuovo decreto ministeriale n. 78/2016 conferma il novero dei soggetti obbligati a aderire al Sistri già individuato da dlgs 152/2006 (cosiddetto «Codice dell'ambiente») e provvedimenti satellite.
Fino alle diverse e citate future disposizioni normative, l'assetto software e hardware da utilizzare resta inoltre, rispettivamente, quello costituito da: schede Sistri «Area registro cronologico» e «Area movimentazione» da tenere sulla piattaforma telematica; «chiavette Usb» e «black box» (per accesso al sistema e monitoraggio dei percorsi dei mezzi di trasporto rifiuti). Confermate anche la necessità della documentazione cartacea di accompagnamento del trasporto e la videosorveglianza degli impianti di trattamento rifiuti.
Che cosa cambia. Rispetto a quanto previsto dall'abrogato dm 52/2011, il nuovo dm 78/2016 prevede solo come «eventuale» la presenza del «delegato», quale soggetto nell'ambito dell'organizzazione aziendale dall'ente o impresa formalmente incaricato all'utilizzo del Sistri.
Fermi restando i già previsti termini massimi per compilazione firma delle schede Sistri, scompare altresì l'obbligo (ex dm 52/2011) per produttori e trasportatori di rifiuti pericolosi di informare il Sistri già diverse ore prima della movimentazione dei rifiuti, diventando sufficiente farlo immediatamente prima.
Possibile delega ad associazioni imprenditoriali e società di servizi solo da parte di «produttori e trasportatori di propri rifiuti»; a livello generale viene inoltre sancito che i produttori di rifiuti in quantità non superiore a 200 kg o litri per anno, fermo restando l'obbligo della preventiva comunicazione in caso di movimentazione, compilano la citata scheda «Sistri - Area registro cronologico» con cadenza trimestrale.
Che cosa cambierà tramite futuri decreti. Con uno o più decreti di natura non regolamentare il ministero dell'ambiente detterà nuove procedure operative da seguire per accesso al Sistri, inserimento e trasmissione dati. Fino alla loro adozione, per quanto non espressamente previsto dal neo dm 78/2016 varranno le procedure indicate dai manuali e dalle linee guida pubblicati sul portale www.sistri.it forniti di «visto di approvazione» del dicastero.
Nel rispetto delle regole ministeriali, specifiche istruzioni tecniche continueranno ad essere predisposte dal concessionario del servizio e pubblicate, sempre previa approvazione del minambiente, sul portale Sistri.
Con i citati futuri atti non regolamentari il dicastero provvederà altresì da un lato a ridurre i contributi dovuti da soggetti che, pur non essendo obbligati, aderiscono volontariamente al Sistri e dall'altro a sospendere l'obbligo di installazione ed utilizzo di «black box» (e, ove sostenibile dal punto di vista tecnico-economico, delle connesse «chiavi Usb») su mezzi di trasporto rifiuti.
Che cosa dovrà cambiare con il nuovo gestore del Sistema. Il nuovo dm 78/2016 impegna, formalizzando alcune condizioni da porre alla base delle relative procedure di affidamento, le ulteriori semplificazioni e ottimizzazioni che dovranno essere assicurate dal gestore del Sistri, tra cui: l'abbandono degli attuali dispositivi hardware e l'individuazione di altri strumenti di efficace tracciabilità rifiuti; la traduzione in «formato elettronico» dei registri carico/scarico e formulari trasporto rifiuti, con generazione automatica del Mud; la compilazione in modalità offline e trasmissione asincrona dei dati; l'interoperabilità del Sistri con sistemi gestionali di aziende, associazioni categoria e società di servizi.
Il tutto innestandosi il nuovo decreto 78/2016 in un orizzonte normativo che vede ancora in corso l'individuazione del nuovo Gestore del sistema, la sanzionabilità dell'omessa iscrizione al Sistri e il mancato versamento dei relativi contributi e l'applicabilità delle pene (invece) per le violazioni delle regole di tracciamento Sistri dei rifiuti solo a partire dal 01.01.2017 (data fino alla quale, però, gli operatori telematici sono comunque obbligati a utilizzare anche il tracciamento tradizionale dei rifiuti ex dlgs 152/2006 «pre riforma Sistri», dietro minaccia delle relative sanzioni) (articolo ItaliaOggi Sette del 06.06.2016).

VARI: Il canone Tv in bolletta è realtà. Inizia lo scambio di informazioni fra gli enti coinvolti. Il decreto n. 94 del 13.05.2016 sarà pubblicato oggi sulla Gazzetta Ufficiale.
Il canone Rai in bolletta elettrica diventa una realtà. Oggi, nella Gazzetta Ufficiale n. 129, verrà pubblicato il decreto del Ministero dello sviluppo economico (Mise) di concerto con il Ministero dell'economia e delle finanze (Mef) n. 94 del 13.05.2016 relativo appunto al canone Rai in bolletta.
Il decreto entrerà in vigore il giorno successivo alla sua pubblicazione (domenica 5 giugno) e di conseguenza gli enti coinvolti nella riscossione del canone Rai (Agenzia delle entrate, Acquirente Unico S.p.a e le società elettriche) dovranno rispettare alcune scadenze, imposte dal decreto stesso (si veda tabella in pagina).
Ad esempio, l'Acquirente Unico S.p.a dovrà comunicare alle imprese elettriche le informazioni necessarie per l'addebito in bolletta del canone Rai, vale a dire l'elenco dei clienti a cui è applicabile l'imposta. Il passaggio dei dati tra i due soggetti avverrà in tre tranche: la prima è già stata consegnata entro il 31 maggio (data presente nel decreto), la seconda lo sarà entro metà giugno e la terza entro il 04.07.2016. I contribuenti, quindi, a luglio si vedranno recapitare a casa la prima bolletta elettrica con incorporato l'addebito di 70 euro inerente al canone Rai.
Questo addebito così pesante, si verificherà solo per il 2016, perché dal 2017, come si legge dal decreto, i 100 euro del canone Rai, saranno suddivisi in dieci rate da dieci euro ciascuna a partire dal mese di gennaio fino a quello di ottobre: con la prima bolletta utile, si pagheranno anche gli arretrati. La bolletta si considererà scaduta quando scoccherà il primo giorno del mese successivo.
Se si dovesse ricevere indebitamente l'imputazione del canone Rai in bolletta, ad esempio perché si era inoltrata la dichiarazione di non detenzione di un apparecchio televisivo, è possibile chiedere il rimborso. Ad oggi, però le modalità per chiederlo non sono ancora state definite dall'Agenzia delle entrate, che ha tempo fino al 4 agosto per poterle fissare tramite un provvedimento. Una volta che verrà definito l'iter, la palla passerà all'Acquirente Unico S.p.a che avrà tempo altri cinque giorni per spedire tutte le informazioni necessarie alle imprese elettriche, che entro 45 giorni dovranno procedere a rimborsare tutti i contribuenti a cui è stato indebitamente addebitato il canone nella bolletta.
In caso si fosse presentata la dichiarazione di non detenzione dell'apparecchio televisivo per l'anno 2016, se non ci si vuol vedere addebitato il canone in bolletta per gli anni successivi, si dovrà presentare ogni anno un'autodichiarazione di non possesso, entro le date stabilite. Ad esempio, affinché la dichiarazione di non detenzione abbia effetto per l'intero anno 2017, questa dovrà essere presentata a partire dal 01.07.2016 al 31.01.2017.
Nel caso in cui, invece, la si presenti nel range temporale che va dal 01.02. al 30.06.2017, questa avrà valenza per il semestre che va da luglio a dicembre 2017. Inoltre se si volesse attivare una nuova utenza elettrica durante l'anno è possibile farlo. Nel caso in cui, però, la si attivasse dopo ottobre, il canone dovuto sarà addebitato in un'unica soluzione nella prima rata dell'anno successivo, cioè a gennaio (articolo ItaliaOggi del 04.06.2016).

EDILIZIA PRIVATA: Multe pure nelle strade private.
La segnaletica stradale deve essere regolare anche sulle strade private. E la polizia municipale può sanzionare i trasgressori anche in questi ambiti purché aperti alla libera circolazione.

Lo ha chiarito il Ministero dei trasporti con il parere 29.04.2016 n. 2507 di prot..
La creatività nazionale non può esprimersi in materia di segnaletica stradale, neppure nelle zone private chiuse alla circolazione delle persone. Ma in queste aree non possono entrare i vigili a fare multe. A prescindere dalla proprietà del manufatto, specifica infatti il parere centrale, il codice stradale si applica a tutte le aree aperta al pubblico.
In queste zone l'apposizione della segnaletica deve essere attentamente valutata dall'ente pubblico e disciplinata con ordinanza ad hoc. Solo se una zona è chiusa alla circolazione non si possono esercitare i servizi di polizia stradale. Ma anche qui se il proprietario intende dotarsi di segnaletica occorrerà armonizzarla alle regole stradali.
Niente segnali di fantasia sulle strade quindi, neppure dietro alla recinzione di una villa (articolo ItaliaOggi del 04.06.2016).

TRIBUTI: Paga l’area edificabile per il Prg. Il terreno è «fabbricabile» anche senza l’adozione degli strumenti attuativi.
Imu e Tasi. La determinazione dell’imponibile è effettuata sulla base del valore commerciale o di quello definito dall’ente locale.

Doppio appuntamento per le aree fabbricabili: entro giugno occorre pagare l’acconto Imu ed anche quello Tasi, se previsto dal Comune. In generale, l’area è fabbricabile se le è stata attribuita questa destinazione dallo strumento urbanistico comunale.
La normativa precisa che per area fabbricabile si intende quella utilizzabile a scopo edificatorio in base agli strumenti urbanistici generali o attuativi, ovvero in base alle possibilità effettive di edificazione determinate secondo i criteri previsti per l’esproprio. In caso di dubbio, occorre rivolgersi al Comune, anche se una norma (articolo 31 della legge n. 289/2002) prevede che se il Comune attribuisce a un terreno la natura di area fabbricabile ne deve dare comunicazione al proprietario.
Occorre poi tener conto che l’area si intende fabbricabile già con la semplice adozione da parte del Comune dello strumento urbanistico, indipendentemente dall’adozione di strumenti attuativi (articolo 36 del Dl n. 223/2006). È attratta a imposizione, quindi, anche l’area potenzialmente edificatoria (perché non si è ancora concluso tutto l’iter urbanistico) e non solo quella immediatamente sfruttabile ai fini edificatori, ed ovviamente dello stato di attuazione dello strumento urbanistico si deve tener conto nella determinazione del valore.
La determinazione della base imponibile è effettuata considerando il valore venale in comune commercio al 1° gennaio dell’anno d’imposizione. Molti Comuni adottano una delibera per determinare i valori venali di riferimento, alla quale il contribuente può attenersi, anche se va detto che la delibera non è comunque vincolante, perché se il Comune ha deliberato valori “fuori mercato”, ovvero non corrispondenti a quelli venali medi espressi dal mercato, il contribuente può corrispondere l’imposta sul valore ritenuto più congruo.
Va anche precisato che la delibera comunale non è una “delibera tariffaria” e quindi non soggiace al blocco dei tributi previsto dalla legge di Stabilità. Il Comune, pertanto, potrebbe aver deliberato nuovi valori, anche più bassi di quelli del 2015. Se l’area fabbricabile è diventata tale nel corso del 2016 il contribuente ne deve tener conto già con la rata di giugno, ricordandosi che occorre considerare per intero il mese nel quale il possesso si è protratto per almeno 15 giorni. Accanto alle aree “ordinarie” vi sono casistiche particolari.
Così, nel caso di demolizione e ricostruzione del fabbricato e di interventi di recupero del fabbricato, la base imponibile non è più data dal fabbricato, ma dal valore dell’area che è determinata senza computare il valore del fabbricato in corso d’opera, e ciò fino alla data di ultimazione dei lavori, ovvero, se antecedente, fino alla data di utilizzo. Poi, come accade spesso nella materia dei tributi comunali ci sono delle zone d’ombra.
Una riguarda le aree fabbricabili pertinenziali, sulle quali si registrano decine di pronunce della Cassazione che non vanno esattamente nella stessa direzione. Ultimamente la Corte sembra confermare (Cassazione n. 6139/2016) l’orientamento in base al quale l’area fabbricabile pertinenziale è soggetta autonomamente a imposta se risulta accatastata in modo autonomo al Catasto terreni, indipendentemente dal fatto che sia utilizzata a giardino, e ciò perché solo l’accatastamento unitario all’abitazione assicura che il valore dell’area sia incluso nella rendita del fabbricato. Inoltre, la Cassazione ha ripetutamente detto che l’area pertinenziale deve essere oggetto di esplicita dichiarazione da parte del contribuente.
Altro dubbio ricorrente è la modalità di tassazione del fabbricato “F/3”, ovvero del fabbricato in corso di costruzione. Secondo alcuni, essendo un fabbricato ed essendo sprovvisto di rendita, come tutti gli immobili accatastati nelle categorie catastali F, nulla è dovuto. In realtà, si ritiene che essendo un fabbricato in costruzione le imposte vadano pagate in base al valore venale dell’area fabbricabile, così come peraltro già ritenuto anche da parte della giurisprudenza (Tar Calabria, n. 530/2013).
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Domande&Risposte. La valutazione monetaria per metro quadrato.
Il piano particolareggiato alza il valore.

Cifre discordanti
Ho un’area fabbricabile per la quale è stato approvato il piano particolareggiato in data 10 marzo. Il Comune nella delibera di determinazione dei valori delle aree distingue tra aree prive di piano particolareggiato, per le quali attribuisce un valore di 100 euro/mq e le aree con piano approvato, per le quali è previsto un valore di 150 euro/mq. Siccome il valore al 1° gennaio della mia area era pari a 100 euro/mq, ritengo di dover utilizzare tale valore per l’intero 2016. È corretta questa modalità di calcolo?
Si ritiene che la modalità seguita non sia corretta. La normativa prevede di far riferimento al valore venale in comune commercio al 1° gennaio, ma si tratta di un’esemplificazione a favore del contribuente che deve essere letta nel senso di far riferimento al valore delle “singole categorie” di aree fabbricabili.
Infatti, il valore dell’area fabbricabile cambia secondo lo stato di attuazione dello strumento urbanistico, e un’area con piano particolareggiato approvato ha indubbiamente un valore venale più elevato di un’area sprovvista di piano. Pertanto, il contribuente dovrà versare l’acconto considerando il valore di 100 euro/mq per 2/12 ed il valore di 150 euro/mq (ovvero il valore al 1° gennaio delle aree con piano approvato) per gli altri 10/12.
Il «nodo» congruità
Il Comune delibera i medesimi valori da molti anni, ma ritengo che con la crisi del settore edilizio questi valori siano ormai eccessivi. Se non mi adeguo ai valori comunali rischio di subire un accertamento?
A differenza dell’Ici la normativa Imu non prevede più la possibilità per i Comuni di deliberare dei valori di riferimento per limitare la propria attività di accertamento. Ciononostante molti Comuni hanno continuato a deliberare i valori delle aree per fornire un supporto ai contribuenti.
Ciò detto va anche precisato che la delibera comunale non può cambiare i criteri di determinazione della base imponibile delle aree, perché la base imponibile è sempre data dal valore venale in comune commercio. Se il contribuente ritiene che i valori deliberati dal Comune siano eccessivi potrà corrispondere l’imposta facendo riferimento a valori più bassi.
Se il Comune dovesse in seguito accertare un infedele versamento, al Comune spetterà anche dimostrare la congruità del valore deliberato, non essendo sufficiente un mero rinvio alla delibera comunale. Parimenti, il contribuente dovrà dimostrare la congruità del valore utilizzato
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.06.2016).

EDILIZIA PRIVATA: Amianto, bonus per i capannoni. Credito d'imposta del 50% delle spese di bonifica sostenute. Lo prevede un decreto alla firma di Padoan e presto in Gazzetta. Click day per le domande.
In arrivo il bonus per le imprese che avviano operazioni di bonifica da amianto sui loro beni e strutture produttive. I titolari di reddito di impresa che effettuano interventi di bonifiche su capannoni nel corso del 2016 potranno beneficiare del riconoscimento di un credito d'imposta del 50%. La presentazione delle domande avverrà collegandosi a una piattaforma informatica già predisposta dal ministero dell'ambiente. Nel momento della presentazione della domanda, le spese saranno certificate da un professionista del settore (revisore legale, commercialista e consulente del lavoro).
Questo è quanto riferiscono a ItaliaOggi fonti interne al ministero dell'ambiente in merito al decreto sul «bonus fiscale per le bonifiche dell'amianto» attualmente alla firma del ministro dell'economia e delle finanze, Pier Carlo Padoan.
Il decreto è attuativo della legge 28.12.2015 n. 221 (cosiddetto collegato ambiente 2015) che ha introdotto una serie di disposizioni per promuovere le misure della green economy. La concessione delle nuove risorse sarà gestita con un click day e andrà avanti fino all'esaurimento del plafond disponibile. A disposizione 17 milioni, spalmati su tre annualità: 5,6 mln di euro all'anno.
Tipologia di interventi ammissibili. Due le categorie di operazioni che saranno ammissibili al riconoscimento del credito d'imposta del 50%. La prima riguarderà «gli interventi di rimozione e smaltimento, anche previo trattamento in impianti autorizzati, dell'amianto presente in coperture e manufatti di beni e strutture produttive ubicati nel territorio nazionale effettuati nel rispetto della normativa ambientale e di sicurezza nei luoghi di lavoro».
Quindi, potranno accedere all'incentivo gli interventi fisici di bonifica operati su capannoni industriali. La seconda categoria, invece, è relativa alla possibilità di richiedere il credito d'imposta per le consulenze professionali e le perizie tecniche, ma entro il limite del 10% delle spese totali e, comunque, non oltre i 10 mila euro per ogni progetto.
Tetti al credito d'imposta. Il credito d'imposta potrà essere riconosciuto nella misura del 50% delle spese totali sostenute dall'impresa che effettua la bonifica. Il bonus spetta al contribuente che sostiene un intervento di bonifica di almeno 20.000 euro.
Per ogni azienda, comunque, non potranno essere ammessi costi superiori a 400 mila euro totali. Lo sconto fiscale sarà pari a 200 mila euro. L'agevolazione sarà concessa nei limiti e alle condizioni del regolamento europeo sugli aiuti de minimis. E non concorrerà alla formazione del reddito ai fini delle imposte dirette e del valore della produzione ai fini Irap.
Il ministero dell'ambiente, una volta ricevute le istanze delle imprese, determinerà l'ammontare del credito spettante a ciascun richiedente e trasmetterà telematicamente all'Agenzia delle entrate, l'elenco dei soggetti beneficiari e il relativo credito spettante. La prima quota annuale sarà utilizzabile a decorrere dal 1° gennaio del periodo d'imposta successivo a quello in cui sono stati effettuati gli interventi di bonifica (intervento nel 2016, utilizzo in compensazione dal 01.01.2017).
Pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale. La pubblicazione del decreto è prevista nel giro di qualche settimana, comunque entro la fine di giugno. Dopo 30 giorni dovrebbe partirà il click day che, quindi, facendo qualche calcolo dovrebbe scattare a luglio. Per la presentazione della domanda l'impresa dovrà utilizzare un modello standard già redatto dal ministero dell'ambiente e allegato al dm (articolo ItaliaOggi del 03.06.2016).

EDILIZIA PRIVATA: Per la Scia modelli unificati Ok della camera al dlgs.
Parere positivo anche della camera al dlgs Madia di riforma della Scia seppur con qualche correttivo da apportare al provvedimento. Nella predisposizione della modulistica Scia unificata sarà necessario definire, per tipologia di procedimento, i contenuti tipici delle istanze, e delle segnalazioni, come pure della documentazione da allegare.
Con la finalità di assicurare che tali formulari saranno effettivamente standardizzati, esaustivi ed efficaci ai fini dell'alleggerimento degli oneri burocratici a carico del cittadino. Chiarendo la decorrenza dei termini per la formazione della Scia e dei termini entro i quali il silenzio dell'amministrazione equivale ad accoglimento della domanda (silenzio-assenso), che dovrebbero decorrere dalla data di ricevimento, da parte dell'amministrazione, della comunicazione o istanza.

La commissione affari costituzionali della camera dopo la posizione positiva del senato (si veda ItaliaOggi del 21.05.2016) ha concluso l'esame dello schema di dlgs recante «attuazione della delega in materia di segnalazione certificata di inizio attività (Scia)» [Atto del Governo n. 291 - Schema di decreto legislativo recante attuazione della delega in materia di segnalazione certificata di inizio attività (SCIA)].
La commissione parlamentare per la semplificazione, alla quale lo schema è stato parimenti assegnato ha espresso sul provvedimento in oggetto un parere favorevole lo scorso 25.05.2016, con specifiche osservazioni. Ricordiamo che il provvedimento, a seguito del parere della commissione bilancio del senato, che deve ancora esprimersi sul testo, tornerà all'esame del consiglio dei ministri.
Sullo schema di dlgs è previsto un parere parlamentare «rinforzato» come stabilito dalla legge delega n. 124/2015 (cosiddetta legge Madia). Qualora infatti, il governo non dovesse conformarsi alle indicazioni del parlamento, dovrà trasmettere nuovamente il testo alle camere con le sue osservazioni e con eventuali rettifiche (supportate da elementi integrativi di informazione e motivazione) per il secondo parere, da esprimersi entro dieci giorni.
Decorso tale termine il testo potrà essere comunque adottato in via definitiva dal consiglio dei ministri (articolo ItaliaOggi del 03.06.2016).

PUBBLICO IMPIEGOAccertamenti ammessi per i permessi per assistenza.
Il datore di lavoro non può negare la fruizione dei permessi per assistenza a disabili durante il periodo di ferie già programmate, ma può verificare l'effettiva indifferibilità della assistenza.

Lo precisa il Ministero del lavoro nell'interpello 20.05.2016 n. 20/2016, a risposta di un quesito della Cgil.
Il sindacato ha chiesto chiarimenti sui permessi ex art. 33, comma 3, della legge n. 104/1992, in particolare per sapere se, ai sensi di tale norma, il datore di lavoro possa negare l'utilizzo di tali permessi nel periodo di ferie programmate, anche nel caso di chiusura di stabilimento (c.d. fermo produttivo), nel rispetto delle disposizioni contrattuali in materia.
La norma, spiega il ministero, riconosce tali permessi ai familiari che assistono persone con handicap, nonché ai lavoratori disabili, al fine di tutelare i diritti fondamentali del soggetto diversamente abile garantendogli dunque una adeguata assistenza morale e materiale. Per quanto concerne, invece, l'istituto delle ferie, diritto costituzionalmente garantito (art. 36, ult. comma, Costituzione), la ratio risiede nella possibilità concessa al lavoratore di recuperare le energie psico-fisiche impiegate nello svolgimento dell'attività lavorativa corrispondendo altresì ad esigenze, anche di carattere ricreativo, personali e familiari.
Il datore di lavoro, ai sensi dell'art. 2109 del codice civile, può stabilire il periodo di godimento delle ferie annuali nel rispetto della durata fissata dalla legge e dalla contrattazione collettiva. Tenuto conto delle diverse finalità dei due istituti, qualora la necessità di assistenza al disabile si verifichi durante il periodo di ferie programmate o del fermo produttivo, la fruizione del relativo permesso sospende il godimento delle ferie.
In conclusione, il ministero ritiene che trovi applicazione il principio della prevalenza delle improcrastinabili esigenze di assistenza e di tutela del diritto del disabile sulle esigenze aziendali e, pertanto, il datore di lavoro non può negare la fruizione dei permessi (ex art. 33 della legge n. 104/1992) durante il periodo di ferie già programmate, ferma restando la possibilità di verificare l'effettiva indifferibilità della assistenza (art. 33, comma 7-bis, della stessa legge n. 104/1992) (articolo ItaliaOggi del 03.06.2016).

APPALTI: Gli appalti riservati si aprono anche ai lavoratori svantaggiati.
L'articolo 112 del d.lgs 50/2016, in parte corretto rispetto alla formulazione iniziale, introduce importanti novità in merito alla possibilità attivare appalti a «causa mista», il cui scopo, cioè, non sia solo l'acquisizione della prestazione del bene, servizio o lavoro, ma anche la possibilità di favorire l'inserimento socio-lavorativo delle persone.
Fino ad oggi, gli scopi di inserimento socio-lavorativo sono stati perseguiti fondamentalmente attraverso l'opera della cooperazione sociale, applicando le disposizioni degli articolo 4 e 5 della legge 381/1991, ai sensi delle quali sono possibili affidamenti aventi valore inferiore alla soglia comunitaria a cooperative sociali di tipo B, aventi scopo di inserimento lavorativo, mediante procedure semplificate, in tutto compatibili con quelle disciplinate, oggi, dall'articolo 36, del nuovo codice degli appalti.
L'articolo 112 di detto codice si premura di confermare esplicitamente l'applicabilità di questa normativa speciale rivolta alle cooperative sociali: è, dunque, da concludere che il dlgs 50/2016 non ha comportato l'abolizione delle previsioni della legge 381/1991. Restano, quindi, in piedi le possibilità degli affidamenti a cooperative sociali, per altro recente oggetto delle linee guida espresse dall'Anac con la determinazione 32/2016.
In aggiunta a questa disciplina, che resta confermata, l'articolo 112 contiene un'altra importante precisazione: lascia operante anche la disciplina dei cosiddetti «appalti riservati», cioè gare per l'affidamento soprattutto di servizi, che le stazioni appaltanti possono riservare alla partecipazione o all'esecuzione solo di operatori economici, e ovviamente anche cooperative sociali e loro consorzi, a condizione che il loro scopo principale sia l'integrazione sociale e professionale delle persone con disabilità o svantaggiate. L'articolo consente a che la riserva dell'esecuzione ai medesimi soggetti nel contesto di «programmi di lavoro protetti», se almeno il 30 per cento dei lavoratori dei suddetti operatori economici sia composto da lavoratori con disabilità o da lavoratori svantaggiati.
L'importante novità consiste nell'estensione dell'elenco dei lavoratori in condizione di svantaggio. Fino al d.lgs 50/2016 si consideravano esclusivamente i soggetti elencati dall'articolo 4 della legge 381/1991. L'articolo 112 del nuovo codice dei contratti, però, parlando esplicitamente di «lavoratori svantaggiati» e «persone svantaggiate» si riferisce indirettamente in modo chiaro a quella categoria di lavoratori caratterizzati da particolari condizioni soggettive tali da limitarne fortemente l'accesso al mercato del lavoro, elencati, oggi, dal Regolamento (Ue) n. 651/2014 della Commissione del 17.06.2014.
Dunque, gli appalti riservati potranno prendere in considerazione anche chi non abbia un impiego regolarmente retribuito da almeno sei mesi, o i disoccupati di età compresa tra i 15 e i 24 anni, o chi non possieda un diploma di scuola media superiore o professionale (livello Isced 3); o, anche a chi abbia completato la formazione a tempo pieno da non più di due anni e non abbia ancora ottenuto il primo impiego regolarmente, nonché i disoccupati over 50, gli adulti che vivono da soli con una o più persone a carico, gli occupati in professioni o settori caratterizzati da un elevato tasso di disparità uomo-donna, gli appartenenti a minoranze etniche degli Stati membri della Ue che necessitino di migliorare la propria formazione linguistica e professionale o la propria esperienza lavorativa per aumentare le prospettive di accesso ad un'occupazione stabile.
Per le amministrazioni pubbliche ed i comuni in particolare, quindi, gli appalti riservati alla cooperazione sociale e agli operatori economici ispirati alla tutela delle esigenze sociale possono diventare una leva molto importante, allo scopo di creare un «quasi mercato», nel quale agevolare vere e proprie esperienze lavorative dei lavoratori svantaggiati.
Con l'evidente beneficio di attivare le persone verso un lavoro concreto e di sostituire all'intervento assistenziale puro e semplice un progetto di autonomia lavorativa che favorisca un ingresso il più possibile forte nel mercato del lavoro per persone che altrimenti resterebbero escluse e dipendenti dalla sola assistenza (articolo ItaliaOggi del 03.06.2016).

EDILIZIA PRIVATA: Addio al certificato di agibilità. E dal 2017 saranno su internet tutti i dati dei rogiti. DECRETO COMPETITIVITÀ/ Le misure allo studio per il rilancio dell'economia.
Addio al certificato di agibilità. Sarà sostituito dalla segnalazione certificata di agibilità. Inoltre trasparenza delle vendite immobiliari: dal 2017 sul sito dell'Agenzia del territorio saranno disponibili i dati dei rogiti (tranne nomi delle parti).
Sono alcune delle novità, nel settore dell'edilizia e degli immobili, in corso di definizione nel decreto competitività, atteso in uno dei prossimi consigli dei ministri.
Ma vediamo di tratteggiare le disposizioni in corso di elaborazione.
AGIBILITÀ
Viene riscritta tutta la procedura per l'agibilità. Viene definitivamente eliminato il certificato di agibilità, che prevede da parte del comune un mero controllo documentale. Si valorizza il collaudo statico e il controllo ispettivo sull'opera realizzata.
Inoltre il certificato di collaudo statico assorbirà il certificato di rispondenza dell'opera alle norme tecniche eliminando le duplicazioni di adempimenti.
Secondo le misure allo studio è attribuito al direttore lavori o, se non è stato nominato, ad un professionista abilitato il compito di attestare la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene e salubrità e risparmio energetico degli edifici e degli impianti, valutate secondo quanto dispone la normativa.
Alla presentazione delle Scia seguiranno i controlli anche attraverso un'attività ispettiva sulle opere realizzate da effettuarsi con modalità stabilite dalle regioni e dai comuni. Le nuove norme danno uniformità alla procedura relativa all'agibilità degli edifici, ad oggi sottoposta a regimi differenziati tra una regione e l'altra (certificato di agibilità rilasciato dal comune, attestazione del tecnico e certificato di collaudo sempre previsti).
AUTORIZZAZIONE SISMICA
Per quanto riguarda gli adempimenti formali nei confronti dell'ufficio tecnico regionale, ferma restando, se prevista, l'autorizzazione sismica, viene assicurato nelle località a bassa sismicità un regime omogeneo e tempi certi.
Sono previste modifiche agli articoli 93 e 94 del T.u. Edilizia (dpr 80/2001). Il governo, le regioni e enti locali concluderanno in sede di conferenza unificata accordi, ai sensi dell'articolo 9 del dlgs 281/1997, in base ai quali viene individuato un elenco tassativo di interventi secondari e minori che non comportano pericoli per la pubblica incolumità da sottoporre a Scia e Cil.
In questo modo gli adempimento vengono differenziati in relazione alle esigenze di tutela della pubblica incolumità sulla base del principio di proporzionalità.
Nelle relazioni esplicative del provvedimento si legge che attualmente la costruzione di un muretto a secco in campagna o di un tramezzo sono soggetti alla stessa disciplina prevista per la sopraelevazione di un edificio. Le disposizioni allo studio riducono i tempi medi di rilascio delle autorizzazioni e del permesso di costruire.
Viene introdotta l'autorizzazione attualmente non prevista nelle zone a bassa sismicità per interventi relativi a edifici di interesse strategico e alle opere infrastrutturali, la cui funzionalità durante gli eventi sismici assume rilievo fondamentale per le finalità di protezione civile nonché per gli interventi relativi agli edifici e alle opere.
TRASPARENZA IMMOBILIARE
Il decreto vuole dare visibilità alle informazioni su compravendite e prezzi nel settore immobiliare, informato elettronico. Sul sito dell'Agenzia del territorio, dal 2017, disponibili i dati sulla descrizione degli immobili e sui prezzi degli atti rogitati dai notai. È una cosa diversa dalla visura, che viene chiesta caso per caso presso le conservatorie. La proposta normativa non riguarda gli immobili e la loro storia come nelle visure in catasto/conservatoria. Si tratta di informazioni sulle transazioni definite con atti notarili.
Si potrà tracciare una mappa in cui si evidenziano i prezzi delle singole case, cosicché gli operatori potranno visualizzare i prezzi delle transazioni immobiliari in una certa area.
Per ragioni di riservatezza non sono visibili le informazioni personali delle parti e non sarà disponibile la copia degli atti (per cui si dovrà continuare a chiedere la visura) (articolo ItaliaOggi dell'01.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Legali, l'assicurazione è d'obbligo. Coperta la responsabilità per qualsiasi tipo di danno. La prima bozza del decreto sulla rc professionale messa a punto dal ministero della giustizia.
In arrivo l'assicurazione obbligatoria anche per gli avvocati. Il ministero della giustizia, a tre anni e mezzo dall'entrata in vigore della riforma forense, ha messo a punto la bozza di decreto che individua le condizioni essenziali della polizza sulla responsabilità civile professionale. Dando così attuazione all'art. 12 della legge n. 247/2012.
Considerando, però, che la bozza è all'inizio del suo lungo iter di consultazione (Cnf, Consiglio di stato, parlamento) e la sua entrata in vigore è prevista un anno dopo la pubblicazione in G.U., con tutta probabilità l'obbligo di rc professionale, per gli avvocati, sarà attivo solo nel 2018. Il provvedimento è stato infatti inviato da via Arenula al Cnf per il consueto parere, mentre ieri il Cnf lo ha trasmesso a Oua, Cassa forense, ordini territoriali e associazioni maggiormente rappresentative che dovranno formulare le relative osservazioni entro il 27.06.2016.
La copertura. La bozza di decreto prevede che l'assicurazione debba coprire la responsabilità per qualsiasi tipo di danno: patrimoniale, non patrimoniale, indiretto, permanente, temporaneo, futuro. Deve coprire inoltre la responsabilità per i pregiudizi causati, oltre ai clienti, anche alle controparti processuali, al difensore di queste ultime e a qualunque soggetto estraneo al rapporto di mandato professionale.
L'assicurazione deve prevedere altresì la copertura della responsabilità civile derivante da fatti colposi o dolosi di collaboratori, praticanti, dipendenti, sostituti processuali. In caso di responsabilità solidale dell'avvocato con altri soggetti, assicurati e non, la polizza deve prevedere la copertura della responsabilità dell'avvocato per l'intero, salvo il diritto di regresso nei confronti dei condebitori solidali.
I massimali. L'art. 3 disciplina i massimali minimi di copertura per fascia di rischio, prevedendo che, in presenza di franchigie e scoperti l'assicuratore sarà comunque tenuto a risarcire il terzo per l'intero importo dovuto, ferma restando la sua facoltà di recuperare l'importo della franchigia.
Gli infortuni. L'art. 4 del decreto disciplina anche l'assicurazione contro gli infortuni, che deve essere prevista a favore degli avvocati e dei loro collaboratori, praticanti e dipendenti per i quali non sia operante la copertura assicurativa obbligatoria Inail. Devono essere coperti gli infortuni occorsi durante lo svolgimento dell'attività professionale, i quali causino la morte, invalidità permanente o temporanea, nonché delle spese mediche.
Il contratto deve includere tra i rischi assicurati l'infortunio derivante dagli spostamenti resi necessari dallo svolgimento dell'attività professionale. Le somme assicurate minime sono: 100 mila euro di capitale in caso di morte; 100 mila euro di capitale in caso di invalidità permanente e 50 euro di diaria giornaliera da inabilità temporanea (articolo ItaliaOggi dell'01.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATAIl certificato di destinazione urbanistica rientra nella categoria degli atti di certificazione redatti da pubblico ufficiale aventi carattere dichiarativo o certificativo del contenuto di atti pubblici preesistenti e pertanto esso non può essere sussunto nella categoria del documento amministrativo così come definito dall’art. 22 l. 07.08.1990, n. 241, costituendo l’esercizio di una funzione dichiarativa o certificativa sulla base degli atti di strumentazione urbanistica.
Pertanto, il suo rilascio non può avvenire nelle forme del diritto di accesso, ma secondo le specifiche fonti normative, legislative e regolamentari, che precipuamente riguardano tali tipi di atti amministrativi.
In sostanza, il certificato di destinazione urbanistica non è soggetto alle norme in materia di accesso ai documenti amministrativi, non essendo un “documento” già formato e “detenuto” dalla Pubblica Amministrazione –come richiesto dalla normativa di settore- ma implicando lo svolgimento di un’attività ulteriore di carattere accertativo e dichiarativo della P.A., sulla scorta delle risultanze della strumentazione urbanistica: attività inammissibile in sede di accesso agli atti, che presuppone il carattere già formato e precostituito del documento oggetto dell’istanza, suscettibile di essere osteso all’interessato attraverso una semplice attività di ricerca e di rilascio di copia
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... per l'accertamento del diritto della ricorrente ad ottenere il rilascio del certificato di destinazione urbanistica.
...
1. Con ricorso notificato il 18-22.03.2016 e depositato il 1° aprile successivo, la signora Fe.Gi., agendo in proprio ai sensi dell’art. 23 cod. proc. amm., ha premesso di aver presentato in data 21.01.2016 al Segretario Comunale del Comune di Maglione un’istanza concernente il rilascio del certificato di destinazione urbanistica (storicizzato dal 10.01.2012), relativo alle seguenti particelle catastali: Foglio 18 nn. 38 e 39; Foglio 18 nn. 24, 25 e 28; Foglio 17 nn. 87 AA e 88, autocertificandone la comproprietà con i signori Fe.Gi. e Ga. geom. Gi., a dimostrazione della titolarità di una situazione soggettiva giuridicamente rilevante all’accesso; tuttavia, l’istanza in questione sarebbe stata respinta dall’Amministrazione.
Attraverso una serie di considerazioni di carattere generale, non sempre di agevole percezione, la ricorrente ha chiesto a questo Tribunale di dichiarare il suo diritto di accedere al predetto documento, con conseguente condanna dell’amministrazione comunale a rilasciarne copia alla ricorrente.
2. Il Comune di Maglione non si è costituito in giudizio.
3. All’udienza in camera di consiglio dell’08.06.2016, nessuna delle parti presente, la causa è stata trattenuta per la decisione.
4. Il ricorso va dichiarato inammissibile, non essendo stati prodotti in giudizio né l’asserito provvedimento di diniego di accesso adottato dall’amministrazione comunale, né l’istanza di accesso asseritamente presentata dalla ricorrente in data 21.01.2016, rispetto alla quale valutare l’eventuale formazione del silenzio rigetto di cui all’art. 25 L. n. 241/1990.
5. Solo per completezza –e fermo il rilievo dell’inammissibilità– il ricorso è pure infondato nel merito.
La giurisprudenza ha infatti affermato che “Il certificato di destinazione urbanistica rientra nella categoria degli atti di certificazione redatti da pubblico ufficiale aventi carattere dichiarativo o certificativo del contenuto di atti pubblici preesistenti e pertanto esso non può essere sussunto nella categoria del documento amministrativo così come definito dall’art. 22 l. 07.08.1990, n. 241, costituendo l’esercizio di una funzione dichiarativa o certificativa sulla base degli atti di strumentazione urbanistica; pertanto, il suo rilascio non può avvenire nelle forme del diritto di accesso, ma secondo le specifiche fonti normative, legislative e regolamentari, che precipuamente riguardano tali tipi di atti amministrativi” (TAR Potenza, sez. I 29.01.2016 n. 55; TAR Lecce, sez. II 17.09.2009 n. 2121.
In sostanza, il certificato di destinazione urbanistica non è soggetto alle norme in materia di accesso ai documenti amministrativi, non essendo un “documento” già formato e “detenuto” dalla Pubblica Amministrazione –come richiesto dalla normativa di settore- ma implicando lo svolgimento di un’attività ulteriore di carattere accertativo e dichiarativo della P.A., sulla scorta delle risultanze della strumentazione urbanistica: attività inammissibile in sede di accesso agli atti, che presuppone il carattere già formato e precostituito del documento oggetto dell’istanza, suscettibile di essere osteso all’interessato attraverso una semplice attività di ricerca e di rilascio di copia (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 18.06.2016 n. 887 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

VARI: Titoli esecutivi, la sentenza in contumacia non è sufficiente. La corte di giustizia europea sulla certificazione delle decisioni giudiziarie.
Non basta una sentenza contumaciale di livello nazionale per far valere un titolo esecutivo in altri Paesi europei.

Lo ha stabilito ieri la Corte europea di giustizia, con la sentenza 16.06.2016 - C-511/14, con la quale ha precisato «che la procedura di certificazione di una decisione giudiziaria quale titolo esecutivo europeo deve necessariamente ricevere una qualificazione autonoma rispetto alle norme processuali dei singoli Paesi membri».
Il caso riguarda la società Pebros Servizi Srl, che aveva ottenuto dal Tribunale di Bologna una sentenza di condanna della Aston Martin Logonda Ltd al pagamento di 18 mila euro. Durante il processo, quest'ultima era stata dichiarata contumace, e pur essendo edotta della pendenza non si era costituita e il processo si è svolto in sua assenza. La sentenza non è stata impugnata e perciò resa definitiva.
A questo punto la Pebros ha chiesto di certificare il valore di titolo esecutivo europeo della sentenza di condanna (come prevede il Regolamento 805/2004), per avviare l'esecuzione in un altro Paese Ue. Ma il Tribunale di Bologna ha adito la Corte Ue chiedendo «se la nozione di non contestazione del credito ai sensi della normativa europea debba intendersi in un'accezione svincolata da quella che ne dà il diritto italiano, con la conseguenza che dovrebbe ritenersi non contestato anche il credito portato da una sentenza definitiva di condanna emessa all'esito di un giudizio contumaciale».
La sentenza della Corte Ue ha stabilito che «la procedura di certificazione va vista, più che come una vicenda distinta dal processo giurisdizionale che l'ha preceduta (di carattere amministrativo) come l'ultima tappa di tale processo, necessaria al perfezionamento della decisione giudiziale quale titolo esecutivo europeo». E una volta ricevuta una qualificazione autonoma rispetto alle norme processuali dei singoli Paesi membri, la procedura (propria del diritto dell'Unione) «va interpretata soltanto alla luce di tale diritto». E dunque «il rinvio alle norme interne concerne esclusivamente le modalità procedurali di opposizione alle richieste del creditore, e non le conseguenze della contumacia del debitore».
Il credito «è da reputarsi incontestato laddove il debitore non faccia nulla per eccepire il fatto che non sia dovuto, non costituendosi, sebbene invitato, con atti scritti o comparendo in udienza» (articolo ItaliaOggi del 17.06.2016).

ENTI LOCALILegittimo tagliare le partecipate. La spending review giustifica la razionalizzazione. La Consulta respinge il ricorso contro la legge di Stabilità 2015. Blindata la riforma Madia.
Lo Stato, per ragioni di contenimento della spesa pubblica, può imporre a regioni ed enti locali di razionalizzare le proprie partecipate.

Il via libera arriva dalla Corte costituzionale, che con la sentenza 16.06.2016 n. 144, depositata ieri, ha respinto il ricorso della regione del Veneto che lamentava la lesione delle proprie prerogative in materia di «organizzazione e funzionamento».
Nel mirino c'erano le norme della legge di stabilità 2015 (legge 190/2014), ma il vero aspetto di interesse della pronuncia è che essa pare scritta anche pensando alle misure contenute nel decreti attuativi della legge Madia.
Tornando alla disciplina vigente (commi 611 e 612 della l. 190), essa ha imposto agli organi di vertice degli enti territoriali (governatori, presidenti di provincia e sindaci) di definire e approvare, entro il 31.03.2015, un piano operativo di razionalizzazione delle società e delle partecipazioni societarie direttamente o indirettamente possedute, declinandone le modalità e i tempi di attuazione, nonché i risparmi da conseguire. È stato anche previsto l'intervento di un organo terzo individuato nella Corte dei conti, stabilendo che il piano fosse trasmesso alla competente sezione regionale di controllo cui, il 31.03.2016, occorreva dare conto dei risultati conseguiti.
Non tutte le amministrazioni, a dire il vero, si sono adeguate, mentre il Veneto, come detto, si è rivolto alla Consulta, la quale, però, ha dichiarato infondato il ricorso. Secondo i giudici delle leggi, le norme in questione, mirando alla razionalizzazione ed al contenimento della spesa pubblica, si inquadrano nell'ambito della potestà legislativa statale afferente al «coordinamento della finanza pubblica» ex art. 117, terzo comma, Cost..
Il che dimostra che, al di là dell'esito del referendum sulla riforma costituzionale (che rafforza ulteriormente in ruolo statale in materia finanziaria), Roma ha ampi margini di manovra anche a legislazione vigente.
Sempre ieri, la Corte ha respinto i ricorsi del Veneto contro i tagli ai bilanci regionali previsti dalla stessa l 190. A differenza di quanto accaduto con la sentenza n. 129/2016, che ha bocciato le regole di finanziamento dei comuni applicate negli ultimi quattro anni (si veda ItaliaOggi del 06/06/2016), la sentenza n. 141/2016 non ha ravvisato alcun problema di costituzionalità, atteso che la misura delle riduzioni è rimessa ad un accordo fra i governatori e solo in mancanza di intesa viene quantificata in misura lineare in base a Pil e popolazione.
Da segnalare, infine, la sentenza n. 143/2016, che ha respinto le contestazioni mosse da diverse regioni rispetto alle limitazioni a specifiche voci di spesa delle province (mutui, rappresentanza, personale, ecc) previste dalla l 190. Si tratta, infatti, di un intervento organico rispetto alla revisione dell'assetto organizzativo e funzionale degli enti di area vasta attuato dalla legge «Delrio» (l. 56/2014) (articolo ItaliaOggi del 17.06.2016).

EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: La ruralità del fabbricato dipende dall'effettiva destinazione. Il principio ribadito dalla commissione tributaria provinciale di Firenze.
Ruralità dei fabbricati strumentali a prescindere da “qualsiasi” caratteristica soggettiva e oggettiva. Conta soltanto la destinazione “effettiva” dell'immobile allo svolgimento delle attività agricole, di cui all'art. 2135 c.c..

Il principio è stato ribadito dalla Ctp Firenze (sentenza 15.06.2016 n. 889/2016) che ha richiamato in toto una precedente sentenza di altra sezione (sezione 2 – sentenza 12.05.2016 n. 760/2016).
Il contenzioso verteva sul fatto che, per il Territorio, l'annotazione di ruralità non poteva essere eseguita su un immobile censito in categoria “A/1”, giacché immobile con caratteristiche di lusso; il contribuente, in attesa dell'esito del contenzioso aveva proceduto al versamento dei tributi locali dovuti (Ici e Imu), ma aveva fatto istanza di rimborso, puntualmente denegata dal comune di riferimento, e il diniego era stato impugnato dalla società istante.
Il problema verteva sull'errata applicazione delle disposizioni vigenti, poiché il Territorio (e di conseguenza, il Comune) non aveva tenuto conto della distinta collocazione dei fabbricati rurali strumentali (comma 3-bis, art. 9, dl 557/1993), rispetto a quella degli abitativi (comma 3, artt. 9, dl 557/1993), la quale non richiede alcuna condizione ulteriore alla destinazione “strumentale” allo svolgimento delle attività agricole del fabbricato.
Dopo la riunione dei due ricorsi, la commissione adita (sezione 2), pronunciandosi sul merito, ha riconosciuto la ruralità, di cui al citato comma 3-bis, richiamando la precedente presa di posizione di altra sezione (sezione 5) della medesima commissione che aveva affermato, sempre per il medesimo contribuente, che “il riconoscimento della ruralità, in presenza dei requisiti di cui al citato art. 9, c. 3-bis, prescinde da qualsiasi altra caratteristica oggettiva e soggettiva dell'edificio, e anche dall'appartenenza catastale, in quanto rileva soltanto la sua oggettiva strumentalità all'attività agricola dell'azienda”.
L'indicazione è in linea con le disposizioni vigenti e con altra affermazione, in tal caso della Ctr Toscana (sentenza n. 2003/2014), le quali confermano, in estrema sintesi, che, per effetto della “autonoma” previsione (comma 3-bis e non 3, dell'art. 9, D.L. 557/1993), il requisito è solo oggettivo (Cassazione, sentenze n. 24277/2009 e 24300/2009) dovendo, l'immobile, essere soltanto destinato allo svolgimento delle attività agricole, a prescindere dal classamento e dalla rendita attribuita.
La conseguenza, come nella fattispecie esaminata dalla commissione, cui la sentenza in commento fa riferimento, è che un fabbricato censito in categoria “A/1” destinato effettivamente all'esercizio delle attività agrituristiche, rispetta il requisito oggettivo e, quindi, deve poter ottenere, dal Territorio, la classificazione in “D/10” o l'annotazione di ruralità.
Infatti, con l'emanazione del dm 26/07/2012, le unità immobiliari, di qualsiasi tipo (abitative e strumentali) debbono essere censite nelle categorie “ordinarie” e, se rispettose delle condizioni richieste, le stesse sono qualificate “rurali”, con tutte le agevolazioni a tale qualifica riferibili, con la semplice annotazione (articolo ItaliaOggi del 18.06.2016).

APPALTI: Offerte: col prezzo a discrezione la busta tecnica si apre insieme.
In una gara di appalto pubblico l'apertura delle buste economiche contemporaneamente a quelle tecniche è legittima quando il giudizio sul prezzo assume natura discrezionale.

È quanto ha stabilito il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 13.06.2016 n. 2530 con riferimento a una gara bandita con la disciplina dell'offerta economicamente più vantaggiosa del decreto 163/2006 (art. 83, oggi 95 del decreto 50/2016).
Nel caso esaminato dalla stazione appaltante (un appalto del servizio di assistenza per l'integrazione scolastica degli alunni diversamente abili in una scuola di Roma) la commissione di gara doveva valutare se la struttura dei costi previsti dal concorrente per la realizzazione del servizio esposta nel piano economico-finanziario fosse in grado di soddisfare i sub-criteri di valutazione inerenti la trasparenza, coerenza, completezza e sostenibilità dell'offerta rispetto alle attività oggetto dell'appalto, oltre all'efficace ed efficiente impiego delle risorse.
Per il collegio giudicante la rispondenza delle offerte a questi parametri, che in effetti comportano una sorta di anticipazione della verifica di congruità rispetto a un valore economico predeterminato dall'amministrazione, non si traduce in una valutazione effettuabile sulla base del mero riscontro documentale dei valori esposti nel piano economico-finanziario, ma richiede il necessario approfondimento del documento in combinato con l'offerta tecnica. Soltanto così, dice la sentenza, è possibile accertare la coerenza complessiva del progetto proposto e la plausibilità delle relative grandezze finanziarie.
Pertanto il fatto che la commissione abbia preso visione del piano economico-finanziario prima di procedere alla valutazione delle offerte tecniche non influenza i giudizi della commissione sul pregio di queste ultime e, quindi, non emerge alcun profilo di lesione dei principi di imparzialità e trasparenza.
In considerazione della particolare natura dell'appalto e del fatto che il giudizio richiesto alla commissione sull'offerta economica è di carattere discrezionale, l'apertura delle buste contenenti le offerte economiche contestualmente a quelle contenenti l'offerta tecnica, non determina alcuna indebita commistione tra le due fasi valutative (articolo ItaliaOggi del 17.06.2016).
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MASSIMA
5. Tanto premesso in fatto, il Collegio ritiene di aderire alle conclusioni cui è giunto il TAR, e cioè che
l’apertura delle buste contenenti le offerte economiche contestualmente a quelle contenenti l’offerta tecnica, non ha determinato alcuna indebita commistione tra le due fasi valutative in cui si snoda la selezione condotta con il criterio previsto dall’art. 83 cod. contratti pubblici, per le particolari caratteristiche dell’elemento di valutazione dell’offerta economica.
Come infatti sopra accennato, quest’ultima non consisteva nella formulazione di un prezzo fisso, immediatamente valutabile, e tale da creare una sovrapposizione rispetto all’offerta tecnica. Al pari di quest’ultima, il giudizio richiesto alla commissione sull’offerta economica era invece di carattere discrezionale.
6.
L’organo di gara era infatti chiamato a valutare se la struttura dei costi previsti dalla concorrente per la realizzazione del servizio esposta nel piano economico-finanziario fosse in grado di soddisfare i sub-criteri di valutazione sopra citati, e cioè la trasparenza, coerenza, completezza e sostenibilità dell’offerta rispetto alle attività oggetto dell’appalto ed inoltre l’efficace ed efficiente impiego delle risorse.
La rispondenza delle offerte a questi parametri, comportanti una sorta di anticipazione della verifica di congruità rispetto ad un valore economico predeterminato dall’amministrazione, non si traduce evidentemente in una valutazione effettuabile sulla base del mero riscontro documentale dei valori esposti nel piano economico-finanziario, ma richiede il necessario approfondimento di questo documento in combinato con l’offerta tecnica, al fine di accertare la coerenza complessiva del progetto proposto e la plausibilità delle relative grandezze finanziarie.

In base a questi rilievi deve quindi escludersi che la visione del piano economico-finanziario prima della fase di valutazione delle offerte tecniche possa avere influenzato i giudizi della commissione sul pregio di queste ultime e, quindi, che possano essere stati lesi i principi di imparzialità e trasparenza invocati dall’odierna appellante.

PUBBLICO IMPIEGOVietato restare in servizio. P.a., va garantito il ricambio generazionale. Consulta: legittimo abrogare il trattenimento al lavoro oltre i limiti d'età.
Eliminare il trattenimento in servizio nel pubblico impiego è stato legittimo. L'abrogazione dell'istituto va considerata l'ultimo tassello di un disegno legislativo volto a ridimensionarne l'ambito di operatività per realizzare il ricambio generazionale nella p.a. Un disegno che ha portato prima a degradare il trattenimento in servizio da vero e proprio diritto potestativo, esercitabile dal dipendente pubblico, a mero interesse legittimo, fino alla totale cancellazione a opera del decreto legge n. 90/2014.

Lo ha deciso la Consulta con la sentenza 10.06.2016 n. 133 che ha respinto tutte le censure mosse dai giudici rimettenti (i Tar della Lombardia, dell'Emilia-Romagna e del Lazio, oltre al Consiglio di stato) ritenendole in parte infondate e in parte inammissibili.
Il Tar Lombardia, per esempio, aveva contestato che vi fossero ragioni di necessità e urgenza per provvedere con decreto legge, ma i giudici delle leggi hanno replicato che si è trattato di «un primo intervento di un processo laborioso, destinato a dipanarsi in un arco temporale più lungo, volto a realizzare il ricambio generazionale nel settore». In quanto tale, l'abrogazione del trattenimento in servizio «è strumentale a una più razionale utilizzazione dei dipendenti pubblici e non contraddice la straordinaria necessità e urgenza di provvedere sul punto».
Il Tar Emilia-Romagna, invece, si è concentrato sulla parte della norma che ha fissato al 31.12.2014 il trattenimento in servizio degli avvocati dello stato, dando loro solo un preavviso di due mesi. Secondo i giudici emiliani questa disposizione si sarebbe posta in contrasto con la direttiva Ue (2000/78/Ce), in materia di parità di trattamento e condizioni di lavoro, oggetto di un'apposita sentenza da parte della Corte di giustizia.
In realtà, osserva la Consulta, la Corte di giustizia aveva esaminato le disposizioni di una legge ungherese che aveva anticipato bruscamente (da 70 a 62 anni) i limiti di età per il pensionamento di giudici, procuratori e notai. Un'ipotesi, dunque, molto diversa da quella del dl 90/2014 che «non incide sui limiti d'età pensionabile, ma sul trattenimento in servizio». Invece, si osserva nella sentenza redatta dal giudice Silvana Sciarra, «le finalità di ricambio generazionale rientrano nell'ambito delle legittime finalità di politica del lavoro che non danno seguito a discriminazioni in base all'età».
«I lavori preparatori della legge di conversione del dl 90/2014», prosegue la Corte, «mostrano che l'accesso dei giovani al lavoro pubblico e il contenimento della spesa» sono «finalità legittime, tali da temperare la pretesa eccessiva drasticità delle misure adottate, senza incrinare la tutela dell'affidamento».
Respinta anche la censura del Tar Lombardia che contestava la legittimità della norma nella parte in cui abolisce il trattenimento in servizio anche per docenti e ricercatori universitari. Secondo il Tar «l'esigenza di attuare il ricambio generazionale non sarebbe bilanciata con quella, riconducibile al buon andamento dell'amministrazione, di mantenere in servizio, peraltro per un arco di tempo limitato, docenti in grado di dare un positivo contributo per la particolare esperienza acquisita».
La Consulta ha però ribattuto che «l'eliminazione del trattenimento in servizio ha portato a compimento un percorso già avviato, per agevolare, nel tempo, il ricambio generazionale e consentire un risparmio di spesa, anche con riguardo all'amministrazione universitaria, in attuazione dei principi di buon andamento ed efficienza dell'amministrazione, senza alcuna lesione dell'affidamento» (articolo ItaliaOggi dell'11.06.2016).

PUBBLICO IMPIEGO: Linea tracciata sull’articolo 18 nella Pa. Congresso Agi. Il primo presidente della Cassazione Canzio sulla non applicabilità della legge Fornero.
Sull’applicazione del “vecchio” articolo 18 ai dipendenti pubblici, la Cassazione non tornerà sui suoi passi e non è nemmeno necessaria una pronuncia delle sezioni unite.
A spiegarlo è stato Giovanni Canzio, primo presidente della Corte di cassazione, che ha coordinato una tavola rotonda nella giornata conclusiva del congresso nazionale Agi (avvocati giuslavoristi italiani) che si è svolto a Perugia.
Giovedì scorso, con la
sentenza 09.06.2016 n. 11868, i giudici hanno stabilito che ai dipendenti pubblici, in caso di licenziamento illegittimo, non si applica l’articolo 18 post riforma Fornero (legge 92/2012), ma la versione precedente, fino a quando i due regimi non verranno armonizzati. «La sentenza –ha affermato Canzio– è stata pronunciata dalla sezione lavoro dopo approfondita riflessione e con decisione unanime, quindi una sorta di sezioni unite».
Questo significa che la sentenza 24157/2015, con cui la stessa Cassazione si è espressa in senso contrario alla fine dell’anno scorso, è superata, come spiega ancora Canzio: «Alle sezioni unite si va quando c’è contrasto di giurisprudenza tra sezioni o all’interno di una sezione. Ma se la sezione specializzata, dopo aver ampiamente dibattuto al suo interno, perviene a una decisione unanime e stabilizza l’interpretazione, non avrà più contrasti. Ecco perché la definisco una sorta di sezioni unite».
Il primo presidente ritiene inoltre che la differenza normativa tra dipendenti del settore privato o pubblico non sia a rischio di incostituzionalità, come ipotizzato, tra gli altri, dal presidente Agi Aldo Bottini, perché i due ambiti sono diversi e si è tenuto conto di ciò.
Proprio dal presidente della Corte costituzionale, Mario Morelli, che ha partecipato alla tavola rotonda insieme ad Antonio Tizzano, vicepresidente della Corte di giustizia dell’Unione europea, a Guido Raimondi, presidente della Corte europea dei diritti dell’uomo, e a Giuseppe Bronzini, componente della sezione lavoro della Cassazione, è arrivato uno spunto che potrebbe accendere il rapporto tra giudici di legittimità e legislatore.
In riferimento alla più che decennale vicenda del riconoscimento dell’anzianità di servizio al personale Ata della scuola trasferito nel 1999 dagli enti locali allo Stato, e alla norma di interpretazione autentica retroattiva introdotta con la legge 266/2005, Morelli ha chiesto a Canzio: «Perché la Cassazione, alla quale è affidata l’uniforme interpretazione della legge, in questi casi non promuove un conflitto di attribuzione tra poteri davanti alla Corte costituzionale?».
«In linea teorica -ha commentato Canzio- non è impedito sollevare un conflitto di attribuzioni in casi simili. Nel caso concreto, però, è necessario un approfondimento e il conflitto deve essere sollevato dal giudice chiamato a decidere l’applicazione della norma, un giudice di Cassazione o se fosse a sezioni unite molto meglio».
Proprio la vicenda del personale Ata è un esempio del rapporto, a volte difficile, tra le due alte corti nazionali e quelle internazionali, tema a cui è stata dedicata la tavola rotonda finale del congresso. Sulla vicenda si sono susseguiti decisioni contrastanti di Cassazione, Consulta e Cedu, alimentando un contenzioso durato anni.
Sul fronte italiano, e più specificatamente lavoristico, è stato ricordato che la sezione dedicata della Cassazione ha 22mila ricorsi pendenti, a fronte di un totale di 106mila, ma che c’è un trend leggermente discendente delle sopravvenienze, anche per effetto della crescita della negoziazione e delle soluzioni stragiudiziali.
Bronzini ha sottolineato che, per cercare di dare risposta in tempi ragionevoli, la sezione è stata divisa in sottogruppi, anche con l’obiettivo di avere sentenze coerenti tra loro e si punta a decidere con rapidità soprattutto i licenziamenti, anche se su questa materia, dopo gli interventi della legge 92/2012 e il Jobs act, le valutazioni non sono facili
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.06.2016).

PUBBLICO IMPIEGOLicenziamenti con più strade. Per le scelte illegittime rimedi diversi tra statali e privati e in base alla data di assunzione.
Rapporti di lavoro. Dopo la sentenza della Cassazione sull’applicabilità al pubblico impiego dell’articolo 18 nella versione 1970.

La sentenza 09.06.2016 n. 11868 della Corte di Cassazione, che ha escluso l'applicabilità verso i dipendenti pubblici delle modifiche introdotte dalla legge Fornero all'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori rende, ancora più complicata la “geografia” dei regimi normativi applicabili ai casi di licenziamento.
Il quadro normativo sembrava essersi semplificato con la sentenza della Corte di Cassazione n. 24157 del 25.11.2015, che aveva affermato un principio opposto, riconoscendo la completa parificazione, almeno per i lavoratori assunti prima dell'entrata in vigore del Jobs Act, dei regimi applicabili al lavoro pubblico e a quello privato.
Con la nuova sentenza, questa parificazione viene meno (anche se non possono escludersi ulteriori ribaltoni giurisprudenziali). Seguendo il ragionamento dei giudici, ai dipendenti pubblici continua ad applicarsi, fino a quando non sarà espressamente modificato, l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori nella versione originaria, senza le modifiche introdotte dalla legge 92/2012 (restando in vita, quindi, la regola che sanziona il licenziamento invalido esclusivamente con la reintegrazione sul posto di lavoro).
Non è chiaro se questa norma vale anche per i lavoratori pubblici assunti dal 07.03.2015, data in cui è entrato il vigore il decreto sulle tutele crescenti: da più parti si esclude questa applicabilità, ma la legge tace al riguardo, e quindi è probabile che il contenzioso attuale si riprodurrà in termini simili anche rispetto a tale platea.
Diversa è la situazione per i licenziamenti intimati nei confronti dei lavoratori privati, per i quali il regime applicabile dipende dalla data di stipula del contratto a tempo indeterminato. Se l'assunzione è avvenuta entro il 06.03.2015, si applica l'articolo 18, ma nella versione modificata dalla legge Fornero (quindi, con la sanzione esclusivamente risarcitoria, salvo casi specifici); questi licenziamenti devono essere preceduti dalla conciliazione in Dtl, se fondati su motivi organizzativi ed economici, e le cause che li riguardano seguono il rito speciale introdotto dalla legge Fornero.
Invece, per i lavoratori privati assunti dal 07.03.2015 in poi si applica integralmente il regime delle “tutele crescenti” (tutela risarcitoria pari a due mensilità per ogni anno di lavoro, da un minimo di quattro sino a un massimo di 24, reintegrazione limitata a casi eccezionali come il licenziamento disciplinare fondato su un fatto materiale insussistente oppure su ragioni di natura discriminatoria) introdotto dal Dlgs 23/2015.
I licenziamenti intimati verso questi lavoratori non devono essere preceduti dalla conciliazione in Dtl (ma si può usare la nuova conciliazione facoltativa, che consente di defiscalizzare le somme pagate a titolo conciliativo in misura pari a una mensilità per ciascun anno di lavoro sino a un massimo di 18) e in giudizio seguono il rito ordinario (e non quello introdotto dalla legge Fornero).
Anche per i licenziamenti collettivi ci sono regimi diversi: per gli assunti dal 07.03.2015 in poi si applica il decreto sulle tutele crescenti (quindi, con la limitazione a casi eccezionali della tutela reintegratoria), per le persone assunte prima di tale data valgono ancora le regole precedenti contenute nell'articolo 18 e riformate dalla legge Fornero (in virtù delle quali la reintegrazione continua ad applicarsi per i casi di violazione dei criteri di scelta).
La convivenza di regole vecchie e nuove interessa anche i dipendenti di partiti, sindacati e organizzazioni di tendenza: per i “vecchi assunti” continua ad applicarsi la regole che escludeva l'operatività dell'articolo 18, mentre per i lavoratori assunti dal 07.03.2015 si applicano in maniera integrale le regole delle tutele crescenti.
Difficile spiegare razionalmente le ragioni di questa grande complessità e varietà delle regole; un assetto che sicuramente non agevola la competitività del nostro ordinamento e rende la vita difficile a chiunque debba gestire il personale
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.06.2016).

PUBBLICO IMPIEGOStatali licenziati, c'è la reintegra. Non si applica l'art. 18 riformato dalla legge Fornero. La Cassazione fa dietrofront. Ma ora la questione potrebbe approdare alle sezioni unite.
Per gli statali in caso di licenziamento illegittimo scatta ancora la reintegra nel posto di lavoro e non la sola tutela risarcitoria o indennitaria. E ciò perché ai licenziamenti nel pubblico impiego non si applica l'articolo 18 così come riformato dalla legge Fornero.

Lo stabilisce la Corte di Cassazione con la sentenza 09.06.2016 n. 11868, pubblicata dalla Sez. lavoro.
Insomma: per i licenziamenti dei dipendenti di enti e ministeri successivi all'entrata in vigore legge 92/2012 vale dunque la vecchia formulazione della norma di cui allo statuto dei lavoratori e resta tutto come prima. Ma la questione potrebbe arrivare presto alle sezioni unite della Suprema corte per la presenza di un precedente contrario.
Norme inderogabili. Il punto fondamentale, spiega oggi il collegio, è che la legge Fornero tiene conto soltanto delle esigenze dell'impresa privata. Decisivo in proposito è il rinvio a un successivo intervento normativo contenuto nel comma 8 dell'articolo 1 della legge 92/2012: fino a quando le regole del pubblico impiego non saranno armonizzate con le modifiche apportate all'articolo 18 per il licenziamento dei dipendenti delle amministrazioni valgono ancora le vecchie norme.
E in effetti la sentenza della Cassazione che ha affermato il contrario, la 24157/15, ha comunque ritenuto che bisognasse salvaguardare la particolare natura della normativa del procedimento disciplinare dettata per l'impiego pubblico.
Non c'è dubbio che la riforma Fornero sia pensata per il settore privato perché mette in stretta relazione la flessibilità in uscita e quella in entrata: rende sì i licenziamenti più facili ma riduce l'uso improprio dei contratti precari, diversi dal rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. E le sanzioni della legge 92/2012 non si prestano a essere estese al pubblico impiego privatizzato: la disciplina dell'iter in enti e ministeri è rigida e a determinati illeciti deve seguire per forza il licenziamento.
In particolare si pone il problema del licenziamento intimato senza l'osservanza delle garanzie a difesa del dipendente pubblico: in base al decreto legislativo 165/2001 il procedimento non può essere toccato dalla contrattazione collettiva e i tempi e i modi sono scanditi da norme inderogabili. Senza dimenticare che le garanzie per dare il benservito nel pubblico impiego non sono dettate solo per tutelare i lavoratori ma anche per proteggere gli interessi della collettività.
«Il contrasto andrà chiarito dalle sezioni unite o da un intervento legislativo di interpretazione autentica», spiega Aldo Bottini, presidente degli avvocati giuslavoristi italiani. Il fatto che «sopravvivono due regime diversi», conclude il leader Agi «rappresenta una disuguaglianza, una discriminazione non so quanto sostenibile anche da un punto di vista costituzionale».
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Una sentenza con alcune forzature interpretative. L'analisi.
La Corte di cassazione fa dietrofront e ritiene inapplicabile al lavoro pubblico la riforma dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, disposta dalla legge Fornero.
Ad appena pochi mesi dalla pronuncia della sezione lavoro 26.11.2015, n. 24157, la Corte suprema rivede in modo diametralmente opposto il proprio avviso con la sentenza della Sezione lavoro 06.06.2016, n. 11868, infiammando nuovamente il dibattito sull'estensione o meno al lavoro pubblico dell'abolizione della tutela assicurata dal reintegro nel posto di lavoro.
Secondo la nuova pronuncia, le conclusioni cui giunse la Suprema corte nel novembre 2015 non sono condivisibili e, al contrario, sussistono molte ragioni per escludere che le riforme apportate all'articolo dalla legge Fornero si estendano al lavoro pubblico contrattualizzato.
Per la Cassazione, la combinazione tra i commi 7 e 8 dell'articolo 1 della legge 92/2012 costituiscono un primo elemento che impedisce di estendere la riforma al pubblico impiego (si veda pezzo in pagina). Secondo la Corte, «a fini interpretativi assume peculiare rilievo il rinvio a un successivo intervento normativo contenuto nel comma 8», che demanda a un decreto del ministro della funzione pubblica l'armonizzazione delle norme dettate per i privati anche al lavoro pubblico.
Dunque, fino al successivo intervento di armonizzazione, prosegue la sentenza, ai dipendenti pubblici non si estendono le modifiche apportate all'articolo 18 dalla legge Fornero. In secondo luogo, osserva la Corte, l'articolo 1, comma 1, della legge Fornero chiarisce che il suo fine è regolare esclusivamente il lavoro nelle imprese private. Ciò sarebbe ulteriormente dimostrato dalla circostanza che l'articolo 18 nel testo riformato riguarda ipotesi di illegittimità del licenziamento pensate esclusivamente in relazione al lavoro privato, tali da non prestarsi a estensioni nel pubblico impiego.
Pertanto, resta cristallizzato nell'ordinamento giuridico il testo dell'articolo 18 pre-riforma Fornero, dandosi così vita a una «duplicità di normative, ciascuna applicabile in relazione alla diversa natura dei rapporti giuridici in rilievo».
La Cassazione richiama anche la sentenza della Consulta 351/2008 per evidenziare le peculiarità del lavoro pubblico rispetto al privato. Mentre nel lavoro privato, osserva la sentenza, «il potere di licenziamento del datore di lavoro è limitato allo scopo di tutelare il dipendente», cioè la singola posizione giuridica del lavoratore, nel pubblico impiego il potere di risolvere il rapporto di lavoro ha un altro fine: «È circondato da garanzie e limiti che sono posti non solo e non tanto nell'interesse del soggetto da rimuovere, ma anche e soprattutto a protezione dei più generali interessi collettivi».
I passaggi della sentenza non appaiono tutti convincenti. In particolare, sembra evidente la forzatura interpretativa laddove si afferma, senza una dimostrazione chiara, che il testo dell'articolo 18 rimarrebbe immodificato per il lavoro pubblico, nonostante il rinvio dell'articolo 51, comma 2, sia certamente dinamico e non statico.
Poco persuasiva, poi, è anche l'ultima motivazione. Le cautele contro i licenziamenti illegittimi nel pubblico impiego debbono certamente obbedire a interessi collettivi, ma tali interessi possono senza alcun dubbio postulare l'espulsione di lavoratori il cui comportamento risulti lesivo esattamente di questi comportamenti (articolo ItaliaOggi del 10.06.2016).

PUBBLICO IMPIEGO: La Cassazione: per gli statali l’articolo 18 resta. I giudici cambiano orientamento: «Nel pubblico impiego non valgono riforma Fornero e Jobs Act».
Contrordine. Negli uffici pubblici l’articolo 18 rimane quello scritto nel 1970, e la legge Fornero del 2012 (così come il Jobs Act del 2014) restano confinati al mondo privato.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione nella sentenza 09.06.2016 n. 11868 depositata ieri dalla Sez. lavoro, analizzando il caso di un dipendente del ministero delle Infrastrutture che risultava in servizio negli stessi giorni sia a Roma sia a Bussolengo, una quindicina di chilometri a ovest di Verona, senza traccia di viaggi aerei.
La decisione, che ha comunque confermato il licenziamento perché i fatti erano provati, si dilunga però sull’articolo 18 e va in senso contrario a quanto la stessa sezione aveva scritto a novembre nella sentenza 24157 del 2015. In quell’occasione, con una decisione innovativa che aveva fatto discutere, i giudici avevano aperto le porte della pubblica amministrazione alla riforma Fornero, che in pratica limita la reintegra ai casi di «manifesta insussistenza» delle ragioni alla base del licenziamento, con un ragionamento che avrebbe potuto portare anche all’applicazione delle «tutele crescenti» previste dal Jobs Act per gli assunti dal 07.03.2014.
A dividere i giudici (solo uno dei cinque componenti del collegio è stato della partita in entrambe le occasioni) è il frutto di un intrico normativo figlio dei tanti tira e molla che hanno accompagnato un tema a così alta sensibilità politica. Il testo unico del pubblico impiego scritto nel decreto legislativo 165 del 2001 spiega, all’articolo 51, che ai dipendenti pubblici «contrattualizzati» (cioè tutti tranne professori universitari, magistrati e militari) si applica lo Statuto dei lavoratori con le sue «successive modificazioni ed integrazioni».
Dal canto suo la riforma Fornero (legge 92/2012) riscrive i meccanismi di tutela per i licenziamenti economici e sottolinea che le novità «costituiscono principi e criteri per la regolazione dei rapporti di lavoro» negli uffici pubblici. Tocca però al ministro per la Pa e l’Innovazione il compito di definire «ambiti, modalità e tempi dell’armonizzazione»: ma né il governo Monti né quello successivo guidato da Letta si sono avventurati su questo terreno, e con Renzi è intervenuta la riforma Madia che nelle prossime settimane dovrebbe ridefinire la questione nel nuovo decreto sui lavoratori pubblici.
In questa architettura normativa incerta, hanno trovato argomenti sia i sostenitori delle evoluzioni dell’articolo 18 anche negli uffici pubblici sia i fautori della sua immutabilità nella versione del 1970. Nella sentenza di novembre, che aveva lanciato la prima ipotesi, i giudici avevano sottolineato gli adeguamenti “automatici” del testo unico del pubblico impiego alle riforme dello Statuto dei lavoratori, mentre nella decisione di ieri l’accento è andato sul fatto che le regole attuative previste per l’estensione della riforma Fornero alla Pa non sono state scritte.
Fin qui la discussione da giuristi, che lascerebbe tuttavia incerta la sorte delle «tutele crescenti» nel pubblico impiego perché il rinvio alle norme attuative era previsto nella legge Fornero (articolo 1, comma 8) ma non nel Jobs Act; la stessa Cassazione, peraltro, sottolinea l’immediata applicazione al pubblico impiego di altre regole che non contemplavano un ulteriore passaggio attuativo, come il rito Fornero per l’impugnazione del licenziamento.
La sentenza depositata ieri dalla suprema corte non trascura però questioni più sostanziali. Secondo i giudici, la legge Fornero nelle sue finalità «tiene conto unicamente delle esigenze proprie dell’impresa privata», e di conseguenza la riformulazione dell’articolo 18 «introduce una modulazione delle sanzioni pensate in relazione al solo lavoro privato». Una revisione delle tutele richiederebbe per i giudici «una ponderazione diversa degli interessi», perché nelle aziende private c’è da difendere solo il singolo lavoratore mentre nell’amministrazione pubblica bisogna pensare alla «protezione di più generali interessi collettivi».
I sindacati ovviamente esultano, a partire dalla segretaria generale della Cgil secondo cui «la sentenza della Cassazione dimostra che le istituzioni continuano a funzionare», mentre i giuslavoristi parlano di «disuguaglianza insostenibile fra pubblico e privato».
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Funzione pubblica «in linea» con i giudici. Palazzo Vidoni. Anche l’interpretazione ministeriale considera «speciale» il lavoro pubblico rispetto a quello privato.
La discussione infinita sull’applicabilità alla pubblica amministrazione delle riforme realizzate in questi anni sull’articolo 18 nasce dal fatto che finora tutti gli interventi sul punto sono stati circondati da polemiche e hanno prodotto soluzioni ispirate più al compromesso che alla chiarezza. L’ultima parola dovrebbe arrivare nelle prossime settimane dal nuovo testo unico del pubblico impiego, cioè dal decreto attuativo della delega Pa chiamato a riscrivere le regole per i dipendenti di Stato, regioni ed enti locali.
L’indirizzo della Funzione pubblica è lo stesso seguito dalla Cassazione nella sentenza di ieri, e punta a sottolineare la «specialità» del rapporto di lavoro pubblico che escluderebbe l’allineamento al mondo privato sul piano delle tutele per i licenziamenti. Il ragionamento di Palazzo Vidoni poggia su tre premesse, che distinguono gli impieghi pubblici da quelli privati: l’ingresso è per concorso, i soldi sono pubblici e gli interessi da tutelare riguardano il «buon andamento» e l’«imparzialità» dell’amministrazione pubblica, previsti dall’articolo 97 della Costituzione, e non solo la sorte individuale del singolo dipendente.
Questa impostazione, che escluderebbe in simultanea dagli uffici pubblici sia la riforma Fornero sia il Jobs Act, corre molto vicino a quella proposta ieri dalla Cassazione, ed è confermata dal ministro del Lavoro Giuliano Poletti secondo il quale «il governo ha sempre detto che le regole del jobs act si applicano solo ai privati e non al pubblico impiego». Nel governo e nella maggioranza ci sono però anche posizioni diverse.
Il viceministro dell’Economia Enrico Zanetti, per esempio, si era detto molto più in linea con la precedente posizione della Cassazione, quella che aveva acceso il semaforo verde alla riforma Fornero nella pubblica amministrazione sulla base del rinvio «automatico» alle evoluzioni dello Statuto dei lavoratori scritto nel testo unico del pubblico impiego ancora in vigore.
In quell’occasione, Zanetti aveva parlato di «errore tecnico e politico» da parte di chi sostiene la differenza di regole tra uffici pubblici e privati, e analoga è l’opinione di Pietro Ichino: «Le tutele crescenti nella pubblica amministrazione -ha sottolineato ancora ieri il giuslavorista e senatore Pd- sarebbero un grande passo avanti per i precari che lavorano a volte da anni negli enti, e che non riescono ad arrivare a un impiego stabile perché le amministrazioni non hanno la certezza di poter garantire nel tempo la provvista finanziaria che serve a pagarli».
La discussione insomma resta aperta, anche all’interno del governo e dello stesso partito democratico, e sembra destinata a riaccendersi a breve. La riforma del pubblico impiego, che corre parallela a quella dei dirigenti con l’introduzione del ruolo unico e degli incarichi a tempo, è in vista del traguardo ed è attesa nelle prossime settimane.
Sul piano degli effetti concreti, poi, il quadro è ancora più articolato, come mostrano le storie individuali alla base delle due sentenze opposte della Cassazione: quella di fine novembre, che sosteneva l’applicabilità della riforma Fornero alla Pa, ha salvato però il posto di lavoro del dipendente mentre la decisione di ieri, pur ribadendo che negli uffici pubblici l’articolo 18 rimane quello originale, ha confermato il licenziamento
(articolo Il Sole 24 Ore del 10.06.2016).

CONSIGLIERI COMUNALICorruzione a confini ridotti. Il fatto contrario ai doveri d’ufficio deve rientrare nelle mansioni.
Reati contro la Pa. Le motivazioni dell’assoluzione del senatore Pd Margiotta nella vicenda «Tempa Rossa».
Il parlamentare non può essere condannato per corruzione perché non ha alcun ruolo nelle gare d’appalto. È vero che il parlamentare è un pubblico ufficiale, ma la “semplice” partecipazione a una commissione che non ha alcuna competenza nella materia oggetto dell’appalto contestato esclude che possa essere sanzionato sulla base dell’articolo 319 del Codice penale.

Lo afferma la Corte di Cassazione con la sentenza 06.06.2016 n. 23355 della VI Sez. penale depositata ieri.
La Corte ha così accolto il ricorso presentato dalla difesa del senatore del Pd Salvatore Margiotta, annullando senza rinvio, perché il reato «non sussiste», la condanna ricevuta dalla Corte d’appello di Potenza per corruzione e turbativa d’asta (si veda Il Sole 24 Ore del 27 febbraio). Il Parlamentare si era sospeso dal Partito democratico e aveva lasciato la vicepresidenza della commissione di vigilanza sulla Rai.
Secondo il quadro accusatorio Margiotta, facendo valere il proprio potere e influenza in qualità sia di senatore sia di leader del Pd di Potenza, aveva indirizzato, con pressioni anche sul presidente della Regione Basilicata, l’aggiudicazione delle gare d’appalto sul «Centro oli Tempa Rossa» a una cordata d’imprenditori a fronte di una promessa di 200mila euro. L’impianto accusatorio era passato all’esame dei giudici di primo grado, che avevano assolto il politico e della Corte d’appello che, invece, l’aveva condannato.
Nell’accogliere le tesi della difesa, la Cassazione ricorda che il reato di corruzione, nell'interpretazione della stessa Corte, appartiene alla categoria dei reati «propri funzionali, perché elemento necessario di tipicità del fatto è che l’atto o il comportamento oggetto del mercimonio rientrino nelle competenze o nella sfera d’influenza dell’ufficio al quale appartiene il soggetto corrotto». Serve cioè che le condotte sospette siano espressione diretta o indiretta della pubblica funzione esercitata.
Con la conseguenza che non si configura il reato di corruzione passiva se l’intervento del pubblico ufficiale in esecuzione dell’accordo illecito non conduce ad attivare poteri istituzionali propri del suo ufficio o non sia comunque a questi in qualche modo ricollegabile. Come nel caso, per esempio, in cui l’intervento incide sulla sfera di attribuzioni di pubblici ufficiali terzi «rispetto ai quali il soggetto agente è assolutamente carente di potere funzionale».
Allora, perché si possa parlare di corruzione propria non è determinante che il fatto contrario ai doveri d’ufficio sia compreso nell’ambito delle mansioni specifiche del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, ma è necessario che si tratti di un atto che rientra nelle competenze dell’ufficio di appartenenza.
Nel caso preso in esame, la Cassazione sottolinea che la commissione Ambiente, nella quale Margiotta lavorava, non ha competenze nella materia oggetto di appalti e che il senatore non era neppure componente di comitati parlamentari sull’estrazione del petrolio. In ogni caso, avverte la sentenza, le condotte contestate, al di là di qualsiasi questione sull’esistenza della promessa di 200miale euro, potrebbero semmai assumere rilevanza penale ad altro titolo: è il caso del traffico d’influenze (inapplicabile però all’epoca dei fatti) che sanziona chi, sfruttando relazioni con un pubblico ufficiale, fa dare a sé o ad altri denaro o altri vantaggi patrimoniali
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.06.2016).

APPALTI: Appalti, sì all'ombrello finanziario di terzi.
Il diritto dell'Unione europea non vieta, in via di principio, ai candidati a una gara d'appalto o agli offerenti di fare riferimento alle capacità di uno o più soggetti terzi per comprovare un livello minimo di capacità finanziaria. Di conseguenza, a maggior ragione, «è possibile avvalersi delle capacità e dei requisiti di terzi, ivi comprese le referenze bancarie, in aggiunta ai propri, per soddisfare i criteri fissati da un'amministrazione aggiudicatrice».
Lo sostiene la Corte di giustizia europea, che però, aggiunge: «Il bando dell'appalto può prevedere espressamente limiti alla possibilità di fare ricorso alle capacità di terzi». Spetterà, dunque, al giudice nazionale il compito di verificare l'esistenza e la portata di eventuali clausole in tal senso.
La
sentenza 02.06.2016 - causa C-27/15 della Corte di giustizia Ue, resa nota ieri, ha visto contrapporsi un raggruppamento temporaneo di imprese denominato Pippo Pizzo e la Crgt srl. In merito, invece, al mancato pagamento del contributo all'Autorità di vigilanza, obbligo non previsto dagli atti gara, i giudici Ue affermano che «l'esclusione dalla gara per il mancato rispetto di un'obbligazione che non risulta espressamente dagli atti di gara o da una legge nazionale cozza con i principi di parità di trattamento e proporzionalità e con l'obbligo di trasparenza della p.a.». Quindi, in ipotesi del genere, la p.a. aggiudicatrice «dovrebbe quantomeno accordare al concorrente escluso un termine aggiuntivo sufficiente a permettergli di regolarizzare la propria posizione». In sostanza, dargli il tempo di pagare l'onere.
Non solo, la Corte di giustizia Ue ha rincarato la dose, aggiungendo che, in materia di appalti pubblici di opere o servizi, la possibilità di un'impresa di partecipare a una gara non può dipendere dalla sua conoscenza della linea interpretativa seguita dai giudici dello stato in cui si svolge la gara, perché in questo modo le imprese straniere sarebbero discriminate rispetto a quelle locali. Quindi, le regole devono essere chiare per tutti fin dal principio e non affidate a interpretazioni giudiziarie a seguito di contenzioso.
Il fatto. Pippo Pizzo, titolare dell'omonima impresa di servizi ecologici, ha impugnato davanti al consiglio di giustizia amministrativa per la regione siciliana (in proprio e in qualità di mandatario dell'a.t.i. con la ditta Onofaro Antonino) la sentenza del Tar Sicilia (sezione staccata di Catania), che l'ha sostanzialmente escluso dall'aggiudicazione di una gara d'appalto. Al giudice amministrativo si era rivolta, invece, la Crgt, esclusa dalla gara per non aver pagato il contributo all'Autorità di vigilanza dei contratti pubblici.
A quel punto, la Crgt ha impugnato davanti al Tar Sicilia l'aggiudicazione a favore di Pizzo, che a sua volta, si è difeso affermando che la Crgt doveva comunque essere esclusa dalla gara perché, oltre a non avere versato il contributo all'Autorità di vigilanza, ha omesso di produrre due idonee referenze bancarie (come invece era previsto dal disciplinare d'appalto, che imponeva alle imprese partecipanti di comprovare la loro capacità economica e finanziaria mediante la produzione delle dichiarazioni di almeno due istituti bancari).
Il Tar ha dato ragione a Crgt, rilevando, in sintesi, che:
a) il requisito dell'indicazione di un doppio istituto bancario era stato integrato da Crgt mediante indicazione di un'impresa ausiliaria, che a sua volta aveva indicato un solo istituto bancario;
b) l'obbligo del pagamento del contributo all'Avcp non era previsto né nel bando né nel disciplinare di gara;
c) questo obbligo è comunque previsto espressamente dalla legge solo per le opere pubbliche (mentre nel caso di specie si trattava di un appalto di servizi).
Il Consiglio di giustizia amministrativa per la regione siciliana, vista la sentenza del Tar ha sollevato la duplice questione pregiudiziale, chiedendo alla Corte di dirimere la questione (articolo ItaliaOggi del 03.06.2016).

APPALTIAppalti senza richieste fuori bando. Corte Ue. Le amministrazioni aggiudicatrici devono seguire i criteri dei documenti.
Nel segno del principio di parità di trattamento e dell’obbligo di trasparenza in materia di appalti, le amministrazioni aggiudicatrici non possono chiedere adempimenti non previsti nel bando, anche se desumibili dalla giurisprudenza nazionale.

Lo ha stabilito la Corte Ue (sentenza 02.06.2016 - causa C-27/15) pronunciandosi su richiesta del Consiglio di Stato italiano.
Prima di decidere sul ricorso di un’impresa di servizi ecologici esclusa dall’aggiudicazione di una gara di appalto, i giudici amministrativi hanno chiesto chiarimenti sulla direttiva 2004/18 sugli appalti di servizi recepita con Dlgs n. 163/2006, modificato dal nuovo codice degli appalti.
L’Autorità portuale di Messina aveva indetto una procedura aperta di rilevanza europea per l’aggiudicazione di un servizio di gestione dei rifiuti prodotti a bordo di navi che facevano scalo nella zona controllata dall’Autorità portuale. Una ditta esclusa perché non aveva depositato il contributo richiesto all’Autorità di vigilanza e le referenze bancarie aveva impugnato, con successo, il provvedimento al Tar.
L’impresa vincitrice in origine ha fatto ricorso al Consiglio di Stato. La Corte Ue parte dalla constatazione che i documenti connessi alla procedura di aggiudicazione dell’appalto non prevedevano espressamente l’obbligo per gli offerenti «a pena di esclusione, di versare un contributo all’Autorità di vigilanza». Di conseguenza le amministrazioni aggiudicatrici, per non violare parità di trattamento e trasparenza non possono derogare all’obbligo di osservanza dei criteri stabiliti dai documenti relativi alla procedura o dalla legge. E questo anche se i criteri aggiuntivi sono desumibili dalla giurisprudenza nazionale.
Tanto più che ad accogliere la tesi che ammette adempimenti non previsti dalla procedura, proprio gli offerenti stabiliti in altri Stati membri sarebbero danneggiati per la maggiore difficoltà a conoscere la prassi interna. L’unica concessione che fa la Corte è che se una condizione per la partecipazione non è espressamente prevista, ma può essere identificata ricorrendo alla giurisprudenza nazionale, l’amministrazione aggiudicatrice può richiederla solo accordando all’offerente escluso «un termine sufficiente per regolarizzare la sua omissione».
Via libera, invece, a una normativa interna che autorizza un operatore economico a fare affidamento sulle capacità di terzi per rispettare i requisiti minimi di partecipazione alla gara
 (articolo Il Sole 24 Ore del 03.06.2016).
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MASSIMA
Per questi motivi, la Corte (Sesta Sezione) dichiara:
1)
Gli articoli 47 e 48 della direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31.03.2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, devono essere interpretati nel senso che non ostano ad una normativa nazionale che autorizza un operatore economico a fare affidamento sulle capacità di uno o più soggetti terzi per soddisfare i requisiti minimi di partecipazione ad una gara d’appalto che tale operatore soddisfa solo in parte.
2)
Il principio di parità di trattamento e l’obbligo di trasparenza devono essere interpretati nel senso che ostano all’esclusione di un operatore economico da una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico in seguito al mancato rispetto, da parte di tale operatore, di un obbligo che non risulta espressamente dai documenti relativi a tale procedura o dal diritto nazionale vigente, bensì da un’interpretazione di tale diritto e di tali documenti nonché dal meccanismo diretto a colmare, con un intervento delle autorità o dei giudici amministrativi nazionali, le lacune presenti in tali documenti.
In tali circostanze,
i principi di parità di trattamento e di proporzionalità devono essere interpretati nel senso che non ostano al fatto di consentire all’operatore economico di regolarizzare la propria posizione e di adempiere tale obbligo entro un termine fissato dall’amministrazione aggiudicatrice.

SICUREZZA LAVOROEdilizia, controlli a carico del committente. Sicurezza. Confermata in Cassazione la condanna per omicidio colposo conseguente alla caduta di un operaio.
Nei lavori edili concessi in appalto il committente costituisce la figura espressamente contemplata dalla normativa di settore come fonte di obblighi di controllo e di intervento, seppure diversamente articolati in base alle dimensioni e alla tipologia del cantiere.
Poiché il committente è un soggetto che normalmente concepisce, programma , progetta e finanzia l’opera, egli è quindi titolare ex lege di una posizione di garanzia che integra quella di altre figure di garanti legali (ex articolo 299 del Dlgs 81/2008: datore di lavoro, dirigente, preposto), tanto da poter anche designare formalmente un responsabile dei lavori con compiti di tipo decisionale e gestionale, e il conseguente esonero, nei limiti dell’incarico conferito, dalle responsabilità.

A tale principio si è ispirata la Corte di Cassazione (Sez. IV penale, sentenza 01.06.2016 n. 23171) confermando la sentenza di condanna per omicidio colposo di un committente a seguito della costruzione di un fabbricato durante la quale era morto un operaio per caduta dall’alto, complice, l’omessa predisposizione delle opere provvisionali nel cantiere.
La decisione della Cassazione è conforme alle novità introdotte nel nostro ordinamento con il recepimento della direttiva comunitaria sui cantieri ad opera del Dlgs 494/1996, trasfuso poi nel Dlgs 81/2008 (Testo Unico sulla salute e sicurezza sui luoghi di lavoro), che nei cantieri edili anticipa gli obblighi della sicurezza sin dalla fase della progettazione, coinvolgendo così anche il committente mediante l’attribuzione di una sfera di responsabilità che si sostanzia nella previsione di alcuni specifici obblighi destinati a interagire e a integrarsi, come accennato, con quelli di altre figure di garanti.
Si tratta di obblighi di controllo che non sono certamente di natura formale, ma implicano un’effettiva e ragionata verifica circa le soluzioni adottate, come è dimostrato dal fatto che, nel caso in cui non sia in condizione o non voglia o possa assumere direttamente tale ruolo, il committente può nominare un responsabile dei lavori.
Tuttavia, ai fini della configurazione della responsabilità del committente, la sentenza in esame entra più nello specifico, precisando che occorre verificare in concreto quale sia stata l’incidenza della condotta di questi ai fini della determinazione dell’evento, a fronte delle capacità organizzative della ditta esecutrice scelta, avuto riguardo alla specificità dei lavori da eseguire, quali siano stati i criteri seguiti dallo stesso committente per la scelta dell’appaltatore e, non ultimo, la possibile, agevole e immediata percezione da parte dello stesso committente di situazioni di pericolo.
Lo stesso Dlgs n. 494/1996 prima, e il Testo Unico poi, richiamano il committente ad attenersi ai principi e alle misure generali di tutela, ad adempiere all’obbligo di verifica riguardante la documentazione tra cui il documento di valutazione dei rischi, la conformità alla legge di macchine, attrezzature e opere provvisionali, dispositivi di protezione individuali eccetera.
La verifica dell’idoneità tecnico-professionale dell’appaltatore avrebbe consentito al committente di accertare anche l’inadeguatezza dimensionale dell’impresa la quale, assieme alle macroscopiche irregolarità del cantiere, palesemente ed immediatamente evidenti, occupava lavoratori “in nero” ai quali certamente non venivano garantite le misure minime di sicurezza, come del resto è accaduto al lavoratore infortunato, il quale era pensionato e occasionalmente prestava attività lavorativa per la ditta appaltatrice
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.06.2016).
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MASSIMA
4. La valutazione di questa Corte deve essere preceduta da alcune precisazioni preliminari.
Gli imputati sono stati chiamati a rispondere del reato loro contestato per colpa generica e per colpa specifica, individuata quest'ultima nella violazione delle norme anti infortunistiche riconducibili alla qualità di committenti privati di un'opera edile, per la cui esecuzione era stato allestito un cantiere che vedeva impegnata una sola ditta (cantiere c.d. sotto soglia), senza obbligo, quindi, per il committente di nominare un coordinatore per la progettazione e un coordinatore per la esecuzione dei lavori.
Quanto alla cornice normativa nella quale è inquadrata la posizione di garanzia riconosciuta in capo ai committenti, la Corte d'appello, dato atto della intervenuta abrogazione del d.lvo. 494/1996 a seguito dell'introduzione del T.U. di cui al d.lv. 81 del 2008, nel quale le norme del primo sono state sostanzialmente trasfuse, ha ritenuto esistente una continuità normativa tra la disposizione di cui all'art. 3, co. 8, del d.lgs. 494/1996 e l'art. 90 del d.lgs. 81/2008, dando altresì atto del rinvio che lo stesso art. 3 comma 1 del d.lvo 494/1996 opera alle misure generali di tutela di cui all'art. 3 del d.lvo. 626/1994 (oggi trasfuse nell'art. 15 del d.lvo 81/2008 cui rinvia l'art. 90 citato).
4.1. Il caso all'esame pone, quindi, il preliminare problema di ricostruire esattamente lo statuto della committenza 'non qualificata', come quella che qui interessa, rispetto al quale pare utile svolgere alcune puntualizzazioni rispetto alla ricostruzione che il giudice del gravame ha fatto della evoluzione normativa della posizione di garanzia facente capo al committente privato di opere edilizie.
La figura del committente dei lavori ha trovato esplicito riconoscimento solo con il d.lgs. n. 494/1996, con il quale si è data attuazione alla direttiva 92/57/CEE, concernente le prescrizioni minime di sicurezza e di salute da attuare nei cantieri temporanei o mobili.
Prima di esso né il d.P.R. 547/1955, né i successivi 164/1956, 302/1956 e 303/1956 menzionavano siffatto ruolo. Neppure il d.lgs. 626/1994, vera e propria mappa dei principi del diritto prevenzionistico, nel definire le diverse posizioni soggettive (datore di lavoro, ecc.) menzionava il committente. L'unica norma che delineava un rapporto di affidamento di lavori, l'art. 7 del citato decreto 626, faceva riferimento però ad una figura particolare, quella del datore di lavoro/committente (colui, cioè, che affida i "lavori ad imprese appaltatrici o a lavoratori autonomi all'interno della propria azienda, o di una singola unità produttiva della stessa, nonché nell'ambito dell'intero ciclo produttivo dell'azienda medesima"), essenzialmente pensato allo scopo di far fronte al rischio cd. interferenziale, ovvero quel rischio che si determina per il solo fatto della coesistenza in un medesimo contesto di più organizzazioni, ciascuna delle quali facente capo a soggetti diversi. Tali doveri, però, non si riferivano al committente privato, non imprenditore, che avesse appaltato lavori edili a terzi.
Si escludeva, pertanto, che il committente potesse rispondere delle inadempienze prevenzionistiche verificatesi nell'approntamento del cantiere e nell'esecuzione dei lavori, delle quali rispondeva il solo datore di lavoro appaltatore.
Una responsabilità concorrente del committente veniva ravvisata in sostanza quando questi travalicava tale ruolo, assumendo di fatto posizione direttiva, vuoi perché si ingeriva nell'esecuzione dei lavori o perché datore di lavoro di fatto; vuoi perché i lavori erano stati eseguiti dall'appaltatore senza autonomia tecnica, con l'apprestamento da parte del committente delle apparecchiature di lavoro. In caso di appalto, quindi, l'osservanza delle norme antinfortunistiche incombeva all'imprenditore, titolare dell'organizzazione del cantiere e datore di lavoro di quanti vi operano.
Il committente, invece, salvo contrario accordo contenuto nel contratto di appalto, non aveva il diritto e tanto meno il dovere di intervenire o, comunque, ingerirsi in tale organizzazione dell'impresa con le logiche conseguenze sul piano sanzionatorio, nel senso che egli non rivestiva una autonoma posizione di garanzia a tutela della salute e della vita dei lavoratori dipendenti dal soggetto appaltatore, salvo che avesse in concreto assunto una diversa posizione, e ciò in ragione del principio di effettività, da sempre riconosciuto valido nella materia in esame (vedi, per la ricognizione dei principi sin qui esposti, Sez. 4 n. 44131 del 15/07/2015, Heqimi e altri).
Nella sentenza testé richiamata si dà, tuttavia, conto del progressivo affinamento della riflessione in materia, grazie al quale si è pervenuti ad individuare, accanto all'ingerenza e all'assunzione di una posizione direttiva, una ulteriore fonte di doveri, ovvero il potere di governo della fonte di pericolo: "
In materia di omicidio colposo per infortunio sul lavoro, il committente è corresponsabile con l'appaltatore o col direttore dei lavori, qualora l'evento si colleghi causalmente anche alla sua colposa azione od omissione. Ciò avviene sia quando egli abbia dato precise direttive o progetti da realizzare e le une e gli altri siano già essi stessi fonte di pericolo ovvero quando egli abbia commissionato o consentito l'inizio dei lavori, pur in presenza di situazioni di fatto parimenti pericolose. Il margine più o meno ampio di discrezionalità eventualmente conferito ai soggetti innanzi indicati (appaltatore e direttore dei lavori) non esclude di per sé la sua colpa concorrente sotto il profilo eziologico".
Il quadro giuridico di riferimento, quindi, è mutato con il d.lgs. 494/1996, poiché la figura del committente ha trovato in quello strumento normativo una espressa definizione [art., 2, co. 1, lett. b)], così come vi hanno trovato esplicitazione gli obblighi sullo stesso incombenti (art. 3). Il committente (o il responsabile dei lavori), nella fase di progettazione dell'opera, ed in particolare al momento delle scelte tecniche, nell'esecuzione del progetto e nell'organizzazione delle operazioni di cantiere, si attiene ai principi e alle misure generali di tutela di cui all'articolo 3 del decreto legislativo n. 626/1994; determina altresì, al fine di permettere la pianificazione dell'esecuzione in condizioni di sicurezza, dei lavori o delle fasi di lavoro che si devono svolgere simultaneamente o successivamente tra loro, la durata di tali lavori o fasi di lavoro.
Nella fase di progettazione esecutiva dell'opera, valuta attentamente, ogni qualvolta ciò risulti necessario, i documenti di cui all'articolo 4, comma 1, lettere a) e b), ovvero il piano di sicurezza e di coordinamento di cui all'articolo 12 e il piano generale di sicurezza di cui all'articolo 13 (la cui redazione grava sul coordinatore per la progettazione), nonché il fascicolo contenente le informazioni utili ai fini della prevenzione e protezione dai rischi, ai quali sono esposti i lavoratori, tenendo conto delle specifiche norme di buona tecnica e dell'allegato II al documento U.E. 260/5/93. Inoltre, contestualmente all'affidamento dell'incarico di progettazione esecutiva, in alcuni casi specifici, designa il coordinatore per la progettazione.
All'esito di tale ricognizione normativa, pertanto, può affermarsi che
la figura del committente, in passato titolare di una posizione di garanzia ancorata -in base al principio dell'effettività- ad una ingerenza in concreto nell'attività dell'appaltatore/datore di lavoro, dal d.lvo. 494/1996 in avanti è figura espressamente contemplata dalla normativa di settore, come tale fonte di obblighi di controllo e di intervento, diversamente declinati in base alle dimensioni e alla tipologia del cantiere. Il committente, soggetto che normalmente concepisce, programma, progetta e finanzia l'opera, è quindi titolare ex lege di una posizione di garanzia che integra quella di altre figure di garanti legali, tanto da poter anche designare formalmente un responsabile dei lavori, con compiti di tipo decisionale e gestionale, con esonero, nei limiti dell'incarico conferito, dalle responsabilità (Sez. 4, n. 37738 del 28/05/2013, Rv. 256635).
L'individuazione di tale peculiare figura è del resto coerente con la complessiva configurazione del sistema di protezione di cui si parla, che tende a collegare la responsabilità penale al ruolo esercitato da alcune figure che di regola intervengono nell'ambito delle attività lavorative.
Tale ruolo giustifica, quindi, l'attribuzione di una sfera di responsabilità per ciò che riguarda la sicurezza che si sostanzia nella previsione di alcuni obblighi sia nella fase progettuale che in quella esecutiva, destinati ad interagire e ad integrarsi con quelli delle altre figure di garanti legali. La normativa, peraltro, prevede ragionevolmente la possibilità che il committente non possa o non voglia gestire in proprio tale ruolo e, a tal fine, come già ricordato, gli è consentito designare un responsabile dei lavori (articolo 2 d.lvo. 494/1996, oggi art. 89 divo 81/2008) che può essere incaricato dal committente, secondo la previgente disciplina, <<ai fini della progettazione o della esecuzione o del controllo dell'esecuzione dell'opera>>, secondo l'art. 89 citato <<per svolgere i compiti ad esso attribuiti>> dallo stesso decreto 81/2008.
La giurisprudenza di questa Corte, per lo più intervenendo in situazioni di contemporanea presenza nel cantiere di più imprese (art. 3 co. 3, d.lgs. 494/1996) ha avuto modo di precisare che
il committente è titolare di una autonoma posizione di garanzia e può essere chiamato a rispondere dell'infortunio subito dal lavoratore qualora l'evento si colleghi causalmente ad una sua colpevole omissione, specie nel caso in cui la mancata adozione o l'inadeguatezza delle misure precauzionali sia immediatamente percepibile senza particolari indagini (Sez. 4 n. 10608 del 04/12/2012 Ud. (dep. 07/03/2013), Rv. 255282, proprio con riferimento ad un caso di inizio dei lavori nonostante l'omesso allestimento di idoneo ponteggio). Egli è, pertanto, esonerato dagli obblighi in materia antinfortunistica, con esclusivo riguardo alle precauzioni che richiedono una specifica competenza tecnica nelle procedure da adottare in determinate lavorazioni, nell'utilizzazione di speciali tecniche o nell'uso di determinate macchine, ma non anche nel caso in cui abbia omesso di attivarsi per prevenire un generico rischio di caduta, immediatamente percepibile [Sez. 4 n. 1511 del 28/11/2013 Ud. (dep. 15/01/2014), Rv. 259086, con riferimento al rischio di caduta di operai che lavoravano su un cornicione, la cui instabilità risultava peraltro ben nota all'imputato; conf. Sez. 3 n. 12228 del 25/02/2015 Ud. (dep. 24/03/2015), Rv. 262757, in un caso in cui il committente aveva omesso di attivarsi per prevenire il rischio, non specifico, di caduta dall'alto di un operaio operante su un lucernaio].
Tale controllo, a differenza di quanto si sostiene in ricorso, non è di natura meramente formale, ma implica una effettiva e ragionata verifica circa le soluzioni adottate come è dimostrato dal fatto che il committente, ove non sia in condizione o non voglia assumere direttamente tale ruolo, può nominare un responsabile dei lavori sul quale trasferire la responsabilità nei limiti dell'incarico e dei poteri conferiti [cfr. in motivazione Sez. 4 n. 51190 del 10/11/2015 Ud. (dep. 30/12/2015)].
Così ricostruito il dovere di sicurezza, con riguardo ai lavori svolti in esecuzione di un contratto di appalto o di prestazione d'opera, tanto in capo al datore di lavoro (di regola l'appaltatore, destinatario delle disposizioni antinfortunistiche), che al committente, questa sezione ha però avvertito la necessità che tale principio non conosca una applicazione automatica, <<...non potendo esigersi dal committente un controllo pressante, continuo e capillare sull'organizzazione e sull'andamento dei lavori>> (Sez. 4, n. 3563 del 18/01/2012, Rv. 252672).
Ne consegue che,
ai fini della configurazione della responsabilità del committente, "...occorre verificare in concreto quale sia stata l'incidenza della sua condotta nell'eziologia dell'evento, a fronte delle capacità organizzative della ditta scelta per l'esecuzione dei lavori, avuto riguardo alla specificità dei lavori da eseguire, ai criteri seguiti dallo stesso committente per la scelta dell'appaltatore o del prestatore d'opera, alla sua ingerenza nell'esecuzione dei lavori oggetto di appalto o del contratto di prestazione d'opera, nonché alla agevole ed immediata percepibilità da parte del committente di situazioni di pericolo" (Sez. 4, n. 3563 del 2012 citata).
Il che presuppone, quindi, un attento esame della situazione fattuale:
diverso è, evidentemente, il caso in cui il committente affidi in appalto lavori relativi ad un complesso aziendale di cui sia titolare, da quello di chi dia incarico ad un'impresa di ristrutturare o costruire un immobile (come nel caso in esame); rilevanti devono considerarsi i criteri seguiti dal committente per la scelta dell'appaltatore o del prestatore d'opera (quale soggetto munito dei titoli di idoneità prescritti dalla legge e della capacità tecnica e professionale proporzionata al tipo di attività commissionata ed alle concrete modalità di espletamento della stessa); fondamentale è poi l'accertamento di situazioni di pericolo così evidenti e macroscopiche da non poter essere ignorate da un committente sovente presente in cantiere.

TRIBUTIIl condominio paga la Tosap per le griglie di aereazione dei box. Tributi locali. Suolo pubblico.
Sulle griglie di areazione dei garage il condominio deve pagare la tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche (Tosap) come corrispettivo della sottrazione della superficie all’uso pubblico.
Questo principio di diritto è stato applicato di recente dalla Corte di Cassazione - Sez. VI civile (ordinanza 01.06.2016 n. 11449) a un condominio costituito da un garage sotterraneo (realizzato in forza di un diritto di superficie ipogeo –ossia di costruire al di sotto del suolo- concesso dal comune) al quale era stato notificato un avviso di pagamento della Tosap in ordine alla occupazione di suolo pubblico con l’apposizione di griglie di areazione.
Il condominio ricorreva innanzi alla Commissione tributaria provinciale e, successivamente, al Tribunale amministrativo regionale ma, in entrambi i casi, veniva condannato al pagamento dell’imposta non avendo provato, tra l’altro, l’esistenza di atti di trasferimento, dal condominio al Comune, delle aree coperte dalle griglie, né l’esistenza di alcun diritto di superficie relativamente a queste ultime né di un eventuale trattamento fiscale di favore concessogli dal Comune.
Anche il Cassazione il ricorso è stato rigettato.
Precisano infatti i giudici di legittimità che l’oggetto dell’avviso di accertamento ai fini Tosap non era l’occupazione di sottosuolo pubblico, determinata dalla fabbricazione del garage, ma solo l’occupazione del suolo pubblico con le griglie di areazione poste su detto suolo a vantaggio del garage condominiale che costituisce il presupposto impositivo (articoli 38 e 39 del Dlgs 507/93).
Inoltre, contrariamente a quanto sostenuto dal condomino, per i supremi giudici, dette griglie non costituiscono una «occupazione irreversibile» poiché le stesse, pur incidendo sull’utilizzo del suolo pubblico, non ne modificano la natura né la destinazione in quanto, a seguito di una eventuale rimozione delle griglie, (non essenziali perché il garage sotterraneo potrebbe essere aerato ed illuminato con altri sistemi), verrebbe a cessare il godimento individuale, con ripristino dell’uso collettivo.
Occorre precisare che qualora il Comune acquistasse l’area circostante il perimetro di un fabbricato, nella quale siano state precedentemente realizzate griglie ed intercapedini, finalizzate a permettere la circolazione dell’aria ed il passaggio della luce nei locali sotterranei dell’edificio, non sorgerebbe a carico del condominio l’obbligo di corrispondere il relativo canone «qualora il prezzo pattuito per la cessione sia stato ridotto proprio a causa dell’esistenza delle intercapedini, giustificandosi tale riduzione con la volontà delle parti di escludere dal trasferimento le porzioni di suolo in cui sono state realizzate le intercapedini, ovvero con la contestuale costituzione in favore del condominio di un diritto reale sul suolo trasferito, con la conseguenza che viene a mancare nella specie il presupposto dell’obbligazione, costituito dall’occupazione del suolo pubblico» (Cassazione, Sezioni unite, sentenza 1611/2007)
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.06.2016).

INCARICHI PROFESSIONALI: Sanzionato il legale che insulta. Misura disciplinare del tutto indipendente dal contesto. Le sezioni unite intervengono su un caso di espressioni diffamatorie rivolte a un collega.
È legittima la sanzione disciplinare dell'avvertimento quando il legale si rivolge al collega con espressioni diffamatorie e ciò indipendentemente dal contesto nel quale sono state pronunciate: lo hanno chiarito le Sezz. unite civili della Corte di Cassazione nella sentenza 31.05.2016 n. 11370.
L'art. 20 del codice deontologico forense, espressamente rubricato «Divieto di uso di espressioni sconvenienti o offensive», porrebbe infatti per l'avvocato il preciso obbligo di «evitare espressioni sconvenienti od offensive negli scritti in giudizio e nell'attività professionale in genere», obbligo che persisterebbe anche nelle ipotesi di ritorsione, provocazione o reciprocità delle offese, le quali non escludono l'infrazione della regola deontologica.
Più precisamente, nel caso di specie era accaduto che un professionista era stato sanzionato disciplinarmente dal proprio consiglio dell'ordine per aver rivolto in sede di giudizio espressioni diffamatorie nei confronti di un collega, sanzione disciplinare che era stata successivamente ridotta a quella minima dell'avvertimento in parziale accoglimento dell'impugnazione dinnanzi al Cnf.
In sede di legittimità a nulla è valso lamentare che il giudice aveva decontestualizzato le frasi oggetto di contestazione, «considerandole mera reazione a una provocazione o a un'offesa», senza tenere presente invece che i fatti ascritti erano «veri e inoppugnabili», tali da non poter essere ritenuti di contenuto offensivo o diffamatorio: per il ricorrente, quanto affermato non avrebbe costituito illecito disciplinare, dal momento che non nasceva dalla «gratuita attribuzione di comportamenti specifici», ma costituiva «descrizione di fatti inoppugnabili accertati».
Di diverso avviso sono stati gli ermellini, per i quali il contesto nel quale erano state pronunciate le frasi non aveva alcuna rilevanza ai fini della decisione: l'avvocato, quale che sia il contesto in cui opera, «non deve usare espressioni diffamatorie, nei confronti dei colleghi, né di altri». In definitiva, quello che veniva contestato al ricorrente era la fraseologia adottata, risultata sconveniente.
Hanno, quindi, rigettato il ricorso e provveduto alla liquidazione delle spese di giudizio (articolo ItaliaOggi Sette del 13.06.2016).

EDILIZIA PRIVATA - VARI: Usucapione, chi compra subisce la rinuncia. Cassazione. Servitù di passaggio maturata per possesso ultraventennale e poi «abbandonata» per iscritto dal proprietario del fondo
Chi ha maturato un’usucapione di una servitù e poi ne faccia rinuncia per iscritto impedisce al suo avente causa nella proprietà del fondo dominante di far valere l’usucapione rinunciata dal dante causa. Ciò anche se l’acquirente del fondo non abbia saputo nulla di questa rinuncia e se la rinuncia all’usucapione non sia stata trascritta nei Registri immobiliari.
Lo afferma la Corte di Cassazione, Sez. II civile, nella sentenza 30.05.2016 n. 11158.
Nel grado d’appello della controversia in esame, il giudice aveva invece ritenuto non opponibile, all’avente causa del soggetto che aveva maturato l’usucapione di una servitù di passaggio, il fatto che quest’ultimo vi avesse rinunciato, in quanto l’acquirente stesso nulla aveva saputo di tale rinuncia e l’atto di rinuncia non era stato trascritto nei Registri.
La Cassazione ha analizzato la situazione del soggetto che, dopo avere esercitato il possesso ultraventennale della servitù e con ciò aver maturato l’usucapione della servitù stessa, esprima al proprietario del fondo servente (e cioè il fondo gravato dalla servitù usucapita) la volontà di non avvalersi della causa di acquisto del diritto reale minore maturatasi a titolo originario a favore del proprio fondo (il cosiddetto fondo dominante). In questa situazione, secondo la Cassazione, la rinuncia per iscritto all’usucapione della servitù di passaggio fatta dal proprietario del fondo dominante rileva dunque di per sé, non potendo la sua efficacia negoziale essere fatta dipendere né dall’avvenuta comunicazione al successivo acquirente né dall’osservanza dell’onere di trascrizione dell’atto di rinuncia nei Registri immobiliari.
Tra l’altro, nel caso specifico, la soluzione della tematica analizzata è stata resa ancor più facile dal fatto che, al momento della formulazione della rinuncia alla servitù, non esisteva alcun avente causa del fondo dominante (in quanto il fondo in questione venne alienato assai successivamente all’atto di rinuncia all’usucapione) né si rendeva plausibile la trascrizione di alcun atto di rinuncia, in quanto mai era stato nemmeno trascritto alcun atto in cui fosse stata accertata la maturazione dell’usucapione della servitù.
L’usucapione è l’acquisto del diritto di proprietà di un bene o di un diritto reale (come la servitù) mediante il «possesso» del diritto in questione protratto per un certo periodo di tempo. Per avere il «possesso» occorre esercitare un potere corrispondente a quello che potrebbe esercitare il proprietario o il titolare di un altro diritto reale sul bene stesso (quindi non è possibile che ottenga l’usucapione chi corrisponde canoni d’affitto, pur in assenza di contratti scritti, in quanto così facendo egli si autoqualifica semplice detentore e non possessore dell’immobile).
Per condurre all’usucapione, il possesso, protratto per il tempo richiesto dalla legge, deve essere continuato (e cioè deve consistere in una permanente manifestazione della signoria sulla cosa), non interrotto (ad esempio, con azione giudiziale del proprietario o il riconoscimento dell’altrui diritto da parte del possessore o per perdita del possesso per oltre un anno), pacifico (cioè non ottenuto con violenza fisica o morale) e non clandestino, quindi non acquistato e mantenuto nascostamente.
Il possesso altresì deve essere inequivoco (e cioè non devono sorgere dubbi sui suoi connotati e sulla sua effettività) ed esclusivo sul bene o sulla sua porzione che si intende usucapire
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.06.2016).
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MASSIMA
In ordine al primo profilo, si osserva che, secondo il più recente orientamento della giurisprudenza di questa Corte, che il Collegio condivide,
l'accessione del possesso della servitù, ai sensi dell'art. 1146, secondo comma, cod. civ., si verifica, a favore del successore a titolo particolare nella proprietà del fondo dominante, anche in difetto di espressa menzione della servitù nel titolo traslativo della proprietà del fondo dominante e pure in mancanza di un diritto di servitù già costituito a favore del dante causa (Cass., Sez. Il, 23.07.2008, n. 20287; Cass., Sez. II; 05.11.2012, n. 18909).
Per ciò che concerne la dimostrazione del possesso e dell'usucapione in favore di Gi.Si.,
non è pertinente la doglianza relativa alla violazione del precetto di cui all'art. 2697 cod. civ.: posto che una tale violazione è configurabile soltanto qualora il giudice abbia attribuito l'onere della prova ad una parte diversa da quella che ne risulta gravata, mentre qui la censura riguarda la valutazione delle prove raccolte (cfr. Cass., Sez. III, 17.06.2013, n. 15107).
Nel caso in questione, infatti, Ru.Si. ha contestato la circostanza che la Corte d'appello di Trieste abbia ritenuto dimostrata l'esistenza del possesso di Gi.Si. alla luce delle prove agli atti, e non l'erronea applicazione delle regole sul riparto dell'onere della prova. Se ne ricava che egli si è doluto, in concreto, del fatto che la Corte territoriale non abbia spiegato in maniera adeguata le ragioni per cui, sulla base delle dette prove, ha deciso che l'esercizio della servitù di passaggio ad opera di Gi.Si. fosse stato accertato.
Nella specie, la Corte territoriale ha ritenuto che Gi.Si. abbia acquistato per usucapione la servitù "unendo al proprio possesso quello del suo dante causa (accessio possesslonis) ex art. 1146, secondo comma, cod. civ.", rilevando che "il prescritto periodo ultraventennale è stato provato dalle plurime deposizioni testimoniali che hanno confermato la sussistenza dell'animus e del corpus nei proprietari del fondo dominante, da tempo immemorabile".
A fronte di tale motivata conclusione, Ru.Si. si limita a denunciare la violazione del secondo coma dell'art. 1146 cod. civ., ma propone in realtà una censura astratta, perché omette di riportare il contenuto delle deposizioni e così non consente di valutare se il giudice del merito abbia applicato l'accessio possessionis in un caso nel quale l'avente causa non ha esercitato un possesso attuale.

APPALTI: Appalti, rinuncia leggera. Si evita la sanzione per offerta incompleta. Sentenza del Tar Campania che dà applicazione al Codice riformato.
L'impresa che rinuncia a partecipare alla gara non deve pagare la sanzione inflitta dalla stazione appaltante perché ha presentato un'offerta incompleta. E ciò perché la «multa» introdotta nel 2014 dal dl semplificazioni rappresenta solo una «fiscalizzazione» dell'irregolarità commessa dalla società che aderisce al bando: è insomma il prezzo da pagare per ottenere l'aiuto dall'amministrazione, che concede un termine per integrare la documentazione insufficiente.
Ma chi accetta l'estromissione dalla gara non deve pagarlo perché rinunciando al soccorso istruttorio non rallenta ulteriormente l'iter burocratico, come ha spiegato anche l'Anac, l'autorità nazionale anticorruzione. E a comporre il contrasto di giurisprudenza risulta decisivo il nuovo codice degli appalti che chiarisce come «la sanzione è dovuta esclusivamente in caso di regolarizzazione».

È quanto emerge dalla sentenza 27.05.2016 n. 2749, pubblicata dalla I Sez. del TAR Campania-Napoli.
Forma e sostanza
Accolto il ricorso della società sanzionata per oltre 23 mila euro perché non ha indicato nomi e titoli dei professionisti incaricati della progettazione ai sensi dell'articolo 90, comma 7, del decreto legislativo 163/2006.
Il nuovo quadro normativo delineato dal dl 90/2014 punta più sulla sostanza che sulla forma: le irregolarità nelle dichiarazioni possono essere superate pagando, laddove la sanzione pecuniaria costituisce la contropartita a favore della stazione appaltante, costretta agli straordinari per verificare la sussistenza dei requisiti di partecipazione; obbligare anche chi è escluso dalla gara a versare la sanzione finirebbe per incentivare alla caccia all'errore l'amministrazione che incassa il denaro mentre la ratio del dl semplificazioni è proprio accelerare le procedure.
Chi partecipa agli appalti è responsabilizzato perché rischia di pagare fino a 50 mila euro se non osserva il bando quando si candida all'appalto.
Ed è in linea con le norme Ue che l'Anac esclude che la «multa» vada applicata a chi non si serve del soccorso istruttorio: oggi il decreto legislativo 50/2016 lo prescrive in modo netto e deve ritenersi che il legislatore abbia voluto «positivizzare» un principio non esplicitato dal vecchio codice dei contratti pubblici. Spese di giudizio compensate per il contrasto di giurisprudenza (articolo ItaliaOggi del 09.06.2016).
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MASSIMA
Il ricorso è fondato.
L'art. 38, comma 2-bis, del D.Lgs. n. 163/2006 (disposizione introdotta dall’art. 39 del D.L. n. 90/2014 convertito con modificazioni dalla L. n. 114/2014) dispone che "la mancanza, l'incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e delle dichiarazioni sostitutive di cui al comma 2 obbliga il concorrente che vi ha dato causa al pagamento, in favore della stazione appaltante, della sanzione pecuniaria stabilita dal bando di gara, in misura non inferiore all'uno per mille e non superiore all'uno per cento del valore della gara e comunque non superiore a 50.000 euro, il cui versamento e' garantito dalla cauzione provvisoria. In tal caso, la stazione appaltante assegna al concorrente un termine, non superiore a dieci giorni, perché siano rese, integrate o regolarizzate le dichiarazioni necessarie, indicandone il contenuto e i soggetti che le devono rendere. ... In caso di inutile decorso del termine di cui al secondo periodo il concorrente è escluso dalla gara".
L’art. 46, comma 1-ter, del D.Lgs. n. 163/2006 (norma introdotta dalla medesima novella del 2014) prevede inoltre che “Le disposizioni di cui all’art. 38, comma 2-bis, si applicano a ogni ipotesi di mancanza, incompletezza o irregolarità degli elementi e delle dichiarazioni, anche di soggetti terzi, che devono essere prodotte dai concorrenti in base alla legge, al bando o al disciplinare di gara”.
La novella del 2014 ha quindi introdotto il c.d. soccorso istruttorio "a pagamento" per le ipotesi più gravi di irregolarità o incompletezza di documenti e dichiarazioni dei concorrenti.
Tale fattispecie si affianca al c.d. soccorso istruttorio ordinario “gratuito” previsto dall’art. 46, primo comma, del D.Lgs. n. 163/2006 che presenta un ambito di operatività maggiore, potendo esplicarsi per tutte le ipotesi previste dagli artt. 38 a 45, sempre inerenti la fase di ammissione, il quale consente ai concorrenti di completare e fornire chiarimenti in ordine al contenuto dei certificati, documenti e dichiarazioni presentati e si applica solo alle ipotesi lievi, avendo il legislatore mantenuto esplicitamente al comma 1-bis la previsione di esclusione in caso di carenza di “elementi essenziali”.
Il nuovo quadro normativo è chiaramente orientato alla dequalificazione delle irregolarità dichiarative, da fattori escludenti a carenze regolarizzabili o sanzionabili in via pecuniaria, soluzione questa che punta ad appurare il più possibile l'effettiva titolarità dei requisiti richiesti, senza vanificare o stravolgere l'esito della gara in ragione di mere carenze formali (TAR Valle d’Aosta, n. 25/2015).
Le modifiche introdotte risultano, peraltro, finalizzate a superare le incertezze interpretative e applicative del combinato disposto degli artt. 38 e 46 del D.Lgs. n. 163/2006, mediante la procedimentalizzazione del potere di soccorso istruttorio (che diventa doveroso per ogni ipotesi di mancanza o di irregolarità delle dichiarazioni sostitutive) e la configurazione dell'esclusione dalla procedura come sanzione derivante unicamente dall'omessa produzione, integrazione o regolarizzazione delle dichiarazioni carenti entro il termine assegnato dalla stazione appaltante e non più da carenze originarie (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria n. 16/2014; Sez. VI, n. 5890/2014).
Il comma 2-bis del citato art. 38 prevede un procedimento che si articola nell’applicazione della sanzione pecuniaria stabilita nel bando di gara, nell’assegnazione di un termine non superiore a 10 giorni da parte della stazione appaltante affinché il concorrente provveda a regolarizzare e completare la documentazione e, solo in caso di inutile decorso di tale termine (al quale la giurisprudenza riconosce natura perentoria: cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 1803/2016) nella successiva adozione del provvedimento di esclusione. A tale disciplina fanno eccezione le ipotesi di irregolarità non essenziali e quelle di mancanza o incompletezza di dichiarazioni non indispensabili, per le quali si prevede che la stazione appaltante non ne richiede la regolarizzazione e non applica alcuna sanzione pecuniaria.
La riforma del 2014 ha quindi introdotto una vera e propria procedimentalizzazione del potere (dovere) di soccorso in un'ottica collaborativa tra soggetto pubblico e privato che “dialogano” al fine di evitare esclusioni legate a mere irregolarità formali o incompletezze documentali.
Venendo al punto centrale del giudizio,
il Collegio non ignora l’orientamento della giurisprudenza amministrativa (TAR Palermo, n. 1043/2016; TAR Emilia Romagna, Parma, n. 66/2016; TAR Abruzzo, L’Aquila, n. 784/2015) secondo cui la sanzione di cui all’art. 38, comma 2-bis, deve essere comminata in ogni caso di incompletezza e irregolarità di elementi essenziali, sia che il concorrente che vi sia incorso decida di avvalersi del soccorso istruttorio, integrando o regolarizzando la dichiarazione resa, sia nell’ipotesi in cui questi, non usufruendo del soccorso istruttorio, manifesti il proprio disinteresse alla prosecuzione della gara e, quindi, venga escluso dalla procedura.
A sostegno di tale ermeneutica, tale indirizzo adduce essenzialmente due argomentazioni.
In primo luogo, dalla formulazione letterale emergerebbe chiaramente che l’essenzialità dell’irregolarità determina in sé per sé l’obbligo del concorrente di pagare la sanzione pecuniaria prevista dal bando, a prescindere dalla circostanza che questi aderisca o meno all’invito, che la stazione appaltante deve necessariamente fargli, di sanare detta irregolarità. Solamente quando l’irregolarità non è essenziale, il concorrente non sarebbe tenuto al pagamento della sanzione pecuniaria né la stazione appaltante al soccorso istruttorio. L’esclusione, invece, è una conseguenza sanzionatoria diversa e in parte autonoma da quella pecuniaria, nel senso che il concorrente vi incorrerà solamente in caso di mancata ottemperanza all’invito alla regolarizzazione da parte della stazione appaltante.
In secondo luogo, tale soluzione interpretativa garantirebbe la serietà delle domande di partecipazione e delle offerte presentate dai partecipanti, favorirebbe la responsabilizzazione delle imprese partecipanti nel confezionamento della documentazione di gara e, quindi, in ultima analisi contribuirebbe a garantire la celere e sicura verifica del possesso dei requisiti di partecipazione, in un’ottica di buon andamento ed economicità dell’azione amministrativa, a cui devono concorrere anche gli operatori economici in ossequio ai principi di leale cooperazione, di correttezza e di buona fede.
La Sezione non condivide tale orientamento per le ragioni che ci appresta ad esporre.
L’interpretazione suggerita dal ricorrente appare maggiormente conforme alla
ratio del nuovo istituto che è chiaramente quella di consentire ai partecipanti, in omaggio al principio del favor partecipationis, di regolarizzare e completare le dichiarazioni rese e la documentazione prodotta senza incorrere nella sanzione espulsiva ma potendo al contrario confidare nel beneficio del soccorso istruttorio previo pagamento della sanzione pecuniaria.
In tale prospettiva,
la sanzione costituisce una misura di “fiscalizzazione” dell’irregolarità o dell’incompletezza documentale e costituisce una contropartita da corrispondere alla stazione appaltante per l’aggravamento del procedimento di verifica della regolarità e completezza della documentazione amministrativa: è evidente che tale aggravamento consegue solo all’attivazione e alla effettiva fruizione da parte del concorrente medesimo del soccorso istruttorio mentre, qualora il partecipante non intenda avvalersi del beneficio, la selezione concorsuale procederà più spedita.
In altri termini,
nel quadro delle misure di accelerazione delle procedure di evidenza pubblica, attraverso la sanzione pecuniaria di cui all’art. 38, comma 2-bis, il concorrente che presenta una documentazione incompleta “paga” -secondo un criterio prestabilito ed in base a una percentuale rapportata al valore dell’appalto- il ritardo cagionato all’amministrazione nel disimpegno dell’ulteriore attività procedimentale (soccorso istruttorio) alla quale egli stesso ha dato corso.
Distinta è l’ipotesi in cui versa l’impresa che non intenda beneficiare del soccorso istruttorio: essa semplicemente accetta e, quindi, presta acquiescenza alla estromissione che sarà disposta dalla stazione appaltante, non costringe l’amministrazione ad aprire una ulteriore fase di verifica della regolarità della documentazione, non determina alcun ritardo nell’espletamento della gara poiché consente all’amministrazione di procedere celermente con le operazioni concorsuali, in ultima analisi non lede l’interesse pubblico alla rapida definizione della selezione. In caso di mancata fruizione del beneficio del soccorso istruttorio, quindi, viene meno la ratio sottesa all’applicazione della sanzione pecuniaria di cui al comma 2-bis e, pertanto, la stessa non è dovuta.
Viceversa,
prestando adesione all’interpretazione rigorosa del comma 2-bis, quello che è stato delineato come un beneficio in favore delle imprese, si tramuterebbe in un disincentivo alla partecipazione alle gare pubbliche poiché esporrebbe i concorrenti al rischio di vedersi comminare sanzioni pecuniarie consistenti (il cui importo può arrivare fine a 50.000,00 euro) come mera conseguenza dell’incompletezza o della irregolarità documentale e a prescindere dalla loro intenzione di avvalersi del soccorso istruttorio, in più sarebbe incentivata una “caccia all’errore” da parte delle amministrazioni appaltanti che va certamente nel senso opposto a quanto auspicato dal legislatore.
Inoltre,
qualora costrette a versare in ogni caso la sanzione di cui al comma 2-bis come effetto della mera incompletezza o irregolarità formale della documentazione, le imprese concorrenti potrebbero ritenere maggiormente conveniente, anche in chiave strategica, la scelta di avvalersi sempre e in ogni caso del soccorso istruttorio con conseguente sistematica apertura di fasi istruttorie supplementari e vanificazione delle esigenze di semplificazione e celerità delle procedure di evidenza pubblica.
E’ poi adeguatamente tutelata l’esigenza di responsabilizzare i partecipanti nella predisposizione della documentazione occorrente per la partecipazione alla gara poiché, attraverso il nuovo istituto, essi sono previamente resi edotti del maggior onere economico che saranno tenuti a corrispondere qualora non osservino le prescrizioni poste dalla lex specialis e dalla normativa di settore e, ciononostante, intendano usufruire del soccorso istruttorio per coltivare le proprie chance di aggiudicazione. Tuttavia, tale forma di responsabilizzazione non può tramutarsi in una misura vessatoria ed afflittiva per le imprese, quale si avrebbe in caso di comminazione della sanzione pecuniaria sganciata dall’effettiva volontà del concorrente di usufruire del beneficio.
Peraltro, occorre prendere atto che, in ogni caso,
una efficace forma di responsabilizzazione delle imprese è costituita dai costi di partecipazione alla gara che resterebbero a carico delle stesse in caso di incompletezza o irregolarità della documentazione, rifiuto del soccorso istruttorio e conseguente esclusione dalla gara.
Ancora, con la novella del 2014 il legislatore ha inteso introdurre un meccanismo deflattivo del contenzioso in materia di appalti pubblici derivante da provvedimenti di esclusione dalle gare d’appalto, per vizi formali sulle dichiarazioni rese dai partecipanti, con conseguente possibile riduzione dei casi di annullamento e di sospensione dei provvedimenti di aggiudicazione (ciò che, peraltro, si desume dalla collocazione dello stesso art. 39, nel Titolo IV del D.L. n. 90/2014 dedicato alle “misure per lo snellimento del processo amministrativo e l’attuazione del processo civile telematico”).
In tal modo è stato assegnato ai concorrenti e alle stazioni appaltanti uno strumento alternativo di risoluzione stragiudiziale delle controversie che possano insorgere in caso di irregolarità ed incompletezza documentale.
L’opzione ermeneutica più rigorosa rischia invece di vanificare tale scopo poiché espone le stazioni appaltanti a maggiori contenziosi che potrebbero essere attivati proprio da quelle imprese che, come è accaduto nella causa in decisione, pur non avendo un concreto interesse ad usufruire del soccorso istruttorio, non avrebbero altro modo per opporsi all’applicazione della sanzione di cui al comma 2-bis.
Ma non è tutto.
L’interpretazione della disposizione in esame avallata dalla stazione appaltante comporta un’illegittima equiparazione tra fattispecie normative radicalmente distinte, cioè quella del concorrente che abbia reso una dichiarazione incompleta, ad esempio, sul possesso dei requisiti di ordine generale di cui all’art. 38, comma 1 (il quale, secondo l’ermeneutica avversata in questa sede, dovrebbe ugualmente versare una sanzione il cui pagamento è garantito dalla cauzione provvisoria) e quella dell’impresa che, all’esito del controllo di cui all’art. 48 del Codice degli Appalti pubblici, risulti carente di tali requisiti, posto che in tale ipotesi, andrebbe escussa la cauzione provvisoria (Consiglio di Stato, Ad. Plen. n. 34/2014; TAR Palermo, n. 1757/2015).
In entrambe le ipotesi –pur ontologicamente distinte- il concorrente sarebbe esposto ad una misura sanzionatoria patrimoniale, ma tale equiparazione si porrebbe tuttavia in contrasto con la ratio ispiratrice della novella del 2014 proclive, come si è visto, a dequotare le mere irregolarità formali che non rendano chiaramente percepibile l’effettiva carenza dei requisiti essenziali. Difatti, in base dell’art. 38, comma 2-bis, ai fini della partecipazione alla gara, assume rilievo la reale sussistenza dei requisiti di ordine generale in capo ai concorrenti e non le formalità né la completezza del contenuto della dichiarazione resa a dimostrazione del possesso dei predetti requisiti.
Si aggiunga che l’interpretazione sostenuta in questa sede è conforme a quella espressa dall’ANAC, secondo cui “La sanzione individuata negli atti di gara sarà comminata nel caso in cui il concorrente intenda avvalersi del nuovo soccorso istruttorio; essa è correlata alla sanatoria di tutte le irregolarità riscontrate e deve pertanto essere considerata in maniera onnicomprensiva. (…) In caso di mancata regolarizzazione degli elementi essenziali carenti, invece, la stazione appaltante procederà all’esclusione del concorrente dalla gara. Per tale ipotesi la stazione appaltante dovrà espressamente prevedere nel bando che si proceda, altresì, all’incameramento della cauzione esclusivamente nell’ipotesi in cui la mancata integrazione dipenda da una carenza del requisito dichiarato. All’incameramento, in ogni caso, non si dovrà procedere per il caso in cui il concorrente decida semplicemente di non avvalersi del soccorso istruttorio” (cfr. determinazione n. 1/2015).
L’ANAC esclude quindi che la sanzione debba essere applicata qualora il concorrente non intenda usufruire del soccorso istruttorio.
In argomento, va anche rilevato che, con comunicato del 23.03.2015, l’ANAC ha affrontato la questione circa il giusto raccordo tra l’affermazione contenuta nella richiamata determinazione n. 1/2015 (secondo cui “la sanzione individuata negli atti di gara sarà comminata nel caso in cui il concorrente intenda avvalersi del nuovo soccorso istruttorio”) e la lettera dell’art. 38, comma 2-bis, del D.Lgs. n. 163/2006, laddove questo prevede che l’operatore economico è obbligato al pagamento della sanzione in caso di mancanza, incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale.
In tale comunicato, il Presidente dell’ANAC ha chiarito che la lettura interpretativa fornita dalla determinazione n 1 del 2015 “si è imposta come doverosa sia per evitare eccessive ed immotivate vessazioni delle imprese sia in ossequio al principio di primazia del diritto comunitario, che impone di interpretare la normativa interna in modo conforme a quella comunitaria anche in corso di recepimento. La direttiva 2014/24/UE sugli appalti pubblici, infatti, prevede all’art. 59, paragrafo 4, secondo capoverso, la possibilità di integrare o chiarire i certificati presentati relativi al possesso sia dei requisiti generali sia di quelli speciali, senza il pagamento di alcuna sanzione”.
Si è dato quindi atto della coerenza di tale interpretazione con il quadro normativo comunitario.
A tale proposito, si rammenta che la direttiva 2014/24/UE è stata adottata il 26.02.2014 e, secondo quanto disposto dall’art. 93, è entrata in vigore il ventesimo giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea, avvenuta il 28.03.2014, con termine di recepimento alla data del 18.04.2016 (art. 90). Benché non si tratti di direttiva self-executing (Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 2660/2015) essa riveste indubbio rilievo interpretativo vincolato alla stregua del consolidato indirizzo della giurisprudenza comunitaria (Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sentenza del 17.01.2008, causa C-246/06), secondo cui fra la data di entrata in vigore e quella della scadenza del termine di recepimento, la direttiva, per i principi che esprime, è ormai entrata nell’ordinamento dell’Unione europea, sicché richiede che la normativa nazionale sia applicata fin dall’entrata in vigore della direttiva medesima in modo conforme a quei principi.
Infine, è importante rilevare che l’ermeneutica sostenuta dall’ANAC e condivisa dalla Sezione è stata, da ultimo, espressamente recepita nel nuovo Codice degli Appalti Pubblici approvato con D.Lgs. n. 50/2016 (“Attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture”).
Il nuovo art. 83 (rubricato “criteri di selezione e soccorso istruttorio”) prevede infatti una disciplina che ricalca quella regolamentata dal previgente art. 38, comma 2-bis, del D.Lgs. n. 163/2006 e che si articola nell’applicazione –in caso di mancanza, incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e del documento di gara unico europeo di cui all'articolo 85, con esclusione di quelle afferenti all'offerta tecnica ed economica– di una sanzione pecuniaria in misura non inferiore all'uno per mille e non superiore all'uno per cento del valore della gara e comunque non superiore a 5.000 euro (quindi, con sensibile riduzione del limite edittale massimo rispetto a quanto previsto dal D.L. n. 90/2014) e nell’assegnazione al concorrente di un termine non superiore a 10 giorni per procedere alla regolarizzazione che, qualora decorso invano, comporta l’esclusione dalla gara.
Per quanto rileva nel presente giudizio,
è utile riportare la previsione secondo cui “La sanzione è dovuta esclusivamente in caso di regolarizzazione”, con ciò intendendosi escludere l’applicazione qualora il concorrente non intenda avvalersi del beneficio del soccorso istruttorio.
Benché la disposizione non risulti applicabile ratione temporis alla controversia in esame, essa offre rilevanti spunti di riflessione in quanto è ragionevole ritenere che il legislatore del 2016 abbia inteso positivizzare un principio già contenuto, seppur non esplicitato, nell’art. 38, comma 2-bis, del D.Lgs. n. 163/2006.
Le considerazioni illustrate conducono in definitiva all’accoglimento del ricorso e al conseguente annullamento dei provvedimenti impugnati, nei limiti dell’interesse di parte ricorrente, ovvero limitatamente alla irrogazione nei confronti della società ricorrente della sanzione pecuniaria di cui all’art. 38, comma 2-bis, del D.Lgs. n. 163/2006.

TRIBUTI: Rifiuti speciali, stretta sulle esenzioni. Spettano se il contribuente prova l'autosmaltimento.
Il contribuente non ha diritto all'esenzione dalla tassa rifiuti qualora produca rifiuti speciali, se non fornisce la prova all'amministrazione comunale di provvedere al loro smaltimento. Infatti, incombe sui contribuenti l'onere di fornire la documentazione atta a dimostrare che è stato conferito a un'impresa specializzata l'incarico di provvedere allo smaltimento dei rifiuti.

Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. V civile, con la sentenza 25.05.2016 n. 10811.
Per la Cassazione, per escludere che i comuni possano assimilare i rifiuti speciali non pericolosi agli urbani e che possano smaltirli attraverso il servizio pubblico, sia il Mud che i registri di carico e scarico possono essere ritenuti elementi comprovanti il superamento della soglia di produzione di rifiuti stabilita dal comune al fine di consentire al privato di smaltirli in proprio.
Tuttavia, secondo i giudici di legittimità, questa circostanza da sola «non è sufficiente ai fini della esclusione dalla tassazione, dovendo la società fornire la prova non solo della produzione di rifiuti speciali in misura superiore ai valori stabiliti dal comune, ma anche di avere provveduto al loro effettivo smaltimento mediante ditte specializzate». Occorre produrre «copia dei relativi contratti e/o delle relative fatture». La ratio della norma di legge che prevede l'esonero dal pagamento della tassa è quella «di evitare una indebita duplicazione di costi in capo ai soggetti che producono tali rifiuti».
Gli immobili produttivi di rifiuti speciali, in effetti, non sono soggetti al pagamento della tassa rifiuti (Tarsu, Tia, Tares e Tari) purché il contribuente delimiti le relative superfici e dimostri all'amministrazione comunale di provvedere allo smaltimento. Nella determinazione della superficie tassabile, non si tiene conto di quella parte di essa ove per specifiche caratteristiche strutturali e per destinazione si formano, di regola, rifiuti speciali allo smaltimento dei quali sono tenuti a provvedere a proprie spese i produttori stessi.
Al riguardo la Cassazione (sentenza 18497/2010) ha più volte ribadito il principio che costituendo le esenzioni un'eccezione alla regola generale di assoggettamento alla tassa di tutti coloro che occupano o detengono immobili nelle zone del territorio comunale, l'onere della prova circa l'esistenza e la delimitazione delle superfici per le quali il tributo non è dovuto grava su chi ritiene di avere diritto all'esenzione e non sull'amministrazione comunale.
Peraltro, l'esenzione di una parte delle aree utilizzate perché si producono rifiuti speciali, come pure l'esclusione di parti di aree perché inidonee alla produzione di rifiuti, è subordinata all'adeguata delimitazione di questi spazi. Spetta all'impresa produttrice l'onere di fornire i dati precisi per delimitare le zone che non concorrono a determinare la complessiva superficie imponibile, presentando idonea documentazione (articolo ItaliaOggi del 04.06.2016).

EDILIZIA PRIVATAAutotutela ok senza fronzoli. Pochi i presupposti per l'attivazione.
In considerazione del breve lasso di tempo intercorso tra il rilascio del permesso di costruire e la comunicazione di avvio del procedimento di annullamento, è da ritenersi sufficiente, quale presupposto per l'esercizio del potere di autotutela, l'esigenza di ripristino della legalità e una motivazione che faccia unicamente riferimento alla disposizione violata.

È quanto ribadito dai giudici della I Sez. del TAR Campania-Salerno con la sentenza 25.05.2016 n. 1304.
Inoltre, l'orientamento giurisprudenziale (Tar Lecce (Puglia), Sez. III, 06/06/2008, n. 1680) richiamato dai giudici campani, continua affermando che: «Allorché non si è ingenerato alcun legittimo affidamento nel destinatario del provvedimento poiché l'annullamento d'ufficio interviene a breve distanza di tempo dall'adozione del provvedimento illegittimo, infatti, non è necessaria una penetrante motivazione sull'interesse pubblico all'annullamento, né una comparazione di tale interesse con l'interesse privato sacrificato».
È stato, altresì rimarcato che in presenza di un remoto avviso dell'inizio del procedimento, finalizzato all'annullamento della sola concessione edilizia in sanatoria, s'era evidentemente consolidato un affidamento, da parte del soggetto, circa l'implicita archiviazione del procedimento medesimo perché «un lasso temporale così abnormemente dilatato, rispetto alla prefigurata scadenza mensile del medesimo, finisce per aggirare, di fatto, e frustrare completamente la funzione, cui l'atto dovrebbe essere vocato, vale a dire quella di porre il destinatario in condizione di interloquire con l'amministrazione, circa i concreti contenuti del provvedimento conclusivo da adottarsi».
Pertanto l'amministrazione comunale, prima di riattivare il procedimento deve inviare un nuovo avviso d'avvio del relativo procedimento, senza il quale la determina finale si palesa come illegittima (articolo ItaliaOggi Sette del 06.06.2016).
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MASSIMA
Il ricorso è fondato.
Sviluppando talune delle argomentazioni, già fondanti l’accoglimento della domanda cautelare di parte ricorrente, il Collegio ritiene come carattere dirimente, con assorbimento d’ogni altra doglianza, rivesta, nel caso in esame, la considerazione della censura d’omessa comunicazione d’avvio del procedimento, omissione alla quale deve essere equiparata, ad avviso del Tribunale, una comunicazione d’avvio del procedimento inviata, come nella specie, con un intervallo di tempo, rispetto all’adozione dell’atto conclusivo del procedimento, talmente ampio (si tratta, nella specie, di ben sei anni), da risultare, ormai, la stessa, come “inutiliter data”.
La comunicazione in questione veniva trasmessa dal Comune di Eboli al ricorrente, specificamente, con nota, prot. 39581 del 29.10.2008.
Pienamente condivisibili si palesano, in particolare, le deduzioni difensive contenute in ricorso, in cui s’è giustamente osservato come,
a fronte di siffatto, remoto, avviso dell’inizio del procedimento, finalizzato all’annullamento (tra l’altro) della sola concessione edilizia in sanatoria n. 724/22897/94 del 12.12.1997 (laddove il provvedimento, odiernamente gravato, ha decretato l’annullamento anche degli “atti successivi alla concessione de quo e, nello specifico, il permesso di costruire n. 54/2003 del 23.12.2003”), s’era evidentemente consolidato un affidamento, da parte del ricorrente, circa l’implicita archiviazione del procedimento medesimo (tanto più che, nel testo della citata comunicazione, prot. 39581/2008, si asseriva che lo stesso si sarebbe concluso, “entro trenta giorni dalla data di ricezione della presente”).
Orbene,
non è chi non veda come tale termine di giorni trenta non potesse, evidentemente, essere considerato perentorio; ma al contempo è altrettanto intuitivo che un lasso temporale così abnormemente dilatato, rispetto alla prefigurata scadenza mensile del medesimo, finisce per aggirare, di fatto, e frustrare completamente la funzione, cui l’atto dovrebbe essere vocato, vale a dire quella di porre il destinatario in condizione di interloquire con l’Amministrazione, circa i concreti contenuti del provvedimento conclusivo da adottarsi.
Sicché va sottoscritta l’ulteriore considerazione difensiva del ricorrente, secondo la quale –posto che la suddetta, risalente, comunicazione ex art. 7 l. 241/1990 era ormai, per le ragioni dianzi espresse, divenuta inefficace–
l’Amministrazione Comunale, prima di riattivare il procedimento (tra l’altro con oggetto più ampio, rispetto a quello previsto nel 2008), avrebbe dovuto inviargli un nuovo avviso d’avvio del relativo procedimento, senza il quale la determina finale si palesa come illegittima.
Né, tampoco, l’Amministrazione Comunale, nella propria memoria difensiva, ha contrastato tali pregnanti deduzioni di parte ricorrente, ovvero ha ritenuto d’invocare l’efficacia sanante delle violazioni formali, ex art. 21-octies della l. 214/1990, onde nessuna particolare motivazione deve spendersi sul punto.
L’abnormità del lasso temporale trascorso (tra avviso previsto dalla legge e atto conclusivo del procedimento) rende, poi, addirittura impensabile che l’Amministrazione potesse appellarsi a ragioni d’urgenza, onde giustificare l’omissione dell’adempimento partecipativo de quo.
In giurisprudenza, a conferma di quanto sopra considerato, si tenga presente, a contrario, la massima seguente: “
In considerazione del breve lasso di tempo intercorso tra il rilascio del premesso di costruire e la comunicazione di avvio del procedimento di annullamento, è da ritenersi sufficiente, quale presupposto per l’esercizio del potere di autotutela, l’esigenza di ripristino della legalità ed una motivazione che faccia unicamente riferimento alla disposizione violata. Allorché non si è ingenerato alcun legittimo affidamento nel destinatario del provvedimento poiché l’annullamento d’ufficio interviene a breve distanza di tempo dall’adozione del provvedimento illegittimo, infatti, non è necessaria una penetrante motivazione sull’interesse pubblico all’annullamento, né una comparazione di tale interesse con l’interesse privato sacrificato” (TAR Lecce (Puglia), Sez. III, 06/06/2008, n. 1680).
Quanto, poi, alla necessità d’inviare la comunicazione, ex art. 7 l. 241/1990, al destinatario dell’atto (adempimento nella specie, giusta quanto rilevato in precedenza, sostanzialmente omesso), si consideri l’ulteriore decisione che segue: “
Il principio della previa comunicazione dell’avvio del procedimento (art. 7 l. 07.08.1990 n. 241), che è di portata generale, opera a maggiore ragione quando la p.a. adotta un provvedimento all’esito di un procedimento c.d. di secondo grado, annullando o revocando un precedente atto amministrativo favorevole al ricorrente specie a distanza di 4 anni durante i quali si è creato un legittimo affidamento per l’interessato” (TAR Toscana, Sez. III, 06/12/2005, n. 8234).

EDILIZIA PRIVATANiente moschea sull’area inquinata. Tar di Milano. Vietato il cambio di destinazione di un ex capannone industriale.
Il cambio di destinazione d’uso da capannone industriale a centro di culto su un’area industriale bonificata può essere bloccato dal Comune se il grado di inquinamento ambientale della zona è incompatibile con la presenza a tempo indeterminato delle persone che con ogni probabilità ne faranno uso. In particolare bambini, donne e anziani.
Il TAR Lombardia-Milano, nella sentenza 25.05.2016 n. 1078, depositata dalla II Sez., ha dato ragione a un Comune che, per rischio sanitario e ambientale per gli associati rilevato dall’Asl, aveva negato a un’associazione islamica il permesso di costruire per trasformare in centro culturale e di culto un capannone di proprietà su un’area produttiva sottoposta a bonifica.
Il no alla nuova attività –poi sospesa e vietata con due ordinanze- era stato disposto non per incompatibilità urbanistica (nella zona era ammesso l’uso di immobili per «sedi di associazioni» e «servizi religiosi»), ma per valori d’inquinamento oltre la soglia di contaminazione fissata dal Testo unico ambientale per siti destinati a verde pubblico, privato e residenziale (colonna a, tabella 1, allegato 5, parte IV, Dlgs 152/2006).
Per Comune e Asl, al contrario della tesi dell’associazione ricorrente, l’accertato «notevole afflusso non episodico e non momentaneo» di associati di ogni età, in particolare di «categorie fragili», escludeva l’applicazione degli invocati parametri più alti e meno stringenti sui rischi per l’uomo, cioè le soglie d’inquinamento per siti a uso commerciale e industriale (colonna b) che l’area rispettava.
I giudici, validando lo “stop” alla futura moschea, hanno spiegato che il parere istruttorio dell’Asl fa riferimento il Comune va ritenuto «pienamente attendibile» poiché «attestato su una valutazione prudenziale circa il rischio di superamento della soglia di concentrazione, in sintonia con il principio di precauzione e prevenzione che permea tutta la disciplina di cui al Dlgs 152/2006 e che è espressamente sancito nell’articolo 301 (“in applicazione del principio di precauzione di cui all’articolo 174, paragrafo 2, del Trattato Ce, in caso di pericoli, anche solo potenziali, per la salute umana e per l’ambiente, deve essere assicurato un alto livello di protezione”)».
Secondo il collegio, in casi come questi è dunque legittimo attenersi in via «prudenziale» ai valori ambientali della destinazione residenziale per la «massima tutela sanitaria» di bambini, donne e anziani, e ciò in particolar modo se, come nella fattispecie, l’«indeterminatezza dell’effettivo flusso di affluenza» all’immobile è confermata dallo statuto dell’associazione con la previsione di un numero di soci «illimitato».
Nella sentenza, esclusa «una preclusione assoluta per il futuro insediamento del luogo di culto» -da valutare in base alla bonifica e all’adozione del locale “Piano per le attrezzature religiose”–, si è precisato che erano incontestabili anche gli altri provvedimenti adottati dalla Pa. Infatti, l’ordine a sospenderne l’uso era «una logica conseguenza dell’insussistenza dei presupposti per la sanatoria» e l’ordinanza che ne disponeva il divieto rispettava i compiti e le funzioni affidati al sindaco dal Testo unico degli enti locali (articoli 50 e 54, decreto legislativo 267/2000)
(articolo Il Sole 24 Ore del 16.06.2016).

EDILIZIA PRIVATA: Fioriere via, basta la comunicazione.
Cancellata la multa al condominio. Non dovrà più pagare 7.500 euro al Comune l'ente di gestione che ha fatto togliere le fioriere lungo tutto il prospetto dell'edificio senza effettuare la segnalazione di inizio attività all'amministrazione: si tratta sì di un intervento di manutenzione straordinaria, ma che richiede soltanto la Cila, comunicazione di inizio attività asseverata, perché non riguarda le parti strutturali dell'edificio.

È quanto emerge dalla sentenza 24.05.2016 n. 6098, pubblicata dalla Sez. II-quater del TAR Lazio-Roma.
Tecnico responsabile
Annullata la determinazione dirigenziale di Roma Capitale: sbaglia l'amministrazione locale ad applicare la sanzione pecuniaria per l'intervento senza Scia posto in essere dal condominio, per la rimozione delle fioriere che ha interessato un'area di circa 25 metri localizzata al primo piano dell'edificio.
L'opera realizzata, infatti, non integra la violazione dell'articolo 37 del testo unico dell'edilizia rilevata dai tecnici comunali. La manutenzione straordinaria effettuata, invece, risulta soggetta al regime dell'edilizia libera di cui all'articolo dell'articolo 6, comma 2, lettera a) e comma 4 del Dpr 380/2001.
Insomma: dopo il decreto Sblocca Italia all'interessato basta solo trasmettere al Comune il progetto e la comunicazione di inizio lavori asseverata da un tecnico abilitato, il quale attesta sotto la sua responsabilità che i lavori non interessano le parti strutturali dell'edificio, oltre a essere conformi agli strumenti urbanistici, ai regolamenti edilizi vigenti, alle norme antisismiche e alle disposizioni sul rendimento energetico.
Sportello unico
La comunicazione va presentata allo sportello unico dell'edilizia presso il Comune deve contenere i documenti con lo stato di fatto dell'immobile prima e dopo l'opera con i dati dell'impresa che porta a termine i lavori, a partire dal Durc, il documento unico di regolarità contributiva, oltre che la relazione sottoscritta dal tecnico abilitato.
È il proprietario committente del manufatto o un suo delegato a presentare la Cila ma le amministrazioni locali si stanno attrezzando per riceverla online. Nel caso di specie Roma Capitale paga le spese di giudizio (articolo ItaliaOggi Sette del 13.06.2016).
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MASSIMA
Considerato in fatto e in diritto:
a) che il condominio ricorrente impugna la determinazione dirigenziale n. 1169/2015 di Roma Capitale, recante l’irrogazione di una sanzione pecuniaria di Euro 7.500,00 conseguente alla realizzazione di opere abusive in Via San ..., 18;
b) che si è costituita in giudizio Roma Capitale, resistendo al ricorso;
c) che il ricorso è stato chiamato per la trattazione della domanda cautelare alla camera di consiglio del 18.04.2016;
d) che sussistono i presupposti per la decisione della causa nel merito mediante sentenza in forma semplificata ai sensi dell’art. 60 c.p.a.;
e) che la sanzione pecuniaria in questione è stata irrogata sul presupposto dell’avvenuta violazione dell’art. 37 del D.P.R. n. 380/2001, a seguito dell’accertamento dell’esecuzione della seguente opera edilizia: “rimozione fioriere, per una lunghezza di circa m. 25, lungo il prospetto dell’edificio su via San ..., posta al piano primo rispetto a tale strada”;
f) che è fondato il profilo di censura relativo all’erroneità dell’avvenuta applicazione della normativa in tema di lavori effettuati in assenza di S.C.I.A. da parte dell’Amministrazione;
g) che in particolare
deve ritenersi corretta la qualificazione di detto intervento come manutenzione straordinaria che non riguarda parti strutturali dell’edificio ed è quindi assoggettata al regime dell’edilizia libera previa presentazione di C.I.L.A. ai sensi dell’art. 6, comma 2, lett. a) e comma 4 del D.P.R. n. 380/2001, con la conseguenza dell’inapplicabilità della sanzione pecuniaria nella misura irrogata dall’Amministrazione nel caso di specie;
h) che il ricorso deve quindi essere accolto, con il conseguente annullamento dell’atto impugnato.

APPALTI: Raggruppamento d'imprese, se una fallisce si sostituisce.
Se in un appalto pubblico fallisce una delle due imprese facenti parte di un raggruppamento temporaneo, l'altra può legittimamente subentrare al raggruppamento a condizione che possegga i requisiti di ammissione alla gara.

È quanto ha affermato la Corte di giustizia nella sentenza 24.05.2016 (causa C 396/14) dirimendo una fattispecie non disciplinata dalle direttive europee ed inerente alla modifica soggettiva di un raggruppamento temporaneo di imprese.
La Corte di giustizia ha affrontato la questione relativa alla compatibilità con il diritto europeo del subentro di una della società costituenti un originario raggruppamento temporaneo, in caso di scioglimento del raggruppamento stesso per fallimento dell'altra società.
In particolare, il giudice del rinvio aveva chiesto, sostanzialmente, se il principio di parità di trattamento degli operatori economici, di cui all'articolo 10 della direttiva 2004/17, in combinato disposto con l'articolo 51 della medesima direttiva, dovesse essere interpretato nel senso che esso osta a che una stazione appaltante autorizzi un operatore economico, che faceva parte di un raggruppamento di due imprese preselezionate e che avevano presentato la prima offerta in una procedura negoziata di aggiudicazione di un appalto pubblico, a continuare a partecipare in nome proprio a tale procedura in seguito allo scioglimento del raggruppamento di cui faceva parte a causa del fallimento dell'altra impresa.
La materia non è trattata nelle direttive europee e quindi la conclusione della Corte europea poggia sui principi generali del Trattato e, in conclusione, dà il via libera all'operato della stazione appaltante, ma ad alcune condizioni precise.
La prima è che ovviamente l'impresa superstite copra i requisiti richiesti per la partecipazione alla gara. La seconda condizione attiene al fatto che la continuazione della partecipazione alla procedura non comporta un deterioramento della situazione degli altri offerenti sotto il profilo della concorrenza. Si tratta di una formulazione particolarmente vaga e di difficile traduzione che deve essere letta alla luce della procedura (negoziata) che impone almeno cinque offerenti (articolo ItaliaOggi del 03.06.2016).
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MASSIMA
Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara: "I
l principio di parità di trattamento degli operatori economici, di cui all’articolo 10 della direttiva 2004/17/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31.03.2004, che coordina le procedure di appalto degli enti erogatori di acqua e di energia, degli enti che forniscono servizi di trasporto e servizi postali, in combinato disposto con l’articolo 51 della medesima, deve essere interpretato nel senso che un ente aggiudicatore non viola tale principio se autorizza uno dei due operatori economici che facevano parte di un raggruppamento di imprese invitato, in quanto tale, da siffatto ente a presentare un’offerta, a subentrare a tale raggruppamento in seguito allo scioglimento del medesimo e a partecipare, in nome proprio, a una procedura negoziata di aggiudicazione di un appalto pubblico, purché sia dimostrato, da un lato, che tale operatore economico soddisfa da solo i requisiti definiti dall’ente di cui trattasi e, dall’altro, che la continuazione della sua partecipazione a tale procedura non comporta un deterioramento della situazione degli altri offerenti sotto il profilo della concorrenza".

ATTI AMMINISTRATIVI: Accesso, no a domande sproporzionate.
La domanda di accesso ai documenti amministrativi non può essere palesemente sproporzionata rispetto all'effettivo interesse conoscitivo del soggetto richiedente, il quale deve specificare il nesso che lega il documento richiesto alla propria posizione soggettiva, ritenuta meritevole di tutela.

A ribadirlo sono stati i giudici della I Sez. del TAR Friuli Venezia Giulia con la sentenza 23.05.2016 n. 188.
I giudici amministrativi triestini hanno, altresì, aggiunto che la domanda di accesso dovrà anche indicare i presupposti di fatto idonei a rendere percettibile l'interesse specifico, concreto e attuale, corrispondente a una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento «de quo».
Nel caso sottoposto all'attenzione dei giudici friulani l'interessato, con riferimento ai documenti di cui si discorre, ha sostanzialmente riprodotto l'iniziale istanza d'accesso, sulla quale il questore aveva, però, già espresso parere negativo, senza che ne seguisse alcuna contestazione in sede amministrativa o giurisdizionale.
Il ricorrente, secondo il tribunale amministrativo regionale, avrebbe, pertanto, dovuto, eventualmente, gravare il primo diniego per vizi riscontrati, ma, non avendolo fatto ed essendo decaduto per inutile decorso del termine dal relativo diritto, incorreva ovviamente in inammissibilità. Pertanto legittima s'appalesa agli occhi dei giudici la dichiarata inammissibilità dell'istanza di accesso presentata.
E inoltre, non si può disconoscere, in via meramente teorica, la possibilità per l'interessato di ripresentare l'istanza ostensiva al sopravvenire di nuovi elementi oppure di riqualificare l'interesse originario rilevante, anche in ragione dell'esigenza di curare o difendere i propri interessi giuridici (articolo ItaliaOggi Sette del 06.06.2016).
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MASSIMA
Devesi, in primo luogo, rilevare l’inammissibilità del ricorso, laddove rivolto a quella parte del provvedimento questorile che dichiara inammissibile l’istanza ostensiva con riferimento ai documenti richiesti dal-OMISSIS-ai pt.i II (fascicoli relativi a vari stranieri di nazionalità russa, tutti nominativamente indicati) e III (fascicoli attinenti il rilascio e/o il rinnovo del permesso di soggiorno per “residenza elettiva” ex d.m. 12/07/2000 inerenti i cittadini statunitensi e relativi agli anni 2009-2010-primi mesi anno 2011), essendo ictu oculi evidente che la medesima, per come formulata, è meramente reiterativa e confermativa del pt. 4 dell’istanza di accesso in data 23.06.2015, denegata con provvedimento in data 24.07.2015, mai impugnato dal ricorrente (in termini C.d.S., VI, 04.10.2013, n. 4912; id., V, 17.12.2008, n. 6294)).
L’interessato si sofferma, invero, unicamente ad enfatizzare la prevalenza dell’accesso difensivo su eventuali esigenze di riservatezza di eventuali controinteressati, acconsentendo, occorrendo, all’oscuramento dei loro nominativi, nonché a rappresentare l’insussistenza di profili di segretezza (peraltro unicamente con riferimento alla richiesta sub pt. II), ma non allega elementi ulteriori, idonei, in particolare, a comprovare l’interesse connesso all’oggetto della richiesta ovvero la sussistenza di un interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento a cui è chiesto l’accesso, alla quale fa riferimento l’art. 22, comma 1, lett. b), della l. n. 241/1990, tali da consentire di ritenere l’istanza presentata quale “nuova” istanza.
In via meramente incidentale, si osserva, peraltro, che la giurisprudenza (Cons. St., V, nn. 5226 e 3309 del 2010) ha condivisibilmente precisato che
la domanda di accesso ai documenti amministrativi non può essere palesemente sproporzionata rispetto all'effettivo interesse conoscitivo del soggetto richiedente, il quale deve specificare il nesso che lega il documento richiesto alla propria posizione soggettiva, ritenuta meritevole di tutela; detta domanda deve, inoltre, indicare i presupposti di fatto idonei a rendere percettibile l'interesse specifico, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento “de quo”.
Ciò che rileva nel caso portato all’attenzione di questo Tribunale è, in ogni caso, la circostanza che l’interessato, con riferimento ai documenti di cui si discorre, ha sostanzialmente riprodotto l’iniziale istanza d’accesso, sulla quale il Questore di Pordenone ebbe, però, già ad esprimersi negativamente, senza che ne seguisse alcuna contestazione in sede amministrativa o giurisdizionale da parte del -OMISSIS-
Né può trascurarsi di rilevare che il ricorrente, laddove, al pt. III.c, contesta nel merito il decreto gravato, svolge doglianze che nulla hanno a che vedere con i contenuti del provvedimento ora in esame, che -si evidenzia- non motiva assolutamente la dichiarata inammissibilità con ragioni afferenti ad esigenze di riservatezza di soggetti controinteressati, ma unicamente per la ritenuta natura confermativa dell’istanza ostensiva presentata. Egli avrebbe, pertanto, dovuto, eventualmente, gravare il primo diniego per tali vizi, ma, non avendolo fatto ed essendo decaduto per inutile decorso del termine dal relativo diritto, incorre ora ovviamente in inammissibilità.
Anche in considerazione di tale ultimo profilo, legittima s’appalesa, pertanto, la dichiarata inammissibilità in parte qua dell’istanza di accesso presentata dal-OMISSIS-in data 02.11.2015.
Quanto, invece, a quella parte del ricorso che concerne l’inammissibilità della richiesta ostensione del fascicolo d’inchiesta riguardante il ricorrente, formato dalla Questura di Pordenone – Divisione Polizia Anticrimine (pt. I dell’istanza d’accesso), il Collegio ritiene che lo stesso s’appalesa ancora inammissibile, laddove il ricorrente medesimo, al pt. IV, contesta nel merito il decreto gravato, atteso che anche in tal caso, non avendo egli impugnato il primo diniego, non può ovviamente svolgere in questo momento censure atte a farne emergere illegittimità, che avrebbe dovuto, eventualmente, sollevare tempestivamente e ritualmente avverso tale (primo) provvedimento.
A nulla vale, pertanto, il tentativo della difesa del ricorrente di far passare per inficiato il decreto del 27.11.2015 laddove –afferma- rinvia per relationem al I diniego, se i vizi, che dovrebbero asseritamente affliggerlo in via derivata, non sono mai stati tempestivamente denunciati mediante la proposizione di ricorso giurisdizionale o amministrativo.
Resta, quindi, ancora da valutare la legittimità o meno della dichiarata inammissibilità della richiesta d’accesso al fascicolo d’inchiesta unicamente con riferimento alle deduzioni svolte da parte ricorrente ai pt. III.a e III.b del proprio ricorso.
Orbene, a tale riguardo, pur non potendosi disconoscere, in via meramente teorica, la possibilità per l’interessato di ripresentare l’istanza ostensiva al sopravvenire di nuovi elementi oppure di riqualificare l’interesse originario rilevante, anche in ragione dell’esigenza di curare o difendere i propri interessi giuridici, devesi, invero, convenire con la difesa erariale circa la genericità e indeterminatezza delle esigenze difensive cui il ricorrente ha lasciato intendere di voler ancorare la reiterata istanza d’accesso al fascicolo in questione.
Invero, al di là del fatto che il procedimento penale cui è stato sottoposto il ricorrente è stato archiviato, sicché può pacificamente escludersi che vengano in rilievo esigenze difensive del medesimo in tale ambito, il Collegio rileva che, in effetti, il-OMISSIS-né nell’istanza ostensiva, né nella presente sede giurisdizionale ha fornito elementi sufficienti a consentire di comprendere che tipo di azione intenderebbe esperire a propria tutela e, conseguentemente, di apprezzare per lo meno l’astratta sussistenza di una correlazione tra la documentazione richiesta e le sue esigenze difensive.
Stante la mancanza di chiara esplicitazione sul punto, l’istanza non può, quindi, che ritenersi sostanzialmente reiterativa della precedente e correttamente ritenuta inammissibile dalla Questura.

ATTI AMMINISTRATIVIApicoltori, sindaci con mani legate. Sentenza Cds.
Sindaco con le mani legati in caso di disagio ai residenti Non bastano gli esposti dei vicini per inibire l'attività dell'apicoltore chi alleva api in un contesto abitativo. L'ordinanza del sindaco infatti è una misura estrema che deve essere utilizzata solo in casi di vero pericolo per l'incolumità pubblica.

Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 19.05.2016 n. 2090.
Il sindaco di un comune del Salento ha imposto a un allevatore di api la rimozione dell'impianto di produzione del miele a causa del disagio provocato ai residenti. Contro questa determinazione comunale l'interessato ha proposto con successo ricorso ai giudici di palazzo Spada che hanno accolto le indicazioni dell'agricoltore.
L'esercizio dell'apicoltura è disciplinato dall'art. 896-bis del codice civile. Questo non significa che il sindaco non abbia facoltà di intervento ai sensi dell'art. 54 del Tuel. Solo che l'ordinanza urgente di divieto deve essere proporzionata alla complessità delle situazioni da gestire (articolo ItaliaOggi del 14.06.2016).

INCARICHI PROFESSIONALI: Cumulo istanze con lo scaglione più favorevole al professionista.
Nel caso in cui ci fosse cumulo tra una domanda di valore determinato e un'altra di valore indeterminabile verrà applicato lo scaglione tariffario più favorevole all'avvocato.

È quanto stabilito dai giudici della II Sez. civile della Corte di Cassazione con la sentenza 16.05.2016 n. 9975.
In tema, poi, di onorari di avvocato e procuratore altro tema importante è quello relativo alla ricerca di documenti che va a costituire una prestazione di ordine intellettuale che non va assolutamente confusa con l'attività meramente materiale mediante la quale siano messi a disposizione dell'avvocato i documenti da questi indicati.
Anche di recente (Cass. 01/02/2013 n. 2481) gli Ermellini hanno ribadito che quella dell'avvocato in questo caso è una prestazione d'ordine intellettuale che non va confusa con l'attività meramente materiale con la quale i documenti sono messi a disposizione del professionista. Tale attività si inserisce tra l'attività di studio della controversia e quella relativa alla consultazione con il cliente ed è normalmente seguita dalla preparazione e redazione dell'atto introduttivo del giudizio.
Ciò posto, è consequenziale e logico il mancato riconoscimento da parte del giudice «a quo» degli onorari e dei diritti per le attività di studio non richieste e per la «ricerca di documenti», trattandosi appunto di atti finalizzati alla redazione dell'atto introduttivo, che, nella fattispecie, era stato scritto da altro legale.
È evidente pertanto che il riconoscimento di tale compenso è legato alla necessità di dover esaminare e valutare l'esistenza di eventuali documenti utili alla difesa del proprio assistito, nella fase che precede immediatamente la redazione dell'atto introduttivo.
In una sentenza alquanto articolata, i giudici di piazza Cavour hanno altresì ribadito che costituisce principio costantemente ribadito dalla Cassazione stessa quello secondo cui (cfr. ex multis Cass. 26/03/2012 n. 4787) nel giudizio di Cassazione, che ha per oggetto solo la revisione della sentenza in rapporto alla regolarità formale del processo e alle questioni di diritto proposte, «non sono proponibili nuove questioni di diritto o temi di contestazione diversi da quelli dedotti nel giudizio di merito, a meno che si tratti di questioni rilevabili di ufficio o, nell'ambito delle questioni trattate, di nuovi profili di diritto compresi nel dibattito e fondati sugli stessi elementi di fatto dedotti» (articolo ItaliaOggi Sette del 06.06.2016).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVIClass action, niente conflitti di interessi. Sentenza del tribunale amministrativo regionale per la Basilicata.
I giudici del TAR Basilicata (sentenza 14.05.2016 n. 470) hanno trattato il tema del ricorso collettivo, sottolineando che è ammissibile quando vi sia identità di posizioni sostanziali e processuali dei ricorrenti e non appaia individuabile alcun conflitto di interessi tra i medesimi, in rapporto a domande giudiziali fondate sulle stesse ragioni difensive, nonché ad atti che abbiano lo stesso contenuto sostanziale.
Nella sentenza in commento si è, inoltre, trattato dell'art. 24, n. 7, della legge n. 241/1990, secondo cui deve comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici, precisando che l'acquisizione documentale in questione è intesa all'eventuale esperimento di rimedio giurisdizionale avverso la mancata assunzione.
Anche perché un orientamento dettato dalla giurisprudenza amministrativa in proposito ha espresso che: «Il diritto di accesso non costituisce una pretesa meramente strumentale alla difesa in giudizio della situazione sottostante, essendo in realtà diretto al conseguimento di un autonomo bene della vita così che la domanda giudiziale tesa a ottenere l'accesso ai documenti è indipendente non solo dalla sorte del processo principale nel quale venga fatta valere l'anzidetta situazione (Cons. stato, sez. VI del 12.04.2005 n. 1680) ma anche dall'eventuale infondatezza o inammissibilità della domanda giudiziale che il richiedente, una volta conosciuti gli atti, potrebbe proporre (Cons. stato, sez. VI, 21.09.2006 n. 5569)» (cfr. Cds, sez. V, 23.02.2010, n. 1067).
Inoltre, i giudici lucani hanno rimarcato come l'interesse all'accesso ai documenti debba essere valutato in astratto, senza che possa essere operato alcun apprezzamento circa la fondatezza o ammissibilità della domanda giudiziale che gli interessati potrebbero eventualmente proporre sulla base dei documenti acquisiti mediante l'accesso medesimo e quindi la legittimazione all'accesso non può essere valutata alla stessa stregua di una legittimazione alla pretesa sostanziale sottostante (cfr. Tar. Veneto, sez. I, 26.02.2016, n. 220) (articolo ItaliaOggi Sette del 06.06.2016).
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MASSIMA
5. Appare sussistere la legittimazione dei richiedenti a conseguire la documentazione richiesta, vantando questi ultimi una posizione differenziata discendente dall’essere stati dipendenti dell’impresa che ha svolto il servizio in questione fino all’aggiudicazione della nuova procedura di affidamento, e dal preteso obbligo in capo all’aggiudicataria, derivante dagli atti di gara, di assumerli nel proprio organico. Risulta dunque integrato il presupposto inerente l’interesse diretto, concreto ed attuale in capo a parte ricorrente ad accedere ai documenti richiesti.
5.1. In tal senso, va rilevato che l’Amministrazione intimata, nelle proprie comunicazioni di diniego, nulla ha osservato in relazione all’insussistenza di tale obbligo. D’altro canto,
l’accesso alla documentazione prodotta in gara dall’impresa affidataria di un appalto non è preclusa ai soggetti che non abbiano preso parte alla procedura (cfr. C.d.S., sez. VI, 30.07.2010, n. 5602).
5.2. Quanto all’oggetto della richiesta, ovverosia l’offerta tecnica ed economica dell’impresa prima graduata, è incontroverso che la procedura comparativa in questione si sia conclusa, sicché non opera il differimento contemplato dall’art. 13, n. 2, del d.lgs. n. 163/2006. Inoltre, né dagli atti di causa, né dal diniego di parte resistente, emerge che gli atti richiesti integrino i casi per i quali il n. 5 dello stesso art. 13 esclude il diritto di accesso.
5.3. Gli istanti, inoltre, hanno espressamente invocato l’art. 24, n. 7, della legge n. 241/1990, secondo cui deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici, precisando che l’acquisizione documentale in questione è intesa all’eventuale esperimento di rimedio giurisdizionale avverso la mancata assunzione.
In proposito, si è osservato in giurisprudenza che: “
il diritto di accesso non costituisce una pretesa meramente strumentale alla difesa in giudizio della situazione sottostante, essendo in realtà diretto al conseguimento di un autonomo bene della vita così che la domanda giudiziale tesa ad ottenere l’accesso ai documenti è indipendente non solo dalla sorte del processo principale nel quale venga fatta valere l’anzidetta situazione (Cons. Stato, sez. VI del 12.04.2005 n. 1680) ma anche dall’eventuale infondatezza od inammissibilità della domanda giudiziale che il richiedente, una volta conosciuti gli atti, potrebbe proporre (Cons. Stato, sez. VI, 21.09.2006 n. 5569)” (cfr. C.d.S., sez. V, 23.02.2010, n. 1067).
A quanto sopra consegue che
l’interesse all’accesso ai documenti deve essere valutato in astratto, senza che possa essere operato, con riferimento al caso specifico, alcun apprezzamento in ordine alla fondatezza o ammissibilità della domanda giudiziale che gli interessati potrebbero eventualmente proporre sulla base dei documenti acquisiti mediante l’accesso medesimo e quindi la legittimazione all’accesso non può essere valutata alla stessa stregua di una legittimazione alla pretesa sostanziale sottostante (cfr. TAR Veneto, sez. I, 26.02.2016, n. 220).
5.4. Coglie nel segno, infine, la dedotta censura di carenza di istruttoria e di motivazione, posto che il Comune intimato, nelle note impugnate, si è meramente limitato a comunicare che il legale rappresentante della società controinteressata, in sede di procedimento attivato ai sensi dell’art. 3 del d.P.R. n. 184/2006: “ha disposto il diniego di accesso agli atti”, senza svolgere alcuna autonoma valutazione in relazione a quanto rappresentato da quest’ultimo.
Sul punto, peraltro, ritiene il Collegio che le ragioni ostative recate dalle impugnate note di diniego vadano disattese, in quanto
sussistono i presupposti di legge per l’accesso, le istanze sono sufficientemente motivate e i documenti richiesti risultano, nella specie, agevolmente identificabili.
6. Dalle considerazioni che precedono discende l’accoglimento del ricorso e, per l’effetto, l’annullamento delle impugnate note di diniego e la declaratoria dell’obbligo del Comune resistente di consentire a parte ricorrente di prendere visione ed estrarre copia, previo rimborso dei relativi costi, degli atti indicati nelle istanze di accesso di cui trattasi, nel termine di giorni trenta decorrente dalla comunicazione o, se a questa anteriore, dalla notificazione della presente decisione.
In sede di esercizio del diritto di accesso, l’Amministrazione intimata valuterà l’eventuale sussistenza di profili di segretezza tecnica e commerciale della documentazione richiesta, ove risultanti da motivata dichiarazione prodotta in sede di presentazione dell’offerta, avendo cura di evitarne l’ostensione tramite idonei accorgimenti tecnici, quali l’apposizione di c.d. “omissis”.

ATTI AMMINISTRATIVI - INCARICHI PROFESSIONALIChi soccombe pagherà al legale i diritti professionali post sentenza.
La parte soccombente deve all'avvocato tutti i diritti professionali che nasceranno dopo la sentenza.

È quanto emerge dalla sentenza 13.05.2016 n. 9933 pronunciata dai giudici della Sez. VI civile della Corte di Cassazione.
I giudici di piazza Cavour sono stati chiamati a esprimersi su un caso in cui un soggetto aveva proposto opposizione a precetto e questa veniva rigettata dal giudice del tribunale e la Corte d'appello parzialmente accoglieva tale istanza. Secondo i giudici della Corte d'appello era da dichiarare parzialmente inefficace l'atto di precetto nella parte in cui si trattava della quantificazione delle spese, diritti e onorari.
Gli Ermellini hanno posto l'accento sul fatto che il ricorrente trascurava di considerare che, per la fase di esecuzione, la tariffa invocata (che è quella applicabile ratione temporis di cui al dm n. 127 del 2004) prevedeva, al punto 74 della parte 2ª della tabella B, che «per ogni altra prestazione concernente il processo di esecuzione e i procedimenti concorsuali, non prevista nel presente paragrafo e per i giudizi a cui diano luogo i processi medesimi, sono dovuti gli onorari e i diritti stabiliti nel paragrafo concernente le corrispondenti prestazioni»: e ciò fonda, anche dal punto di vista testuale, l'astratta ammissibilità anche in sede esecutiva o pre-esecutiva delle voci previste con riferimento al processo ordinario di cognizione (così Cass. n. 13482/2011).
E inoltre il ricorrente non tiene conto del principio generale della tariffa, riferito espressamente agli onorari ma facilmente estensibile anche ai diritti, contenuto nell'art. 5, comma 6, del testo normativo premesso alla tariffa, a mente del quale «la liquidazione ... deve essere fatta in relazione a tutte le prestazioni effettivamente occorse ogni volta che vi sia stata una decisione anche se espressa con ordinanza collegiale o con sentenza non definitiva»; quindi dopo qualsivoglia decisione presa in sede cognitiva sono astrattamente remunerabili tutte le attività poste in essere dal difensore anche prima della predisposizione dei precetto (cfr. Cass. n. 1348/2111 cit.).
Pertanto, risultava ai giudici della Cassazione estremamente generico l'assunto del ricorrente basato sulla non inclusione della singola voce tra quelle previste per il processo esecutivo, laddove lo stesso avrebbe dovuto argomentare tenendo presenti (anche) le norme di legge e di tariffa richiamate (articolo ItaliaOggi Sette del 06.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
5.- Per ogni altro aspetto i motivi, così come prospettati nel ricorso, sono inammissibili poiché si limitano a riportare il contenuto dell'atto di precetto e quello delle tariffe forensi, senza contenere l'argomentata e specifica illustrazione delle ragioni del ricorrente.
Risulta violato il disposto dell'art. 360 n. 4 cod. proc. civ., che va interpretato nel senso che
il ricorso per cassazione deve contenere, a pena di inammissibilità, i motivi per i quali si richiede la cassazione, aventi i caratteri di specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata, il che comporta l'esposizione di ragioni che illustrino in modo intelligibile ed esauriente le dedotte violazioni di norme o principi di diritto, ovvero le carenze della motivazione (cfr. Cass. n. 13259/2006).
Siffatta illustrazione non si rinviene nel ricorso in esame, in cui l'assunto del ricorrente secondo cui le voci di diritti ed onorari contestate non sarebbero applicabili al processo esecutivo si ferma alla mera affermazione dello stesso ricorrente, non essendo questa specificamente supportata dal rinvio alla sola elencazione delle voci della tariffa relative al processo di esecuzione.
In particolare, il ricorrente trascura di considerare che, per la fase di esecuzione, la tariffa invocata (che è quella applicabile ratione temporis di cui al D.M. n. 127 del 2004) prevede, al punto 74 della parte 2^ della tabella B, che "
per ogni altra prestazione concernente il processo di esecuzione ed i procedimenti concorsuali, non prevista nel presente paragrafo e per i giudizi a cui diano luogo i processi medesimi, sono dovuti gli onorari e i diritti stabiliti nel paragrafo concernente le corrispondenti prestazioni": cosa che fonda, anche dal punto di vista testuale, l'astratta ammissibilità anche in sede esecutiva o pre-esecutiva delle voci previste con riferimento al processo ordinario di cognizione (così Cass. n. 13482/2011); ancora, il ricorrente non tiene conto del principio generale della tariffa, riferito espressamente agli onorari ma facilmente estensibile anche ai diritti, contenuto nell'art. 5, comma 6, del testo normativo premesso alla tariffa, a mente del quale "la liquidazione .. deve essere fatta in relazione a tutte le prestazioni effettivamente occorse ogni volta che vi sia stata una decisione anche se espressa con ordinanza collegiale o con sentenza non definitiva"; quindi dopo qualsivoglia decisione presa in sede cognitiva sono astrattamente remunerabili tutte le attività poste in essere dal difensore anche prima della predisposizione del precetto (cfr. Cass. n. 13482/2011 cit., in motivazione).
Pertanto, estremamente generico è l'assunto del ricorrente basato sulla non inclusione della singola voce tra quelle previste per il processo esecutivo, laddove lo stesso avrebbe dovuto argomentare tenendo presenti (anche) le norme di legge e di tariffa richiamate.

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Via all'istruttoria entro 60 giorni. APPALTI/ Revisione del prezzo nelle scuole.
Via all'istruttoria entro 60 giorni. Le scuole devono aprire entro il termine indicato dal giudice la procedura per la revisione del prezzo dell'appalto di pulizia per ogni anno di attività imprenditoriale che l'azienda ha passato al servizio dell'amministrazione. E ciò perché il meccanismo di adeguamento sulla base di indici Istat è previsto dalla legge e dal contratto e avvantaggia entrambe le parti: i dirigenti pubblici non possono rifiutarsi di procedere.

Così la sentenza 12.05.2016 n. 5667 del TAR Lazio-Roma, Sez. III-bis.
Accolto il ricorso dell'impresa contro una serie di istituti scolastici che nei fatti si sono sempre sottratti all'obbligo. Per gli appalti di durata l'articolo 115 del codice dei contratti pubblici prevede un meccanismo che a determinate scadenze e condizioni consente di definire un «nuovo» corrispettivo per le prestazioni oggetto del contratto; il tutto per tenere conto della dinamica dell'inflazione registrata in un dato arco temporale.
Il parametro è l'indice semestrale Istat sull'andamento dei prezzi dei principali beni e servizi acquisiti dalle pubbliche amministrazioni, ma si può fare riferimento al Foi, l'indice pubblicato ogni mese dall'istituto con la variazione dei prezzi per le famiglie di operai e impiegati.
I benefici dell'applicazione vanno a entrambi i contraenti perché per l'appaltatore l'alea dei contratti di durata si riduce, mentre la stazione appaltante si mette al riparo dal pericolo che la prestazione possa peggiorare per quantità o qualità laddove divenisse troppo onerosa o poco remunerativa per l'impresa (articolo ItaliaOggi del 18.06.2016).
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Si premette in punto di fatto quanto segue.
La ricorrente, nella qualità di mandataria capogruppo dell’A.T.I. con la società La Lu. s.r.l., ha stipulato con l’U.S.R. Abruzzo, in data 12.09.2007, un contratto normativo avente ad oggetto il servizio di pulizia presso gli istituti scolastici della regione, in quanto dichiarata, con il provvedimento di cui al prot. n. AOO-DRAB3156 dell’11.07.2007, aggiudicataria della procedura di gara indetta con il bando del 30.06.2006, pubblicato in G.U.R.I. dell’11.07.2006 e in G.U.C.E. del 05.07.2006, adottato in attuazione della direttiva M.I.U.R. del 28.7.2005.
Il predetto contratto normativo disponeva, all’articolo 12, comma 2, testualmente che “I prezzi di aggiudicazione resteranno invariati per il primo anno di validità del Contratto attuativo. Decorsi i primi 12 mesi dalla stipula del Contratto attuativo, ciascun Contraente potrà effettuare una revisione dei prezzi pattuiti ai sensi dell’art. 6 della legge 537/1993, come sostituito dall’art. 44 della legge n. 724/1994; tale revisione andrà a valere sul secondo anno (successivi 12 mesi) di validità del Contratto attuativo come specificato nel Capitolato tecnico.”; e, al successivo comma 3, che “L’Assuntore non potrà vantare diritto ad altri compensi, ovvero ad adeguamenti, revisioni o aumenti dei corrispettivi come sopra indicati, salvo quanto previsto dal precedente comma 2.”.
In attuazione del predetto contratto normativo sono stati, quindi, stipulati tra la ricorrente e i singoli istituti scolastici della regione, nelle date indicate nei singoli contratti prodotti in copia agli atti soltanto nella pagina iniziale e finale, i predetti contratti attuativi della durata di tre anni i quali, alla scadenza nel mese di aprile 2011, sono stati prorogati fino al mese di febbraio 2014.
La società ha, quindi, proceduto a emettere e trasmettere ai singoli istituti scolastici, in data 31.10.2013, le fatture, come da elenco in copia agli atti, aventi ad oggetto specificatamente la revisione dei prezzi relativamente al periodo aprile 2009-giugno 2013, sollecitandone il relativo pagamento.
Alla suddetta richiesta di pagamento delle fatture emesse da parte della società ricorrente, gli istituti scolastici hanno dato riscontro esplicito soltanto in parte, nei sensi indicati in ricorso.
In particolare, mentre la maggior parte degli istituti sono rimasti assolutamente silenti, invece gli altri vi hanno dato riscontro negativo adducendo motivazioni diversificate ne termini che seguono:
- alcuni istituti hanno dedotto che i singoli contratti attuativi non contenevano, in realtà, alcun riferimento alla revisione dei prezzi;
- altri istituti hanno, invece, dato atto dell’indisponibilità delle somme relative in quanto non rientranti nel budget assegnato dal Ministero, invitando contestualmente il M.I.U.R. a corrispondere le predette somme;
- infine, i rimanenti istituti hanno dato atto che le somme assegnate dal M.I.U.R. erano già comprensive sia di I.V.A. che di adeguamento I.S.T.A.T..
Da quanto esposto consegue che, sulla base del richiamato contratto normativo,
la revisione dei prezzi era espressamente prevista a decorrere dal secondo anno di durata del singolo contratto attuativo e che, tuttavia, i singoli istituti o non hanno proprio dato riscontro alla relativa richiesta della ricorrente oppure vi hanno dato riscontro negativo sulla base della valutazioni diversificate di cui in precedenza.
In punto di diritto rileva che:
- l’art. 115 del d.lgs. n. 163 del 2006 dispone che: a) “tutti” i contratti ad esecuzione periodica o continuativa relativi a servizi e forniture “debbono” contenere una clausola di revisione periodica del prezzo; b) la revisione “viene operata” sulla base di un’istruttoria fondata sui dati di cui all’art. 7, comma 4, lett. c), e comma 5, del medesimo d.lgs.;
- in particolare, è previsto che l’attività di revisione dei prezzi deve essere svolta dai dirigenti della stazione appaltante, responsabili della acquisizione dei beni e servizi, sulla base dei dati rilevati e pubblicati semestralmente dall'Istat sull'andamento dei prezzi dei principali beni e servizi acquisiti dalle pubbliche amministrazioni;
- sulla base di consolidata giurisprudenza del giudice amministrativo in materia, poi,
a fronte della mancata pubblicazione da parte dell'I.S.T.A.T., la revisione prezzi deve essere effettuata utilizzando l'indice (medio del paniere) di variazione dei prezzi per le famiglie di operai e impiegati (c.d. indice Foi) mensilmente pubblicato dal medesimo Istat (Cons. St., sez. V, 08.05.2002, n. 2461; Tar Lecce, sez. II, 09.02.2012, n. 262);
- il predetto articolo 115 del d.lgs. n. 163 del 2006, il quale è entrato in vigore in data 01.07.2006 (e che, peraltro, riproduce l’art. 6, comma 4, della l. 24.12.1993, n. 537, abrogato per effetto dell’art. 256, comma 1, del d.lgs. n. 163 del 2006), è applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame, sia in relazione alla data di stipula del contratto normativo di cui trattasi che all’anno a decorrere dal quale, sulla base del medesimo, era obbligatorio effettuare la revisione dei prezzi;
-
il legislatore ha imposto una sequenza che rende obbligatori non soltanto l’inserzione automatica nel contratto della clausola di revisione, ma anche il suo concreto svolgimento sul piano procedimentale, non avendo senso imporre per legge una norma integrativa del contratto, non dispositiva ma cogente, per poi consentire che la stessa resti disapplicata perché, alla prefissata scadenza, non viene attivata la procedura revisionale, vanificando così l’effettività dell’inserzione automatica della clausola e corollario obbligato di tale premessa è che la revisione deve essere sempre svolta, mediante attivazione del relativo procedimento, anche se questo si conclude con l’invarianza dei prezzi contrattuali se a questo risultato conduca l’istruttoria (cfr., nei termini, TAR Lazio-Roma, sez. III-quater, n. 2952/2014);
- segue da ciò che
la procedura revisionale non è discrezionale né nell’an né tanto meno nel quantum, costituendo quest’ultimo il risultato di una ricognizione di dati che, per la loro obiettività e per la fonte da cui pervengono, s’impongono sia alla stazione appaltante che all’appaltatore;
- l’articolo 115 prevede, dunque, espressamente che
la stazione appaltante è obbligata ad effettuare annualmente un’istruttoria basata, sulla base dello stesso articolo 115, direttamente e soltanto sui dati di cui all’articolo 7 dello stesso d.lgs.n. 163 del 2006.
In conclusione,
la previsione di un meccanismo di revisione del prezzo di un appalto di durata su base periodica è la riprova che la legge ha inteso munire i contratti di forniture e servizi di un meccanismo che a cadenze determinate comporti -all’occorrenza e sussistendo i richiesti presupposti- la definizione di un "nuovo" corrispettivo per le prestazioni oggetto del contratto conseguente alla dinamica dei prezzi registrata in un dato arco temporale, con beneficio per entrambi i contraenti, poiché l’appaltatore vede ridotta, anche se non eliminata, l’alea propria dei contratti di durata e la stazione appaltante vede diminuito il pericolo di un peggioramento della qualità o quantità di una prestazione divenuta per l’appaltatore eccessivamente onerosa o, comunque, non remunerativa (cfr., nei termini, ancora, TAR Lazio-Roma, sez. III-quater, n. 2952/2014; nonché, in materia, Cons. St., sez. III, 19.07.2011, n. 4362; Tar Lecce, sez. III, 13.09.2013, n. 1926).
Da quanto diffusamente in precedenza esposto, e proprio nella considerazione che l’attivazione del procedimento di verifica e lo svolgimento della necessaria istruttoria costituiscono un preciso e inderogabile dovere per la stazione appaltante, consegue che il ricorso è fondato nella parte in cui la ricorrente chiede, nella sostanza e innanzi tutto, che il giudice adito accerti e dichiari il suo diritto -normativamente e contrattualmente riconosciuto- all’attivazione concreta della procedura di revisione per ciascuno degli anni di attività imprenditoriale svolta al servizio della stazione appaltante, obbligo alla quale questa, invece, sempre nella sostanza, si è, in realtà, sottratta.
E, infatti,
in applicazione della norma primaria (art. 115, d.lgs. n. 163 del 2006, che peraltro riproduce l’art. 6, comma 4, l. 24.12.1993, n. 537) e del contratto normativo (art. 12) la stazione appaltante era obbligata a verificare puntualmente la necessità di procedere alla revisione prezzi e, in caso affermativo, alla sua liquidazione e, ancora di più, una volta che il relativo procedimento sia stato eventualmente avviato su istanza di parte, lo stesso deve necessariamente essere concluso da parte dell’amministrazione competente mediante l'adozione di un provvedimento espresso, di contenuto positivo o negativo, ampiamente motivato e, soprattutto, fondato su dati accertati, documentati e, quindi, non obiettivamente contestabili.
Nella fattispecie, invece, come in precedenza rilevato, i singoli istituti o non hanno proprio dato alcun esplicito riscontro alla relativa richiesta della ricorrente dell’ottobre 2013 o vi hanno, invece, dato riscontro negativo ma con motivazioni che non attengono specificamente al merito della richiesta formulato.
E, peraltro, i suddetti ultimi atti di riscontro negativo non sono stati, comunque, fatti oggetto di specifica impugnazione da parte della società ricorrente, la quale si è limitata a richiamarli in ricorso nella parte relativa all’esposizione in punto di fatto (cfr., C.d.S., n. 5779/201; TAR Piemonte-Torino, n. 1432/2015).
Il ricorso è, invece, da disattendere nella parte in cui, nella sostanza, la ricorrente chiede al Collegio giudicante di intimare alle amministrazioni resistenti di pagarle le differenze di prezzo che essa stessa ha autonomamente quantificato con riferimento ad ogni anno di servizio, sulla base di documenti asseritamente ufficiali, e come esattamente quantificate nelle fatture richiamate e allegate in copia al ricorso.
E, tuttavia, al riguardo, deve rilevarsi che, sulla base della richiamata normativa, emerge che
sia la fase istruttoria che la successiva fase determinativa della procedura revisionale rientrano, per legge e per contratto, nell’esclusiva competenza della stazione appaltante, autorità alla quale si deve l’adozione del provvedimento finale che riconosca o nega l’aumento dei prezzi.
Né potrebbe fondatamente ritenersi che, nella persistente inerzia della stazione appaltante, spetterebbe alla stessa ricorrente definire il se e il quanto dovutole al titolo che interessa, proprio sulla base di quanto in precedenza rilevato al riguardo.

Il ricorso deve, pertanto, essere accolto nei sensi di cui sopra con il conseguente obbligo per i singoli istituti scolastici di procedere all’attivazione del procedimento di revisione dei prezzi di cui all’art. 115 del d.lgs. n. 163 del 2006, entro sessanta giorni dalla notificazione o, se anteriore, dalla comunicazione in via amministrativa della presente sentenza.

INCARICHI PROFESSIONALI: Funzioni pubblicistiche extra. Per il compenso non si applicano le tariffe forensi. AVVOCATI/ La Cassazione rigetta l'opposizione proposta da un'azienda sanitaria.
Qualora un avvocato esplichi funzioni pubblicistiche, quale quella di componente della commissione giudicatrice di appalti, avrà diritto a un compenso per il quale non saranno applicabili le tariffe professionali forensi.

Lo hanno sottolineato i giudici della II Sez. civile della Corte di Cassazione con la sentenza 11.05.2016 n. 9659.
Con sentenza il tribunale rigettava l'opposizione proposta dalla Azienda unità sanitaria locale contro il decreto emesso dal tribunale medesimo su ricorso dell'avvocato Tizio, il quale, nominato dall'Azienda predetta componente della commissione giudicatrice di un appalto, aveva chiesto la liquidazione del compenso prestato in seno a detta commissione in base alle tariffe forensi e su parcella vistata dall'Ordine.
La Corte d'appello, con sentenza rigettava la domanda svolta con il ricorso monitorio dall'avvocato Tizio, condannando quest'ultimo a rifondere alla Ausl le spese del doppio grado di giudizio.
L'avvocato ha, quindi, proposto ricorso in Cassazione, asserendo che il rapporto si era instaurato secondo le regole normative per la formazione delle commissioni giudicatrici degli appalti concorso e tuttavia ne era rimasta esclusa l'applicabilità delle norme di riferimento per la determinazione dei compensi, non essendo il professionista tenuto ad assoggettarsi a tale determinazione, non avendola espressamente accettata, sicché il compenso avrebbe dovuto essere determinato secondo la tariffa forense.
Secondo i giudici di piazza Cavour le tariffe professionali degli avvocati sono applicabili «solo per quelle attività tecniche, o comunque collegate con prestazioni di carattere tecnico, che siano considerate nella tariffa, oggettivamente proprie della professione legale in quanto specificamente riferite alla consulenza o assistenza delle parti in affari giudiziari o extragiudiziari, e non possono essere, pertanto, applicate, solo perché rese da un professionista iscritto all'albo, alle prestazioni svolte nell'ambito di una commissione mista, i cui atti siano imputabili esclusivamente all'organo collegiale (Cass., sez. I, 13.12.2013, n. 27919; Cass., sez. I, 10.02.2014, n. 2966)».
Pertanto il compenso all'avvocato per la sua attività di componente della commissione giudicatrice dell'appalto concorso deve essere liquidato, non già applicando le tariffe professionali forensi, bensì secondo la misura stabilita dall'assessore regionale per i lavori pubblici, al quale spetta provvedere alla relativa determinazione (articolo ItaliaOggi Sette del 06.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

VARIDurata del fermo, il Tar è muto. Competenza in caso di contenzioso al giudice ordinario. Revoca patente, sentenza del tribunale amministrativo regionale dell'Emilia Romagna.
Il periodo di fermo obbligato per il conducente incappato nel reato di guida alterata lo dispone il giudice mentre il prefetto lo formalizza al trasgressore senza discrezionalità. Per questo motivo la competenza in caso di contenzioso sul periodo di inibizione alla guida spetta al giudice ordinario.
Lo ha stabilito il Tar Emilia-Romagna, Sez. I, con la sentenza 06.05.2016 n. 500.
La legge 120/2010 ha inasprito le conseguenze della guida alterata dall'alcol e dalla droga prevedendo la revoca per tre anni per i conducenti più negligenti. È il caso per esempio degli autotrasportatori professionali trovati gravemente alterati dall'alcol o sotto l'influenza di sostanze stupefacenti. Oppure più semplicemente di chiunque provochi un incidente con una quantità elevata di alcol nel sangue o sotto l'effetto di droghe.
L'indicazione letterale dell'art. 219/3-ter cds però ha aperto dubbi sulla data di concreta applicazione della misura inibitoria. Specifica infatti questo articolato che quando la revoca della patente è disposta a seguito delle violazioni di cui agli articoli 186, 186-bis e 187, non è possibile conseguire una nuova patente di guida prima di tre anni a decorrere dalla data di accertamento del reato. Ovvero con riguardo al passaggio in giudicato della sentenza penale. Recenti pronunce giurisprudenziali però sostengono il contrario. Cioè che il triennio di guida vietata decorre dalla data di accertamento dell'infrazione. E in ogni caso tra sospensione cautelare e revoca non si può andare oltre al triennio di fermo complessivo.
Nel caso esaminato dal collegio un automobilista dopo oltre quattro anni dal sinistro si è visto rigettare la richiesta di ammissione all'esame di scuola guida. Contro questa decisione, supportata dall'atto di revoca triennale della prefettura, disposto a decorrere dalla data del passaggio in giudicato della sentenza, l'interessato ha proposto censure ma il collegio ha dichiarato la propria incompetenza. Siccome la controversia si incentra sulla durata dell'inibizione alla guida disposta dal prefetto senza discrezionalità a seguito della sentenza di condanna, spetterà al giudice ordinario decidere (articolo ItaliaOggi Sette del 06.06.2016).

INCARICHI PROGETTUALI: Progettista escluso dalla gara per i lavori della propria opera.
Se un professionista che ha redatto un progetto su incarico di una stazione appaltante figura nell'organigramma di un concorrente o fa parte di una sua controllata che partecipa alla gara per i lavori dell'opera progettata, il concorrente va escluso; il principio vale anche se il professionista, che ha predisposto la progettazione posta a base di gara, fa parte di una impresa ausiliaria che ha prestato i requisiti per la progettazione.

È quanto ha stabilito il Consiglio di Stato (Sez. V, sentenza 05.05.2016 n. 1817) con riferimento a una fattispecie in cui si trattava di applicare il divieto (per l'affidatario della progettazione posta a base di gara) di partecipare all'appalto per i lavori dell'opera progettata di cui al comma 8 dell'articolo 90 del vecchio codice 163/2006, norma peraltro riprodotta integralmente all'articolo 24 del decreto 50/2016 (il nuovo codice dei contratti pubblici).
Per i giudici è indiscutibile che la commistione di ruoli che la norma mira a prevenire è comunque ravvisabile laddove colui che ha svolto incarichi di progettazione per conto della stazione appaltante sia comunque presente, non importa a che titolo, nell'organigramma aziendale dell'impresa concorrente, o in sue società controllanti, partecipanti o di cui si avvale nell'esecuzione dei lavori.
E in questo caso il progettista era responsabile tecnico di una società partecipante al 48% del capitale del consorzio concorrente, nonché ausiliaria per i requisiti di capacità tecnica, economica e professionale concernenti la progettazione. Constatata la violazione del divieto la sentenza dimostra anche che da questa partecipazione sono derivati vantaggi competitivi per il concorrente.
Per i giudici un elemento tale da rendere concreta la lesione della par condicio (e quindi da configurare una alterazione della concorrenza derivante dalla posizione di vantaggio del progettista) è rappresentato dal fatto che l'offerta del concorrente (che si è avvalso del progettista) aveva conseguito il punteggio più alto per l'offerta temporale per la realizzazione dei lavori di adeguamento impiantistico e dunque aveva realizzato un vantaggio «nel segmento nel quale lo svolgimento della pregressa attività di progettazione si rivela maggiormente in grado di orientare la formulazione dell'offerta» (articolo ItaliaOggi del 10.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: La strada di campagna non esclude l'uso pubblico.
Il privato che ottiene il via libera all'allargamento del sentiero comunale per la realizzazione di uno scivolo carrabile non può contestualmente limitarne il passaggio agli altri utenti. Al massimo potrà richiedere una licenza di passo carrabile per agevolare il passaggio dei veicoli.

Lo ha chiarito il TAR Lombardia-Milano, Sez. II, con la sentenza 04.05.2016 n. 868.
Un privato ha ottenuto dal comune la regolare licenza edilizia necessaria per la realizzazione di uno scivolo, in allargamento di un sentiero comunale, per agevolare l'uso del proprio garage con i mezzi a motore.
Contestualmente alla realizzazione del manufatto però il cittadino ha anche installato dei paletti a delimitazione della proprietà oggetto di un provvedimento urgente di rimozione da parte del sindaco. Contro questa determinazione l'interessato ha proposto ricorso ma senza successo.
L'assenso comunale è limitato alla realizzazione dello scivolo. Non anche alla limitazione dell'uso pubblico del sentiero, di proprietà comunale, da sempre destinato a uso pubblico. Per evitare l'ostruzione del varco sarà sufficiente richiedere un regolare passo carrabile, conclude il Tar (articolo ItaliaOggi del 07.06.2016).

EDILIZIA PRIVATARistrutturazioni thrilling. Inibitoria anche con Dia-Scia consolidata. Il Tar Lombardia accoglie il ricorso di un proprietario di immobile.
Anche se la Dia-Scia per i lavori si è consolidata, il vicino di casa può sempre ottenere l'inibitoria sul progetto di ristrutturazione della costruzione contigua alla sua se ha agito entro 60 giorni dal momento in cui si è reso conto che il titolo edilizio del confinante risulta viziato, dopo essersi procurato le relativa pratiche.

È quanto emerge dalla sentenza 15.04.2016 n. 735, pubblicata dalla II Sez. del TAR Lombardia.
Lesione e consapevolezza. Accolto il ricorso del proprietario dell'immobile preoccupato per le intenzioni del vicino, che punta ad abbattere e ricostruire un fabbricato. Secondo il confinante il progetto contiene violazioni alle norme sulle distanze minime tra fabbricati oltre che delle stesse disposizioni urbanistiche.
Per il Comune, invece, niente da segnalare: «decorsi i termini a seguito della presentazione della documentazione integrativa», spiega l'ufficio tecnico, la Dia-Scia ha ormai consolidato i suoi effetti. E invece no, perché è l'articolo 19, comma 6-ter, legge 241/1990 a imporre all'amministrazione anzitutto di riscontrare l'istanza che proviene dal terzo titolare di un situazione giuridica differenziata, come è il vicino di casa che vuole bloccare il lavori.
Ma soprattutto il Comune deve anche bloccare l'opera se risulta che il confinante ha comunque agito entro sessanta giorni da quando ha avuto notizia dei profili lesivi dell'intervento: altrimenti il terzo subirebbe una diminuzione della tutela accordatagli rispetto a chi sia leso da un permesso di costruire.
Canale unico. È vero, il riferimento ai 60 giorni di tempo non risulta dal comma 3-bis dell'articolo 19 della legge sulla trasparenza: si tratta di un'interpretazione sistematica perché la diffida prevista dalla norma costituisce l'unico «canale» percorribile dall'interessato al fine di ottenere la tutela dal giudice in un secondo momento.
Obbligo di motivazione. E se invece sono passati più di due mesi? Il terzo può sempre chiedere all'ente locale di agire in autotutela. Anche in questo caso l'amministrazione è tenuta a pronunciarsi sull'istanza del confinante spiegando i motivi per i quali non intende esercitare il potere di «rimangiarsi» il nulla osta all'opera «incriminata».
Spese di giudizio compensate per la novità della questione (articolo ItaliaOggi Sette del 13.06.2016).
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MASSIMA
8. Al fine di inquadrare correttamente la questione, si rende necessario chiarire la portata delle previsioni normative rilevanti nel presente giudizio.
In tale prospettiva, occorre prendere le mosse proprio dalla sentenza di questa Sezione n. 2799 del 2014, che ha raggiunto conclusioni che il Collegio condivide e ritiene di dover ribadire, e che tuttavia non conducono all’esito sostenuto dal controinteressato, come si dirà.
8.1 Deve anzitutto ricordarsi che
la denuncia d’inizio attività, secondo quanto autorevolmente chiarito, ormai da tempo, dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, “non è un provvedimento amministrativo a formazione tacita e non dà luogo in ogni caso ad un titolo costitutivo, ma costituisce un atto privato volto a comunicare l’intenzione di intraprendere un’attività direttamente ammessa dalla legge” (Ad. Plen. n. 15 del 2011). Affermazione, questa, che ha poi trovato piena conferma da parte del legislatore, posto che l’attuale articolo 19, comma 6-ter, primo periodo della legge n. 241 del 1990 –introdotto dall'articolo 6, comma 1, lett. c) del decreto legge 13.08.2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14.09.2011, n. 148– stabilisce espressamente che “La segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili”.
L’atto non muta tale sua natura neppure dopo il decorso del termine normativamente previsto per l’esercizio delle verifiche da parte del Comune.
Conseguentemente, non può sostenersi che, una volta che il terzo sia venuto a conoscenza del titolo, ormai consolidatosi per mancato esercizio dei poteri inibitori, lo stesso terzo disponga di sessanta giorni di tempo per proporre impugnazione giurisdizionale. E’ vero infatti che la sussistenza, in tale ipotesi, di un atto impugnabile era stata autorevolmente sostenuta, sulla base del quadro normativo allora vigente, dall’Adunanza Plenaria n. 15 del 2011, che aveva ravvisato un provvedimento suscettibile di tutela giurisdizionale demolitoria nel diniego tacito di esercizio del potere inibitorio. Tuttavia, le conclusioni cui era pervenuta l’Adunanza Plenaria sono oggi superate alla luce delle successive novità legislative e, in particolare, di quanto ora disposto dal richiamato articolo 19, comma 6-ter, della legge n. 241 del 1990.
In base a quest’ultima disposizione, “
(...) Gli interessati possono sollecitare l'esercizio delle verifiche spettanti all'amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l'azione di cui all'art. 31, commi 1, 2 e 3 del decreto legislativo 02.07.2010, n. 104”. Previsione, questa, che come evidenziato dalla giurisprudenza, anche della Sezione, “vieta sostanzialmente l’impugnazione diretta della DIA o della SCIA –non costituenti provvedimenti amministrativi, neppure impliciti– ma consente la sola tutela giurisdizionale secondo il citato meccanismo di cui all’art. 31” (TAR Lombardia, Sez. II, 14.01.2014, n. 126).
9. In tale quadro si colloca il tema della tutela del soggetto che alleghi di essere stato leso dalla denuncia di inizio di attività presentata da altri.
9.1 Con la richiamata sentenza n. 2799 del 2014, la Sezione ha, anzitutto, rilevato che
i poteri inibitori spettanti all’amministrazione nei confronti degli interventi oggetto di una denuncia di inizio di attività vanno esercitati entro il termine normativamente prescritto, decorso il quale il “consolidarsi” della d.i.a. determina –di regola– l’impossibilità per il Comune di intervenire, se non nell’esercizio dei poteri di autotutela (Cons. Stato, Sez. VI, 22.09.2014 n. 4780).
Si tratta di conclusioni che trovano ormai pieno riscontro nell’attuale previsione del comma 4 dell’articolo 19 della legge n. 241 del 1990, come sostituito dall'articolo 6, comma 1, lett. a) della legge 07.08.2015, n. 124, in base al quale,
una volta decorso il termine per l’esercizio del controllo sulla denuncia o segnalazione certificata di inizio attività, “l'amministrazione competente adotta comunque i provvedimenti previsti dal medesimo comma 3 in presenza delle condizioni previste dall'articolo 21-nonies”.
Disposizione, questa, che è bensì inapplicabile ratione temporis nel presente giudizio, ma che ha sostanzialmente codificato gli esiti del dibattito giurisprudenziale sul punto. E ciò anche avuto riguardo alla natura dei poteri esercitati dall’amministrazione in quest’ultima ipotesi, che sono pur sempre di tipo inibitorio, ma subordinatamente al riscontro dei presupposti per l’intervento in autotutela (in coerenza con quanto già da tempo autorevolmente chiarito da Cons. Stato, Sez. VI, 09.02.2009, n. 717).
9.2 Ciò posto, la sentenza della Sezione n. 2799 del 2014 ha affermato che
l’intervento inibitorio è, tuttavia, da ritenere doveroso, e non soggetto al ricorrere dei presupposti propri del potere di autotutela, laddove la carenza dei presupposti della d.i.a. sia denunciata dal terzo, titolare di una posizione giuridica qualificata e differenziata, ai sensi del richiamato comma 6-ter del medesimo articolo 19.
E ciò –come già affermato nella sentenza richiamata– perché è anzitutto il chiaro tenore testuale della previsione normativa richiamata a non fare alcun riferimento al decorso del termine per il “consolidarsi” della denuncia di inizio di attività.
D’altra parte –come pure si è affermato nella sentenza n. 2799 del 2014– “
laddove dovesse ritenersi che il terzo, venuto a conoscenza della d.i.a. dopo il decorso del termine per il compimento delle verifiche, non possa chiedere l’esercizio dei poteri inibitori, ne deriverebbe un vulnus nei confronti della tutela offerta dall’ordinamento nei confronti di tale soggetto.” Questi, infatti, da un lato non disporrebbe di alcun provvedimento impugnabile (ostandovi il chiaro tenore del richiamato comma 6-ter dell’articolo 19) e, dall’altro, potrebbe solo invocare l’intervento in autotutela, che è però esercitabile solo in presenza di precisi presupposti, ulteriori rispetto al mero riscontro dell’illegittimità.
9.3 La posizione espressa con la sentenza di questa Sezione n. 2799 del 2014 è stata condivisa e ribadita da numerose successive pronunce di primo grado (TAR Campania, Napoli, Sez. III, 05.03.2015, n. 1410; TAR Piemonte, Sez. II, 01.07.2015, n. 1114; TAR Veneto, Sez. II, 12.10.2015, n. 1038 e n. 1039).
In particolare, la giurisprudenza ha evidenziato che “
Una tale interpretazione appare peraltro obbligata secondo una lettura costituzionalmente orientata delle norme alla luce dei principi di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale sanciti dagli artt. 24, 111 e 113 della Costituzione, non risultando altrimenti giustificabile, rispetto all’intento di garantire una tendenziale stabilità ai titoli abilitativi, l’eccessivo sacrificio che verrebbe imposto al diritto di azione del terzo leso dall’attività intrapresa.
Infatti il legislatore ha escluso che la denuncia e la dichiarazione di inizio attività costituiscano provvedimenti taciti direttamente impugnabili, ammettendo solo che i terzi interessati possano sollecitare l'esercizio delle verifiche spettanti all'Amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l'azione contro il silenzio.
Poiché il terzo leso ha quest’unico rimedio a tutela della propria sfera giuridica, quando l’intervento di verifica risulti dallo stesso sollecitato e ad esso possa riconoscersi la titolarità di un interesse differenziato e qualificato, il divieto di prosecuzione dell’attività o l’inibitoria deve potersi svolgere in modo pieno e senza i limiti propri dell’autotutela avviata d’ufficio
.” (così TAR Veneto, n. 1038 del 2015, cit.).
10.
Posto quindi che, secondo la lettura qui accolta, l’articolo 19, comma 6-ter, impone all’amministrazione di esercitare pieni poteri inibitori della denuncia di inizio di attività, anche dopo il “consolidarsi” del titolo edilizio, qualora sia a ciò sollecitata da un terzo titolare di una situazione giuridica qualificata e differenziata, occorre chiedersi se tale soggetto possa sollecitare in qualunque momento l’intervento dell’amministrazione stessa, ovvero abbia l’onere di farlo entro un lasso di tempo stabilito.
10.1 Anche questa questione è stata affrontata, sia pure sinteticamente, nella richiamata sentenza n. 2799 del 2014, come correttamente rilevato, nel presente giudizio, dalla difesa del controinteressato.
In quella pronuncia, infatti, è stato esplicitamente evidenziato che il terzo che si assumeva leso dalla denuncia di inizio di attività presentata dal confinante si era rivolto all’amministrazione entro sessanta giorni dal momento in cui, accedendo agli atti della pratica edilizia, aveva preso piena conoscenza del contenuto della d.i.a. e delle esatte caratteristiche dell’intervento progettato.
La pronuncia ha, quindi, implicitamente ritenuto rilevante la circostanza che l’istanza volta a provocare l’esercizio del potere inibitorio fosse intervenuta entro il suddetto termine.
10.2 Il rilievo attribuito dalla suddetta pronuncia al momento della presentazione dell’istanza rivolta all’amministrazione non è stato condiviso da un altro orientamento giurisprudenziale recentemente emerso.
In base a tale diversa ricostruzione, il terzo leso dalla d.i.a. (o s.c.i.a.) potrebbe infatti rivolgersi in ogni tempo all’amministrazione, e ottenere comunque il pieno esercizio dei poteri inibitori, senza necessità del riscontro dei presupposti propri dell’autotutela (in questo senso: TAR Piemonte, Sez. II, n. 1114 del 2015, cit.).
Tesi, questa, che viene argomentata sia sulla base del tenore testuale del comma 3-bis dell’articolo 19 della legge n. 241 del 1990 –il quale non indica testualmente alcun limite temporale per la diffida diretta all’amministrazione– sia in considerazione della circostanza che la possibilità di un intervento “a tutto campo” e in ogni tempo sulla d.i.a., in presenza di una sollecitazione proveniente da un terzo che si assuma pregiudicato dall’intervento, dovrebbe ritenersi giustificata dalla natura stessa dell’istituto, che non dà luogo alla formazione di un provvedimento amministrativo e si basa sulla responsabilità del privato.
Il Collegio ritiene, tuttavia, che tali considerazioni possano essere condivise soltanto in parte, come meglio si illustrerà nel prosieguo.
10.3
Deve, anzitutto, confermarsi e ribadirsi in questa sede l’orientamento già espresso –anche in relazione al profilo inerente ai termini per la sollecitazione dei poteri inibitori– dalla sentenza della Sezione n. 2799 del 2014. E’ infatti da ritenere che le conclusioni raggiunte, sul punto, dalla pronuncia richiamata siano necessitate, alla stregua dell’interpretazione sistematica e –ancora una volta– costituzionalmente orientata del dato normativo, costituito dall’articolo 19, comma 3-ter, della legge n. 241 del 1990.
Per ciò che attiene al profilo sistematico,
l’interpretazione della disposizione deve necessariamente tenere conto della circostanza che l’intera disciplina della denuncia di inizio di attività, fino ai più recenti interventi normativi (in parte successivi alla formazione dei titoli oggetto del presente giudizio, ma comunque rilevanti ai fini interpretativi e ricostruttivi del sistema), risulta chiaramente ispirata dalla finalità di coniugare l’esigenza di incentrare il fondamento normativo della d.i.a sull’autoresponsabilità del privato con quella di assicurare comunque una sostanziale stabilità del titolo edilizio –analoga a quella propria del permesso di costruire– dopo il decorso del tempo stabilito per il suo “consolidarsi”.
In tale quadro normativo,
è certamente necessario –come sopra detto– assicurare al terzo la possibilità di ottenere piena tutela, mediante l’esercizio dei poteri inibitori dell’amministrazione, anche dopo che sia trascorso tale termine di tendenziale “stabilizzazione” del titolo edilizio.
Tuttavia,
tale possibilità non può tradursi nell’eliminazione di qualunque garanzia attinente al “consolidarsi” della d.i.a., né eccedere quanto necessario e sufficiente ad assicurare al terzo leso dalla denuncia di inizio attività una tutela equivalente a quella riconosciuta al soggetto leso da un permesso di costruire.
Per questa ragione,
deve ritenersi che il soggetto titolare di una situazione giuridica qualificata e differenziata che lamenti un pregiudizio derivante da una denuncia o segnalazione certificata di inizio attività possa ottenere il pieno e doveroso esercizio dei poteri inibitori, senza i limiti propri dell’autotutela, soltanto laddove abbia sollecitato l’intervento dell’amministrazione entro sessanta giorni dal momento in cui ha avuto conoscenza della lesione.
Il predetto termine di sessanta giorni, pur non espressamente previsto dal comma 3-bis dell’articolo 19 della legge n. 241 del 1990, deve infatti ricavarsi in via sistematica, tenendo conto che la diffida prevista dalla disposizione ora richiamata costituisce l’unico “canale” percorribile dall’interessato al fine di adire eventualmente, in un secondo momento, la tutela giurisdizionale. In tale prospettiva, l’esigenza di assicurare sia la pienezza della tutela (ai sensi dell’articolo 24 della Costituzione), che la parità di trattamento rispetto al soggetto leso da un permesso di costruire (in relazione all’articolo 3 della Costituzione) impone di fare applicazione del termine ordinariamente previsto per l’impugnazione dei provvedimenti amministrativi, fissato dall’articolo 29 del codice del processo amministrativo.
E’ ben vero che il termine di cui all’articolo 29 ora richiamato ha natura processuale e non procedimentale; tuttavia, come detto,
la fase procedimentale necessaria stabilita dal comma 3-bis dell’articolo 19 della legge n. 241 del 1990 costituisce un passaggio obbligato per l’accesso alla tutela giurisdizionale, per cui è dalla disciplina propria di quest’ultima che può e deve trarsi il dato necessario all’integrazione in via interpretativa della lacuna normativa.
Tale opzione ermeneutica risulta essere stata accolta, del resto, anche dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, la quale non ha mancato di rimarcare, in una recente pronuncia, che “
il potere di sollecitazione del terzo non è da intendersi come esercitabile ad libitum, bensì rimane assoggettato al rispetto del termine di decadenza decorrente dalla conoscenza della D.I.A.” (così Cons. Stato, Sez. IV, 12.11.2015, n. 5161).
11. Occorre a questo punto domandarsi quid iuris nel caso in cui il terzo abbia richiesto l’intervento dell’amministrazione dopo il decorso di sessanta giorni dal momento in cui ha avuto piena conoscenza del contenuto lesivo della denuncia di inizio di attività.
La difesa del controinteressato ritiene che, in questo caso, l’impugnazione del provvedimento con cui l’amministrazione ha negato l’esercizio dei poteri relativi alla d.i.a. sia radicalmente inammissibile.
11.1 Il Collegio non ignora che tale soluzione risulta essere stata accolta dalla sentenza del Consiglio di Stato da ultimo richiamata (Cons. Stato n. 5161 del 2015, cit.), ma ritiene –su questo specifico aspetto– di dover addivenire a conclusioni in parte diverse rispetto al giudice d’appello.
Deve, infatti, tenersi presente il dato imprescindibile (ben evidenziato, come detto, da TAR Piemonte n. 1114 del 2015, cit., che però perviene a conclusioni non coincidenti con quelle qui sostenute) che
il comma 6-ter dell’articolo 19 della legge n. 241 del 1990 non prevede alcun termine per la sollecitazione dei poteri dell’amministrazione e per l’insorgere del correlativo obbligo, per quest’ultima, di pronunciarsi sull’istanza.
Per le ragioni già diffusamente illustrate,
laddove l’istanza sia presentata da un terzo titolare di una situazione giuridica qualificata e differenziata, entro il termine di sessanta giorni dalla conoscenza della d.i.a. o s.c.i.a., l’amministrazione non potrà esimersi dall’esercitare pienamente i propri poteri inibitori.
Ciò, però, non toglie che il terzo ben possa sollecitare l’intervento dell’amministrazione anche oltre tale termine, al fine di invocare non già il pieno esercizio dei poteri inibitori, bensì il riscontro della sussistenza dei –diversi– presupposti normativamente previsti per l’intervento in autotutela.
11.2 Al riguardo,
deve precisarsi che –anche laddove la sollecitazione debba intendersi diretta a provocare l’esercizio dei poteri di autotutela– l’amministrazione è comunque tenuta ad esprimersi sull’istanza, eventualmente illustrando le ragioni per le quali ritenga non sussistenti i presupposti per la rimozione del titolo edilizio.
E’ vero, infatti, che –secondo i principi– l’esercizio dell’autotutela è, di regola, tipicamente discrezionale nell’an, per cui l’amministrazione non è tenuta, di norma, neppure a riscontrare l’istanza di autotutela presentata da un privato (v. ex multis Cons. Stato, V, 03.05.2012 n. 2549). Tuttavia, nel caso della denuncia o segnalazione certificata di inizio attività, la sussistenza di un dovere dell’amministrazione di verificare l’esistenza dei presupposti per l’esercizio del potere è imposta dal chiaro tenore testuale del richiamato comma 3-bis dell’articolo 19, il quale attribuisce espressamente al terzo che si assuma leso dal titolo edilizio un incondizionato accesso anche alla tutela giurisdizionale avverso il silenzio.
D’altro canto, la soluzione prescelta dal legislatore è coerente con il fondamentale rilievo che, nel caso di intervento di controllo relativo alla d.i.a. o s.c.i.a., non si fa questione di esercizio di poteri di autotutela in senso proprio, poiché manca un provvedimento amministrativo rispetto al quale possa esercitarsi un potere di secondo grado. Piuttosto –come sopra detto– l’amministrazione, in questo caso, esercita pur sempre poteri di tipo inibitorio, ma subordinatamente al riscontro dei presupposti per l’intervento in autotutela.
12. In definitiva, alla luce di tutto quanto sin qui esposto,
il Collegio ritiene che la previsione del comma 6-ter dell’articolo 19 della legge n. 241 del 1990 imponga all’amministrazione di riscontrare motivatamente, in ogni caso, l’istanza con cui un terzo, titolare di una situazione giuridica qualificata e differenziata, abbia sollecitato l’intervento della stessa amministrazione in relazione a una denuncia o segnalazione certificata di inizio attività.
In particolare,
laddove l’istanza pervenga entro sessanta giorni dal momento in cui tale soggetto risulta aver avuto conoscenza dei profili lesivi dell’intervento, l’amministrazione sarà tenuta a esercitare, sussistendone i presupposti, pieni poteri inibitori, poiché –in difetto– il terzo subirebbe una diminuzione della tutela accordatagli rispetto a chi sia leso da un permesso di costruire.
Superati i sessanta giorni, l’amministrazione dovrà comunque a verificare, dandone conto motivatamente, unicamente la sussistenza dei presupposti per l’esercizio dell’autotutela.
Logico corollario di quanto sin qui affermato è che la circostanza che
tale terzo abbia avuto conoscenza del titolo edilizio da più di sessanta giorni non comporta conseguenze processuali, in relazione alla eventuale successiva azione giurisdizionale contro il silenzio o il provvedimento negativo emesso dall’amministrazione, ma ha unicamente conseguenze di tipo procedimentale (secondo quanto già rilevato dalla Sezione con la sentenza n. 585 del 05.03.2014).
In entrambe le ipotesi sopra enunciate, il ricorso giurisdizionale avverso il provvedimento con cui l’amministrazione abbia negato il proprio intervento sarà quindi ammissibile –sussistendo, beninteso, tutte le altre condizioni dell’azione– ma la risposta dell’amministrazione dovrà essere verificata tenendo conto del diverso potere esercitato nelle due ipotesi sopra dette.

VARI: A piedi massimo per tre anni dal sinistro.
Chi subisce il ritiro della patente a seguito di un grave sinistro stradale e poi la revoca del titolo può presentare domanda per il conseguimento di una nuova licenza di guida decorsi tre anni dalla data dell'incidente. Non deve cioè attendere un ulteriore triennio dall'irrevocabilità della sentenza di condanna.

Lo ha chiarito il Tar Veneto, sez. III, con sentenza 15.04.2016 n. 393.
La riforma stradale introdotta con la legge 120/2010 ha inasprito le conseguenze della guida alterata prevedendo all'interno degli artt. 186, 186-bis e 187 del codice la revoca per tre anni per i conducenti più negligenti. È il caso per esempio degli autotrasportatori professionali trovati gravemente alterati dall'alcol o sotto l'influenza di droga. Oppure più semplicemente di chiunque provochi un incidente con una quantità elevata di alcol nel sangue o sotto l'effetto di stupefacenti.
L'indicazione letterale dell'art. 219/3-ter cds però ha aperto dubbi sulla data di concreta applicazione della revoca. Specifica infatti letteralmente questo articolato che quando la revoca della licenza è disposta a seguito delle violazioni di cui agli artt. 186, 186-bis e 187, non è possibile conseguire una nuova patente prima di tre anni a decorrere dalla data di accertamento del reato.
Per questo motivo il ministero dei trasporti ha richiesto un parere all'organo di coordinamento dei servizi di polizia stradale il quale ha specificato che la data di accertamento del reato, da cui decorre il triennio per poter riottenere il titolo abilitativo alla guida, va intesa con riguardo al passaggio in giudicato della sentenza penale e non già con riferimento al momento in cui l'organo di vigilanza contesta l'infrazione. A parere del Tar questa interpretazione non è corretta.
Come evidenziato anche dall'ufficio del massimario della Cassazione se a seguito della condanna per una delle contravvenzioni di cui agli artt. 186, 186-bis e 187 è stata disposta la revoca della patente, il condannato non potrà conseguirne una nuova prima di tre anni dalla data di accertamento del reato e non da quella del passaggio in giudicato della sentenza o del decreto di condanna (articolo ItaliaOggi Sette del 06.06.2016).

AMBIENTE-ECOLOGIA - TRIBUTIDepurazione, si paga con l’allaccio. Acque reflue. La Cassazione dà ragione a un condominio che si era rifiutato di pagare la tariffa comunale.
Il condominio non allacciato alla rete fognaria pubblica e con un proprio impianto di depurazione può essere parzialmente esentato dal pagamento della tariffa del Servizio idrico, intesa come corrispettivo di una prestazione commerciale complessa di natura contrattuale e quindi privatistica, soltanto se dimostra dinanzi al giudice che i propri sistemi di collettamento e depurazione delle acque sono compatibili con le finalità di tutela ambientale.

È quanto affermato dalla Sez. V civile della Corte di Cassazione (sentenza 13.04.2016 n. 7210), che ha rinviato la causa per un nuovo esame alla Corte d’appello di Trieste, dopo che quest’ultima aveva dato ragione a un condominio che si era rifiutato di pagare al Comune di Pordenone circa 4 mila euro, quale importo della tariffa dovuta al gestore pubblico dell’acqua, relativa esclusivamente al servizio di fognatura e depurazione.
Nel motivare la loro decisione, i giudici di secondo grado avevano fatto riferimento alla Corte Costituzionale, che con la sentenza 305/2008 ha dichiarato illegittimi l’articolo 14 della legge 36/1994 e l’articolo 155 del Dlgs 152/2006 «nella parte in cui prevede che la quota di tariffa riferita al servizio di depurazione sia dovuta dagli utenti anche nel caso in cui la fognatura sia sprovvista di impianti centralizzati di depurazione o questi siano temporaneamente inattivi».
Se da un lato quindi il mancato pagamento, anche parziale, della tariffa comporta una violazione dei termini contrattuali, dall’altro è illegittimo far pagare al condominio servizi di cui non ha usufruito.
La Corte d’appello, cui è rinviata la sentenza, dovrà quindi decidere tenendo conto del principio di diritto secondo cui l’obbligo di pagamento della tariffa di fognatura e depurazione, intesa come componente del corrispettivo del servizio idrico integrato, «non è automaticamente escluso nel caso in cui i relativi impianti di fognatura e depurazione siano stati dall’ente locale predisposti e siano attivi e la mancata fruizione dei relativi servizi dipenda da comportamento volontario dell’utente che non intenda allacciarvisi, provvedendo alla rispettive esigenze con sistemi propri. In tal caso incombe all’utente, che intende sottrarsi in parte qua della tariffa, l’onere probatorio di dimostrare la compatibilità dei propri sistemi di collettamento e depurazione delle acque reflue provenienti da scarichi di insediamenti domestici con le preminenti finalità di tutela ambientale e della concorrenza relative all’istituzione del servizio idrico integrato»
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.06.2016).

EDILIZIA PRIVATA: Passo carrabile non per sempre. Un garage trasformato in negozio.
Il comune deve revocare il passo carrabile se il locale prima destinato a garage viene poi trasformato in una attività commerciale. Quindi senza alcuna necessità di transito veicolare verso l'area di stazionamento dei mezzi.

Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. I, con il parere 18.03.2016 n. 743.
Il comune di Genova ha negato la voltura di un passo carrabile richiesto per agevolare l'accesso a un locale originariamente destinato a garage e poi trasformato in esercizio commerciale. Contro questa determinazione l'interessato ha proposto ricorso straordinario al Presidente della repubblica ma senza successo.
L'articolo 22 del codice e l'art. 46 del relativo regolamento stradale specificano che la concessione di un passo carrabile è subordinata a precise condizioni di carattere oggettivo. Ovvero alla necessità di accedere con veicoli ad un'area laterale idonea al loro stazionamento. Un negozio non può essere certamente paragonato ad un garage, prosegue il parere.
Quindi ha fatto bene il comune a revocare la licenza privata di divieto di sosta con rimozione a fronte di un cambiamento sostanziale della destinazione d'uso dei locali (articolo ItaliaOggi Sette del 13.06.2016).

ENTI LOCALI: Autovelox con l'ok del prefetto. Sentenza del Tar Piemonte sulle strade extraurbane.
Spetta al rappresentante governativo autorizzare l'installazione di un misuratore di velocità in sede fissa fuori centro abitato. E in questo caso non occorre fare riferimento alle dimensioni della strada ma solo all'ubicazione esatta dell'autovelox.

Lo ha chiarito il TAR Piemonte, Sez. I, con la sentenza 04.12.2015 n. 1691.
Un automobilista incorso nei rigori dei limiti di velocità ha presentato un esposto alla prefettura denunciando l'illegittimità del provvedimento che ammette la collocazione di un misuratore elettronico su una strada comunale extraurbana di modeste dimensioni. A seguito del mancato accoglimento dell'istanza l'interessato ha proposto ricorso ai giudici amministrativi contro il rinnovato decreto prefettizio che ha confermato la precedente determinazione. Ma senza successo.
A parere del collegio infatti l'elemento fondamentale da valutare attiene alla natura della strada comunale scelta dalla prefettura per l'installazione dell'autovelox fisso. Ovvero se la stessa risulta essere una strada extraurbana o meno. L'art. 4 della legge 168/2002 permette il controllo automatico dell'eccesso di velocità, infatti, solo su certi tipi di strade, previa autorizzazione del prefetto. Ovvero le strade extraurbane secondarie e quelle locali di scorrimento. Si definiscono strade extraurbane secondarie tutte le strade che non interessano i centri abitati senza riferimento alle dimensioni del manufatto.
A differenza delle strade extraurbane principali, munite di spartitraffico, quelle secondarie devono solamente disporre di una corsia per senso di marcia e delle banchine. Il decreto ministeriale 6792/2004 sulle dimensioni delle strade, prosegue la sentenza, interessa solo le modalità di costruzione dei nuovi manufatti. Per l'attività di classificazione delle strade occorre fare riferimento all'art. 2 del codice stradale.
La strada in esame, conclude il Tar, è fuori dal centro abitato, e quindi correttamente classificata come extraurbana, dotata di due corsie, priva di uno spartitraffico locale, ma le banchine sono esistenti, essendovi su entrambi i lati una spazio tra la linea di margine e il ciglio erboso (articolo ItaliaOggi del 07.06.2016).

AGGIORNAMENTO AL 14.06.2016

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IN EVIDENZA

PUBBLICO IMPIEGO: Cassazione: per licenziamento statali vale l'art. 18, niente Legge Fornero. Intatte quindi le garanzie per il pubblico impiego.
Il licenziamento del personale del pubblico impiego non è disciplinato dalla 'legge Fornero', bensì dall'art. 18 dello Statuto dei lavoratori.
Lo afferma la Corte di Cassazione, "all'esito di una approfondita e condivisa riflessione", con la sentenza 09.06.2016 n. 11868 della Sez. Lavoro.
La Cassazione interviene quindi su una questione da tempo dibattuta su cui ci sono state anche sentenze di diverso orientamento ma il governo, con il ministro della P.A. Marianna Madia, ha sempre tenuto a precisare come l'articolo 18 per gli statali non è stato cambiato né dalla legge Fornero, prima, né dal Jobs act, dopo.
Per il pubblico impiego le garanzie sarebbero quindi intatte, con la reintegra in caso di licenziamento senza giusta causa. Un trattamento diverso rispetto ai lavoratori privati, sostiene il ministero, perché è diversa la natura del datore di lavoro.
Per mettere fine a possibili diverse interpretazioni il governo resta dell'idea di intervenire, da quanto si apprende, con una norma che chiarisca l'esclusione dei dipendenti pubblici dalle nuove regole. La precisazione dovrebbe trovare spazio nel testo unico del pubblico impiego, in attuazione della riforma della P.A.
Un impegno in questo senso era stato preso alla fine dello scorso anno da Madia, dopo una sentenza della stessa Cassazione che allora, però, sembrava dire il contrario, ovvero che le modifiche della Fornero valevano anche per gli statali. Ora tutto sia riallinea (commento tratto da www.ansa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Licenziamenti nel pubblico impiego: inapplicabile la legge Fornero.
Ai licenziamenti dei dipendenti della pubblica amministrazione non si applicano le modifiche apportate dalla legge Fornero all'art. 18 dello Statuto dei lavoratori.
E’ quanto ha affermato la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con la sentenza 09.06.2016 n. 11868.
Diverse le motivazioni alla base della decisione: tra queste, la considerazione che la formulazione dell'art. 18, come modificato dalla legge Fornero, introduce una modulazione delle sanzioni con riferimento ad ipotesi di illegittimità pensate in relazione al solo lavoro privato, che non si prestano ad essere estese all'impiego pubblico contrattualizzato. La decisione apre la strada ad un contrasto giurisprudenziale.
Il fatto trae origine dal contenzioso instaurato tra un lavoratore e il Ministero delle Infrastrutture e dei trasporti che ne aveva disposto il licenziamento.
Il caso
La Corte d’Appello aveva respinto i reclami riuniti, proposti in base alla c.d. legge Fornero (art. 1, comma 58, della legge 28.06.2012 n. 92), dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e da R.C. avverso la sentenza del Tribunale che aveva dichiarato l'intervenuta risoluzione del rapporto di lavoro intercorso fra le parti, per effetto del licenziamento intimato con provvedimento del 02.09.2012, e, ritenuta la violazione dell'art. 7 della legge n. 300 del 1970, aveva applicato il sesto comma dell'art. 18 dello Statuto, come modificato dalla legge sopra richiamata, condannando il Ministero a corrispondere al C. l'indennità risarcitoria onnicomprensiva, quantificata nella misura minima di sei mensilità.
La Corte d’appello premetteva che il procedimento disciplinare era stato avviato con contestazione del 02.03.2004, con la quale era stato addebitato al dipendente, per quel che qui interessa, di avere effettuato "operazioni per conto dell'Ufficio Provinciale di R. mentre era in missione per esigenze del CSRPAD (Centro Superiore Ricerche e Prove Autoveicoli e Dispositivi) in località ovviamente diverse".
Il procedimento era stato contestualmente sospeso perché i fatti emersi a seguito di visita ispettiva, di rilievo penale, erano stati segnalati dal Ministero all'autorità giudiziaria. A seguito del passaggio in giudicato della sentenza del 24.05.2012, che aveva dichiarato estinti per prescrizione i delitti di truffa e falso addebitati all'imputato, il procedimento disciplinare era stato riavviato mediante richiamo alla originaria contestazione e, all'esito della audizione dell'incolpato, era stato disposto il licenziamento per giusta causa senza preavviso, sul rilievo che in almeno 4 dei 49 casi di sovrapposizione sussisteva incompatibilità assoluta fra le missioni, non giustificabile se non ipotizzando gravi falsità compiute nel corso dell'uno o dell'altro incarico, tali da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario.
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione il lavoratore, il quale, sul presupposto della insussistenza del fatto e, comunque, della non riconducibilità dello stesso ad una delle ipotesi per le quali il contratto collettivo prevede la sanzione espulsiva, questi chiedeva alla Cassazione, in via principale, di riconoscere le tutele previste dall'art. 18, comma 4, della legge n. 300 del 1970, o, in subordine, dal comma 5 dello stesso articolo, come modificato dalla legge 28.06.2012 n. 92.
L'impugnazione incidentale, quindi, muoveva dalla ritenuta applicabilità al rapporto di pubblico impiego contrattualizzato della nuova disciplina, applicabilità affermata anche dai giudici di merito che, sia pure senza motivare sul punto, avevano fatto discendere dalla ritenuta violazione delle regole procedimentali le conseguenze previste dal comma 6 della norma modificata.
Decisione della Corte di Cassazione
La Cassazione ha respinto il ricorso del lavoratore, affermando un principio di grande importanza e che entra in contrasto con altro, recente, precedente giurisprudenziale di legittimità e che, proprio per tale ragione, dev’essere in questa sede evidenziato.
Orbene, la Cassazione nella sentenza qui commentata non ignora che sulla questione si sono formati nella giurisprudenza di merito, anche sulla base delle indicazioni provenienti dalla dottrina, orientamenti contrastanti che, per giungere ad affermare o a negare la applicabilità ai rapporti di pubblico impiego contrattualizzato della nuova disciplina, hanno valorizzato, principalmente, da un lato il rinvio mobile alle disposizioni dettate dalla legge n. 300 del 1970 contenuto nell'art. 51 del d.lgs. 165 del 2001 e la necessità di garantire, anche dopo la riforma, uniformità di trattamento fra impiego pubblico e privato; dall'altro i commi 7 e 8 dell'art. 1 della legge n. 92 del 2012 nonché la inconciliabilità della nuova disciplina con lo specifico regime imperativo dettato dagli artt. 54 e seguenti delle norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche.
Una precedente sentenza della Cassazione (la sentenza 25.11.2015 n. 24157) aveva fatto propria solo parzialmente la prima delle due opzioni esegetiche a confronto, poiché, pur affermando la applicabilità della riforma ai rapporti disciplinati dall'art. 2 del d.lgs. n. 165 del 2001, aveva ritenuto di dovere, comunque, salvaguardare la specialità della normativa del procedimento disciplinare dettata per l'impiego pubblico dalle disposizioni sopra richiamate e, quindi, ha ricondotto al primo ed al secondo comma dell'art. 18 modificato la violazione delle regole procedimentali, in quanto causa di nullità del licenziamento.
Orbene, con la sentenza qui commentata la Cassazione sconfessa quanto affermato da tale decisione, giacché plurime ragioni inducono ad escludere che il nuovo regime delle tutele in caso di licenziamento illegittimo possa essere applicato anche ai rapporti di lavoro disciplinati dall'art. 2 del d.lgs. n. 165 del 2001. Secondo la Cassazione non si estendono, in particolare ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni le modifiche apportate all'art. 18 dello Statuto, con la conseguenza che la tutela da riconoscere a detti dipendenti in caso di licenziamento illegittimo resta quella assicurata dalla previgente formulazione della norma.
Motivazioni della decisione
Queste in sintesi le ragioni che hanno indotto la Cassazione a tale soluzione:
   a) la definizione delle finalità della legge n. 92 del 2012, per come formulata nell'art. 1, comma 1, tiene conto unicamente delle esigenze proprie dell'impresa privata, alla quale solo può riferirsi la lettera c), che pone una inscindibile correlazione fra flessibilità in uscita ed in entrata, allargando le maglie della prima e riducendo nel contempo l'uso improprio delle tipologie contrattuali diverse dal rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato;
   b) la formulazione dell'art. 18, come modificato dalla legge n. 92 del 2012, introduce una modulazione delle sanzioni con riferimento ad ipotesi di illegittimità pensate in relazione al solo lavoro privato, che non si prestano ad essere estese all'impiego pubblico contrattualizzato per il quale il legislatore, in particolar modo con il d.lgs. 27.10.2009 n. 150, ha dettato una disciplina inderogabile, tipizzando anche illeciti disciplinari ai quali deve necessariamente conseguire la sanzione del licenziamento;
   c) la inconciliabilità della nuova normativa con le disposizioni contenute nel d.lgs. n. 165 del 2001 è particolarmente evidente in relazione al licenziamento intimato senza il necessario rispetto delle garanzie procedimentali, posto che il comma 6 dell'art. 18 fa riferimento al solo art. 7 della legge n. 300 del 1970 e non agli artt. 55 e 55-bis del d.lgs. citato, con i quali il legislatore, oltre a sottrarre alla contrattazione collettiva la disciplina del procedimento, del quale ha previsto termini e forme, ha anche affermato il carattere inderogabile delle disposizioni dettate "ai sensi e per gli effetti degli artt. 1339 e 1419 e seguenti c.c.”;
   d) una eventuale modulazione delle tutele nell'ambito dell'impiego pubblico contrattualizzato richiede da parte del legislatore una ponderazione di interessi diversa da quella compiuta per l'impiego privato, poiché, come avvertito dalla Corte Costituzionale, mentre in quest'ultimo il potere di licenziamento del datore di lavoro è limitato allo scopo di tutelare il dipendente, nel settore pubblico il potere di risolvere il rapporto di lavoro, è circondato da garanzie e limiti che sono posti non solo e non tanto nell'interesse del soggetto da rimuovere, ma anche e soprattutto a protezione di più generali interessi collettivi. Viene,cioè, in rilievo non l’art. 41, 1° e 2° comma, della Costituzione, bensì l'art. 97 della Carta fondamentale, che impone di assicurare il buon andamento e la imparzialità della amministrazione pubblica.
Da, qui, dunque, il rigetto del ricorso incidentale del lavoratore.
Effetti della sentenza
Di rilievo le conseguenze pratiche della sentenza.
Ed invero, secondo l’interpretazione offerta dalla Cassazione, ai rapporti di lavoro disciplinati dal d.lgs. 30.03.2001 n. 165, art. 2, non si applicano le modifiche apportate dalla legge Fornero all'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, per cui la tutela del dipendente pubblico in caso di licenziamento illegittimo intimato in data successiva alla entrata in vigore della richiamata legge Fornero resta quella prevista dall'art. 18 dello Statuto dei lavoratori nel testo antecedente alla riforma (commento tratto da www.ipsoa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Plurime ragioni inducono ad escludere che il nuovo regime delle tutele in caso di licenziamento illegittimo possa essere applicato anche ai rapporti di lavoro disciplinati dall'art. 2 del d.lgs. n. 165 del 2001.
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Sino al successivo intervento normativo di armonizzazione, non si estendono ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni le modifiche apportate all'art. 18 dello Statuto, con la conseguenza che la tutela da riconoscere a detti dipendenti in caso di licenziamento illegittimo resta quella assicurata dalla previgente formulazione della norma.
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L'art. 18 della legge n. 300 del 1970, nel testo antecedente alle modifiche apportate dalla legge n. 92 del 2012, non è stato espunto dall'ordinamento ma resta tuttora in vigore limitatamente ai rapporti di lavoro di cui all'art. 2 del d.lgs. n. 165 del 2001.
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3.2 - Il Collegio non ignora che sulla questione che qui viene in rilievo si sono formati nella giurisprudenza di merito, anche sulla base delle indicazioni provenienti dalla dottrina, orientamenti contrastanti che, per giungere ad affermare o a negare la applicabilità ai rapporti di pubblico impiego contrattualizzato della nuova disciplina, hanno valorizzato, principalmente, da un lato il rinvio mobile alle disposizioni dettate dalla legge n. 300 del 1970 contenuto nell'art. 51 del d.lgs. 165 del 2001 e la necessità di garantire, anche dopo la riforma, uniformità di trattamento fra impiego pubblico e privato; dall'altro i commi 7 e 8 dell'art. 1 della legge n. 92 del 2012 nonché la inconciliabilità della nuova disciplina con lo specifico regime imperativo dettato dagli artt. 54 e seguenti delle norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche.
La sentenza di questa Corte 25.11.2015 n. 24157 ha fatto propria solo parzialmente la prima delle due opzioni esegetiche a confronto, poiché, pur affermando la applicabilità della riforma ai rapporti disciplinati dall'art. 2 del d.lgs. n. 165 del 2001, ha ritenuto di dovere, comunque, salvaguardare la specialità della normativa del procedimento disciplinare dettata per l'impiego pubblico dalle disposizioni sopra richiamate e, quindi, ha ricondotto al primo ed al secondo comma dell'art. 18 modificato la violazione delle regole procedimentali, in quanto causa di nullità del licenziamento.
Il Collegio ritiene che detto orientamento debba essere disatteso, giacché
plurime ragioni inducono ad escludere che il nuovo regime delle tutele in caso di licenziamento illegittimo possa essere applicato anche ai rapporti di lavoro disciplinati dall'art. 2 del d.lgs. n. 165 del 2001.
Invero l'art. 1 della legge n. 92 del 2012, dopo aver previsto al comma 7 che "Le disposizioni della presente legge, per quanto da esse non espressamente previsto, costituiscono principi e criteri per la regolazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, e successive modificazioni, in coerenza con quanto disposto dall'articolo 2, comma 2, del medesimo decreto legislativo. Restano ferme le previsioni di cui all'articolo 3 del medesimo decreto legislativo.", al comma 8 aggiunge che "Al fine dell'applicazione del comma 7 il Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione, sentite le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, individua e definisce, anche mediante iniziative normative, gli ambiti, le modalità e i tempi di armonizzazione della disciplina relativa ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche.".
Sebbene la norma, che risulta dal combinato disposto dei commi 7 e 8, sia stata formulata in termini diversi rispetto ad altre disposizioni, con le quali è stata esclusa l'automatica estensione all'impiego pubblico contrattualizzato di norme dettate per l'impiego privato (si pensi, ad esempio, all'art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 276 dei 2003), tuttavia a fini interpretativi assume peculiare rilievo il rinvio ad un successivo intervento normativo contenuto nel comma 8, non dissimile da quello previsto dall'art. 86, comma 8, del d.lgs. n. 276 del 2003, che ha, appunto, demandato al Ministro della funzione pubblica, previa consultazione delle organizzazioni sindacali, di assumere le iniziative necessarie per armonizzare la disciplina del pubblico impiego con la nuova normativa, pacificamente applicabile al solo impiego privato.
La circostanza che il comma 7 faccia salve le disposizioni della legge n. 92 che dispongano in senso diverso, si giustifica considerando che la stessa legge contiene anche norme che si riferiscono espressamente all'impiego pubblico (in particolare l'art. 2, comma 2, esclude dall'ambito della operatività dell'ASPI i dipendenti delle pubbliche amministrazioni), sicché la eccezione opera solo con riferimento alle disposizioni in relazione alle quali la questione della applicabilità all'impiego pubblico sia stata già risolta in modo espresso dal legislatore del 2012.
Non è, questo, il caso della nuova disciplina del licenziamento, perché sulla estensione della stessa all'impiego pubblico nulla è detto nell'art. 1, con la conseguenza che, in difetto di una espressa previsione, non può che operare il rinvio di cui al comma 8.
Ciò comporta che,
sino al successivo intervento normativo di armonizzazione, non si estendono ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni le modifiche apportate all'art. 18 dello Statuto, con la conseguenza che la tutela da riconoscere a detti dipendenti in caso di licenziamento illegittimo resta quella assicurata dalla previgente formulazione della norma.
3.3 - Dette conclusioni, fondate sul tenore letterale della disciplina in commento, sono avvalorate da considerazioni di ordine logico e sistematico che, nel rispetto della doverosa sintesi imposta dagli artt. 132 c.p.c. e 118 disp. att. c.p.c., possono essere così riassunte:
   a) la definizione delle finalità della legge n. 92 del 2012, per come formulata nell'art. 1, comma 1, tiene conto unicamente delle esigenze proprie dell'impresa privata, alla quale solo può riferirsi la lettera c), che pone una inscindibile correlazione fra flessibilità in uscita ed in entrata, allargando le maglie della prima e riducendo nel contempo l'uso improprio delle tipologie contrattuali diverse dal rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato;
   b) la formulazione dell'art. 18, come modificato dalla legge n. 92 del 2012, introduce una modulazione delle sanzioni con riferimento ad ipotesi di illegittimità pensate in relazione al solo lavoro privato, che non si prestano ad essere estese all'impiego pubblico contrattualizzato per il quale il legislatore, in particolar modo con il d.lgs. 27.10.2009 n. 150, ha dettato una disciplina inderogabile, tipizzando anche illeciti disciplinari ai quali deve necessariamente conseguire la sanzione del licenziamento;
   c) la inconciliabilità della nuova normativa con le disposizioni contenute nel d.lgs. n. 165 del 2001 è particolarmente evidente in relazione al licenziamento intimato senza il necessario rispetto delle garanzie procedimentali, posto che il comma 6 dell'art. 18 fa riferimento al solo art. 7 della legge n. 300 del 1970 e non agli artt. 55 e 55-bis del d.lgs. citato, con i quali il legislatore, oltre a sottrarre alla contrattazione collettiva la disciplina del procedimento, del quale ha previsto termini e forme, ha anche affermato il carattere inderogabile delle disposizioni dettate "ai sensi e per gli effetti degli artt. 1339 e 1419 e seguenti c.c.";
   d) una eventuale modulazione delle tutele nell'ambito dell'impiego pubblico contrattualizzato richiede da parte del legislatore una ponderazione di interessi diversa da quella compiuta per l'impiego privato, poiché, come avvertito dalla Corte Costituzionale, mentre in quest'ultimo il potere di licenziamento dei datore di lavoro è limitato allo scopo di tutelare il dipendente, nel settore pubblico il potere di risolvere il rapporto di lavoro, è circondato da garanzie e limiti che sono posti non solo e non tanto nell'interesse del soggetto da rimuovere, ma anche e soprattutto a protezione di più generali interessi collettivi (Corte Cost. 24.10.2008 n. 351). Viene, cioè, in rilievo non l'art. 41, 1° e 2° comma, della Costituzione, bensì l'art. 97 della Carta fondamentale, che impone di assicurare il buon andamento e la imparzialità della amministrazione pubblica.
3.4 - La ritenuta inapplicabilità della riforma all'impiego pubblico contrattualizzato non può essere esclusa solo facendo leva sul rinvio contenuto nell'art. 51, comma 2, alla legge 20.02.1970 n. 300 "e successive modificazioni ed integrazioni".
Osserva innanzitutto il Collegio che il legislatore dei T. U. nel rendere applicabili le disposizioni dello Statuto e, quindi, l'art. 18, a tutte le amministrazioni pubbliche, a prescindere dal numero dei dipendenti, ha voluto escludere in ogni caso, pur in un contesto di tendenziale armonizzazione fra impiego pubblico e privato, una tutela diversa da quella reale nell'ipotesi di licenziamento illegittimo, anche per quelle amministrazioni, pur numerose (si pensi, ad esempio agli enti territoriali minori di limitate dimensioni), per le quali sarebbe stata altrimenti applicabile la tutela obbligatoria prevista dall'art. 8 della legge n. 604 dei 1966.
Il rinvio, seppur mobile, nasce limitato da detta scelta fondamentale compiuta dal legislatore, che rende incompatibile con la volontà espressa nella norma di rinvio l'automatico recepimento di interventi normativi successivi, che modifichino la norma richiamata incidendo sulla natura stessa della tutela riconosciuta al dipendente licenziato.
Va, poi, sottolineato che, anche in presenza di una norma di rinvio finalizzata ad estendere ad un diverso ambito una normativa nata per disciplinare altri rapporti giuridici, è consentito al legislatore di limitare, con un successivo intervento normativo di pari rango, il rinvio medesimo e, quindi, di escludere l'automatica estensione di modifiche della disciplina richiamata.
Detto intervento, che è quello verificatosi nella fattispecie, fa sì che il rinvio si trasformi da mobile a fisso, ossia che la norma richiamata resti cristallizzata nel testo antecedente alle modifiche apportate dalla riforma, che, quindi, continua a disciplinare i rapporti interessati dalla norma di rinvio, dando vita in tal modo ad una duplicità di normative, ciascuna applicabile in relazione alla diversa natura dei rapporti giuridici in rilievo.
In via conclusiva ritiene il Collegio di dovere affermare, per le considerazioni tutte sopra esposte, che
l'art. 18 della legge n. 300 del 1970, nel testo antecedente alle modifiche apportate dalla legge n. 92 del 2012, non è stato espunto dall'ordinamento ma resta tuttora in vigore limitatamente ai rapporti di lavoro di cui all'art. 2 del d.lgs. n. 165 del 2001.
3.5 - Resta fuori dal tema dibattuto, e che in questa sede viene rimeditato espressamente, l'indiscutibile immediata applicazione alle impugnative dei licenziamenti adottati dalle pubbliche amministrazioni del nuovo rito, in primo grado ed in sede di impugnazione, quale disciplinato dalle norme in disamina, nulla ostando né nelle previsioni della legge 92 del 2012 (art. 1, commi 48 e seguenti) né nel corpo normativo di cui al d.lgs. 165 del 2001 ed anzi militando, per la generale applicazione ad ogni impugnativa di licenziamento ai sensi dell'art. 18 S.L., la espressa previsione dell'art. 1 comma 47, della legge del 2012.
3.5 - L'avere il ricorrente incidentale invocato una normativa sostanziale non applicabile al rapporto non esime, peraltro, la Corte dall'esame delle censure mosse alla sentenza impugnata, poiché il principio iura novit curia impone ai giudice di ricercare le norme giuridiche applicabili alla concreta fattispecie sottoposta al suo esame, ponendo a fondamento della sua decisione principi di diritto diversi da quelli erroneamente richiamati dalle parti, purché il petitum e la causa petendi della domanda proposta restino immutati.
Nel caso di specie il ricorrente incidentale ha invocato la tutela reintegratoria sul presupposto della insussistenza dei fatti contestati e, comunque, della giusta causa, sicché la domanda formulata risulta compatibile con la disciplina effettivamente applicabile al rapporto (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con la sentenza 09.06.2016 n. 11868).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Strade, reti e servizi: il Codice appalti riscrive le procedure. Realizzabili senza gara gli interventi extra-standard.
Opere di urbanizzazione. Regole diverse per i lavori a scomputo.

La nuova disciplina in materia di appalti pubblici interessa anche le operazioni immobiliari di sviluppo private. Il Codice (Dlgs 50/2016) regola infatti anche gli accordi tra i Comuni e i costruttori per la realizzazione delle opere di urbanizzazione a scomputo del contributo di costruzione.
Il vecchio sistema
Il previgente sistema (Dlgs 163/2006) assoggettava a diverso regime la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria (strade, parcheggi, reti elettriche, idriche e fognarie) e secondaria (scuole, edifici religiosi, culturali e sociali, parchi), distinguendo anche i casi in cui l’ammontare delle opere fosse superiore o inferiore alla soglia di rilevanza comunitaria (attualmente pari a 5.225.000 euro per gli appalti di lavori).
In particolare, la realizzazione di opere di urbanizzazione primaria e secondaria da eseguire a scomputo oneri e con valore superiore alla soglia seguiva una procedura a evidenza pubblica, secondo l’ordinario percorso di gara –aperta o ristretta– previsto dal vecchio Codice. Mentre l’affidamento dei lavori inerenti alle opere di urbanizzazione secondaria a scomputo e di valore inferiore alla soglia di rilevanza doveva seguire una procedura negoziata, senza previa pubblicazione del bando, con invito rivolto ad almeno cinque soggetti idonei (articolo 122, comma 8, Dlgs 163/2006).
In virtù del comma 2-bis, articolo 16 del Dpr 380/2001 (introdotto dal Dl 201/2011 “Salva Italia”), le opere di urbanizzazione primaria di importo inferiore alla soglia comunitaria -sempreché funzionali all’intervento di trasformazione urbanistica- potevano invece essere realizzate a cura del titolare del permesso di costruire (ovvero da questi liberamente assegnate a terzi) senza applicare le norme del Dlgs 163/2006. Ma se l’opera di urbanizzazione primaria sotto soglia non era funzionale all’intervento, si doveva applicare la procedura negoziata prevista all’articolo 122, comma 8.
Il nuovo sistema
Il Dlgs 50/2016 modifica parzialmente tale quadro, ma in modo significativo.
Per le opere di urbanizzazione primaria e secondaria sopra la soglia, resta ferma la piena applicabilità delle procedure a evidenza pubblica ordinariamente previste dal nuovo Codice. Così come, per le opere di urbanizzazione primaria sotto soglia ma funzionali agli interventi di trasformazione, continua ad applicarsi l’esclusione prevista dal comma 2-bis, articolo 16, del Dpr 380/2001.
Per le opere di urbanizzazione secondaria sotto soglia e per quelle di urbanizzazione primaria sotto soglia e non funzionali all’intervento, invece, occorre ora far ricorso alla procedura ordinaria, con avviso o bando di gara (articolo 36, comma 3, Dlgs 50/2016).
Le opere non a scomputo
Altra novità rilevante, ma all’insegna della semplificazione, è introdotta rispetto al tema (molto dibattuto in dottrina e giurisprudenza) delle opere di urbanizzazione che non vanno a scomputo del contributo di costruzione. Vale a dire quelle opere, spesso previste dalle convenzioni urbanistiche, realizzate in più rispetto agli obblighi che da regolamento i Comuni attribuiscono ai costruttori.
A riguardo, è bene ricordare che il criterio per applicare le procedure a evidenza pubblica viene normalmente riconosciuto nel requisito dell’onerosità della prestazione. E in tale ottica, la normativa in materia di appalti non si dovrebbe applicare alle opere pubbliche non a scomputo (ossia a quelle con costi interamente a carico del privato).
In merito, l’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici (determinazione 4/2008) aveva però precisato che il costo delle “opere extra”, per quanto non scomputato dai contributi ordinari, rappresenterebbe comunque un corrispettivo riconosciuto al Comune a fronte dell’approvazione del progetto di sviluppo. Non essendo quindi opere realizzate dal costruttore in spirito di liberalità, avrebbero dovuto seguire le procedure di evidenza pubblica per la selezione dei soggetti chiamate a realizzarle.
L’articolo 20 del Dlgs 50/2016 ricollega invece l’applicabilità delle regole pubblicistiche solo ai casi in cui il requisito dell’onerosità sussiste in via diretta e immediata. Il nuovo Codice, dunque, non si applica quando un’amministrazione stipula una convenzione con cui un soggetto si impegna a realizzare a sua cura e spese, cioè senza scomputarne il valore dai contributi dovuti al Comune, un’opera pubblica prevista nell’ambito di strumenti o programmi urbanistici.
In questi casi, è tuttavia previsto che l’amministrazione svolga una funzione di controllo preventivo: prima della stipula, valuterà infatti il progetto di fattibilità delle opere e lo schema dei contratti di appalto. Spetterà inoltre alla convenzione disciplinare le conseguenze in caso di inadempimento.
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Per importi elevati si applica ancora l’iter ordinario. Valori rilevanti. Confermata la prassi del Dlgs 163/2006.
Il quadro dei procedimenti previsti per realizzare le opere di urbanizzazione a scomputo è stato parzialmente rivisto.
Pur continuando a differenziare, a livello nominale, tra opere di urbanizzazione primaria e secondaria, di valore superiore o inferiore alla soglia di rilevanza comunitaria, il Dlgs 50/2016 mantiene solo alcune delle distinzioni del precedente assetto normativo (Dlgs 163/2006).
Per quanto concerne le opere di urbanizzazione primaria e secondaria sopra la soglia di rilevanza comunitaria, la scelta del soggetto a cui affidare i lavori è rinviata dal nuovo Codice –così come dal previgente– alle ordinarie procedure di gara, aperte o ristrette, previa pubblicazione di un bando o un avviso (si veda l’articolo a lato).
In caso di procedura aperta, qualsiasi operatore economico interessato potrà dunque presentare un’offerta in risposta all’avviso di gara. Mentre nelle procedure ristrette si dovrà presentare una specifica «domanda di partecipazione», e solo gli operatori economici espressamente invitati –dopo l’opportuna valutazione– potranno presentare un’offerta.
Diversamente da quanto previsto in passato, per effetto dell’articolo 36, comma 3, del Dlgs 50/2016, le procedure ordinarie sono oggi applicabili anche per l’affidamento dei lavori per le opere di urbanizzazione primaria, non funzionali all’intervento, e secondaria a scomputo, anche se di importo inferiore alla soglia comunitaria.
Nel quadro complessivo relativo alla realizzazione delle opere di urbanizzazione permane, in ogni caso, un’eccezione.
Il nuovo Codice appalti fa infatti salvo quanto previsto dal comma 2-bis, articolo 16, del Dpr 380/2001 secondo cui, nell’ambito degli strumenti attuativi, nonché degli interventi in attuazione dello strumento urbanistico generale, l’esecuzione diretta delle opere di urbanizzazione primaria di importo inferiore alla soglia -se funzionali all’intervento di trasformazione urbanistica del territorio- è a carico del titolare del permesso di costruire, e non si applicano le disposizioni in materia di contratti pubblici.
In tali fattispecie, la realizzazione delle opere potrà dunque avvenire prescindendo dalle regole per la selezione a evidenza pubblica dell’appaltatore previste dal nuovo Codice. Come rilevato dall’Autorità nazionale anticorruzione (nella deliberazione 46 del 03.05.2012), con la norma in esame «il legislatore ha di fatto estromesso detta tipologia di lavori dalla categoria delle opere pubbliche».
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La convenzione già stipulata segue la vecchia normativa. Entrata in vigore. Fuori dal DLgs 50/2016 gli accordi aggiudicati prima del 20 aprile.
Il Codice degli appalti «entra in vigore il giorno stesso della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale» e «si applica alle procedure e ai contratti per i quali i bandi o avvisi con cui si indice la procedura di scelta del contraente siano pubblicati successivamente alla data della sua entrata in vigore».
Così è scritto nel Dlgs 50/2016, che è stato pubblicato online sulla Gazzetta Ufficiale (n. 91) il 19 aprile scorso, ma dopo le 22. Tale circostanza –come ha spiegato l’Anac con nota del 3 maggio scorso– impone che, in base all’articolo 11 delle preleggi al Codice civile e «all’esigenza di tutela della buona fede delle stazioni appaltanti», le disposizioni del decreto si applichino a bandi e avvisi pubblicati a decorrere dal 20.04.2016.
La stessa Autorità anticorruzione, pochi giorni dopo quella nota, ha però dovuto chiarire a quali ulteriori casi specifici –oltre quelli enunciati dalla norma– continuano ad applicarsi le disposizioni previgenti. Con un comunicato del presidente Raffaele Cantone, l’11 maggio è stato dunque precisato che le norme del “vecchio” Dlgs 163/2006 valgono anche per gli «affidamenti diretti o procedure negoziate in attuazione di accordi quadro aggiudicati prima dell’entrata in vigore del nuovo Codice» e per le «adesioni a convenzioni stipulate prima dell’entrata in vigore del nuovo Codice».
Il chiarimento dell’Anac sembra fondarsi sulla necessità di garantire l’affidamento generato dalle convenzioni stipulate con l’amministrazione, che prevedano l’applicazione di determinate procedure, nonché sulla necessità di salvaguardare le attività già avviate ai fini delle procedure stesse: ciò anche in conformità ai principi di efficacia ed efficienza della Pa enunciati all’articolo 97 della Costituzione.
Ma il chiarimento può avere notevole incidenza sulle opere di urbanizzazione a scomputo previste nell’ambito delle convenzioni urbanistiche, per le quali è mutato il regime di scelta dell’appaltatore (si vedano l’articolo e lo schema in pagina). Il richiamo alle «convenzioni stipulate prima dell’entrata in vigore del nuovo Codice» sembra infatti riferibile anche a tale specifica tipologia di accordi: in particolare, a tutti i casi in cui la convenzione urbanistica disciplini le modalità per la selezione dell’impresa o comunque contenga previsioni tali da generare un affidamento sul soggetto attuatore.
Al contrario, alle convenzioni urbanistiche che non dispongono sulle procedure per realizzare le opere di urbanizzazione, e per le quali non siano comunque stati pubblicati i relativi bandi o avvisi, dovrebbe applicarsi il regime del nuovo Codice, con conseguenze di forte apertura (si pensi alle opere extra-oneri ora tendenzialmente liberalizzate) o di appesantimento procedurale (come nel caso delle opere secondarie sotto soglia ora soggette alle procedure a evidenza pubblica ordinarie).
Ad ogni modo, il tema potrà essere ulteriormente declinato grazie alle linee giuda che l’Anac è impegnata ad adottare entro 90 giorni dall’entrata in vigore del Dlgs 50/2016, per offrire indicazioni interpretative e attuative agli operatori del settore
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.06.2016 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

IN EVIDENZA

PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Abuso d’ufficio il direttore generale di un Comune che esprime una valutazione negativa della professionalità di un proprio sottoposto al fine di bloccargli la progressione economica.
La prova del dolo intenzionale del delitto di abuso d'ufficio deve essere ricavata da elementi ulteriori rispetto al comportamento non iure osservato dall'agente, che evidenzino la effettiva ratio ispiratrice del comportamento dell'agente, senza che al riguardo possa rilevare la compresenza di una finalità pubblicistica, salvo che il perseguimento del pubblico interesse costituisca l'obiettivo principale dell'agente.
Si è anche condivisibilmente affermato che
il dolo intenzionale non è escluso per il solo fatto del perseguimento da parte del pubblico agente di una finalità pubblica, laddove la stessa rappresenti una mera occasione della condotta illecita, posta in essere invece al preciso scopo di perseguire, in via immediata, un danno ingiusto ad altri o un vantaggio patrimoniale ingiusto per sé o per altri.
Va richiamato l'insegnamento, secondo cui
la prova del dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie criminosa dell'abuso di ufficio, può essere desunta anche da elementi sintomatici come la macroscopica illegittimità dell'atto compiuto.

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2. Il primo motivo è palesemente infondato.
In sede di appello, l'imputato aveva soltanto contestato la sussistenza della condotta lesiva del principio di imparzialità della P.A., sostenendo che il suo comportamento era stato ispirato alla finalità di «premiare i dipendenti produttivi e spronare quelli improduttivi a fare meglio per poter ottenere dei riconoscimenti di natura economica al contempo evitando di incorrere in eventuali danni erariali ove non rispettasse la ratto della PEO».
Pertanto, oltre a non aver sollevato la questione, è lo stesso imputato a riconoscere alla valutazione PEO un diretto impatto economico sui dipendenti. In ogni caso, la sentenza impugnata dimostra per tabulas l'ingiustizia del danno patito dall'An., richiamando le iniziative legali vittoriose da questo intraprese in sede civile per ristabilire i propri diritti.
Invero, il sistema di progressione economica orizzontale prevede la selezione -sulla base della valutazione del personale che ne abbia fatto domanda e quindi una graduatoria di merito- di dipendenti meritevoli ad accedere a diverse posizioni economiche all'interno di una stessa categoria.
Il vulnus arrecato all'An. con l'attribuzione di un punteggio insufficiente per il passaggio alla categoria D4 realizzava quindi l'evento del danno ingiusto richiesto dall'art. 323 cod. pen., che -come più volte chiarito dalla Suprema Corte- non deve intendersi limitato solo a situazioni soggettive di carattere patrimoniale e nemmeno a diritti soggettivi perfetti, riguardando l'aggressione ingiusta alla sfera della personalità per come tutelata dai principi costituzionali (tra le tante, Sez. 5, n. 32023 del 19/02/2014, Omodeo Zorini, Rv. 261899).
Nel caso in esame, oltre all'impossibilità di accedere alla selezione per l'incremento economico (come tale tutelabile davanti al giudice ordinario, cfr. Sez. U civ., n. 26295 del 31/10/2008, Rv. 605275), il danno subito dall'An. era da rinvenirsi anche alla perdita di prestigio e di decoro nei confronti dei propri colleghi di lavoro, strettamente connesso alla valutazione decisamente negativa e pregiudizievole emessa a suo carico dall'imputato.
...
4. Non può essere accolto neppure l'ultimo motivo.
Il ricorrente sostiene che la sentenza impugnata non abbia motivato sul perché l'agire dell'imputato non fosse stato sorretto dalla finalità di perseguire il buon andamento dell'ente.
Va ribadito al riguardo che
la prova del dolo intenzionale del delitto di abuso d'ufficio deve essere ricavata da elementi ulteriori rispetto al comportamento non iure osservato dall'agente, che evidenzino la effettiva ratio ispiratrice del comportamento dell'agente, senza che al riguardo possa rilevare la compresenza di una finalità pubblicistica, salvo che il perseguimento del pubblico interesse costituisca l'obiettivo principale dell'agente (Sez. 2, n. 23019 del 05/05/2015, Adamo, Rv. 264280).
Si è anche condivisibilmente affermato che
il dolo intenzionale non è escluso per il solo fatto del perseguimento da parte del pubblico agente di una finalità pubblica, laddove la stessa rappresenti una mera occasione della condotta illecita, posta in essere invece al preciso scopo di perseguire, in via immediata, un danno ingiusto ad altri o un vantaggio patrimoniale ingiusto per sé o per altri (Sez. 3, n. 10810 del 17/01/2014, Altieri, Rv. 258893).
Fatte queste premesse, appaiono quindi non dirimenti le osservazioni difensive.
Per il resto, le critiche sulle carenze motivazionali in ordine all'elemento soggettivo si rivelano parimenti infondate.
La sentenza impugnata ha sufficientemente dimostrato come l'imputato avesse perseguito come obiettivo primario del suo operato (evento tipico) quello di danneggiare la persona offesa per ritorsione e vendetta personale, traendo elementi dimostrativi dalla modalità della condotta, che si era estrinsecata in punteggi così ingiustificatamente negativi (come il punteggio per i rapporti con il dirigente pari a uno) da rivelare le reali intenzioni dell'imputato.
A tal riguardo va richiamato l'insegnamento, secondo cui
la prova del dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie criminosa dell'abuso di ufficio, può essere desunta anche da elementi sintomatici come la macroscopica illegittimità dell'atto compiuto (Sez. 6, n. 36179 del 15/04/2014, Dragotta, Rv. 260233; Sez. 3, n. 48475 del 07/11/2013, Scaramazza, Rv. 258290; Sez. 6, n. 49554 del 22/10/2003, Cianflone, Rv. 227205) (Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza 19.05.2016 n. 20974).

IN EVIDENZA

PUBBLICO IMPIEGO: Dipendente pubblico e autorizzazione ad assumere incarichi: sanzioni al G.O..
Spetta al giudice ordinario e non a quello tributario la giurisdizione sulle sanzioni inflitte al pubblico dipendente per mancanza di autorizzazione ad assumere incarichi.
Per la Corte di Cassazione è irrilevante a circostanza che la sanzione venga inflitta da un Ufficio Finanziario, in quanto la natura tributaria o no del rapporto deve essere accertata su un piano meramente oggettivo; la controversia rientra nella giurisdizione del giudice ordinario in tutti i casi in cui non abbia ad oggetto l'esercizio del potere impositivo, sussumibile nello schema potestà - soggezione, bensì un rapporto implicante un accertamento avente valore meramente incidentale.

Con una importante decisione emessa in tema di giurisdizione, le Sezioni Unite della Cassazione hanno affermato il principio per cui rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario e non in quella delle Commissione tributarie le controversie insorte tra la Pubblica Amministrazione ed i pubblici dipendenti riguardanti incarichi retribuiti a questi ultimi senza la previa autorizzazione dell'amministrazione di appartenenza dei dipendenti stessi, a nulla rilevando che per legge all'accertamento delle violazioni e all'irrogazione delle sanzioni provvede il Ministero delle finanze, ciò in quanto la previsione dell'obbligo dell'autorizzazione dell'amministrazione di appartenenza per il conferimento di un incarico retribuito ad un pubblico dipendente inerisce strettamente allo svolgimento del rapporto di pubblico impiego e non è certamente riconducibile ad un rapporto tributario.
Il fatto trae origine dal contenzioso instaurato tra un contribuente e l’Agenzia delle Entrate.
In breve, i fatti.
F.A., quale amministratore di un condominio, proponeva opposizione, dinnanzi al Giudice di pace avverso l'ordinanza ingiunzione emessa dall'Agenzia delle entrate, con la quale veniva irrogata la sanzione di euro 8.236,80, per avere, negli anni 2006 e 2007, conferito un incarico ad un dipendente pubblico senza l'autorizzazione dell'amministrazione di appartenenza.
Il Giudice di pace dichiarava il difetto di giurisdizione del giudice ordinario e l'opponente riassumeva il giudizio dinnanzi alla Commissione tributaria provinciale. Si costituiva l'Agenzia delle entrate deducendo che la giurisdizione spettava al giudice ordinario.
La CTP sollevava regolamento di giurisdizione d'ufficio chiedendo alla Corte di Cassazione di affermare la giurisdizione del giudice ordinario.
Il P.G. concludeva chiedendo che venisse dichiararla la giurisdizione del giudice ordinario.
La Cassazione, a Sezioni Unite, ha accolto la tesi della CTP, affermando un principio già presente nella giurisprudenza della Corte ma che, per la sua importanza, merita qui di essere ribadito.
In particolare, ricordano i Supremi Giudici, la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 2 del d.lgs. n. 546 del 1992 (come sostituita dall'art. 12, comma 2, della legge n. 448 del 2001), nella parte in cui attribuiva alla giurisdizione tributaria le controversie relative a tutte le sanzioni irrogate da uffici finanziari, anche quando conseguenti alla violazione di disposizioni non aventi natura fiscale.
Le Sezioni Unite della Cassazione hanno poi ribadito l'irrilevanza della circostanza che la sanzione venga inflitta da un Ufficio Finanziario, in quanto la natura tributaria o no del rapporto deve essere accertata su un piano meramente oggettivo, chiarendo ulteriormente che rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la controversia, in tutti i casi in cui non abbia ad oggetto l'esercizio del potere impositivo, sussumibile nello schema potestà - soggezione, bensì un rapporto implicante un accertamento avente valore meramente incidentale.
Nella specie, risulta evidente che la disposizione violata, in relazione alla quale è stata emessa l'ordinanza-ingiunzione, è norma afferente alla disciplina del rapporto di pubblico impiego, trattandosi di disposizione (art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001) inserita nel testo comprendente le norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche.
In relazione ai fini che qui rilevano, l'art. 53, comma 9, nel testo ratione temporis (anni 2006 e 2007) applicabile, prevedeva che “Gli enti pubblici economici e i soggetti privati non possono conferire incarichi retribuiti a dipendenti pubblici senza la previa autorizzazione dell'amministrazione di appartenenza dei dipendenti stessi. In caso di inosservanza si applica la disposizione dell'articolo 6, comma 1, del decreto legge 28.03.1997, n. 79, convertito, con modificazioni, dalla legge 28.05.1997, n. 140, e successive modificazioni ed integrazioni. All'accertamento delle violazioni e all'irrogazione delle sanzioni provvede il Ministero delle finanze, avvalendosi della Guardia di finanza, secondo le disposizioni della legge 24.11.1981, n. 689, e successive modificazioni ed integrazioni. Le somme riscosse sono acquisite alle entrate del Ministero delle finanze” (ma, nella sostanza, la formulazione della disposizione non è mutata alla data della proposizione della opposizione).
Orbene, pur se dai commi successivi si evince che la disciplina in questione è finalizzata anche al controllo dei compensi percepiti dai pubblici dipendenti ai fini dell'assoggettamento degli stessi a imposizione, ciò non di meno la previsione dell'obbligo dell'autorizzazione dell'amministrazione di appartenenza per il conferimento di un incarico retribuito ad un pubblico dipendente inerisce strettamente allo svolgimento del rapporto di pubblico impiego e non è certamente riconducibile ad un rapporto tributario.
Da qui, dunque, l’esistenza della giurisdizione del giudice ordinario.
Di rilievo le conseguenze pratiche della sentenza.
Ed invero, secondo l’interpretazione offerta dalla Cassazione, in tema di giurisdizione, rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario e non in quella delle Commissione tributarie le controversie insorte tra la Pubblica Amministrazione ed i pubblici dipendenti riguardanti incarichi retribuiti a questi ultimi senza la previa autorizzazione dell'amministrazione di appartenenza dei dipendenti stessi, a nulla rilevando che per legge all'accertamento delle violazioni e all'irrogazione delle sanzioni provvede il Ministero delle finanze, ciò in quanto la previsione dell'obbligo dell'autorizzazione dell'amministrazione di appartenenza per il conferimento di un incarico retribuito ad un pubblico dipendente inerisce strettamente allo svolgimento del rapporto di pubblico impiego e non è certamente riconducibile ad un rapporto tributario.
Precedenti giurisprudenziali: Non si registrano precedenti in termini (commento tratto da www.ipsoa.it - Corte di Cassazione, Sezz. unite civili, ordinanza 08.06.2016 n. 11709).

ARAN

PUBBLICO IMPIEGOAlle posizioni organizzative niente soldi per il lavoro in più. Aran. Va garantito l’orario minimo delle 36 ore settimanali.
I titolari di posizione organizzativa sono tenuti a garantire che la loro prestazione settimanale non sia inferiore a 36 ore, al pari di tutti i dipendenti. Nel caso in cui questa soglia minima non venga garantita, l’ente deve chiedere lo svolgimento di prestazioni aggiuntive compensative o, in caso di mancata realizzazione, il recupero delle somme illegittimamente erogate, facendo in questo caso riferimento alla retribuzione individuale mensile.

Sono queste le indicazioni dettate dall’Aran in risposta a una serie di quesiti.
Il primo elemento da sottolineare è che le posizioni organizzative sono tenute a garantire la prestazione oraria minima settimanale prevista dal contratto collettivo nazionale di lavoro del 01.04.1999, cioè 36 ore settimanali. A differenza degli altri dipendenti, le loro prestazioni aggiuntive non danno luogo ad alcuna remunerazione, neppure nella forma del recupero compensativo. Fanno eccezione a questa disposizione solamente le attività svolte come straordinario elettorale rimborsato da altre amministrazioni e quello svolto durante calamità naturali. Essi hanno cioè una condizione intermedia tra i dipendenti (che devono svolgere almeno 36 ore settimanali e il cui surplus orario considerato come lavoro straordinario) e i dirigenti (che non hanno un vincolo orario).
L’Aran detta un insieme di indicazioni che sono analoghe a quelle previste per il resto del personale dipendente in caso di mancato rispetto di questo vincolo. Quando si sia accumulata una differenza negativa è necessario che l’ente provveda rapidamente. La prima strada è quella della proposta di un piano di recupero entro cui concretizzare l’azzeramento del debito orario. Nel caso in cui questa soluzione non sia possibile, oppure nel caso in cui il dipendente si opponga, l’amministrazione deve dare corso al recupero del trattamento economico accessorio che è stato illegittimamente erogato.
Con un altro parere l’Aran detta le modalità attraverso le quali effettuare il recupero. In particolare, chiarisce che occorre utilizzare la retribuzione individuale mensile. Alla base della scelta c’è la constatazione che questa è la forma di retribuzione da assumere come base in caso di trattenute per scioperi brevi.
Va ricordato che questa è composta dalle seguenti voci: posizione iniziale di accesso di ogni categoria (quindi anche B3 e D3) comprensiva della indennità integrativa speciale conglobata, incrementi economici derivanti dalle progressioni economiche conseguite, assegni personali non riassorbibili e riassorbibili, retribuzione individuale di anzianità, retribuzione di posizione ed altri eventuali assegni ad personam, siano essi riassorbibili o meno. In questa voce non sono cioè compresi né la indennità di comparto né le varie forme di salario accessorio variabile, ivi compresa la indennità di risultato.
Le amministrazioni sono infine chiamate a valutare se sia necessario dare corso a un procedimento disciplinare. Questa riflessione deve condurre all’avvio dello stesso in caso di accumulo di debito orario in modo non occasionale e/o per un periodo di tempo prolungato e/o non adeguatamente giustificato
(articolo Il Sole 24 Ore del 23.05.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

UTILITA'

SICUREZZA LAVORO: Il D.Lgs. 09.04.2008 n. 81 -noto come Testo Unico in materia di salute e sicurezza sul lavoro- coordinato con il Decreto Legislativo 03.08.2009 n. 106 e con i successivi ulteriori decreti integrativi e correttivi (aggiornato nell'edizione giugno 2016 - tratto da www.lavoro.gov.it).

APPALTIInfografica: il direttore dei lavori secondo il nuovo Codice appalti in 11 step.
Infografica direttore dei lavori in 11 step: ecco tutte le attività del dl, sia in fase preliminare che esecutiva secondo il nuovo Codice appalti (09.06.2016 - link a www.acca.it).

APPALTIInfografica “I compiti del Rup secondo il nuovo Codice appalti in 8 step!.
Compiti del Rup, verifiche e controlli durante l’esecuzione secondo il nuovo Codice appalti. Ecco tutto quello che occorre sapere nell’infografica in 8 step (26.05.2016 - link a www.acca.it).

APPALTIInfografica PDF con i soggetti delle stazioni appaltanti secondo il nuovo Codice appalti.
Infografica PDF con i soggetti delle stazioni appaltanti: Rup, direttore dei lavori, direttore dell’esecuzione, collaudatore, coordinatore della sicurezza e verificatore della conformità. Chi sono e cosa fanno (19.05.2016 - link a www.acca.it).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO: Controllo di regolarità amministrativa e contabile su documenti amministrativi informatici - regole tecniche previste dal DPCM 13.11.2014 (MEF-RGS, circolare 09.06.2016 n. 17).

A.N.AC. (già AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI)

APPALTIUlteriori Linee guida attuative del nuovo Codice dei Contratti Pubblici. Consultazioni on-line del 10.06.2016 – Invio contributi entro il 27.06.2016.
Gli artt. 80, comma 5, lett. c), 83, comma 10, 177, comma 3 e 181, comma 4, del d.lgs. 50/2016 prevedono l’adozione, da parte dell’ANAC, di atti a carattere generale finalizzati a dare attuazione alle disposizioni del Codice e/o ad offrire indicazioni operative e interpretative agli operatori del settore (stazioni appaltanti, imprese esecutrici, organismi di attestazione) nell’ottica di perseguire gli obiettivi di semplificazione e standardizzazione delle procedure, trasparenza ed efficienza dell’azione amministrativa, apertura della concorrenza, garanzia dell’affidabilità degli esecutori, riduzione del contenzioso.
Sulla base delle citate previsioni e considerate le disposizioni transitorie di cui agli artt. 216 e 217 del Codice, l’Autorità, dopo la pubblicazione dei primi documenti di consultazione finalizzati all’emanazione delle Linee guida attuative del Codice dei Contratti pubblici, intende sottoporre a consultazione, ai sensi del Regolamento dell’08/04/2015 recante la disciplina della partecipazione ai procedimenti di regolazione e del Regolamento del 27/11/2013 recante la disciplina dell’analisi di impatto della regolamentazione (AIR) e della verifica dell’impatto della regolamentazione (VIR), ulteriori documenti prodromici alla predisposizione degli atti di propria competenza.
Si tratta di:
1. Linee guida per l'indicazione dei mezzi di prova adeguati e delle carenze nell'esecuzione di un precedente contratto di appalto che possano considerarsi significative per la dimostrazione delle circostanze di esclusione di cui all'art. 80, comma 5, lett. c) del Codice;
2. Criteri reputazionali per la qualificazione delle imprese;
3. Linee guida sui sistemi di monitoraggio delle amministrazioni aggiudicatrici sull'attività dell'operatore economico nei contratti di partenariato pubblico privato.
Si evidenzia che, attesi i tempi ristretti per l’approvazione degli atti definitivi, è concesso un termine ridotto per la presentazione dei contributi, pari a quindici giorni dalla pubblicazione del documento. Pertanto, il termine per la presentazione delle osservazioni è fissato alle ore 12 del 27.06.2016, mediante compilazione dell’apposito modello.
Attraverso la consultazione, l’Autorità intende acquisire il punto di vista dei soggetti interessati su tutti gli argomenti indicati nei documenti presentati. Si chiede, pertanto, di inviare osservazioni sulle proposte ivi contenute, indicare ulteriori elementi che si ritiene opportuno approfondire nelle linee guida e proporre integrazioni su specifici aspetti (link a www.anticorruzione.it).

APPALTIOggetto: Questioni interpretative relative all’applicazione delle disposizioni del d.lgs. 50/2016 nel periodo transitorio (comunicato del Presidente 08.06.2016 - link a www.anticorruzione.it).

APPALTI SERVIZI: Linee guida operative e clausole contrattuali-tipo per l’affidamento di servizi assicurativi (deliberazione 08.06.2016 n. 618 - link a www.anticorruzione.it).

APPALTI: Oggetto: Procedimenti per l’iscrizione nel casellario informatico di cui all’art. 80, comma 5, lett. g), del d.lgs. n. 50/2016 (comunicato del Presidente 31.05.2016 - link a www.anticorruzione.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 24 del 14.06.2016, "Approvazione delle disposizioni attuative per l’adesione alla deroga concessa dalla commissione europea ai sensi della direttiva 91/676/CEE del Consiglio relativa alla protezione delle acque dall’inquinamento provocato dai nitrati provenienti da fonti agricole, nel periodo 2016-2019" (decreto D.U.O. 10.06.2016 n. 5403).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 23 del 10.06.2016, "Prescrizioni integrative tipo per le autorizzazioni all’utilizzo, a beneficio dell’agricoltura, dei fanghi di depurazione delle acque reflue di impianti civili ed industriali" (deliberazione G.R. 06.06.2016 n. 5269).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U. 08.06.2016 n. 132 "Revisione e semplificazione delle disposizioni in materia di prevenzione della corruzione, pubblicità e trasparenza, correttivo della legge 06.11.2012, n. 190 e del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, ai sensi dell’articolo 7 della legge 07.08.2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche" (D.Lgs. 25.05.2016 n. 97).

AMBIENTE-ECOLOGIA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 23 dell'08.06.2016, "Linee guida per il riutilizzo e la riqualificazione urbanistica delle aree contaminate (art. 21-bis, l.r. 26/2003 - Incentivi per la bonifica di siti contaminati)" (deliberazione G.R. 31.05.2016 n. 5248).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 23 del 07.06.2016, "Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale 21.01.2000, n. 1, dei nominativi e degli estremi dei provvedimenti di riconoscimento di tecnico competente in acustica ambientale alla data del 31.05.2016, in attuazione dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato regionale 01.06.2016 n. 95).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: G.U. 07.06.2016 n. 131 "Incremento progressivo dell’applicazione dei criteri minimi ambientali negli appalti pubblici per determinate categorie di servizi e forniture" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto 24.05.2016).

INCARICHI PROGETTUALI: G.U. 07.06.2016 n. 131 "Determinazione dei punteggi premianti per l’affidamento di servizi di progettazione e lavori per la nuova costruzione, ristrutturazione e manutenzione degli edifici e per la gestione dei cantieri della pubblica amministrazione, e dei punteggi premianti per le forniture di articoli di arredo urbano" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto 24.05.2016).

VARI: G.U. 04.06.2016 n. 129 "Regolamento recante attuazione dell’articolo 1, comma 154, della legge 28.12.2015, n. 208 (Canone Rai in bolletta)" (Ministero dello Sviluppo Economico, decreto 13.05.2016 n. 94).

EDILIZIA PRIVATA - VARI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 22 del 31.05.2016, "Approvazione del bando per la diffusione dei punti di ricarica privata per autoveicoli elettrici in attuazione della d.g.r. n. 4769 del 28.01.2016" (decreto D.U.O. 20.05.2016 n. 4486).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 22 del 30.05.2016, "Legge di semplificazione 2016" (L.R. 26.05.2016 n. 14).
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La legge regionale n. 14 del 26.05.2016 ("Legge di semplificazione 2016"), pubblicata sul BURL n. 22, Supplemento, del 30.05.2016, all'art. 13 introduce alcune modifiche alla Legge per il governo del territorio.
Le integrazioni o modifiche più significative, con l'indicazione dei corrispondenti articoli della l.r. n. 12 del 2005, sono:
obbligo di utilizzo del database topografico (DBT), utile per uniformare le basi geografiche di riferimento del territorio regionale (art. 3)
eliminazione dei 15 mila abitanti per l'adozione e l'approvazione dei piani attuativi conformi da parte della Giunta comunale (art. 14)
previsione del permesso di costruire convenzionato come modalità di intervento, comunque opzionale, in alternativa al piano attuativo all’interno del tessuto urbano consolidato (art. 14, nuovo comma 1-bis)
nuove modalità snelle di adeguamento del Piano Territoriale Regionale (PTR) e di aggiornamento dei Piani Territoriali Regionali d'Area nel caso di modifiche derivanti da avanzamenti progettuali (art. 22)
pubblicazione finale dei PGT approvati dai Commissari ad acta, e connessa efficacia, disposta d’ufficio dalla Giunta regionale, se questa non è già intervenuta (art. 25-bis)
nuova disciplina dello Sportello unico telematico per l'edilizia, nella prospettiva dell’interoperabilità, valorizzando la modulistica edilizia unificata e standardizzata (art. 32)
precisazioni normative in merito alla disciplina delle autorizzazioni paesaggistiche, già revisionata con la precedente Legge di semplificazione 2015 (art. 80) (commento tratto da www.territorio.regione.lombardia.it).

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: G.U. 25.05.2016 n. 121 "Prescrizioni per l’attuazione, con scadenze differenziate, delle vigenti normative in materia di prevenzione degli incendi per l’edilizia scolastica" (Ministero dell'Interno, decreto 12.05.2016).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

PUBBLICO IMPIEGO: Licenziamenti nel pubblico impiego: inapplicabile la legge Fornero (10.06.2016 - tratto da www.ipsoa.it).

APPALTI: UE: online il servizio web per la compilazione del Documento di gara unico europeo (DGUE). Il modulo on-line può essere compilato, stampato e poi inoltrato all'acquirente con le altre parti dell'offerta.
La Commissione europea ha attivato un servizio web a disposizione degli acquirenti, degli offerenti e di altre parti interessate a compilare il Documento di gara unico europeo (D.G.U.E.) elettronicamente.
Il Documento di gara unico europeo è un'autodichiarazione dell'impresa sulla propria situazione finanziaria, sulle proprie capacità e sulla propria idoneità per una procedura di appalto pubblico. È disponibile in tutte le lingue dell'UE e si usa per indicare in via preliminare il soddisfacimento delle condizioni prescritte nelle procedure di appalto pubblico nell'UE.
Grazie al DGUE gli offerenti non devono più fornire piene prove documentali e ricorrere ai diversi moduli precedentemente in uso negli appalti UE, il che costituisce una notevole semplificazione dell'accesso agli appalti transfrontalieri.
A partire da ottobre 2018 il DGUE è fornito esclusivamente in forma elettronica. (...continua) (07.06.2016 - link a www.casaeclima.com).

APPALTI: G. Severini, Il nuovo contenzioso sui contratti pubblici (l’art. 204 del Codice degli appalti pubblici e delle concessioni, ovvero il nuovo art. 120 del Codice del processo amministrativo) (03.06.2016 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: CONTO TERMICO 2.0 - DECRETO MINISTERIALE 16.02.2016 - EFFICIENTAMENTO E PRODUZIONE DI ENERGIA NUOVE MISURE DI INCENTIVAZIONE (maggio 2016 - Grimaldi Studio Legale).

EDILIZIA PRIVATA: R. Fattibene, L’evoluzione del concetto di paesaggio tra norme e giurisprudenza costituzionale: dalla cristallizzazione all’identità (18.05.2016 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario:
1. Dalla cristallizzazione del bello al paesaggio dinamico; 2. La primarietà del valore estetico-culturale; 3. Unitarietà della tutela ambientale e paesaggistica; 4. La valenza estetico-identitaria del paesaggio.

APPALTI: M. Lipari, La tutela giurisdizionale e “precontenziosa” nel nuovo Codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 50/2016) (11.05.2016 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario:
I. Il quadro sistematico delle novità. 1.
Il nuovo contenzioso in materia di contratti pubblici. Dalle direttive al codice, attraverso la legge delega n. 11/2016. 2. Il contenzioso nelle tre direttive del 2014. la salvezza delle procedure di ricorso di cui alla direttiva n. 865/665/cee. La tutela dell’interesse legittimo del contribuente al corretto svolgimento della procedura. 3. I criteri della legge delega: rimedi alternativi alla tutela giurisdizionale; razionalizzazione del processo di cui all’art. 120 CPA; nuovo rito speciale in materia di ammissioni ed esclusioni, tutela cautelare subordinata all’interesse generale. 4. L’ambito temporale di applicazione della nuova disciplina e il regime transitorio "graduale" riferito alle sole procedure avviate a partire dal 20.04.2016.
II. Le modifiche dell’art. 120 cpa. 5. Le correzioni dell’art. 120 CPA a portata generale. 6. I cambiamenti dell’art. 120 CPA escpunti dal testo finale. 7. La nuova tutela cautelare dell’art. 120 e le esigenze imperative connesse a un interesse generale all'esecuzione del contratto. 8. La nuova disciplina applicabile al giudizio di appello e alle altre impugnazioni nel rito di cui all’art. 120. 9. I limiti al ricorso cumulativo e la suddivisione in lotti.
III: Il rito "superspeciale" sulle ammissioni ed esclusioni. 10. Le "specialissime" regole processuali previsto in materia di esclusioni e di ammissioni. Un nuovo e autonomo rito speciale? 11. Le finalità generali del nuovo rito "superspeciale". 12. La durata variabile delle diverse fasi di ammissione e selezione delle offerte. 13. La complessità e varietà "qualitativa" del contenzioso relativo alle ammissioni e alle esclusioni. 14. I ricorsi contro le ammissioni degli altri operatori partecipanti alla procedura. Legittimità della procedura e oneri gravanti sui soggetti interessati. 15. Luci ed ombre della nuova disciplina. Il confronto con il rito elettorale in materia di esclusioni e di atti preparatori (art. 129 CPA). 16. L’ambito oggettivo applicativo del rito specialissimo. criticità. L’impugnazione del "Provvedimento" unitario riguardante le esclusioni e le ammissioni dei concorrenti. 17. Il rito superspeciale e la fase preliminare di verifica formale delle offerte, anteriore alla valutazione dei requisiti dei concorrenti. 18. Le esclusioni e le ammissioni nelle fasi successive alla verifica dei requisiti di partecipazione. 19. L’impugnazione degli atti successivi di autotutela incidenti sulle esclusioni e sulle ammissioni. 20. La decorrenza del termine di impugnazione nel giudizio "specialissimo" sulle ammissioni. Il nuovo regime generale delle comunicazioni, la soppressione dell’accesso informale e la disciplina peculiare per il "provvedimento che determina le ammissioni e le esclusioni". 21. L’impugnazione dell’aggiudicazione per illegittimità derivata dai vizi del provvedimento di ammissione e di esclusione e il contributo unificato. 22. Il rito specialissimo secondo la disciplina di cui al comma 6-bis. Un processo "superspeciale" di terzo grado? 23. Il giudizio in camera di consiglio: una scelta opinabile. 24. I motivi aggiunti per l’impugnazione di nuovi provvedimenti connessi all’atto di esclusione. 25. Lo svolgimento del giudizio. La comunicazione della data di udienza gli ulteriori termini interni per le attività delle parti. Il differimento (eccezionale) della camera di consiglio o dell’udienza. 26. Il ricorso incidentale nel giudizio "specialissimo": ambito e regole. 27. L’impugnazione cumulativa del provvedimento di ammissione-esclusione e di altri atti di gara: ammissibilità e rito applicabile. 28. La tutela cautelare nel giudizio "acceleratissimo" di cui al comma 2-bis. 29. L’assenza di una disciplina specifica sullo stand still. la proposizione del ricorso e il possibile sviluppo del procedimento sostanziale di affidamento. 30. La pubblicazione del dispositivo e il deposito della sentenza. 31. Il giudizio di appello e le altre impugnazioni.
IV. Il nuovo sistema del precontenzioso dinanzi all’ANAC e la successiva tutela giurisdizionale. 32. L’impugnazione dei pareri di precontenzioso e delle raccomandazioni dell’ANAC (art. 211 del d.lgs. n. 50/2016). 33. La portata del rinvio all’art. 120: termini della notificazione del ricorso e decorrenza. Ulteriori criticità dei pareri di precontenzioso e delle raccomandazioni vincolanti dell’anac. 34. È possibile impugnare la determinazione "negativa", con cui l’anac esclude la sussistenza di vizi della procedura? 35. Il problema della tutela precontenziosa dei cittadini titolari di un "interesse legittimo in qualità di contribuenti a un corretto svolgimento delle procedure di appalto". Un dovere di pronuncia dell’anac? La legittimazione all’esposto degli operatori economici decaduti dal potere di proporre ricorso.

EDILIZIA PRIVATA: L. di Giovanni, Valutazione tecnica e potere discrezionale nella tutela del paesaggio (Giornale di diritto amministrativo 1/2016).

PUBBLICO IMPIEGO: S. La Fauci, Enti locali: il responsabile del servizio finanziario, titolare del fondamentale interesse pubblico di tutela della gestione finanziaria, anche ... attraverso lo strumento ricorsuale (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 1/2016).
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Per finalità di tutela della gestione finanziaria, le deliberazioni che incidano su di essa possono essere impugnate o da singoli consiglieri o anche, in base all’art. 153 del d.lgs. n. 267/2000, dal Responsabile del servizio finanziario, in rappresentanza dell’ente locale. Si tratta di un’importante norma che costituisce una naturale, logica e necessitata eccezione rispetto alla generale regola della titolarità della legittimazione a ricorrere.
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SOMMARIO: 1. Premessa - 2. La portata applicativa dell’art. 153 del d.lgs. 267/2000 - 3. Coordinamento tra artt. 153 e 107 del d.lgs. 267/2000 - 4. Ambiti di riferimento di eventuali azioni ricorsuali - 5. Autonomia degli ambiti di rappresentanza - 6. Correlazioni con la legge 20/1994.

CORTE DEI CONTI

INCENTIVO PROGETTAZIONEGli incentivi previsti e disciplinati dai commi 7-bis e 7-ter e 7-quater del d.lgs. n. 163 del 12.04.2016 possono essere riconosciuti ed erogati in favore delle figure professionali interne esplicitamente individuate dalla norma che svolgano le attività tecniche ivi previste, anche in presenza di progettazione affidata non integralmente a soggetti estranei ai ruoli della stazione appaltante e dagli stessi realizzata.
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Il Sindaco del Comune di Gallio (VI) ha presentato richiesta di parere ai sensi dell’art. 7, comma 8, della legge 05.06.2003, n. 131, formulando il seguente quesito: “In sede di revisione ed aggiornamento del regolamento comunale per la erogazione degli incentivi connessi al Fondo per la progettazione e l’innovazione disciplinato all’art. 93 del D.Lgs. n. 163/2006, come modificato dall’art. 13-bis della L. n. 114/2014, è emerso il dubbio circa la possibilità di erogare tali incentivi anche in presenza di progettazione affidata all’esterno. Ciò in quanto non sembra sussistere univocità di interpretazione tra le varie sezioni dei magistrati contabili laddove la Corte dei Conti Piemonte, nella propria deliberazione n. 434/2013/SRCPIE/PAR del 19.12.2013 appare chiaramente condizionare l’erogazione degli incentivi in parola esclusivamente in presenza di progettazione interna, mentre la Sezione della Lombardia nel parere n. 236/2015 del 20.07.2015 evidenzia la legittimità di erogazione anche nel caso in cui la progettazione sia stata affidata all’esterno”.
...
Il quesito formulato dal Sindaco del Comune di Gallio, inoltre, può essere considerato sufficientemente generale ed astratto.
Lo stesso, come si dà atto nella stessa richiesta di parere, era stato già affrontato da altre Sezioni regionali di controllo e risolto in maniera contrastante.
In particolare, in merito si erano espresse la Sezione regionale di controllo per il Piemonte (parere 19.12.2013 n. 434  e quella per la Lombardia (parere 20.07.2015 n. 236 nonché
parere 01.10.2014 n. 247 e parere 28.10.2015 n. 351), con tesi discordanti: secondo la prima, la norma (allora l’art. 92, comma 5, del D.lgs. n. 163/2006, successivamente abrogata dall’art. 13-bis del D.L. n. 90/2014, conv. dalla L. n. 114/2014 e sostituita, senza modifiche sostanziali, dal comma 7-ter dell’art. 93, sempre del D.lgs. n. 163/2006) avrebbe ancorato il riconoscimento del diritto ad ottenere l’incentivo alla circostanza che la redazione dell’atto di progettazione fosse avvenuta all’interno dell’ente, escludendo, per converso, il diritto al compenso in capo ai dipendenti dell’ufficio tecnico nel caso di affidamento all’esterno di tale redazione; secondo la Sezione Lombardia, invece, anche a seguito della modifica legislativa prima richiamata, sarebbe rimasto il potere dell’amministrazione di disporre un riconoscimento economico in favore del personale interno concernente la fase della gestione degli appalti di opere anche nel caso di “esternalizzazione” dell’attività di progettazione.
Ad avviso di questa Sezione, l’interpretazione più corretta sarebbe quella offerta dalla Sezione Lombardia, fondata sull’analisi della “nuova” disposizione introdotta dal D.L. n. 90/2014 –ossia del comma 7-ter dell’art. 93 del D.lgs. n. 163/2006– la quale, in deroga al principio di onnicomprensività della retribuzione, vigente nel pubblico impiego, in continuità con il previgente comma 5 dell’art. 92, attribuirebbe un compenso ulteriore e speciale a soggetti tassativamente individuati (responsabile del procedimento, incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo e loro collaboratori), subordinando, al pari della precedente, la corresponsione del suddetto compenso, disposta dal dirigente o dal responsabile di servizio preposto alla struttura competente, al “previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti”, prevedendone, in caso contrario (accertamento negativo) la devoluzione in economia.
Presupposto indefettibile ai fini della erogazione dell’incentivo in esame risulterebbe, quindi, l’effettivo espletamento, in tutto o in parte, di una o più attività afferenti alla gestione degli appalti pubblici e non anche il necessario svolgimento, all’interno dell’ente, dell’attività di progettazione, con conseguente legittimità del riconoscimento dell’emolumento anche in ipotesi di affidamento della progettazione all’esterno (purché si remuneri solo l’attività di supporto a quest’ultima, ove effettivamente svolta dai dipendenti dell’ente).
In tal senso, peraltro, questa Sezione si era già espressa in precedenti pronunciamenti.
Comunque, essendo emerso un contrasto sulla interpretazione della norma, in ossequio all’art. 6, comma 4, del D.L. n. 174 del 10.10.2012, conv. dalla L. n. 213 del 07.12.2012, con deliberazione 04.03.2016 n. 123, questa Sezione ha rimesso gli atti al Presidente della Corte dei conti, per le sue valutazioni in ordine al deferimento della seguente questione di massima: “
Se gli incentivi previsti e disciplinati dai commi 7-bis, 7-ter e 7-quater del D.l.gs. n. 163 del 12.04.2006 possano essere riconosciuti ed erogati al personale indicato dal comma 7-ter anche nel caso di progettazione affidata e realizzata da soggetti esterni alla stazione appaltante”.
Con nota del 26.04.2016, n. 1952, il Presidente della Corte ha disposto la convocazione della Sezione delle autonomie, la quale, con deliberazione 13.05.2016 n. 18 ha pronunciato il seguente principio di diritto: ”
Gli incentivi previsti e disciplinati dai commi 7-bis e 7-ter e 7-quater del d.lgs. n. 163 del 12.04.2016 possono essere riconosciuti ed erogati in favore delle figure professionali interne esplicitamente individuate dalla norma che svolgano le attività tecniche ivi previste, anche in presenza di progettazione affidata non integralmente a soggetti estranei ai ruoli della stazione appaltante e dagli stessi realizzata”.
Alla luce del principio affermato dalla Sezione delle Autonomie, al quale questa Sezione è tenuta a conformarsi, deve darsi risposta positiva alla richiesta di parere formulata dal Comune di Gallio (Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto, parere 08.06.2016 n. 311).

INCENTIVO PROGETTAZIONEIl riconoscimento dell’incentivo alla progettazione di cui all’art. 93 comma 7-ter del d.lgs. n. 163/2006 in favore del responsabile unico del procedimento non presuppone necessariamente che l’intera attività di progettazione sia svolta all’interno dell’ente.
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La nozione di “collaboratori” di cui al comma 7-ter dell’art. 93 del d.lgs. n. 163/2006 fa riferimento alle professionalità –di norma tecniche- all’uopo individuate in sede di costituzione dell’apposito staff, le quali devono porsi in stretta correlazione funzionale e teleologica rispetto alle attività da compiere per la realizzazione dell’opera a regola d’arte e nei termini preventivati.
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Con nota del 28.10.2015, pervenuta a questa Sezione l’01.12.2015 per il tramite del CAL, il Presidente della Provincia di Teramo ha trasmesso una richiesta di parere concernente la corretta interpretazione delle norme in tema di incentivi alla progettazione di cui all’art. 93 del Decreto legislativo n. 163/2006.
Più precisamente, l’ente, in sede di predisposizione del regolamento richiesto dalla norma per disciplinare le modalità di erogazione degli incentivi, ravvisa la necessità di un intervento interpretativo di questa Corte sui seguenti due quesiti, tra loro strettamente connessi:
   1) la possibilità di riconoscere l’incentivo in favore del Responsabile unico del procedimento, anche nell’ipotesi in cui tutte le attività che la legge individua come incentivabili, sia di progettazione sia di direzione dei lavori, sia di collaudo, siano state svolte all’esterno dell’Ente da professionisti all’uopo incaricati;
   2) se la nozione di “collaboratori” di cui al comma 7-ter dell’art. 93 del d.lgs. n. 163/2006 faccia riferimento solamente ai collaboratori con professionalità tecnica (componenti lo staff tecnico delle specifiche figure professionali richiamate dall’art. 93 citato, per lo svolgimento delle attività ivi indicate) ovvero possa essere estesa anche al personale addetto alle altre attività amministrative connesse comunque alla realizzazione dei lavori, quali: le procedure di espropriazione, di accatastamento e frazionamento, procedure di appalto dei lavori, predisposizione dei contratti di appalto, stesura degli atti di gara e provvedimenti amministrativi afferenti ai lavori.
...
La questione in esame concerne la disciplina degli incentivi alla progettazione di cui all’art. 93 del Decreto legislativo n. 163/2006, su cui si è andata formando nel tempo una copiosa giurisprudenza della Corte dei conti in funzione consultiva, sia in sede regionale sia in sede centrale nomofilattica.
La normativa di riferimento, al momento della formulazione del quesito e quindi precedentemente all’entrata in vigore del nuovo Codice dei contratti pubblici, approvato con decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, in attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26.02.2014, era rappresentata dai commi 7-bis e ter dell’art. 93 del D.Lgs. n. 163/2006 i quali recitavano: “A valere sugli stanziamenti di cui al comma 7, le amministrazioni pubbliche destinano ad un fondo per la progettazione e l'innovazione risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento degli importi posti a base di gara di un'opera o di un lavoro; la percentuale effettiva è stabilita da un regolamento adottato dall'amministrazione, in rapporto all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare.
L'80 per cento delle risorse finanziarie del fondo per la progettazione e l'innovazione è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale e adottati nel regolamento di cui al comma 7-bis, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori; gli importi sono comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione. Il regolamento definisce i criteri di riparto delle risorse del fondo, tenendo conto delle responsabilità connesse alle specifiche prestazioni da svolgere, con particolare riferimento a quelle effettivamente assunte e non rientranti nella qualifica funzionale ricoperta, della complessità delle opere, escludendo le attività manutentive, e dell'effettivo rispetto, in fase di realizzazione dell'opera, dei tempi e dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo. Il regolamento stabilisce altresì i criteri e le modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro a fronte di eventuali incrementi dei tempi o dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo, redatto nel rispetto dell'articolo 16 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 05.10.2010, n. 207, depurato del ribasso d'asta offerto. Ai fini dell'applicazione del terzo periodo del presente comma, non sono computati nel termine di esecuzione dei lavori i tempi conseguenti a sospensioni per accadimenti elencati all'articolo 132, comma 1, lettere a), b), c) e d). La corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente o dal responsabile di servizio preposto alla struttura competente, previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti. Gli incentivi complessivamente corrisposti nel corso dell'anno al singolo dipendente, anche da diverse amministrazioni, non possono superare l'importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo. Le quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento, costituiscono economie. Il presente comma non si applica al personale con qualifica dirigenziale.
La ratio della norma, come precisato dalle SS.RR. in sede di controllo (deliberazione n. 51 del 2011), era quella di destinare una quota di risorse pubbliche “a incentivare prestazioni poste in essere per la progettazione di opere pubbliche, in quanto in tal caso si tratta all’evidenza di risorse correlate allo svolgimento di prestazioni professionali specialistiche offerte da personale qualificato in servizio presso l’amministrazione pubblica; peraltro, laddove le amministrazioni pubbliche non disponessero di personale interno qualificato, dovrebbero ricorrere al mercato attraverso il ricorso a professionisti esterni con possibili aggravi di costi per il bilancio dell’ente interessato
”.
In linea con i principi di efficienza ed economicità, il legislatore mostrava un favor per l’affidamento a professionalità interne alle amministrazioni aggiudicatrici di incarichi consistenti in prestazioni d’opera professionale, consentendo il riconoscimento agli Uffici tecnici delle amministrazioni aggiudicatrici un compenso ulteriore e speciale, in deroga ai due principi cardine del pubblico impiego: di onnicomprensività della retribuzione e di definizione contrattuale delle componenti economiche, sanciti, rispettivamente, dall’art. 24, comma 3, e dal successivo art. 45, comma 1, del d.lgs. 30.03.2001, n. 165 (cfr. Sezione delle Autonomie
deliberazione 15.04.2014 n. 7).
Come si evinceva dal richiamato testo novellato, la legge individuava alcune regole generali per la ripartizione dell’incentivo in discorso, rimettendone la disciplina concreta (“modalità e criteri”) ad un atto regolamentare interno alla singola amministrazione, assunto previa contrattazione decentrata.
Su alcuni punti fermi che il regolamento interno doveva rispettare si registrava una generale uniformità di lettura da parte delle Sezioni regionali di controllo, che di seguito si richiamano:
- erogazione ai soli dipendenti espletanti gli incarichi tassativamente indicati dalla norma (responsabile del procedimento, incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, e loro collaboratori), riferiti agli appalti di lavori (non, pertanto, negli appalti di fornitura di beni o di servizi);
- puntuale ripartizione del fondo incentivante tra gli incarichi attribuibili (responsabile del procedimento, progettista, responsabili della sicurezza, direttore dei lavori, collaudatori, nonché loro collaboratori), secondo percentuali rimesse alla discrezionalità dell’amministrazione, da mantenere, tuttavia, entro i binari della logicità, congruenza e ragionevolezza (cfr. Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici,
deliberazione 13.12.2007 n. 315, deliberazione 22.06.2005 n. 70, deliberazione 19.05.2004 n. 97-bis);
- devoluzione in economia delle quote del fondo incentivante corrispondenti a prestazioni non svolte dai dipendenti, ma affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione. Obbligo che impone di prevedere analiticamente nel regolamento interno la graduazione delle percentuali spettanti per ogni incarico espletabile dal personale, in maniera tale da permettere, nel caso in cui alcune prestazioni siano affidate a professionisti esterni, la predetta devoluzione (si rinvia all’Autorità di vigilanza,
deliberazione 13.12.2007 n. 315, deliberazione 08.04.2009 n. 35, deliberazione 07.05.2008 n. 18 e deliberazione 02.05.2001 n. 150);
- devoluzione in economia delle quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni, anche se svolte da dipendenti interni, prive dell’accertamento di esecuzione dell’opera in conformità ai tempi ed ai costi prestabiliti (novità discendente dal predetto art. 93, comma 7-ter, per gli incarichi attribuiti dopo l’entrata in vigore della legge di conversione n. 114/2014).
Diversamente, si rilevavano contrasti interpretativi in relazione ad entrambi i quesiti formulati dalla Provincia di Teramo.
Quesito n. 1
In merito alla possibilità di riconoscere l’incentivo in favore del Responsabile unico del procedimento, anche nell’ipotesi in cui tutte le attività che la legge individuava come incentivabili (di progettazione, di direzione dei lavori e di collaudo) fossero state svolte all’esterno dell’Ente da professionisti all’uopo incaricati, una prima linea di lettura appare incline a fornire risposta positiva; tale orientamento, in sintesi, poggia sull’assunto che l’incentivo economico sia finalizzato a remunerare le figure professionali elencate nella norma, inclusa quella del Responsabile del procedimento, purché ricoperte da personale interno all’amministrazione e operanti nell’ambito di procedimenti volti alla realizzazione di opere pubbliche e lavori.
In tal senso può essere richiamata la deliberazione della Sezione di controllo per la Liguria (cfr. parere 18.04.2013 n. 18) secondo la quale “La soluzione del quesito proposto presuppone la preventiva analisi del ruolo assolto dal Responsabile unico del procedimento, il quale svolge una funzione pregnante all’interno del medesimo, gestendone le varie fasi, assicurando il contraddittorio con le parti private e il coordinamento con gli uffici interni. Tali compiti assumono particolare rilevanza nell’ambito delle procedure di affidamento di opere o servizi. Ciò è confermato dal fatto che anche in caso di incarichi di progettazione o pianificazione a soggetti esterni deve essere nominato comunque un Responsabile unico che coordini le diverse attività svolte dagli incaricati.
Tale considerazione induce a ritenere che debba essere riconosciuto a tale figura il diritto ad una quota parte dell’incentivo di progettazione, anche in caso di totale affidamento a soggetti esterni delle fasi di progettazione ed esecuzione dell’opera
”.
In sostanza, secondo l’interpretazione precedentemente descritta, al Responsabile unico del procedimento, in caso di opere pubbliche e lavori, può essere legittimamente attributo l’incentivo economico, anche se l’attività di progettazione è completamente affidata a figure esterne; ciò, secondo quanto precisato dalla Sezione Liguria, troverebbe giustificazione nella circostanza che i compiti svolti dal RUP nel caso della realizzazione di opere pubbliche e lavori rimarrebbero sostanzialmente uguali, a prescindere dall’esternalizzazione delle altre attività contemplate dall’art. 93 del D.lgs. 163 del 2006.
Questa prospettiva riecheggia anche in più recenti pronunce della Sezione regionale di controllo per la Lombardia; tra tutti, il
parere 01.10.2014 n. 247 collega l’erogazione dell’incentivo all’espletazione degli “incarichi tassativamente indicati dalla norma (responsabile del procedimento, incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, e loro collaboratori), riferiti all’aggiudicazione ed esecuzione “di un’opera o un lavoro” (non, pertanto, di un appalto di fornitura di beni o di servizi)”, escludendo che la norma richieda “ai fini della legittima erogazione, il necessario espletamento interno di una o più attività (per esempio, la progettazione), purché il regolamento ripartisca gli incentivi in maniera conforme alle responsabilità attribuite e devolva in economia la quota relativa agli incarichi conferiti a professionisti esterni”.
In linea con questa interpretazione possono essere citate anche le pronunce della medesima Sezione Lombardia, parere 28.10.2015 n. 351 e parere 20.07.2015 n. 236 i quali, sebbene vertenti su quesiti differenti dalla tematica in esame, ribadiscono la possibilità di incentivare le attività strumentali alla progettazione anche qualora la stessa venga esternalizzata integralmente.
Una seconda linea interpretativa delle disposizioni in commento emerge dal
parere 02.10.2014 n. 197 della Sezione regionale di controllo per il Piemonte, la quale, chiamata a rispondere in merito alla riconoscibilità dell’incentivo economico al RUP in ipotesi di progettazione affidata all’esterno (sia nel caso in cui anche le altre attività di direzione lavori e collaudo risultino esternalizzate, sia nel caso di direzione lavori interna e collaudo esterno), ha fornito una lettura più restrittiva dell’art. 93 (peraltro già preceduta dal parere 30.08.2012 n. 290 e parere 19.12.2013 n. 434), stabilendo un nesso funzionale tra il compenso incentivante e lo svolgimento dell’attività di progettazione all’interno dell’Ente.
Le citate deliberazioni subordinano il diritto al compenso incentivante non al mero espletamento delle attività indicate nella norma nell’ambito della realizzazione di opere pubbliche o lavori, ma alla circostanza che la progettazione sia avvenuta all’interno dell’amministrazione.
Conseguentemente, “con specifico riferimento alla figura del responsabile del procedimento (r.u.p.), occorre rilevare che questi normalmente, in base alle previsioni contenute nei singoli regolamenti predisposti dalle amministrazioni ai sensi del citato comma 5 dell’art. 92 del D.lgs. n. 163/2006, partecipa alla ripartizione dell’incentivo, ovviamente sempre in relazione ad atti di progettazione collegati alla realizzazione di opere pubbliche. Occorre sottolineare, però, che la sua partecipazione alla ripartizione degli emolumenti, ai sensi del ridetto comma 5 dell’art. 92 del Codice dei contratti, non avviene in ragione della sua qualifica, ma in relazione al complessivo svolgimento interno dell’attività di progettazione. In sostanza, qualora l’attività venga svolta internamente tutti i soggetti che, a qualsivoglia titolo, collaborano hanno diritto, in base alle previsioni del regolamento dell’ente, a partecipare alla distribuzione dell’incentivo. Qualora, al contrario, l’attività sopra specificata venga svolta all’esterno, non sorgendo il presupposto per la ripartizione di un incentivo fra i vari dipendenti dell’ufficio non vi è neppure un autonomo diritto del responsabile del procedimento ad ottenere un compenso per un’attività che, al contrario, rientra fra i suoi compiti e doveri d’ufficio”.
Con successiva pronuncia (parere 20.01.2015 n. 17), la Sezione di controllo per il Piemonte ha ulteriormente precisato che, ai fini della riconoscibilità dell’incentivo al RUP, non è necessario che tutte le fasi della progettazione (preliminare, definitiva e esecutiva) siano svolte da personale interno all’Ente, purché il regolamento ripartisca gli incentivi in maniera conforme alle responsabilità attribuite e devolva in economia le quota relativa agli incarichi conferiti a professionisti esterni.
Quesito n. 2
Il secondo quesito attiene alla nozione di “collaboratori” di cui al comma 7-ter dell’art. 93 del d.lgs. n. 163/2006; la Provincia di Teramo chiede se tale nozione faccia riferimento solamente ai collaboratori con professionalità tecnica (componenti lo staff tecnico delle specifiche figure professionali richiamate dall’art. 93 citato, per lo svolgimento delle attività ivi indicate) ovvero possa essere estesa anche al personale addetto alle altre attività amministrative connesse comunque alla realizzazione dei lavori, quali: le procedure di espropriazione, di accatastamento e frazionamento, procedure di appalto dei lavori, predisposizione dei contratti di appalto, stesura degli atti di gara e provvedimenti amministrativi afferenti ai lavori.
Anche su questo quesito –strettamente connesso con il primo– si riscontra un contrasto interpretativo tra Sezioni regionali. Più precisamente, con parere 17.12.2014 n. 141, la Sezione regionale di controllo per le Marche ha fornito una lettura restrittiva della nozione di collaboratore, escludendo che la stessa possa essere estesa per incentivare il personale tecnico e amministrativo:
a) addetto ai procedimenti di esproprio;
b) addetto alle attività relative agli accatastamenti e ai frazionamenti;
c) responsabile o addetto allo svolgimento della procedura di gara.
Facendo applicazione del principio di tassatività, la pronuncia recita: “come si è avuto modo di chiarire, il Fondo previsto dall’art. 92 cit. può essere destinato esclusivamente alle specifiche figure professionali ivi individuate, nonché ai loro collaboratori.
Non trova alcun fondamento normativo una diversa interpretazione della norma tendente ad ampliare il novero dei soggetti beneficiari.
Pertanto, i dipendenti –tecnici ed amministrativi- diversi dal RUP, dal progettista, dal direttore lavori, dall’incaricato del piano di sicurezza, dal collaudatore e dai relativi collaboratori, benché svolgano attività comunque connesse alla realizzazione di opere pubbliche possono essere incentivati utilizzando soltanto gli ordinari istituti contrattuali e le relative risorse finanziarie stanziate in base alle norme dei vigenti Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro
”.
Elementi in favore di una lettura più ampia della nozione di collaboratore e delle attività incentivabili possono trarsi dalla pronuncia della Sezione regionale di controllo per la Lombardia (parere 20.07.2015 n. 236) la quale, sebbene non avesse ad oggetto la qualificazione della nozione di collaboratore, ha ritenuto ammissibile l’incentivo economico anche per le attività attinenti alla fase di gestione degli appalti di opere nel caso di attività di progettazione esterna, in particolare con riferimento a quelle relative alle operazioni di scelta del contraente, di redazione del bando di gara, dei procedimenti di aggiudicazione, liquidazione, verifica in corso d’opera e controllo di conformità dell’opera. Ciò nella considerazione che tali attività possano essere considerate di supporto alla progettazione.
Alla luce dei sopra richiamati contrasti giurisprudenziali, questa Sezione riteneva di sottoporre alla valutazione del Presidente della Corte dei conti, ai sensi dell’art. 6, comma 4, del decreto-legge 10.10.2012, n. 174, convertito nella legge 07.12.2012, n. 213, l’opportunità di rimettere alla Sezione delle Autonomie o alle Sezioni Riunite, entrambi i quesiti formulati dalla Provincia di Teramo.
Il Presidente della Corte dei Conti con ordinanze n. 9 del 30.03.2016 e n. 11 del 06.04.2016 deferiva le questioni di massima prospettate alla Sezione delle autonomie.
Quest’ultima, con deliberazione 13.05.2016 n. 18, definiva, tra le altre, le questioni di massima scaturenti dai quesiti formulati dalla Provincia di Teramo. Nel dettaglio, la Sezione delle autonomie non riteneva sufficienti a soddisfare la richiesta di parere della Provincia di Teramo le disposizioni normative introdotte con il nuovo Codice dei contratti pubblici, di cui al d.lgs. n. 50/2016. Queste ultime, infatti, in linea con quanto previsto dai criteri di delega (art. 1, comma 1, lett. rr) contenuti nella legge 28.01.2016, n. 11, contemplano un nuova disciplina delle forme di incentivo, sostitutiva della precedente; al riguardo, vengono aboliti gli incentivi alla progettazione previsti dal previgente art. 93, comma 7-ter ed introdotte, all’art. 113, nuove forme di “incentivazione per funzioni tecniche”.
Disposizione, quest’ultima, rinvenibile al Tit. IV del d.lgs. n. 50/2016 rubricato “Esecuzione”, che disciplina gli incentivi per funzioni tecniche svolte da dipendenti esclusivamente per le attività di programmazione della spesa per investimenti e per la verifica preventiva dei progetti e, più in generale, per le attività tecnico-burocratiche, prima non incentivate, tese ad assicurare l’efficacia della spesa e la realizzazione corretta dell’opera.
Queste nuove disposizioni, tuttavia, sulla base dell’articolata disciplina transitoria contenuta negli articoli 216 e 217, trovano applicazione per le sole attività poste in essere successivamente alla data di entrata in vigore, ossia il 19.04.2016. Resta pertanto valida, ad avviso dell’Organo nomofilattico, l’esigenza interpretativa con riferimento alle attività poste in essere nel vigore dell’art. 93 del d.lgs. n. 163/2006, come modificato dal dl n. 90/2014.
Sul punto, con argomentazioni che si ritengono qui integralmente richiamate e che muovono sostanzialmente dalla ricostruzione del quadro normativo di riferimento precedente al nuovo Codice dei contratti pubblici, la Sezione delle autonomie perviene alla fissazione dei seguenti principi di diritto, rilevanti ai fini della definizione dei quesiti formulati dalla Provincia di Teramo:
- “
Il riconoscimento dell’incentivo alla progettazione di cui all’art. 93 comma 7-ter del d.lgs. n. 163/2006 in favore del responsabile unico del procedimento non presuppone necessariamente che l’intera attività di progettazione sia svolta all’interno dell’ente”.
- “
La nozione di “collaboratori” di cui al comma 7-ter dell’art. 93 del d.lgs. n. 163/2006 fa riferimento alle professionalità –di norma tecniche- all’uopo individuate in sede di costituzione dell’apposito staff, le quali devono porsi in stretta correlazione funzionale e teleologica rispetto alle attività da compiere per la realizzazione dell’opera a regola d’arte e nei termini preventivati” (Corte dei Conti, Sez. controllo Abruzzo, parere 01.06.2016 n. 131).

INCARICHI PROFESSIONALI: L’applicazione di qualunque regola di finanza pubblica impone di definire, a priori, l’ambito oggettivo di applicazione della norma, nel caso di specie della corretta qualificazione di un incarico affidato a un professionista esterno.
Quest’ultimo, infatti, è generalmente riconducibile, per il diritto civile, al contratto d’opera (art. 2222 cod. civ.) e, più di preciso, al contratto d’opera intellettuale (art. 2229 cod. civ.).
----------------
Il confine fra contratto d’opera intellettuale (artt. 2222 e 2229 del codice civile) e contratto d’appalto di servizi (art. 1665 del codice civile) è individuabile, in base al codice civile, nel carattere personale o intellettuale delle prestazioni, nel primo caso, e nella natura imprenditoriale del soggetto esecutore, nel secondo.
L’appalto di servizi, pur presentando elementi di affinità con il contratto d’opera (autonomia rispetto al committente), si differenzia da quest’ultimo in ordine al profilo dell’organizzazione, atteso che l’appaltatore esegue la prestazione con mezzi e personale che fanno ritenere sussistente, assieme al requisito della gestione a proprio rischio, la qualità di imprenditore commerciale (art. 2195 cod. civ.). Il prestatore d’opera, di converso, pur avendo anch’egli l’obbligo di compiere, dietro corrispettivo, un servizio a favore del committente, senza vincolo di subordinazione e con assunzione del relativo rischio, si obbliga ad eseguirlo con lavoro prevalentemente proprio, senza una necessaria organizzazione.
La delimitazione fra contratto d’opera intellettuale e contratto d’appalto di servizi sfuma, come accennato, in sede di applicazione della disciplina, di derivazione comunitaria, sui contratti pubblici (d.lgs. n. 50 del 2016 e, in precedenza, d.lgs. n. 163 del 2006), che, come noto, impone predeterminate procedure amministrative, ad evidenza pubblica, prodromiche alla stipulazione dei contratti da parte delle pubbliche amministrazioni (o dei soggetti, anche privati, a queste ultime assimilati).
---------------
Secondo una parte della giurisprudenza amministrativa (TAR Lazio, Latina, sentenza 20.07.2011 n. 604), infatti, il codice dei contratti pubblici attrae nella nozione di appalto di servizi anche le prestazioni d’opera intellettuale, imponendo di considerare appaltatore non solo chi è tale in base alla nozione civilistica, ma anche il professionista che partecipa ad una gara pubblica per l’affidamento di un servizio di natura intellettuale. Altra giurisprudenza (Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 11.05.2012 n. 2730) valorizza, invece, le differenze fra i due contratti ai fini delle conseguenti ricadute in materia di soggezione al codice dei contratti pubblici. In tale prospettiva, è stato ritenuto elemento qualificante dell’appalto di servizi, oltre alla complessità dell’oggetto, la circostanza che l’affidatario dell’incarico necessiti, per l’espletamento, di apprestare una specifica organizzazione finalizzata a soddisfare i bisogni dell’ente.
Il codice dei contratti pubblici adotta certamente una nozione ampia di appalto di servizi, che comprende, in alcuni casi, anche l’attività del professionista intellettuale. Si tratta di nozione finalizzata ad estendere l’ambito di applicazione oggettivo della disciplina di cui al d.lgs. n. 50 del 2016 (in aderenza, da ultimo, alle direttive comunitarie del 26.02.2014, n. 2014/23/UE, n. 2014/24/UE e n. 2014/25/UE, tese a favorire il confronto concorrenziale fra operatori economici, la libera circolazione di servizi ed il diritto di stabilimento).
Tale nozione, come accennato,
non si ripercuote, tuttavia, sulle definizioni di contratto di prestazione d’opera, di prestazione d’opera intellettuale o di appalto di servizi, come delineate dal codice civile, posto che il codice dei contatti pubblici è teso a disciplinare le procedure di affidamento di un’ampia gamma di contratti, che, pur definiti come “appalto”, comprendono una serie eterogena di negozi civilistici (per esempio, somministrazione, mandato, trasporto, assicurazione etc., cfr. art. 1, comma 1, lett. dd), ii) ed ss) del d.lgs. n. 50 del 2016).
Con riferimento alla fattispecie concreta, va tuttavia ribadito come spetti al Comune istante valutare se, in concreto, ricorrano i presupposti per qualificare gli incarichi tecnico-professionali che intende affidare in termini di contratto d’opera intellettuale o di appalto di servizi.
Attenendosi ai soli elementi desumibili dalla richiesta di parere, la Sezione osserva che
la prestazione sembra necessitare di competenze tecniche (e, come tale, deve essere resa da soggetto qualificato e regolarmente iscritto nell’albo professionale), ma non pare ravvisarsi la necessità di un’organizzazione aggiuntiva (tipica dell’appalto).
La necessità di utilizzare, da parte di un professionista, mezzi compresi fra gli ordinari strumenti cognitivi ed operativi a disposizione di qualunque lavoratore del settore, non è sufficiente a ritenere che, per il diritto civile, il contratto debba essere inquadrato nell’appalto di servizi.
---------------
La Sezione ricorda che i principi di unità e universalità, propri dei bilanci degli enti locali (cfr. Allegato 1 al d.lgs. n. 118 del 2011), come di tutte le pubbliche amministrazioni, comportano che tutte le entrate e le spese sostenute da un ente transitino per il bilancio (mentre le gestioni fuori bilancio o le contabilità separate sono ammesse solo nei casi previsti dalla legge), imponendo, pertanto, che l’eventuale contributo finanziario di un qualunque terzo (concretante un atto di liberalità) debba essere accertato e incassato dal Comune beneficiario e, successivamente, finalizzato all’assunzione dell’impegno di spesa per il pagamento del professionista incaricato.
---------------

Il Sindaco del Comune di Grassobbio (BG), con nota del 06.05.2016, ha formulato una richiesta di parere avente ad oggetto i limiti finanziari agli incarichi di consulenza.
Premette che il Comune ha un cospicuo fondo cassa (euro 13.562.052), un congruo avanzo d'amministrazione (euro 4.891.491) ed una spesa di personale (euro 1.061.538) peri a circa un quarto di quella corrente. Tuttavia, nel 2009, aveva sostenuto spese per consulenze per soli euro 3.182.
Nel 2016, l’Ente riferisce di avere la necessità d'incaricare alcuni avvocati per la predisposizione delle norme della variante del Piano di governo del territorio e di altre specifiche e delicate regolamentazioni, ma, riferisce il Sindaco, secondo il segretario ed il revisore dei conti, queste spese sono da includere fra quelle di consulenza (e non di appalti di servizi), per le quali occorre osservare il limite del 20% della spesa sostenuta nel 2009 allo stesso titolo.
L’istanza ricorda, altresì, come la Sezione delle Autonomie, con deliberazione n. 26/2013/QMIG, abbia stabilito, richiamando la sentenza della Corte Costituzionale n. 139 del 2012, che è possibile prendere in esame non le varie tipologie di spese soggette a limite, ma la loro somma totale.
Il quesito richiama, inoltre, un ulteriore limite finanziario, in base al quale le spese per consulenze devono comunque essere contenute nella percentuale del 4,2% di quelle per il personale (tetto che, per il Comune istante, ammonterebbe, nel 2016, a circa 42.000 euro). Tuttavia, secondo il segretario ed il revisore, prosegue il Sindaco, questo limite concorre con quello del 20% del 2009, per cui il tetto per l’Ente sarebbe di euro 636 (20% di euro 3.182).
Il Sindaco istante ritiene evidente che si tratti di una situazione imbarazzante ed ingiusta, posto che gli enti locali che, negli anni precedenti, sono stati più virtuosi vengono penalizzati.
Sulla base di tali premesse, in relazione al potenziale conferimento di incarichi legali per la predisposizione delle norme della variante del Piano di governo del territorio e di altre specifiche regolamentazioni, pone quattro quesiti:
   1) con il primo, se gli incarichi in discorso siano qualificabili come consulenze o appalti di servizi;
   2) con il secondo, quali siano le spese soggette a limite da prendere in esame e se, tra esse, vanno inserite anche le spese per collaborazioni continuative;
   3) con il terzo, quali siano i limiti finanziari da rispettare;
   4) con il quarto, se sia possibile per il Sindaco, previo conferimento in base alle procedure di legge, pagare i professionisti incaricati direttamente di tasca propria ovvero rimborsare al Comune, sempre di tasca propria, le spese sostenute. Quest’ultima eventuale iniziativa, al fine di non incorrere in danni erariali.
...
   I. La distinzione fra contratti d’opera e contratti di appalto di servizi
Come più volte ribadito nelle pronunce della magistratura contabile (da ultimo, si rinvia a SRC Liguria, deliberazioni n. 54/2015/PAR e n. 79/2015/PAR),
l’applicazione di qualunque regola di finanza pubblica impone di definire, a priori, l’ambito oggettivo di applicazione della norma, nel caso di specie della corretta qualificazione di un incarico affidato a un professionista esterno. Quest’ultimo, infatti, è generalmente riconducibile, per il diritto civile, al contratto d’opera (art. 2222 cod. civ.) e, più di preciso, al contratto d’opera intellettuale (art. 2229 cod. civ.).
Le norme di finanza pubblica, tuttavia, fanno consueto riferimento (si rinvia, appunto, all’art. 6, comma 7, del decreto-legge 31.05.2010, n. 78, convertito dalla legge 30.07.2010, n. 122 o all’art. 1, comma 5, del decreto-legge 31.08.2013, n. 101, convertito dalla legge 30.10.2013, n. 125), nel definire divieti o limitazioni di spesa, ai “contratti di consulenza” (spesso affiancati a quelli di studio o di ricerca) o, in altri casi, ai “contratti conferibili ai sensi dell’art. 7, comma 6, del d.lgs. 30.03.2001, n. 165” (cfr., per esempio, art. 17, comma 30, del decreto-legge 01.07.2009, n. 78, convertito dalla legge 03.08.2009, n. 122), norma che disciplina i presupposti e la procedura per il conferimento di incarichi a soggetti terzi mediante contratti di lavoro autonomo, di natura occasionale o coordinata e continuativa.
Appare anche opportuno precisare che alcuni rapporti negoziali, qualificabili, per il diritto civile, come contratti d’opera o di opera intellettuale, sono stati attratti, in punto di procedure per l’affidamento, alla disciplina dettata dal codice dei contratti pubblici (dlgs 19.04.2016, n. 50), che, in esecuzione a specifiche direttive comunitarie, nel delineare l’ambito oggettivo di applicazione, contiene una definizione di “contratto di appalto di servizi” (cfr. art. 3, comma 1, lett. dd), ii) ed ss) del d.lgs. n. 50 del 2016 e, in precedenza, art. 3, commi 3, 6 e 10 del d.lgs. n. 163 del 2006) molto più ampia di quella del codice civile, attraendo anche negozi qualificabili come contratti d’opera o di opera intellettuale.
Sul punto, si rinvia, per gli aspetti di carattere generale, alle numerose pronunce rese in materia dalla magistratura contabile, fra le quali possono ricordarsi, senza pretesa di esaustività, Sezioni Riunite in sede di controllo, deliberazione n. 6/CONTR/2005 del 15.02.2005; Sezione delle Autonomie, deliberazione n. 6/AUT/2008; Sezione regionale di controllo la Lombardia, deliberazioni n. 355/2012/PAR, n. 51/2013/PAR, n. 236/2013/PAR e n. 178/2014/PAR.
Il confine fra contratto d’opera intellettuale (artt. 2222 e 2229 del codice civile) e contratto d’appalto di servizi (art. 1665 del codice civile) è individuabile, in base al codice civile, nel carattere personale o intellettuale delle prestazioni, nel primo caso, e nella natura imprenditoriale del soggetto esecutore, nel secondo.
L’appalto di servizi, pur presentando elementi di affinità con il contratto d’opera (autonomia rispetto al committente), si differenzia da quest’ultimo in ordine al profilo dell’organizzazione, atteso che l’appaltatore esegue la prestazione con mezzi e personale che fanno ritenere sussistente, assieme al requisito della gestione a proprio rischio, la qualità di imprenditore commerciale (art. 2195 cod. civ.). Il prestatore d’opera, di converso, pur avendo anch’egli l’obbligo di compiere, dietro corrispettivo, un servizio a favore del committente, senza vincolo di subordinazione e con assunzione del relativo rischio, si obbliga ad eseguirlo con lavoro prevalentemente proprio, senza una necessaria organizzazione.
La delimitazione fra contratto d’opera intellettuale e contratto d’appalto di servizi sfuma, come accennato, in sede di applicazione della disciplina, di derivazione comunitaria, sui contratti pubblici (d.lgs. n. 50 del 2016 e, in precedenza, d.lgs. n. 163 del 2006), che, come noto, impone predeterminate procedure amministrative, ad evidenza pubblica, prodromiche alla stipulazione dei contratti da parte delle pubbliche amministrazioni (o dei soggetti, anche privati, a queste ultime assimilati).

Secondo una parte della giurisprudenza amministrativa (TAR Lazio, Latina, sentenza 20.07.2011 n. 604), infatti,
il codice dei contratti pubblici attrae nella nozione di appalto di servizi anche le prestazioni d’opera intellettuale, imponendo di considerare appaltatore non solo chi è tale in base alla nozione civilistica, ma anche il professionista che partecipa ad una gara pubblica per l’affidamento di un servizio di natura intellettuale. Altra giurisprudenza (Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 11.05.2012 n. 2730) valorizza, invece, le differenze fra i due contratti ai fini delle conseguenti ricadute in materia di soggezione al codice dei contratti pubblici. In tale prospettiva, è stato ritenuto elemento qualificante dell’appalto di servizi, oltre alla complessità dell’oggetto, la circostanza che l’affidatario dell’incarico necessiti, per l’espletamento, di apprestare una specifica organizzazione finalizzata a soddisfare i bisogni dell’ente.
Il codice dei contratti pubblici adotta certamente una nozione ampia di appalto di servizi, che comprende, in alcuni casi, anche l’attività del professionista intellettuale. Si tratta di nozione finalizzata ad estendere l’ambito di applicazione oggettivo della disciplina di cui al d.lgs. n. 50 del 2016 (in aderenza, da ultimo, alle direttive comunitarie del 26.02.2014, n. 2014/23/UE, n. 2014/24/UE e n. 2014/25/UE, tese a favorire il confronto concorrenziale fra operatori economici, la libera circolazione di servizi ed il diritto di stabilimento).
Tale nozione, come accennato, non si ripercuote, tuttavia, sulle definizioni di contratto di prestazione d’opera, di prestazione d’opera intellettuale o di appalto di servizi, come delineate dal codice civile, posto che il codice dei contatti pubblici è teso a disciplinare le procedure di affidamento di un’ampia gamma di contratti, che, pur definiti come “appalto”, comprendono una serie eterogena di negozi civilistici (per esempio, somministrazione, mandato, trasporto, assicurazione etc., cfr. art. 1, comma 1, lett. dd), ii) ed ss) del d.lgs. n. 50 del 2016).
Con riferimento alla fattispecie concreta, posta all’odierno esame della Sezione, va tuttavia ribadito (cfr. SRC Liguria, deliberazione n. 79/2015/PAR) come spetti al Comune istante valutare se, in concreto, ricorrano i presupposti per qualificare gli incarichi tecnico-professionali che intende affidare in termini di contratto d’opera intellettuale o di appalto di servizi.
Attenendosi ai soli elementi desumibili dalla richiesta di parere, la Sezione osserva che
la prestazione sembra necessitare di competenze tecniche (e, come tale, deve essere resa da soggetto qualificato e regolarmente iscritto nell’albo professionale), ma non pare ravvisarsi la necessità di un’organizzazione aggiuntiva (tipica dell’appalto).
Come evidenziato in precedenti pareri (cfr., per esempio, SRC Lombardia, parere 20.05.2014 n. 178),
la necessità di utilizzare, da parte di un professionista, mezzi compresi fra gli ordinari strumenti cognitivi ed operativi a disposizione di qualunque lavoratore del settore, non è sufficiente a ritenere che, per il diritto civile, il contratto debba essere inquadrato nell’appalto di servizi.
   II. Gli aggregati di spesa oggetto di limitazione
Con il secondo ed il terzo quesito, trattabili unitariamente, il Sindaco istante chiede di conoscere quali siano le spese vincolate da prendere in esame e se, tra esse, debbano essere inserite anche quelle per le collaborazioni coordinate e continuative. Di conseguenza, anche per queste ultime, chiede quali siano i limiti finanziari da rispettare.
   II.a) La Sezione evidenzia, in primo luogo, come i contratti di collaborazione coordinata e continuativa siano soggetti ad una differente norma limitativa di finanza pubblica, precisamente l’art. 9, comma 28, del citato decreto-legge n. 78 del 2010.
La ridetta norma dispone, infatti, che, dal 2011, le pubbliche amministrazioni possono avvalersi di personale assunto a tempo determinato o con altri contratti c.d. flessibili (fra i quali annovera, espressamente, quelli di collaborazione coordinata e continuativa) nel limite del 50 per cento della spesa sostenuta per le stesse finalità nell'anno 2009. Tale disposizione costituisce principio generale ai fini del coordinamento della finanza pubblica ai quali si adeguano le regioni, le province autonome, gli enti locali e quelli del servizio sanitario nazionale.
In particolare,
per gli enti locali, l’art. 11, comma 4-bis, del decreto-legge 24.06.2014, n. 90, introdotto dalla legge di conversione 11.08.2014, n. 114, ha inserito, nel citato comma 28, un ulteriore periodo, in base al quale le limitazioni ivi previste non si applicano agli enti locali in regola con l'obbligo di riduzione delle spese di personale, di cui ai commi 557 e 562 dell'articolo 1 della legge 27.12.2006, n. 296, e successive modificazioni. La spesa complessiva non può, comunque, essere superiore a quella sostenuta per le stesse finalità nell'anno 2009 (sul punto, si rinvia alla deliberazione della Sezione delle Autonomine n. 2/2015/QMIG).
Le limitazioni poste agli enti locali alla spesa per il personale assunto a tempo determinato o con altri contratti c.d. flessibili sono state oggetti di svariate pronunce da parte delle Sezioni regionali e centrali (alle cui motivazioni e conclusioni può farsi rinvio), anche riguardo le modalità di applicazione da parte degli enti di minori dimensioni (si rinvia, per esempio, alla deliberazione delle Sezioni riunite n. 11/CONTR/2012).
   II.b)
Per quanto riguarda, invece, i contratti d’opera e di opera intellettuale (definiti nelle esaminate norme di finanza pubblica, come “incarichi di consulenza e studio”), l’art. 6, comma 7, del decreto legge n. 78 del 2010, convertito dalla legge n. 122 del 2010, come accennato nel precedente paragrafo, stabilisce che, a decorrere dal 2011, la spesa annua non possa essere superiore al 20% di quella sostenuta nel 2009.
Circa le concrete modalità applicative della norma, tuttavia, sia in sede consultiva (cfr., per esempio, SRC Liguria deliberazione n. 54/2015/PAR), che di verifica dei rendiconti consuntivi (cfr., per esempio, SRC Lombardia deliberazione n. 379/2013/PRSE), la magistratura contabile, al fine di valutare la misura e le modalità con cui la disciplina vincolistica influisce sullo spazio di autonomia gestionale proprio degli enti locali, ha richiamato la sentenza della Corte Costituzionale n. 139 del 04.06.2012, nella quale è stato precisato che,
per questi ultimi, le disposizioni dell’art. 6 del decreto-legge n. 78 del 2010 "non operano in via diretta, ma solo come disposizioni di principio”.
In particolare, dette disposizioni
non impongono al sistema delle autonomie l’adozione di tagli puntuali alle singole voci di spesa considerate dal legislatore, bensì costituiscono il riferimento per la determinazione dell’ammontare complessivo dell’obiettivo di riduzione, che ciascun ente locale può discrezionalmente rimodulare tra i diversi aggregati oggetto di limitazione.
Pertanto, nell'esercizio della propria autonomia, ove vi sia capienza di bilancio, gli enti locali conservano la facoltà anche di mantenere inalterata (o di incrementare) la spesa per consulenze, purché riducano, per percentuali superiori, le altre voci contemplate nell'art. 6 del decreto-legge n. 78 del 2010 (missioni; formazione; relazioni pubbliche, convegni, mostre, pubblicità e rappresentanza; etc.).

In seguito, la Sezione delle autonomie di questa Corte, con la deliberazione n. 26/QMIG del 30.12.2013, ha ulteriormente esteso la possibilità, per gli enti locali, di operare compensazioni fra le spese costituenti i c.d. consumi intermedi, ammettendola con riferimento a tutte le norme di finanza pubblica ponenti dei limiti al ridetto aggregato (nell’occasione il problema afferiva all’inclusione, fra le riduzioni passibili di compensazione, dei limiti posti alla spesa per mobili e arredi dall’art. 1, commi 141 e 142, della legge 24.12.2012, n. 228). Il principio è stato poi ripreso dalle Sezioni regionali (da ultimo, si può far rinvio a SRC Sardegna, deliberazione n. 5/2016/PAR).
   II.c) L’art. 14, comma 1, del decreto legge n. 66 del 2014, convertito con la legge n. 89 del 23.06.2014, ha introdotto un diverso limite, che si aggiunge a quelli sopra esaminati.
La norma dispone, infatti, che, fermi restando i limiti derivanti dalle vigenti disposizioni, e in particolare dall’art. 6, comma 7, del decreto-legge n. 78 del 2010 e dall’art. 1, comma 5, del decreto-legge n. 101 del 2013,
le amministrazioni pubbliche …, a decorrere dall’anno 2014, non possono conferire incarichi di consulenza, studio e ricerca quando la spesa complessiva sostenuta nell’anno per tali incarichi è superiore rispetto alla spesa per il personale dell’amministrazione che conferisce l’incarico, come risultante dal conto annuale del 2012, al 4,2% per le amministrazioni con spesa di personale pari o inferiore a 5 milioni di euro, e all’1,4% per le amministrazioni con spesa di personale superiore a 5 milioni di euro”.
Analoga limitazione è stata introdotta, dal legislatore, per i contratti di collaborazione coordinata e continuativa, precludendone il conferimento “
quando la spesa complessiva per tali contratti è superiore rispetto alla spesa del personale dell'amministrazione che conferisce l'incarico come risultante dal conto annuale del 2012, al 4,5% per le amministrazioni con spesa di personale pari o inferiore a 5 milioni di euro, e all'1,1% per le amministrazioni con spesa di personale superiore a 5 milioni di euro”.
Va, tuttavia, ricordato, come il comma 4-ter della medesima disposizione, introdotto dalla legge di conversione n. 89 del 2014, consente alle regioni, alle province, alle città metropolitane ed ai comuni di rimodulare o adottare misure alternative di contenimento della spesa corrente, al fine di conseguire risparmi non inferiori a quelli derivanti dall'applicazione delle due sopraesposte limitazioni finanziarie agli incarichi di consulenza, studio e ricerca e di collaborazione.
In proposito, nell’istanza di parere il Sindaco evidenzia come, in base a quest’ultima limitazione normativa, il Comune potrebbe sostenere spese annuali per consulenze fino a 42.000 euro (onere che, in base ai dati di bilancio sinteticamente esposti, appare anche finanziariamente sostenibile). Tuttavia, questo vincolo, come sopra accennato, concorre con quello del 20% dell’impegnato 2009 (che il legislatore ha, espressamente, fatto salvo), per cui il tetto per l’Ente si riduce a soli euro 636 (il 20% di euro 3.182).
   II.d) Per quanto riguarda il profilo dell’assenza di spesa nell’anno base di riferimento preso in considerazione dalla norma statale di finanza pubblica (nel caso di specie, il 2009), la Sezione, poco dopo l’introduzione della norma in questione (cfr.
parere 29.04.2011 n. 227), ha osservato che la ratio sottesa alla legge è di rendere operante, a regime, una riduzione della spesa per gli incarichi di consulenza e di studio. Tuttavia, il legislatore non ha inteso vietare agli enti locali la possibilità di conferire i ridetti incarichi esterni, quando ne ricorrono i presupposti. Pertanto, valorizzandone la ridetta finalità, di riduzione dell’incidenza di questa tipologia di spesa sui bilanci degli enti locali e non di divieto, si era giunti alla conclusione che per gli enti locali che, nel corso dell’anno 2009, non hanno sostenuto alcuna spesa a titolo di incarichi per studi e consulenze, andasse individuato un diverso, ma congruo e razionale, parametro di riferimento.
Era stato evidenziato che, ove non si fosse adottata questa interpretazione, la riduzione lineare prevista dal citato art. 6, comma 7, avrebbe finito per premiare proprio gli enti meno virtuosi, che, nel corso dell’anno 2009 (o in altri presi a riferimento dal legislatore statale), hanno sostenuto una spesa rilevante per consulenze (al contrario, il vincolo finanziario si tradurrebbe in un divieto assoluto per gli enti più virtuosi che, in quello stesso anno, non hanno sostenuto spese).
Pertanto, si era concluso nel senso che
il limite da osservare fosse quello della “spesa strettamente necessaria” che l’ente locale deve sostenere per conferire un incarico di consulenza o di studio. Quest’ultimo limite, a sua volta, diverrà il parametro finanziario per gli anni successivi.
In seguito, questo orientamento è stato ripreso dalla Sezione in relazione ad altre norme di finanza pubblica. Può farsi rinvio, per esempio, alla fattispecie dell’assenza di parametro di spesa nel caso dei limiti ai compensi agli amministratori di società partecipate (cfr. deliberazione n. 1/2015/PAR) o delle assunzioni a tempo determinato o con altri contratti c.d. flessibili (cfr. deliberazioni n. 157/2014/PAR e n. 215/2014/PAR).
Tuttavia,
la riferita interpretazione non è stata seguita nel caso in cui l’ente abbia sostenuto una spesa, anche se minima, nell’anno base di riferimento (in tema di consulenze, può farsi rinvio al
parere 28.03.2012 n. 88) o nell’ipotesi in cui la norma di finanza pubblica preveda essa stessa un parametro alternativo (cfr., in materia di assunzioni a tempo determinato, i citati parere 18.04.2013 n. 157 e n. 215/2014/PAR).
In questi ultimi casi, infatti, la difficoltà per l’interprete di stabilire fino a che punto una “spesa minima” possa essere assimilata ad una “spesa assente”, unitamente agli elementi di flessibilità applicativa affermati, per le autonomie locali, dalla Corte costituzionale nella citata sentenza n. 139/2012, hanno indotto la Sezione, in attesa di auspicabili interventi chiarificatori o correttivi da parte del legislatore, a non estendere il principio di diritto affermato in caso di mancanza di spesa nell’anno base di riferimento.
   III. La possibilità di pagamento al consulente con fondi privati
Con il quarto quesito il Sindaco istante chiede se sia possibile, previo conferimento in base alle procedure di legge (il richiamo, implicito, è ai presupposti ed alle procedure comparative previste dall’art. 7, comma 6, del d.lgs. 165 del 2001, ovvero, qualora l’incarico sia qualificabile come appalto di servizi, a quelle di gara poste dal d.lgs. n. 50 del 2016), pagare i professionisti direttamente di tasca propria o rimborsare al Comune le spese sostenute.
Sul punto, va premesso, in primo luogo, come
costituisca approdo ormai consolidato della giurisprudenza contabile il principio secondo cui, dal computo delle spese per consulenza (come dalle altre elencate dall’art. 6 del decreto-legge n. 78 del 2010 o da ulteriori norme di finanza pubblica), vadano escluse quelle coperte mediante finanziamenti finalizzati o risorse provenienti (per esempio, sponsorizzazioni) da altri soggetti, pubblici o privati (cfr., ex multis, le deliberazioni delle Sezioni regionali di controllo per l’Emilia Romagna, n. 233/2014/PAR, per la Lombardia, n. 398/2012/PAR, per il Piemonte, n. 40/2011/PAR).
Come affermato, infatti, nella deliberazione delle Sezioni riunite in sede di controllo n. 7/CONTR del 07.02.2011,
in cui il principio era stato formulato proprio con riferimento alle spese per studi e consulenze, l’obiettivo comune di tali disposizioni finanziarie non è di limitare tout court i servizi e le funzioni realizzate a mezzo di determinate spese, bensì quello di ridurne l’impatto sul bilancio degli enti. Pertanto, ove tale incidenza non sussista o sia neutralizzata da una fonte esterna, la norma limitativa di spesa non trova applicazione.
Per quanto riguarda le specifiche modalità alternative proposte dal Sindaco istante, la Sezione ricorda che i principi di unità e universalità, propri dei bilanci degli enti locali (cfr. Allegato 1 al d.lgs. n. 118 del 2011), come di tutte le pubbliche amministrazioni, comportano che
tutte le entrate e le spese sostenute da un ente transitino per il bilancio (mentre le gestioni fuori bilancio o le contabilità separate sono ammesse solo nei casi previsti dalla legge), imponendo, pertanto, che l’eventuale contributo finanziario di un qualunque terzo (concretante un atto di liberalità) debba essere accertato e incassato dal Comune beneficiario e, successivamente, finalizzato all’assunzione dell’impegno di spesa per il pagamento del professionista incaricato (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 30.05.2016 n. 162).

QUESITI & PARERI

PUBBLICO IMPIEGO: La delegabilità delle funzioni dirigenziali.
DOMANDA:
L'art. 7 del DPR n. 62/2013, concernente "l'obbligo di astensione" di un pubblico dipendente, prevede che: "Il dipendente si astiene dal partecipare all'adozione di decisioni o ad attività che possano coinvolgere interessi propri, ovvero di suoi parenti, affini entro il secondo grado, del coniuge o di conviventi, oppure di persone con le quali abbia rapporti di frequentazione abituale, ovvero, di soggetti od organizzazioni con cui egli o il coniuge abbia causa pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o debito significativi, ovvero di soggetti od organizzazioni di cui sia tutore, curatore, procuratore o agente, ovvero di enti, associazioni anche non riconosciute, comitati, società o stabilimenti di cui sia amministratore o gerente o dirigente. Il dipendente si astiene in ogni altro caso in cui esistano gravi ragioni di convenienza. Sull'astensione decide il responsabile dell' ufficio di appartenenza".
Nel nostro Comune (Ente dotato di Dirigenza), nei casi di incompatibilità, si pone il problema di quale sia il procedimento più corretto per la sostituzione del Dirigente di Area Tecnica, in fase di rilascio di permessi di costruire o altri provvedimenti aventi natura tecnica. Nel caso specifico, si precisa che nell'organico dell'Ente non vi sono altri Dirigenti aventi qualifica tecnica. Vi sono però n. 4 Funzionari tecnici (n. 3 Ingegneri e n. 1 Architetto), di cui due incaricati di posizione organizzativa.
Il vigente Regolamento comunale sull'organizzazione degli uffici e dei servizi, pur non trattando esplicitamente i casi di incompatibilità, prevede genericamente che "In caso di assenza del Dirigente le sue funzioni sono esercitate in via prioritaria da altro Dirigente individuato dal Sindaco con decreto e in via secondaria dal Segretario generale".
D'altro canto, l'art. 17 del decreto legislativo 165/2001 recita: "i dirigenti, per specifiche e comprovate ragioni di servizio, possono delegare per un periodo di tempo determinato, con atto scritto e motivato, alcune delle competenze comprese nelle funzioni di cui alle lettere b), d) ed e) del comma 1 a dipendenti che ricoprano le posizioni funzionali più elevate nell'ambito degli uffici ad essi affidati. Non si applica in ogni caso l'articolo 2103 del codice civile".
L'istituto della "delega" prevede che il funzionario designato debba accettare la suddetta delega e, in caso di mancata accettazione, si potrebbe creare uno stallo per le attività amministrative.
Visto tutto quanto innanzi, si chiede, pertanto, se per il rilascio di provvedimenti aventi natura tecnica, nei casi di incompatibilità del Dirigente Tecnico:
1) la sostituzione debba essere effettuata per il tramite di altro Dirigente designato, ancorché non vi siano specifiche competenze tecniche, ovvero
2) la sostituzione debba essere effettuata per il tramite dell'istituto della delega, individuando un funzionario tecnico all'uopo designato. Nel caso in cui la soluzione sia quella prevista al punto 2 che precede, si chiede se la attribuzione sia suscettibile -o meno- di accettazione da parte del funzionario designato e se la designazione debba avvenire esclusivamente nei confronti di un titolare di posizione organizzativa o possa essere individuato un qualsiasi funzionario.
RISPOSTA:
L’art. 2 della L. 154/2002, aggiungendo il comma 1-bis all'art. 17, del D.Lgs. n. 165/2001, ha previsto, accanto ai compiti e poteri dei dirigenti, che essi “per specifiche e comprovate ragioni di servizio, possono delegare per un periodo di tempo determinato, con atto scritto e motivato, alcune delle competenze comprese nelle funzioni di cui alle lettere b), d) ed e) del comma 1 a dipendenti che ricoprano le posizioni funzionali più elevate nell'ambito degli uffici ad essi affidati. Non si applica in ogni caso l'articolo 2103 cod.civ.”.
La delegabilità delle funzioni dirigenziali al personale dipendente privo della qualifica dirigenziale è dunque possibile a condizione che avvenga:
- per specifiche e comprovate ragioni di servizio;
- per un periodo di tempo determinato;
- con atto scritto e motivato;
- riguardi la cura e l'attuazione dei progetti e delle gestioni ad essi assegnati dai dirigenti degli uffici dirigenziali generali, adottando i relativi atti e provvedimenti amministrativi ed esercitando i poteri di spesa e di acquisizione delle entrate;
- inerisca al coordinamento e controllo dell'attività degli uffici che da essi dipendono e dei responsabili dei procedimenti amministrativi;
- riguardi la gestione del personale e delle risorse finanziarie e strumentali assegnate ai propri uffici.
Il potere di delega deve trovare esplicitazione tanto nello statuto dell'ente locale quanto nel regolamento degli uffici e dei servizi che deve individuare la disciplina di dettaglio della delega ed i soggetti nei confronti dei quali essa potrà valere (“dipendenti che ricoprano le posizioni funzionali più elevate”, ossia p.o. o, in assenza, personale di Cat. D).
Si ritiene che un caso di incompatibilità, che obbliga il dirigente ad astenersi dal compimento di un atto di sua competenza, ai sensi dell’art. 7 del d.P.R. 62/2013, concretizzi una “specifica e comprovata ragione di servizio” tale da giustificare la delegabilità delle funzioni dirigenziali al personale dipendente privo della qualifica dirigenziale (ma in possesso delle competenze tecniche necessarie) e che questa sia la soluzione ottimale da seguire nel caso concreto.
Si esprime altresì il parere che, in presenza di p.o., la delega di funzioni debba avvenire nei loro confronti e che l’attribuzione non possa essere oggetto di rifiuto od opposizione da parte degli interessati, rientrando tra i doveri di ufficio ai sensi del richiamato art. 17, comma 1-bis D.Lgs. 165/2001 (link
a www.ancirisponde.ancitel.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Comando. Assunzione a tempo determinato e parziale.
Nell'ipotesi di assunzione a tempo determinata finalizzata alla sostituzione di dipendente in comando presso altra pubblica amministrazione, la Corte dei conti ha ritenuto imprescindibile riscontrare la sussistenza del duplice requisito della temporaneità e dell'eccezionalità dell'esigenza, come richiesto dal legislatore per il legittimo ricorso a tale tipologia di assunzioni.
L'Ente ha chiesto un parere in ordine alla possibilità di procedere all'assunzione di una unità di personale, con contratto a tempo determinato part-time (18 ore settimanali), per supplire alle esigenze derivanti dalla concessione di un comando presso altra amministrazione di proprio dipendente, e fino al rientro del medesimo.
Preliminarmente si osserva che l'art. 12, comma 1, della l.r. 19/2003 stabilisce che, alle aziende pubbliche di servizi alla persona si applicano, per quanto compatibili, le norme generali contenute nel decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni).
Si ritiene pertanto utile fornire innanzitutto un quadro generale illustrativo dei presupposti e condizioni che disciplinano, allo stato attuale, il ricorso ad assunzioni a tempo indeterminato e determinato nelle amministrazioni pubbliche.
Norme di principio, come tali applicabili a tutte le pubbliche amministrazioni, sono rinvenibili all'art. 36, commi 1 e 2, del citato decreto.
Il comma 1 prevede infatti che, per le esigenze connesse con il proprio fabbisogno ordinario, le pubbliche amministrazioni assumono esclusivamente con contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato, seguendo le procedure di reclutamento previste dall'articolo 35 del d.lgs. 165/2001.
Il successivo comma 2 precisa altresì che, per rispondere ad esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale, le amministrazioni pubbliche possono avvalersi delle forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale previste dal codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa, nel rispetto delle procedure di reclutamento vigenti.
Il Dipartimento della funzione pubblica
[1] ha evidenziato come il richiamato comma 2 'con l'inserimento della parola esclusivamente' (esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale), ha rafforzato il principio secondo cui la regola nell'instaurazione dei rapporti di lavoro è il contratto a tempo indeterminato (contratto dominante).
Premesso un tanto, si rileva come, a mente della legislazione vigente, il ricorso a contratti di lavoro flessibile (tempo determinato) non sia comunque giustificato per fronteggiare esigenze di natura stabile e continuativa, che presuppongono l'instaurazione di un rapporto a tempo indeterminato.
Come rilevato anche dall'ANCI
[2], la normativa vigente concernente l'utilizzo dei contratti di lavoro a tempo determinato nella P.A. prevede un obbligo, a carico del datore di lavoro, di effettuare una preventiva verifica ed istruttoria circa la sussistenza o meno dei presupposti e delle motivazioni che consentono di avvalersi di tale forma contrattuale di lavoro.
Nella fattispecie rappresentata si tratta di sostituire per un determinato periodo un dipendente comandato parzialmente presso un'altra amministrazione e, pertanto, alla luce delle considerazioni espresse, l'Ente può valutare se ricorrano i presupposti per l'assunzione a tempo determinato di cui trattasi, per esigenze a carattere temporaneo o eccezionale, considerato che comunque il comando in essere ha una scadenza prestabilita e che il posto d'organico è in ogni caso indisponibile per una diversa copertura.
Si rileva, a tal proposito, che la Corte dei conti
[3], esprimendosi in merito ad analoga fattispecie, ha innanzitutto rimarcato che andrebbero sottoposte ad attenta valutazione di coerenza sia le ragioni della concessione dell'autorizzazione al comando [4], da parte dell'ente cedente, sia le sopravvenute necessità di sostituzione del dipendente ceduto.
Nell'ipotesi specifica di assunzione a tempo determinato finalizzata alla sostituzione di dipendente in comando presso altra pubblica amministrazione, la Corte dei conti ha ritenuto quindi imprescindibile riscontrare la sussistenza del duplice requisito della temporaneità e dell'eccezionalità dell'esigenza, come richiesto dal legislatore per il legittimo ricorso a tale tipologia di assunzioni.
E' necessario inoltre che l'Ente interessato verifichi in concreto che l'assunzione a tempo determinato e parziale rispetti gli obblighi imposti dalle vigenti disposizioni finanziarie, anche in materia di riduzione dei costi per il personale
[5].
Si evidenzia tra l'altro che lo stesso statuto dell'Ente istante prevede espressamente, all'articolo 16, comma 6, che possono essere utilizzate forme di lavoro temporaneo ed altre forme di flessibilità, nel rispetto della legge e dei contratti collettivi.
In conclusione, ove ricorrano i delineati presupposti, si è dell'avviso che si possa ricorrere ad assunzioni a tempo determinato anche per far fronte ad un temporaneo comando di proprio personale.
---------------
[1] Cfr. circolare n. 5/2013.
[2] Cfr. parere del 17.06.2014.
[3] Cfr. sez. controllo per la Regione Sardegna, deliberazione n. 39/2014. Il parere è stato reso a un comune, ma le considerazioni svolte appaiono utili in linea generale.
[4] La posizione di comando del pubblico dipendente non determina l'instaurazione di un nuovo rapporto di lavoro, ma semplicemente una modifica del solo rapporto di servizio.
[5] Cfr. Corte dei conti, sezione regionale di controllo per l'Emilia Romagna, deliberazione n. 172/2014/PAR
(31.05.2016 -
link a www.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Consigli, gruppi autonomi. Non sono configurabili come organi dei partiti. I presentatori di lista non possono condizionarne l'attività politica.
I presentatori di una lista civica possono diffidare alcuni consiglieri eletti nell'ambito della medesima lista dall'utilizzare le corrispondenti prerogative, in materia di costituzione di gruppi e commissioni consiliari?

L'esistenza dei gruppi consiliari non è espressamente prevista dalla legge, ma si desume implicitamente da quelle disposizioni normative che contemplano diritti e prerogative in capo ai gruppi o ai capigruppo (art. 38, comma 3, art. 39, comma 4 e art. 125 del decreto legislativo n. 267/2000).
I mutamenti che possono sopravvenire all'interno delle forze politiche presenti in consiglio comunale per effetto di dissociazioni dall'originario gruppo di appartenenza, che danno origine alla costituzione di nuovi gruppi consiliari o all'adesione a diversi gruppi già esistenti, sono ammissibili. Nell'ambito della propria potestà di organizzazione, riconosciuta ai consigli comunali dal citato art. 38 del Tuel, i singoli enti locali potranno dettare norme, statutarie e regolamentari, in materia. Poiché tali variazioni modificano i rapporti tra le forze politiche presenti in consiglio, incidendo sul numero dei gruppi ovvero sulla loro consistenza numerica, ciò non può non influire sulla composizione delle commissioni consiliari che deve, pertanto, adeguarsi ai nuovi assetti.
Del resto, la possibilità di transitare da un gruppo ad altro, o di costituire nuovi gruppi, non potrebbe non essere finalizzata alla formazione delle commissioni consiliari, che non sono componenti indispensabili della struttura organizzativa bensì organi strumentali dei consigli, alle quali, una volta istituite, deve partecipare almeno un rappresentante di ciascun gruppo.
Nel caso in esame, lo statuto comunale, prevedendo la facoltà di istituire le commissioni consiliari, dispone l'obbligo del rispetto del criterio proporzionale, assicurando, correttamente, la presenza di almeno un rappresentante per ogni gruppo. Il regolamento disciplina i gruppi, prevedendo che i consiglieri eletti nella medesima lista formino, di regola, un gruppo consiliare, anche unipersonale.
I nuovi gruppi sono ammessi solo se costituiti da almeno due consiglieri, mentre il consigliere che nel corso del mandato rimanga da solo nel gruppo precostituito, mantiene le prerogative. La fonte regolamentare non contiene, invece, specifiche disposizioni che prevedano l'ipotesi della espulsione di un consigliere dal proprio gruppo di appartenenza originario, fatta salva la previsione di potersi distaccare dal gruppo originario. Peraltro il Tar Puglia, sez. di Bari, con sentenza n. 506/ 2005, ha affermato che il rapporto tra il candidato eletto e il partito di appartenenza «non esercita influenza giuridicamente rilevabile, attesa la mancanza di rapporto di mandato e la assoluta autonomia politica dei rappresentanti del consiglio comunale e degli organi collegiali in generale rispetto alla lista o partito che li ha candidati».
Ciò in quanto nel nostro sistema legislativo la «lista» è lo strumento a disposizione dei cittadini per presentare all'elettorato i propri candidati ed esaurisce la sua funzione giuridica al momento delle elezioni che si concludono con la proclamazione degli eletti, atto anteriore e del tutto autonomo rispetto alla convalida.
Ne consegue che all'interno del consiglio i gruppi non sono configurabili quali organi dei partiti e, pertanto, non sembra sussistere in capo a questi ultimi una potestà direttamente vincolante sia per un membro del gruppo di riferimento, sia per gli organi assembleari dell'ente.
Il Tar per il Lazio, con sentenza n. 16240/2004, ha precisato che i gruppi consiliari rappresentano, per un verso, la proiezione dei partiti all'interno delle assemblee, e, per altro verso, costituiscono parte dell'ordinamento assembleare, in quanto articolazioni interne di un organo istituzionale. Pertanto non sembra possibile alcuna interferenza dei primi nei riguardi dei secondi (articolo ItaliaOggi del 27.05.2016).

PATRIMONIO: Affrancazione di terreni comunali gravati da livello.
L'affrancazione consiste nell'acquisto della proprietà da parte dell'enfiteuta e si opera mediante il pagamento di una somma risultante dalla capitalizzazione del canone annuo sulla base dell'interesse legale.
La disciplina relativa al calcolo dei canoni è stabilita da due leggi speciali le quali indicano quali parametri di riferimento rispettivamente il reddito dominicale del fondo per le enfiteusi anteriori al 28.10.1941 e la quindicesima parte dell'indennità di esproprio prevista dalle leggi di riforma agraria del 1950 per le enfiteusi sorte successivamente. In entrambi i casi è previsto che il capitale di affranco sia determinato in misura pari a quindici volte il canone.
A seguito di una serie di pronunce della Corte Costituzionale, la determinazione del canone deve essere aggiornata, rispetto alle modalità indicate nelle leggi speciali, mediante l'applicazione di coefficienti di maggiorazione idonei a mantenere adeguata, con una ragionevole approssimazione, la corrispondenza con la effettiva realtà economica.

Il Comune, sentito anche per le vie brevi, chiede di sapere quale sia la procedura da seguire per consentire l'affrancazione di terreni comunali gravati da livello, considerando che in ordine agli stessi l'amministrazione comunale non percepisce, da tempo immemore, alcun canone.
In via preliminare, si osserva che il livello è un contratto agrario in uso nel Medioevo, che consiste nella concessione di una terra dietro il pagamento di un fitto. L'istituto del livello non è disciplinato dal codice civile e la giurisprudenza di legittimità
[1] in più occasioni lo ha equiparato ad un diritto di enfiteusi.
L'affrancazione consiste nell'acquisto della proprietà da parte dell'enfiteuta e 'si opera mediante il pagamento di una somma risultante dalla capitalizzazione del canone annuo sulla base dell'interesse legale. Le modalità sono stabilite da leggi speciali' (articolo 971, sesto comma, codice civile).
In particolare, la disciplina relativa al calcolo ed all'aggiornamento dei canoni è contenuta in due leggi speciali, la legge 22.07.1966, n. 607
[2] e la legge 18.12.1970 [3], n. 1138, le quali prescrivono criteri di determinazione dei canoni enfiteutici, indicando come parametri di riferimento rispettivamente il reddito dominicale del fondo per le enfiteusi anteriori al 28.10.1941, [4] e la quindicesima parte dell'indennità di esproprio prevista dalle leggi di riforma agraria del 1950 per le enfiteusi sorte successivamente [5]. In entrambi i casi è previsto che il capitale di affranco sia determinato in misura pari a quindici volte il canone. [6]
Dopo la loro emanazione, sulle due leggi citate si è pronunciata a più riprese la Corte costituzionale, la quale ha dichiarato l'illegittimità della normativa sotto diversi profili, modificandone profondamente la portata.
[7]
Sia per la legge n. 607/1966 che per quella n. 1138/1970 la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità dei criteri di calcolo ivi prescritti dettando, quale principio generale della materia, la regola per cui i canoni devono essere periodicamente aggiornati mediante l'applicazione di coefficienti di maggiorazione idonei 'a mantenere adeguata, con una ragionevole approssimazione, la corrispondenza con la effettiva realtà economica'.
[8]
In base a quali criteri debba essere garantita tale corrispondenza, tuttavia, la Corte nulla ha detto, né avrebbe potuto farlo, essendo prerogativa del legislatore dettare una regolamentazione della materia.
In mancanza di parametri di riferimento certi per la determinazione e/o l'aggiornamento dei canoni enfiteutici, considerato che non vi sono stati interventi normativi volti a dettare una nuova regolamentazione della materia, nel corso degli anni sono state adottate o suggerite soluzioni di varia natura e portata.
Tra queste si segnalano una circolare del Ministero dell'Interno
[9] che, nel fare proprie le conclusioni espresse da un'Avvocatura Distrettuale, [10] ha ritenuto coerente quale modalità di calcolo del capitale di affranco, sia per le enfiteusi antecedenti che successive al 1941, il criterio dettato per il computo dell'indennità di esproprio ordinaria, che per i terreni agricoli è calcolata in base al valore agricolo medio del tipo di coltura in atto nell'area da espropriare, [11] stabilito annualmente da rilevazioni operate da un'apposita commissione provinciale. [12]
Sulla stessa linea si pone una circolare dell'Agenzia del Territorio
[13] la quale richiama una precedente nota del Ministero delle Finanze la quale statuiva che, per le enfiteusi antecedenti al 1941, il canone dovesse essere equiparato al reddito dominicale opportunamente attualizzato tramite idonei criteri di aggiornamento. L'Agenzia del Territorio, constatato che 'l'ultimo coefficiente di rivalutazione dei redditi dominicali -non soggetti a revisione dal lontano 1979- pare, allo stato, ancora quello dell'80%', [14] ha ritenuto che il criterio indicato nella precedente nota ministeriale portasse 'alla determinazione di somme non adeguatamente corrispondenti alla realtà economica.
Alla luce di un tanto la circolare 29104/2011 conclude ritenendo «più opportuno utilizzare, anche con riferimento alle enfiteusi antecedenti al 1941, il criterio dell'indennità di esproprio dei fondi rustici, sostanzialmente in linea con quanto statuito dalla Corte Costituzionale (Sent. 406/1988) in merito alla necessità di rapportare i canoni ed il capitale di affrancazione 'alla effettiva realtà economica' (si veda anche, in proposito, il parere dell'Avvocatura Distrettuale dell'Aquila CS 260/1999, recepito in una circolare del Ministero n. 118 del 09/09/1999)». Conclude l'indicata circolare nel senso che «per tutte le enfiteusi su fondo agricolo il capitale di affrancazione ed i canoni andranno determinati facendo ricorso al criterio dell'indennità di esproprio e non piuttosto a quello del reddito dominicale rivalutato non più rispondente all'effettiva realtà economica».
[15]
Per completezza espositiva, è necessario, tuttavia, considerare la normativa in tema di determinazione dei coefficienti di rivalutazione dei redditi dominicali, intervenuta successivamente all'emanazione delle suindicate circolari. Ci si riferisce, in particolare, alla legge 24.12.2012, n. 228 e successive modificazioni, di cui l'ultima ad opera della legge 28.12.2015, n. 208, la quale, all'articolo 1, comma 512, stabilisce che: 'Ai soli fini della determinazione delle imposte sui redditi, per i periodi d'imposta 2013, 2014 e 2015, nonché a decorrere dal periodo di imposta 2016, i redditi dominicale e agrario sono rivalutati rispettivamente del 15 per cento per i periodi di imposta 2013 e 2014 e del 30 per cento per il periodo di imposta 2015, nonché del 30 per cento a decorrere dal periodo di imposta 2016. Per i terreni agricoli, nonché per quelli non coltivati, posseduti e condotti dai coltivatori diretti e dagli imprenditori agricoli professionali iscritti nella previdenza agricola, la rivalutazione è pari al 5 per cento per i periodi di imposta 2013 e 2014 e al 10 per cento per il periodo di imposta 2015. L'incremento si applica sull'importo risultante dalla rivalutazione operata ai sensi dell'articolo 3, comma 50, della legge 23.12.1996, n. 662. [...]'.
Segue che sarà opportuno valutare se, a seguito delle operazioni di calcolo, il capitale di affrancazione dei fondi risulti essere adeguatamente corrispondente alla realtà economica.
Se così fosse, sarebbe possibile utilizzare, per determinare il prezzo dell'affrancazione delle enfiteusi sorte antecedentemente al 28.10.1941, il criterio che risulta dall'applicazione, al reddito catastale dei terreni, dei coefficienti utilizzati per calcolare le imposte sui redditi disposti dal legislatore negli specifici provvedimenti normativi sopra richiamati.
In caso contrario, si potrebbe utilizzare il criterio proposto nelle circolari sopra citate, che rimanda al calcolo dell'indennità che sarebbe corrisposta in caso di espropriazione per pubblica utilità.
Da ultimo, si osserva come non sarebbe possibile per l'Ente consentire l'affrancazione gratuita dei propri fondi. Si rileva come non sia applicabile agli enti locali il disposto di cui alla legge 29.01.1974, n. 16, recante 'Rinuncia ai diritti di credito inferiori a lire mille' il cui articolo 1 così recita: 'Sono estinti i rapporti perpetui reali e personali, costituiti anteriormente, alla data del 28.10.1941, in forza dei quali le amministrazioni e le aziende autonome dello Stato, comprese l'Amministrazione del fondo per il culto, l'Amministrazione del fondo di beneficenza e di religione nella città di Roma e l'Amministrazione dei patrimoni riuniti ex economali hanno il diritto di riscuotere canoni enfiteutici, censi, livelli e altre prestazioni in denaro o in derrate, in misura inferiore a lire 1.000 annue'.
[16]
Tale legge, oltretutto, è stata abrogata dall'articolo 24 del decreto legge 25.06.2008, n. 112, convertito in legge, con modificazioni, dall'articolo 1, comma 1, della legge 06.08.2008, n. 133 a far data dal centottantesimo giorno successivo alla data della sua entrata in vigore.
Si riportano, altresì, le affermazioni del Supremo giudice civile
[17] il quale, nel ribadire la necessità che il computo per la determinazione del capitale per l'affrancazione venga periodicamente aggiornato, applicando coefficienti di maggiorazione idonei a mantenere adeguata, con ragionevole approssimazione, la corrispondenza del capitale di affrancazione con l'effettiva realtà economica, precisa, altresì, che, una tale operazione è, altresì, diretta 'ad impedire che l'affrancazione si trasformi in una sostanziale ablazione gratuita del diritto del concedente'.
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[1] Così, Cassazione civile, sez. VI, ordinanza del 06.06.2012, n. 9135 che afferma: 'Il regime giuridico del cosiddetto "livello" va assimilato a quello dell'enfiteusi, in quanto i due istituti, pur se originariamente distinti, finirono in prosieguo per confondersi ed unificarsi, dovendosi, pertanto, ricomprendere anche il primo, al pari della seconda, tra i diritti reali di godimento'. Nello stesso senso si veda, anche, Cassazione civile, sez. III, sentenza dell'08.01.1997, n. 64 e più datate nel tempo, Cassazione n. 1366/1961 e Cassazione n. 1682/1963.
[2] Recante 'Norme in materia di enfiteusi e prestazioni fondiarie perpetue'.
[3] Recante 'Nuove norme in materia di enfiteusi'.
[4] Articolo 1, primo comma, della legge 607/1966 unitamente ad articolo 1 della legge 1138/1970.
[5] Articolo 2, terzo comma, della legge 1138/1970.
[6] Articolo 1, quarto comma, della legge 607/1966 e articolo 9 della legge 1138/1970.
[7] Corte costituzionale, sentenze del 19-23.05.1997, n. 143; del 24.03-07.04.1988, n. 406; del 07-20.05.2008, n. 160.
[8] Corte costituzionale, sentenza del 07.04.1988, n. 406 e del 23.05.1997, n. 143.
[9] Ministero dell'Interno, circolare del 09.09.1999, n. 118.
[10] Avvocatura Distrettuale dell'Aquila, parere 260/1999.
[11] Il D.P.R. 08.06.2001, n. 327, recante 'Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità', all'articolo 40, comma 1, recita: 'Nel caso di esproprio di un'area non edificabile, l'indennità definitiva è determinata in base al criterio del valore agricolo, tenendo conto delle colture effettivamente praticate sul fondo e del valore dei manufatti edilizi legittimamente realizzati, anche in relazione all'esercizio dell'azienda agricola, senza valutare la possibile o l'effettiva utilizzazione diversa da quella agricola'.
[12] L'articolo 41 del D.P.R. 327/2001, al comma 1, prevede che: 'In ogni provincia, la Regione istituisce una commissione composta:
a) dal presidente della Provincia, o da un suo delegato, che la presiede;
b) dall'ingegnere capo dell'ufficio tecnico erariale, o da un suo delegato;
c) dall'ingegnere capo del genio civile, o da un suo delegato;
d) dal presidente dell'Istituto autonomo delle case popolari della Provincia, o da un suo delegato;
e) da due esperti in materia urbanistica ed edilizia, nominati dalla Regione;
f) da tre esperti in materia di agricoltura e di foreste, nominati dalla Regione su terne proposte dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative'.
[13] Agenzia del Territorio, circolare dell'11.05.2011, n. 29104.
[14] L'articolo 3, comma 50, della legge 23.12.1996, n. 662 recita: 'Fino alla data di entrata in vigore delle nuove tariffe d'estimo, ai soli fini delle imposte sui redditi, i redditi dominicali e agrari sono rivalutati, rispettivamente, dell'80 per cento e del 70 per cento. L'incremento si applica sull'importo posto a base della rivalutazione operata ai sensi dell'articolo 31, comma 1, della legge 23.12.1994, n. 724'.
[15] Anche l'ANCI, con parere dell'08.01.2013, nell'affrontare la questione della determinazione del capitale di affrancazione ha ritenuto 'condivisibile la tesi sostenuta dall'Agenzia del Territorio, [...], in quanto aderisce al principio della corrispondenza all'effettiva realtà economica'.
[16] La giurisprudenza, con riferimento al tempo in cui la norma risultava vigente, ha affermato la sua inapplicabilità agli enti locali. Così Cassazione civile, sez. II, sentenza del 21.02.2014, n. 4201 e Corte dei Conti, sez. regionale di controllo, Campania, parere del 20.07.2006, n. 18.
[17] Cassazione civile, sez. II, sentenza del 12.10.2000, n. 13595
(24.05.2016 -
link a www.regione.fvg.it).

ENTI LOCALI: Quesito relativo al Gonfalone provinciale.
Qualora la Provincia sia priva di personale le cui mansioni siano compatibili con il servizio di scorta al Gonfalone decorato con la Medaglia d'oro al Valore militare e laddove nella specifica occasione non sia reso un servizio stabile da una diversa Forza Armata o da un Corpo armato, il servizio d'onore in questione potrà essere reso, previ gli opportuni accordi, dall'Arma dei Carabinieri.
Infatti, le disposizioni generali in materia di cerimoniale e di precedenza tra le cariche pubbliche sono contenute nel DPCM 14.04.2006 il cui articolo 26 prevede che 'I servizi d'onore sono, di norma, resi dall'Arma dei Carabinieri, fatte salve le prerogative del Capo dello Stato e ad eccezione delle sedi istituzionali e delle occasioni ove già sia reso servizio stabile da una diversa Forza Armata o da un Corpo armato'.

La Provincia, insignita della Medaglia d'oro al Valore militare, espone che nel corso delle uscite ufficiali il Gonfalone provinciale viene decorato con la suddetta medaglia e che, ai sensi del vigente regolamento provinciale lo stesso deve essere scortato da tre dipendenti in alta uniforme.
Nella prospettiva del trasferimento ad altri enti locali di tutte le funzioni provinciali e del personale ad esse preposto in esito al processo di riordino istituzionale intrapreso dalla Regione e finalizzato, tra l'altro, al superamento delle province, la Provincia pone i seguenti quesiti:
1) quale personale in alta uniforme potrà svolgere il servizio di scorta del Gonfalone in mancanza di personale della Provincia e atteso l'imminente trasferimento delle funzioni e del personale della polizia provinciale all'Amministrazione regionale;
2) quali siano le procedure da seguire per la riconsegna della medaglia d'oro e del gonfalone della Provincia una volta operato il superamento di detto ente.
Si formulano al riguardo le seguenti considerazioni.
Le disposizioni generali in materia di cerimoniale e di precedenza tra le cariche pubbliche sono contenute nel DPCM 14.04.2006. In particolare, l'articolo 23 annovera tra i simboli destinatari di onori militari 'Gonfaloni e Vessilli decorati di Medaglia d'oro al Valore militare.'. Il successivo articolo 26 prevede che 'I servizi d'onore sono, di norma, resi dall'Arma dei Carabinieri, fatte salve le prerogative del Capo dello Stato e ad eccezione delle sedi istituzionali e delle occasioni ove già sia reso servizio stabile da una diversa Forza Armata o da un Corpo armato.'.
Il vigente regolamento provinciale di riferimento, all'articolo 9 (Uso del Gonfalone), comma 4 dispone che 'La scorta d'onore al gonfalone della Provincia sarà effettuata da tre dipendenti in alta uniforme, di cui uno sorregge il gonfalone e gli altri si porranno ai lati dello stesso. Il servizio di scorta sarà svolto anche da agenti della vigilanza ittico venatoria.'.
Alla luce di un tanto, in relazione al quesito sub 1 pare potersi affermare che, qualora la Provincia sia priva di personale le cui mansioni siano compatibili con il servizio in questione e laddove nella specifica occasione non sia reso un servizio stabile da una diversa Forza Armata o da un Corpo armato, il servizio d'onore in questione potrà essere reso, previ gli opportuni accordi, dall'Arma dei Carabinieri.
Con riferimento infine al quesito sub 2, la legge regionale che disciplinerà il superamento delle province del Friuli Venezia Giulia provvederà a disporre anche in ordine alle procedure per la riconsegna del Gonfalone e della Medaglia d'oro in argomento (18.05.2016 -
link a www.regione.fvg.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Effetti del giudicato penale sui dipendenti delle p.a.: distinguo tra reato consumato o tentato (parere 28.12.2015-582635, AL 43914/15 - Rassegna Avvocatura dello Stato n. 1/2016).
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1) Con la nota in riscontro codesta Direzione chiede di conoscere il parere della Scrivente in merito ai criteri applicativi dell’istituto della sospensione del pubblico dipendente a seguito di condanna non definitiva previsto dall’art. 4, comma 1, L. n. 97/2001 -recante “Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche”- che dispone la sospensione (obbligatoria) dal servizio nel caso in cui un dipendente pubblico riporti una condanna, anche non definitiva, per taluno dei reati elencati tassativamente all’articolo 3, comma 1, della stessa legge (come modificata da ultimo dalla L. n. 190/2012), ancorché sia stata concessa la sospensione condizionale della pena. (...continua).

APPALTII: Prestazioni previdenziali erogate da Stazione appaltante a fronte di irregolare posizione contributiva dell’impresa fallita (parere 14.12.2015-562411, AL 22627/15 - Rassegna Avvocatura dello Stato n. 1/2016).
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Con la nota che si riscontra codesta Avvocatura ha richiesto l’avviso della Scrivente in merito all’individuazione del soggetto legittimato a ricevere il pagamento dei corrispettivi contrattuali in relazione a prestazioni rese da una ditta incaricata dalla Direzione Generale per la gestione e la manutenzione degli edifici giudiziari di Napoli per la realizzazione di un sistema di consultazione al pubblico per l’accesso agli uffici ed ai servizi del nuovo palazzo di giustizia di Napoli. (...continua).

APPALTI: Soggetti tenuti al rilascio della documentazione antimafia in caso di partecipazioni societarie indirette (parere 26.11.2015-536024, AL 35225/15 - Rassegna Avvocatura dello Stato n. 1/2016).
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1. Quesito
Si fa riferimento alla nota in oggetto, con cui codesta Amministrazione ha chiesto un parere della Scrivente in merito all’ambito di operatività, sul piano della sfera soggettiva, della prescrizione contenuta nell’art. 85, comma 2, lett. c), D.Lgs. n. 159/2011 la quale, in materia di soggetti tenuti al rilascio della documentazione antimafia, fa riferimento al «socio di maggioranza in caso di società con un numero di soci pari o inferiore a quattro». (...continua).

PUBBLICO IMPIEGO: Sul principio di onnicomprensività del trattamento economico dirigenziale di cui all’art. 24, D.lgs 165/2001 (parere 18.11.2015-521594, AL 34140/15 - Rassegna Avvocatura dello Stato n. 1/2016).
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Con la nota che si riscontra, codesto Dipartimento chiede di conoscere l'avviso dello scrivente in ordine al seguente quesito: "Se il compenso liquidato dal Tar/Consiglio di Stato ad un funzionario ovvero dirigente dell'amministrazione nella qualità di Commissario ad acta, nominato ai sensi dell'art. 114 CPA, nel giudizio di ottemperanza, sia o meno soggetto al principio di onnicomprensività del trattamento economico di cui all'art. 24, D.lgs 165/2001".
Al riguardo codesto Dipartimento ha evidenziato due diversi orientamenti espressi rispettivamente dal Dipartimento della Funzione pubblica e dalla Ragioneria generale dello Stato. (...continua).

NEWS

EDILIZIA PRIVATA: Il «peso» delle varianti definisce il titolo edilizio. Le modifiche ai progetti si dividono in tre categorie.
Urbanistica. Affidato alla giurisprudenza il compito di classificare la tipologia di intervento.

Durante lo svolgimento dei lavori, può accadere di voler apportare dei cambiamenti all’originaria idea costruttiva. La normativa edilizia ammette la possibilità di modificare il progetto approvato presentando delle varianti, ma non le definisce in maniera compiuta.
A questo difetto ha supplito da tempo la giurisprudenza, individuando le varianti ordinarie, leggere ed essenziali.
Le varianti ordinarie
Il Consiglio di Stato (1572/2007) ha chiarito che le modifiche (qualitative o quantitative) possono definirsi varianti in senso proprio solo quando il progetto già approvato non viene radicalmente mutato. E gli elementi da prendere in considerazione, per valutare la necessità di un nuovo permesso di costruire, riguardano la superficie coperta, il perimetro, la volumetria, le distanze dalle proprietà limitrofe, nonché le caratteristiche funzionali e strutturali, interne ed esterne, del fabbricato.
Nella variante ordinaria il progetto resta collegato a quello originario: un rapporto di complementarità e accessorietà che giustifica anche il peculiare regime giuridico. Il nuovo titolo viene infatti concesso con lo stesso procedimento previsto per il rilascio del permesso di costruire, pur restando salvi tutti i diritti quesiti. Ciò rileva soprattutto nel caso di «una contrastante normativa sopravvenuta, che, se non fosse ravvisata l’anzidetta situazione di continuità, potrebbe rendere irrealizzabile l’opera» (Tar Campania-Napoli, 1154/2015; Tar Calabria-Catanzaro, 150/2016).
Le varianti leggere
Il Dpr 380/2001 (articolo 22, comma 2, come modificato dal Dl 69/2013) prevede che possa essere presentata una Scia (ex Dia) per le cosiddette varianti leggere o minori, cioè quelle applicate a permessi di costruire che non incidono sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, non modificano la destinazione d’uso e la categoria edilizia, non alterano la sagoma dell’edificio se questo è sottoposto a vincolo paesaggistico o storico-artistico ai sensi del Dlgs 42/2004, non violano le prescrizioni del permesso di costruire (Cassazione, 49290/2012).
In questo caso la Scia costituisce «parte integrante del procedimento relativo al permesso di costruzione dell’intervento principale» e può essere presentata prima della dichiarazione di fine lavori, regolarizzando le opere in difformità.
Il Dl 133/2014 (“sblocca Italia”), aggiungendo il comma 2-bis all’articolo 22 del Dpr 380/2001, ha ampliato la casistica e ammesso nella categoria delle “modifiche leggere” le varianti a permessi di costruire che non configurino una variazione essenziale, a condizione che siano conformi alle prescrizioni urbanistico-edilizie e realizzate dopo aver acquisito gli eventuali atti di assenso prescritti dalla normativa sui vincoli paesaggistici, idrogeologici, ambientali, di tutela del patrimonio storico, artistico e archeologico, e dalle altre normative di settore.
Le varianti essenziali
Quella cosiddetta essenziale, in realtà, non può considerarsi una vera “variante”, perché l’intervento edilizio viene radicalmente mutato sotto l’aspetto qualitativo e quantitativo, tanto da perdere collegamento con l’originario. Ne consegue che «deve riconoscersi il carattere di nuovo permesso di costruire ad un provvedimento che, nonostante la qualificazione formale di variante, autorizzi la realizzazione di un manufatto completamente diverso da quello originario» (Cassazione, 24236/2010). Le varianti essenziali necessitano quindi del rilascio di un nuovo e autonomo permesso di costruire, e sono soggette alle disposizioni vigenti nel momento in cui vengono presentate.
La giurisprudenza (Consiglio di Stato, 2294/2015) ha anche chiarito la differenza tra i concetti di “variante” e “variazione” essenziale. Mentre il primo concerne la modifica del titolo edilizio, il secondo riguarda l’esecuzione difforme dell’opera rispetto al progetto approvato con il titolo edilizio e rileva ai fini del tipo di sanzione applicabile, tenendo presente che «la rimozione delle difformità dal progetto deve essere proporzionale e ragionevole» (Consiglio di Stato, 4790/2014)
(articolo Il Sole 24 Ore del 30.05.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATAConsiglio di Stato. Va chiarito quando si applica la Scia.
Le modifiche degli ultimi anni riguardanti la disciplina della Scia (Dl 69/2013 e 133/2014) hanno delineato un quadro normativo sempre più incerto e di difficile applicazione in materia di “governo del territorio”.

Era quindi molto atteso l’intervento della riforma Madia (legge 124/2015), il cui articolo 5 ha delegato il Governo ad adottare «uno o più decreti legislativi per la precisa individuazione dei procedimenti oggetto di segnalazione certificata di inizio attività o di silenzio assenso», ai sensi degli articoli 19 e 20 della legge 241/1990. Le aspettative rischiano però di restare in parte deluse.
Sullo schema di decreto approvato in via preliminare dal Governo lo scorso 20 gennaio si è espresso il Consiglio di Stato
(parere 30.03.2016 n. 839), che ha ricordato come -in tema di Scia- l’articolo 6 della legge Madia abbia già riformulato l’articolo 19, comma 3, della legge 241/1990, attribuendo alla Pa tre tipi di poteri (inibitori, repressivi e conformativi) esercitabili entro 60 giorni dalla segnalazione, dando la preferenza a quelli conformativi «qualora sia possibile».
Il comma 6-bis dello stesso articolo 19 applica questa disciplina anche alla Scia edilizia, riducendo però il termine a 30 giorni. Mentre il nuovo comma 4 stabilisce che, dopo tale scadenza, i poteri possono essere esercitati «in presenza delle condizioni previste dall’articolo 21-nonies»: norma anch’essa modificata dalla riforma Madia e che disciplina le ipotesi di annullamento d’ufficio (il quale sarà possibile «entro un termine ragionevole, comunque non superiore a diciotto mesi»).
Scaduto anche quest’ultimo termine, la Pa conserva il potere di intervenire solo se i provvedimenti amministrativi sono stati «conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato» (si veda il Sole 24 Ore del 9 maggio).
Il Consiglio di Stato ha però rilevato il mancato esercizio della delega sotto due profili: la ricognizione dei procedimenti soggetti a Scia (oltre che silenzio assenso, autorizzazione espressa e comunicazione preventiva); e la previsione dell’obbligo di comunicare ai soggetti interessati i «termini entro i quali l’amministrazione è tenuta a rispondere ovvero entro i quali il silenzio dell’amministrazione equivale ad accoglimento della domanda».
Il Consiglio ha infine sottolineato la necessità di risolvere fin da ora, senza rimandare la soluzione a successivi decreti, la questione dell’applicabilità delle nuove disposizioni generali anche ai casi disciplinati da leggi “speciali” anteriori, come quella in tema di Scia e silenzio assenso in materia edilizia, «in un’ottica di chiarezza e comprensibilità del quadro normativo»
(articolo Il Sole 24 Ore del 30.05.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

CONSIGLIERI COMUNALIElezioni, spam ko. Stop agli invii alle e-mail interne. PRIVACY/ Il Garante bacchetta un politico locale.
L'assessore uscente non può mandare e-mail di propaganda elettorale alla mailing list interna dei dipendenti comunali. La casella di posta elettronica può essere utilizzata dall'amministratore per scopi relativi alla carica ricoperta e tra queste finalità non rientra la propaganda per le elezioni amministrative.
Il garante della privacy (newsletter 27.05.2016 n. 415) ha bacchettato un politico locale che ha utilizzato a sproposito gli indirizzi di posta elettronica dell'ente locale.
Il principio applicato dal Garante è quello della pertinenza del trattamento rispetto alle finalità consentite. Certamente un assessore ha la disponibilità delle caselle di posta elettronica dei dipendenti del comune, ma questo solo per ragioni istituzionali e non per procurarsi il consenso per future cariche.
Lo stesso ragionamento vale, tra l'altro, per il consigliere, che non può utilizzare le sue prerogative di accesso ad atti e informazioni (articolo 43 del dlgs 267/2000) se non per compiere il suo mandato. Ma si tratta del mandato attuale e non di quello futuro, che si spera di avere dalle elezioni.
Il Garante ha, poi, ribadito che i partiti, le liste o i singoli candidati non possono utilizzare indirizzi di posta elettronica senza il consenso specifico e informato dei destinatari. Consenso che, nel caso in esame, non è stato acquisito, come non risulta che i destinatari siano stati informati sull'uso che veniva fatto dei loro dati.
Il Garante ha aperto un'istruttoria per l'applicazione della sanzione amministrativa prevista per l'omessa informativa e la mancata acquisizione del consenso (articolo ItaliaOggi del 28.05.2016).

VARI: Punti esauriti, tempestività sulla patente.
Il trasgressore che finisce tutti i bonus patente deve presentare tempestivamente una istanza alla motorizzazione per sostenere l'esame di revisione della licenza di guida. E per chi non si presenta alle prove scatta la sospensione della patente oppure la revoca per i più negligenti.

Lo ha chiarito il Ministero dei trasporti con la circolare 18.05.2016 n. 117.
Il 01.07.2016 entreranno in vigore i nuovi programmi d'esame e i nuovi quiz per l'effettuazione degli esami di teoria per la revisione delle patenti di guida e della carta cqc. Per sostenere l'esame di revisione, specifica la nota, il candidato dovrà presentare una domanda, redatta su un modello ad hoc, con allegata una copia del provvedimento di revisione e il certificato medico, se richiesto.
La richiesta ha validità annuale, specifica il ministero. Alla scadenza annuale l'interessato dovrà presentare una nuova istanza se non ha superato entrambe le prove. La domanda dovrà essere presentata entro 30 giorni dal ricevimento del provvedimento di revisione della licenza di guida, prosegue la circolare. Decorsi 30 giorni dalla ricezione del provvedimento senza alcuna richiesta formale scatterà la sospensione della patente fino al superamento delle prove.
Lo stesso provvedimento verrà adottato a carico del candidato assente alla prova fissata, decorsi 30 giorni. Gli esami di revisione della licenza di guida si svolgeranno in due giorni diversi. Prima quello teorico, con revoca della patente in caso di mancato superamento. La prova pratica, conseguente al superamento di quella teorica, verrà invece disposta successivamente e in caso di mancato superamento comporterà la revoca della patente. In questo caso il conducente dovrà eventualmente conseguire nuovamente tutte le categorie, fatti salvi i criteri di propedeuticità indicati dall'art. 130 cds.
La revisione della carta di qualificazione del conducente, infine, scatterà all'esaurimento del punteggio dei conducenti professionali. Se il conducente risulta titolare sia della cqc trasporto cose che trasporto persone scatterà il programma d'esame attinente alla materia in cui il trasgressore ha commesso più violazioni (articolo ItaliaOggi del 27.05.2016).

COMPETENZE GESTIONALI: Raffica di variazioni di bilancio. Correzioni ai consigli. Giunte e dirigenti con più poteri. La riforma della contabilità costringe ad adeguare le cifre iscritte nei preventivi.
Variazioni di bilancio in aumento, con un ruolo più rilevante di dirigenti e responsabili del servizio (non solo finanziario).

Si può riassumere in questi termini l'impatto della nuova disciplina contabile in ordine ai provvedimenti che in corso di esercizio si rendono necessari per adeguare le cifre iscritte nei preventivi.
Le nuove regole sono contenute nell'art. 175 del Tuel, che dal 2016 è pienamente applicabile a tutti gli enti locali (mentre fino al 2015 si estendeva solo ai c.d. sperimentatori).
Tale norma assegna la competenza generale in materia di variazioni ai consigli, mentre alle giunte e ai dirigenti/responsabili spettano solo i provvedimenti loro espressamente attribuiti.
Tuttavia, i casi in cui entrano in gioco l'organo esecutivo o la tecno-struttura sono assai numerosi e frequenti.
In linea di principio, il consiglio interviene sulle variazioni strategiche, che incidono sugli stanziamenti delle tipologie di entrata e dei programmi di spesa (aggregati che rappresentano le unità di voto del nuovo bilancio).
Le stesse variazioni possono ancora essere adottate dalla giunta in via d'urgenza: la relativa disciplina è rimasta invariata, per cui continua a sussistere l'obbligo di ratifica consiliare entro 60 giorni e comunque entro il 31 dicembre dell'anno in corso.
Sempre al consiglio spetta la variazione di assestamento generale, che da quest'anno deve essere deliberata entro il 31 luglio, con la quale si attua la verifica di tutte le voci di entrata e di uscita, compreso il fondo di riserva ed il fondo di cassa, al fine di assicurare il mantenimento del pareggio di bilancio.
Oltre ai casi di urgenza, la giunta effettua le variazioni non discrezionali, quali l'applicazione dell'avanzo vincolato e accantonato in esercizio provvisorio, le variazioni compensative su risorse vincolate, le variazioni di cassa, le variazioni per trasferimento interno di personale, l'applicazione di avanzo accantonato per fondo rischi e fondo oneri e del fondo di riserva. Sempre alla giunta spetta la variazione conseguente al riaccertamento straordinario dei residui, che per quest'anno la quasi totalità degli enti ha già chiuso. Sono vietate le variazioni di giunta compensative tra macroaggregati appartenenti a titoli diversi.
Al responsabile del servizio finanziario toccano le variazioni compensative tra capitoli (ad eccezione di quelle relative a trasferimenti e contributi, che restano in capo alla giunta), l'applicazione di avanzo vincolato derivante da economie, le variazioni di esigibilità che incidono sul fondo pluriennale vincolato, quelle sulle partite di giro, nonché le variazioni degli stanziamenti riguardanti i versamenti ai conti di tesoreria statale intestati all'ente e i versamenti a depositi bancari intestati all'ente.
Peraltro, i regolamenti di contabilità (che molti enti devono ancora adeguare) possono assegnare alcune delle variazioni di competenza dirigenziale o alla giunta o a responsabili diversi da quello finanziario (ad esempio, le variazioni di esigibilità o quelle compensative).
Restano vietati gli spostamenti di dotazioni dai capitoli riguardanti le entrate e spese conto terzi verso altre parti del bilancio, nonché tra residui e competenza
In generale, il numero di variazioni aumenterà sia a causa dell'incremento dei capitoli dovuto alla necessità adeguarsi al piano dei conti integrato, sia dell'introduzione a regime del fondo pluriennale vincolato.
L'organo di revisione deve dare il parere solo sulle variazioni di consiglio e su quelle su cui tale adempimento è espressamente previsto dalle norme. Tuttavia, l'art. 239 Tuel dispone che ai revisori spetta il compito di «verificare, in sede di esame del rendiconto della gestione, dandone conto nella propria relazione, l'esistenza dei presupposti che hanno dato luogo alle variazioni di bilancio approvate nel corso dell'esercizio, comprese quelle approvate nel corso dell'esercizio provvisorio» (articolo ItaliaOggi del 27.05.2016).

PUBBLICO IMPIEGOPer i malati gravi diritto al part-time. Welfare. Tutelati i lavoratori a tempo pieno affetti da patologie oncologiche o cronico-degenerative.
Ai lavoratori affetti da patologie oncologiche o da altre gravi patologie cronico-degenerative, per i quali residui una ridotta capacità lavorativa anche a causa degli effetti invalidanti di terapie salvavita, è riconosciuto il diritto alla trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale.

Questa particolare tutela, già prevista dall’articolo 46 del Dlgs 276/2003, è ripresa dall’articolo 8, comma 3, del Dlgs 81/2015, che ne ha espressamente previsto l’applicazione a tutti i dipendenti del settore privato e pubblico a condizione che la malattia parzialmente invalidante sia accertata da una commissione medica istituita presso l'unità sanitaria locale territorialmente competente.
L’estensione alle patologie cronico-degenerative è, però, limitata a quelle definite dalla stessa norma «ingravescenti» e sembra pertanto limitata a malattie che si aggravano progressivamente, con un non facile distinguo rispetto a quelle malattie che, seppure croniche, non peggiorano gradualmente nel corso del tempo.
Su richiesta del lavoratore il rapporto a tempo parziale deve essere trasformato nuovamente in rapporto a tempo pieno. Il ministero del Lavoro, con la circolare 40/2005, ha precisato che la richiesta del lavoratore non può essere negata anche se possono essere fatte valere contrastanti esigenze aziendali e che le parti si dovranno accordare sul nuovo orario di lavoro e sulla sua collocazione temporale, che può essere di tipo orizzontale, verticale o misto ma che deve prioritariamente tenere in considerazione le specifiche esigenze del lavoratore.
Non volendo (o non potendo) ricorrere al part-time è utile rammentare che l’Inps, con la circolare 136/2003 ha considerato sufficiente un’unica certificazione del curante che attesti la necessità di trattamenti ricorrenti comportanti incapacità lavorativa e che li qualifichi l’uno ricaduta dell’altro. Gli interessati devono inviare la certificazione prima dell’inizio della terapia, fornendo anche l’indicazione dei giorni previsti per l’esecuzione.
A tale certificazione dovranno far seguito, sempre a cura degli interessati, periodiche dichiarazioni della struttura sanitaria riportanti il calendario delle prestazioni effettivamente eseguite, le sole che danno titolo all’indennità.
Non vi è, invece, alcun diritto di chiedere la trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale se la malattia colpisce il coniuge, i figli o i genitori del lavoratore o della lavoratrice e questi abbiano necessità di assistenza continua.
L’articolo 8, comma 4, del Dlgs 81/2015 stabilisce, infatti, che il lavoratore dipendente ha semplicemente la priorità nella trasformazione del contratto, da tempo pieno a tempo parziale, in caso di patologie oncologiche o gravi patologie cronico-degenerative ingravescenti riguardanti il coniuge, i figli o i genitori del lavoratore o della lavoratrice. Tale priorità può essere fatta valere anche se il lavoratore o la lavoratrice assiste una persona convivente con totale e permanente inabilità lavorativa definita grave ai sensi dell’articolo 3, comma 3, della Legge 104/1992 e che abbia, quindi, necessità di assistenza continua.
Priorità nella trasformazione del contratto di lavoro è riconosciuta anche al lavoratore o alla lavoratrice, con figlio convivente di età non superiore a 13 anni o con figlio convivente portatore di handicap ai sensi dell’articolo 3 della Legge 104/1992
(articolo Il Sole 24 Ore del 26.05.2016).

EDILIZIA PRIVATA: La classificazione sismica degli edifici ha nuovi canoni.
In arrivo le linee guida per la classificazione sismica degli edifici. Sei le classi di appartenenza, dalla A alla F, che indicheranno il rischio cui sarà sottoposto l'edificio e il modo in cui dovrà risponde ad un evento sismico. Tutto questo consentirà di misurare il miglioramento antisismico generato da un intervento di messa in sicurezza non solo dal punto di vista strutturale, ma anche da quello economico.

Questa la risposta del sottosegretario al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, Umberto Del Basso De Caro, in Commissione Ambiente della Camera a un'interrogazione (INTERROGAZIONE A RISPOSTA IMMEDIATA IN COMMISSIONE 5/08720) posta dall'onorevole del Movimento cinque stelle, Claudia Mannino in merito ai tempi di emanazione delle linee guida per la classificazione sismica degli edifici.
Le linee guida per la classificazione sismica degli edifici sono state redatte dall'Ingegneria sismica italiana (Isi) con la finalità di fotografare un quadro degli investimenti necessari per la messa in sicurezza del patrimonio edilizio. L'onorevole Claudia Mannino ha sottolineato nel corso dell'intervento che un'inadeguata progettazione, una scadente qualità dei materiali e delle modalità di costruzione e una scarsa manutenzione aggravano le conseguenze degli eventi sismici.
L'adeguamento antisismico deve quindi essere visto come una strategia preventiva diretta a ridurre la perdite di vite umane, i danni alle cose e gli impatti sociali, economici e finanziari. Il rischio sismico di una singola costruzione, ha risposto il sottosegretario Del Basso De Caro, dipende da tre fondamentali fattori, la pericolosità del sito, la vulnerabilità della costruzione e l'esposizione delle attività, dei beni e delle persone presenti nella costruzione.
Le linee guida hanno l'obiettivo di arrivare ad una classificazione riferita al rischio sismico dipendente non solo dalla vulnerabilità, ma anche dalla pericolosità del sito e dall'esposizione (articolo ItaliaOggi del 26.05.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAIl Sistri imbocca la strada della semplificazione. Le linee guida che dovranno essere seguite dal futuro gestore.
Rifiuti. Decreto in Gazzetta Ufficiale: nuove regole in vigore a partire dall’8 giugno.

Il Sistri (Sistema elettronico di tracciabilità dei rifiuti) si accinge a cambiare pelle e prova a diventare un sistema quasi normale, suscettibile di essere utilmente usato. Infatti, è apparso sulla Gazzetta Ufficiale di ieri il nuovo “Testo unico” Sistri che manda in soffitta il precedente decreto ministeriale 52/2011.
Il nuovo testo si identifica con il decreto ministeriale 30.03.2016, n. 78 e ha la sostanza di regolamento; pertanto, entra in vigore il prossimo 8 giugno. Il decreto può essere idealmente suddiviso in tre sezioni:
- la prima fa ordine e conferma sostanzialmente quanto fatto finora, fino a nuovo ordine;
- la seconda chiarisce una serie di importanti problematiche emerse nel tempo;
- la terza è la più importante poiché recepisce, finalmente, le doglianze operative espresse per anni dalle imprese e culminate nel documento del giugno 2014 di Confindustria.
Infatti, l'articolo 23 traccia il regime transitorio fornendo speranze per un futuro più equo ed accessibile, anche sotto il profilo dei costi. Lo fa vincolando il futuro gestore in uno stretto perimetro all'interno del quale costui dovrà agire senza possibilità alcuna di esercitare i fantasiosi esercizi di stile ai quali le imprese erano state tristemente abituate. Infatti, le procedure di affidamento del Sistri “assicurano”:
- razionalizzazione e semplificazione del sistema, con l'abbandono dei dispositivi Usb per i trasportatori e delle black box e l'individuazione di strumenti idonei per la tracciabilità dei rifiuti;
- tenuta in formato elettronico dei registri di carico e scarico e dei formulari con compilazione in modalità off-line e trasmissione asincrona dei dati, nonché la generazione automatica del Mud (Modello unico di dichiarazione ambientale);
- interazione e coordinamento con banche dati in uso alla P.a. garantendo, per quanto possibile, l'acquisizione automatica delle informazioni disponibili;
- garanzia di interoperabilità con i sistemi gestionali in uso a imprese e associazioni di categoria e specifici sistemi per le imprese che non hanno sistemi gestionali;
- sostenibilità dei costi e la messa a disposizione di adeguati strumenti di assistenza e formazione per le imprese.
Il decreto conferma integralmente il Sistri per i rifiuti pericolosi, fa ordine sui soggetti obbligati all'iscrizione e conferma i contributi precedenti ma dispone che con futuro decreto saranno modificati (anche per chi aderisce al Sistri volontariamente). Inoltre, detta minuziose procedure operative di accesso e gestione che ricalcano buona parte di quanto finora esistente ma detta anche disposizioni specifiche che chiariscono una serie di dubbi intervenuti nel tempo. Rimette ad altri futuri decreti le procedure operative necessarie per l'accesso al Sistri l'inserimento e la trasmissione dei dati, nonché quelle da applicare nei casi in cui si richiedano disposizioni differenziate o specifiche.
Il decreto dispone che “la società concessionaria del servizio di gestione del Sistri predispone ed aggiorna la modulistica descrittiva, i manuali e le guide sintetiche a supporto degli operatori e ne cura la pubblicazione sul portale informativo Sistri (www.sistri.it)”. Tuttavia, a differenza del pregresso, tale futuro gestore non avrà mano libera; infatti, sarà necessario il “previo visto di approvazione del Ministero dell'ambiente
(articolo Il Sole 24 Ore del 25.05.2016).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Sistri snellito e con meno oneri per gli operatori. Il dm ambiente in g.u., ma si dovranno attendere i decreti attuativi.
Snellimento della tempistica per la comunicazione telematica dei dati, riduzione dei contributi per le imprese che pur non avendone l'obbligo aderiscono volontariamente al Sistri e riduzione degli oneri di dotazione informatica per i trasportatori di rifiuti.

Queste le principali novità del decreto Minambiente 30.03.2016, n. 78, pubblicato sulla G.U. n. 120 di ieri e in vigore dall'8 giugno prossimo, recante «disposizioni relative al funzionamento e ottimizzazione del sistema di tracciabilità dei rifiuti in attuazione dell'articolo 188-bis, comma 4-bis, del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152».
Il provvedimento, che sostituisce il cosiddetto «Testo unico» Sistri (dm 52/2011), presenta molte innovazioni che non saranno però immediatamente esecutive, ma agganciate all'adozione di ulteriori decreti ministeriali e alla individuazione del nuovo gestore del servizio di tracciamento telematico dei rifiuti (si veda ItaliaOggi del 14 maggio e ItaliaOggi Sette del 16 maggio scorso).
Circa i soggetti obbligati all'iscrizione, a differenza dell'uscente «T.u. Sistri», il nuovo decreto non ne riprodurrà il novero, ma si limiterà a effettuare un secco rinvio ai soggetti individuati dall'articolo 188-ter del dlgs 152/2006 (confermando dunque anche la validità delle deroghe sancite con dm 24/04/2014 per alcune imprese).
Utile precisazione recata dal dm 78 è quella relativa a imprese ed enti che provvedono a raccolta e trasporto dei propri rifiuti (iscritti nella categoria 2-bis dell'Albo gestori ambientali) laddove appare essere chiarito che l'obbligo di adesione al Sistri è unicamente quello discendente dalla loro posizione di produttori di rifiuti. Il dm ripropone termini, modalità ed entità del contributo dovuto all'atto dell'iscrizione e poi con cadenza annuale.
Tuttavia, con ulteriore dm Minambiente se ne prevede una riduzione per i soggetti che, pur non essendo obbligati, aderiscono volontariamente al Sistri. Fino all'adozione degli ulteriori regolamenti di dettaglio, il dm impone dalla data della sua entrata in vigore, per quanto da esso non direttamente disciplinato, di continuare a fare riferimento alle procedure indicate nei manuali e nelle linee guida disponibili sul sito sistri.it.
La vera e propria semplificazione del sistema con la riduzione, come sancito a livello programmatico dallo stesso decreto, degli oneri anche informatici a carico degli operatori (tra cui la compilazione off-line delle schede, la trasmissione asincrona dei dati, la garanzia di interoperatività con i software di terze parti) arriverà dunque solo in un secondo momento (articolo ItaliaOggi del 25.05.2016).

VARI: Non paghi le rate? Perdi casa. In caso di inadempimento il bene passa alla banca. In Gazzetta il decreto 72/2016 sui contratti di mutuo secondo il patto marciano.
Al via dal 01.07.2016 i contratti di mutui con il «patto marciano»: se non si pagano le rate si può dare la casa. Ma affinché la disposizione entri pienamente in vigore bisognerà attendere i provvedimenti attuativi, per cui l'operatività scatterà plausibilmente solo dal prossimo anno.

È l'effetto della pubblicazione, sulla Gazzetta Ufficiale n. 117 del 20.05.2016, del decreto legislativo n. 72/2016, che riforma la disciplina dei contratti di credito ai consumatori relativi a immobili residenziali.
Mutui ipotecari. La riforma interviene su più punti, sia nella fase precontrattuale sia nella fase critica dell'inadempimento. La parte più innovativa è una clausola con la quale l'istituto di credito e il consumatore possono pattuire una speciale modalità di definizione della pendenza in caso di mancato pagamento delle rate da parte del cliente.
Il debitore che non può restituire le somme dovute può liberarsi trasferendo il bene alla banca. Somiglia a un patto commissorio (articolo 2744 del codice civile), ma se ne distingue per la distribuzione del corrispettivo e per l'effetto di esdebitazione. Quindi il contratto non può prevedere che la casa ipotecata passi in proprietà della banca se il debitore è inadempiente. In particolare il consumatore e la banca pattuiscono che al momento dell'inadempimento, il trasferimento dell'immobile o il ricavato dalla vendita comporta l'estinzione dell'intero debito, anche se il valore del bene o il prezzo incassato è inferiore al valore del debito residuo. Se, invece, capita che il valore o il prezzo ricavato sono più alti del debito, il debitore ha diritto all'eccedenza.
La norma prevede un obbligo di correttezza a carico della banca, che deve cercare di spuntare il miglior prezzo possibile. Inoltre la banca non può subordinare la concessione del mutuo alla sottoscrizione della clausola, e il consumatore ha diritto all'assistenza gratuita di un consulente per valutare la convenienza. Quest'ultima disposizione non brilla per chiarezza, perché non si comprende come attivare questo intervento di assistenza, se sia gratuito o se sia a pagamento e a carico di chi. Il presupposto che rende operativo il patto marciano è l'inadempimento del consumatore.
La nozione di inadempimento non è lasciata alla determinazione contrattuale, ma è fissata dalla legge. Il decreto legislativo 72/2016 fissa una soglia e precisa che l'inadempimento si verifica in caso di mancato pagamento di 18 rate mensili. Deve trattarsi di mancati pagamenti e non di semplici ritardi. Anche per la vendita il procedimento prevede garanzie a favore del debitore: il valore del bene deve essere stimato da un perito imparziale, nominato, se non c'è accordo delle parti, dal presidente del tribunale.
La clausola in questione può essere pattuita in sede di conclusione del contratto, mentre non può essere sottoscritta in caso di surrogazione del mutuo. Il meccanismo non è retroattivo. Lo spiegano le disposizioni transitorie. La clausola non si applica alla rinegoziazione dei contatto di mutuo sottoscritto anteriormente all'entrata in vigore del decreto in commento.
Inoltre per i nuovi contratti la decorrenza è differita al decorso di 60 giorni dalla entrata in vigore di disposizioni di attuazione (ci vuole un decreto ministeriale, sentita la Banca d'Italia) da adottarsi entro 180 giorni dall'entrata in vigore del decreto legislativo. Nel caso in cui la banca non faccia ricorso alla clausola e chieda le vendita all'asta secondo il codice di procedura civile, se avanza un debito residuo, il debitore godrà di una moratoria di sei mesi dal termine della procedura esecutiva.
Mutui in valuta. Il decreto legislativo 72/2016 prevede il diritto del consumatore a convertire il mutuo in valuta o nella valuta del suo reddito o del suo paese di residenza. Se nel corso del rapporto il debito residuo varia di oltre un quinto rispetto a quello che risulterebbe applicando il tasso di cambio tra la valuta del mutuo e l'euro, la banca lo deve segnalare al debitore. Questo per consentire al consumatore di prendere l'eventuale decisione di convertire la valuta del finanziamenti. La norma si applica a partire dal 01.07.2016 e per i contratti sottoscritti successivamente a tale data.
Stima dell'immobile. Il decreto 72/2016 formula criteri generali per la stima del bene immobile da finanziare, demandando alla Banca d'Italia i dettagli attuativi. La norma si applicherà dal 01.11.2016 e le disposizioni di attuazione dovranno arrivare entro il 30.09.2016 (articolo ItaliaOggi del 24.05.2016).

ATTI AMMINISTRATIVIUffici pubblici, la lunga marcia della trasparenza. Dal diritto a conoscere i documenti di interesse al nuovo «Foia» che apre tutti i cassetti della burocrazia.
Trasparenza atto terzo. Il primo si è aperto alla fine del 1990, quando è arrivata la legge 241 sull’accesso agli atti amministrativi. Il secondo ha compiuto tre anni di vita giusto lo scorso 20 aprile: si tratta del decreto 33 del 2013, ribattezzato anti-corruzione. L’ultimo arrivato è il Foia (il Freedom of information act), che prende le mosse dalle norme del 2013 per introdurre anche in Italia ciò che in Gran Bretagna esiste dal Duemila, ovvero la possibilità per il cittadino di chiedere alla pubblica amministrazione tutti gli atti che quest’ultima possiede.
Un cammino lungo 26 anni, dunque, contrassegnato da pervicaci resistenze della burocrazia a mettersi in mostra. Il diritto di accesso del ’90 era (ed è) limitato, nel senso che il cittadino deve dimostrare di avere un interesse rispetto ai documenti che chiede alla Pa. Per esempio, posso vedere gli atti di un concorso pubblico se vi ho partecipato. Questi vincoli sono stati amplificati dalle prese di posizione degli uffici, maldisposti ad aprire i cassetti, che dal ’96 in poi hanno anche utilizzato come sponda le esigenze della privacy.
«Questi dati non possono essere forniti perché c’è la tutela dei dati personali», è stata spesso la risposta dietro cui la Pa si è trincerata. Sono state le sentenze dei Tar e del Consiglio di Stato a convincere le amministrazioni a cambiare idea e convertirsi, pian piano, alla trasparenza. E anche il Garante della privacy ha più volte richiamato gli uffici all’ordine, invitandoli a non utilizzare la riservatezza come alibi.
Nel 2013 il salto di qualità: la trasparenza diventa a portata di click e si fa più penetrante. Le amministrazioni devono pubblicare sui propri siti una lunga serie di dati: gli stipendi dei politici,le liste d’attesa delle strutture sanitarie, le consulenze, i dati sul personale, i bandi di concorso, i beneficiari di sovvenzioni e sussidi e così via. Dati di semplice consultazione, forniti in formato aperto e a cui i cittadini devono poter accedere online senza costi.
Il monitoraggio
Come hanno reagito le amministrazioni? Di certo c’è che ogni realtà pubblica -dal ministero al piccolo comune- ormai ha sul proprio sito istituzionale la sezione apposita denominata “Amministrazione trasparente”. Il problema è che dietro quell’etichetta ipertestuale si schiude un mondo difficile da monitorare. Ci ha provato il ministero della Pubblica amministrazione con lo strumento della Bussola della trasparenza, che però non è in grado di rilevare la tipologia e la qualità dei dati inseriti online. Secondo la Bussola, quindi sarebbero in regola con le norme sulla trasparenza oltre l’85% delle amministrazioni.
Ma tra i “segreti” meglio custoditi delle Pa ci sono la mappa delle società partecipate (si vedano le schede a fianco), i dati aggregati sugli appalti (praticamente introvabili in rete informazioni sui tempi di attuazione e sulle varianti)e l’elenco dei controlli gravanti sulle imprese.
All’appuntamento con la trasparenza, poi, gli enti arrivano in ordine tecnologico sparso: qualcuno riesce a pubblicare in formato aperto e rielaborabile, i più si affidano all’immutabile Pdf.
La riforma
Il decreto approvato la scorsa settimana interviene anche sugli obblighi informativi (si vedano le schede a fianco) con due obiettivi: in alcuni casi il perimetro si allarga (ad esempio le informazioni su redditi e patrimoni si estendono dai politici ai dirigenti pubblici); dall’altro si scommette su un alleggerimento degli oneri. Molti degli obblighi di trasparenza, infatti, saranno assolti con l’invio delle notizie ad alcune banche dati pubbliche a cui basterà rinviare con un link. Sarà così, ad esempio, per i rendiconti dei gruppi politici regionali e provinciali (da spedire alla Corte dei conti), per le informazioni sui bandi di gara, le aggiudicazioni e i costi dei lavori pubblici (ad Anac e Infrastrutture), per quelle sulle società partecipate (al Siquel).
Il decreto Foia non chiarisce come queste banche dati -per ora non accessibili- restituiranno queste informazioni. E per capirlo bisognerà aspettare un anno: questo è il lasso di tempo concesso a tutte le amministrazioni per riorganizzare l’invio alle banche dati.

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Ora la risposta è sempre dovuta: l’attesa oscilla tra 30 e 60 giorni. Freedom of information act. Si possono chiedere anche gli atti non pubblicati online.
La grande novità della riforma della trasparenza ha un nome d’importazione: Foia, ovvero Freedom of information act. In altre parole, il cittadino può avere accesso a tutti gli atti e i documenti custoditi dalla Pa. Anche quelli non pubblicati sui siti istituzionali degli enti.
Lo scarto rispetto alla riforma del 2013 sta proprio qui. Tre anni fa il decreto 33 allargò di molto il perimetro della trasparenza pubblica, ma segnò comunque un limite: il cittadino aveva il diritto di conoscere tutta una serie di documenti, indicati dallo stesso decreto, che le amministrazioni avrebbero dovuto pubblicare online (si veda anche l’articolo sopra). In caso di inadempienza, il cittadino poteva azionare l’accesso civico, ossia chiedere gratuitamente che gli si mettesse a disposizione il documento che avrebbe dovuto trovare online.
Con il Foia si compie un passo ulteriore. Il cittadino, infatti, può -sempre gratuitamente (salvo il rimborso del costo per la riproduzione dell’atto) e senza far valere particolari interessi- chiedere alla Pa di conoscere anche i documenti non pubblicati online. Ovvero, quegli atti non ricompresi nell’elenco stilato dal decreto 33. Con alcune eccezioni: per esempio, le informazioni relative alla sicurezza nazionale, quelle militari o quelle legate a segreti commerciali.
La procedura è semplice: si trasmette all’amministrazione interessata, anche via mail, una richiesta in cui si specificano i documenti ai quali si vuole accedere. L’amministrazione deve rispondere entro 30 giorni, a meno che non individui dei controinteressati, cioè persone che potrebbero avere un pregiudizio dall’accesso. In tal caso li informa e questi devono dire entro dieci giorni se sono favorevoli o contrari alla richiesta di accesso. Nel frattempo, il termine di 30 giorni concesso all’ufficio si interrompe, per riprendere a correre una volta ricevuta la risposta dei controinteressati.
Una volta acquisito l’eventuale responso dei controinteressati, la Pa comunica al cittadino la propria decisione, la quale -se è contraria alla richiesta di accesso- può essere sottoposta “in appello” al responsabile anticorruzione dell’ente.
Se anche quest’ultimo conferma il “no”, il cittadino può ricorrere al difensore civico e, in ultima istanza, al Tar
(articolo Il Sole 24 Ore del 23.05.2016 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPersonale, vincoli ormai ingestibili per i Comuni.
La disciplina dei vincoli finanziari al reclutamento e alla gestione del personale comunale ha raggiunto un livello di complessità e stratificazione non più sostenibile. Lo spazio di azione dei Comuni è reso ancora più caotico dalla discontinuità e contraddittorietà delle interpretazioni , che non contribuiscono a disorientare.

Un caso emblematico è rappresentato dai recenti sviluppi interpretativi della disciplina sul contenimento delle spese di personale.
La materia è stata semplificata nel 2014 con due misure di forte impatto: eliminazione del parametro del 50% dell’incidenza della spesa di personale su quella corrente quale presupposto per procedere a nuove assunzioni, e la previsione di un criterio fisso (media della spesa sostenuta nel triennio 2011-2013) da rispettare in ciascun esercizio successivo. Bene.
La Sezione delle Autonomie della Corte dei Conti, con due recenti deliberazioni, ha di fatto introdotto, attraverso un’interpretazione evolutiva di una disposizione della legge finanziaria del 2007, una lettura del principio dell’incidenza della spesa di personale sul complesso delle spese correnti, che di fatto preclude la possibilità di assumere personale a tutti quegli enti che hanno registrato dal 2013 una contrazione della spesa corrente in una proporzione superiore a quella di personale, caratterizzata da una maggiore rigidità strutturale. L’effetto è indubbiamente paradossale.
Infatti, per gli enti che hanno attuato le più efficaci politiche di contenimento della spesa corrente le conseguenze sono drammatiche: i Comuni di minori dimensioni demografiche sono impossibilitati a procedere al reclutamento di figure professionali indispensabili, come il ragioniere o il tecnico comunale, i Comuni caratterizzati da flussi turistici non potranno procedere all’assunzione del personale stagionale, i Comuni più grandi non potranno garantire, neanche attraverso il ricorso a forme di lavoro flessibile o di esternalizzazione, l’erogazione di servizi (educativi, socio-assistenziali, eccetera) alla cittadinanza.
La Corte dei Conti ha inoltre affermato, mutando il proprio indirizzo, che gli incarichi dirigenziali a contratto vanno computati nel tetto di spesa per il lavoro flessibile. Anche in questo caso il nuovo orientamento interpretativo determina conseguenze in corso d’anno quali l’impossibilità di procedere ad assunzioni a tempo determinato per esigenze temporanee o eccezionali o di attivare misure particolarmente significative per le fasce più deboli della popolazione quali i cantieri lavoro o i lavori di pubblica utilità.
Mentre si parla di semplificazione, assistiamo alla stratificazione di regole spesso inapplicabili in un cortocircuito che non tiene conto dei processi reali e della vita vera delle istituzioni
(articolo Il Sole 24 Ore del 23.05.2016).

APPALTICodice appalti. Soccorso istruttorio con sanzione «leggera».
Gli operatori economici possono sanare mancanze e irregolarità formali delle dichiarazioni e dei documenti presentati per partecipare a una gara, ma se vogliono restare in corsa nella procedura devono pagare una sanzione al momento della regolarizzazione.

Il nuovo Codice dei contratti pubblici ridisegna la disciplina del soccorso istruttorio, configurando un percorso nel quale sono state recepite anche alcune previsioni sperimentate nel quadro normativo previgente in base alle interpretazioni dell’Anac.
In base alla nuova regolamentazione dell’istituto, contenuta nell’articolo 83, comma 9, del Dlgs 50/2016, quando la stazione appaltante rileva la mancanza, l’incompletezza o l’irregolarità formale di una dichiarazione o di un documento essenziale connesso alla domanda di partecipazione e indispensabile per lo svolgimento della gara, consente all’operatore economico che non ha prodotto o ha prodotto in modo incompleto o irregolare l’elemento dichiarativo o documentale di regolarizzarlo.
La prima rilevante novità introdotta dal nuovo Codice è nella specificazione della possibilità di utilizzo del soccorso istruttorio con riferimento al solo complesso di elementi necessari per la partecipazione alla gara e, in particolare, al documento di gara unico europeo (Dgue) il cui utilizzo è previsto dall’articolo 85 del Dlgs 50/2016, mentre restano esclusi dalla sanatoria gli elementi dell’offerta tecnica ed economica.
L’amministrazione deve specificare nella richiesta formulata al concorrente cosa manca e chi deve rendere le dichiarazioni, assegnando un termine massimo di dieci giorni entro il quale va presentata la dichiarazione o il documento mancante o incompleto, oppure va sanata l’irregolarità formale (ad esempio la mancanza della fotocopia del documento di identità necessaria per la corretta formazione delle dichiarazioni sostitutive relative ai requisiti di partecipazione).
Il termine massimo è perentorio, quindi il suo mancato rispetto determina l’esclusione dalla procedura. Il concorrente che non ha prodotto dichiarazioni o documenti deve pagare anche una sanzione, stabilita dalla stazione appaltante nel bando di gara, in un range compreso tra l’uno per mille e l’uno per cento del valore della gara. La disposizione del Dlgs 50/2016 fissa alla sanzione un tetto di 5mila euro, quindi in termini dieci volte inferiori a quelli in precedenza stabiliti dal vecchio Codice dei contratti.
La seconda novità è determinata dall’obbligo dell’operatore economico di presentare entro lo stesso termine della regolarizzazione il documento che prova il pagamento della sanzione: se ciò non avviene, il concorrente è escluso dalla gara e l’effetto è rafforzato dall’assenza di soluzioni alternative (in passato era possibile per la stazione appaltante escutere la sanzione dalla cauzione provvisoria, mentre ora questa possibilità non è più prevista).
A favore degli operatori economici l’articolo 83, comma 9, prevede tuttavia che la sanzione è dovuta solo in caso di regolarizzazione, determinando la possibilità per i concorrenti interessati dal soccorso istruttorio di non effettuarla e, quindi, di porsi volontariamente fuori dalla gara.
La disposizione del Dlgs 50/2016 prevede inoltre che il soccorso istruttorio sia effettuato senza applicazione della sanzione in caso di mancanza, incompletezza o irregolarità formali di dichiarazioni o di documenti non essenziali (come ad esempio nel caso di mancata presentazione del «Passoe»)
(articolo Il Sole 24 Ore del 23.05.2016).

ATTI AMMINISTRATIVI: La Pa mette sul piatto i dati Accesso e riutilizzo sono liberi. Pro e contro delle misure del dlgs, cosiddetto Foia, sulla trasparenza amministrativa.
Inizia l'era dell'open data per le pubbliche amministrazioni.

Il decreto legislativo, approvato definitivamente dal governo il 16.05.2016, correttivo del precedente decreto legislativo 33/2013, rivoluziona la trasparenza amministrativa.
Gli enti pubblici sono tenuti, infatti, a fornire dati e documenti a chiunque e senza bisogno di motivazione.
Negli obiettivi del governo c'è la traduzione in italiano del Foia, Freedom of information act, ma tra i possibili risultati c'è la possibile minimizzazione del diritto alla riservatezza.
È il nuovo accesso civico, che sale sul ring per confrontarsi con il diritto alla riservatezza dei cittadini. E dove c'è accesso civico c'è possibilità di riutilizzo dei dati.
Si entra nella fase dei «dati aperti», anche se non mancano voci critiche che richiamano a maggiore attenzione alla privacy. Ovviamente i dati aperti sono un'esigenza dell'economia e dell'impresa, ma l'asticella dei diritti individuali è oggettivamente in bilico.
Ma vediamo che cosa cambia con le nuove regole.
Accessibilità totale. Innanzi tutto cambia la filosofia di fondo. Lo scopo della trasparenza non è più solo quello del controllo diffuso sulle p.a. (e cioè controllare come sono spesi i soldi dei contribuenti), ma anche, e soprattutto, di mettere a disposizione dei privati il patrimonio conoscitivo detenuto dagli enti pubblici.
L'immensa mole di dati acquisiti, censiti, conservati ed elaborati diventano un patrimonio non più riservato all'interesse pubblico.
Il decreto correttivo, modificando l'articolo 2 del decreto 33/2013, afferma che la trasparenza amministrativa va intesa come accessibilità totale dei dati e dei documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni allo scopo di tutelare i diritti dei cittadini e promuovere la partecipazione degli interessati all'attività amministrativa. Se la partecipazione ai procedimenti è un'esigenza della p.a., la tutela dei diritti dei cittadini è una prerogativa che non riguarda necessariamente i rapporti tra cittadino ed ente pubblico, ma implica un'attenzione all'esercizio dei diritti sociali ed economici dei privati.
Non a caso si estende il catalogo delle informazioni che possono essere ottenute dall'ente pubblico ed estende la possibilità di riutilizzo.
Accesso civico. Il nocciolo duro del decreto correttivo è l'accesso civico e cioè l'istituto attraverso il quale si rendono disponibili atti e informazioni.
Se prima, mediante l'accesso civico (istituito dalle norme sulla trasparenza) si poteva solo fare un sollecito per vedere pubblicato un atto o un documento che comunque la p.a. aveva l'obbligo di pubblicare, ora, con il decreto correttivo, l'accesso civico riguarda tutti i dati e documenti detenuti, pur se con alcuni limiti.
Si badi al fatto che si possono chiedere dati e documenti. Il doppio oggetto dell'accesso civico (dati e documenti) ha un preciso significato.
Un dato non necessariamente è stato usato in un atto o in un provvedimento. Se si possono chiedere anche solo i dati, allora diventa disponibile l'informazione in sé.
Questo significa apertura dei data base dell'amministrazione ad uso dei privati.
Il problema è se questo nuovo diritto di accesso potrà essere utilizzato per scopi di natura imprenditoriale. A questo proposito da un lato il decreto afferma che l'accesso è finalizzato alla generica tutela dei cittadini e dall'altro che non è richiesta nessuna motivazione. A questo si deve aggiungere che sempre il decreto correttivo prevede che non bisogna essere titolari di alcuna particolare legittimazione attiva: chiunque può chiedere l'accesso civico.
Sono tutti indici, questi, che abilitano a un uso legittimo, anche economico, del patrimonio conoscitivo delle pubbliche amministrazioni.
D'altra parte la tutela del cittadino significa anche possibilità per il cittadino di tutelare il proprio diritto d'impresa o al lavoro, ad esempio professionale.
Si pensi alla quantità di analisi statistiche in campo ambientale, di governo del territorio, di rete commerciale, di composizione della popolazione e così via.
Naturalmente questo pone un problema di protezione dei dati personali.
Rapporto con la privacy. Il problema della riservatezza viene risolto, almeno sulla carta, a posteriori.
Le preoccupazioni formulate dal Garante della privacy sono state formulate in un parere (del 3 marzo 2016 n. 92) con molte richieste di modifiche, solo poche accolte.
Eppure la disciplina della tutela è rimasta basata sull'attivazione del singolo. Se il singolo prenderà l'iniziativa di opporre la sua riservatezza, ci sarà da discutere sull'accoglibilità della richiesta di accesso civico.
Il procedimento di questo tipo di accesso prevede, infatti, che per dati e documenti (diversi da quelli a pubblicazione obbligatoria), il controinteressato possa dire la sua per tentare di tenere sotto chiave le informazioni che lo riguardano. Ma si tratta, comunque, di una tutela a posteriori e non di una restrizione a monte.
Nella precedente versione del decreto 33/2013, infatti, non era previsto un regime di conoscenza generalizzato di tutti gli atti. E anche rispetto al testo modificato il Garante della privacy aveva proposto un bilanciamento di interessi, nel senso di consentire l'accesso solo in caso di dimostrazione della prevalenza dell'interesse perseguito da chi chiede i dati. Rimane il fatto che la tutela della privacy è affidata all'iniziativa del singolo e alla valutazione (magari discordante da ente a ente) delle varie p.a. destinatarie della richiesta di accesso civico.
Un rischio, questo, solo attenuato dal fatto che il decreto correttivo assegna all'Anac, autorità anticorruzione, d'intesa con il Garante della privacy, il compito di elaborare linee guida per aiutare a discernere in quali casi la protezione dei dati personali possa sbarrare la strada all'accesso civico.
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Una disciplina per ogni diritto.
La babele delle leggi sulla trasparenza dimostra che di trasparenza ce n'è poca.
C'è l'accesso all'interno del procedimento e quello slegato da un procedimento determinato. C'è poi quello specifico per le gare di appalto a favore dei concorrenti e quello in materia ambientale.
L'avvocato, che conduce indagini difensive, ha una particolare modalità per chiedere atti e documenti e l'interessato avrebbe la possibilità di esercitare l'acceso in base al codice della privacy. Se, poi, sono un consigliere di un ente locale, posso avvalermi di una corsia preferenziale per avere documenti e informazioni per svolgere il mio mandato.
E tutte queste forme di accesso hanno modalità e disciplina particolari.
Alcune forme sono riservate a soggetti con particolare qualifica (avvocato/consigliere); alcune sono a disposizione di tutti (accesso ambientale) o riservate solo all'interessato, senza poter conoscere dati di terzi (accesso privacy). Alcuni tipi di accesso hanno a oggetto documenti preesistenti (accesso ai documenti amministrativi), altri anche semplici informazioni (accesso ambientale e del consigliere). Per alcune forme di accesso il richiedente deve spiegare la motivazione della richiesta (accesso ai documenti) e per altre no (accesso del consigliere o accesso privacy).
Per alcuni tipi di accesso, se non si rimane soddisfatti si dovrà ricorrere al giudice amministrativo (accesso ai documenti, del consigliere), per altri bisogna andare al giudice ordinario (accesso privacy, ma in alternativa a un ricorso al Garante) e per altri le formalità di tutela sono del tutto diverse e peculiari (accesso dell'avvocato nelle indagini difensive).
Su tutto questo non calerà il sipario, nemmeno con l'accesso civico nella versione rivisitata dal decreto correttivo del dlgs 33/2013: l'articolato della novella fa salvi gli altri tipi di accesso. Quindi chi fa una richiesta di accesso alla p.a. potrebbe individuare la forma più conveniente e meno burocratica (articolo ItaliaOggi Sette del 23.05.2016 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

TRIBUTI: La natura pertinenziale si fonda sul dato di fatto.
La natura pertinenziale dell'immobile si fonda sul criterio fattuale ossia sulla destinazione effettiva della cosa al servizio o ornamento dell'altra.

Il principio è contenuto nella sentenza n. 146/2016 della Ctp di Rieti da cui emerge che la sola classificazione catastale non è sufficiente a determinare la natura di pertinenza in quanto il bene deve presentare la destinazione al servizio od ornamento dell'abitazione principale.
In fatto il ricorrente ha impugnato l'avviso di accertamento notificatogli dal comune che contestava il mancato pagamento dell'Ici per l'immobile ritenuto pertinenza dell'abitazione principale.
La definizione di pertinenza dell'abitazione principale, è stata rivista con l'art. 13, comma 2, del dl n. 201 del 2011 (cfr. anche dlgs n. 23/2011 istitutivo dell'Imu), il quale stabilisce che «per pertinenze dell'abitazione principale si intendono esclusivamente quelle classificate nelle categorie catastali C/2, C/6 e C/7, nella misura massima di un'unità pertinenziale per ciascuna delle categorie catastali indicate, anche se iscritte in catasto unitamente all'unità ad uso abitativo».
Secondo tale norma possono intendersi quali pertinenze soltanto le unità immobiliari accatastate nelle categorie: C/2: magazzini e locali di deposito; cantine e soffitte se non unite all'unità immobiliare abitativa; C/6: stalle, scuderie, rimesse, autorimesse; C/7: tettoie (cfr. circ n. 3/DF/2012 del Mef).
La Ctp ha ritenuto che il ricorrente non ha fornito idoneo riscontro probatorio al fine di dimostrare l'invocata natura pertinenziale dell'immobile, non essendo sufficiente la sola classificazione catastale, atteso che il bene deve presentare necessariamente la destinazione al servizio od ornamento dell'abitazione principale (cfr. art. 817 c.c.).
In tema di imposta comunale sugli immobili, la Suprema corte ha affermato che l'art. 2 dlgs n. 504/1992, che esclude l'autonoma tassabilità delle aree pertinenziali, fonda l'attribuzione della qualità di pertinenza sul criterio fattuale ossia «sulla effettiva e concreta della cosa al servizio o ornamento dell'altra, senza che rilevi l'intervenuto frazionamento dell'area posta al servizio di un edificio, avente esclusivo rilievo formale (cfr. Cass. nn. 26077/2015 e 22129/2015)».
Per i motivi sopraesposti, la Ctp non ha accolto il ricorso stabilendo, quindi, come dovuto il pagamento richiesto ai fini Ici (articolo ItaliaOggi Sette del 23.05.2016).

GIURISPRUDENZA

APPALTINelle gare pubbliche di appalto per la cui aggiudicazione è stato prescelto il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, “competenza esclusiva della commissione è l'attività valutativa, mentre ben possono essere svolte dal responsabile unico del procedimento quelle attività che non implicano l'esercizio di poteri valutativi, tanto in ragione delle previsione generale contenuta nell'art. 10, comma 2, d.lgs. 12.04.2006 n. 163, che affida al responsabile unico del procedimento lo svolgimento di tutti i compiti relativi alle procedure di affidamento, non specificamente attribuiti ad altri organi o soggetti".
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Considerato che l'esercizio della discrezionalità tecnica è concentrato sull'atto della valutazione delle offerte tecniche, ne deriva che quel che compete inderogabilmente alla Commissione di cui all'art. 84, d.lgs. n. 163 del 2006 è il giudizio dell'offerta tecnica, pur potendo accadere che alla Commissione giudicatrice venga anche affidato il compito di controllare la documentazione amministrativa, ovvero quella di attribuire il punteggio dell'offerta economica, ma non viceversa.

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L’aver modificato il punteggio attribuito all’offerta tecnica dopo aver conosciuto il contenuto di quella economica contravviene al fondamentale principio che, a tutela della trasparenza e imparzialità dell’amministrazione, impone di tenere separate le due componenti dell’offerta stessa.
Invero, il principio della segretezza comporta che, fino a quando non si sia conclusa la valutazione delle offerte tecniche, le offerte economiche devono restare segrete, dovendo essere interdetta al seggio di gara la conoscenza degli elementi economici e, in particolare, delle percentuali di ribasso, proprio per evitare ogni influenza sulla valutazione dell'offerta tecnica; il principio di segretezza dell'offerta economica si pone infatti a presidio dell'attuazione della regola costituzionale di imparzialità e buon andamento dell'azione amministrativa, sub specie della trasparenza e della par condicio tra i concorrenti, dovendosi così necessariamente garantire la libera valutazione dell'offerta tecnica; ed invero, la sola possibilità di conoscere gli elementi attinenti l'offerta economica consente di modulare il giudizio sull'offerta tecnica sì da poterne sortire un effetto potenzialmente premiante nei confronti di una delle offerte complessivamente considerate e tale possibilità, anche solo eventuale, va ad inficiare la regolarità della procedura.
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La tesi non appare persuasiva.
L’art. 10, co. 2, del Codice dei contratti pubblici nel disciplinare i poteri del RUP stabilisce che “Il responsabile del procedimento svolge tutti i compiti relativi alle procedure di affidamento previste dal presente codice, ivi compresi gli affidamenti in economia, e alla vigilanza sulla corretta esecuzione dei contratti, che non siano specificamente attribuiti ad altri organi o soggetti”.
Per contro, l’art. 84, co. 1, del medesimo Codice stabilisce che “Quando la scelta della migliore offerta avviene con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, la valutazione è demandata ad una commissione giudicatrice, che opera secondo le norme stabilite dal regolamento”.
Dal combinato disposto delle due norme si evince che nelle gare pubbliche di appalto per la cui aggiudicazione è stato prescelto il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, “competenza esclusiva della commissione è l'attività valutativa, mentre ben possono essere svolte dal responsabile unico del procedimento quelle attività che non implicano l'esercizio di poteri valutativi, tanto in ragione delle previsione generale contenuta nell'art. 10, comma 2, d.lgs. 12.04.2006 n. 163, che affida al responsabile unico del procedimento lo svolgimento di tutti i compiti relativi alle procedure di affidamento, non specificamente attribuiti ad altri organi o soggetti” (Cons. Stato, sez. V, 21.11.2014 n. 5760; id., sez. III, 15.07.2011, n. 4331; TAR Sardegna, sez. I, n. 196 del 2014).
Nel caso di specie, perciò, il RUP appare avere esorbitato dalle competenze attribuitegli dalla legge dal momento che quello contestato alla ricorrente come mancante non era né un requisito di partecipazione, né un titolo abilitativo richiesto per l’esecuzione del contratto, bensì un elemento dell’offerta tecnica soggetto a valutazione della commissione. Né vale in contrario sostenere che si trattava semplicemente di riscontrare un dato numerico che la commissione avrebbe omesso di apprezzare (cioè l’aver svolto servizi per strutture museali caratterizzate dal possesso di collezioni con oltre un milione di reperti) atteso che l’art. 4 del capitolato richiedeva anche una valutazione “sotto un profilo storico-scientifico”.
E dunque, considerato che l'esercizio della discrezionalità tecnica è concentrato sull'atto della valutazione delle offerte tecniche, ne deriva che quel che compete inderogabilmente alla Commissione di cui all'art. 84, d.lgs. n. 163 del 2006 è il giudizio dell'offerta tecnica, pur potendo accadere che alla Commissione giudicatrice venga anche affidato il compito di controllare la documentazione amministrativa, ovvero quella di attribuire il punteggio dell'offerta economica, ma non viceversa (TAR Trieste, 07.11.2014 n. 537).
E ciò restando impregiudicata la bontà della tesi sostenuta dall’amministrazione in ordine all’effettiva titolarità in capo a Le Ma.Ce. del requisito di cui trattasi.
Ma la condotta della stazione appaltante è censurabile anche sotto un altro profilo.
Invero, l’aver modificato il punteggio attribuito all’offerta tecnica dopo aver conosciuto il contenuto di quella economica contravviene al fondamentale principio che, a tutela della trasparenza e imparzialità dell’amministrazione, impone di tenere separate le due componenti dell’offerta stessa.
Come condivisibilmente rilevato da concorde giurisprudenza, il principio della segretezza comporta che, fino a quando non si sia conclusa la valutazione delle offerte tecniche, le offerte economiche devono restare segrete, dovendo essere interdetta al seggio di gara la conoscenza degli elementi economici e, in particolare, delle percentuali di ribasso, proprio per evitare ogni influenza sulla valutazione dell'offerta tecnica; il principio di segretezza dell'offerta economica si pone infatti a presidio dell'attuazione della regola costituzionale di imparzialità e buon andamento dell'azione amministrativa, sub specie della trasparenza e della par condicio tra i concorrenti, dovendosi così necessariamente garantire la libera valutazione dell'offerta tecnica; ed invero, la sola possibilità di conoscere gli elementi attinenti l'offerta economica consente di modulare il giudizio sull'offerta tecnica sì da poterne sortire un effetto potenzialmente premiante nei confronti di una delle offerte complessivamente considerate e tale possibilità, anche solo eventuale, va ad inficiare la regolarità della procedura (ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 29.02.2016 n. 824; TAR Bari, sez. I, 10.02.2016 n. 147, TAR Bologna, sez. II, 02.12.2015 n. 1057) (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 08.06.2016 n. 968 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOIn tema di peculato, l’appropriazione si realizza con l’inversione del titolo del possesso da parte del pubblico agente, che si comporta, oggettivamente e soggettivamente uti dominus nei confronti della cosa posseduta in ragione dell’ufficio, che conseguentemente viene estromessa totalmente dal patrimonio dell’avente diritto.
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1. Il ricorso va accolto in ragione della diversa qualificazione giuridica del fatto e della sopravvenuta estinzione del reato per prescrizione.
Premesso che
in tema di peculato l'appropriazione si realizza con l'inversione del titolo del possesso da parte del pubblico agente, che si comporta, oggettivamente e soggettivamente uti dominus nei confronti della cosa posseduta in ragione dell'ufficio, che conseguentemente viene estromessa totalmente dal patrimonio dell'avente diritto, nel caso in esame non è ravvisabile il peculato, mancando la definitiva perdita del bene da parte della pubblica amministrazione, in quanto sia sul piano oggettivo che soggettivo è emerso che l'imputato ha solo fatto un uso indebito del fax dell'ufficio, distogliendolo temporaneamente dalla sua destinazione originaria per fini personali.
Nella sentenza n. 19054/2013 le Sezioni Unite hanno chiarito che
in caso di utilizzo del telefono d'ufficio non sono oggetto di appropriazione definitiva né il bene materiale né l'energia elettrica, necessaria ad attivare le onde elettromagnetiche, che viene in rilievo quale entità di consumo inscindibilmente legata al funzionamento dell'apparecchio e, pertanto, non può costituire l'oggetto diretto, specifico ed autonomo della condotta dell'agente, né il costo che la pubblica amministrazione sopporta per l'utilizzo indebito del bene, trattandosi di una conseguenza della condotta dell'agente infedele, il quale non ha il previo possesso delle somme corrispondenti all'onere economico che la pubblica amministrazione sostiene per effetto della sua condotta.
Chiarito, altresì, che nel caso in esame l'imputato utilizzava in modo programmaticamente momentaneo il fax dell'ufficio per scopi privati e che l'abuso del possesso del bene della pubblica amministrazione non si è tradotto nella stabile inversione in dominio, in quanto, dopo l'uso arbitrario, il bene è stato restituito alla sua destinazione pubblicistica originaria,
nella fattispecie non solo va esclusa la configurabilità del peculato ma anche del peculato d'uso per mancanza di concreta offensività del fatto.
Per la rilevanza penale del fatto occorre sempre che l'uso indebito produca un apprezzabile danno al patrimonio della p.a. o di terzi o una concreta lesione della funzionalità dell'ufficio, non ravvisabili nella fattispecie in ragione della minima entità del danno cagionato, neppure quantificato.
Tuttavia, diversamente da quanto prospettato dal ricorrente,
la condotta non è penalmente irrilevante, residuando l'abuso d'ufficio quale cornice legale nella quale sussumerla.
Infatti, come già precisato da questa Corte,
mentre nel delitto di peculato la condotta consiste nell'appropriazione di danaro o altra cosa mobile altrui, di cui il responsabile abbia il possesso o la disponibilità per ragioni del suo ufficio -onde la violazione dei doveri di ufficio costituisce esclusivamente la modalità della condotta, cioè dell'appropriazione-, nell'abuso di ufficio -di carattere sussidiario- la condotta si identifica con l'abuso funzionale, cioè con l'esercizio delle potestà e con l'uso dei mezzi inerenti ad una funzione pubblica per finalità differenti da quelle per le quali l'esercizio del potere è concesso, e finalizzate, mediante attività di rilevanza giuridica o comportamenti materiali, a procurare un vantaggio patrimoniale per sé o per altri ovvero ad arrecare ad altri un ingiusto danno (Sez. 6, sentenza n. 20094 del 04/05/2011, Rv. 250071, relativa proprio all'indebito utilizzo del fax dell'ufficio per ottenere informazioni all'Aci su autovetture immatricolate a Trieste al fine di favorire la moglie, procacciatrice di affari per conto di un'agenzia di assicurazioni).
Si è, altresì, affermato che "
Integra il delitto di abuso d'ufficio la condotta del pubblico dipendente di indebito uso del bene che non comporti la perdita dello stesso e la conseguente lesione patrimoniale a danno dell'avente diritto" (Sez. 6, n. 14978 del 13/03/2009, Rv. 243311; Sez. 6, 02.04.1992 n. 10896, Bronte, Rv. 192873; Sez. 6, 12.12.2000 n. 381, Genchi, Rv. 219086; Sez. 6, 09.04.2008 n. 31688, Cannalire, Rv. 240692) ed è indubbio, per come accertato dai giudici di merito, che il Ma. abbia reiteratamente utilizzato e per un discreto arco temporale il fax dell'ufficio per ricevere e trasmettere documenti ed atti, consegnatigli dai clienti proprio all'interno dell'ufficio, alla società con la quale collaborava per curare pratiche infortunistiche, destinando l'ufficio a succursale della stessa.
Oggettivo è, quindi, il reiterato indebito utilizzo del fax dell'ufficio, di norma destinato alla ricezione di comunicazioni ed atti urgenti presso il posto di polizia dell'ospedale pubblico, per scopi meramente privati in consapevole violazione dei doveri di lealtà e correttezza imposti ad un pubblico ufficiale: in sostanza, l'imputato ha coscientemente e volontariamente realizzato le condotte contestate, strumentalizzando ed abusando dell'ufficio e dei mezzi a sua disposizione per procurarsi l'ingiusto vantaggio di velocizzare pratiche infortunistiche, favorendo i clienti ai quali evitava il disagio di recarsi presso la sede della società e curando, parallelamente, in orario di lavoro, la propria attività privata.
L'infondatezza del ricorso ne imporrebbe il rigetto, tuttavia, sullo stesso prevale, in assenza di altri elementi suscettibili di determinare un'assoluzione nel merito del ricorrente, l'applicazione della causa sopravvenuta di estinzione del reato ai sensi dell'art. 129, comma 1, cod. proc. pen. in quanto il reato di cui all'art. 323 cod. pen., così riqualificato il fatto, è estinto per prescrizione, essendo maturato il termine massimo di anni sette e mesi sei dalla data di consumazione (da settembre 2007 a giugno 2008) e non risultando rinvii. Conseguentemente, la sentenza impugnata va annullata senza rinvio (Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza 30.05.2016 n. 22800).

ATTI AMMINISTRATIVI: Appello, chi perde paga. Legittimo il raddoppio del contributo unificato. Per la Consulta non c'è disparità di trattamento con l'art. 181 cpc.
Il raddoppio del contributo unificato in caso di inammissibilità, improcedibilità o rigetto integrale dell'appello, è legittimo. Non sussiste nessuna ingiustificata disparità di trattamento tra la norma impugnata (art. 13, comma 1-quater del dpr 115/2002, Testo unico delle disposizioni in materia di spese di giustizia), che sanziona con il raddoppio del contributo l'ipotesi di improcedibilità dell'appello quando l'appellante, costituito in giudizio, non compaia alla prima udienza e a quella successiva ritualmente comunicata, e l'art. 181 del codice di procedura civile che, nell'ipotesi di mancata comparizione di nessuna delle parti alla prima e seconda udienza, prevede la cancellazione della causa dal ruolo e l'estinzione del processo senza però il raddoppio del contributo.
Si tratta infatti di «fattispecie non equiparabili», perché mettono a confronto «situazioni non omogenee».

Così ha deciso la Corte Costituzionale nella sentenza 30.05.2016 n. 120.
La Consulta ha ritenuto non fondata la questione di legittimità sollevata dalla Corte d'appello di Firenze sulla norma del T.U. sulle spese di giustizia.
I giudici delle leggi hanno osservato come, nonostante l'elemento in comune della mancata comparizione, cui si correla sia l'improcedibilità di cui all'art. 348 cpc sia la cancellazione della causa dal ruolo e l'estinzione del processo ai sensi degli artt. 181 e 309 cpc, le due fattispecie siano molto diverse.
«Il regime del raddoppio del contributo unificato», sottolinea la Corte, «accomuna tutti i casi di esito negativo dell'appello, essendo previsto per le ipotesi del rigetto integrale o della definizione in rito sfavorevole all'appellante. In tale categoria rientra l'improcedibilità comminata dall'art. 348, secondo comma cpc, ma non l'ipotesi di cancellazione della causa dal ruolo ed estinzione del processo».
In secondo luogo, prosegue la sentenza redatta dal giudice Aldo Carosi, «la norma censurata risponde alla ratio di scoraggiare le impugnazioni dilatorie o pretestuose. Tale ratio non è ravvisabile nella fattispecie di cui all'art. 181 cod. proc. civ., la quale prescinde dalla unilaterale utilizzazione impropria del gravame, ma riguarda soltanto l'omologa condotta omissiva delle parti, con la conseguenza che la funzione deterrente riconosciuta alla norma censurata non avrebbe modo di esprimersi».
Infatti, la mancata comparizione di tutte le parti alla prima udienza e a quella successiva costituisce «una tipica manifestazione di disinteresse alla prosecuzione del processo». Disinteresse che, nota la Consulta, «emergendo dopo la costituzione delle parti in secondo grado, quando le stesse hanno già disvelato le rispettive tesi difensive e dopo l'eventuale adozione dei provvedimenti sull'esecuzione provvisoria della sentenza impugnata, e accomunandole nella condotta processuale, è verosimile espressione della comune decisione di non comparire e, non di rado, di coordinamento o accordo tra le parti stesse».
«Tali peculiarità rispetto alla fattispecie della mancata comparizione del solo appellante alla prima udienza», conclude la Corte, «impediscono di considerare alla stessa stregua la contemporanea mancata comparizione di tutte le parti del giudizio di appello, epilogo presumibilmente indice di una composizione stragiudiziale della controversia» (articolo ItaliaOggi del 31.05.2016).

ATTI AMMINISTRATIVIPromosso il raddoppio del contributo unificato. Non c’è disparità tra cancellazione e appello improcedibile. Corte costituzionale. In caso di impugnazione dilatoria o pretestuosa.
Passa l’esame di costituzionalità il raddoppio del contributo unificato in caso di impugnazione respinta, inammissibile o improcedibile.

La Corte Costituzionale, con la sentenza 30.05.2016 n. 120, scritta da Aldo Carosi, ha infatti giudicato in parte inammissibili e in parte infondate le questioni sollevate dalla Corte d’appello di Firenze.
In particolare, quest’ultima sosteneva che la norma, applicabile anche quando l’appello è dichiarato improcedibile sulla base dell’articolo 348, comma 2, del Codice di procedura civile per mancata comparizione dell’appellante alla prima udienza e a quella successiva di cui gli è stata data comunicazione, realizzerebbe un’ingiustificata disparità di trattamento, in violazione dell’articolo 3 della Costituzione, rispetto all’ipotesi di cancellazione della causa dal ruolo con conseguente estinzione del processo (articoli 181 e 309 del Codice di procedura).
Per la Consulta però le situazioni messe a confronto non sono omogenee e non si possono pertanto paragonare, nonostante il dato comune della mancata comparizione. Anzitutto, sottolinea la sentenza , va sottolineato come il regime del raddoppio del contributo unificato accomuna tutti i casi di esito negativo dell’appello, essendo previsto per le ipotesi del rigetto integrale o della definizione sfavorevole all’appellante. In questa categoria rientra l’improcedibilità inflitta dall’articolo 348, comma 2, ma non l’ipotesi di cancellazione della causa dal ruolo ed estinzione del processo.
Inoltre, come ricordato dalla Cassazione, la norma censurata risponde all’opportunità di scoraggiare le impugnazioni dilatorie o pretestuose. Una ratio che invece non si può individuare nella fattispecie dell’articolo 181, che prescinde dalla utilizzazione impropria dell’impugnazione, «ma riguarda soltanto l’omologa condotta omissiva delle parti –alla luce dell’orientamento assolutamente prevalente nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui la mancata presenza alla prima udienza ed alla successiva dell’appellante e dell’appellato costituito determina la cancellazione della causa dal ruolo e l’estinzione del processo (anziché l’improcedibilità dell’appello)– con la conseguenza che la funzione deterrente riconosciuta alla norma censurata non avrebbe modo di esprimersi».
Se, sempre in base alla giurisprudenza della Cassazione, poi il raddoppio del contributo unificato è previsto per il rimborso dei costi del vano funzionamento dell’apparato giudiziario o dell’inutile erogazione delle limitate risorse a sua disposizione, va sottolineato come questo dispendio di energie processuali non caratterizza gli articoli 181 e 309. Si tratta infatti di fattispecie nelle quali le parti coinvolte dimostrano, spesso di comune accordo, il loro disinteresse alla prosecuzione del giudizio
(articolo Il Sole 24 Ore del 31.05.2016).

EDILIZIA PRIVATA: Nozione di dehor.
Si intendono per «dehor» gli spazi esterni ad un pubblico esercizio attrezzati con arredi aventi lo scopo di delimitarlo ed assicurare la sicurezza e l'incolumità delle persone e come tali non possono considerarsi strutture che, per dimensioni e caratteristiche costruttive, risultino destinate a non contingenti esigenze di esercizio dell'attività determinando un incremento volumetrico o, comunque, una trasformazione del territorio.
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1. Il ricorso è infondato.
Va preliminarmente rilevato che dal provvedimento impugnato e dal ricorso, unici atti ai quali questa Corte ha accesso, non è dato rilevare compiutamente quali siano esattamente i reati oggetto di provvisoria incolpazione, non avendo ritenuto il Tribunale di indicarli ed avendo il ricorrente fatto generico riferimento all'articolo 44 del d.P.R. 380/2001, senza ulteriori indicazioni ed agli articoli 633, 639-bis cod. pen., che menziona, invece, nella memoria.
Dal complesso di tali limitate indicazioni, dal tenore dell'ordinanza e del ricorso, nonché dalla descrizione delle opere riportata dal Tribunale, si ricava che, attraverso la realizzazione della struttura descritta in premessa, qualificata dal ricorrente come «dehor», destinata ad accogliere i tavoli di un ristorante gestito dall'indagato, questi abbia anche arbitrariamente invaso il suolo pubblico, occupandolo senza titolo.
Obietta tuttavia il ricorrente, come pure specificato in premessa, che dette opere non sarebbero soggette al preventivo rilascio del permesso di costruire, non determinando alcuna trasformazione urbanistica permanente e che il reato contravvenzionale sarebbe ormai prescritto, mentre la mancanza di autorizzazione amministrativa all'occupazione del suolo pubblico non consentirebbe di ritenere configurato il delitto, restando confinata nell'ambito della mera irregolarità amministrativa.
Nel formulare tali osservazioni il ricorrente, tuttavia, pur denunciando la violazione di legge, si limita, sostanzialmente a censure concernenti la motivazione del provvedimento impugnato, suffragando peraltro le proprie affermazioni attraverso ripetuti richiami ad atti e documenti la cui consultazione, come si è già detto, è preclusa al giudice di legittimità, nonché con riferimenti a dati fattuali che pure non possono avere ingresso in questa sede.
2. Date tali premesse, per ciò che riguarda la contravvenzione edilizia, va rilevato che opere aventi consistenza e caratteristiche costruttive quali quelle realizzate dal ricorrente devono senz'altro ritenersi soggette al permesso di costruire.
Si tratta, invero, di una struttura destinata, per dimensioni e caratteristiche costruttive, a non contingenti esigenze di esercizio dell'attività di ristorazione che determina, indubbiamente, un incremento volumetrico.
La struttura, che, come chiarito nella descrizione riportata dal Tribunale, è costituita, oltre che da una pedana delimitata da parapetti in ferro, anche da una chiusura laterale mediante pannellatura modulare e da una copertura sorretta da travatura orizzontale e verticale, ha, evidentemente, caratteristiche di gran lunga differenti rispetto a quelle richieste per delimitare lo spazio esterno di un locale ed assicurare la sicurezza e l'incolumità delle persone, costituendo, in buona sostanza, non un dehor, come lo definisce il ricorrente e, cioè, uno spazio esterno ad un pubblico esercizio attrezzato con arredi, bensì una nuova volumetria suscettibile di autonoma utilizzazione.
Un intervento di tale consistenza non potrebbe neppure definirsi precario, atteso che, secondo quanto ripetutamente stabilito dalla giurisprudenza di questa Corte, la precarietà non può essere desunta dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data all'opera dall'utilizzatore, sono irrilevanti le caratteristiche costruttive i materiali impiegati e l'agevole rimovibilità, l'opera deve avere una intrinseca destinazione materiale ad un uso realmente precario per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo e deve, inoltre, essere destinata ad una sollecita eliminazione alla cessazione dell'uso (v. da ultimo, Sez. 3, n. 966 del 26/11/2014 (dep. 2015), Manfredini, Rv. 261636).
4. Va inoltre osservato, per ciò che concerne la dedotta prescrizione, che la stessa non può essere in alcun modo rilevata in questa sede in assenza di obiettivi elementi di valutazione circa la data di ultimazione dell'intervento e che, in ogni caso, anche l'eventuale estinzione del reato contravvenzionale non sottrarrebbe rilievo al fatto che la misura reale resterebbe applicabile per il residuo delitto.
5. Riguardo a tale ulteriore contestazione, deve considerarsi che, proprio con la decisione richiamata dal ricorrente (Sez. 2, n. 31811 del 08/05/2012, Sardo e altro, Rv. 254330) si è precisato che il delitto in questione si configura attraverso la turbativa del possesso che realizzi un apprezzabile depauperamento delle facoltà di godimento del terreno o dell'edificio da parte del titolare dello "ius excludendi", secondo quella che è la destinazione economico-sociale del bene o quella specifica ad essa impressa dal "dominus" e che esso non si pone in rapporto di specialità con l'illecito amministrativo previsto dall'art. 20 del d.lgs. 30.04.1992 n. 285 (occupazione della sede stradale), essendo diversa l'obbiettività giuridica delle due norme, la prima in quanto posta a tutela del patrimonio, l'altra della sicurezza della circolazione stradale (tale ultimo principio è stato ribadito da Sez. 2, n. 17892 del 15/04/2015, Ganci, Rv. 263766).
Inoltre, quanto all'elemento soggettivo, nella medesima pronuncia si è affermato che la coscienza e volontà di invadere arbitrariamente terreni od edifici altrui, pubblici o privati, alternativamente "al fine di occuparli" oppure "al fine di trarne altrimenti profitto", deve ricomprendere anche la coscienza e volontà di porre in essere una turbativa del possesso che realizzi un apprezzabile depauperamento delle facoltà di godimento del bene da parte del suo titolare, per una delle indicate finalità soggettive.
Nel caso di specie, rileva il Tribunale che l'immobile realizzato occupa una superficie della carreggiata stradale destinata alla sosta, circostanza, questa che rende evidente la piena consapevolezza della illegittimità dell'invasione ed il fine specifico di utilizzare a proprio vantaggio il suolo pubblico avente diversa destinazione (tratto da www.lexambiente - Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 26.05.2016 n. 21988).

APPALTI: Durc nelle gare, l'accertamento della regolarità rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo.
Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato: l’ambito di applicazione dell’art. 31 d.l. n. 69 del 2013 è limitato ai rapporti fra ente previdenziale ed operatore privato richiedente il rilascio del Durc.
“Rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo, adito per la definizione di una controversia avente ad oggetto l’affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture, l’accertamento inerente alla regolarità del documento unico di regolarità contributiva, quale atto interno della fase procedimentale di verifica dei requisiti di ammissione dichiarati dal partecipante ad una gara. Tale accertamento viene effettuato, nei limiti del giudizio relativo all’affidamento del contratto pubblico, in via incidentale, cioè con accertamento privo di efficacia di giudicato nel rapporto previdenziale”.
Questo il principio di diritto affermato dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nella sentenza 25.05.2016 n. 10, in risposta alla prima delle due questioni sollevate dalla Quinta Sezione del Consiglio di Stato con l'ordinanza 21.10.2015 n. 4799.
Il secondo quesito proposto dalla Sezione rimettente concerne invece la corretta interpretazione del requisito della definitività dell’accertamento delle violazioni in materia di contributi previdenziali ed assistenziali, previsto dall’art. 38, comma 1, d.lgs. n. 163 del 2006, come causa di esclusione dalle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti pubblici di lavori, servizi e forniture.
In proposito, l'Adunanza Plenaria ricorda in via preliminare che “in seguito all’entrata in vigore dell’art. 31, comma 8, d.l. n. 69 del 2013 (che riproduce sostanzialmente, la procedura già prevista dall’art. 7 D.M. 24.10.2007) è stata introdotta una procedura di flesibilizzazione (c.d. “preavviso di d.u.r.c. negativo”) che consente all’impresa richiedente il rilascio della certificazione contributiva, di sanare la propria posizione, prima della definitiva certificazione negativa: in virtù di tale procedura, l’ente previdenziale, qualora riscontri delle irregolarità, deve invitare l’operatore richiedente a sanare la propria posizione entro il termine di quindici giorni. Soltanto qualora l’operatore non effettui la regolarizzazione della propria posizione, entro il termine anzidetto, l’ente previdenziale potrà adottare un d.u.r.c. negativo. L’introduzione, o meglio la “legificazione” del preavviso di d.u.r.c. negativo, ha posto il problema di individuare esattamente il momento a partire dal quale la violazione della legislazione in materia di contributi previdenziali ed assistenziali, possa ritenersi definitiva, ai fini dell’applicazione dell’art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006”.
Secondo l'Adunanza Plenaria “il secondo quesito sottoposto dalla Sezione rimettente deve essere risolto, in conformità al principio di diritto espresso nelle sentenze di questa Adunanza Plenaria nn. 5 e 6 del 29.02.2016, nel senso di ritenere l’ambito di applicazione dell’art. 31 d.l. n. 69 del 2013 limitato ai rapporti fra ente previdenziale ed operatore privato richiedente il rilascio del d.u.r.c.. Di conseguenza, va escluso che detta disposizione abbia determinato una implicita modifica all’art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006” (commento tratto da www.casaeclima.com).
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MASSIMA
Le problematiche sorgono in virtù dell’apparente inconciliabilità fra la natura del d.u.r.c. ed il criterio di riparto della giurisdizione fra giudice amministrativo ed ordinario, che si basa sul criterio della causa petendi ed, in definitiva, sulla situazione giuridica fatta valere. Le criticità si paleserebbero nel corso dei giudizi aventi ad oggetto procedure di affidamento di contratti pubblici ed, in particolare, con riguardo all’accertamento della regolarità del d.u.r.c..
Come è noto, ai sensi dell’art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006, “Sono esclusi dalla partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori, forniture e servizi, né possono essere affidatari di subappalti, e non possono stipulare i relativi contratti i soggetti: [...] i) che hanno commesso violazioni gravi, definitivamente accertate, alle norme in materia di contributi previdenziali e assistenziali, secondo la legislazione italiana o dello Stato in cui sono stabiliti”.
Nel caso in cui sorgano delle controversie inerenti ad un riscontro negativo in tema di regolarità contributiva, come risultante dal d.u.r.c., si pone la problematica del riparto di giurisdizione in quanto, per un verso, la certificazione prodotta dall’ente previdenziale assume il carattere di dichiarazioni di scienza, assistita da pubblica fede ai sensi dell’art. 2700 c.c. e facente prova fino a querela di falso; per altro verso, tale accertamento si inserisce nell’ambito di una procedura di evidenza pubblica, rispetto alla quale sussiste, ai sensi dell’art. 133 c.p.a., la giurisdizione esclusiva del Giudice Amministrativo.
Ad avviso di una parte della giurisprudenza, le contestazioni in merito agli errori contenuti nel d.u.r.c. non potrebbero essere esaminate dal giudice amministrativo, sia perché incidono su situazioni di diritto soggettivo, sia perché disvelano un sottostante rapporto obbligatorio, di tipo non pubblicistico.
Il Collegio ritiene, tuttavia, di dover risolvere la questione nel senso di devolvere alla cognizione del giudice amministrativo, adito per la definizione di una controversia avente ad oggetto l’aggiudicazione di un appalto pubblico, l’accertamento circa la regolarità del d.u.r.c., quale atto interno della fase procedimentale di verifica dei requisiti di ammissione dichiarati dal partecipante ad una gara.
Nelle controversie in materia di contratti pubblici, in effetti, il d.u.r.c. viene in rilievo non in via principale, ma in qualità di presupposto di legittimità di un provvedimento amministrativo adottato dalla stazione appaltante.
Al riguardo, il Collegio evidenzia che non è revocabile in dubbio la natura di dichiarazione di scienza attribuibile al d.u.r.c., che si colloca fra gli atti di certificazione o di attestazione facenti prova fino a querela di falso. Questo elemento non risulta, tuttavia, ostativo all’esame, da parte del giudice amministrativo, della regolarità delle risultanze della documentazione prodotta dall’ente previdenziale in un giudizio avente ad oggetto l’affidamento di un contratto pubblico di lavori, servizi o forniture.
A ben vedere, l’operatore privato può impugnare le determinazioni cui è giunta la stazione appaltante, all’esito dell’accertamento sulla regolarità contributiva, sollevando profili di eccesso di potere per erroneità dei presupposti, qualora contesti le determinazioni derivanti dall’esito dell’attività valutativa. Questa conclusione, affermata da una recente giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (sentenza, Sez. V, 16.02.2015, n. 781), è giustificata dalla possibilità, per il giudice amministrativo, di compiere un accertamento puramente incidentale, ai sensi dell’art. 8 c.p.a., sulla regolarità del rapporto previdenziale: ciò implica che le statuizioni, adottate sul punto, hanno efficacia esclusivamente in relazione alla controversia concernente gli atti di gara e non esplicano i loro effetti nei rapporti fra l’ente previdenziale e l’operatore coinvolto.
L’ambito della cognizione del Giudice Amministrativo, in effetti, concerne l’attività provvedimentale successiva e consequenziale alla produzione del d.u.r.c. da parte dell’ente previdenziale: l’operatore privato, nel giudizio instaurato dinanzi all’autorità giudiziaria amministrativa, non censura direttamente l’erroneità del contenuto del d.u.r.c., ma le statuizioni successive della stazione appaltante, derivanti dalla supposta erroneità del d.u.r.c..
Per tale ragione ed in un’ottica di effettività della tutela, risulta doverosa la concentrazione della verifica circa la regolarità della documentazione contributiva, ancorché effettuata in via incidentale, in capo ad un’unica autorità giudiziaria: il diritto di difesa verrebbe, in effetti, leso se si costringesse il privato a contestare, dinanzi al giudice ordinario, la regolarità del d.u.r.c. e, successivamente, dopo aver ottenuto l’accertamento dell’errore compiuto dall’ente previdenziale, la illegittimità delle determinazioni della stazione appaltante dinanzi al giudice amministrativo. Un iter processuale di tal genere risulterebbe eccessivamente gravoso per il privato ed incompatibile con la celerità che il legislatore ha imposto per il rito degli appalti nel c.p.a.: l’attesa di una decisione sulla regolarità della posizione previdenziale, non permetterebbe di impugnare entro i termini di cui agli artt. 120 e ss. c.p.a., i provvedimenti adottati dalla stazione appaltante in relazione alla procedura di evidenza pubblica di riferimento.
Ciò non impedisce all’operatore privato di impugnare autonomamente il d.u.r.c. con gli ordinari strumenti predisposti dall’ordinamento: in tal caso, tuttavia, ci si troverebbe al di fuori della cognizione del Giudice Amministrativo, per il dirimente motivo che una tale controversia concernerebbe il rapporto obbligatorio che lega l’operatore privato all’ente previdenziale e non le decisioni della stazione appaltante.
Come è risaputo, con riferimento all’affidamento di lavori, servizi o forniture, il giudice amministrativo è titolare di giurisdizione esclusiva (art. 244, primo comma, d.lgs. 163/2006, già art. 6, primo comma, della l. 2005/2000) e può pertanto compiere, a prescindere dalla consistenza della corrispondente posizione soggettiva, ogni accertamento che gli sia domandato dalla parte per verificare il rispetto dei principi comunitari in materia di concorrenza (tra i quali la regolarità contributiva delle imprese partecipanti).
Sostenere, in tale contesto, che pur dovendo stabilire della legittimità degli appalti pubblici (e quindi della conformità di questi anche alle regole di derivazione comunitaria), il giudice amministrativo, ancorché domandato dalla parte, non possa spingersi ad accertare la sussistenza o meno di un requisito di partecipazione sol perché questo è attestato dal provvedimento di un’amministrazione (come avviene per il d.u.r.c.), significherebbe limitare irragionevolmente l’ambito della tutela accordata dall’ordinamento anche in violazione dei principi comunitari di efficacia e rapidità dei mezzi di ricorso.
Allorché sia a ciò chiamato dalla parte nell’ambito di una procedura pubblica volta all’affidamento di lavori, servizi o forniture, il giudice amministrativo (come del resto potrebbe fare alla stregua dell’art. 8 del c.p.a. -già art. 8 della l. n. 1034/1971- se nella materia considerata non gli fosse riconosciuta giurisdizione esclusiva) ben può incidentalmente valutare la sussistenza dei requisiti di partecipazione siano essi o meno attestati da atti della p.a.
Conforme risulta, d’altronde, l’orientamento della Corte regolatrice, la quale, proprio riferendosi alla certificazione INPS e ad una procedura concorsuale soggetta alla disciplina comunitaria, ha già avuto modo di stabilire che
appartiene alla cognizione del giudice amministrativo “verificare la regolarità di una certificazione costituente specifico requisito per la partecipazione alla gara" (Cass. civ., Sez. Un., 11.12.2007, ord. 25818).
Come, dunque, chiarito anche dalla Sezione rimettente, sul punto, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la ordinanza n. 25818 dell’11.12.2007 (confermata dalla successiva ordinanza n. 3169 del 09.02.2011), hanno avuto modo di chiarire che la giurisdizione, in controversie relative a procedure di affidamento di lavori, servizi o forniture, appartiene al giudice amministrativo quando venga in rilievo la certificazione attestante la regolarità contributiva, sulla cui base l’Amministrazione abbia successivamente adottato un provvedimento. Al riguardo, la Suprema Corte ha chiarito che la certificazione sulla regolarità contributiva dell’impresa partecipante ad una gara d’appalto costituisce uno dei requisiti posti dalla normativa in materia di appalti pubblici ai fini dell’ammissione alla gara. Dunque, la giurisdizione appartiene al giudice amministrativo perché è costui competente a sindacare la decisione della stazione appaltante inerente alla sussistenza o meno di un requisito utile a partecipare ad una procedura di affidamento di un contratto.
Ciò che consente di affermare la giurisdizione amministrativa è, in definitiva, la diversità del tipo di sindacato compiuto dal giudice amministrativo rispetto a quello effettuato dal giudice ordinario sulla documentazione attestante la regolarità contributiva.
In effetti, il combinato disposto degli artt. 442, comma 1, e 444, comma 3, c.p.c. devolve alla giurisdizione ordinaria le controversie in materia di assistenza e previdenza obbligatorie: ciò implica che il giudice ordinario sarà chiamato ad accertare la sussistenza di un diritto del prestatore di lavoro. Diversamente, l’art. 133 c.p.a., attribuisce alla giurisdizione amministrativa le controversie aventi ad oggetto le procedure relative all’affidamento di lavori, servizi e forniture: in quest’ambito, dunque, il giudice deve verificare la regolarità dei requisiti che, ad esempio, un’impresa esclusa dalla relativa procedura ha prodotto in sede di offerta, al fine di dichiarare illegittima detta esclusione.
In altri termini, la certificazione relativa alla regolarità contributiva dinanzi al giudice amministrativo viene in rilievo alla stregua di requisito di partecipazione alla gara e, pertanto, il regime relativo alla valutazione circa la sua regolarità non può essere differente da quello previsto per gli altri requisiti. Ad ulteriore conferma di questo assunto, il Collegio ritiene di poter utilmente richiamare l’esempio delle certificazioni antimafia che la Sezione rimettente ha descritto nell’ordinanza di rimessione. Anche in questa ipotesi, infatti, si è in presenza di un provvedimento che, a seconda dei casi, può costituire l’oggetto principale di una controversia oppure venire in rilievo come requisito propedeutico alla partecipazione ad una procedura di gara, nel qual caso ne viene esaminato il contenuto da parte del giudice amministrativo.
Alla luce delle pregresse considerazioni, il quesito sottoposto a questa Adunanza Plenaria può essere risolto enunciando il seguente principio di diritto: “
Rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo, adito per la definizione di una controversia avente ad oggetto l’affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture, l’accertamento inerente alla regolarità del documento unico di regolarità contributiva, quale atto interno della fase procedimentale di verifica dei requisiti di ammissione dichiarati dal partecipante ad una gara. Tale accertamento viene effettuato, nei limiti del giudizio relativo all’affidamento del contratto pubblico, in via incidentale, cioè con accertamento privo di efficacia di giudicato nel rapporto previdenziale”.
Risolta la prima questione relativa alla giurisdizione nei termini anzidetti, viene in rilievo, in modo consequenziale, il secondo quesito proposto dalla Sezione rimettente. Esso concerne la corretta interpretazione del requisito della definitività dell’accertamento delle violazioni in materia di contributi previdenziali ed assistenziali, previsto dall’art. 38, comma 1, d.lgs. n. 163 del 2006, come causa di esclusione dalle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti pubblici di lavori, servizi e forniture.
In seguito all’entrata in vigore dell’art. 31, comma 8, d.l. n. 69 del 2013 (che riproduce sostanzialmente, la procedura già prevista dall’art. 7 D.M. 24.10.2007) è stata introdotta una procedura di flesibilizzazione (c.d. “preavviso di d.u.r.c. negativo”) che consente all’impresa richiedente il rilascio della certificazione contributiva, di sanare la propria posizione, prima della definitiva certificazione negativa: in virtù di tale procedura, l’ente previdenziale, qualora riscontri delle irregolarità, deve invitare l’operatore richiedente a sanare la propria posizione entro il termine di quindici giorni. Soltanto qualora l’operatore non effettui la regolarizzazione della propria posizione, entro il termine anzidetto, l’ente previdenziale potrà adottare un d.u.r.c. negativo.
L’introduzione, o meglio la “legificazione” del preavviso di d.u.r.c. negativo, ha posto il problema di individuare esattamente il momento a partire dal quale la violazione della legislazione in materia di contributi previdenziali ed assistenziali, possa ritenersi definitiva, ai fini dell’applicazione dell’art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006.
Sul punto, come evidenziato nell’ordinanza di rimessione, è sorto un contrasto giurisprudenziale.
Il Collegio ritiene che il quesito possa essere risolto rinviando al principio di diritto espresso da questa Adunanza Plenaria nelle sentenze nn. 5 e 6 del 29.02.2016.
In quella sede, l’Adunanza Plenaria di questo Consiglio di Stato si è espressa nel senso di ritenere che “
Anche dopo l’entrata in vigore dell’art. 31, comma 8, del decreto legge 21.06.2013 n. 69, (Disposizioni urgenti per il rilancio dell'economia), convertito con modificazioni dalla legge 09.08.2013, n. 98, non sono consentite regolarizzazioni postume della posizione previdenziale, dovendo l’impresa essere in regola con l'assolvimento degli obblighi previdenziali ed assistenziali fin dalla presentazione dell'offerta e conservare tale stato per tutta la durata della procedura di aggiudicazione e del rapporto con la stazione appaltante, restando dunque irrilevante, un eventuale adempimento tardivo dell'obbligazione contributiva. L’istituto dell’invito alla regolarizzazione (il c.d. preavviso di DURC negativo), già previsto dall’art. 7, comma 3, del decreto ministeriale 24.10.2007 e ora recepito a livello legislativo dall’art. 31, comma 8, del decreto legge 21.06.2013 n. 69, può operare solo nei rapporti tra impresa ed Ente previdenziale, ossia con riferimento al DURC chiesto dall’impresa e non anche al DURC richiesto dalla stazione appaltante per la verifica della veridicità dell’autodichiarazione resa ai sensi dell’art. 38, comma 1, lettera i), ai fini della partecipazione alla gara d’appalto”.
In tal modo è stato chiarito che l’art. 31 d.l. n. 69 del 2013 non ha modificato la disciplina dettata dall’art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006: la regola del preavviso di d.u.r.c. negativo, dunque, non trova applicazione nel caso di certificazione richiesta dalla stazione appaltante, ai fini della verifica delle dichiarazioni rese dell’impresa partecipante. Il meccanismo, di cui al citato art. 31, comma 8, si applica solo nei rapporti fra ente previdenziale ed operatore economico richiedente, senza venire in rilievo nel caso in cui sia la stazione appaltante a richiedere il d.u.r.c. ai fini della verifica circa la regolarità dell’autodichiarazione.
Questa Adunanza Plenaria ha giustificato le predette conclusioni con una serie di argomentazioni, di carattere letterale, storico e sistematico, che, seppur brevemente, il Collegio ritiene opportuno richiamare.
In primo luogo, l’inapplicabilità alle procedure di evidenza pubblica del meccanismo di cui al comma 8 è desumibile dalla lettura complessiva dell’articolo 31 d.l. n. 69 del 2013. In effetti, i commi dal 2 al 7 di tale norma contengono un preliminare ed espresso riferimento ai contratti di pubblici lavori, servizi o forniture o, comunque, un rinvio al d.lgs. n. 163 del 2006. Diversamente, il comma 8 non contiene un riferimento di tal genere, né sarebbe possibile desumerlo, in maniera implicita, dal testo della disposizione.
Inoltre, la modifica al testo dell’art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006 non può essere sostenuta argomentando in merito ad una presunta incompatibilità fra le due disposizioni: in questo senso osta l’art. 255 d.lgs. n. 163 del 2006 a tenore del quale “
[o]gni intervento normativo incidente sul codice, o sulle materie dallo stesso disciplinate, va attuato mediante esplicita modifica, integrazione, deroga o sospensione delle specifiche disposizioni in esso contenute”. Il d.l. n. 69 del 2013 contiene, all’art. 31 comma 2, le disposizioni del d.lgs. n. 163 del 2006 che sono state modificate, in conformità alla clausola di abrogazione esplicita di cui all’art. 255: tuttavia, in tale elenco non rientra l’art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006.
Ad ulteriore conferma della conclusione cui è giunta, questa Adunanza Plenaria ha evidenziato l’assenza, nei commi da 3 a 7 dell’art. 31, di qualsivoglia riferimento ad una possibile regolarizzazione postuma dell’inadempienza contributiva imputabile all’operatore che abbia partecipato alla gara o che stia eseguendo il contratto: nelle norme richiamate è la stazione appaltante a richiedere all’ente previdenziale il rilascio del d.u.r.c., ai fini della verifica della veridicità della autodichiarazione presentata dall’operatore privato. Diversamente, il comma 8, nel disciplinare la procedura di preavviso di d.u.r.c. negativo, si riferisce alle sole ipotesi in cui sia l’operatore privato a richiedere all’ente previdenziale il rilascio della certificazione.
Sotto il profilo sistematico, questa Adunanza Plenaria afferma il parziale parallelismo strutturale che sussiste fra il meccanismo di cui all’art. 31 comma 8 ed il preavviso di rigetto disciplinato dall’art. 10-bis l. n. 214 del 1990. Al riguardo viene premesso, per un verso, che il preavviso di rigetto -previsto in via generale per i procedimenti iniziati ad istanza di parte- non opera, per espressa scelta legislativa, in relazione ai procedimenti in materia previdenziale. Per altro verso, il meccanismo di cui all’art. 31, comma 8, prevede un procedimento in cui rileva la materia previdenziale ed al contempo strutturato come procedimento ad istanza di parte.
Pertanto, l’art. 31, comma 8, costituendo una “deroga alla deroga”, non può applicarsi al di fuori delle ipotesi espressamente descritte dal legislatore e, cioè, quelle in cui l’operatore privato richieda all’ente previdenziale il rilascio del d.u.r.c.. Quando, invece, è la stazione appaltante a richiedere la certificazione all’ente previdenziale, ci si pone al di fuori dell’ambito applicativo della fattispecie ex art. 31, comma 8, d.l. n. 69 del 2013.
Sempre sotto il profilo sistematico, si afferma anche che “
l’esclusione del c.d. preavviso di DURC negativo nell’ambito del procedimento d’ufficio per la verifica della veridicità delle dichiarazioni sostitutive rese in sede ai fini della partecipazione alla gara, si pone in linea con alcuni principi fondamentali che governano appunto le procedure di gara” e cioè quello di parità di trattamento e di auto-responsabilità, nonché il principio di continuità nel possesso dei requisiti di partecipazione alla gara.
Risulta evidente, in effetti, che, consentire la partecipazione ad una gara ad operatori che non possiedono, in materia di contributi previdenziali, i requisiti necessari a prendere parte alla procedura comparativa, ma ne auto-dichiarano il possesso, comporta due conseguenze evidenti: da un lato, l’operatore potrebbe integrare un requisito indispensabile alla partecipazione solo dopo aver preso parte alla gara ed in seguito al suo esito favorevole, a differenza degli altri concorrenti; dall’altro lato, l’autodichiarazione resa in sede di presentazione dell’offerta sarebbe viziata da una intrinseca falsità, di per sé idonea a giustificare l’esclusione dalla procedura. Inoltre, consentire una regolarizzazione postuma dei requisiti di partecipazione alla gara urterebbe con la impossibilità, affermata anche dalla sentenza di questa Adunanza Plenaria n. 8 del 20.07.2014, di perdere i requisiti neanche temporaneamente nel corso della procedura.
Infine, da un punto di vista storico-normativo, questa Adunanza Plenaria ha richiamato il D.M. 24.10.2007, il cui art. 7, comma 3, prevedeva un procedimento strutturalmente simile a quello previsto dall’art. 31, comma 8: “
[n]ell’interpretazione di questa norma non si è mai dubitato che la regola del previo invito alla regolarizzazione non trovasse applicazione nel caso di richiesta della certificazione preordinata alle verifiche effettuate dalla stazione appaltante ai fini della partecipazione alle gare d’appalto”.
Alla luce delle precedenti considerazioni,
il secondo quesito sottoposto dalla Sezione rimettente deve essere risolto, in conformità al principio di diritto espresso nelle sentenze di questa Adunanza Plenaria nn. 5 e 6 del 29.02.2016, nel senso di ritenere l’ambito di applicazione dell’art. 31 d.l. n. 69 del 2013 limitato ai rapporti fra ente previdenziale ed operatore privato richiedente il rilascio del d.u.r.c.. Di conseguenza, va escluso che detta disposizione abbia determinato una implicita modifica all’art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006.

INCARICHI PROFESSIONALI: Avvocati inadempienti, il danno va provato.
Il cliente può ottenere il risarcimento del danno per inadempimento dell'avvocato solo se il pregiudizio subito dall'assistito viene provato ed è direttamente ricollegabile a una condotta illecita del legale.

A stabilirlo, la Corte di Cassazione che, con la sentenza 24.05.2016 n. 10698, ha respinto il ricorso presentato dal cliente di un legale nei confronti del quale era stata presentata domanda risarcitoria a seguito di una serie di problemi riscontrati dall'assistito nello svolgimento dell'attività imprenditoriale, sfociati nell'esclusione dalla compagine sociale.
In particolare l'assistito, nei primi due gradi di giudizio, aveva lamentato la sussistenza della responsabilità professionale dell'avvocato adducendo una serie di mancanze relative a documenti non presentati ed a scadenze non rispettate nel corso del giudizio avente ad oggetto l'impugnativa delle delibere assembleari. Il cliente, però, così come sottolineato dai giudici di primo grado, non aveva in alcun caso dimostrato il nesso diretto tra le inadempienze del legale e il danno subito. Ragion per cui il risarcimento gli era stato negato.
Decisione che ha trovato il favore anche della Cassazione che ha avuto modo di sottolineare come «la responsabilità dell'avvocato non può affermarsi per il solo fatto del suo non corretto adempimento dell'attività professionale, occorrendo verificare se l'evento produttivo del pregiudizio lamentato dal cliente sia riconducibile alla condotta del legale e se un danno vi sia stato effettivamente» (articolo ItaliaOggi del 25.05.2016).

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MASSIMA
8. - Il quinto motivo non può trovare accoglimento.
Le censure della ricorrente si infrangono contro il principio -consolidato e nel cui solco si inscrive la decisione della Corte territoriale (e che, invece, lo stesso ricorrente sembra disconoscere)- secondo il quale la responsabilità dell'avvocato non può affermarsi per il solo fatto del suo non corretto adempimento dell'attività professionale, occorrendo verificare se l'evento produttivo del pregiudizio lamentato dal cliente sia riconducibile alla condotta del primo, se un danno vi sia stato effettivamente e, infine, se, ove questi avesse tenuto il comportamento dovuto, il suo assistito, alla stregua di criteri probabilistici, avrebbe conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni, difettando, altrimenti, la prova del necessario nesso eziologico tra la condotta del legale, commissiva od omissiva (anche per violazione del dovere di informazione), ed il risultato derivatone (tra le altre, Cass., 07.08.2002, n. 11901; Cass., 05.02.2013, n. 2638).
La Corte capitolina ha, dunque, escluso -al pari del primo giudice- che il Ma. avesse fornito allegazioni e prova in ordine alla sussistenza del nesso eziologico tra la condotta del professionista ed il pregiudizio derivato al cliente, non potendo il danno risarcibile coincidere con la condotta negligente del professionista.

APPALTI: Scioglimento del RTI in corso di gara: ammessa la sostituzione con la singola impresa rimasta.
Corte di giustizia Ue: il subentro di una delle società costituenti è compatibile con il diritto europeo ma a due condizioni.
La Corte di giustizia europea, con la sentenza 24.05.2016 - causa C-396/14 ha affrontato la questione relativa alla compatibilità con il diritto europeo del subentro di una delle società costituenti un originario raggruppamento temporaneo, in caso di scioglimento del raggruppamento stesso per fallimento dell’altra società.
Secondo la Corte Ue
un ente aggiudicatore non viola il principio di parità di trattamento degli operatori economici (di cui all’art. 10 della direttiva 2004/17/CE), “se autorizza uno dei due operatori economici che facevano parte di un raggruppamento di imprese invitato, in quanto tale, da siffatto ente a presentare un’offerta, a subentrare a tale raggruppamento in seguito allo scioglimento del medesimo e a partecipare, in nome proprio, a una procedura negoziata di aggiudicazione di un appalto pubblico, purché sia dimostrato, da un lato, che tale operatore economico soddisfa da solo i requisiti definiti dall’ente di cui trattasi e, dall’altro, che la continuazione della sua partecipazione a tale procedura non comporta un deterioramento della situazione degli altri offerenti sotto il profilo della concorrenza”.
DUE CONDIZIONI. Dunque, è necessario che l’impresa rimanente sia in possesso –da sola- dei requisiti necessari per l’ammissione alla procedura di gara in questione; inoltre, occorre che la continuazione della sua partecipazione a tale procedura non comporti un deterioramento della situazione degli altri offerenti sotto il profilo della concorrenza.
Sotto questo secondo versante”, commenta il sito ufficiale della giustizia amministrativa italiana, “la sentenza in esame non fornisce indicazioni esemplificative, fermo restando che tale presupposto appare di per sé di non facile ed immediata verifica concreta. Peraltro, la soluzione indicata viene basata espressamente, dalla Corte, sul principio della massima apertura al mercato: in tale ottica, secondo la sentenza, la formale identità giuridica e sostanziale tra gli operatori economici preselezionati e quelli che presentano le offerte può essere attenuata al fine di garantire, in una procedura negoziata, un’adeguata concorrenza”.
LA GIURISPRUDENZA NAZIONALE. Il sito web della giustizia amministrativa ricorda che “nella giurisprudenza nazionale è possibile individuare indicazioni di maggiore rigore in materia, quantomeno nella fase anteriore all’esecuzione.
E' stato sul punto affermato che “Nelle gare pubbliche il divieto di modificare la composizione dei partecipanti raggruppamenti temporanei d'imprese riguarda l'intero arco della procedura di evidenza pubblica, mentre le eccezioni contemplate dall'art. 37, commi 18 e 19, d.lgs. 12.04.2006, n. 163 e concernenti il fallimento del mandante e del mandatario, la morte, l'interdizione o inabilitazione dell'imprenditore individuale, nonché le ipotesi previste dalla normativa antimafia, riguardano evenienze relative alla successiva fase dell'esecuzione del contratto” (Cons. St., sez. V, 20.01.2015, n. 169); “nelle gare pubbliche ogni eccezione al principio di immodificabilità dell'offerta e della composizione dei partecipanti dopo l'offerta non può che essere applicata restrittivamente alle sole ipotesi espressamente disciplinate dal legislatore, tra le quali non rientra il caso del fallimento della mandataria di una ATI intervenuto in corso di gara” (Tar Piemonte, sez. I, 15.05.2015, n. 818)” (commento tratto da www.casaeclima.com).
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MASSIMA
Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara:
Il principio di parità di trattamento degli operatori economici, di cui all’articolo 10 della direttiva 2004/17/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31.03.2004, che coordina le procedure di appalto degli enti erogatori di acqua e di energia, degli enti che forniscono servizi di trasporto e servizi postali, in combinato disposto con l’articolo 51 della medesima, deve essere interpretato nel senso che un ente aggiudicatore non viola tale principio se autorizza uno dei due operatori economici che facevano parte di un raggruppamento di imprese invitato, in quanto tale, da siffatto ente a presentare un’offerta, a subentrare a tale raggruppamento in seguito allo scioglimento del medesimo e a partecipare, in nome proprio, a una procedura negoziata di aggiudicazione di un appalto pubblico, purché sia dimostrato, da un lato, che tale operatore economico soddisfa da solo i requisiti definiti dall’ente di cui trattasi e, dall’altro, che la continuazione della sua partecipazione a tale procedura non comporta un deterioramento della situazione degli altri offerenti sotto il profilo della concorrenza.

URBANISTICA: Beni Ambientali. Nulla osta previsto dall’art. 13, l. 06.12.1991 n. 394 e procedimento di approvazione di uno strumento urbanistico attuativo.
La Plenaria ha formulato il principio di cui in massima precisando che:
a) se il parere all’ente parco, pur non obbligatorio, venga comunque richiesto nel corso del procedimento di approvazione di uno strumento urbanistico, non può trovare ingresso l’istituto del silenzio-assenso previsto dall’art. 13, comma 1, l. n. 394 del 1991;
b) quand’anche il parere sia stato favorevolmente reso per spirito di collaborazione dall’ente parco, in ogni caso il parere deve essere nuovamente acquisito in occasione della presentazione di una domanda di permesso di costruire, perché solo in questo momento è possibile definire con precisione l’impatto dell’intervento edilizio sull’ambiente.

Conseguentemente, respinti i motivi di appello che presupponevano l’applicabilità dell’art. 13, comma 1, cit. al caso di specie, la sentenza ha restituito gli atti alla Sezione, ex art. 99, commi 1 e 4, c.p.a., senza pronunciarsi sul quesito rimessole, consistente nello stabilire se l’art. 20, l. n. 241 del 1990 –novellato nel 2005- abbia comportato l’abrogazione dell’art. 13, comma 1, l. n. 394 del 1991, attesa la specialità di quest’ultima disposizione, ovvero se debba escludersi la sopravvivenza di norme aventi a oggetto ipotesi di silenzio-assenso anteriori alla novella dell’art. 20 sulla base di una rigorosa applicazione del criterio cronologico della successione delle leggi nel tempo e della tendenza complessiva dell’ordinamento a ricusare tale modulo procedimentale in settori “sensibili” quali sono quelli della tutela del paesaggio, dell’ambiente, della salute, e dei beni culturali.
Analoga questione è stata rimessa all’Adunanza plenaria dalla III Sezione del Consiglio di Stato con ordinanza n. 642 del 17.02.2016; la questione sarà affrontata dalla Plenaria all’udienza del prossimo 08.06.2016 (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 24.05.2016 n. 9 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Cassazione: la canna fumaria non è una costruzione ma un semplice accessorio di un impianto.
Non trova applicazione la disciplina di cui all'art. 907 del Codice civile sulle distanze.
“Come già affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, la canna fumaria non è una costruzione, ma un semplice accessorio di un impianto e quindi non trova applicazione la disciplina di cui all'art. 907” del Codice civile.
Lo ha riaffermato la Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la sentenza 23.05.2016 n. 10618.
La suprema Corte ha deciso di dare continuità al suddetto orientamento giurisprudenziale considerando le caratteristiche dei manufatti in questione, e cioè semplici tubi in materiale metallico.
Per quanto riguarda il tema delle immissioni di cui all'art. 844 cc, la Cassazione ricorda che “la valutazione della tollerabilità, ove adeguatamente motivata, nell'ambito dei criteri direttivi indicati dal citato art. 844 cod. civ., con particolare riguardo a quello del contemperamento delle esigenze della proprietà privata con quelle della produzione, costituisce accertamento di merito insindacabile in sede di legittimità”.
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Per il resto la censura si rivela infondata.
Dal contenuto della citazione introduttiva (come riassunto a pag. 2 del ricorso) risulta dedotta "la sussistenza di due canne fumarle davanti alle finestre al primo plano della proprietà attorea a distanza inferiore a quella di legge", il che induce senz'altro a ritenere che la doglianza sia stata formulata con riferimento alla violazione degli artt. 907 cc (distanza delle costruzioni dalle vedute) e 890 cc (distanze per fabbriche e depositi nocivi o pericolosi).
Ciò chiarito, come già affermato dalla giurisprudenza di questa Corte,
la canna fumaria non è una costruzione, ma un semplice accessorio di un impianto e quindi non trova applicazione la disciplina di cui all'art. 907 (Sez. 2, Sentenza n. 2741 del 23/02/2012 Rv. 621675). Il Collegio ritiene di dare continuità a tale orientamento considerando le caratteristiche dei manufatti di cui si discute (si tratta in sostanza di semplici tubi in materiale metallico). Perde così consistenza ogni disquisizione sulla natura di luci o vedute.
Quanto al tema delle immissioni di cui all'art. 844 cc. la valutazione della tollerabilità, ove adeguatamente motivata, nell'ambito dei criteri direttivi indicati dal citato art. 844 cod. civ., con particolare riguardo a quello del contemperamento delle esigenze della proprietà privata con quelle della produzione, costituisce accertamento di merito insindacabile in sede di legittimità (Sez. 2, Sentenza n. 17281 del 25/0812005 Rv. 584408).
Nel caso che ci occupa la Corte genovese, sulla scorta degli accertamenti peritali, ha rilevato il rispetto del dettato del piano regolatore della città di Carrara sotto il profilo della dispersione dei fumi e ha escluso, per effetto dell'allungamento, il rischio di danni all'abitazione adiacente (v. pag. 6).
Trattasi, come si vede, di un percorso argomentativo succinto ma adeguato e, come tale, incensurabile (commento tratto da www.casaeclima.com).

APPALTI: In caso d'appalto annullato il danno subito va provato.
Ai fini del risarcimento del danno derivante dall'annullamento dell'aggiudicazione di un appalto non è necessario provare la colpa della stazione appaltante; non è automatica la quantificazione del danno per equivalente nella misura del 10% del valore dell'appalto, che invece va provato in concreto.

È quanto ha affermato il Consiglio di Stato con la sentenza del 23.05.2015 n. 2111, della IV Sez. che prende in esame la richiesta di risarcimento del danno formulata a seguito dell'avvenuta impugnazione, con ricorso straordinario, dell'aggiudicazione di un appalto.
Il Consiglio di stato ha ricostruito gli elementi chiave per la definizione del danno derivante da responsabilità extracontrattuale della stazione appaltante ritenendo che la struttura dell'illecito dell'amministrazione non diverga dal modello generale delineato dall'articolo 2043 del codice civile (elemento soggettivo, dolo o colpa, nesso di causalità, danno e ingiustizia del danno).
La sentenza ha precisato che, ai fini del risarcimento, non è necessario l'accertamento dell'elemento soggettivo «poiché il rimedio risarcitorio risponde al principio di effettività della tutela previsto dalla normativa comunitaria». Pertanto, ha detto il Consiglio di stato, si può prescindere dalla prova della colpa (o del dolo) della stazione appaltante. Invece, il danneggiato deve offrire la prova dell'an e del quantum del danno che assume di aver sofferto e offrire la prova dell'utile che in concreto avrebbe conseguito, qualora fosse risultato aggiudicatario dell'appalto.
Per quel che concerne la valutazione del danno, la sentenza ha chiarito che la valutazione equitativa (ai sensi dell'articolo 1226 cod. civ.), «è ammessa soltanto in presenza di situazione di impossibilità, o di estrema difficoltà, di una precisa prova sull'ammontare del danno». Detto ciò, «va esclusa la pretesa di ottenere l'equivalente del 10% dell'importo a base d'asta, sia perché detto criterio esula storicamente dalla materia risarcitoria, sia perché non può essere oggetto di applicazione automatica ed indifferenziata».
Per i giudici, infatti, non si può presumere che il danno da lucro cessante del danneggiato sia commisurabile al 10% del detto importo; quindi è necessaria la prova concreta del danno subito (articolo ItaliaOggi del 27.05.2016).
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MASSIMA
18. Senza riprendere dal fondo l’esame di temi ampiamente discussi e approfonditi, il Collegio ritiene che
la struttura dell’illecito extracontrattuale della P.A. non diverga dal modello generale delineato dall’art. 2043 c.c. Ne sono dunque elementi costitutivi: quello soggettivo (dolo o colpa), il nesso di causalità, il danno, l’ingiustizia del danno medesimo.
19. Peraltro,
ai fini del risarcimento, non è necessario l'accertamento dell'elemento soggettivo là dove, come nella specie, il risarcimento funga da strumento necessariamente sostitutivo della non più possibile tutela in forma specifica, poiché il rimedio risarcitorio risponde al principio di effettività della tutela previsto dalla normativa comunitaria, sulla base degli autonomi principi sviluppati nel tempo dalla Corte di giustizia UE (cfr. Cons. Stato, sez. V, 28.12.2011, n. 6919; sez. IV, 31.01.2012, n. 482; sez. V, 31.12.2014, n. 6450; tutte con riferimento anche alla giurisprudenza comunitaria). Si può dunque prescindere dalla prova della colpa della stazione appaltante.
20. Quanto agli altri presupposti dell’obbligazione risarcitoria,
il Collegio -alla stregua di consolidati e risalenti principi elaborati dalla giurisprudenza di questo Consiglio, in tema di determinazione del danno da mancata aggiudicazione di gara d'appalto (cfr. ex plurimis Cons. Stato, sez. V, 31.12.2014, n. 6450 e n. 6453; sez. V, 21.07.2015, n. 3605; sez. IV, 21.03.2016, n. 1130; Ad. plen., 23.03.2011, n. 3), dai quali non intende discostarsi- rammenta che:
   a)
ai sensi degli artt. 30, 40 e 124, comma 1, c.p.a., il danneggiato deve offrire la prova dell'an e del quantum del danno che assume di aver sofferto;
   b)
spetta all'impresa danneggiata offrire la prova dell'utile che in concreto avrebbe conseguito, qualora fosse risultata aggiudicataria dell'appalto, poiché nell'azione di responsabilità per danni il principio dispositivo opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell'azione di annullamento (ex art. 64, commi 1 e 3, c.p.a.); quest'ultimo, infatti, in tanto si giustifica in quanto sussista la necessità di equilibrare l'asimmetria informativa tra Amministrazione e privato la quale contraddistingue l'esercizio del pubblico potere ed il correlato rimedio dell'azione di impugnazione, mentre non si riscontra in quella consequenziale di risarcimento dei danni, in relazione alla quale il criterio della c.d. vicinanza della prova determina il riespandersi del predetto principio dispositivo sancito in generale dall'art. 2697, primo comma, c.c.;
   c)
la valutazione equitativa, ai sensi dell'art. 1226 cod. civ., è ammessa soltanto in presenza di situazione di impossibilità -o di estrema difficoltà- di una precisa prova sull'ammontare del danno;
   d)
le parti non possono sottrarsi all'onere probatorio e rimettere l'accertamento dei propri diritti all'attività del consulente tecnico d'ufficio neppure nel caso di consulenza cosiddetta "percipiente", che può costituire essa stessa fonte oggettiva di prova, demandandosi al consulente l'accertamento di determinate situazioni di fatto, giacché, anche in siffatta ipotesi, è necessario che le parti stesse deducano quantomeno i fatti e gli elementi specifici posti a fondamento di tali diritti;
   e)
la prova in ordine alla quantificazione del danno può essere raggiunta anche mediante presunzioni; per la configurazione di una presunzione giuridicamente rilevante non occorre che l'esistenza del fatto ignoto rappresenti l'unica conseguenza possibile di quello noto, secondo un legame di necessarietà assoluta ed esclusiva (sulla base della regola della «inferenza necessaria»), ma è sufficiente che dal fatto noto sia desumibile univocamente quello ignoto, alla stregua di un giudizio di probabilità basato sull'«id quod plerumque accidit» (in virtù della regola della «inferenza probabilistica»), sicché il giudice può trarre il suo libero convincimento dall'apprezzamento discrezionale degli elementi indiziari prescelti, purché dotati dei requisiti legali della gravità, precisione e concordanza, mentre non può attribuirsi valore probatorio ad una presunzione fondata su dati meramente ipotetici;
   f)
va esclusa la pretesa di ottenere l'equivalente del 10% dell'importo a base d'asta, sia perché detto criterio esula storicamente dalla materia risarcitoria, sia perché non può essere oggetto di applicazione automatica ed indifferenziata (non potendo formularsi un giudizio di probabilità fondato sull'id quod plerumque accidit secondo il quale, allegato l'importo a base d'asta, può presumersi che il danno da lucro cessante del danneggiato sia commisurabile al 10% del detto importo);
   g)
anche per il c.d. danno curricolare il creditore deve offrire una prova puntuale del nocumento che asserisce di aver subito (il mancato arricchimento del proprio curriculum professionale), quantificandolo in una misura percentuale specifica applicata sulla somme liquidata a titolo di lucro cessante.
21. Facendo applicazione dei su esposti principi al caso di specie, risulta evidente l'inaccoglibilità delle domande proposte dalla Za.Co., la quale:
   a) si è limitata a chiedere l’esecuzione in forma specifica del decreto decisorio o, in subordine, il risarcimento del danno per equivalente, ma non ha provato che, una volta annullata l’aggiudicazione in favore dell’impresa prima classificata, sarebbe risultata prima in graduatoria e quindi aggiudicataria, dovendosi tenere conto dell’esito del ricalcolo delle offerte e dell’accertamento di possibili mancanze dei necessari requisiti soggettivi (a norma, rispettivamente, degli artt. 86 e 38 del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163);
   b) non può fondatamente chiedere che, in mancanza di proprie specifiche allegazioni probatorie, la liquidazione possa basarsi su una c.t.u., il cui apporto concreto è risultato meramente verbale e non ha fornito la prova della percentuale di utile effettivo che l’impresa avrebbe conseguito se fosse risultata aggiudicataria dell'appalto, con riferimento all'offerta economica presentata al seggio di gara (si veda invece la fattispecie decisa da Cons. Stato, sez. IV, 14.03.2016, n. 992, ove la consulenza ha offerto la prova rigorosa del danno subito), ovvero su un giudizio di equità (c.d. correttiva e integrativa), al di fuori dei presupposti sanciti dall'art. 1226 c.c.;
   c) ha domandato il risarcimento del danno patito avuto riguardo alle spese generali fisse dell’impresa, relative al funzionamento della struttura organizzativa della sede aziendale, mentre
-conformemente a un consolidato orientamento del giudice amministrativo- non è ristorabile il danno per spese e costi di partecipazione alla gara, per le spese generali e legali e spese di progettazione, perché che la partecipazione alle gare d'appalto comporta per i partecipanti dei costi che ordinariamente restano a carico delle imprese medesime, sia in caso di aggiudicazione che in caso di mancata aggiudicazione (cfr. per tutte Cons. Stato, sez. IV, 17.02.2014, n. 744; sez. III, 10.04.2015, n. 1839);
   d)
il danno curriculare, a sua volta, ferma restando la sua puntuale allegazione, può essere equitativamente liquidato in una percentuale del mancato utile effettivamente provato, che qui è del tutto mancata, perché l’impresa ricorrente non ha fornito la prova dell'entità della sorte capitale dovuta a titolo di mancato utile effettivo.
22. A tanto consegue, in conclusione, il rigetto della domanda formulata in via principale, come pure di quella subordinata.
23. Le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante: fra le tante, per le affermazioni più risalenti, Cass. civ., sez. II, 22.03.1995, n. 3260, e, per quelle più recenti, Cass. civ., sez. V, 16.05.2012, n. 7663).
24. Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a condurre a una conclusione di segno diverso.

EDILIZIA PRIVATA: Autorizzazione paesaggistica, il no della Soprintendenza è nullo in difetto di motivazione.
Tar Friuli: l'interesse all’approvvigionamento energetico da fonti rinnovabili è non meno rilevante dell'interesse pubblico alla preservazione del paesaggio.
Con la sentenza 23.05.2016 n. 187, il TAR Friuli Venezia Giulia ha accolto il ricorso presentato da un cittadino per l'annullamento del parere negativo della Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici, inerente la richiesta di installazione di un impianto fotovoltaico su un fabbricato di civile abitazione, situato in zona urbanistica B3 “area urbanistica di espansione residenziale recente sita ai piedi del versante collinare” sulla quale insiste un vincolo paesaggistico ex art. 157, comma 1, lett. c), del d.lgs. 22.01.2004, n. 42.
Il Tar ha annullato il parere negativo della Soprintendenza e anche il provvedimento di diniego di autorizzazione paesaggistica del Responsabile del Servizio Pianificazione Territoriale del Comune interessato.
DIFETTO DI MOTIVAZIONE E TARDIVITÀ. I giudici amministrativi hanno rilevato “il difetto di motivazione che affligge il parere della Soprintendenza e, di conseguenza, il diniego comunale, viepiù aggravato dalla circostanza che, essendosi la Soprintendenza espressa sotto il profilo paesaggistico quando oramai era decorso il termine di legge per farlo, il parere dalla medesima espresso non poteva più considerarsi assistito dal carattere di vincolatività e avrebbe dovuto, quindi, essere autonomamente e motivatamente valutato dal Comune procedente in relazione a tutte le circostanze rilevanti del caso (...), nel cui ambito avrebbero potuto trovare adeguata valorizzazione anche il parere favorevole della Commissione Locale per il Paesaggio e la proposta di accoglimento da parte del responsabile del procedimento”.
Infatti, osserva il Tar, il parere negativo di compatibilità paesaggistica “è motivato unicamente con riferimento al mancato rispetto di quanto disposto nelle circolari n. 5450/2010 e n. 7166/2011 della Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici della Regione F.V.G., senza null’altro rappresentare al ricorrente “circa le specifiche ed obiettive ragioni per le quali il progetto di impianto fotovoltaico da questo proposto, non risulti conforme alle esigenze paesaggistiche della zona scelta per il collocamento dello stesso” e, anzi, finanche trascurando di prendere in considerazione le effettive risultanze progettuali”.
Quindi, la motivazione posta a sostegno “non consente al predetto né di ricostruire l’iter logico-giuridico posto a fondamento di tale decisione, né di poter eventualmente superare le eventuali e non conosciute criticità connesse alla realizzazione di detto impianto, apportando, se possibile, tutte le necessarie modifiche al fine di renderlo compatibile con le esigenze di tutela del paesaggio, solo genericamente ed aprioristicamente addotte da parte della stessa Soprintendenza”.
Inoltre, “non paiono essere state svolte, neppure in sede di istruttoria procedimentale, le necessarie considerazioni circa lo stato dei luoghi ove detto impianto dovrebbe essere realizzato, anche al fine di stabilire se, conformemente quanto disposto nelle circolari citate nella determina impugnata, l’opera in questione possa eventualmente risultare compatibile, ed in quale misura, con i valori paesaggistici di riferimento, tenuto peraltro conto dell’attuale stato di urbanizzazione del territorio in questione”.
Da ultimo, “non risulta che sia stata svolta alcuna valutazione comparatistica tra l’interesse pubblico alla preservazione del paesaggio e quello non meno rilevante concernente l’approvvigionamento energetico da fonti rinnovabili e non inquinanti, il cui esame congiunto appare imprescindibile al fine di eliminare eventuali sproporzioni tra le azioni volte a tutela dei vincoli paesaggistici e la sempre maggiore domanda di consumo di energia elettrica” (commento tratto da www.casaeclima.com).
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MASSIMA
Il ricorso è fondato e va accolto.
Il Collegio ritiene, invero, che possono essere mutuate le motivazioni poste a sostegno della decisione di questo Tribunale n. 383 in data 13.08.2015, atteso che la situazione giuridico/fattuale che viene in rilievo nel presente giudizio è analoga a quella già oggetto di disamina.
Anche in tal caso
assume, infatti, preponderante rilevanza il difetto di motivazione che affligge il parere della Soprintendenza e, di conseguenza, il diniego comunale, viepiù aggravato dalla circostanza che, essendosi la Soprintendenza espressa sotto il profilo paesaggistico quando oramai era decorso il termine di legge per farlo, il parere dalla medesima espresso non poteva più considerarsi assistito dal carattere di vincolatività e avrebbe dovuto, quindi, essere autonomamente e motivatamente valutato dal Comune procedente in relazione a tutte le circostanze rilevanti del caso (in termini C.d.S., VI, 27.04.2015, n. 2136; TAR Puglia, Lecce, I, 12.07.2013, n. 1681; id. n. 1739/2013 e n. 321/2014; Tar Veneto, II, n. 583/2014), nel cui ambito avrebbero potuto trovare adeguata valorizzazione anche il parere favorevole della Commissione Locale per il Paesaggio e la proposta di accoglimento da parte del responsabile del procedimento.
Il parere negativo di compatibilità paesaggistica è motivato, infatti, unicamente con riferimento al mancato rispetto di quanto disposto nelle circolari n. 5450/2010 e n. 7166/2011 della Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici della Regione F.V.G., senza null’altro rappresentare al ricorrente “
circa le specifiche ed obiettive ragioni per le quali il progetto di impianto fotovoltaico da questo proposto, non risulti conforme alle esigenze paesaggistiche della zona scelta per il collocamento dello stesso” e, anzi, finanche trascurando di prendere in considerazione le effettive risultanze progettuali.
La motivazione posta a sostegno non consente, dunque, al predetto né di ricostruire l’iter logico-giuridico posto a fondamento di tale decisione, né di poter eventualmente superare le eventuali e non conosciute criticità connesse alla realizzazione di detto impianto, apportando, se possibile, tutte le necessarie modifiche al fine di renderlo compatibile con le esigenze di tutela del paesaggio, solo genericamente ed aprioristicamente addotte da parte della stessa Soprintendenza.
Anche nel caso ora in esame
non paiono, inoltre, essere state svolte, neppure in sede di istruttoria procedimentale, le necessarie considerazioni circa lo stato dei luoghi ove detto impianto dovrebbe essere realizzato, anche al fine di stabilire se, conformemente quanto disposto nelle circolari citate nella determina impugnata, l’opera in questione possa eventualmente risultare compatibile, ed in quale misura, con i valori paesaggistici di riferimento, tenuto peraltro conto dell’attuale stato di urbanizzazione del territorio in questione.
Da ultimo,
non risulta che sia stata svolta alcuna valutazione comparatistica tra l’interesse pubblico alla preservazione del paesaggio e quello non meno rilevante concernente l’approvvigionamento energetico da fonti rinnovabili e non inquinanti, il cui esame congiunto appare imprescindibile al fine di eliminare eventuali sproporzioni tra le azioni volte a tutela dei vincoli paesaggistici e la sempre maggiore domanda di consumo di energia elettrica.
In accoglimento delle censure svolte dal ricorrente col I, II e IV motivo di ricorso e assorbite tutte le ulteriori dedotte, il ricorso va, in definitiva, accolto e, per l’effetto, annullati il parere negativo della Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici del Friuli Venezia Giulia in data 23.09.2014, prot. n. 12477, e il provvedimento di diniego di autorizzazione paesaggistica del Responsabile del Servizio Pianificazione Territoriale del Comune di San Daniele del Friuli in data 30.09.2014, prot. n. 1704 .

ATTI AMMINISTRATIVI: Api fastidiose Via le arnie.
Se le api infastidiscono i vicini, è comunque illegittima l'ordinanza del Sindaco che ordina la rimozione delle arnie in mancanza delle specifiche condizioni imposte dall'art. 54 del Tuel, ovvero il pericolo per l'incolumità pubblica.

Lo ha stabilito il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 19.05.2016 n. 2090.
In sostanza, ha affermato il Collegio, se è vero che l'articolo 896-bis cc il quale regolamenta il posizionamento degli apiari, rappresenta il punto di equilibrio fra le esigenze dell'apicoltore e quelle dei proprietari confinanti, è altresì vero che il rispetto delle prescrizioni codicistiche per l'esercizio della attività non esaurisce e non elide la possibilità che l'apicultura, pur legittima, possa rilevare ai fini dell'attivazione dei poteri di ordinanza extra ordinem consentiti dall'articolo 54 del suddetto Tuel.
Ma, a tale proposito, la giurisprudenza ha già chiarito che il potere del Sindaco può essere attivato solamente quando si tratti di affrontare situazioni di carattere eccezionale e impreviste, costituenti concreta minaccia per la pubblica incolumità, per le quali sia impossibile utilizzare i normali mezzi apprestati dall'ordinamento. E in tal senso, non possono certamente essere considerati sufficienti i «numerosi esposti da parte dei residenti confinanti, nei quali vengono lamentati inconvenienti igienico-sanitari e vengono evidenziati disagi sia ai beni di proprietà che alle persone».
In sostanza, la sentenza ha affermato che «uno stato di fatto, per quanto foriero di indubbi fastidi e disappunti, non legittima l'attivazione di un potere dichiaratamente eccezionale e il cui esercizio non può essere plasmato al fine di dirimere questioni che possono, e debbono, essere affrontate con strumenti giuridici di carattere ordinario» (articolo ItaliaOggi del 24.05.2016).
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MASSIMA
1. Giunge alla decisione del Collegio il ricorso in appello proposto dal signor Ci. (che esercita l’attività di allevamento di apis mellifera presso la sua abitazione nella frazione di Vaste di Poggiardo) avverso la sentenza del TAR della Puglia – Sezione staccata di Lecce con cui è stato respinto il ricorso avverso il provvedimento sindacale (adottato ai sensi dell’articolo 54 del TUEL) con il quale è stata ingiunta la rimozione degli apiari esistenti in loco.
2. L’appello è fondato nei termini che seguono.
2.1. Va premesso che
non può essere condivisa la tesi dell’appellante secondo cui il rispetto da parte del proprietario apicoltore delle previsioni di cui all’articolo 896-bis cod. civ. (per come introdotto ad opera dell’articolo 8 della l. 24.12.2004, n. 313) impedirebbe di fatto l’esercizio da parte del Sindaco dei poteri di ordinanza di cui al comma 4 dell’articolo 54 del TUEL al ricorrere dei relativi presupposti.
Si può convenire con l’appellante che l’esercizio dell’apicoltura secondo le modalità, le prescrizioni e le cautele contemplate dal richiamato articolo 896-bis rappresenti una facoltà rientrante nel contenuto naturale del suo diritto di proprietà.
Si può altresì convenire con l’appellante che la richiamata disposizione codicistica risulti tributaria di un orientamento legislativo volto a riguardare l’apicoltura come attività di interesse nazionale e a consentirne quindi generaliter l’esercizio previa l’adozione di alcune (peraltro poche) cautele.
Non può invece essere condiviso l’argomento secondo cui il rispetto delle richiamate cautele rappresenterebbe ex se la condizione ad un tempo necessaria e sufficiente per consentire in modo incondizionato l’esercizio dell’attività di apicoltura, pure al ricorrere delle eccezionali condizioni che legittimano l’esercizio del potere sindacale di ordinanza di cui al più volte richiamato articolo 54 del TUEL.
Al contrario, se è vero che l’articolo 896-bis rappresenta il punto di equilibrio in ambito civilistico fra le esigenze del proprietario apicoltore e quelle dei proprietari confinanti, è altresì vero che il rispetto delle prescrizioni codicistiche per l’esercizio della richiamata attività non esaurisce e non elide la possibilità che l’esercizio di tale attività (pur legittimo de iure civili) possa rilevare nondimeno ai fini dell’attivazione dei poteri di ordinanza extra ordinem di cui al più volte richiamato articolo 54.

Sotto tale aspetto il ricorso in appello non può quindi essere condiviso.
2.2. Al contrario, il ricorso in epigrafe è meritevole di accoglimento per la parte in cui il dottor Ci. ha rilevato la mancata allegazione da parte del Comune delle specifiche ed eccezionali circostanze che, sole, possono legittimare l’esercizio del più volte richiamato potere di ordinanza.
Come è noto, il comma 5 dell’articolo 54 del TUEL stabilisce che “il sindaco, quale ufficiale del Governo, adotta con atto motivato provvedimenti, [anche] contingibili e urgenti nel rispetto dei princìpi generali dell'ordinamento, al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana (…)”.
2.2.1. La giurisprudenza di questo Consiglio ha solitamente interpretato in modo piuttosto restrittivo i presupposti e le condizioni che legittimano l’esercizio del richiamato potere di ordinanza, avente carattere sostanzialmente extra ordinem.
E’ stato affermato al riguardo che
il richiamato potere può essere attivato solamente quando si tratti di affrontare situazioni di carattere eccezionale e impreviste, costituenti concreta minaccia per la pubblica incolumità, per le quali sia impossibile utilizzare i normali mezzi apprestati dall'ordinamento giuridico: tali requisiti non ricorrono di conseguenza, quando le pubbliche amministrazioni possono adottare i rimedi di carattere ordinario (in tal senso: Cons. Stato, VI, 13.06.2012, n. 3490).
E’ stato altresì chiarito che
il carattere eccezionale del richiamato potere comporta che il suo esercizio resti relegato alle sole ipotesi in cui risulta impossibile utilizzare i normali mezzi apprestati dall'ordinamento giuridico: si tratta di un’ipotesi che non ricorre , di conseguenza, quando le pubbliche amministrazioni possono fronteggiare le medesime situazioni adottando i rimedi di carattere ordinario (in tal senso: Cons. Stato, V, 20.02.2012, n. 904).
2.2.2. Ebbene, riconducendo i principi appena richiamati alle peculiarità del caso in esame, risulta che il Comune appellato non abbia dimostrato nel caso in esame il ricorrere dei presupposti che legittimano il ricorso al potere di ordinanza di cui al comma 4 dell’articolo 54 del TUEL.
Si osserva al riguardo:
- che l’esercizio del richiamato potere non risulta giustificato dalla sola presentazione di “numerosi esposti da parte dei residenti confinanti, nei quali vengono lamentati inconvenienti igienico-sanitari e vengono evidenziati disagi sia ai beni di proprietà che alle persone” (in tal senso il secondo ‘Visto’ del provvedimento impugnato in primo grado);
- che, allo stesso modo, dai verbali di sopralluogo del servizio veterinario della ASL e del locale Comando di Polizia Municipale (parimenti richiamati nell’ambito del provvedimento in data 21.05.2015) non emerge la presenza dei “gravi pericoli che minacciano l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana (…)” di cui al richiamato articolo 54;
- che le richiamate, eccezionali condizioni legittimanti neppure possono dirsi sussistenti sulla base della segnalazione in data 19.07.2014 (con la quale si lamentava la presenza di uno sciame d’api nel giardino dell’abitazione di una vicina, distante circa 15 metri dall’allevamento in questione e che avrebbe provocato “grave disagio ai residenti in quanto impediva effettivamente l’utilizzo dell’area esterna all’abitazione”). Si tratta di uno stato di fatto che, per quanto foriero di indubbi fastidi e disappunti, non legittima l’attivazione di un potere dichiaratamente eccezionale e il cui esercizio non può essere plasmato al fine di dirimere questioni che possono –e debbono- essere affrontate con strumenti giuridici di carattere ordinario;
- che, infine, non può legittimare l’attivazione di un potere sostanzialmente extra ordinem il contenuto della relazione del Servizio veterinario, da cui emerge che “le api soprattutto nel periodo estivo attratte dall’acqua stazionano in gran numero nei giardini dei vicini per abbeverarsi”.
2.2.3. Si tratta di un complesso di circostanze che, pur complessivamente intese, non palesa l’esistenza di una situazione contingibile, tale da giustificare l’adozione di un intervento d’urgenza, né la sussistenza di un grave e imminente pericolo per la pubblica incolumità, tale da giustificare l’adozione dei più volte richiamati poteri, di carattere eccezionale e derogatorio.
3. Per le ragioni dinanzi esposte l’appello in epigrafe deve essere accolto e conseguentemente, in riforma della sentenza impugnata, deve essere disposto l’annullamento del provvedimento impugnato in primo grado, fatti salvi gli ulteriori provvedimenti dell’amministrazione appellata.

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Il regolamento detta legge sul «decoro architettonico». Opere vietate anche se conformi alle norme urbanistiche.
Regole comuni. Può essere imposto il rispetto delle linee estetiche dell’edificio.

Il regolamento di condominio «contrattuale» (predisposto dal costruttore o dall’originario unico proprietario e allegato ai singoli atti di acquisto), al pari di quello adottato in assemblea con il voto favorevole di tutti partecipanti al condominio, può anche derogare alla disciplina imposta per legge, sia con riferimento ai beni comuni che alla proprietà privata dei singoli condòmini.
Quindi, secondo la Cassazione, un regolamento di condominio ben può dare una interpretazione più restrittiva del concetto di decoro architettonico, per come delineato dall’ultimo comma dell’articolo 1120 del Codice civile, per cui «sono vietate le innovazioni che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, che ne alterino il decoro architettonico o che rendano talune parti comuni dell’edificio inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condomino».
Pertanto, risulta legittima la clausola del regolamento contrattuale di condominio che imponga il mantenimento delle linee estetiche e della regolarità dell’immobile, per come originariamente edificato.
La vicenda
Tanto ha stabilito la II Sez. civile della Corte di Cassazione, nella sentenza 18.05.2016 n. 10272, in una controversia che vedeva contrapposto un condòmino il quale chiedeva la rimozione di un piccolo vano realizzato dal proprio dirimpettaio, all’interno della sua proprietà, data la contrarietà dell’opera al vigente regolamento condominiale.
Sia la Corte d’Appello di Napoli che la Suprema Corte, con la citata sentenza, confermavano la decisione con la quale era stato disposto il rispristino dello stato dei luoghi, con la rimozione dell’opera realizzata in violazione alle norme regolamentari.
La pronuncia
Ma la Cassazione ha rilevato come: «il regolamento del condominio abbia inteso limitare le innovazioni anche oltre la previsione di cui all’articolo 1120 del Codice civile avendo subordinato all’autorizzazione dell’assemblea ogni lavoro che interessasse “comunque” la stabilità, l’estetica e l’uniformità esteriore dei singoli fabbricati. La clausola in questione, che prescinde da una vera e propria alterazione del decoro architettonico, vieta ai condòmini, in assenza di autorizzazione assembleare, qualsiasi lavoro che interessi “comunque”, oltre all’estetica, anche l’uniformità esteriore dei singoli fabbricati».
Peraltro, sottolinea la Corte di Cassazione, bene ha fatto il giudice di merito ad esprimere in sentenza il proprio dissenso rispetto alle conclusioni a cui era pervenuto il consulente tecnico nominato da Tribunale, al quale peraltro è fatto divieto di esprimere valutazioni riservate al Giudice
(articolo Il Sole 24 Ore del 24.05.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

SEGRETARI COMUNALI: Diritti di rogito a segretari assimilati a dirigenti. Se preposti a sedi di comuni privi di dirigenza. Lo dice il Tribunale di Milano.
Ai segretari comunali assimilati ai dirigenti spettano i diritti di rogito se siano preposti a sedi di segreteria di comuni privi di dirigenti.

La sentenza 18.05.2016 n. 1539 del TRIBUNALE di Milano, in sede di giudice del lavoro, interpreta in maniera assolutamente tranciante la questione connessa alla percezione dei diritti di rogito, ponendosi in contrasto apertissimo con le indicazioni della Corte dei conti.
La sentenza del tribunale non dà spazio a dubbi. L'articolo 10, comma 2-bis, del dl 90/2014, convertito in legge 114/2014 dispone che: «Negli enti locali privi di dipendenti con qualifica dirigenziale, e comunque a tutti i segretari comunali che non hanno qualifica dirigenziale, una quota del provento annuale spettante al comune ai sensi dell'art. 30, secondo comma, della legge 15.11.1973, n. 734, come sostituito dal comma 2 del presente articolo, per gli atti di cui ai numeri 1, 2, 3, 4 e 5 della tabella D allegata alla legge 08.06.1962, n. 604, e successive modificazioni, è attribuita al segretario comunale rogante, un quinto dello stipendio in godimento».
La disposizione, a parere del tribunale «sembra chiara nell'individuare, quali destinatari del beneficio di cui all'art. 30 legge n. 734/1973, due categorie di segretari comunali, ovvero: quelli che operano presso enti locali privi di dirigenti con qualifica dirigenziale e quelli che non hanno qualifica dirigenziale».
Secondo la sentenza vi è una razionale scelta alla base della chiave di lettura proposta, fondata su due elementi. Il primo discende dal fine della norma, la quale riconosce i diritti di rogito ai segretari di fascia C (non assimilabili ai dirigenti) per sopperire «una situazione stipendiale che, rispetto ai colleghi appartenenti alle altre due categorie, è meno favorevole e garantista»; ma riconosce la percezione dei diritti di rogito anche ai segretari delle fasce B e A quando «i medesimi operano all'interno di un ente in cui non vi sono dipendenti con funzioni dirigenziali».
In secondo luogo, il tribunale, sulla base della propria connotazione di giudice del lavoro, non può fare a meno di constatare che, inoltre, l'articolo 10, comma 2-bis, del dl 90/2014 «risulta perfettamente aderente al disposto dell'art. 37 Ccnl dei segretari comunali che, nel novero inserisce anche i diritti di segreteria». Osservazione, questa, che da sola potrebbe considerarsi dirimente, anche alla luce dell'articolo 36 della Costituzione.
Il contenuto più rilevante e, al contempo, delicato della pronuncia del tribunale, però, sta nella critica molto forte alle opposte interpretazioni fornite, in particolare dalla Corte dei conti, Sezione Autonomie, col parere 24.06.2015, n. 21.
Secondo tale delibera, il diritto di rogito competa esclusivamente ai segretari di comuni di piccole dimensioni collocati in fascia C, ma non spetta ai segretari che godono di equiparazione alla dirigenza, sia essa assicurata dalla appartenenza alle fasce A e B o un effetto del galleggiamento in ipotesi di titolarità di enti locali privi di dipendenti con qualifica dirigenziale, anche perché l'articolo 10-bis è da considerare come norma posta alla salvaguardia della finanza pubblica e volta a ridurre i casi di deroga al principio di onnicomprensività della retribuzione dei dipendenti pubblici.
Il tribunale di Milano rigetta totalmente la visione proposta dalla magistratura contabile, perché se da un lato è vero che la norma ha lo scopo di meglio amministrare la spesa pubblica, tuttavia l'interpretazione data dalla Sezione Autonomie «nell'intento di salvaguardare beni pur meritevoli di tutela, finisce per restringere il campo di applicazione della norma compiendo un'operazione di chirurgia giuridica non consentito nemmeno in nome della res pubblica».
Sicché, il tribunale conclude: «La letterale applicazione della norma che, nella sua chiarezza non necessita di alcuna interpretazione», tanto da portarlo a decidere per la spettanza dei diritti di rogito al segretario di fascia A o B che operi in sedi privi di dirigenti. La sentenza mette infine in ulteriore luce un problema di sistema: l'influenza dei pareri della Corte dei conti (ma anche di soggetti come Aran, Ispettorato del Mef e Dipartimenti dei ministeri in sede di pareri interpretativi) nell'ambito della gestione del personale (articolo ItaliaOggi del 24.05.2016).

ATTI AMMINISTRATIVIL’interesse pubblico alla notizia «vince» sulla privacy. Cedu. La libertà di stampa prevale.
Il diritto alla reputazione cede il passo alla libertà di stampa se la notizia pubblicata è vera e di interesse generale. E questo anche quando l’articolo ha al centro lo stato di salute di una persona, dipendente pubblico che ha meno tutele in materia di privacy rispetto a un privato cittadino.

È la Corte europea dei diritti dell’uomo a stabilirlo, con la sentenza 17.05.2016 nel caso Fürst-Pfeifer contro Austria (ricorsi n. 33677/2010 e n. 52340/2010) con la quale Strasburgo ha dato ragione ai giornalisti, rigettando il ricorso di una donna che contestava all’Austria di non aver salvaguardato il suo diritto al rispetto della vita privata assicurato dall’articolo 8 della Convenzione europea.
La donna, che era una psichiatra impegnata in diversi procedimenti per la custodia di minori e nominata dall’autorità giudiziaria come esperto in casi relativi a maltrattamenti di bambini, era stata al centro di un articolo pubblicato su un giornale online e su una newsletter cartacea edita da una società austriaca. Nell’articolo si richiamava l’attenzione sulla circostanza che la donna aveva sofferto di attacchi di panico, sbalzi di umore, allucinazioni e pensieri suicidi.
La donna aveva agito contro l’editore che, in primo grado, era stato condannato a pagare 5mila euro. Un verdetto ribaltato in appello. I giudici nazionali, anche della cassazione, infatti, avevano considerato preminente la circostanza che l’articolo conteneva fatti veri ed era ben bilanciato perché si dava atto che la donna non aveva mai ricevuto contestazioni nell’esercizio della sua attività professionale.
Una conclusione condivisa da Strasburgo, che ha bocciato il ricorso della donna. È vero –osserva la Corte– che il diritto alla reputazione è un diritto indipendente garantito dall’articolo 8 della Convenzione e che la salute è un elemento essenziale della vita privata, ma questi diritti devono essere bilanciati con quello della collettività a ricevere informazioni di interesse generale.
Nel valutare il comportamento dell’editore, la Corte non ha dubbi sul fatto che l’articolo riguardava una questione di interesse per la collettività e non serviva certo ad appagare la curiosità del pubblico. È evidente –osservano i giudici internazionali– che è interesse di tutti sapere se un esperto ha i requisiti psicologici per essere chiamato a svolgere una consulenza, nominato dai tribunali interni.
È vero, poi, che non si trattava di un politico, nei confronti dei quali il perimetro di tutela della privacy è molto limitato. Ma, se un funzionario pubblico agisce nella sua qualità professionale, in quest’ambito può essere sottoposto a uno scrutinio più ampio rispetto a quello ordinariamente applicabile a un normale cittadino. Giusto, quindi, negare il risarcimento alla donna e privilegiare la libertà di stampa
(articolo Il Sole 24 Ore del 25.05.2016).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO - SICUREZZA LAVORODonna muore cadendo da Forte Belvedere: omicidio colposo per il Sindaco.
Pronunciandosi su un ricorso contro una sentenza con cui la Corte d’appello aveva confermato la condanna nei confronti di un Sindaco e di un dirigente comunale ritenuti responsabili della morte di una ragazza per essere precipita nel vuoto da un monumento pubblico non adeguatamente protetto dai rischi di caduta dall’altro, la Corte di Cassazione -nel respingere la tesi difensiva secondo cui il sindaco non avrebbe un onere di verifica e controllo degli organi tecnici e di gestione, se non quando gli vengano indicate situazioni di concreto e specifico pericolo per l'incolumità pubblica- ha invece affermato il principio secondo cui la distinzione operata dall'art. 107 del Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali fra i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo, demandati agli organi di governo, e i compiti di gestione attribuiti ai dirigenti, non esclude il dovere di attivazione del sindaco allorché gli siano note situazioni, non derivanti da contingenti ed occasionali emergenze tecnico-operative, che pongano in pericolo la sicurezza delle persone (pre-massima tratta dalla newsletter 02.06.2016 Studio Legale News).
La distinzione operata dall’art. 107 del Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali fra i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo, demandati agli organi di governo, e i compiti di gestione attribuiti ai dirigenti, non esclude il dovere di attivazione del sindaco allorché gli siano note situazioni, non derivanti da contingenti ed occasionali emergenze tecnico-operative, che pongano in pericolo la sicurezza delle persone.
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6. Ciò premesso, è necessario verificare se la sentenza impugnata ha colto nel segno laddove ha riconosciuto in capo agli imputati la sussistenza di una posizione di garanzia e, quindi, di un obbligo di gestione del rischio.
Infondate sul punto sono le censure proposte.
Con riferimento al Sindaco Do.,
la norma di riferimento è l'art. 50 del Testo Unico degli Enti Locali che definisce il primo cittadino come organo responsabile dell'amministrazione del Comune.
Sebbene la disposizione faccia esplicito riferimento alla delimitazione dei poteri del sindaco con quanto previsto dall'articolo 107 (Funzioni e responsabilità dei dirigenti) e quindi ad una distinzione tra poteri di indirizzo e poteri di concreta gestione, ciò non esclude che il primo cittadino debba svolgere un ruolo di controllo sull'operato dei suoi dirigenti.

Di ciò vi è riscontro nello Statuto del Comune di Firenze, ove all'art. 34, lett. h), è previsto che il Sindaco possa chiedere al Segretario generale "....qualora ritenga che atti di competenza dei dirigenti siano illegittimi, o al Direttore generale qualora ritenga che siano in contrasto con gli obiettivi e gli indirizzi degli organi elettivi e comunque non corrispondenti agli interessi del Comune, di provvedere alla sospensione, all'annullamento o alla revoca degli atti medesimi. In questi casi, quando occorra, i relativi procedimenti sono evocati dal Segretario generale o dal Direttore generale, o da loro rimessi ad altri dirigenti con specifiche istruzioni".
Tale disposizione codifica un potere di controllo e sostitutivo del Sindaco che ratifica in suo capo la presenza di un obbligo di vigilanza sugli organi di concreta gestione.
Peraltro tale potere-dovere trova riconoscimento nella giurisprudenza di questa Suprema Corte, laddove è stato affermato, sebbene in tema di reati ambientali, che "
La distinzione operata dall'art. 107 del Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali fra i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo, demandati agli organi di governo, e i compiti di gestione attribuiti ai dirigenti, non esclude, in materia di rifiuti, il dovere di attivazione del sindaco allorché gli siano note situazioni, non derivanti da contingenti ed occasionali emergenze tecnico-operative, che pongano in pericolo la salute delle persone o l'integrità dell'ambiente" (Sez. 3, n. 37544 del 27/06/2013, Rv. 256638).
Consegue da quanto detto che, correttamente, la corte di merito ha ritenuto la presenza di una posizione di garanzia in capo al Sindaco, in quanto nonostante questi fosse consapevole della pericolosità del Forte (di ciò si discorrerà diffusamente in prosieguo), aveva omesso di attivarsi, esercitando i suoi poteri di vigilanza e sostitutivi, per la eliminazione dei pericoli ed anzi aveva firmato la delibera che consentiva l'utilizzo degli spazi esterni del Forte.
Con riferimento all'imputato Gh., dirigente della sezione Cultura del Comune, va anche per tale imputato rammentata la giurisprudenza di questa Corte secondo cui
i dirigenti comunali possono essere titolari di posizioni di garanzia nello svolgimento dei compiti di gestione amministrativa a loro devoluti, ferma restando in capo al Sindaco poteri di sorveglianza e controllo (Sez. 4, n. 22341 del 21/04/2011, Rv. 250720).
La corte di merito, riformando sul punto la sentenza di primo grado, che aveva assolto il Gh., ha riconosciuto in suo capo una posizione di garanzia in quanto, benché consapevole della pericolosità strutturale del Forte, aveva firmato le convenzioni per l'utilizzo della struttura con la Cooperativa "Ar..." (il 02.07.2008) e con la ditta "Gi.Ar.Mo. e Mu." (il 09.07.2008).
Trova in tale affermazione risposta la doglianza difensiva, laddove viene censurata la genericità del capo di imputazione che non indica chiaramente se la condotta del Gh. sia stata omissiva o commissiva. Infatti ciò che gli viene addebitato è un comportamento positivo (la firma delle convenzioni allegate alla delibera), connotato da profili di colpa omissiva laddove prima di dar via libera all'utilizzo del Forte non aveva controllato, violando regole di diligenza, la sicurezza della struttura.
La correttezza della contestazione e l'assenza di violazione del principio di correlazione, trova riscontro nella giurisprudenza di questa Corte, laddove è stato affermato che
in tema di reati colposi, quando l'agente non viola un comando, omettendo cioè di attivarsi quando il suo intervento era necessario, bensì trasgredisce ad un divieto, agendo quindi in maniera difforme dal comportamento impostogli dalla regola cautelare, la condotta assume natura commissiva e non omissiva (cfr. Sez. 4, n. 26020 del 29/04/2009, Cipiccia, Rv. 243931).
In particolare, come rilevato dal giudice di merito, nella convenzione con la "Ar.Mo. e Mu." il Gh., nella sua qualità, impone in convenzione al concessionario, tra l'altro, di svolgere un controllo sui visitatori per salvaguardare la loro sicurezza. Con ciò ha manifestato la consapevolezza del rischio ed il suo intendimento di prenderlo in carico e di gestirlo.
Pertanto la omissione dei dovuti controlli sulla sicurezza del Forte integra la violazione dei regole cautelari che hanno connotato di negligenza la firma delle convenzioni.
Con riferimento all'imputata Bi., responsabile della Cooperativa "Ar..." beneficiaria della convenzione del 02.07.2008 che le consentiva di organizzare eventi nell'area del Forte, essa è il soggetto con maggiore prossimità al rischio connesso all'accesso del pubblico e quindi certamente titolare di una posizione di garanzia tesa ad evitare il concretizzarsi di eventi di danno.
Nella convenzione, come ricordato dal giudice di merito, vi è l'obbligo della verifica congiunta (Comune e Cooperativa) della agibilità al pubblico della struttura. Inoltre la Cooperativa aveva esplicitamente assunto l'obbligo del rispetto delle norme sulla incolumità pubblica e di tutela della sicurezza dei partecipanti agli eventi (Corte di Cassazione, Sez. IV, sentenza 13.05.2016 n. 20050).

INCARICHI PROFESSIONALI: Dal legale consiglio ponderato. Responsabile chi suggerisce azioni inutilmente gravose. Sentenza della Corte di cassazione ricostruisce il perimetro del dovere di dissuasione.
Responsabilità professionale dell'avvocato per violazione del dovere di dissuasione: il professionista, oltre ai doveri di probità, dignità e decoro; di lealtà e correttezza; di diligenza, ha anche l'obbligo di non consigliare azioni inutilmente gravose e di informare il cliente sulle caratteristiche e sulle possibili soluzioni della controversia. Non può, quindi, promuovere una causa totalmente priva di fondamento a meno che non dimostri un'irremovibile iniziativa del proprio assistito.

Lo ha ricordato la Corte di Cassazione (Sez. VI civile - sentenza 12.05.2016 n. n. 9695), intervenendo sul ricorso di un legale che, nei tre motivi di censura, aveva lamentato soprattutto la mancata ammissione da parte del collegio giudicante di merito delle prove testimoniali, volte a dimostrare, a suo avviso, che la scelta di promuovere la causa era stata la conseguenza di un «consenso consapevole».
Di diverso avviso sono stati gli Ermellini, i quali, nel richiamarsi ad alcuni precedenti giurisprudenziali conformi sul punto (come Cass. nn. 24544/2009 e 6782/2015), hanno affermato che «anche a voler ammettere che l'avvocato possa patrocinare una “causa persa” a fronte di una “irremovibile iniziativa del cliente”, era palese come nel caso di specie non vi fosse stata alcuna iniziativa “per la proposizione della domanda completamente priva di fondamento”»: il legale, in realtà, non aveva tenuto conto del fatto che la corte aveva ritenuto necessaria una prova «ben diversa» da quella dallo stesso prodotta, dal momento che avrebbe dovuto dimostrare «di aver adempiuto il proprio dovere di dissuasione e che la causa era stata introdotta a seguito della “irremovibile iniziativa”» della propria cliente.
Le censure mosse dal ricorrente risultavano dunque del tutto «inconferenti» rispetto alla ratio della decisione: doveva ritenersi «“completamente implausibile”» che la causa patrocinata fosse stata introdotta su sollecitazione e nella consapevolezza, da parte dell'assistita, della sua infondatezza.
I giudici della VI-3 sezione civile della Suprema corte hanno quindi rigettato il ricorso e condannato la parte ricorrente a rifondere le spese di lite, oltre al rimborso di spese e accessori come per legge (articolo ItaliaOggi Sette del 23.05.2016).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Il Comune di Asti dice no alla gdo. E il Tar da l'ok.
Il Comune di Asti dice basta alla grande distribuzione ed il Tar Piemonte gli dà ragione, respingendo la tesi della società che ha ritenuto la decisione dell'ente locale lesiva dei principi di liberalizzazione.
Relativamente alla questione posta il TAR - Sez. II, con la sentenza 06.05.2016 n. 612, ha affermato che la tutela della concorrenza, alla luce dell'evoluzione normativa statale e regionale, non è più un valore assoluto, ma deve essere perseguita assicurando nel contempo l'equilibrato sviluppo sul territorio delle diverse tipologie di commercio, in modo da migliorare l'efficienza del sistema e la qualità del servizio complessivo reso al consumatore.
E, pertanto, in questo contesto, è legittima la decisione del Comune di Asti di contenere lo sviluppo delle grandi strutture di vendita, nella misura in cui l'obiettivo del sostegno al piccolo commercio viene direttamente correlato all'esigenza di rivitalizzare il centro storico cittadino e la sua rete commerciale, entrambi penalizzati sia dalla crisi economica sia dalla concorrenza della grande distribuzione.
In sostanza, assicurando la presenza dei piccoli esercizi «nelle vie e nelle piazze della città, riconvertendo gli immobili dismessi, senza con ciò tuttavia trascurare la grande distribuzione, ma cercando di sviluppare forme di commercio innovative che non cannibalizzino l'offerta esistente ma siano a questa complementari, fungendo da attrattori di clientela non solo locale, attraverso un rilancio dell'immagine cittadina» (articolo ItaliaOggi del 24.05.2016).

PUBBLICO IMPIEGO: Le ferie non godute sono perse in caso di dimissioni Sì alla monetizzazione invece per cause di servizio o malattia. La sentenza della consulta mette fine alle diverse interpretazioni dei tribunali di merito.
I docenti e il personale educativo, amministrativo, tecnico ed ausiliario sono obbligati a fruire del periodo di ferie, compatibilmente con le esigenze di servizio, nel corso dell'anno scolastico e nei tempi e con le modalità stabiliti dal contratto scuola sottoscritto il 29.11.2007. La non fruizione delle ferie nel corso dell'anno scolastico in corso, o eccezionalmente in quello successivo, non darà luogo alla corresponsione di trattamenti economici sostitutivi solo se dovuta alla cessazione del rapporto di lavoro per mobilità, per dimissioni, per risoluzione volontaria o di autorità del rapporto di lavoro, a pensionamento e raggiungimento dei limiti di età. Diverso invece il caso del mancato godimento per malattia o per altra causa non imputabile al personale (ad esempio: esigenze di servizio o maternità): le ferie non fatte vanno pagate.

È quanto si deduce dall'esame di una recentissima sentenza 06.05.2016 n. 95 dei giudici della Corte Costituzionale, presidente Giorgio Lattanzi, sentenza con la quale i giudici della Consulta hanno dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 5, comma 8, del decreto legge 95/2012 sollevata dal tribunale ordinario di Roma in funzione di giudice del lavoro.
Il predetto comma 8 dispone tra l'altro che «le ferie, i riposi ed i permessi spettanti al personale delle amministrazioni pubbliche (ivi compreso quello scolastico, che è il più corposo della pa, ndr), sono obbligatoriamente fruiti secondo quanto previsto dai rispettivi ordinamenti e non danno luogo in nessun caso alla corresponsione di trattamenti economici sostitutivi. La presente disposizione si applica anche in caso di cessazione del rapporto di lavoro per mobilità, dimissioni, risoluzione, pensionamento e raggiungimento dei limiti di età».
Nel sollevare la questione di legittimità costituzionale il tribunale di Roma aveva ravvisato nelle disposizioni contenute nel comma 8 una lesione del diritto irrinunciabile alle ferie, diritto che impone, per un verso, di retribuire il lavoro prestato in misura superiore a quanto stabilito dal contratto e, per altro verso, di compensare il mancato godimento delle ferie per causa non imputabile al lavoratore.
Manifestamente irragionevole e comunque in contrasto con la direttiva n. 2003/88/CE sarebbe inoltre, ad avviso di quel tribunale, l'assetto delineato dalla norma impugnata, nella misura in cui precluderebbe ogni valutazione circa l'imputabilità del mancato godimento delle ferie e ciò anche quando il mancato godimento non sia riconducibile alla volontà del lavoratore.
I giudici della Consulta non hanno invece condiviso le tesi sostenute dal tribunale di Roma. Non hanno condiviso, in particolare, il presupposto interpretativo secondo cui il divieto di corrispondere trattamenti economici sostitutivi delle ferie non godute si applichi anche quando il lavoratore non abbia potuto godere delle ferie per malattia o per altra causa non imputabile. Un presupposto interpretativo erroneo stante il dato letterale della norma e la ratio che ha ispirato l'intervento riformatore.
Quanto al dato letterale, si legge tra l'altro nella sentenza, non è senza significato che il legislatore abbia correlato il divieto di corrispondere trattamenti sostitutivi a fattispecie in cui la cessazione del rapporto di lavoro sia riconducibile a una scelta o a un comportamento del lavoratore. Anche il dato testuale, se legga ancora nella sentenza, è coerente con le finalità della disciplina restrittiva che si prefigge di reprimere il ricorso incontrollato alla «monetizzazione» delle ferie non godute.
Effetto immediato derivante dalla dichiarazione di infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 5, comma 8, del decreto legge 06.07.2012, n. 95 è certamente quello di spazzare via tutte quelle sentenze emesse dei giudici ordinari –ultima in ordine di tempo a nostra conoscenza, quella del tribunale di Reggio Calabria del 14.01.2016– che in sostanza riconoscevano la possibilità di monetizzare in ogni caso i periodi di ferie non goduti (articolo ItaliaOggi del 31.05.2016).

APPALTI: Autotutela anche dopo annullamento. Sentenza Cds.
L'annullamento dell'aggiudicazione di un'opera strategica non preclude alla Stazione appaltante di intervenire in autotutela anche sul contratto già stipulato.

Lo ha deciso il Consiglio di Stato -Sez. IV- con la sentenza 05.05.2016 n. 1798.
I giudici d'appello hanno preso di petto l'art. 125, comma 3, del codice del processo amministrativo, che incarna lo snodo interpretativo dell'intera vicenda. La disposizione disciplina i poteri del giudice amministrativo con riferimento alle controversie delle infrastrutture strategiche.
Nel caso di intervenuta stipulazione del contratto, la norma, che è speciale, preclude all'organo giudicante ogni declaratoria giudiziale d'inefficacia e ogni eventuale subentro nel contratto, e con la limitazione delle relative statuizioni alla sola condanna al risarcimento del danno in forma equivalente. Il Consesso amministrativo puntualizza che ciò però non riguarda la Pubblica amministrazione.
Infatti, secondo il ragionamento esposto nella decisione, «la disposizione processuale è posta a tutela della stessa Amministrazione e del suo interesse alla più sollecita esecuzione delle infrastrutture strategiche», e quindi non può privare quest'ultima della disponibilità dei suoi poteri amministrativi, dei quali una delle possibili forme è appunto l'autotutela.
Palazzo Spada conclude affermando che l'annullamento in via di autotutela del provvedimento di aggiudicazione (il quale presuppone una compiuta comparazione degli interessi pubblici sottesi) non integra alcuna ipotesi di risoluzione unilaterale e autoritativa, bensì la caducazione automatica del contratto per carenza di un presupposto essenziale, quale appunto l'aggiudicazione, ponendosi come effetto del tutto diretto e consequenziale che non integra una incisione unilaterale del rapporto negoziale per vicende a esso attinenti da assoggettare al sindacato del giudice ordinario (articolo ItaliaOggi Sette del 30.05.2016).

ESPROPRIAZIONEEsproprio nullo? Danni dalla Pa. L’ok al piano di lottizzazione non incide sul diritto di proprietà.
Tribunale di Roma. La dichiarazione di pubblica utilità non basta per perfezionare la procedura.
Costituisce illecito di diritto comune la trasformazione di un fondo quando il decreto di espropriazione non è stato emesso o è stato annullato. In questi casi, la Pubblica amministrazione non diventa proprietaria del bene ed è tenuta a risarcire i danni causati al proprietario.
Lo afferma il TRIBUNALE di Roma (giudice Carmen Bifano) nella sentenza 05.05.2016.
I fatti risalgono al 2009, quando il Comune convenuto aveva trasformato in parcheggio una parte di terreno dell’attrice. Quest’ultima ha domandato il risarcimento dei danni, stimati in 47mila euro. Dal canto suo, l’ente locale ha chiesto il rigetto dell’istanza, dichiarandosi estraneo ai fatti di causa.
Nell’accogliere la domanda, il Tribunale afferma, innanzitutto, che l’attrice ha dimostrato che l’area in questione è stata trasformata in parcheggio aperto al pubblico. Così come ha provato che le opere sono «riconducibili alla condotta materiale del Comune» convenuto: l’ente, infatti, aveva pagato le fatture emesse dall’impresa esecutrice dei lavori e non aveva allegato un provvedimento che legittimasse il proprio operato.
Il Tribunale ricorda quindi che, in mancanza di un decreto di esproprio, la creazione del parcheggio non aveva trasformato il diritto soggettivo della proprietaria in interesse legittimo. Infatti, prosegue la motivazione, richiamando la sentenza 21579/2011 della Corte suprema, la sola approvazione del piano di lottizzazione (che equivale a dichiarazione di pubblica utilità) non determina la perdita del diritto di proprietà e dunque non comporta l’affievolimento del diritto soggettivo del privato.
Il giudice capitolino cita quindi la sentenza 735/2015 delle Sezioni unite della Cassazione, chiamate a pronunciarsi sulle «implicazioni applicative delle molteplici pronunce della Cedu»; pronunce che hanno affermato l’incompatibilità dell’istituto dell’occupazione appropriativa (creato dalla giurisprudenza) con il sistema giuridico europeo, e in particolare con la tutela del diritto di proprietà e il principio di legalità riconosciuti da quell'ordinamento.
Secondo il giudice di legittimità, quando il decreto di espropriazione non è stato emesso o è stato annullato, «l'occupazione e la manipolazione del bene immobile di un privato da parte dell’amministrazione si configurano, indipendentemente dalla sussistenza o meno di una dichiarazione di pubblica utilità, come un illecito di diritto comune»; illecito che comporta non il trasferimento della proprietà alla Pubblica amministrazione, ma la responsabilità della stessa per i danni.
In questi casi, l’amministrazione realizza un illecito permanente, che cessa solo per restituzione, transazione o usucapione dell’occupante che ha effettuato la trasformazione del fondo; oppure per rinuncia del proprietario al suo diritto, «implicita nella richiesta di risarcimento dei danni per equivalente». E «tale rinuncia ha carattere abdicativo e non traslativo», sicché da essa «non consegue, quale effetto automatico, l'acquisto della proprietà del fondo da parte dell'amministrazione».
Così il Tribunale liquida in 37mila euro il danno patrimoniale subìto dall’attrice per la trasformazione del suo fondo; riconosce quindi il risarcimento di tremila euro per l’ingiusta lesione dell’interesse della proprietaria «a un'esistenza pacifica e libera da indebite aggressioni»
(articolo Il Sole 24 Ore del 26.05.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L'avviso in fotocopia non prova la notifica.
In tema di notificazione della cartella di pagamento per mezzo del servizio postale, soltanto l'avviso di ricevimento prodotto in originale è documento idoneo a comprovare l'avvenuta notifica, quando il contribuente abbia espressamente contestato la conformità del documento prodotto in fotocopia e la eventuale sottoscrizione apposta.

Lo afferma la Corte di Cassazione, Sez. V civile, nella sentenza 04.05.2016 n. 8861, con cui è stata cassata una sentenza della Ctr di Venezia e accolto il ricorso introduttivo proposto dal contribuente. La vertenza nasce dall'impugnazione di cinque cartelle di pagamento, conosciute attraverso la successiva iscrizione ipotecaria: il contribuente, infatti, lamentava di non aver mai ricevuto la notifica delle cartelle pregresse.
La resistente Equitalia depositava in giudizio copie fotostatiche degli avvisi di ricevimento, comprovanti la notifica a mezzo posta delle cartelle in questione. Dette copie venivano contestate dalla ricorrente, che ne metteva in dubbio la conformità e l'effettiva rispondenza agli originali dei documenti rappresentati. Il primo grado annullava le cartelle. La Ctr di Venezia, invece, con la sentenza poi oggetto del ricorso per cassazione, accoglieva l'appello di Equitalia, ritenendo che la notificazione delle cartelle dovesse ritenersi provata sulla base delle copie degli avvisi di ricevimento depositati nel fascicolo processuale.
La Cassazione ha ribaltato l'esito del giudizio e, non ritenendo necessari ulteriori accertamenti di merito, ha disposto l'accoglimento del ricorso introduttivo, con conseguente annullamento delle impugnate cartelle esattoriali. Nella fattispecie, spiega Piazza Cavour, «risulta accertato dalla Ctr che il piego era stato notificato e che la notifica risultava effettuata regolarmente, tuttavia sulla base di prova documentale in fotocopia la cui conformità all'originale era stata disconosciuta».
L'onere di provare la notifica, infatti, può ritenersi adempiuto col deposito degli avvisi di ricevimento prodotti in copia, soltanto se il contribuente non abbia contestato la conformità di dette copie agli originali: in tal caso, spetta all'esattore reperire ed esibire i documenti in originale, senza i quali la notifica non può ritenersi validamente provata.
All'accoglimento del ricorso del contribuente, la Cassazione ha fatto seguire la condanna alle spese per l'amministrazione, limitatamente a quelle relative al grado di legittimità, disponendo al contempo l'integrale compensazione delle spese dei gradi di merito, stante l'evolversi alterno della vicenda processuale.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] Il ricorso è fondato e deve essere accolto in ordine ai primi due motivi assorbito il terzo. Infatti, secondo questa Corte (sez. 5, ordinanza n. 13439 del 27/07/2012), «la produzione dell'avviso di ricevimento del piego raccomandato contenente la copia dell'atto processuale spedita per la notificazione a mezzo del servizio postale, ai sensi dell'art. 149 cod. proc. civ., richiesta dalla legge in funzione della prova dell'avvenuto può avvenire anche mediante l'allegazione di fotocopie non autenticate, ove manchi contestazione in proposito, poiché la regola posta dall'art. 2719 cod. civ., per la quale le copie fotografiche o fotostatiche hanno la stessa efficacia di quelle autentiche, non solo se la loro conformità all'originale è attestata dal pubblico ufficiale competente, ma anche qualora detta conformità non sia disconosciuta dalla controparte, con divieto per il giudice di sostituirsi nell'attività di disconoscimento alla parte interessata, pure se contumace - trova applicazione generalizzata per tutti i documenti».
Nella fattispecie risulta accertato dalla Ctr che il piego era stato notificato e che la notifica risultava effettuata regolarmente tuttavia sulla base di prova documentale in fotocopia la cui conformità all'originale era stata disconosciuta.
Per quanto sopra il ricorso deve essere accolto in relazione ai primi due motivi, assorbito il terzo. La sentenza deve essere cassata senza rinvio e la causa può essere decisa nel merito ex art. 384 cpc non richiedendo ulteriori accertamenti in punto di fatto, con accoglimento del ricorso introduttivo. Ricorrono giusti motivi per compensare fra le parti le spese dei gradi del giudizio di merito, stante l'evolversi della vicenda processuale, mentre le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico dei contro ricorrenti stante la soccombenza.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso in ordine ai primi due motivi, assorbito il terzo, cassa la sentenza impugnata e decidendo nel merito accoglie il ricorso introduttivo. Compensa le spese dei gradi di merito e condanna la Equitalia Polis spa e l'Agenzia delle entrate in solido al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore di ... che si liquidano in 2.500,00 complessivamente (articolo ItaliaOggi Sette del 23.05.2016).

VARIImmobili inutilizzabili, niente affitto.
Locazione. Per i giudici si applica l’articolo 1460 del Codice civile: nulla è dovuto a chi è inadempiente
Il conduttore non paga il canone di locazione se esso riguarda un immobile inutilizzabile. Nell’ipotesi di mancato totale godimento dell’immobile è lecita la sospensione del pagamento. Anche se il motivo non attiene alle funzioni sostanziali dell’abitare, ma alla sicurezza elettrica.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, III Sez. civile, nella sentenza 03.05.2016 n. 8637.
Il principio affermato dalla Cassazione è che, se il principale obbligo del conduttore è senz’altro il versamento del canone, di contro il locatore è tenuto a consegnare il bene in condizioni tali da permetterne l’uso. Quando manca totalmente la prestazione promessa (cioè l’effettiva possibilità di utilizzare l’immobile), si verifica l’ipotesi d’inadempimento dettata dall’articolo 1460 del Codice civile.
La norma stabilisce che «nei contratti con prestazioni corrispettive, ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere la sua obbligazione, se l’altro non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente la propria, salvo che termini diversi per l’adempimento siano stati stabiliti dalle parti o risultino dalla natura del contratto».
La vicenda giudiziaria vedeva il proprietario di un appartamento convenire in giudizio il proprio inquilino, a suo dire moroso, chiedendo la risoluzione del contratto per grave inadempimento del conduttore e la sua condanna a pagare i canoni non corrisposti. Ma il conduttore eccepiva l’inadempimento del locatore, per non aver potuto utilizzare l’immobile a causa della scoperta di alcuni cavi elettrici a profondità inferiore a quella regolamentare di almeno 50 centimetri e privi di protezione. Inoltre, l’inquilino sosteneva, sulla scorta dell’assoluta inutilizzabilità dell’immobile, che fosse legittima la sospensione del pagamento, peraltro dopo varie missive al proprietario per cercare di risolvere la problematica, rimaste senza riscontro.
Sia il Tribunale sia la Corte d’appello di Roma accoglievano le richieste del locatore, con la risoluzione del contratto e la condanna del conduttore. Questi presentava ricorso per la cassazione della sentenza, eccependo tra l’altro la violazione e falsa applicazione dell’articolo 1460.
La Cassazione rilevava che «nel corso dell’esecuzione delle opere, veniva scoperto il problema elettrico, la cui gravità era tale da indurre il direttore dei lavori alla loro immediata sospensione, attesa la grave situazione di pericolo che si era accertata, come risultante dal relativo verbale, ove si evidenziava il “grave pericolo con rischio di folgorazione”, che si era creato, precisandosi poi che la ripresa dei lavori stessi sarebbe potuta avvenire solo a seguito di un intervento dell’Acea (l’azienda dell’energia elettrica, ndr) volto alla rimozione dei cavidotti, eliminando la situazione di grave pericolo in essere e futuro».
Ciò posto, la Cassazione riteneva le ragioni del ricorrente pienamente fondate, sulla scorta del principio più volte affermato per cui «la sospensione del canone è pienamente legittima in tutte le ipotesi di impossibilità totale del godimento del bene». I giudici hanno ritenuto che «la sospensione del pagamento del canone... deve ritenersi legittima qualora sia conseguenza del grave inadempimento del locatore nella consegna della cosa locata, in quanto affetta da un vizio talmente grave da renderne impossibile l’uso» (articolo Il Sole 24 Ore del 24.05.2016).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Sul rumore fa fede il regolamento anche se restrittivo. Immissioni moleste. Tribunale di Milano.
Il rumore dovuto al disturbo dei vicini in condominio deve cessare e comporta il risarcimento dei danni per insonorizzazione, e anche per l’ammontare dei canoni e degli oneri accessori che il proprietario della casa affittata avrebbe incassato se il rapporto fosse proseguito per la normale durata e non si fosse interrotto a causa del disturbo.
Questo il principio espresso dal TRIBUNALE di Milano con la sentenza 03.05.2016 n. 5465.
La condòmina-locatrice dava atto che, nel corso del rapporto di locazione, il conduttore al quale aveva locato l’appartamento lamentava «diversi episodi di intollerabile disturbo della quiete diurna e soprattutto notturna». Venivano fatte richieste scritte ed orali di cessazione dei rumori, anche per il tramite dell’amministratore del condominio, senza peraltro sortire alcun effetto concreto. Per questo il conduttore, preannunciava alla locatrice che, in caso di ulteriore prosecuzione delle emissioni sonore, avrebbe esercitato il recesso dal contratto.
La proprietà aveva perciò fatto eseguire opere di insonorizzazione sostenendone interamente i costi. Ma il conduttore aveva esercitato lo stesso il recesso anticipato dal rapporto, motivato col fatto che «la rumorosità dei vicini rende intollerabile la permanenza nell’abitazione». I vicini si difendevano sostenendo che in casa c’era una persona con problemi di udito e deducendo «l’assoluta mancanza di prove circa l’intollerabilità», non essendo stato svolto alcun accertamento tecnico.
Il Tribunale di Milano osservava però che il regolamento di condominio faceva «assoluto divieto di recare disturbo ai vicini con rumori di qualsiasi natura e, segnatamente, dalle ore 20,00 alle ore 8,00». Tale prescrizione, nel vietare semplici “rumori” che rechino “disturbo”, era ben più restrittiva di quella posta dall’articolo 844 del Codice civile, che richiedeva la dimostrazione che le emissioni rumorose superassero la soglia della tollerabilità. Le risultanze processuali consentivano quindi di ritenere senz’altro integrata la violazione della norma regolamentare.
E in ogni caso «non vi è la necessità di ricorrere ad una perizia fonometrica allorché il giudice, basandosi su altri elementi probatori acquisiti agli atti, si sia formato il convincimento (...) che vi sia stato il superamento dei limiti di tollerabilità» (Cassazione, sentenza 3000/1997)
(articolo Il Sole 24 Ore del 31.05.2016).
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MASSIMA
Tanto premesso, il regolamento fa “assoluto divieto” ai condomini “di recare disturbo ai vicini con rumori di qualsiasi natura e, segnatamente, dalle ore 20,00 alle ore 8,00” (art. 13: doc. 5), come allegato dall’attrice a fondamento delle domande.
Tale prescrizione, nel vietare semplici “rumori” che rechino “disturbo”, è ben più restrittiva di quella posta dall’art. 844 c.c., che richiede la dimostrazione che le emissioni rumorose superino la soglia della tollerabilità, che è concetto ben diverso dal semplice “disturbo”.
Nel caso in esame le risultanze processuali consentono di ritenere senz’altro integrata la violazione della norma regolamentare: le lamentele rivolte dal conduttore direttamente ai vicini di casa (riconosciute dai convenuti), le corrispondenza intercorsa tra locatrice ed inquilino, il recesso “minacciato” dal conduttore dopo pochi mesi dall’inizio del rapporto, a causa di tali rumori, seguito dall’effettivo esercizio del medesimo e poi dal rilascio dell’immobile, i lavori di insonorizzazione della parete in comune realizzati tra i due appartamenti (tutte circostanze documentalmente provate) sono elementi che, unitariamente valutati, depongono univocamente e concordemente nel senso di un sicuro disturbo arrecato al conduttore dell’immobile adiacente dai rumori prodotti dai convenuti e dai loro familiari.
Che poi l’idoneità dei rumori a recare disturbo non dipendesse da una “sensibilità” soggettiva del Br., ma fosse oggettiva è confermato dal fatto che, il nuovo conduttore del medesimo immobile, subentrato al precedente dal 22.12.2013, abbia indirizzato, in data 05.02.2014, una comunicazione alla locatrice nella quale, tra l’altro, ha lamentato del fatto che i vicini di casa avevano organizzato una festa, il sabato precedente, dopo le ore 23,00, nel corso della quale avevano suonato tamburi ed altri strumenti musicali e che egli, avendo provato invano a contattarli per chiedere di smettere, aveva dovuto chiamare la polizia.
Nella stessa missiva costui ha aggiunto che anche quella stessa mattina del 05.02.2014, alle ore 4,00, i vicini avevano gridato e fatto altri rumori e che, sebbene ciò fosse durato pochi minuti, era stato tuttavia sufficiente per svegliarli; ha chiesto che costoro fossero resi edotti delle sue doglianze e comunque messi a conoscenza del fatto che il muro divisorio tra i due appartamenti non era stato realizzato con mattoni (doc. 10 dell’attrice).
Il fatto poi che il precedente conduttore abbia successivamente locato altro immobile nel medesimo complesso residenziale dimostra che il contesto abitativo era a lui gradito e che non avrebbe cambiato alloggio se non perché effettivamente costretto.
La giurisprudenza di legittimità ha sancito il principio secondo cui, “
quando l'attività posta in essere da uno dei condomini di un edificio è idonea a determinare il turbamento del bene della tranquillità degli altri partecipi, tutelato espressamente da disposizioni contrattuali del regolamento condominiale, non occorre accertare, al fine di ritenere l'attività stessa illegittima, se questa costituisca o meno immissione vietata ex art. 844 c.c., in quanto le norme regolamentari di natura contrattuale possono imporre limitazioni al godimento della proprietà esclusiva anche maggiori di quelle stabilite dall'indicata norma generale sulla proprietà fondiaria. Ne consegue che, quando si invoca, a sostegno dell'obbligazione di non fare, il rispetto di una clausola del regolamento contrattuale che restringa poteri e facoltà dei singoli condomini sui piani o sulle porzioni di piano in proprietà esclusiva, il giudice è chiamato a valutare la legittimità o meno dell'immissione, non sotto la lente dell'art. 844 c.c., ma esclusivamente in base al tenore delle previsioni negoziali di quel regolamento, costitutive di un vincolo di natura reale assimilabile ad una servitù reciproca” (Cass. n. 1064/2011).
Vero è che, nel caso in esame, non risulta documentalmente dimostrato che il regolamento condominiale fosse contrattuale (l’attrice si è limitata ad allegare un estratto del regolamento). Tuttavia Im.Ve. srl ha spiegato le proprie difese richiamando il suddetto principio, il che presuppone che il detto regolamento sia contrattuale. Il comportamento dei convenuti, che non hanno preso alcuna posizione in merito a tali fatti (disturbo arrecato ai vicini con emissioni rumorose, in violazione dell’art. 13 del regolamento condominiale, supposto contrattuale) in alcuna delle memorie difensive depositate in atti, consente di ritenere che la natura contrattuale del regolamento sia pacifica, in mancanza di specifica contestazione.
In ogni caso, l’intollerabilità delle emissioni, ai sensi dell’art. 844 c.c., emerge dalle esposte risultanze documentali. Secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, “
non vi è la necessità di ricorrere ad una perizia fonometrica allorché il giudice, basandosi su altri elementi probatori acquisiti agli atti, si sia formato il convincimento, esplicitato con motivazione indenne da vizi logici, che vi sia stato il superamento dei limiti di tollerabilità” (Cass. pen. Sez. I, 28.03.1997, n. 3000). Inoltre “la durata del rumore o dello schiamazzo non ha alcuna rilevanza ben potendo il riposo essere disturbato anche da un rumore breve ed improvviso, quando esso sia molto elevato” (Cass. pen. Sez. I, 08.07.1987, n. 8252).
Il limite di tollerabilità è relativo e deve essere accertato con riferimento alle concrete circostanze del caso, variando da luogo a luogo (Cass. n. 3438/2010).

INCARICHI PROFESSIONALI: Palla ai giudici ordinari. Sul conferimento degli incarichi nella p.a.. Il Consiglio di stato interviene su un caso riguardante la sanità.
Tenuto conto della vigente legislazione che qualifica come atto emesso con i poteri del datore di lavoro privato la scelta affidata alla discrezionalità ed alla responsabilità del direttore generale, non può che affermarsi la sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario in materia di conferimento di incarichi nella p.a.

Lo hanno affermato i giudici della III Sez. del Consiglio di stato con la sentenza 28.04.2016 n. 1631.
I supremi giudici amministrativi hanno altresì osservato che però nel caso in cui l'attività preparatoria si sia tradotta in una valutazione di titoli con attribuzione di punteggi e formazione di una graduatoria o, comunque, in una effettiva comparazione del merito, sarà possibile ravvisare la caratterizzazione tipica della procedura selettiva sia sul piano procedimentale che su quello della valutazione dei candidati, sotto il profilo della maggiore o minore idoneità all'esercizio delle funzioni da assegnare, e pertanto, in questo caso, anche in ossequio a un ormai consolidato indirizzo dettato dalla giurisprudenza, sussisterà la giurisdizione residua del giudice amministrativo prevista dall'art. 63 comma 4, del dlgs 165/2001 (si vedano Consiglio di stato: sez. III, n. 4658/2014, n. 3403/2014, n. 3578/2013; n. 301/2013).
Il caso del S.S.N.: per gli atti di macro-organizzazione.
Nel caso specifico posto all'attenzione del Cds, i giudici hanno osservato che se, di regola, la cognizione degli atti di macro-organizzazione delle pubbliche amministrazioni rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo diversa è la disciplina dell'attività organizzativa del S.S.N.
Ai sensi dell'art. 3, del dlgs 502/1992, come modificato dal dlgs 229/1999, le Usl (cui sono succedute con analoga disciplina le aziende sanitarie) si costituiscono in aziende con personalità giuridica pubblica e «autonomia imprenditoriale».
Per una scelta legislativa che il giudice amministrativo non può sindacare, la loro organizzazione e il loro funzionamento sono disciplinati non con provvedimenti aventi natura pubblicistica (come dovrebbe essere sulla base dei principi sottesi all'art. 97 Cost.), ma con «atti aziendali di diritto privato»: le aziende agiscono mediante atti che il legislatore ha consapevolmente qualificato come «di diritto privato».
Pertanto, osservano i giudici del Cds che: «Diversamente da quanto avviene per le amministrazioni pubbliche in genere, gli atti di macro-organizzazione delle aziende sanitarie sono adottati con atti che il legislatore ha inteso qualificare «di diritto privato», con una disciplina che ha inteso prendere innanzitutto in considerazione il loro carattere «imprenditoriale strumentale» (pur se si tratta di attività nelle quali non rileva lo scopo di lucro e nel quale sono coinvolti valori costituzionali, inerenti allo svolgimento di un servizio pubblico, che la Costituzione considera indefettibile)» (articolo ItaliaOggi Sette del 30.05.2016).
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MASSIMA
6. Ritiene la Sezione che l’appello è infondato e deve pertanto essere respinto, in quanto la controversia rientra nella giurisdizione del giudice ordinario.
6.1. Il Collegio condivide, in linea di principio, le conclusioni cui è giunto il TAR, che corrispondono all’orientamento prevalente della giurisprudenza di questo Consiglio.
6.2. Va precisato che la contestazione riguarda lo spostamento dell’appellante dalla direzione della struttura di Savigliano a quella della struttura di Saluzzo, vale a dire l’effetto di un atto che l’attuale legislazione (ritenuta conforme ai principi costituzionali dalla Corte Costituzionale) impone di qualificare come atto di gestione del rapporto individuale di lavoro, che certamente rientra nella giurisdizione generale ex art. 63, comma 1, del d.lgs. 165/2001, ed esula dalla riserva di giurisdizione del giudice amministrativo, relativa da un lato alle procedure concorsuali finalizzate all’assunzione, dall’altro agli atti di organizzazione.
Infatti, l’interessato:
- col ricorso introduttivo, ha impugnato le deliberazioni della ASL Cn 1 n. 162/2015, di conferimento dell’incarico a Saluzzo (comportante la vacanza di quello di Savigliano), e n. 224/2015, di indizione dell’avviso pubblico, la determinazione regionale n. 535/2015, di autorizzazione al conferimento del relativo incarico, ed il conseguente avviso pubblico sul B.U.R.P.;
- ha lamentato che la riconduzione della modifica del proprio incarico (conferimento dell’incarico a Saluzzo, al posto di quello di Savigliano) di cui alla deliberazione n. 162/2015, impugnata, all’art. 28, comma 2, del c.c.n.l. del 03.11.2005, sia errata e volta a precostituire una situazione di fatto tale da integrare il presupposto della vacanza del posto necessario ad ottenere l’autorizzazione regionale alla nuova procedura selettiva, ai sensi della d.G.R. n. 36-1483 in data 25.05.2015;
- inoltre, sostenendo che il presidio di Saluzzo è meno importante e che la sua attività istituzionale è più precaria di quella di Savigliano, ha lamentato che dagli atti impugnati risulta uno sviamento di potere, a scapito della valorizzazione di professionalità già presenti nella sua organizzazione, in contraddizione con gli obiettivi del SSR (che non autorizza l’ampliamento delle piante organiche almeno fino all’adozione degli atti aziendali) ed in contrasto con la d.G.R. n. 36-1483/2015 e con l’art. 15, comma 13, lettera c), del d.l. 95/2012 che inibiscono il conferimento di incarichi.
Dunque, secondo tale prospettazione, l’indizione della selezione pubblica per il conferimento dell’incarico di Savigliano sarebbe la finalità cui è preordinato il trasferimento dell’appellante.
Gli atti conclusivi di tale selezione non sono stati impugnati per vizi attinenti ai criteri di valutazione degli aspiranti o alla loro applicazione, ma solo in quanto (in ragione della prospettata illegittimità del trasferimento) non ne sussisterebbe il necessario presupposto, costituito dalla vacanza del posto.
6.3. La tematica riguardante la distinzione tra procedure idoneative finalizzate al conferimento dell’incarico, e procedure concorsuali espletate allo stesso fine, richiamata nell’appello, risulta dunque estranea alla controversia.
Inoltre, per un orientamento di questa Sezione,
ai fini della giurisdizione, occorre aver riguardo anche al concreto atteggiarsi della procedura di conferimento.
Pertanto,
tenuto conto della vigente legislazione che qualifica come atto emesso con i poteri del datore di lavoro privato la scelta affidata alla discrezionalità ed alla responsabilità del direttore generale (ancorché si sia avvalso di indicazioni istruttorie circa i requisiti e gli incarichi svolti dagli aspiranti), non può che affermarsi la sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario in materia di conferimento di incarichi.
Viceversa,
qualora l’attività preparatoria si sia tradotta in una valutazione di titoli con attribuzione di punteggi e formazione di una graduatoria o, comunque, in una effettiva comparazione del merito (ciò che peraltro non è oggetto della controversia proposta in primo grado), è ravvisabile la caratterizzazione tipica della procedura selettiva sia sul piano procedimentale che su quello della valutazione dei candidati, sotto il profilo della maggiore o minore idoneità all'esercizio delle funzioni da assegnare, e pertanto sussiste la giurisdizione residua del giudice amministrativo prevista dall’art. 63, comma 4, del d.lgs. 165/2001 (cfr. Sez. III, n. 4658/2014, n. 3403/2014, n. 3578/2013; n. 301/2013).
6.4. Anche l’assetto organizzativo delle strutture complesse di chirurgia generale della ASL rimane sullo sfondo, costituendo le relative scelte il (principale) motivo, ma non l’oggetto dell’impugnazione.
In ogni caso, se anche l’assetto organizzativo della ASL facesse parte dell’oggetto diretto dell’impugnazione, non ne discenderebbe la giurisdizione del giudice amministrativo.
Infatti, se, di regola, la cognizione degli atti di macro-organizzazione delle Pubbliche Amministrazioni rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo (in quanto nell’emanazione di atti organizzativi di carattere generale viene esercitato un potere di natura autoritativa e non gestionale, cosicché non trova applicazione la riserva di giurisdizione del giudice ordinario di cui all’art. 68, del d.lgs. 29/1993, poi trasfuso nell'art. 63, del d.lgs. 165/2001), diversa è la disciplina dell’attività organizzativa del S.S.N.
Ai sensi dell’art. 3, del d.lgs. 502/1992, come modificato dal d.lgs. 229/1999, le USL (cui sono succedute con analoga disciplina le aziende sanitarie) si costituiscono in aziende con personalità giuridica pubblica e «autonomia imprenditoriale».
Per una scelta legislativa che il giudice amministrativo non può sindacare, la loro organizzazione e il loro funzionamento sono disciplinati non con provvedimenti aventi natura pubblicistica (come dovrebbe essere sulla base dei principi sottesi all’art. 97 Cost.), ma con «atti aziendali di diritto privato»: le aziende agiscono mediante atti che il legislatore ha consapevolmente qualificato come «di diritto privato» (proprio –tra l’altro– per escludere la sussistenza di posizioni tutelabili di interesse legittimo e della giurisdizione amministrativa).
In base all’attuale sistema, il direttore generale emana l’atto aziendale di organizzazione, è responsabile della gestione complessiva e nomina i responsabili delle strutture operative dell'azienda.
Pertanto, diversamente da quanto avviene per le amministrazioni pubbliche in genere, gli atti di macro-organizzazione delle aziende sanitarie sono adottati con atti che il legislatore ha inteso qualificare «di diritto privato», con una disciplina che ha inteso prendere innanzitutto in considerazione il loro carattere «imprenditoriale strumentale» (pur se si tratta di attività nelle quali non rileva lo scopo di lucro e nel quale sono coinvolti valori costituzionali, inerenti allo svolgimento di un servizio pubblico, che la Costituzione considera indefettibile).
La Sezione –anche al fine di non differire la definizione delle censure formulate in primo grado- non può che prendere atto dei principi enunciati in materia dalla Corte regolatrice della giurisdizione e non può che affermare la sussistenza del giudice civile (cfr. Cass. civ., SS.UU., n. 2031/2008; n. 17461/2006; n. 15304/2014; di recente richiamate da Cons. Stato, Sez. III, n. 3815/2015).
6.5. Infine, anche il precedente invocato dall’appellante, a supporto del secondo ordine di censure nei confronti della pronuncia del TAR, non risulta attinente alla presente controversia.
Infatti, esso riguarda una vicenda nella quale è stata ritenuta illegittima la decisione di indire una nuova procedura per il conferimento dell’incarico dirigenziale, in quanto non rispettosa delle regole legislative sull’utilizzazione di una graduatoria, ovvero dei risultati di un giudizio idoneativo relativo alla medesima esigenza di copertura del posto (cfr. Sez. III, n. 2751/2012, cit.).
La Corte regolatrice ha sottolineato al riguardo che «si controverte non già direttamente sulla pretesa (…) ad essere preposto alla struttura complessa (…), bensì sull'evidente difetto di motivazione e di presupposti in ordine all'ineluttabilità d’una nuova procedura idoneativa per la copertura di tale posto» (cfr. Cass. civ., SS.UU., n. 2290/2014, cit.).
Viceversa, nel caso in esame, non viene contestato che, qualora il posto di Savigliano risultasse legittimamente vacante, vi sarebbe il presupposto per una selezione pubblica; ma soltanto, come rilevato, che gli atti che hanno determinato la vacanza del posto sarebbero illegittimi.
7. Per le ragioni che precedono, l’appello va respinto.

APPALTI: Una referenza bancaria non basta nell'appalto.
La presentazione di una sola referenza bancaria, rispetto alle due richieste dal bando, comporta l'esclusione dalla gara d'appalto.

Lo ha stabilito il TAR Lazio-Latina nella recente sentenza 26.04.2016 n. 269.
La vicenda ha preso le mosse dall'affidamento del servizio di refezione scolastica promosso da un Comune, che richiedeva appunto due referenze bancarie. La ditta ne aveva presentata una sola. La seconda attestazione, trasmessa alla Stazione appaltante solo a seguito dell'attivazione del soccorso istruttorio, era stata giudicata insufficiente.
Per questo motivo la concorrente era stata estromessa dalla procedura. In primo luogo il Collegio ha ricordato che «le referenze bancarie assolvono alla funzione di determinare in concreto la capacità economica e finanziaria delle imprese concorrenti». Inoltre, l'organo giudicante ha fatto leva sul principio (Cons. stato, 17.07.2014 n. 3821 e sentenze precedenti) secondo cui nel fissare i requisiti di partecipazione, la discrezionalità dell'Amministrazione non incontra limiti.
I giudici laziali hanno poi sottolineato che «la presentazione di una sola attestazione bancaria viene, in generale, a determinare la carenza di un requisito essenziale espressamente previsto dal legislatore». Quindi la stazione appaltante non aveva altra scelta se non quella di escludere la concorrente, senza dover neppure attivare il meccanismo del soccorso (come invece ha fatto).
Va puntualizzato peraltro che l'orientamento del Tar Latina non è univoco in giurisprudenza. Senza ambizione di completezza si può richiamare ad esempio il Tar Veneto 23.03.2015 n. 331 il quale ha affermato che la presentazione di due referenze bancarie non può considerarsi un requisito rigido, in quanto è ben possibile che l'operatore economico intrattenga rapporti professionali con un solo Istituto bancario.
Il Tar Basilicata 11.10.2014 n. 734 prosegue il ragionamento nel senso che la capacità economica e finanziaria può essere dimostrata anche in altri modi (ad esempio col fatturato globale) e che le attestazioni bancarie risultano generiche e non impegnative per le banche che le rilasciano: perciò due referenze anziché una non garantirebbero maggiormente l'Amministrazione (articolo ItaliaOggi Sette del 30.05.2016).
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MASSIMA
Il ricorso è infondato e va respinto.
Osserva, anzitutto, il Collegio che,
nelle gare pubbliche, le referenze bancarie chieste dalla stazione appaltante alle imprese partecipanti, con i contenuti fissati dalla lex specialis rivestono, come precisato dalla recente giurisprudenza (Consiglio di Stato sez. V 07.07.2015 n. 3346), una sicura efficacia probatoria dei requisiti economico-finanziari necessari per l'aggiudicazione di contratti pubblici: e ciò in base al fatto notorio che il sistema bancario eroga credito a soggetti affidabili sotto tali profili, per cui è ragionevole che un'Amministrazione aggiudicatrice, nell'esercizio della propria discrezionalità in sede di fissazione della legge di gara, ne richieda la produzione in tale sede.
In realtà,
le referenze bancarie assolvono alla funzione di determinare in concreto la capacità economica e finanziaria delle imprese concorrenti, essendo infatti del tutto assodato il non limitato potere discrezionale delle Pubbliche amministrazioni nel fissare i requisiti di partecipazione a una gara per l'aggiudicazione di lavori, servizi o forniture.
La questione controversa oggetto del presente esame concerne la legittimità del provvedimento di esclusione disposto dall’ente comunale intimato nei confronti della società Vi.–s.p.a. la quale, ai fini della dimostrazione della capacità economica e finanziaria, ha presentato, in prima battuta, una sola referenza bancaria, anziché due, come richiesto, contravvenendo così a quanto prescritto dal punto 6 del bando di gara .
D’altro canto tale requisito non è stato colmato nemmeno a seguito del soccorso istruttorio, tenuto conto che, come accennato, la successiva dichiarazione prodotta dalla ricorrente è risultata –tra l’altro- del tutto generica e priva del contenuto minimo per ritenere assolta la predetta finalità .
La presentazione di una sola attestazione bancaria viene, in generale, a determinare la carenza di un requisito essenziale espressamente previsto dal legislatore. La lex specialis in esame, in conformità normativa primaria, ha prescritto che i concorrenti dovessero presentare “Dichiarazioni… rese da almeno due istituti di credito".
La stazione appaltante, quindi, a fronte dell’evidente contrasto tra quanto prescritto nel disciplinare di gara e quanto prodotto dal concorrente, ha proceduto al’esclusione di quest’ultimo.

Ancora, lo stesso Consiglio di Stato (sez. V, 31.01.2012, n. 467) in un caso analogo a quello di specie, ha chiarito che
la mancata –od inidonea- presentazione della dichiarazione della seconda banca attestante la capacità economica e la solvibilità della concorrente, non consente alla Amministrazione di far ricorso all’istituto della integrazione documentale.
Aggiungasi che
la possibilità di integrazione della documentazione incompleta depositata nei termini assegnati nel bando di gara non poteva in ogni caso essere esercitata nel caso che occupa perché volta ad integrare documenti che avrebbero dovuto essere prodotti a pena di esclusione in quanto attinenti a requisiti essenziali per la partecipazione (Consiglio di Stato, sez. V, 02.08.2010, n. 5084).
In conclusione, il ricorso deve essere respinto.

LAVORI PUBBLICI: Il ruolo del geologo progettista: nuova sentenza del Consiglio di Stato.
È necessario prevedere la relazione geologica negli appalti di progettazione anche in difetto della previsione del bando. Inoltre, va disposta l’esclusione dalla gara nel caso di mancata indicazione del geologo, non essendo applicabile in tal caso il soccorso istruttorio.
In base al comma 1 dell’articolo 35 del d.P.R. 207/2010, la relazione del geologo va necessariamente posta a corredo del progetto esecutivo, ai sensi della disposizione secondo cui “il progetto esecutivo prevede almeno le medesime relazioni specialistiche contenute nel progetto definitivo, che illustrino puntualmente le eventuali indagini integrative, le soluzioni adottate e le modifiche rispetto al progetto definitivo”.
Inoltre, la previsione di cui all’articolo 35 citato deve essere letta in combinato disposto con quella di cui al precedente articolo 26, comma 1, lettera a), secondo cui il progetto esecutivo deve necessariamente comprendere –inter alia – la relazione geologica, e ciò anche a prescindere dall’espresso richiamo che di tale obbligo sia stato fatto nell’ambito della lex specialis di gara.
Lo ha confermato il Consiglio di Stato (Sez. V) con la sentenza 21.04.2016 n. 1595.
La necessità della relazione geologica anche in sede di progettazione esecutiva resta ferma anche nelle ipotesi in cui non sussistano differenze di notevole rilievo fra la progettazione definitiva posta a base di gara e quella di livello esecutivo oggetto dell’offerta tecnica.
Il comma 1 dell’articolo 35 del d.P.R. 207 del 2010 chiarisce che le relazioni specialistiche costituiscono una parte coessenziale del progetto esecutivo, sì da qualificare come progettisti in senso proprio –e non come meri collaboratori– i professionisti che le hanno redatte. E, una volta qualificato come progettista il professionista in parola, è evidente che trovi applicazione il divieto di subappalto relativo agli incarichi di progettazione di cui al comma 3 dell’articolo 91 del Codice dei contratti (commento tratto da www.casaeclima.com).
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MASSIMA
3. Il secondo motivo (con cui il CSM ha chiesto la riforma della sentenza per la parte in cui, in accoglimento del ricorso incidentale di primo grado della Bu., è stato stabilito che lo stesso CSM avrebbe dovuto essere escluso dalla procedura) è infondato.
3.1. Va premesso al riguardo che
la sentenza in epigrafe è meritevole di conferma laddove ha statuito che, ai sensi del comma 1 dell’articolo 35 del d.P.R. 207 del 2010, la relazione del geologo avrebbe dovuto necessariamente essere posta a corredo del progetto esecutivo (ai sensi della disposizione da ultimo richiamata, “il progetto esecutivo prevede almeno le medesime relazioni specialistiche contenute nel progetto definitivo, che illustrino puntualmente le eventuali indagini integrative, le soluzioni adottate e le modifiche rispetto al progetto definitivo”).
E’ stato rilevato –in modo parimenti condivisibile– che
la previsione di cui all’articolo 35 deve essere letta in combinato disposto con quella di cui al precedente articolo 26, comma 1, lettera a), secondo cui il progetto esecutivo deve necessariamente comprendere –inter alia– la relazione geologica (e ciò, anche a prescindere dall’espresso richiamo che di tale obbligo sia stato fatto nell’ambito della lex specialis di gara).
La sentenza in epigrafe è altresì meritevole di conferma per la parte in cui i primi Giudici hanno osservato che
la necessità della relazione geologica anche in sede di progettazione esecutiva resta ferma anche nelle ipotesi in cui –come nel caso in esame– non sussistano differenze di notevole rilievo fra la progettazione definitiva posta a base di gara e quella di livello esecutivo oggetto dell’offerta tecnica.
3.2. Per quanto riguarda, poi, la questione relativa all’obbligo di individuare già in sede di offerta il nominativo del geologo, l’appello non può trovare accoglimento.
La tesi dell’appellante si fonda sull’argomento secondo cui, nell’ambito della gara per cui è causa, il geologo non fosse qualificabile come progettista (bensì come mero esecutore), ragione per cui l’indicazione ab initio del suo nominativo non rappresenterebbe un elemento costitutivo dell’offerta, ben potendo essere integrato in un momento successivo.
La tesi non può essere condivisa alla luce della previsione del comma 1 dell’articolo 35 del d.P.R. 207 del 2010, il quale chiarisce che
le relazioni specialistiche costituiscono una parte coessenziale del progetto esecutivo, sì da qualificare come progettisti in senso proprio –e non come meri collaboratori– i professionisti che le hanno redatte.
E, una volta qualificato come progettista il professionista in parola, è evidente che trovi applicazione il divieto di subappalto relativo agli incarichi di progettazione di cui al comma 3 dell’articolo 91 del ‘Codice del contratti’.
3.3. Allo stesso modo la sentenza in epigrafe deve essere confermata per la parte in cui i primi Giudici hanno ritenuto che non potesse trovare applicazione nel caso in esame l’istituto del c.d. ‘soccorso istruttorio’ (articolo 38, comma 2-bis, e articolo 46, comma 1, del decreto legislativo n. 163 del 2006).
Al riguardo ci si limita qui ad osservare che
la mancata indicazione del nominativo del geologo non rappresentasse una mera irregolarità (pur se essenziale) della domanda di partecipazione, ma concretasse piuttosto il difetto di un elemento essenziale dell’offerta il quale, ai sensi del comma 1-bis dell’articolo 46 del ‘Codice’, non poteva che comportare l’esclusione dell’appellante CSM dalla gara.
4. Il terzo motivo di appello (con cui si è lamentato il mancato accoglimento del secondo dei motivi di ricorso di primo grado, relativo alle varianti proposte dalla Bu. rispetto all’impostazione generale del progetto a base di gara) è infondato.
4.1. E’ evidente al riguardo che il fulcro del thema decidendum consista nello stabilire se le modalità progettuali proposte dall’aggiudicataria Bu. si attestassero (il che era del tutto consentito) nell’ambito delle varianti migliorative ai sensi dell’articolo 76 del ‘Codice’, ovvero se tali modifiche si ponessero in contrasto con il contenuto minimo essenziale del progetto definitivo posto a base di gara, determinando un’impostazione progettuale incompatibile con quel progetto.
Al riguardo deve essere richiamato il consolidato –e qui condiviso– orientamento secondo cui
costituiscono ‘varianti’ ai sensi dell’articolo 76 del Codice dei contratti pubblici le vere e proprie modifiche progettuali e non già le soluzioni tecniche migliorative consentite proprio sulla base del progetto predisposto dalla stazione appaltante e che non comportino uno stravolgimento dell'ideazione sottesa a quest'ultimo (in tal senso –ex multis-: Cons. Stato, V, 07.07.2014, n. 3435).
Ebbene, questi essendo i generali termini concettuali della questione, il Collegio ritiene che debba essere confermata la decisione dei primi Giudici secondo cui il sistema depurativo proposto dalla Bu. (basato comunque sul sistema di ultrafiltrazione MBR, ma con tipologia di fibra cava invece che a fibra piana) non comportasse uno stravolgimento del progetto posto a base di gara.
Non si tratta qui di negare (come in più punti sottolinea l’appellante) che l’utilizzo del reattore MBR costituisse l’impostazione generale del progetto posto a base di gara (in tal senso la Sezione VII – Punto 2.1. del disciplinare).
Ma il punto è che l’aggiudicataria Bu. aveva bensì previsto l’utilizzo del sistema MBR, ma prevedendo l’utilizzo di una diversa membrana (da cava a piana).
Il che non sembra comportare il lamentato stravolgimento del progetto posto a base di gara, né palesa profili di abnormità ed irragionevolezza in relazione alle determinazioni del RUP il quale aveva –appunto– escluso che tale diversa modalità realizzativa fosse idonea ad alterare in modo significativo l’impostazione generale del progetto.
4.2. Anche il terzo motivo deve quindi essere respinto.

EDILIZIA PRIVATA: Tar: la trasformazione di un balcone o di un terrazzino in veranda richiede il permesso di costruire
L'intervento non costituisce realizzazione di una pertinenza né una manutenzione straordinaria e di restauro.
“Secondo l’indirizzo prevalente della giurisprudenza amministrativa, dal quale il Collegio non ritiene di doversi discostare, la trasformazione di un balcone o di un terrazzino circondato da muri perimetrali in veranda, mediante chiusura a mezzo di installazione di pannelli su intelaiatura metallica, non costituisce realizzazione di una pertinenza, né intervento di manutenzione straordinaria e di restauro, ma è opera soggetta a permesso di costruire, determinando l'aumento della superficie utile di un appartamento e la modifica della sagoma dell'edificio, con conseguente assoggettamento alla sanzione di tipo demolitorio”.
Lo ha ribadito il TAR Toscana, Sez. III, nella sentenza 20.04.2016 n. 662.
I giudici amministrativi di Firenze hanno respinto il ricorso contro l’ordinanza con cui il comune di Grosseto ha ingiunto la demolizione dei lavori volti alla chiusura, mediante installazione di infissi in metallo e vetro, di una terrazza nell’appartamento di proprietà del ricorrente.
Secondo il ricorrente il provvedimento impugnato non sarebbe sorretto da sufficiente motivazione, sarebbe mancato l’avviso di avvio del procedimento e l’opera realizzata sarebbe passibile di sanzione meramente pecuniaria.
Di differente avviso il Tar Toscana, secondo il quale il provvedimento impugnato “contiene una puntuale descrizione dell’abuso, delle sue conseguenze in termini edilizi ed urbanistici (aumento volumetrico) e della normativa nazionale e regionale che prevede il trattamento sanzionatorio per gli interventi assoggettati a permesso oneroso di costruire in quanto comportanti aumento di carico urbanistico”.
Inoltre, la mancata comunicazione dell’avviso di avvio del procedimento “non può, ai sensi dell’art. 21-octies della L. 241/1990, comportare l’annullamento del provvedimento impugnato il cui dispositivo, attesa la sua natura vincolata, non avrebbe potuto essere diverso nella fattispecie concreta a cui esso si riferisce” (commento tratto da www.casaeclima.com).
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MASSIMA
Il ricorso è infondato.
Il provvedimento impugnato contiene, infatti, una puntuale descrizione dell’abuso, delle sue conseguenze in termini edilizi ed urbanistici (aumento volumetrico) e della normativa nazionale e regionale che prevede il trattamento sanzionatorio per gli interventi assoggettati a permesso oneroso di costruire in quanto comportanti aumento di carico urbanistico.
La mancata comunicazione dell’avviso di avvio del procedimento non può, ai sensi dell’art. 21-octies della L. 241/1990, comportare l’annullamento del provvedimento impugnato il cui dispositivo, attesa la sua natura vincolata, non avrebbe potuto essere diverso nella fattispecie concreta a cui esso si riferisce.
Anche la terza censura è infondata.
Secondo l’indirizzo prevalente della giurisprudenza amministrativa, dal quale il Collegio non ritiene di doversi discostare,
la trasformazione di un balcone o di un terrazzino circondato da muri perimetrali in veranda, mediante chiusura a mezzo di installazione di pannelli su intelaiatura metallica, non costituisce realizzazione di una pertinenza, né intervento di manutenzione straordinaria e di restauro, ma è opera soggetta a permesso di costruire, determinando l'aumento della superficie utile di un appartamento e la modifica della sagoma dell'edificio, con conseguente assoggettamento alla sanzione di tipo demolitorio (TAR Napoli, sez. VIII, 19/01/2016, n. 243; TAR Salerno, (Campania), sez. I, 01/10/2012, n. 1743).

COMPETENZE PROGETTUALIAggiornamento catastale, agrotecnici esclusi.
Agrotecnici esclusi dalla redazione e sottoscrizione degli atti di aggiornamento catastale.

Il Consiglio di Stato - Sez. IV, con la
sentenza 13.04.2016 n. 1458, ha infatti accolto il ricorso del Consiglio nazionale dei geometri sulle competenze degli agrotecnici in materia di catasto.
La pronuncia di Palazzo Spada ha fatto seguito alla sentenza della Corte costituzionale (n. 154 depositata il 15.07.2015) che aveva dichiarato illegittima la disposizione di legge che amplia le competenze degli agrotecnici in materia catastale ed estimativa nel settore immobiliare, prevista dall'art. 26, comma 7-ter del dl n. 248/2007 (si veda ItaliaOggi del 30.07.2015).
Di conseguenza, sono state impugnate la risoluzione n. 10/df del 03.04.2008 del ministero dell'economia e delle finanze e la circolare dell'Agenzia del territorio n. 3 del 14.04.2016, entrambe annullate dal Consiglio di stato. Il Consiglio nazionale dei geometri e dei geometri laureati aveva fatto ricorso a Palazzo spada contro la sentenza di primo grado del Tar Lazio, che aveva dichiarato invece l'inammissibilità per carenza di interesse dei ricorsi introduttivi del giudizio.
Il Cngegl ha però richiamato a sua volta la sentenza della Corte costituzionale, che aveva dichiarato l'illegittimità della normativa perché inserita all'interno di un «Milleproroghe» in assenza dei requisiti di straordinarietà e urgenza, affermando quindi l'evidenza sia dell'interesse al ricorso introduttivo del giudizio, sia della completa illegittimità dell'azione dell'amministrazione.
Secondo i giudici di Palazzo Spada, nel dettaglio, «si deve ritenere che la pronuncia di illegittimità costituzionale di una norma di legge determina la cessazione automatica della sua efficacia erga omnes ed impedisce, dopo la pubblicazione della sentenza, che essa possa esser applicata ai rapporti, in relazione ai quali la norma dichiarata incostituzionale risulti anche rilevante, stante l'effetto retroattivo dell'annullamento escluso solo per i cd. rapporti esauriti».
Di conseguenza, sia la risoluzione del Mef, sia la circolare del Territorio impugnate «devono ritenersi viziate da una invalidità derivata: detti atti, infatti, costituiscono integrazione e non mera interpretazione, della disposizione dichiarata incostituzionale e, il venir meno del presupposto normativo, determina, in ultima analisi, la loro invalidità e inidoneità a produrre effetti».
Il Cngegl ha provveduto a informare gli ordini territoriali e la Cassa di categoria tramite circolare (articolo ItaliaOggi del 31.05.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - VARILa Pec va tenuta sempre attiva. Altrimenti bisogna comunicare alla Cdc la nuova mail. Arriva la prima sentenza di revoca da parte del giudice del Registro imprese di Milano.
Arriva il primo provvedimento di revoca e/o cessazione degli indirizzi Pec inattivi delle imprese da parte di un giudice del Registro delle imprese. Le imprese costituite in forma societaria e individuale sono tenute obbligatoriamente ad indicare nella domanda di iscrizione al registro delle imprese il loro indirizzo Pec.
La casella di Posta elettronica certificata deve essere mantenuta attiva nel tempo. In caso contrario l'impresa ha l'obbligo di comunicare all'ufficio del registro delle imprese un nuovo indirizzo Pec dell'impresa valido e attivo. Pena la revoca o cessazione della casella di posta elettronica.

È il con decreto 12.04.2016, registro generale n. 3790/2016, che il giudice del registro delle imprese presso il TRIBUNALE di Milano ha disposto (in conformità di un provvedimento amministrativo adottato dal conservatore del registro delle imprese della Cciaa di Milano del 05.02.2016) che si procedesse all'iscrizione d'ufficio (articolo 2190 codice civile) della revoca/cessazione degli indirizzi Pec relativi a 20.559 imprese e società, in ragione della intervenuta revoca o cessazione degli stessi.
Nel decreto il giudice ha anche disposto che la notifica avvenga mediante pubblicazione del provvedimento nell'albo camerale on-line della camera di commercio di Milano, per sette giorni consecutivi, dalla cui scadenza decorrerebbero poi i 15 giorni per l'eventuale presentazione del ricorso al Tribunale ai sensi dell'art. 2192 codice civile.
Ricordiamo che con la direttiva 2608 del 27.04.2015 (in vigore dal 13.07.2015), emanata dal ministero dello sviluppo economico, d'intesa con il ministero della giustizia (si veda ItaliaOggi del 27.07.2015), l'ufficio del registro delle imprese ha l'obbligo di verificare, con modalità automatizzate e con periodicità almeno bimestrale, se le caselle di Posta elettronica certificata (Pec) relative agli indirizzi iscritti nel registro stesso risultino attive. In caso negativo, l'ufficio dovrà invitare l'impresa interessata a presentare domanda di iscrizione di un nuovo indirizzo di Posta elettronica certificata entro un termine non superiore a dieci giorni, decorso il quale l'ufficio dovrà procedere, ai sensi dell'articolo 2191 del codice civile, alla cancellazione dell'indirizzo in questione.
L'iscrizione al registro delle imprese dell'indirizzo di Posta elettronica certificata di un'impresa è legittimamente effettuata solo se detto indirizzo è nella titolarità esclusiva della medesima, perché ciò costituisce il requisito indispensabile per garantire la validità delle comunicazioni e delle notificazioni effettuate con modalità telematiche.
Prima di procedere all'iscrizione di un indirizzo di Posta elettronica certificata, l'ufficio verifica, attraverso la consultazione degli appositi elenchi che questo non risulti già assegnato ad altra impresa. In tal caso invita il richiedente ad indicare un nuovo indirizzo di Posta elettronica certificata entro un congruo termine, pena il rigetto della domanda d'iscrizione (articolo ItaliaOggi del 24.05.2016).

ATTI AMMINISTRATIVI - CONDOMINIOAccesso agli atti, ci vuole una delibera. Tar. Attribuzioni.
L’amministratore di condominio che non dimostra di essere stato autorizzato dall’assemblea condominiale non può proporre l’azione di accesso ai documenti amministrativi di interesse condominiale, né l’esercizio di tale azione può farsi rientrare in una delle attribuzioni proprie dell’amministratore.

È questo il principio affermato dal TRGA Trentino Alto Adige-Bolzano nella sentenza 12.04.2016 n. 133.
Nel caso di specie l’amministratore di un condominio, per tutelare il condominio dal crescente inquinamento prodotto da un vicino distributore di carburanti, decideva di richiedere, con nota trasmessa via pec alla Provincia, al Comune e alla questura, l’accesso alla documentazione necessaria per accertare le autorizzazioni necessarie per svolgere quelle attività.
L’istanza di accesso, però, veniva ignorata; di conseguenza il condominio «in persona dell’amministratore e legale rappresentante pro tempore» richiedeva al Tar che fosse dichiarato il diritto dei condòmini ad accedere agli atti sopra descritti, con espresso ordine alle amministrazioni interpellate di esibire la documentazione richiesta.
Il ricorso, però, è stato considerato inammissibile dal Tar: secondo i giudici amministrativi, infatti, se l’amministratore non viene autorizzato dall’assemblea condominiale con apposita delibera non può proporre l’azione di accesso agli atti amministrativi, né l’esercizio di tale azione può farsi rientrare nell’ambito delle sue attribuzioni perché tutela posizioni giuridiche soggettive dei singoli condòmini
(articolo Il Sole 24 Ore del 24.05.2016).
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MASSIMA
Il ricorso è inammissibile.
E’ fondata l’eccezione di difetto di legittimazione processuale, sollevata dalle difese dell’Amministrazione provinciale e del Comune di Bolzano.
Il ricorso in esame è stato presentato dal Condominio Rosengarten 8, “in persona dell’Amministratore e legale rappresentante pt, Rag. St.Ki.”, il quale dichiara di agire in giudizio in nome e per conto del Condominio, senza però fornire alcuna prova in ordine al proprio potere di rappresentanza in giudizio nel caso specifico.
L’art. 1130 c.c. stabilisce quali poteri spettano all’amministratore del condominio: “L'amministratore, oltre a quanto previsto dall'articolo 1129 e dalle vigenti disposizioni di legge, deve:
1) eseguire le deliberazioni dell'assemblea, convocarla annualmente per l'approvazione del rendiconto condominiale di cui all'articolo 1130-bis e curare l'osservanza del regolamento di condominio;
2) disciplinare l'uso delle cose comuni e la fruizione dei servizi nell'interesse comune, in modo che ne sia assicurato il miglior godimento a ciascuno dei condomini;
3) riscuotere i contributi ed erogare le spese occorrenti per la manutenzione ordinaria delle parti comuni dell'edificio e per l'esercizio dei servizi comuni;
4) compiere gli atti conservativi relativi alle parti comuni dell'edificio;
5) eseguire gli adempimenti fiscali;
6) curare la tenuta del registro di anagrafe condominiale…
7) curare la tenuta del registro dei verbali delle assemblee, del registro di nomina e revoca dell'amministratore e del registro di contabilità…
8) conservare tutta la documentazione inerente alla propria gestione riferibile sia al rapporto con i condomini sia allo stato tecnico-amministrativo dell'edificio e del condominio;
9) fornire al condomino che ne faccia richiesta attestazione relativa allo stato dei pagamenti degli oneri condominiali e delle eventuali liti in corso;
10) redigere il rendiconto condominiale annuale della gestione e convocare l'assemblea per la relativa approvazione entro centottanta giorni
”.
Il potere di rappresentanza dell’amministratore condominiale è limitato alle attribuzioni di cui alla citata disposizione, salvo il caso in cui il regolamento condominiale o l’assemblea, con propria deliberazione, gli attribuiscano poteri maggiori, così come previsto dall’art. 1131 c.c., il quale così recita: “Nei limiti delle attribuzioni stabilite dall'articolo 1130 o dei maggiori poteri conferitigli dal regolamento di condominio o dall'assemblea, l'amministratore ha la rappresentanza dei partecipanti e può agire in giudizio sia contro i condomini sia contro i terzi. Può essere convenuto in giudizio per qualunque azione concernente le parti comuni dell'edificio; a lui sono notificati i provvedimenti dell'autorità amministrativa che si riferiscono allo stesso oggetto. Qualora la citazione o il provvedimento abbia un contenuto che esorbita dalle attribuzioni dell'amministratore, questi è tenuto a darne senza indugio notizia all'assemblea dei condomini”.
Secondo un costante orientamento giurisprudenziale, “
nel condominio, in materia di azioni processuali, il potere decisionale spetta solo ed esclusivamente all’assemblea, la quale deve deliberare se agire in giudizio, se resistere e se impugnare i provvedimenti in cui il condominio risulta soccombente. Un tale potere decisionale non può competere in via autonoma all’amministratore che, per sua natura, non è un organo decisionale, ma meramente esecutivo del condominio” (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 08.10.2013, n. 4944; nello stesso senso, Sez. VI, 08.10.2013, n. 4944; TAR Campania, Napoli, Sez. VI, 08.05.2014, n. 2511 e Cassaz. Sez. Un., 06.08.2010, n. 18331).
Nel caso di specie l’Amministratore non ha dimostrato in giudizio di essere stato autorizzato dall’assemblea condominiale a proporre l’azione di accesso di cui all’art. 116 c.p.a., né l’esercizio di tale azione può farsi rientrare in una delle attribuzioni proprie dell’amministratore, tassativamente elencate nel citato art. 1130 c.c..
Il ricorso deve, pertanto considerarsi inammissibile, per difetto di legittimazione processuale dell’Amministratore del Condominio ricorrente.
Ad abundantiam, va aggiunto che è fondata anche l’eccezione subordinata di inammissibilità, sollevata dalla difesa provinciale sul rilievo che, da un lato, la richiesta di accesso agli atti, inviata tramite posta elettronica certificata (PEC) il 22.11.2015, proviene dalla casella PEC della ditta Pl. Sas (di cui non si conoscono i legami con il Condominio) e non da una casella PEC riconducibile al Condominio “Rosengarten 8” e al suo Amministratore e, dall’altro lato, che la richiesta inviata mediante PEC è priva della firma digitale, cosicché non risulta avvenuto, né provato, alcun ricevimento da parte del destinatario.
Osserva a tal riguardo il Collegio che la firma digitale, nella PEC, costituisce l'equivalente informatico della tradizionale firma autografa apposta su carta e serve a garantire l’identità del sottoscrittore, ad assicurare che il documento non sia stato modificato dopo la sua sottoscrizione e ad attribuire piena validità legale al documento.
Nel caso di specie, mancando la firma digitale, non è possibile attestare l’integrità e l’autenticità della sottoscrizione dell’Amministratore del Condominio ricorrente, né la validità della manifestazione di volontà contenuta nella richiesta di accesso, considerato che essa proviene da una casella PEC intestata ad una società (Pl. Sas) che, in assenza di prova contraria, non ha alcun collegamento con il Condominio “Rosengarten 8” o con il suo Amministratore.
Per tutte le ragioni espresse, assorbita ogni altra eccezione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

TRIBUTI: Esenzione prima casa per più unità catastali.
Ai fini Ici, le agevolazioni riconosciute sull'abitazione principale spettano anche in relazione a più unità catastali, ancorché le stesse costituiscano, nella sostanza, una sola unità abitativa. Il contribuente può validamente supportare la propria posizione attraverso la produzione di una perizia giurata da un tecnico, che attesti l'unicità delle singole particelle catastali e l'idoneità delle stesse a rappresentare un'abitazione che possa fruire del beneficio.

È quanto si apprende dalla lettura della sentenza 07.04.2016 n. 4030/09/16 della Ctp di Catania.
I giudici di Piazza Bellini hanno così annullato un avviso di accertamento emesso dal comune di Catania, con condanna alle spese per la parte soccombente. L'ufficio tecnico del comune aveva disconosciuto l'esenzione d'imposta Ici prevista per l'abitazione principale con riferimento a immobile di proprietà del ricorrente la quale era stata unita con una scala interna ad altro immobile, sempre di proprietà, posto al piano inferiore.
I due immobili venivano utilizzati dal ricorrente come unica abitazione principale. L'unione delle due unità immobiliari, separatamente distinte in catasto, veniva comprovata in giudizio dal ricorrente mediante la produzione di una relazione tecnica. La Ctp di Catania con la sentenza in questione, richiamando l'orientamento sul punto della Corte di cassazione in materia ha annullato l'atto impugnato.
Secondo il pensiero degli ermellini (ripreso dal collegio siciliano nella pronuncia in commento, in tema di imposta comunale sugli immobili (Ici), il contemporaneo utilizzo di più unità catastali non costituisce ostacolo all'applicazione, per tutte, dell'aliquota agevolata prevista per l'abitazione principale, sempre che il derivato complesso abitativo utilizzato non trascenda la categoria catastale delle unità che lo compongono, assumendo rilievo a tal fine non il numero delle unità catastali, ma l'effettiva utilizzazione ad abitazione principale dell'immobile complessivamente considerato. Da precisare, poi, che tale principio non pare applicabile all'Imu.
La definizione di abitazione principale nel testo Ici, infatti, non faceva riferimento al numero delle unità immobiliari ma unicamente alla destinazione delle stesse a dimora abituale del contribuente e dei suoi familiari. La nuova definizione utilizzata per l'Imu, invece, dispone che l'abitazione principale è costituita dall'unica unità immobiliare iscritta o iscrivibile in catasto come tale, in cui il contribuente risiede e dimora.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] Privo di fondamento è il primo motivo posto che nel caso de quo il comune di Catania ha proceduto alla notifica diretta dell'avviso di accertamento mediante raccomandata A/r nell'esercizio della facoltà a tal fine concessogli dall'art. 1, comma 161, della legge 296 del 2006: le norme invocate dal ricorrente non trovano pertanto, applicazione in quanto previste dal codice di procedura civile per le notificazioni a cura dell'Ufficiale giudiziario.
Parimenti infondato è il secondo motivo atteso che la firma autografa, prevista dalle norme che disciplinano i tributi regionali e locali sugli atti di liquidazione e di accertamento, può essere sostituita dall'indicazione a stampa del nominativo del soggetto responsabile, nel caso che gli atti medesimi siano prodotti da sistemi informativi automatizzati (art. 1, punto 87, legge 28/12/1995 n. 549) il che è avvenuto nel caso de quo.
È invece, fondato il terzo motivo, posto che il ricorrente ha provato la unitarietà delle due unità immobiliari, aventi autonomia catastale, producendo una perizia tecnica corredata di documentazione fotografica e che, per uniforme giurisprudenza della Suprema corte, «in tema di imposta comunale sugli immobili (Ici), il contemporaneo utilizzo di più unità catastali non costituisce ostacolo dall'applicazione, per tutte, dell'aliquota agevolata prevista per l'abitazione principale (agevolazione trasformatasi in totale esenzione, ex art. 1, dl 27.05.2008 n. 93, a decorrere dal 2008), sempre che il derivato complesso abitativo utilizzato non trascenda la categoria catastale delle unità che lo compongono, assumendo rilievo, a tal fine, non il numero delle unità catastali ma l'effettiva utilizzazione ad abitazione principale dell'immobile complessivamente considerato, ferma restando la spettanza della detrazione prevista dal comma 2, dell'art. 8, dlgs n. 504 del 1992 una sola volta per tutte le unità» (Cass. 03.07.2014 n. 1598: 12269/2010; 25902/2008). Il ricorso pertanto deve essere accolto.
PQM
Accoglie il ricorso e annulla l'atto impugnato. Condanna il comune di Catania al pagamento delle spese processuali in favore del ricorrente, che liquida in 300,00 di cui 50 per rimborsi e il resto per compensi, oltre al rimborso spese generali, Cpa e Iva. Così deciso nella Camera di consiglio della Commissione tributaria provinciale di Catania, sez. 9, del 17.03.2016 (articolo ItaliaOggi Sette del 23.05.2016).

EDILIZIA PRIVATA: Certificato agibilità, ok al rilascio solo se il manufatto non è abusivo.
Tar Campania: il meccanismo del silenzio assenso non può essere invocato qualora manchi il presupposto per il rilascio del certificato di agibilità.
Il TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, con la sentenza 07.04.2016 n. 1767, aderisce alla “pacifica giurisprudenza amministrativa” secondo la quale “la conformità dei manufatti alle norme urbanistico-edilizie costituisce il presupposto indispensabile per il legittimo rilascio del certificato di agibilità, come si evince dagli art. 24, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001, e 35, comma 20, l. n. 47/1985, in quanto, ancor prima della logica giuridica, è la ragionevolezza ad escludere che possa essere utilizzato, per qualsiasi destinazione, un fabbricato non conforme alla normativa urbanistico-edilizia, e, come tale, in potenziale contrasto con la tutela del fascio di interessi collettivi alla cui protezione quella disciplina è preordinata”.
Di conseguenza, “il meccanismo del silenzio assenso non può essere invocato allorché manchi il presupposto stesso per il rilascio del certificato di agibilità, costituito dal carattere non abusivo del fabbricato in relazione al quale sia stata presentata l'istanza tesa ad ottenere il certificato menzionato; invero, se in linea generale il tacito accoglimento di una domanda si differenzia dalla decisione esplicita solo per l'aspetto formale, è necessario tuttavia che sussistano tutti gli elementi soggettivi e oggettivi che rappresentano gli elementi costitutivi della fattispecie di cui si invoca il perfezionamento”.
NON È NECESSARIO L'INVIO DELLA COMUNICAZIONE DI AVVIO DEL PROCEDIMENTO. I giudici amministrativi campani ricordano, inoltre, che “secondo il costante indirizzo giurisprudenziale dal quale il Collegio non ha ragione di discostarsi, l'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l'ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l'invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto”.
NON OCCORRE UNA PARTICOLARE MOTIVAZIONE. Il Tar Campania osserva anche che “secondo la condivisibile giurisprudenza amministrativa prevalente, l'ordinanza di demolizione, in quanto atto dovuto e rigorosamente vincolato, non necessita di particolare motivazione, potendosi ritenersi adeguata e autosufficiente la motivazione quando già solo sia rinvenibile la compiuta descrizione delle opere abusive, la constatazione della loro esecuzione in assenza del necessario titolo abilitativo edilizio e l'individuazione della norma applicata, come ravvisabile nel caso di specie, ogni altra indicazione esulando dal contenuto tipico del provvedimento”.
Inoltre, “il potere della P.A. in tema di vigilanza sull'assetto del territorio non è suscettibile di decadenza”.
L’ordinanza di demolizione, per la sua natura di atto dovuto e rigorosamente vincolato, va ritenuta sorretta da adeguata istruttoria ed autosufficiente motivazione, qualora sia rinvenibile la compiuta descrizione degli interventi abusivi contestati, l’individuazione delle violazioni accertate e della normativa applicata (commento tratto da www.casaeclima.com).
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MASSIMA
Con il quarto motivo di ricorso, parte ricorrente ha dedotto le seguenti censure: violazione e falsa applicazione degli artt. 24 e 25 del D.P.R. n. 380 del 2001, eccesso di potere per illogicità e contraddittorietà, difetto di presupposti e difetto di motivazione, ingiustizia manifesta, in quanto si sarebbe formato il silenzio-assenso sull’istanza di rilascio del certificato di agibilità presentata in data 20.11.2006 ed assunta al protocollo del Comune di Sessa Aurunca n. 24716.
Il motivo è infondato.
La pacifica giurisprudenza amministrativa, condivisa dal Collegio, ritiene che
la conformità dei manufatti alle norme urbanistico-edilizie costituisce il presupposto indispensabile per il legittimo rilascio del certificato di agibilità, come si evince dagli art. 24, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001, e 35, comma 20, l. n. 47/1985, in quanto, ancor prima della logica giuridica, è la ragionevolezza ad escludere che possa essere utilizzato, per qualsiasi destinazione, un fabbricato non conforme alla normativa urbanistico-edilizia, e, come tale, in potenziale contrasto con la tutela del fascio di interessi collettivi alla cui protezione quella disciplina è preordinata.
Conseguentemente,
il meccanismo del silenzio assenso non può essere invocato allorché manchi il presupposto stesso per il rilascio del certificato di agibilità, costituito dal carattere non abusivo del fabbricato in relazione al quale sia stata presentata l'istanza tesa ad ottenere il certificato menzionato; invero, se in linea generale il tacito accoglimento di una domanda si differenzia dalla decisione esplicita solo per l'aspetto formale, è necessario tuttavia che sussistano tutti gli elementi soggettivi e oggettivi che rappresentano gli elementi costitutivi della fattispecie di cui si invoca il perfezionamento (cfr. TAR Napoli, sez. III, 17.04.2014, n. 2191, sez. II, 21.02.2013, n.969, TAR Salerno, sez., 13.06.2013, n. 1325).
Alla luce di quanto sopra
deve, allora, escludersi che nella fattispecie oggetto di gravame possa ritenersi formato il silenzio-assenso sulla richiesta di certificato di agibilità, alla luce della riscontrata difformità delle opere di cui all’ordinanza di demolizione rispetto al permesso di costruire n. 110/2000.

EDILIZIA PRIVATA: Il potere di sospensione dei lavori edili in corso, attribuito all'Autorità comunale dall'art. 27, comma 3, D.P.R. n. 380 del 2001 -T.U. Edilizia-, è di tipo cautelare, in quanto destinato ad evitare che la prosecuzione dei lavori determini un aggravarsi del danno urbanistico; e alla descritta natura interinale del potere segue che il provvedimento emanato nel suo esercizio ha la caratteristica della provvisorietà, fino all'adozione dei provvedimenti definitivi.
Ne discende che, a seguito dello spirare del termine di 45 giorni, ove l'Amministrazione non abbia emanato alcun provvedimento sanzionatorio definitivo, l'ordine in questione perde ogni efficacia, mentre, nell'ipotesi di emanazione del definitivo provvedimento sanzionatorio, è in virtù di quest'ultimo che viene a determinarsi la lesione della sfera giuridica del destinatario, con conseguente assorbimento dell'ordine di sospensione dei lavori.

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L'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l'ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l'invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto.
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L'ordinanza di demolizione, in quanto atto dovuto e rigorosamente vincolato, non necessita di particolare motivazione, potendosi ritenersi adeguata e autosufficiente la motivazione quando già solo sia rinvenibile la compiuta descrizione delle opere abusive, la constatazione della loro esecuzione in assenza del necessario titolo abilitativo edilizio e l'individuazione della norma applicata, come ravvisabile nel caso di specie, ogni altra indicazione esulando dal contenuto tipico del provvedimento.
Va altresì evidenziato che il potere della P.A. in tema di vigilanza sull'assetto del territorio non è suscettibile di decadenza.
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L’ordinanza di demolizione, per la sua natura di atto dovuto e rigorosamente vincolato, è da ritenersi sorretta da adeguata istruttoria ed autosufficiente motivazione, allorquando sia rinvenibile la compiuta descrizione degli interventi abusivi contestati (come sopra precisato), l’individuazione delle violazioni accertate (opere eseguite in totale difformità dal permesso di costruire n. 110/2000, rilasciato per “ristrutturazione edilizia ed adeguamento igienico funzionale di capannoni ad uso agricolo sul terreno riportato in catasto al foglio 125 particella 5017”, nonché in assenza di permesso di costruire) e della normativa applicata (art. 31, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001).
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Né può riconoscersi rilevanza, onde qualificare come illegittima l’ordinanza di demolizione, ai provvedimenti relativi al diverso procedimento di autorizzazione dell’attività, in quanto essi non possono in alcun modo aver sanato gli abusi edilizi accertati, anche perché, come si avrà modo di precisare in seguito, la conformità urbanistico-edilizia dei locali in cui l'attività produttiva o commerciale si va a svolgere, costituisce un presupposto per il rilascio dell’autorizzazione stessa, e deve sussistere sia in sede di rilascio del relativo titolo autorizzatorio, sia per l’intera durata del suo svolgimento.
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Il Collegio deve innanzitutto dichiarare l’inammissibilità del ricorso introduttivo, questione rilevata d’ufficio e indicata in udienza ai sensi dell’art. 73, comma 3, c.p.a., in riferimento alla domanda di annullamento dell’ordinanza di sospensione dei lavori n. 214 del 30.10.2009, adottata dal Comune di Sessa Aurunca nei confronti della Cl. s.r.l. e del sig. Fr.Be..
Ed invero la costante giurisprudenza amministrativa, condivisa dal Collegio, ha sempre interpretato in termini categorici la disposizione di cui all'art. 27, comma 3, del D.P.R. n. 380 del 2001, pervenendo al convincimento per cui (cfr. TAR Calabria-Catanzaro Sez. I, 27.07.2012, n. 840) il potere di sospensione dei lavori edili in corso, attribuito all'Autorità comunale dall'art. 27, comma 3, D.P.R. n. 380 del 2001 -T.U. Edilizia-, è di tipo cautelare, in quanto destinato ad evitare che la prosecuzione dei lavori determini un aggravarsi del danno urbanistico; e alla descritta natura interinale del potere segue che il provvedimento emanato nel suo esercizio ha la caratteristica della provvisorietà, fino all'adozione dei provvedimenti definitivi. Ne discende che, a seguito dello spirare del termine di 45 giorni, ove l'Amministrazione non abbia emanato alcun provvedimento sanzionatorio definitivo, l'ordine in questione perde ogni efficacia, mentre, nell'ipotesi di emanazione del definitivo provvedimento sanzionatorio, è in virtù di quest'ultimo che viene a determinarsi la lesione della sfera giuridica del destinatario, con conseguente assorbimento dell'ordine di sospensione dei lavori (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 19.06.2014, n. 3115, TAR Milano, Sez. II, 20.01.2015, n. 218).
Nel caso di specie il Comune di Sessa Aurunca in data 28.01.2010 ha adottato l’ordinanza di demolizione n. 16 nei confronti dei ricorrenti, impugnata anch’essa con il presente ricorso introduttivo, e, pertanto, il ricorso stesso deve essere dichiarato inammissibile relativamente alla domanda demolitoria della citata ordinanza di sospensione dei lavori.
Il ricorso introduttivo proposto avverso la suddetta ordinanza di demolizione è, invece, in parte fondato, limitatamente ad una delle censure di cui al quinto motivo di ricorso, e deve, pertanto, essere accolto per quanto di ragione.
Con il primo motivo di ricorso parte ricorrente ha dedotto le seguenti censure: 1. violazione e falsa applicazione degli artt. 7, 8, 10 e 10-bis della legge n. 241 del 1990, così come modificata dalla legge n. 15 del 2005, eccesso di potere per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento, carenza del contraddittorio, illogicità, difetto di istruttoria e di motivazione, in quanto il Comune resistente avrebbe omesso di inviare la comunicazione di avvio del procedimento.
Il motivo è infondato.
Al riguardo va rilevato che, secondo il costante indirizzo giurisprudenziale dal quale il Collegio non ha ragione di discostarsi, l'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l'ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l'invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto (cfr., ex multis, TAR Napoli, Sez. VIII, 28.01.2016, n. 538, 07.01.2015 n. 44; Consiglio di Stato, VI Sezione 29.11.2012 n. 6071; Consiglio di Stato, IV Sezione, 18.09.2012; Consiglio di Stato, IV Sezione 10.08.2011, n. 4764; Consiglio di Stato, IV Sezione, 20.07.2011, n. 4403; Consiglio di Stato, VI Sezione, 24.09.2010, n. 7129).
Con il secondo motivo di ricorso i ricorrenti hanno dedotto le seguenti censure: 2. violazione e falsa applicazione dell'art. 3 della legge 241 del 1990, eccesso di potere per difetto di istruttoria e difetto di motivazione.
Parte ricorrente lamenta che il provvedimento impugnato non indicherebbe i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche poste alla base del provvedimento stesso, in quanto l’amministrazione avrebbe omesso la valutazione in ordine alla effettiva data di realizzazione delle opere oggetto dei provvedimenti repressivi adottati dal Comune, nonché all’attuale destinazione già assentita con riferimento all’attività di produzione di saponi detergenti industriali, tenuto conto di tutte le autorizzazioni possedute ed elencate in fatto.
Il motivo è infondato.
Il Collegio osserva che, secondo la condivisibile giurisprudenza amministrativa prevalente, l'ordinanza di demolizione, in quanto atto dovuto e rigorosamente vincolato, non necessita di particolare motivazione, potendosi ritenersi adeguata e autosufficiente la motivazione quando già solo sia rinvenibile la compiuta descrizione delle opere abusive, la constatazione della loro esecuzione in assenza del necessario titolo abilitativo edilizio e l'individuazione della norma applicata, come ravvisabile nel caso di specie, ogni altra indicazione esulando dal contenuto tipico del provvedimento (cfr. ex multis TAR Napoli, Sez. VIII, 28.01.2016, n. 538 cit., TAR Napoli, Sez. VI, n. 315 del 23.01.2012).
Va altresì evidenziato che il potere della P.A. in tema di vigilanza sull'assetto del territorio non è suscettibile di decadenza (cfr. ex multis TAR Campania, Napoli, Sezione VIII, 05.03.2015 n. 1398).
...
Passando ad esaminare le ulteriori censure di cui al terzo motivo di ricorso, esse devono ritenersi infondate.
L’ordinanza di demolizione oggetto di impugnazione risulta adottata a seguito di quanto emerso dal sopralluogo effettuato dal Comando di Polizia Municipale e risultante dal P.V. n. 24/09, allegato alla nota prot. n. 4298 del 19.10.2009, e cioè alla medesima nota menzionata nell’ordinanza di sospensione dei lavori; processo verbale che ai fini dell’individuazione delle opere oggetto di contestazione richiama la descrizione delle opere stesse di cui alla relazione tecnica di sopralluogo prot. n. 148/SAT/ST del 13.10.2009 formante parte integrante del verbale stesso ed espressamente richiamata alla lettera a) dell’ordinanza di demolizione impugnata, atti tutti depositati in giudizio dal Comune resistente.
Ora, siccome le opere elencate nell’ordinanza di demolizione sono le stesse di cui ai suddetti verbali e dell’ordinanza di sospensione di lavori, ritiene il Collegio che non sussista alcun dubbio sulla identificazione delle stesse come quelle contestate, dovendo ritenersi un mero errore materiale il riferimento al diverso verbale richiamato nel dispositivo dell’ordinanza stessa.
Deve, pertanto, concludersi che l’ordinanza di demolizione è stata legittimamente adottata ai sensi dell’articolo 31 del d.p.r. n. 380 del 2001, nell'esercizio del potere vincolato di repressione dell'abusiva attività edilizia.
Ed invero, l’ordinanza di demolizione, per la sua natura di atto dovuto e rigorosamente vincolato, è da ritenersi sorretta da adeguata istruttoria ed autosufficiente motivazione, allorquando –come, appunto, nella specie, e a dispetto di quanto asserito da parte ricorrente– sia rinvenibile la compiuta descrizione degli interventi abusivi contestati, come sopra precisato, l’individuazione delle violazioni accertate (opere eseguite in totale difformità dal permesso di costruire n. 110/2000, rilasciato per “ristrutturazione edilizia ed adeguamento igienico funzionale di capannoni ad uso agricolo sul terreno riportato in catasto al foglio 125 particella 5017”, nonché in assenza di permesso di costruire) e della normativa applicata (art. 31, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001) (cfr. ex multis TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 04.09.2015, n. 4305 e la giurisprudenza ivi richiamata).
In proposito, parte ricorrente si limita a rappresentare che il capannone industriale e gli accessori pertinenziali sarebbero stati edificati in data antecedente al 01.09.1967 e che sarebbero stati oggetto di opere di ristrutturazione e adeguamento igienico funzionale in virtù di regolare concessione edilizia n. 110 rilasciata dal Comune di Sessa Aurunca in data 13.10.2000, ma nulla dice relativamente alla contestata difformità rispetto al suddetto titolo edilizio che, si ripete, è stato rilasciato per ristrutturazione edilizia ed adeguamento igienico funzionale di capannoni “ad uso agricolo” sul terreno riportato in catasto al foglio 125 particella 5017, difformità posta a fondamento del provvedimento di demolizione.
Né può riconoscersi rilevanza, onde qualificare come illegittima l’ordinanza di demolizione, ai provvedimenti relativi al diverso procedimento di autorizzazione dell’attività, in quanto essi non possono in alcun modo aver sanato gli abusi edilizi accertati, anche perché, come si avrà modo di precisare in seguito, la conformità urbanistico-edilizia dei locali in cui l'attività produttiva o commerciale si va a svolgere, costituisce un presupposto per il rilascio dell’autorizzazione stessa, e deve sussistere sia in sede di rilascio del relativo titolo autorizzatorio, sia per l’intera durata del suo svolgimento (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, con la sentenza 07.04.2016 n. 1767).

EDILIZIA PRIVATA: Il legittimo esercizio di un’attività commerciale, industriale e produttiva deve essere ancorato, sia in sede di rilascio del relativo titolo autorizzatorio, sia per l’intera durata del suo svolgimento, alla disponibilità giuridica e alla regolarità urbanistico-edilizia dei locali in cui essa viene posta in essere.
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Si passa ad analizzare il ricorso per motivi aggiunti con il quale i ricorrenti hanno impugnato la disposizione dirigenziale n. 58 del 15.09.2015 con cui il Capo Settore Assetto del Territorio del Comune di Sessa Aurunca ha disposto la cessazione dell’attività nei locali privi di titolo edilizio della Cl. s.r.l. ubicati in Sessa Aurunca, Via ..., località ....
Avverso questo successivo provvedimento, i ricorrenti hanno riproposto le censure già dedotte con il ricorso introduttivo, e con ulteriori quattro motivi di ricorso hanno dedotto vizi di illegittimità propria.
Il Collegio deve innanzitutto rilevare che vanno disattese le censure articolate in via derivata in riferimento al ricorso introduttivo, ritenuto infondato, proposto avverso l’ordinanza di demolizione; ad eccezione dell’unica censura accolta, riguardante l’illegittimità della suddetta ordinanza nei confronti del sig. Fr.Be., che inficia per illegittimità derivata il provvedimento impugnato con il ricorso per i motivi aggiunti, invece legittimamente adottato nei confronti della Cl. s.r.l..
Con ulteriori quattro motivi di ricorso, che si ritiene di poter affrontare in via unitaria, sono state dedotte le seguenti censure: 1 (2) violazione e falsa applicazione, sotto altro profilo, degli artt. 7, 8, 10 e 10-bis della legge n. 241 del 1990 e successive modifiche, eccesso di potere per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento, carenza di contraddittorio, illogicità, difetto di istruttoria e di motivazione; 2 (3) eccesso di potere per illogicità, difetto di presupposti, difetto di istruttoria e difetto di motivazione, ingiustizia manifesta; 3 (4) eccesso di potere per illogicità e contraddittorietà, difetto di presupposti, difetto di istruttoria e di motivazione; 4 (5) eccesso di potere per illogicità e contraddittorietà, difetto di presupposti, difetto di istruttoria e difetto di motivazione, sviamento di potere.
Parte ricorrente lamenta, in sintesi, la mancata comunicazione dell’avvio del procedimento; il difetto di motivazione, in quanto non sarebbe sufficiente l’affermazione secondo la quale “l’esercizio dell’attività avviene in area non avente valida destinazione urbanistica e utilizzando strutture ed immobili realizzate in assenza del titolo abilitativo”; la contraddittorietà rispetto al precedente provvedimento, con il quale il Comune aveva diffidato essa società ad eseguire, dopo l’incendio, i lavori di messa in sicurezza con massima sollecitudine; lamenta infine che la cessazione dell’attività sarebbe stata disposta come se tutte le strutture nelle quali essa società esercita la propria attività fossero stati realizzate in assenza di titolo abilitativo, mentre il Comune resistente avrebbe dovuto limitare la sanzione alla sola parte dei locali non autorizzati sotto il profilo edilizio.
I motivi sono infondati.
Va osservato preliminarmente che, secondo il costante orientamento della giurisprudenza anche di questo Tribunale, dalla quale il Collegio non ha motivo di discostarsi, il legittimo esercizio di un’attività commerciale, industriale e produttiva, deve essere ancorato, sia in sede di rilascio del relativo titolo autorizzatorio, sia per l’intera durata del suo svolgimento, alla disponibilità giuridica e alla regolarità urbanistico-edilizia dei locali in cui essa viene posta in essere (cfr. TAR Campania Napoli, Sez. III, 21.12.2012, n. 5326, sez. III, 09.09.2008, n. 10058; Id., 09.08.2007, n. 7435; Id., 27.01.2003, n. 423; Id., 22.11.2001, n.5007, Cons. Stato, sez. V, 05.11.2012 n. 5590); giurisprudenza espressamente richiamata nel provvedimento impugnato.
Alla luce di quanto sopra, considerato che la conformità urbanistico-edilizia dei locali in cui si svolge l'attività produttiva o commerciale costituisce un presupposto per il rilascio dell’autorizzazione stessa, che deve sussistere sia in sede di rilascio del relativo titolo autorizzatorio, sia per l’intera durata del suo svolgimento, il provvedimento oggetto di impugnazione deve ritenersi legittimamente adottato.
Esso è infatti fondato su rappresentate e accertate ragioni di abusività e non regolarità delle opere edilizie in questione con le prescrizioni urbanistiche del Comune di Sessa Aurunca (Consiglio di Stato, sez. V, 05.11.2012, n. 5590, Sez. IV, 14.10.2011, n. 5537); e, peraltro, nello stesso è anche espressamente richiamata l’ordinanza di demolizione impugnata con il ricorso introduttivo (però, come si è visto, infondato), con la quale, si ripete, il Comune resistente ha contestato la difformità delle opere ivi indicate, rispetto al permesso di costruire n. 110 rilasciato dal Comune di Sessa Aurunca in data 13.10.2000 per “ristrutturazione edilizia ed adeguamento igienico funzionale di capannoni ad uso agricolo sul terreno riportato in catasto al foglio 125 particella 5017”.
Il provvedimento oggetto di impugnazione, in definitiva, contrariamente a quanto sostenuto da parte ricorrente, deve ritenersi adeguatamente motivato, essendovi indicati i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche determinative della scelta dell'amministrazione, effettuata in base alle risultanze dell'istruttoria e in conformità a quanto disposto dall’art. 3, comma 1, della legge n. 241 del 1990,.
Deve altresì ritenersi infondata la censura con la quale parte ricorrente lamenta la contraddittorietà con il precedente provvedimento con il quale il Comune aveva diffidato essa società ad eseguire, dopo l’incendio, i lavori di messa in sicurezza con massima sollecitudine, trattandosi di provvedimenti adottati nell’ambito di procedimenti aventi diversi presupposti.
Quanto alla censura con la quale parte ricorrente lamenta che il Comune resistente avrebbe dovuto limitare la sanzione alla sola parte dei locali non autorizzati sotto il profilo edilizio, anch’essa deve ritenersi infondata per la risolutiva circostanza che, nel provvedimento impugnato, si dà atto che l’ordinanza n. 111 dell’11.08.2015, emessa a seguito dell’incendio avvenuto in data 24.07.2015 sull’immobile adibito ad attività produttive per cui è causa, a tutela della pubblica e privata incolumità e per la salvaguardia delle matrici ambientali, conteneva una dichiarazione di inagibilità dell’area. Ed infatti, l’ordinanza n. 111 dell’11.08.2015, provvedimento non impugnato da parte ricorrente, espressamente dichiara “la inagibilità dell’area interessata dall’incendio fino al completo ripristino di normali condizioni di sicurezza per la pubblica e privata incolumità, da formalizzarsi con apposito provvedimento di questo Ente”.
In riferimento, infine, alla prima censura di natura procedimentale, relativa alla mancata comunicazione di avvio del procedimento, essa non trova alcun fondamento giuridico alla luce del presupposto di fatto da cui ha avuto origine il procedimento: la natura abusiva (mancanza di conformità urbanistico-edilizia) dei locali in cui la società ricorrente svolge la propria attività. Ed invero, costituisce allora un punto incontroverso e decisivo quello che la presupposta abusività del compendio immobiliare imponeva all’Amministrazione l’adozione di provvedimenti sanzionatori/repressivi di natura vincolata. Di talché la questione procedimentale afferente l’omessa comunicazione di avvio del procedimento deve comunque deve intendersi superata ai sensi dell’art. 21-octies della legge n. 241 del 1990.
Conclusivamente, per i suesposti motivi, il ricorso introduttivo deve essere dichiarato in parte inammissibile, relativamente alla domanda di annullamento dell’ordinanza di sospensione dei lavori n. 214 del 30.10.2009, adottata dal Comune di Sessa Aurunca, e in parte va accolto, in riferimento dell’ordinanza di demolizione n. 16 del 28.01.2010, limitatamente alla prima censura del terzo motivo di ricorso relativa ai destinatari dell’ordinanza stessa, e, pertanto, soltanto nei confronti del sig. Fr.Be..
Parimenti, il ricorso per motivi aggiunti, proposto avverso la disposizione dirigenziale n. 58 del 15.09.2015 con cui il Capo Settore Assetto del Territorio del Comune di Sessa Aurunca ha disposto la cessazione dell’attività nei confronti della Cl. s.r.l. e del sig. Fr.Be., deve essere accolto in parte, per illegittimità derivata dall’accoglimento della suddetta censura relativa ai destinatari dell’ordinanza di demolizione, in quanto atto presupposto, limitatamente nei confronti del sig. Fr.Be. (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, con la sentenza 07.04.2016 n. 1767).

CONDOMINIO: Gestione condomini in chiaro. Nulla la nomina dell'amministratore poco trasparente. Il Tribunale di Milano: va presentato un preventivo dettagliato relativo al compenso.
È nulla la delibera che abbia confermato nella sua carica l'amministratore che non abbia presentato all'assemblea uno specifico e dettagliato preventivo relativo al proprio compenso, limitandosi a richiamare l'importo già percepito per la precedente gestione.

Lo ha stabilito il TRIBUNALE di Milano con la recente sentenza 05.04.2016 n. 4294, pronunciandosi in merito all'applicazione del nuovo disposto di cui all'art. 1129, terzultimo comma, c.c. in tema di trasparenza della gestione condominiale.
La disposizione in questione, infatti, dispone che l'amministratore, all'atto dell'accettazione della nomina e del suo rinnovo, debba specificare analiticamente, a pena di nullità della nomina stessa, l'importo dovuto a titolo di compenso per l'attività svolta.
Il caso concreto. Nella specie i condomini riuniti in assemblea avevano messo ai voti la nomina di un amministratore diverso rispetto a quello in carica, ma non erano riusciti a raggiungere il necessario quorum previsto dall'art. 1136 c.c. (maggioranza degli intervenuti che rappresenti almeno la metà del valore dell'edificio). La relativa delibera aveva quindi statuito la conferma del precedente amministratore «alle medesime condizioni economiche esposte per il passato».
Quest'ultima, esperito il tentativo obbligatorio di mediazione, era stata però impugnata da alcuni condomini dinanzi all'autorità giudiziaria per violazione del disposto del quattordicesimo comma dell'art. 1129 c.c., ritenendo gli stessi che l'omessa specifica indicazione della misura del compenso richiesto dall'amministratore confermato nella sua carica ne comportasse la nullità.
Il condominio convenuto, nel costituirsi in giudizio, aveva invece sostenuto la piena legittimità della delibera in questione, sia perché si trattava di una mera conferma dell'amministratore in carica (e non di una nuova nomina) sia perché nel verbale assembleare era stato comunque fatto riferimento alla misura del compenso riconosciuto all'amministratore nella precedente gestione, per tale motivo facilmente ricostruibile, almeno nel suo importo totale, dal relativo consuntivo. Il Tribunale di Milano, esaminata la questione, ha quindi provveduto a dichiarare la nullità della delibera impugnata, con conseguente condanna del condominio al pagamento delle spese di lite.
La trasparenza della gestione condominiale e l'indicazione specifica e dettagliata della misura del compenso dell'amministratore.
La riforma del condominio di cui alla legge n. 220/2012 ha introdotto numerose disposizioni atte a garantire una maggiore trasparenza nella gestione condominiale, dall'obbligo di rendere conoscibili ai condomini e ai terzi le generalità dell'amministratore a quello di consentire l'accesso alla documentazione, dall'anagrafe condominiale all'apertura del conto corrente, fino ai criteri di redazione e tenuta della contabilità condominiale. L'obbligo dell'amministratore di dettagliare ai condomini l'ammontare del proprio compenso si inserisce quindi in questo contesto di maggiore trasparenza e verificabilità delle gestioni condominiali.
Quanto sia importante questo adempimento agli occhi del legislatore (sono infatti frequenti le contestazioni dei compensi degli amministratori che sfociano in vere e proprie cause) lo testimonia la sanzione espressamente prevista dal quattordicesimo comma dell'art. 1129 c.c. che, come anticipato, è quella della nullità.
Per comprendere appieno detta affermazione occorre considerare come la conseguenza più frequente dell'invalidità di una deliberazione assembleare sia quella dell'annullabilità (che comporta il venir meno degli effetti dell'atto soltanto a far data dalla pronuncia giudiziale di annullamento), laddove invece la nullità, soprattutto a seguito del famoso intervento delle sezioni unite della Cassazione del 2005, si configura soltanto nei casi più gravi delineati dalla giurisprudenza o, appunto, espressamente individuati dal legislatore.
Molto gravi sono infatti le conseguenze della declaratoria della nullità di una delibera condominiale. In questi casi gli effetti che ne derivano sono per così dire azzerati, poiché la delibera perde efficacia a partire fin dalla sua adozione.
Questo vuol dire che l'amministratore nominato dall'assemblea, una volta dichiarata nulla la sottostante deliberazione, non può più essere considerato tale a decorrere fin dal primo giorno del suo incarico, con evidenti e gravi ricadute applicative dal punto di vista dell'efficacia e del valore giuridico degli atti posti in essere in qualità di legale rappresentante della compagine condominiale.
Anche dal punto del diritto al compenso sorgono notevoli difficoltà, perché, a ben vedere, alla dichiarazione giudiziale della nullità della delibera di nomina dovrebbe conseguire la nullità del contratto di mandato e, quindi, la mancanza di causa per il pagamento dell'emolumento, del quale potrebbe anche essere pretesa la restituzione da parte dei condomini (salva, forse, la possibilità per l'amministratore di trattenerne una parte a titolo di indennità per l'effettiva attività comunque svolta nell'interesse del condominio).
La pronuncia del Tribunale di Milano. Il Tribunale di Milano, come detto, accogliendo la domanda dei condomini diretta alla dichiarazione della nullità della delibera di conferma dell'amministratore, ha quindi evidenziato come l'organo gestorio del condominio, in base al nuovo disposto di cui all'art. 1129 c.c., sia obbligato, a pena di nullità della nomina, a specificare analiticamente l'importo dovuto a titolo di compenso per l'attività svolta sia in caso di nomina di un nuovo amministratore sia in caso di conferma di quello uscente.
Differenti interpretazioni di questo fondamentale diritto dei condomini a poter scegliere in maniera informata e trasparente il proprio amministratore, anche sulla base della misura del compenso da questi richiesto in via preventiva, finirebbero infatti per svuotare di significato l'apprezzabile contenuto della disposizione in questione e continuerebbero a lasciare i condomini in balia di amministratori poco diligenti, mantenendo elevato il rischio di contenzioso giudiziale.
Occorre infatti evidenziare come la menzionata novella di cui all'art. 1129 c.c. vada a cadere in un contesto nel quale gli amministratori, salvo rare eccezioni, non hanno quasi mai specificato in maniera analitica ai condomini il preventivo del proprio compenso (con particolare riguardo alle c.d. spese vive).
A questo proposito è utile ricordare come la specificazione analitica del compenso non riguardi ovviamente soltanto l'ammontare del medesimo ma, piuttosto, l'elencazione delle attività che si intendono comprese nel medesimo e le condizioni economiche delle stesse (se, tanto per fare degli esempi, siano o meno comprese nella misura del compenso proposta ai condomini l'attività di convocazione delle assemblee ordinaria e straordinarie e la presenza dell'amministratore alle stesse, la gestione retributiva e contributiva dei dipendenti del condominio, la redazione di lettere e diffide ecc.) (articolo ItaliaOggi Sette del 23.05.2016).

URBANISTICAAree urbanizzate da cedere.
L'azienda che subentra nella lottizzazione deve cedere gratis al comune le aree urbanizzate come prevedeva la convenzione rimasta inadempiuta dal dante causa. Il contratto di compravendita del complesso residenziale indica in modo esplicito la necessità di cedere i posti auto all'amministrazione locale: la sottoscrizione dell'atto interrompe il decorso del termine di prescrizione ed equivale al riconoscimento del diritto dell'ente.

È quanto emerge dalla sentenza 04.04.2016 n. 352, pubblicata dal TAR Veneto, Sez. II.
Accolto il ricorso del Comune: scatta il trasferimento senza oneri degli oltre cinquanta posti auto previsti dall'originari convenzione firmata nel lontano 1982 e tenuta in vita dalla compravendita sottoscritta nel 2002 dall'azienda.
L'acquirente rinuncia in modo tacito alla prescrizione nel momento in cui ha prende carico l'obbligo relativo alle opere di urbanizzazione previsto dalla lottizzazione. Il riconoscimento del diritto non ha natura negoziale ma è un atto giuridico in senso stretto di carattere non recettizio.
 E anche la rinuncia alla prescrizione rappresenta un negozio non recettizio: la validità prescinde dalla conoscenze che ne ha l'interessato, mentre risulta sufficiente che la volontà risulti espressa in modo inequivocabile (articolo ItaliaOggi Sette del 30.05.2016).
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MASSIMA
1. Preliminarmente, deve essere respinta l’eccezione d’inammissibilità del ricorso, non risultando alcuna contraddittorietà tra le domande proposte dal Comune in via alternativa, essendo queste, almeno nella prospettazione del ricorrente, entrambe volte ad ottenere l’esecuzione della convenzione di lottizzazione del 1982, e ciò, o attraverso la cessione delle aree destinate ad opere di urbanizzazione, ovvero, nel caso di riconosciuta impossibilità materiale o giuridica di cessione, attraverso la monetizzazione delle stesse, e dunque attraverso il pagamento del loro controvalore pecuniario.

2. Nel merito, deve essere innanzitutto respinta l’eccezione di intervenuta prescrizione del diritto fatto valere, in quanto questo, se pure trae origine dalla convenzione del 05.03.1982 come modificata dalla convenzione del 16.03.1990, rimasta in tale parte inadempiuta, è stato confermato nella sua persistenza dalla odierna resistente nell’atto di compravendita dell’11.05.2002, dove si era dichiarato: “la parte acquirente si impegna a cedere al Comune di Eraclea, come stabilito nelle sopracitate convenzioni i mappali 1068, 1067, 1054, 1055, 1104 e 1105, nonché a cedere gratuitamente numero 54 posti auto e le strade di accesso che dovranno, sia gli uni che le altre, essere realizzate a cura e spesa della parte acquirente come già più sopra stabilito”.

E’ dunque evidente che con tale atto la In.Aq., ammettendo l’esistenza del diritto dell’amministrazione alla cessione dei mappali in questione, ha interrotto il decorso della prescrizione, ai sensi dell’art. 2944 c.c., ovvero, ove questa fosse già nel frattempo maturata, ha tacitamente rinunciato a farla valere ai sensi dell’art. 2937 c.c..
Né è di ostacolo alla configurazione del riconoscimento del diritto di cui all’art. 2944 c.c. o della rinuncia alla prescrizione di cui all’art. 2937 c.c., il fatto che l’impegno ad adempiere sia stato manifestato nell’ambito di un contratto al quale è rimasta estranea la P.A. creditrice; in quanto, il riconoscimento del diritto contemplato dall’art. 2944 c.c. non coincide necessariamente con quello previsto dall’art. 1988 c.c. potendo estrinsecarsi in qualunque fatto che implichi comunque l’ammissione dell’esistenza del diritto, e non avendo natura negoziale, ma costituendo un atto giuridico in senso stretto di carattere non recettizio (cfr. Cass. n. 5324/2005).
Analogamente, con riferimento alla seconda ipotesi, la Cassazione (n. 13870/2009) ha affermato che “
La rinuncia alla prescrizione -espressamente prevista dall'art. 2937 cod. civ.- è un negozio unilaterale non recettizio, la cui validità ed efficacia prescinde dalla conoscenza che ne abbia il soggetto interessato, essendo necessario soltanto che la volontà del rinunciante risulti in modo inequivocabile”.
Inoltre, con la delibera della Giunta Comunale n. 157 del 01.08.2007 si dà fra l’altro atto della disponibilità manifestata da parte di In.Aq. ad assolvere ai propri obblighi convenzionali mediante la cessione delle aree in questione.
In ogni caso, poi, con la nota del 17.04.2008 (doc. 13 Comune) la In.Aq. ha nuovamente riconosciuto la persistenza del proprio obbligo di cedere le aree urbanizzate, sia pure opponendo la pretesa a vedersi rimborsate le spese di realizzazione del parcheggio e della viabilità.
Pertanto, il comportamento della odierna resistente è stato sempre inequivoco nell’ammissione dell’esistenza del diritto del Comune ad ottenere la cessione delle aree in forza della convenzione di lottizzazione (in questo accompagnato o meno da una controprestazione), e ciò con effetti interruttivi del decorso della prescrizione.
3.1. Venendo al merito delle domande proposte dal Comune di Eraclea, si osserva che dagli atti depositati in giudizio, ed in particolare dalla determinazione del 17.05.2012, con la quale il primo aveva invitato la In.Aq. a provvedere al pagamento della somma di € 206.400,00, si ricava come l’Ufficio comunale di Edilizia Privata avesse accertato che la dotazione minima dei posti auto ad uso dell’immobile realizzato dalla dante causa di In.Aq. comprendeva anche i 54 parcheggi soggetti a cessione, per cui tali posti non potevano essere ceduti al Comune, in quanto sarebbe “venuto meno il numero minimo di posti auto previsti dalla legge in relazione alla volumetria edilizia realizzata da Im.Ve./In.Aq. s.r.l.”.
Di qui, secondo l’amministrazione, i presupposti per la monetizzazione imposta a partire dalla detta nota del 17.05.2012.
3.2. Ora ritiene il Collegio che tale accertamento, peraltro contestato dalla resistente che oppone la non necessità di utilizzare a propri fini le aree soggette a cessione, non contenga elementi effettivamente ostativi alla cessione dell’area destinata a parcheggio, come richiesta in via principale dal Comune con il presente ricorso; non essendovi alcuna impossibilità giuridica in tal senso.
Ed infatti,
i posti auto in questione, prima ancora che essere destinati ad integrare la dotazione minima di posti auto prevista dalla legge in relazione alla volumetria edilizia realizzata In.Aq. s.r.l., debbono essere messi a diposizione della collettività al fine di soddisfare gli standard costruttivi previsti dal piano di lottizzazione approvato. Non essendo possibile privare un’area della sua dotazione minima di standard senza una contestuale, effettiva e funzionale indicazione di altre aree di parcheggio idonee a salvaguardare il requisito minimo ex lege. E dunque, proprio l’indisponibilità del bene, dovuta al fatto che questo è essenziale per garantire la legittimità dell’insediamento realizzato, renderebbe semmai illegittima la commutazione dell’area in prestazione patrimoniale, che lascerebbe la prima nella disponibilità del privato, con sottoposizione della stessa ad un regime privatistico (cfr. Cons. St. sent. n. 4183/2014).
3.3. Al riguardo
pare utile ricordare il differente regime cui sono sottoposti i parcheggi pubblici di standard e i parcheggi privati di pertinenza delle singole unità immobiliari ex L. 122 del 1989.
Ed infatti, come efficacemente sintetizzato dal Consiglio di Stato (sent. n. 4183/2014),
i parcheggi destinati al completamento degli standard sono previsti dall’art. 41-quinquies della L. n. 1150 del 1942, insieme agli spazi pubblici e al verde pubblico, e regolati dal D.M. 02.04.1968 n. 1444. La loro funzione è quella di consentire un ordinato sviluppo del territorio ed alleviare il carico urbanistico, come dimostra il modo di computo degli standard pubblico relativo ai parcheggi in quanto opere di urbanizzazione primaria, in aggiunta alle superfici a parcheggio previste dall'art. 18 L. n. 765 del 1967 (che ha introdotto l’art. 41-sexies nella L. n. 1150 del 1942).
Al contrario,
i parcheggi privati disciplinati dal citato art. 41-sexies e dall’articolo 9 della L. 122 del 1989, sono di proprietà privata, riservati agli abitanti delle unità residenziali e sono asserviti all’immobile con vincolo di pertinenzialità. La funzione è certamente simile (il decongestionamento della viabilità pubblica tramite l’agevolazione della costruzione di spazi di parcheggio degli autoveicoli dei proprietari dei beni immobili) ma la disciplina è notevolmente diversa, sia in relazione al computo degli spazi che in merito al regime proprietario, stante il vincolo pertinenziale che si instaura con l’unità immobiliare principale.
3.4. Alla luce di tali premesse, la pretesa del Comune, fatta valere prima con la diffida del 22.05.2013 e poi con il presente ricorso, di ottenere, innanzitutto, la cessione delle aree, appare perfettamente legittima in quanto coerente con la funzione stessa degli standard urbanistici e con gli interessi pubblici di cui è portatrice l’amministrazione.
3.5. Viceversa, la questione dell’eventuale insufficienza di parcheggi pertinenziali all’edificio di proprietà della resistente, potrà trovare altre soluzioni, anche in eventuali accordi tra quest’ultima e il Comune.
4. Va poi giudicata infondata la pretesa della società resistente di ottenere il rimborso delle spese per la realizzazione delle opere di urbanizzazione in questione, in quanto queste, in base alla convenzione del 05.03.1982, e come confermato nella clausola dell’atto di compravendita dell’11.05.2002 sopra richiamata, dovevano essere realizzate a cura e spese delle ditte lottizzanti; e non essendo le opere di urbanizzazione primaria in oggetto incluse fra quelle soggette a concessione trentennale.
5. In conclusione,
il ricorso deve essere accolto disponendo il trasferimento, ai sensi dell’art. 2932 c.c., in favore del Comune di Eraclea della proprietà dei mappali 1068, 1067, 1054, 1055, 1104 e 1105 del F. 58, aventi una superficie di complessivi mq. 1376, ed ordinando al competente Conservatore dei registri immobiliari di procedere alle relative trascrizioni.

EDILIZIA PRIVATAAbusivo l'ingresso indipendente. Il comune ordina la demolizione. Ma non con la sanzione. Sentenza del Tar Basilicata: mai assimilabile a portafinestra l'accesso all'abitazione.
Viola il Testo unico dell'edilizia il singolo condomino che realizza un ingresso indipendente a casa sua non previsto dall'originario progetto del fabbricato, mentre tutti gli altri proprietari esclusivi continuano a usare le scale per rincasare.
Altro che «porta-finestra»; deve essere esclusa ogni assimilazione per l'opera che costituisce l'accesso principale all'unità immobiliare. Il tutto mentre l'apertura del varco costituisce invece una «variazione essenziale» che risulta illecita sulla base dell'articolo 32, n. 1, lettera d) del dpr 380/2001. Il comune, tuttavia, non può contemporaneamente disporre la riduzione in pristino nel fabbricato e infliggere la sanzione pecuniaria al responsabile dell'abuso.

È quanto emerge dalla sentenza 26.03.2016 n. 297, pubblicata dalla I Sez. TAR Basilicata.
Caratteristiche modificate. Il ricorso del proprietario è accolto ma soltanto perché il provvedimento dell'amministrazione locale cade in un'«insanabile contraddizione» laddove applica due sanzioni incompatibili. Nessun dubbio che sussista l'inosservanza delle norme di legge: l'ingresso autonomo fortemente voluto dal singolo condomino altera il prospetto dell'edificio rispetto a ciò che risulta dal titolo edilizio e incide anche sulla consistenza fisica dell'immobile; insomma: cambiano, e di molto, le caratteristiche rispetto all'intervento edilizio assentito.
Sopralluogo decisivo. L'abuso è scoperto durante un sopralluogo di vigili urbani e tecnici del comune realizzato qualche mese fa: dalla verifica emerge che lo stato dei luoghi è difforme dalla licenza edilizia rilasciata quasi quarant'anni or sono. Il punto è che anche per l'appartamento incriminato l'ingresso dovrebbe trovarsi lungo le scale condominiali in modo del tutto analogo agli altri, come emerge dalla concessione: invece il punto d'accesso all'unità immobiliare è localizzato altrove, su un altro lato dell'edificio, in corrispondenza di quello che sarebbe dovuto essere un bagno con finestra, almeno stando al progetto presentato, che il comune puntualmente deposita agli atti del processo.
Atto vincolato. È lo stesso titolo edilizio che risale al 1967 a imporre ai destinatari di attenersi al progetto presentato. E contro l'ordine di demolizione non c'è affidamento incolpevole che tenga: non conta che l'attuale proprietario dell'immobile non sia stato committente né esecutore dell'opera contro legge e anzi abbia acquistato l'appartamento nello stato di fatto e diritto in cui si trova oggi.
In realtà l'ordine di abbattere l'abuso edilizio come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia costituisce un atto vincolato: non c'è dunque bisogno di una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né di una comparazione rispetto agli interessi privati coinvolti e sacrificati.
Affidamento escluso. Risulta escluso che possa esservi un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva: il manufatto contro legge non può essere sanato per il mero decorso del tempo e il proprietario non può lamentarsi perché l'amministrazione non ha provveduto prima a ordinare di buttarlo giù.
Insomma: l'ordinanza di demolizione ben può essere emanata nei confronti dell'attuale proprietario dell'immobile anche se egli non è responsabile dell'abuso perché il provvedimento ha carattere ripristinatorio non si risolve nell'accertare il dolo o la colpa del soggetto cui la trasgressione è imputata.
Notifica non dovuta. Non giova al proprietario prendersela con il Comune che non avrebbe contestato irregolarità agli altri condomini: gli appartamenti dei piani superiori non hanno una porta di ingresso identica per misura e posizione a quella dell'immobile incriminato.
Inutile dunque sostenere che l'ordinanza impugnata doveva essere notificata anche a tutti gli altri condomini, visto che l'apertura del varco su di un altro prospetto dell'edificio riguarda soltanto il ricorrente. L'ente locale, tuttavia, non poteva imporre sia la demolizione sia la sanzione pecuniaria (articolo ItaliaOggi Sette del 30.05.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
6. Col secondo motivo, si è sostenuto che l'ordinanza di demolizione n. 13/2015 sarebbe illegittima per carenza di motivazione e per violazione dei principi di diritto, primo tra tutti quello dell’affidamento incolpevole del ricorrente, in quanto:
- le opere contestate come abusive risulterebbero essere state edificate da notevole lasso di tempo;
- l’Amministrazione resistente non avrebbe mai contestato e/o eccepito alcuna irregolarità per il passato;
- il sig. Gi.An.Do., al momento della realizzazione delle opere, non sarebbe stato né proprietario, né esecutore e né committente dei lavori, avendo acquistato l’appartamento in questione nello stato di fatto e di diritto in cui oggi si trova.
6.1. La doglianza va disattesa.
In senso contrario, va richiamato il condivisibile orientamento, secondo cui
l’ordine di demolizione di opere abusive, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato e non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione; non vi è un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il mero decorso del tempo non sana, e l’interessato non può dolersi del fatto che l’Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi (cfr., ex multis, TAR Lazio - sez. I, 27.11.2015, n. 13449; TAR Basilicata, 10.03.2015, n. 164; id. 29.11.2014, n. 813; C.d.S., sez. IV, 11.01.2011, n. 79).
Peraltro,
l’ordinanza di demolizione di una costruzione abusiva può legittimamente essere emanata nei confronti del proprietario attuale, anche se non responsabile dell’abuso, atteso che l’abuso edilizio costituisce illecito permanente e l’ordinanza stessa ha carattere ripristinatorio e non prevede l’accertamento del dolo o della colpa del soggetto cui si imputa la trasgressione; l’ordine di demolizione e gli altri provvedimenti repressivi, quindi, devono considerarsi legittimamente rivolti nei confronti di chi abbia la disponibilità materiale dell’opera, indipendentemente dal fatto che l'abbia concretamente realizzata (cfr. TAR Lazio, sez. I, 14.08.2015, n. 10829).

EDILIZIA PRIVATA: L’ordine di demolizione di opere abusive, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato e non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione; non vi è un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il mero decorso del tempo non sana, e l’interessato non può dolersi del fatto che l’Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi.
Peraltro,
l’ordinanza di demolizione di una costruzione abusiva può legittimamente essere emanata nei confronti del proprietario attuale, anche se non responsabile dell’abuso, atteso che l’abuso edilizio costituisce illecito permanente e l’ordinanza stessa ha carattere ripristinatorio e non prevede l’accertamento del dolo o della colpa del soggetto cui si imputa la trasgressione; l’ordine di demolizione e gli altri provvedimenti repressivi, quindi, devono considerarsi legittimamente rivolti nei confronti di chi abbia la disponibilità materiale dell’opera, indipendentemente dal fatto che l'abbia concretamente realizzata.
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6. Col secondo motivo, si è sostenuto che l'ordinanza di demolizione n. 13/2015 sarebbe illegittima per carenza di motivazione e per violazione dei principi di diritto, primo tra tutti quello dell’affidamento incolpevole del ricorrente, in quanto:
- le opere contestate come abusive risulterebbero essere state edificate da notevole lasso di tempo;
- l’Amministrazione resistente non avrebbe mai contestato e/o eccepito alcuna irregolarità per il passato;
- il sig. Gi.An.Do., al momento della realizzazione delle opere, non sarebbe stato né proprietario, né esecutore e né committente dei lavori, avendo acquistato l’appartamento in questione nello stato di fatto e di diritto in cui oggi si trova.
6.1. La doglianza va disattesa.
In senso contrario, va richiamato il condivisibile orientamento, secondo cui l’ordine di demolizione di opere abusive, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato e non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione; non vi è un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il mero decorso del tempo non sana, e l’interessato non può dolersi del fatto che l’Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi (cfr., ex multis, TAR Lazio - sez. I, 27.11.2015, n. 13449; TAR Basilicata, 10.03.2015, n. 164; id. 29.11.2014, n. 813; C.d.S., sez. IV, 11.01.2011, n. 79).
Peraltro, l’ordinanza di demolizione di una costruzione abusiva può legittimamente essere emanata nei confronti del proprietario attuale, anche se non responsabile dell’abuso, atteso che l’abuso edilizio costituisce illecito permanente e l’ordinanza stessa ha carattere ripristinatorio e non prevede l’accertamento del dolo o della colpa del soggetto cui si imputa la trasgressione; l’ordine di demolizione e gli altri provvedimenti repressivi, quindi, devono considerarsi legittimamente rivolti nei confronti di chi abbia la disponibilità materiale dell’opera, indipendentemente dal fatto che l'abbia concretamente realizzata (cfr. TAR Lazio, sez. I, 14.08.2015, n. 10829) (TAR Basilicata, sentenza 26.03.2016 n. 297).

EDILIZIA PRIVATASenza strumento esecutivo commerciante fermo.
Niente permesso di costruire al commerciante che vuole ingrandirsi. Parlano chiaro le norme tecniche di attuazione del piano regolatore generale: in zona si potrà edificare solo quando saranno approvati i piani attuativi, mentre per ora possono essere autorizzati in convenzione gli impianti più grandi, in grado di creare parecchi posti di lavoro.
Addio titolo edilizio fino a quando lo strumento urbanistico esecutivo non risulterà pronto. Nel frattempo tanto basta per rispondere picche all'istanza dell'imprenditore: la partecipazione del privato al procedimento non impone al Comune di spiegare in modo puntuale perché si disattendono le osservazioni della controparte.

È quanto emerge dalla sentenza 24.03.2016 n. 1580, pubblicata dal TAR Campania-Napoli, Sez. VIII.
Prima del via libera al piano d'insediamento produttivo nell'area possono sorgere soltanto impianti con superficie superiore a 30 mila metri quadrati. E non giova all'imprenditore sostenere che il suo fondo sarebbe intercluso, in quanto circondato per intero da costruzioni e già servito dalle opere urbanistiche necessarie.
Il commerciante avrebbe titolo a costruire senza piani attuativi unicamente se ingrandisse il suo showroom su di un fondo confinante: invece il terreno dove vuole edificare è soltanto vicino all'impianto preesistente (articolo ItaliaOggi Sette del 30.05.2016).
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MASSIMA
1) Il ricorso si palesa infondato.
2) Il provvedimento di diniego fa riferimento per relationem alle motivazioni indicate nella proposta non favorevole del Responsabile del procedimento del 16.05.2013, prot. 201/U.T.C., che a sua volta richiama la nota prot. 4172 del 18.04.2013 di comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento della richiesta.
Quest’ultima indica come l’istanza non poteva essere accolta in quanto la richiesta di permesso di costruire si presenta contraria all’art. 28, comma 2, lett. c), delle N.T.A..
Le disposizioni delle N.T.A. dispongono, in generale, per la zona in questione, l’impossibilità di edificare in assenza di piani attuativi.
In particolare, la norma specificamente richiamata indica che, nelle more di approvazione dei piani attuativi (P.P.E. o P.I.P.), previa autorizzazione ed approvazione del Consiglio Comunale dello specifico schema di convenzione, possono essere assentiti con Concessione Edilizia Convenzionata, insediamenti produttivi che abbiano particolare valenza occupazionale, realizzati mediante interventi unitari estesi ad ambiti aventi una superficie non inferiore a 30.000 mq., nel rispetto dei parametri di zona ed a condizione che nell’ambito venga assicurato il rispetto degli standards.
In sostanza, quindi, il provvedimento gravato rigetta l’istanza di rilascio di permesso di costruire per l’assenza di un piano attuativo, indicando come la fattispecie in questione non rientri nell’ipotesi derogatoria a tale regime prevista nella norma richiamata.
3) Nei primi due motivi di ricorso, parte ricorrente lamenta il difetto di motivazione sotto il duplice profilo che il provvedimento gravato non sarebbe stato sufficientemente motivato e non avrebbe dato conto delle ragioni del mancato accoglimento delle osservazioni formulate dal medesimo ricorrente ai sensi dell’art. 10 bis, legge n. 241/1990.
Entrambi i profili sono privi di pregio.
Il primo in quanto il provvedimento in questione è motivato per relationem agli atti istruttori e, in particolare, all’atto di comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento della richiesta, già ricevuto da parte ricorrente.
In tale contesto la motivazione del provvedimento, facendo riferimento agli effetti ostativi di una specifica disposizione delle N.T.A., appare sufficiente a rendere palesi le ragioni del diniego. Prova ne sia che parte ricorrente ha formulato articolate osservazioni in sede procedimentale avverso il preavviso di rigetto, così mostrando di aver ben compreso le ragioni che non consentivano l’accoglimento.
Quanto al profilo della mancata valutazione delle osservazioni del ricorrente, il Collegio rileva come la partecipazione procedimentale non obbliga l'Amministrazione a dare puntuale motivazione del perché disattende le osservazioni dei privati.
Non sussiste alcun obbligo di specifica disamina e confutazione, in capo all'Amministrazione procedente, delle singole osservazioni e controdeduzioni rassegnate dalla parte nell'ambito della partecipazione procedimentale, bastando che sia dimostrata, tramite la motivazione del provvedimento, l'intervenuta acquisizione, cognizione e valutazione di tali apporti partecipativi
(TAR Molise Campobasso, sez. I, 10.12.2010, n. 1543).
Nel caso di specie l’Amministrazione ha dato specificamente conto, nello stesso provvedimento gravato, di aver considerato le osservazione della parte ricorrente e di non averle trovate idonee a orientare il provvedimento finale in senso diverso.
Il Collegio rileva, infine, come,
per i motivi indicati nei punti che seguono, in ogni caso sussistono i presupposti per fare applicazione dell’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990, trattandosi di ambito provvedimentale a carattere vincolato e risultando che il provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, considerata altresì l’applicabilità di quest’ultima norma anche alle violazioni dell’art. dall’art. 10-bis legge n. 241/1990 (TAR Sicilia Palermo, sez. I, 23.03.2011, n. 541; Consiglio Stato , sez. VI, 18.03.2011, n. 1673; TAR Puglia Lecce, sez. II, 12.09.2006, n. 4412; TAR Piemonte, sez. I, 14.06.2006, n. 2487; TAR Emilia Romagna Bologna, sez. II, 06.11.2006, n. 2875).
4) Nel terzo motivo di ricorso, parte ricorrente ha fatto valere un duplice profilo.
Il primo è che l’intervento in questione non ricadrebbe nell’ambito di disciplina della lett. c), comma 2, dell’art. 28, delle N.T.A. richiamato negli atti cui il provvedimento rimanda per relationem, bensì sarebbe applicabile la fattispecie prevista dalla lett. b) del medesimo comma 2, dell’art. 28, delle N.T.A.
Ai sensi di quest’ultima disposizione, in zona D2 è consentito, in deroga alla necessità di previa adozione di un P.P.E. o P.I.P., il rilascio del permesso di costruire diretto “nel caso di ristrutturazione o ampliamento di impianto esistente, per motivate esigenze di sviluppo dell’azienda, anche in presenza di acquisizione di nuova area confinante”, nel rispetto dei parametri di intervento delle aree destinate a standards urbanistici e delle attrezzature pubbliche.
La ricorrente ha, quindi, dedotto che il lotto in questione ha superficie di circa 19.000 mq. (superiore ai 4.000 mq. di superficie minima fondiaria per operare l’intervento diretto) e sarebbe confinante con altro lotto di sua proprietà, ponendosi quale ampliamento dell’attività commerciale esistente su quest’ultimo.
A tale riguardo, nelle osservazioni presentate ex art. 10-bis legge n. 241/1990, parte ricorrente aveva, infatti, specificato come l’edificio che si intende costruire sarebbe stato da essa stessa utilizzato per l’ampliamento dell’attività commerciale di esercizio di vicinato di vendita cucine e mobili, presente sull’altro lotto di sua proprietà.
In secondo luogo, la medesima ricorrente ha dedotto che la concreta fattispecie in esame configurerebbe una ipotesi di cosiddetto “lotto intercluso”, per essere l’area circostante interamente edificata e servita da tutte le necessarie opere di urbanizzazione; circostanza che farebbe venir meno la necessità del previo piano attuativo per l’esercizio dello ius edificandi.
Il motivo è privo di pregio sotto entrambi i profili.
4.1) Non può ricorrere l’ipotesi contemplata dalla lett. b) del comma 2, dell’art. 28, delle N.T.A., per la circostanza, già essa da sola dirimente, che i lotti in questione non sono confinanti.
Come risulta dai documenti allegati in atti, i lotti in questione sono relativamente vicini ma non confinano uno con l’altro, come invece richiede la norma invocata.
Ciò è perfettamente conforme alla ratio della disposizione, che è quella di consentire di ampliare un impianto espandendo la medesima struttura anche, eventualmente, sul fondo confinante appositamente acquisito, e non quella di consentire, come nel caso in questione, la realizzazione di nuovi impianti o strutture fisicamente staccati da quello originario, e posti in aree diverse (ancorché relativamente vicine), quali nuove e distinte strutture solo eventualmente funzionalmente collegate a quella originaria.
A nulla vale in senso contrario il richiamo operato dal ricorrente a quella giurisprudenza riguardante cessione di cubatura, che interpreta il necessario requisito della contiguità dei fondi non nel senso di mera adiacenza, trattandosi di situazioni del tutto diverse e non comparabili (in particolare, è evidente che l’incidenza urbanistica di una volumetria da realizzare deve essere valutata in riferimento ad una intera zona omogenea, complessivamente considerata: di qui la possibilità di utilizzare cubature di aree non fisicamente poste in adiacenza. L’utilizzo del medesimo modus operandi, invece, non possibile nel caso in esame, in cui la norma dà rilevanza al sito di svolgimento di una certa attività economica, consentendone il solo ampliamento, ma non la delocalizzazione, ancorché nei pressi).
4.2) Infondato risulta anche il profilo relativo all’asserita sussistenza di una fattispecie di fondo intercluso.
Si deve in questa sede ribadire il
principio di piena vincolatività delle previsioni degli strumenti urbanistici che prevedono piani attuativi, e che a quest’ultimo è possibile derogare solo in presenza della fattispecie di origine giurisprudenziale comunemente indicata come “lotto intercluso”.
In materia di governo del territorio, infatti, costituisce regola generale e imperativa il rispetto delle previsioni del p.r.g. che impongono, per una determinata zona, la pianificazione di dettaglio.
Tali prescrizioni, di solito contenute nelle n.t.a., sono vincolanti e idonee ad inibire l'intervento diretto costruttivo
(Cons. St., sez. IV, 30.12.2008, n. 6625).
Da questo principio derivano i seguenti corollari:
-
quando lo strumento urbanistico generale prevede che la sua attuazione debba aver luogo mediante un piano di livello inferiore, il rilascio del titolo edilizio può essere legittimamente disposto solo dopo che lo strumento esecutivo sia divenuto perfetto ed efficace, ovvero quando sia concluso il relativo procedimento (Cons. St., sez. V, 01.04.1997, n. 300);
-
in presenza di una normativa urbanistica generale che preveda, per il rilascio del titolo edilizio in una determinata zona, l'esistenza di un piano attuativo, non è consentito superare tale prescrizione facendo leva sulla situazione di sufficiente urbanizzazione della zona stessa (Cons. St., sez. IV, 03.11.2008, n. 5471);
-
l'assenza del piano attuativo non è surrogabile con l'imposizione di opere di urbanizzazione all'atto del rilascio del titolo edilizio; l'obbligo dell'interessato di realizzare direttamente le opere di urbanizzazione è idoneo, infatti, a sopperire solo alla mancanza fisica e materiale di tali opere ma non è in grado di colmare l'assenza dello strumento esecutivo (TAR Campania Napoli, sez. VIII, 02.07.2015, n. 3483; Cons. St., sez. IV, 26.01.1998, n. 67; Cass. pen., sez. III, 26.01.1998, n. 302; Cons. St., sez. V, 15.01.1997, n. 39);
-
non sono configurabili equipollenti al piano attuativo, il che impedisce che in sede amministrativa o giurisdizionale possano essere effettuate indagini volte a verificare se sia tecnicamente possibile edificare, vanificando la funzione propria del piano attuativo, la cui indefettibile approvazione, se ritarda, può essere stimolata dall'interessato con gli strumenti consentiti dal sistema (Cons. St., sez. IV, 30.12.2008, n. 6625);
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lo strumento attuativo è necessario anche in presenza di zone parzialmente urbanizzate che sono comunque esposte al rischio di compromissione dei valori urbanistici e nelle quali la pianificazione di dettaglio può conseguire l'effetto di correggere e compensare il disordine edificativo in atto (Cass. pen., sez. III, 19.09.2008, n. 35880).
A fronte di tale rigoroso quadro interpretativo,
è stata individuata in sede giurisprudenziale un’unica eccezione alla regola della necessaria presenza di strumenti urbanistici per la disciplina del territorio, comunemente indicata come “lotto intercluso”.
Quest’ultima ipotesi si realizza quando l'area edificabile:
a) sia l'unica a non essere stata ancora edificata;
b) si trovi in una zona integralmente già interessata da costruzioni;
c) sia dotata di tutte le opere di urbanizzazione (primarie e secondarie), previste dagli strumenti urbanistici;
d) sia valorizzata da un progetto edilizio del tutto conforme al p.r.g.

Si consente, in sostanza, l’intervento costruttivo diretto purché si accerti la sussistenza di una situazione di fatto perfettamente corrispondente a quella derivante dall'attuazione del piano esecutivo, allo scopo di evitare defatiganti attese per il privato ed inutili dispendi di attività procedimentale per l'ente pubblico (Cons. St., sez. IV, 29.01.2008, n. 268; sez. V, 03.03.2004, n. 1013; sez. IV, Sent., 10.06.2010, n. 3699).
Solo in questi casi, quindi, lo strumento urbanistico può considerarsi superfluo, in quanto è stata ormai raggiunta la piena edificazione e urbanizzazione della zona interessata, raggiungendo in tal modo la scopo e i risultati perseguiti dai piani esecutivi (i.e. piano attuativo) (Consiglio di Stato, Sez. IV, 07.12.2014 n. 5488).
Una concessione edilizia può essere, quindi, rilasciata anche in assenza del piano attuativo richiesto dalle norme di piano regolatore, solo quando venga accertato che il lotto del richiedente sia l'unico a non essere stato ancora edificato; vi sia già stata una pressoché completa edificazione dell'area (come nell'ipotesi del lotto residuale ed intercluso); si trovi in una zona che, oltre che integralmente interessata da costruzioni, sia anche dotata delle necessarie opere di urbanizzazione.
Si può quindi prescindere dalla lottizzazione convenzionata prescritta dalle norme di piano solo nei casi eccezionali in cui nel comprensorio interessato sussista una situazione di fatto corrispondente a quella che deriverebbe dall'attuazione della lottizzazione stessa, ovvero in presenza di opere di urbanizzazione primaria e secondaria pari agli standard urbanistici minimi prescritti (Consiglio di Stato, Sez. V, 31/10/2013, n. 5251; C.d.S., V, 05.12.2012, n. 6229; 05.10.2011, n. 5450; IV, 01.08.2007, n. 4276; 21.12.2006, n. 7769).
Peraltro,
la mera esistenza di infrastrutture (strade, spazi di sosta, fognature, reti di distribuzione del gas, dell'acqua e dell'energia elettrica) all'interno, e, vieppiù, all'esterno, del comparto attinto dall'attività edificatoria assentita senza previa approvazione dello strumento attuativo, non implica anche quell'adeguatezza e quella proporzionalità delle opere in parola rispetto all'aggregato urbano formatosi, la quale soltanto sarebbe idonea a soddisfare le esigenze della collettività, pari agli standards urbanistici minimi prescritti, ed esimerebbe, quindi, da ulteriori interventi per far fronte all'ulteriore aggravio derivante da nuove costruzioni.
Ed invero,
non è sufficiente un qualsiasi stadio di urbanizzazione di fatto per eludere il principio fondamentale della pianificazione e per eventualmente aumentare i guasti urbanistici già verificatisi, essendo la pianificazione dell'urbanizzazione doverosa fino a quando essa conservi una qualche utile funzione anche in aree già compromesse o edificate (TAR Puglia, Lecce, sez. III, 18.01.2005, n. 164).
Nel caso di specie parte ricorrente non ha assolutamente dimostrato ricorra tale situazione limitandosi, sia in sede di ricorso che di osservazioni ex art. 10-bis legge n. 241/1990, ad affermazioni generiche, relative alla circostanza che l’area risulterebbe lottizzata di fatto per la presenza di costruzione e urbanizzazione, del tutto insufficienti a dimostrare, come era onere della medesima parte ricorrente fare, il ricorrere delle condizioni necessarie a comprovare l’esistenza dell’invocata fattispecie.
Non è stata infatti fornita alcuna specifica indicazione sul grado di urbanizzazione dell’intera area e sulle specifiche opere di urbanizzazione ivi esistenti, né tantomeno viene dato conto dell’adeguatezza di tali opere.
5) Infondato è anche il quarto motivo di ricorso incentrato sul difetto di istruttoria e motivazione per non aver l’amministrazione procedente verificato e motivato l’inesistenza di una situazione corrispondente a quella suindicata di fondo intercluso, prendendo atto del reale stato di urbanizzazione dell’area mediante specifici e documentati atti istruttori.
Al riguardo,
ponendosi la necessità del piano attuativo quale regola generale e la presenza delle condizioni di fondo intercluso quale eccezione, l’amministrazione non ha l’obbligo di effettuare dettagliati accertamenti sul punto e assolvere specifici obblighi di motivazione prima di rigettare l’istanza di permesso di costruire, salvo che la parte richiedente alleghi circostanziati e oggettivi elementi comprovanti l’esistenza della situazione eccezionale.
6) Per quanto indicato il ricorso deve essere rigettato.

INCARICHI PROFESSIONALI: Avvocato non responsabile se la causa è difficile.
Caso giudiziario complesso: l’avvocato risponde solo per colpa e dolo, salvo che la difesa del cliente sia particolarmente complessa.
Non si può pretendere che l’avvocato sia responsabile, e risarcisca il danno al cliente, nel caso in cui il mandato affidatogli abbia implicato la soluzione di problemi tecnici particolarmente complessi.

È quanto chiarito dalla recente sentenza 16.02.2016 n. 2954 della Corte di Cassazione, Sez. II civile.
La responsabilità dell’avvocato per dolo o colpa lieve
L’avvocato non è responsabile per tutti gli errori commessi nel corso della causa, ma solo di quelli che, se evitati, avrebbero portato a un esito diverso del giudizio. In pratica è necessario dimostrare che, senza quella determinata condotta colpevole o dolosa del legale, la sentenza avrebbe avuto un contenuto più favorevole per il cliente.
Questo significa che egli non è tenuto a garantire, al proprio cliente, la vittoria della causa, ma una prestazione comunque esente da dolo o da colpa anche lieve.
Le cause e gli incarichi difficili
Un’eccezione a tale regola è costituita dal caso in cui la prestazione richiesta all’avvocato comporti la soluzione di problemi di particolare complessità: in tale ipotesi, la responsabilità del professionista è attenuata in quanto scatta solo per dolo o colpa grave.
Il codice civile (art. 2236 cod. civ.), a riguardo, stabilisce che se la prestazione (professionale) implica la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, la responsabilità del prestatore dell’opera può aversi solo per colpa grave o dolo, e non più invece nel caso di colpa lieve.
La sentenza in commento prende le mosse proprio da tale norma e ribadisce che l’avvocato può essere “assolto” dal giudizio di responsabilità professionale, anche se ha commesso un errore, quando sia chiamato ad affrontare una questione complicata, che coinvolga magari tesi o norme nuove o di non facile interpretazione. Si pensi al caso il legale deve dare soluzione a un problema tecnico particolarmente complesso: in questa ipotesi egli risponde solo per dolo o colpa grave e non per una condotta errata dovuta alla complessità del caso.
Ma chi stabilisce se la prestazione implichi o meno la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà? Il criterio standard è quello del cosiddetto “professionista medio”: in pratica, la colpa scatta tutte le volte in cui un avvocato, di media bravura, sarebbe riuscito a fare diversamente.
Pertanto, per comprendere se la bravura richiesta dal mandato ecceda o meno i limiti della preparazione e dell’abilità professionale del “professionista medio” bisogna necessariamente fare una valutazione “caso per caso” e di tipo probabilistico. Sarà ovviamente il giudice a interpretare tali criteri (commento tratto da www.laleggepertutti.it).
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MASSIMA
Come è noto,
le obbligazioni inerenti all'esercizio di un'attività professionale sono, di regola, obbligazioni di mezzi e non di risultato, in quanto il professionista, assumendo l'incarico, si impegna a prestare la propria opera per raggiungere il risultato desiderato ma non a conseguirlo. In particolare, nell'esercizio della sua attività di prestazione d'opera professionale, l'avvocato assume, in genere, verso il cliente un'obbligazione di mezzi e non di risultato: cioè egli si fa carico non già dell'obbligo di realizzare il risultato (peraltro incerto e aleatorio) che questi desidera, bensì dell'obbligo di esercitare diligentemente la propria professione, che a quel risultato deve pur sempre essere finalizzata.
Pertanto,
trattandosi dell'attività dell'avvocato, l'affermazione della responsabilità per colpa professionale implica una valutazione prognostica positiva circa il probabile esito favorevole dell'azione giudiziale che avrebbe dovuto essere proposta e diligentemente seguita.
In altri termini,
l'inadempimento del professionista (avvocato) non può essere desunto senz'altro dal mancato raggiungimento del risultato utile avuto di mira dal cliente, ma deve essere valutato alla stregua della violazione dei doveri inerenti lo svolgimento dell'attività professionale e, in particolare, al dovere di diligenza. Quest'ultimo, peraltro -trovando applicazione in subiecta materia il parametro della diligenza professionale fissato dall'art. 1176, secondo comma, c.c., in luogo del criterio generale della diligenza del buon padre di famiglia- deve essere commisurato alla natura dell'attività esercitata, sicché la diligenza che il professionista deve impiegare nello svolgimento dell'attività professionale in favore del cliente è quella media, cioè la diligenza posta nell'esercizio della propria attività dal professionista di preparazione professionale e di attenzione media (Cass. 03.03.1995 n. 2466; Cass. 18.05.1988 n. 3463).
Perciò,
la responsabilità del professionista, di regola, è disciplinata dai principi comuni sulla responsabilità contrattuale e può trovare fondamento in una gamma di atteggiamenti subiettivi, che vanno dalla semplice colpa lieve al dolo. A meno che la prestazione professionale da eseguire in concreto involga la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà: in tal caso la responsabilità del professionista è attenuata, configurandosi, secondo l'espresso disposto dell'art. 2236 c.c., solo nel caso di dolo o colpa grave, con conseguente esclusione nell'ipotesi in cui nella sua condotta si riscontrino soltanto gli estremi della colpa lieve (Cass. 11.04.1995 n. 4152; Cass. 18.10.1994 n. 8470).
L'accertamento se la prestazione professionale in concreto eseguita implichi o meno la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà (cioè se la perizia richiesta trascenda o non i limiti della preparazione e dell'abilità professionale del professionista medio), giudizio da compiere sulla base di una valutazione necessariamente probabilistica, comportando di regola l'apprezzamento di elementi di fatto e l'applicazione di nozioni tecniche, è rimesso al giudice del merito e il relativo giudizio è incensurabile in sede di legittimità, sempre che sia sorretto da motivazione congrua ed esente da vizi logici ed errori di diritto (così, fra le altre, Cass. 09.06.2004 n. 10966; Cass. 27.03.2006 n. 6967; Cass. 26.04.2010 n. 9917; Cass. 05.02.2013 n. 2638).
Occorre soltanto aggiungere, in proposito, che
nelle cause di responsabilità professionale nei confronti degli avvocati, la motivazione del giudice di merito in ordine alla valutazione prognostica circa il probabile esito dell'azione giudiziale che è stata malamente intrapresa o proseguita è una valutazione in diritto, fondata su di una previsione probabilistica di contenuto tecnico giuridico. Ma nel giudizio di cassazione tale valutazione, ancorché in diritto, assume i connotati di un giudizio di merito, il che esclude che questa Corte possa essere chiamata a controllarne l'esattezza in termini giuridici.

INCARICHI PROFESSIONALICliente informato se il processo è difficile. Tribunale di Verona. Spetta all’avvocato fornire la prova di aver spiegato all’assistito la complessità del caso.
Spetta all’avvocato che reclama il pagamento della parcella, provare, ove il cliente lamenti di non essere stato informato sulla strategia e sui rischi processuali, di averlo, invece, messo al corrente della complessità del processo.
Lo afferma il TRIBUNALE di Verona con la sentenza 26.01.2016.
Apre la vicenda, la decisione di un legale di citare in giudizio una sua cliente, per ottenere il compenso dovutogli per una serie di serie di attività di assistenza difensiva giudiziale, svolte in suo favore nell’arco di circa tre anni. La donna, però, si oppone: l’avvocato, precisa, non aveva tenuto conto degli acconti ricevuti in contanti e, comunque, era responsabile per gli esiti negativi con cui si erano conclusi diversi giudizi. Non solo. Egli non l’aveva mai informata (né all’atto del conferimento dell’incarico, né durante il suo svolgimento) delle scelte processuali e degli ostacoli da affrontare.
Il Tribunale concorda: non c’ era prova che l’avvocato avesse informato la signora delle tattiche seguite nei diversi giudizi, o delle loro criticità.
Nel sostenerlo, il giudice si sofferma sulla rilevanza e sul contenuto dell’obbligo imposto al legale, tornando a ribadire (come con sentenza 1347/2013) come l’esigenza informativa nella fase precontrattuale del rapporto col cliente, sia tesa a conseguirne un consenso realmente informato, in adesione ai principi di correttezza e diligenza (articoli 1175 e 1176 del Codice civile).
Si annoti, poi, quanto previsto dall’articolo 9 comma 4, del Decreto legge 1/2012, per il quale il professionista, prima di assumere l’incarico, deve «rendere noto al cliente il grado di complessità dell’incarico, fornendo tutte le informazioni utili circa gli oneri ipotizzabili dal momento del conferimento fino alla conclusione dell’incarico».
Del resto, la valutazione sulla sua inadempienza, è consequenziale all’indagine sulla violazione del dovere di diligenza, comprensivo dei doveri di informazione, sollecitazione e dissuasione che il legale deve osservare, anche “sconsigliandolo”, se occorre, dall’intraprendere o proseguire la lite ove appaia improbabile una soluzione positiva o probabile un esito sfavorevole o dannoso (Cassazione 16023/2002).
Avvocato responsabile, anche ove –puntualizza il Tribunale di Verona (04/07/2014)– non abbia individuato tutti gli aspetti utili per una corretta ed esauriente consulenza, informando il patrocinato con espressioni tecniche per lui incomprensibili, così inducendolo a strategie dannose. Tuttavia, nella vicenda esaminata, la dinamica dei fatti non si era potuta neanche accertare, non avendo l'avvocato provato in alcun modo l’adempimento ai propri doveri informativi.
Negato, per questo motivo, anche il diritto al compenso per gli incarichi svolti senza previa informativa al cliente
(articolo Il Sole 24 Ore del 26.05.2016).

URBANISTICA - VARI: Rettifica sull’area, va contato il parcheggio.
Compravendite. Nullo l’avviso che non tiene conto della destinazione a zona di sosta di una parte del terreno edificabile ceduto.
È nullo l’avviso di rettifica di maggior valore che non tiene conto, tra l’altro, del fatto che parte dell’area oggetto di compravendita è destinata a parcheggio con previsione, come da convenzione di lottizzazione, di cessione gratuita a favore del Comune.
Ad affermarlo è la sentenza 08.01.2016 n. 1/2/2016 della Commissione tributaria di secondo grado di Trento (presidente e relatore Biasi).
La vicenda scaturisce dal ricorso presentato dalla società acquirente un’area edificabile contro l’avviso di rettifica dell’area stessa emesso dall’agenzia delle Entrate ai fini delle imposte di registro e ipotecarie.
L’amministrazione finanziaria ha ritenuto che il prezzo di cessione del terreno fosse superiore a quello dichiarato dalle parti e, conseguentemente, lo ha elevato da 2.050.000 a 2.540.000 euro con il recupero delle relative maggiori imposte, sanzioni e interessi.
La società acquirente propone ricorso innanzi ai giudici di primo grado evidenziando, tra l’altro, che l’ufficio non ha tenuto conto del fatto che una parte del terreno ceduto era destinata a un parcheggio offerto e ceduto gratuitamente al Comune.
Il fisco si costituisce in giudizio sostenendo che la valutazione effettuata dall’agenzia del Territorio contiene elementi certi ed esaurienti che conducono ad un valore effettivamente più alto rispetto a quello dichiarato dalle parti.
La commissione tributaria di primo grado accoglie le ragioni della società ricorrente sul presupposto che l’ufficio non ha tenuto conto che l’immobile compravenduto comprendeva anche un’area con diversa destinazione urbanistica.
L’amministrazione finanziaria, allora, propone appello contestando la scarsa motivazione della sentenza dei primi giudici. La commissione tributaria di secondo grado lo respinge e condanna l’ufficio anche al pagamento delle spese processuali.
L’organo giudicante conferma in pieno la sentenza dei primi giudici la quale, anche se con una motivazione succinta, ha ritenuto più aderente alla realtà dei fatti la valutazione operata dalle parti rispetto a quella effettuata dall’ufficio.
Secondo la commissione il fisco, nel suo procedimento valutativo, ha offerto elementi più scarni e meno approfonditi rispetto a quelli dedotti dalle parti.
Di fronte ai diversi elementi valutativi offerti dai ricorrenti l’ufficio, proseguono i giudici, non ha fornito osservazioni o deduzioni idonee a pervenire a conclusioni a suo favore.
In modo particolare la commissione sottolinea che la perizia dell’ufficio non ha tenuto conto del fatto che una parte, ancorché ridotta, dell’area era costituita da un terreno destinato a parcheggi, offerto e ceduto gratuitamente a favore del Comune, come da relativa convenzione di lottizzazione.
Relativamente alla zona di ubicazione dell’area, l’organo giudicante sottolinea inoltre che l’ufficio non ha considerato, in senso negativo, la vicinanza dei terreni venduti alla stazione ferroviaria.
Infine, per quanto riguarda la comparazione con atti di compravendita di terreni similari, il collegio osserva che le compravendite portate a paragone e a supporto dall’amministrazione finanziaria hanno ad oggetto terreni edificabili di dimensioni ridotte rispetto a quello oggetto di contestazione e ubicati in posizioni più centrali e meglio servite e, di conseguenza, non raffrontabili (
articolo Il Sole 24 Ore del 23.05.2016).

TRIBUTI: Giudizio ordinario in materia di Cosap. Lo hanno ribadito le s.u. della Cassazione.
Sul canone per l'occupazione di spazi e aree pubbliche decide il giudice ordinario.

Lo hanno ribadito i giudici delle Sezz. unite civili della Corte di Cassazione con l'ordinanza 07.01.2016 n. 61.
Secondo quanto affermato dalla giurisprudenza della stessa Cassazione (Cass. del 1998 n. 6666, 21215 del 2004, 3872 del 2010) la Cosap, ha natura di imposta e trova la sua giustificazione nell'espressione di capacità contributiva rappresentata dal godimento di tipo esclusivo di spazi e aree altrimenti compresi nel sistema della viabilità pubblica.
Secondo gli Ermellini, tale canone per l'occupazione di aree pubbliche, Cosap, può essere letto come un quid ontologicamente diverso, sotto il profilo strettamente giuridico, dal tributo per la medesima occupazione (Tosap), in quanto configurato come corrispettivo di una concessione, reale o presunta (nel caso di occupazione abusiva), dell'uso esclusivo o speciale di beni pubblici, e non già dovuto per la sottrazione al sistema della viabilità di un'area o spazio pubblico, era stato statuito (si vedano: s.u. ordinanze n. 12167 del 2003 e n. 14864 del 2006 n. 14864, sentenza n. 1239 del 2005) che la giurisdizione sulle relative controversie spettasse rispettivamente al giudice ordinario e al giudice tributario, stante la possibile coesistenza dei due obblighi per effetto dell'art. 31, comma 20, della legge n. 448 del 1998 che, nel modificare il comma 1 dell'art. 63 del dlgs n. 446 del 1997, stabilì che «i comuni possono», adottando appositi regolamenti, «escludere l'applicazione nel proprio territorio della Tosap», e, in alternativa all'applicazione di tale tributo, «prevedere che l'occupazione, sia permanente che temporanea, degli spazi e delle aree», elencati nella norma sostituita, sia assoggettata a un canone di concessione (Cosap) determinato in base a tariffa.
Un volta evidenziata la differenza fra Tosap e Cosap derivante dalla diversità del titolo che ne legittima l'applicazione (da individuarsi, rispettivamente, per la prima nel fatto materiale dell'occupazione del suolo pubblico, e per il secondo in un provvedimento amministrativo, effettivamente adottato o fittiziamente ritenuto sussistente, di concessione dell'uso esclusivo o speciale di detto suolo), i giudici di piazza Cavour hanno escluso la natura di tributo del Cosap assoggettava alla giurisdizione delle commissioni tributarie le controversie concernenti i tributi comunali e locali e pertanto la competenza giurisdizionale era del giudice ordinario (articolo ItaliaOggi Sette del 23.05.2016).

INCARICHI PROFESSIONALI: L’obbligo di (corretta e veritiera) informazione al cliente.
L’art. 40 CDF (ora, 27 ncdf), nel disciplinare gli obblighi di informazione, impone in ogni caso una corretta e veritiera informazione a prescindere dalla innocuità reale o virtuale delle comunicazioni non corrispondenti al vero. Un rapporto fiduciario quale quello che lega l’avvocato al cliente non può certamente tollerare un comportamento che violi un aspetto essenziale del “rapporto fiduciario” proprio consistente nella completezza, compiutezza e verità delle informazioni destinate all’assistito.
Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Perfetti, rel. Piacci), sentenza del 24.09.2015 n. 147/2015.
NOTA:
In senso conforme, tra le altre, C.N.F. 17.09.2012, n. 117 (link a www.codicedeontologico-cnf.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: La violazione dell’obbligo di informare il cliente sullo stato della causa.
Pone in essere un comportamento deontologicamente rilevante il professionista che ometta di informare il cliente sullo stato della causa e, di conseguenza, sull’esito della stessa, così venendo meno ai doveri di dignità, correttezza e decoro della professione forense in violazione degli artt. 38, 40 e 42 c.d. (ora, rispettivamente, 26, 27 e 33 ncdf).
Deve infatti ritenersi che un rapporto fiduciario, quale è quello che lega l’avvocato al suo cliente, (art. 35 Cod. Deont. Forense, ora 11 ncdf) non può tollerare alcun comportamento che violi un aspetto essenziale della “fiducia”, consistente nella completezza e verità delle informazioni destinate all’assistito (Nel caso di specie, in applicazione del principio di cui in massima, il CNF ha ritenuto congrua la sanzione disciplinare della censura).

Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Perfetti, rel. Piacci), sentenza del 24.09.2015 n. 147/2015.
NOTA:
In senso conforme, tra le altre, CNF 30/12/2013 n. 223 (link a www.codicedeontologico-cnf.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: L’obbligo di comunicare tempestivamente all’assistito l’avvenuta emissione della sentenza.
Il dovere di correttezza e di diligenza, di cui il dovere di informazione esplicitamente previsto dall’art. 40 c.d. (ora, 27 ncdf) è espressione, impone, anche al difensore d’ufficio, di comunicare tempestivamente all’assistito l’avvenuta emissione di una sentenza, tanto più se di condanna, mettendolo così in condizione di valutare l’opportunità e la convenienza di interporre appello, altrimenti preclusagli in radice, a prescindere dalla inesistenza delle condizioni per proporre un’utile impugnazione, circostanza questa che può rilevare sul diverso piano della responsabilità professionale al fine di escluderla, ma non fa venire meno il dovere deontologico di informazione al cui adempimento il professionista è in ogni caso tenuto (nel caso di specie, in applicazione del principio di cui in massima, il CNF ha ritenuto congrua la sanzione disciplinare della censura).
Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Perfetti, rel. Piacci), sentenza del 24.09.2015 n. 147/2015.
NOTA:
In senso conforme, tra le altre, CNF 19/10/2010 n. 85 (link a www.codicedeontologico-cnf.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: La (potenziale) rilevanza deontologica della vita privata del professionista.
Deve ritenersi disciplinarmente responsabile l’avvocato per le condotte che, pur non riguardando strictu sensu l’esercizio della professione, ledano comunque gli elementari doveri di probità, dignità e decoro e, riflettendosi negativamente sull’attività professionale, compromettono l’immagine dell’avvocatura quale entità astratta con contestuale perdita di credibilità della categoria.
La violazione deontologica, peraltro, sussiste anche a prescindere dalla notorietà dei fatti, poiché in ogni caso l’immagine dell’avvocato risulta compromessa agli occhi dei creditori e degli operatori del diritto.

Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Perfetti, rel. Florio), sentenza del 24.09.2015 n. 145/2015.
NOTA:
In senso conforme, tra le altre, Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Perfetti, rel. De Giorgi), sentenza del 24.09.2015, n. 141, Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Tacchini, rel. De Giorgi), sentenza del 14.03.2015, n. 59, Consiglio Nazionale Forense (pres. Alpa, rel. Ferina), sentenza del 24.07.2014, n. 102, Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Salazar, rel. Broccardo), sentenza del 17.07.2014, n. 94 (link a www.codicedeontologico-cnf.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: L'avvocato espone il prezzo? Il Cnf vieta la pubblicità.
È vietata la pubblicità dell'avvocato che mette in primo piano il prezzo. Per di più se la tariffa è «infima» o «a forfait».
Il Consiglio nazionale forense ritorna ancora una volta sulle liberalizzazioni introdotte dal decreto Bersani del 2006 in materia di tariffe e pubblicità ponendo due paletti agli iscritti all'albo: che la pubblicità informativa non sia «indiscriminata» e che i servizi professionali non siano offerti «a costi molto bassi ovvero determinati forfettariamente senza alcuna proporzione rispetto all'attività svolta».
È il principio contenuto nella sentenza 24.09.2015 n. 142/2015 del Cnf pubblicata sul portale dedicato alla deontologia del Consiglio nazionale.
In particolare, l'iscritto aveva pubblicato un box pubblicitario in un quotidiano con evidenza riservata in via quasi esclusiva e «palesemente suggestiva» al costo della prestazione offerta, violando così, secondo il Cnf, i generali principi di probità e decoro e lo specifico divieto di accaparramento della clientela con mezzi non idonei a fornire ogni adeguata informazione a soggetti che non sono necessariamente consapevoli rispetto alla natura e al valore della prestazione offerta.
Quanto alla tariffa applicata, secondo la sentenza l'avvocato ha l'obbligo di informare il cliente anche in ordine ai costi delle prestazioni ed è tenuto a rispettare il principio di proporzionalità tra attività svolta e compensi pretesi. I costi predeterminati, quindi, non possono essere «molto bassi, dovendo parametrarsi l'adeguatezza del compenso al valore e all'importanza della singola pratica trattata e non già determinarsi forfettariamente senza alcuna proporzione all'attività svolta».
Infine, la sentenza stabilisce che la pubblicità mediante la quale il professionista, per condizionare la scelta dei potenziali clienti, e senza adeguati requisiti informativi, offra prestazioni professionali, viola le prescrizioni normative nel momento in cui il messaggio viene formulato con modalità attrattive della clientela e con mezzi suggestivi e incompatibili con la dignità e con il decoro del professionista (articolo ItaliaOggi del 24.05.2016).
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Pubblicità informativa: vietato offrire prestazioni professionali verso compensi infimi o a forfait.
Pur a seguito dell’entrata in vigore della normativa nota come “Bersani”, la pubblicità informativa dell’avvocato deve essere svolta con modalità che non siano lesive della dignità e del decoro, sicché è da ritenersi deontologicamente vietata una pubblicità indiscriminata (ed in particolare quella comparativa ed elogiativa) così come una proposta commerciale che offra servizi professionali a costi molto bassi ovvero determinati forfettariamente senza alcuna proporzione all’attività svolta, a prescindere dalla corrispondenza o meno alle indicazioni tariffarie.
Infatti, la peculiarità e la specificità della professione forense, in virtù della sua funzione sociale, impongono, conformemente alla normativa comunitaria e alla costante sua interpretazione da parte della Corte di Giustizia, le predette limitazioni connesse alla dignità ed al decoro della professione, la cui verifica è dall’ordinamento affidata al potere-dovere del giudice disciplinare (nel caso di specie trattavasi di box pubblicitario in un quotidiano, con evidenza riservata in via pressoché esclusiva e palesemente suggestiva al costo della prestazione offerta).

Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Perfetti, rel. Ferina), sentenza 24.09.2015 n. 142/2015.
NOTA:
In senso conforme, tra le altre, Consiglio Nazionale Forense (pres. Alpa, rel. Damascelli), sentenza del 11.03.2015, n. 26, Consiglio Nazionale Forense (Pres. f.f. Salazar, Rel. Sica), sentenza del 13.03.2013, n. 37 Consiglio Nazionale Forense (Pres. f.f. Vermiglio, Rel. Tacchini), sentenza del 28.12.2012, n. 204 (link a www.codicedeontologico-cnf.it).

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