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AGGIORNAMENTO AL 23.06.2016 |
ã |
UTILITA' |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Manuale
operativo Sistri
(Ministero
dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare,
07.06.2016). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U.
17.06.2016 n. 140 "Regolamento di disciplina delle
funzioni del Dipartimento della funzione pubblica della
Presidenza del Consiglio dei ministri in materia di
misurazione e valutazione della performance delle pubbliche
amministrazioni" (D.P.R.
09.05.2016 n. 105). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
INCARICHI PROFESSIONALI: A.
Galbiati,
I servizi legali nel nuovo Codice dei Contratti
(20.06.2016 - link a www.studiospallino.it). |
APPALTI:
Appalti Griglia delle dichiarazioni la cui irregolarità
essenziale/non essenziale comporta esclusione o soccorso
istruttorio (19.06.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Decreto-Scia, nuovo computo dei termini nei procedimenti: un
salto nel buio (17.06.2016 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI: L.
Cocchi,
Prime osservazioni sul nuovo
rito degli appalti
(16.06.2016 - tratto da
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Appalti: le forme dei contratti conseguenti ai sistemi di
gara, in attuazione dell'articolo 32, comma 14, del d.lgs.
50/2016 (15.06.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI:
G. Taccogna,
L’aggiudicazione degli appalti pubblici nel
d.lgs. n. 50 del 2016 - prime considerazioni (14.06.2016
- tratto da
www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Incarichi ad avvocati. Stralcio slides per procedura
semplificata (14.06.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI:
Modello di relazione unica finale e di programmazione
controlli con campi moduli, per semplificare la compilazione
(07.06.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI:
Appalti: modalità per il controllo sull'esecuzione dei
contratti (art. 31, comma 12) (04.06.2016
- link a http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI:
Appalti: il conflitto di interesse nega la fiduciarietà
(04.06.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI:
Appalti: Modello di relazione unica finale (articolo 99)
(02.06.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI:
Appalti: proposta di aggiudicazione, aggiudicazione ed
efficacia. Iter e suggerimenti (01.06.2016
- link a http://luigioliveri.blogspot.it). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
PUBBLICO IMPIEGO:
OGGETTO: Corresponsione dell'assegno per il nucleo
familiare - Rivalutazione dei livelli di reddito a decorrere
dal 01.07.2016 (MEF-RGS,
circolare 14.06.2016 n. 19). |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Chiarimenti interpretativi relativi a quesiti
posti dalla stampa specializzata in occasione del convegno
Il Sole 24ore per i 130anni del Catasto (Agenzia delle
Entrate,
circolare 13.06.2016 n. 27/E).
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INDICE
1. TEMATICHE CATASTALI
1.1 Fabbricati collabenti
1.2 Fabbricati in corso di costruzione e in corso di
definizione
1.3 Telefonia mobile e impianti eolici
1.4 Processi di revisione della rendita catastale ex comma
335
1.5 Rendita autonoma per gli “imbullonati”
1.6 Impianti di risalita
1.7 Accatastamento unico e unione di fatto ai fini fiscali
2 CONTRATTI DI LOCAZIONE
2.1 La solidarietà nella registrazione
2.2 Nuova registrazione e ravvedimento operoso
2.3 Proroga tacita del contratto di locazione
3 COMPRAVENDITE
3.1 Mancata vendita dell’immobile entro l’anno
3.2 Trasferimenti immobiliari nell’ambito delle vendite
giudiziarie
3.3 Agevolazione “prima casa”
3.4 Deduzione su acquisto e locazione a canoni bassi e
impresa di costruzione
3.5 Deduzione su acquisto e locazione a canoni bassi di
abitazioni e tipo di contratto
4 LEASING ABITATIVO
4.1 Leasing abitativo, quando va verificata l’età
4.2 Detrazione dei canoni di leasing di abitazioni e spese
accessorie
5 DETRAZIONI SU RISTRUTTURAZIONI, RISPARMIO ENERGETICO,
BONUS MOBILI
5.1 Bonus mobili per casa comprata ristrutturata
5.2 Beni significativi |
PATRIMONIO:
D.M. 12.05.2016 - Prescrizioni per l'attuazione, con
scadenze differenziate, delle vigenti normative in materia
di prevenzione degli incendi per l'edilizia scolastica (GU
n. 121 del 25.05.2016) - TABELLA DI SINTESI DELLE
PRESCRIZIONI E DELLE SCADENZE (ANCI,
nota 12.05.2016 n. 22/DIPES/VN/SG/mf-16 di prot.). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI:
Circolare recante chiarimenti interpretativi relativi
alla disciplina delle ordinanze contingibili ed urgenti di
cui all'art. 191 del d.lgs. 03.04.2006, n. 152
(Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del
Mare,
circolare 22.04.2016 n. 5982 di prot.). |
A.N.AC. (già
AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI) |
APPALTI: Tetto
all'autonomia dei comuni. Possono appaltare direttamente
servizi fino a 209 mila euro. I chiarimenti
dell'Anticorruzione sulla disciplina transitoria del nuovo
codice appalti.
Piccoli comuni ammessi ad appaltare servizi e forniture fino
a 209 mila euro di importo e lavori fino a un milione senza
ricorrere a centrali di committenza; procedure negoziate
affidabili con le vecchie norme del Codice De Lise se
conseguenti a gare andate deserte o ad avvisi esplorativi
banditi prima del 20.04.2016.
Sono questi alcuni dei chiarimenti resi dall'Autorità
nazionale anticorruzione sul nuovo codice dei contratti
pubblici (comunicato
del Presidente 08.06.2016) sotto forma di Faq pubblicate sul sito
www.anticorruzione.it.
Le tredici risposte riguardano questo primo periodo di
applicazione del decreto 50/2016 e hanno lo scopo di fornire
indicazioni su alcuni delicati profili della fase
transitoria, disciplinata dall'articolo 216 del decreto
delegato.
Un particolare rilievo assume il chiarimento su come si
devono comportare i comuni non capoluogo di provincia in
attesa della messa a regime del sistema di qualificazione
delle imprese e, in particolare, se hanno la possibilità di
procedere autonomamente all'affidamenti di lavori, servizi e
forniture.
L'Anac chiarisce che questi enti locali possono procedere
all'acquisizione di servizi e forniture di importo inferiore
a 40 mila euro e di lavori di importo inferiore a 150 mila
euro direttamente e autonomamente, nonché attraverso
l'effettuazione di ordini a valere su strumenti di acquisto
messi a disposizione dalle centrali di committenza. L'unica
condizione è che devono essere iscritti all'anagrafe unica
delle stazioni appaltanti.
Per gli importi superiori ai
tetti citati sarebbe necessario iscriversi al sistema di
qualificazione delle stazioni appaltanti gestito dall'Anac,
ma la stessa Autorità precisa che l'iscrizione al
(costituendo) sistema di qualificazione «si intende
sostituita dall'iscrizione all'Anagrafe unica delle stazioni
appaltanti di cui all'articolo 33-ter della legge 221/2012».
Il che significa sostanzialmente che i piccoli comuni
possono procedere autonomamente fino alla soglia comunitaria
dei 209 mila euro per appalti di servizi e forniture e fino
a un milione di lavori.
Viene data soluzione anche al tema delle modifiche
contrattuali sui contratti affidati prima del 20.04.2016: si
applicheranno le vecchie norme «in quanto si tratta di
fattispecie relative a procedure di aggiudicazione espletate
prima dell'entrata in vigore del nuovo Codice». Fermo
restando il divieto generale di rinnovo tacito e di proroga
del contratto, l'Autorità chiarisce che le norme del codice
De Lise si applicheranno a «rinnovo del contratto o
modifiche contrattuali derivanti da rinnovi già previsti nei
bandi di gara; consegne, lavori e servizi complementari;
ripetizione di servizi analoghi; proroghe tecniche, purché
limitate al tempo strettamente necessario per
l'aggiudicazione della nuova gara; varianti per le quali non
sia prevista l'indizione di una nuova gara».
Per le procedure negoziate affidate dopo il 20 aprile ma a
seguito di gare andate deserte (bandite prima del 20 aprile)
la soluzione è la stessa: si applicano le vecchie norme
quando sono state presentate offerte irregolari o
inammissibili o quando vi sia stata mancanza assoluta di
offerte. Questo però a condizione che «la procedura
negoziata sia tempestivamente avviata», se quindi la
stazione appaltante temporeggia rischia di essere censurata
dall'Anac.
Il Codice del 2006 è applicabile anche per gli avvisi
esplorativi pubblicati prima del 20.04.2016 a condizione che
la procedura negoziata conseguente alla selezione del
mercato «sia avviata entro un termine congruo dalla data
di ricevimento delle manifestazioni di interesse e non siano
intervenuti atti che abbiano sospeso, annullato o revocato
la procedura di gara»
(articolo ItaliaOggi del 17.06.2016). |
LAVORI PUBBLICI: Project financing, più chiarezza sui rischi ai privati.
Anac. Linee guida su partenariati ed esclusione.
Più chiarezza
sulla ripartizione dei rischi nei partenarati
pubblico-privati (Ppp) e valutazione del curriculum
professionale delle imprese come elemento per l’esclusione
dalle gare.
Oltre al rating di impresa (si veda «Il Sole 24
Ore» di sabato 11 giugno) l’Anac ha pubblicato
altre due
bozze di Linee guida, in consultazione fino al 27 giugno,
per l'attuazione del codice appalti (Dlgs 50/2016).
Circa il Ppp, la «matrice dei rischi», il documento che la
letteratura sul project financing di opere pubbliche
considera da anni fondamentale per la corretta allocazione
dei rischi tra amministrazione e affidatario privato, entra
per la prima volta in un documento ufficiale attuativo delle
norme sugli appalti.
Finora era presente solo in modo volontario nei contratti di
concessione e Ppp, mentre ora (scrive l'Anac) «deve essere
allegata al contratto». In sostanza si tratta di una tabella
che evidenzia tutti gli specifici rischi legati
all'esecuzione del contratto, raggruppabili a grandi linee
in «rischi di costruzione», «di domanda» e «di
disponibilità» (più altri specifici), indicando la
probabilità del verificarsi dell'evento, la possibilità o
meno di mitigare tale rischio, i costi o ritardi che il
verificarsi di tale rischio comporterebbe, e soprattutto a
chi deve essere allocato tale rischio, la Pa o l'affidatario
privato, o «in gestione condivisa».
Circa il monitoraggio
dell'effettivo trasferimento del rischio al privato (per
tutta la durata del contratto), l’Anac ritiene che gli
strumenti chiave debbano essere: 1) la matrice dei rischi;
2) il flusso informativo costante dal privato alla Pa
sull’esecuzione preferibilmente tramite piattaforma
informatica comune; 3) un periodico resoconto
economico-gestionale per il tramite del Rup.
Con le linee guida dedicate alle cause di esclusione dalle
gare l’Anac prova a circoscrivere i comportamenti delle
imprese che possono compromettere il rapporto di fiducia con
la stazione appaltante e portare al cartellino rosso. Si
tratta dei «gravi illeciti professionali» come le carenze di
esecuzione di un precedente appalto o l'omissione di
informazioni necessarie al corretto svolgimento della
procedura di gara. Tocca all’Anac fornire una bussola capace
di uniformare i comportamenti delle amministrazioni,
evitando che applicazioni del tutto discrezionali di questa
norma finiscano per nuocere alle imprese dando nuova stura
ai ricorsi .
Tra le indicazioni spicca quella che autorizza l’esclusione
da gare bandite anche da amministrazioni diverse da quelle
con cui sono sorti problemi. Purché la decisione della
stazione appaltante sia adeguatamente motivata, in
contraddittorio con l'impresa e riguardi fatti che accaduti
entro un limite temporale stabilito in un limite massimo di
cinque anni per i reati e di tre anni per gli illeciti
professionali (articolo Il Sole 24 Ore del 15.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Il
rating d'impresa ineludibile. Valutazione obbligatoria per
partecipare alle gare d'appalto. L'Anac vuole rendere più
trasparenti le aggiudicazioni. La legalità contribuisce al
punteggio.
Rating di impresa obbligatorio per qualificarsi alle gare di
appalto di contratti pubblici; rating di legalità
considerato elemento premiale, così come l'assenza di
iscrizione di riserve; penalizzate le imprese soccombenti e
condannate alle spese per lite temeraria o per
inammissibilità del ricorso; valutata positivamente la
regolarità contributiva e il pagamento entro 30 giorni dei
subappaltatori; attenzione anche al patrimonio netto e al
rapporto costo del personale/fatturato.
Sono questi alcuni degli elementi sui quali l'Anac sta
impostando
le linee guida sul rating di impresa, di cui
venerdì è stato pubblicato il documento di consultazione
(osservazioni sul sito Anac entro il 27 giugno), insieme ad
altri due sull'esclusione per grave illecito professionale e
sul monitoraggio sulla permanenza, in capo all'operatore
economico di un PPP, del cosiddetto rischio di domanda.
Nel
documento di consultazione viene formulata una proposta,
attuativa dell'articolo 83, comma 10, del decreto 50/2016,
che parte dal principio che il rating di impresa, necessario
per la qualificazione agli appalti di lavori, deve valere
anche per gli appalti di forniture e di servizi e anche per
le imprese straniere che partecipano ad appalti in Italia.
L'Anac parte dalla scelta di attribuire un unico punteggio
finale «che sintetizzi in un dato numerico tutte le
informazioni che lo compongono», attraverso il metodo della
«somma ponderata».
Saranno presi in considerazione,
nell'ipotesi formulata da Anac, sia elementi positivi, sia
elementi negativi con un evidente spinta all'adozione di
modelli di prevenzione degli illeciti (es. legge 231/2001).
Fondamentali, nell'attribuzione dei punteggi, i requisiti reputazionali sul comportamento dell'impresa che l'Anac
precisa, opportunamente, che non dovranno essere influenzati
da valutazioni discrezionali delle stazioni appaltanti.
Conteranno quindi gli indici espressivi della capacità
strutturale dell'impresa, diversi da quelli utilizzati nella
qualificazione, ma che hanno un riflesso sulla performance e
affidabilità, esempio il patrimonio netto e il rapporto fra
costo del personale e fatturato. Altro elemento sarà il
rispetto dei tempi e dei costi previsti per l'esecuzione,
con una premialità per la consegna senza iscrizione di
riserve.
Verrà valutata anche l'incidenza del contenzioso
sia in sede di partecipazione alle gare sia di esecuzione
dei contratti. In questi casi si penalizzerà chi è stato
condannato per lite temeraria e per inammissibilità del
ricorso per carenza di legittimazione attiva, mentre non si
considereranno le soccombenze in caso di precontenzioso
vincolante presso l'Anac.
Il rating di legalità (opzionale
per le imprese con fatturati oltre 2 milioni), rilevato
dall'Anac in collaborazione con l'Autorità Garante della
Concorrenza e del Mercato, sarà elemento premiale ai fini
dell'attribuzione del rating di impresa. La regolarità
contributiva, compresi i versamenti alle casse edili,
valutata con riferimento ai tre anni precedenti, varrà come
elemento premiale; invece l'irregolarità, anche se non
definitivamente accertata, rileverà come penalità.
Un'attenzione particolare anche alle misure sanzionatorie
amministrative per i casi di omessa o tardiva denuncia
obbligatoria delle richieste estorsive e corruttive da parte
delle imprese titolari di contratti pubblici, comprese le
imprese subappaltatrici e le imprese fornitrici di
materiali, opere e servizi.
L'Anac ipotizza anche che il rating di impresa possa essere
utilizzato «come criterio di preferenza» per la
scelta degli offerenti nelle procedure ristrette, nel
dialogo competitivo e nel partenariato per l'innovazione (e
quando si limita il numero dei candidati invitati a
presentare offerta, cosiddetta forcella). Per l'Autorità,
inoltre, potrebbe essere valutato positivamente il fatto che
l'impresa paghi entro 30 giorni i subappaltatori
(articolo ItaliaOggi del 14.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Gare, verifica ad ampio raggio per le cause di esclusione.
Appalti. Le indicazioni Anac su illeciti professionali e
rating.
La valutazione
dei gravi illeciti professionali incidenti sull’integrità e
sull’affidabilità dell’operatore economico deve essere
svolta a spettro ampio, considerando non solo le risoluzioni
di contratti, ma anche le condanne definitive per una serie
di reati che riguardano l’attività professionale.
L’Autorità nazionale anticorruzione ha posto in
consultazione (con osservazioni da presentare entro il 27
giugno; si veda anche Il Sole 24 Ore di sabato) un
secondo gruppo di linee-guida attuative del nuovo Codice
appalti, per disciplinare l’analisi dei gravi
illeciti professionali commessi dagli operatori economici
nella verifica dei motivi di esclusione, il rating delle
imprese partecipanti agli appalti pubblici e il monitoraggio
degli interventi realizzati con il partenariato
pubblico-privato.
Il documento che analizza le modalità con cui devono essere
gestiti i requisiti di ordine generale previsti
dall’articolo 80, comma 5, lettera c), del Dlgs 50/2016
evidenziano che tra i gravi illeciti professionali rientrano
le condanne definitive per esercizio abusivo della
professione, delitti di falso, reati fallimentari, societari
e tributari. Nel complesso degli elementi indicativi di
comportamenti scorretti rientrano anche i provvedimenti
dell’Antitrust e quelli sanzionatori della stessa Anac.
Per la verifica delle risoluzioni contrattuali, la stazione
appaltante può accedere al casellario informatico dell’Anac
o chiedere alle amministrazioni che hanno risolto il
contratto con l’operatore economico.
Sul motivo di esclusione determinato da tentativi del
concorrente di influenzare il processo decisionale
dell’amministrazione o di ottenere dati riservati, le
linee-guida evidenziano la necessità di una denuncia
all’autorità giudiziaria. Analogo percorso va rapportato
alle false dichiarazioni o alla presentazione di falsi
documenti fuorvianti le decisioni dell’amministrazione, rese
in sede di sviluppo della gara.
Il documento posto in consultazione è utile per le stazioni
appaltanti come primo riferimento per l’applicazione della
norma contenuta nell’articolo 80 in questa prima fase di
applicazione del Codice.
L’Anac prefigura anche le basi per il futuro sistema di
rating per le imprese partecipanti alle gare di appalto, ma
sottopone alla consultazione un documento che sollecita
un’analisi a spettro ampio sul metodo per calcolare il
rating, sugli indici reputazionali da valutare (per evitare
che siano utilizzati più volte nella gara con finalità
diverse) e sulla ponderazione di questi elementi.
Il sistema di rating è peraltro destinato a una fase di
sperimentazione, che dovrà consentire di comprendere anche
come calibrare al meglio le metodologie per attribuire premi
e penalità agli operatori.
Infine l’Anac propone in consultazione le linee-guida per il
monitoraggio sugli interventi realizzati mediante
partenariato pubblico-privato, focalizzando l’attenzione
sull’analisi che le stazioni appaltanti devono svolgere
sulla permanenza in capo all’operatore economico dei rischi
allo stesso trasferiti (come il rischio di domanda e il
rischio di disponibilità).
Gli strumenti principali per il monitoraggio sono
individuati in un articolato sistema a matrice e nella
definizione di clausole contrattuali molto strutturate,
nonché nella dettagliata regolazione delle circostanze e
delle modalità di revisione del piano economico-finanziario (articolo Il Sole 24 Ore del 13.06.2016). |
APPALTI: In gara premiate le imprese puntuali e poco litigiose. Anac. Le linee guida per il rating.
Arriva il
rating di impresa per gli appalti pubblici. L’Autorità
anticorruzione ha appena pubblicato il
secondo pacchetto di
linee guida di attuazione del Dlgs 50 del 2016, da
sottoporre alla consultazione degli operatori fino al 27
giugno. E, tra questi tre documenti, compaiono anche le
prime indicazioni su uno dei tasselli più attesi del nuovo
sistema: il rating di impresa.
Sarà utilizzato in fase di accesso alle gare, per integrare
la normale qualificazione, e si tradurrà nell’assegnazione
di un punteggio che potrà arrivare al massimo a quota cento.
Questo numero sarà la somma ponderata di alcune valutazioni
sui requisiti reputazionali dell’impresa: capacità
professionale, rispetto dei tempi, incidenza del
contenzioso, regolarità contributiva, sanzioni per omessa
denuncia di tentativi di corruzione. In questo modo sarà
possibile escludere le imprese che non sono in salute o che
risultano in odore di corruzione. Non si partirà, però, da
subito. Ci sarà prima una fase sperimentale, in
collaborazione con le Soa, per limare le criticità.
La prima questione affrontata dall’Anac riguarda l’algoritmo
di calcolo, ovvero il sistema di punteggi nel quale far
confluire il rating. L’Authority sceglie la soluzione di un
unico punteggio finale che sintetizzi in un dato numerico
tutte le informazioni che lo compongono e, più nello
specifico, il meccanismo della «somma ponderata» dei vari
elementi. Ogni impresa viene sottoposta obbligatoriamente a
una valutazione e ottiene un punteggio pari a un massimo di
cento. Nel corso del tempo, poi, questo rating sarà
aggiornato e potrà crescere o diminuire, in considerazione
di una serie di elementi.
Proprio questi requisiti reputazionali sono oggetto
dell’analisi dell’Authority. La premessa è che bisogna
evitare intrecci e duplicazioni con altri capitoli del
Codice dove ci sono previsioni simili, come la sezione
dedicata alle cause di esclusione. L’Anac, in dettaglio,
valuterà la capacità strutturale (tramite indicatori da
individuare), il rispetto dei tempi e dei costi (si guarderà
ai comportamenti in fase di esecuzione), l’incidenza del
contenzioso (sarà considerato solo il contenzioso con esito
negativo), la presenza del rating di legalità
dell’Antitrust, la regolarità contributiva, le sanzioni per
omessa denuncia di richieste estorsive.
Accanto a questi,
saranno valutati tutti i comportamenti tenuti in sede di
esecuzione, potenzialmente idonei a configurare una causa di
esclusione dall’appalto. Per ognuno di questi elementi, in
una seconda fase, sarà determinato il peso all’interno del
rating complessivo. Ad ogni indice, poi, sarà attribuita una
valenza temporale: i comportamenti che incidono per più di
due anni avranno un peso maggiore. Tramite condotte
virtuose, sarà possibile recuperare punti.
Il rating avrà un effetto premiante in sede di accesso alla
gara. Nel caso di una procedura a inviti, invece, potrà
servire come criterio di preferenza nella scelta dei
soggetti da invitare. Il sistema, comunque, andrà oliato
prima di diventare operativo. Sarà necessario un periodo per
allineare la raccolta di dati che sono già nella
disponibilità dell’Anac alle esigenze del rating e per
testare l’impatto sul mercato. «Per tali ragioni -spiega
l’Autorità- è ipotizzabile avviare un periodo
sperimentale», in stretta collaborazione con le Soa
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.06.2016). |
LAVORI PUBBLICI:
Sanzioni per falso ancora applicabili. L'Anac
sulle attestazioni Soa.
Ancora applicabili le sanzioni per falsa dichiarazione o
falsa documentazione ai fini dell'attestazione Soa delle
imprese di costruzioni. Le Soa devono sempre comunicare se
hanno riscontrato fattispecie sanzionabili ai fini
dell'irrogazione delle sanzioni.
Lo precisa l'Autorità nazionale anticorruzione nel
comunicato del Presidente 31.05.2016 pubblicato sul sito il primo
giugno.
Con il vecchio codice, le Soa (società organismi di
attestazione) accertavano la sussistenza oggettiva della
falsa dichiarazione o falsa documentazione, dichiaravano la
decadenza dell'attestazione, segnalando il fatto all'Anac
che procedeva all'iscrizione nel casellario informatico ai
fini dell'esclusione dalle gare.
Il problema è che questa
procedura non compare più nel nuovo codice perché si rinvia
a linee guida Anac che dovranno uscire entro un anno, fermo
restando che all'Anac spetta il compito di vigilare sul
sistema. Il comunicato siglato da Raffaele Cantone, anche
per garantire continuità con il precedente sistema,
chiarisce che «nelle more dell'adozione delle citate linee
guida e della necessaria conseguente revisione del
Regolamento che disciplina l'esercizio del potere
sanzionatorio, l'Autorità ritiene ancora applicabile, per i
fatti commessi prima dell'entrata in vigore del nuovo
Codice, la disciplina dell'art. 40, comma 9-quater, dlgs
163/2006, in ragione dell'applicazione alle sanzioni
amministrative de quibus del principio di legalità e di
ultrattività, di cui all'art. 1 della legge 689/1981».
Per
quanto concerne, invece, eventuali illeciti commessi durante
il «regime transitorio» permane l'obbligo delle Soa di
avviare i procedimenti di verifica della documentazione e
delle dichiarazioni esibite dall'impresa e di comunicare
all'Autorità l'avvio e gli esiti dei procedimenti.
Applicabili anche le sanzioni del vecchio codice
(articolo ItaliaOggi del 04.06.2016). |
CORTE DEI CONTI |
ENTI
LOCALI: Il
limite di spesa previsto dall’art. 9, comma 28, del
decreto-legge 31.05.2010, n. 78, non trova applicazione nei
casi in cui l’utilizzo di personale a tempo pieno di altro
Ente locale, previsto dall’art. 1, comma 557, della legge
30.12.2004, n. 311, avvenga entro i limiti dell’ordinario
orario di lavoro settimanale, senza oneri aggiuntivi, e nel
rispetto dei vincoli posti dall’art. 1, commi 557 e 562,
della legge 27.12.2006, n. 296.
La minore spesa dell’ente titolare del rapporto di lavoro a
tempo pieno non può generare spazi da impiegare per spese
aggiuntive di personale o nuove assunzioni.
----------------
Questione di massima in merito alla applicabilità dei limiti
di spesa di cui all’art. 9, comma 28, del d.l. n. 78/2010,
nel caso in cui gli Enti utilizzano, ai sensi dell’art. 1,
comma 557, della legge n. 311/2004, l’attività lavorativa di
dipendenti a tempo pieno di altre Amministrazioni locali
entro i limiti dell’ordinario orario di lavoro settimanale,
sostituendosi, in tutto o in parte, all’Ente titolare del
rapporto di lavoro sul piano economico, organizzativo e
funzionale.
...
La Sezione delle autonomie della Corte dei conti,
pronunciandosi sulla questione di massima posta dalla
Sezione regionale di controllo per la Regione Piemonte con
la deliberazione n. 33/2016/SRCPIE/QMIG, enuncia il seguente
principio di diritto: “Il limite di
spesa previsto dall’art. 9, comma 28, del decreto-legge
31.05.2010, n. 78, convertito dalla legge 30.07.2010, n.
122, non trova applicazione nei casi in cui l’utilizzo di
personale a tempo pieno di altro Ente locale, previsto
dall’art. 1, comma 557, della legge 30.12.2004, n. 311,
avvenga entro i limiti dell’ordinario orario di lavoro
settimanale, senza oneri aggiuntivi, e nel rispetto dei
vincoli posti dall’art. 1, commi 557 e 562, della legge
27.12.2006, n. 296. La minore spesa dell’ente titolare del
rapporto di lavoro a tempo pieno non può generare spazi da
impiegare per spese aggiuntive di personale o nuove
assunzioni”
(Corte dei Conti, Sez. Autonomie,
deliberazione 20.06.2016 n. 23). |
TRIBUTI:
Tributi locali, condono a tempo.
La definizione agevolata delle violazioni tributarie è un
evento eccezionale e ha un ambito temporale sempre limitato.
I comuni, dunque, non possono istituire con regolamento il
condono dei tributi locali a loro scelta per un tempo
indefinito. La sanatoria prevista dalla legge 289/2002,
infatti, non era proiettata nel futuro, ma riguardava solo
le violazioni commesse negli anni antecedenti alla sua
entrata in vigore.
Lo ha chiarito la Corte dei conti, sezione regionale di
controllo per la Campania, con il
parere
20.05.2016 n. 143.
Nel caso
in esame, il comune di Ottaviano ha chiesto alla sezione
regionale di controllo della Corte dei conti se fosse
possibile prevedere con regolamento la definizione agevolata
delle violazioni tributarie commesse dai contribuenti fino
al 2014, escludendo le sanzioni e gli interessi. Per i
giudici contabili, non si possono introdurre fattispecie di
condono per un periodo indefinito, ancorché la legge non
fissi espressamente l'ambito di operatività della sanatoria.
L'articolo 13 della legge 289/2002 «deve essere oggetto di
stretta interpretazione considerato che l'istituzione di
meccanismi di «definizione agevolata» relativamente ad
obblighi rimasti totalmente o parzialmente inadempiuti da
parte di contribuenti ha (o dovrebbe avere) indubbiamente
natura di evento eccezionale nell'ambito dell'ordinamento
giuridico».
Pertanto, il 31.12.2002 rappresenta «un
limite temporale invalicabile» per la regolarizzazione di
errori e omissioni. Al riguardo il Tar Sicilia, prima
sezione, con la sentenza 1765/2014, ha affermato che è
illegittimo per eccesso di potere il regolamento comunale
che ha istituito il condono delle violazioni commesse dai
contribuenti in materia di tassa rifiuti a distanza di sette
anni dall'entrata in vigore della legge che ha dato ai
comuni questa facoltà.
Anche per il Tar il condono dei
tributi locali poteva essere deliberato solo per gli
obblighi «precedentemente non adempiuti» alla data di
entrata in vigore della legge stessa, limitatamente ai
periodi d'imposta antecedenti il 2003. Del resto l'esercizio
di un potere in materia tributaria da parte dell'ente
locale, una volta spirato il termine previsto dalla legge
statale autorizzativa, «comporta la carenza del potere
medesimo».
Con quest'ultimo parere i giudici contabili si sono
allineati alla tesi della Cassazione che ha già preso
posizione sulla questione, dichiarando illegittima la
delibera del comune di Roma che aveva istituito il condono
delle liti pendenti instaurate dopo l'entrata in vigore
della Finanziaria 2003. La sezione tributaria della Corte di
cassazione, con le sentenze 12675 e 12679/2012, ha precisato
che la sanatoria era ammessa solo per gli obblighi non
adempiuti dal contribuente fino al 2002 e per i procedimenti
contenziosi già pendenti.
I comuni, quindi, non hanno il potere di deliberare la
sanatoria a distanza di anni da quando il legislatore gli ha
riconosciuto questa facoltà. Nonostante l'articolo 13 della
legge 289/2002 non ponesse alcun limite temporale e non ne
condizionasse l'efficacia alle violazioni commesse e alle
controversie instaurate fino all'entrata in vigore della
norma.
La Finanziaria 2003 ha attribuito agli enti locali il
potere di disciplinare con regolamento la riduzione
dell'ammontare delle imposte e tasse loro dovute, escludendo
o riducendo gli interessi e le sanzioni a carico del
contribuente. L'unico obbligo imposto espressamente ex lege,
nel rispetto dello Statuto del contribuente (legge
212/2000), riguardava il termine minimo che doveva
intercorrere tra l'entrata in vigore del regolamento e gli
adempimenti posti a carico del contribuente.
Era poi lasciata agli enti la scelta di fissare
autonomamente il termine entro il quale fosse possibile
regolarizzare le violazioni commesse, purché non inferiore a
60 giorni dalla data di pubblicazione dell'atto
regolamentare
(articolo ItaliaOggi del 09.06.2016). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Integrativi, niente sanatoria sulle applicazioni «errate».
Corte conti. Danno erariale per l’indennità a chi lavora di
mattina.
Se la
turnazione dei vigili è irregolare, scatta il danno
all’erario e non interviene la sanatoria prevista
dall’articolo 4, comma 3, del Dl 16/2014.
La Corte dei conti, Sez. giurisdizionale Marche, con la
sentenza
19.05.2016 n. 25, lo ha affermato in modo molto chiaro.
Il fatto contestato riguarda l’erogazione dell’indennità di
turno in favore di un vigile urbano a fronte di una
prestazione lavorativa che in realtà non risultava
articolata effettivamente su turni, essendo stato il
servizio svolto quasi sempre di mattina.
Dalle
programmazioni settimanali risulta, infatti, la prevalenza
di settimane in cui il dipendente ha svolto la prestazione
lavorativa per un solo pomeriggio su sei giorni di lavoro;
in numero inferiore risultano le settimane ove la
programmazione ha previsto due pomeriggi, mentre per qualche
settimana la prestazione è stata programmata nella sola
fascia oraria antimeridiana.
L’articolo 22, comma 2, del contratto nazionale del 14.09.2000 prevede che «le prestazioni lavorative svolte
in turnazione, ai fini della corresponsione della relativa
indennità, devono essere distribuite nell’arco del mese in
modo tale da far risultare una distribuzione equilibrata e
avvicendata dei turni effettuati in orario antimeridiano,
pomeridiano e, se previsto, notturno, in relazione alla
articolazione adottata nell’ente».
Per l’Aran (orientamento
applicativo Ral 748/2011), le Pa possono riconoscere
l’indennità, a patto che, per ciascuno dei turni
antimeridiano, pomeridiano ed eventualmente notturno,
stabiliti dall’articolazione dell’ente («distribuzione
avvicendata»), il dipendente ne abbia prestato un numero in
orario antimeridiano sostanzialmente equivalente a quelli in
orario pomeridiano («distribuzione equilibrata»); questo
salvo una differenza di una o due unità (oscillazione del
10%).
La Corte ha accolto la tesi della Procura, eccetto che per
un convenuto, ritenuto non responsabile per l’irrilevanza
del suo apporto decisionale, condannando, per le rispettive
condotte alla base del danno, il comandante e il
vicecomandante, che per inciso era anche il percettore del
compenso indebito.
Importanti sono le motivazioni. Per la Corte, lo
svolgimento, da parte di un vigile urbano, di un servizio
articolato in turni non distribuiti in modo equilibrato fra
mattina, pomeriggio ed eventualmente notte, non dà diritto
all’indennità prevista dall’articolo 22 del contratto
nazionale del 14.09.2000. In altre parole, se si
lavora prevalentemente solo di mattina o di pomeriggio, non
si può percepire l’indennità di turno, che invece spetta
solo se la prestazione è distribuita in modo equilibrato fra
le diverse fasce orarie. In caso contrario, il compenso
accessorio è illegittimo e fonte di danno all’erario.
Ancor più importante, però, è la risposta alla questione
pregiudiziale relativa alla portata dell’articolo 4, comma
del Dl 16/2014, in cui è prevista la non applicazione
dell’articolo 40, comma 3-quinquies, quinto periodo del Dlgs
165/2001 (nullità delle clausole dei contratti collettivi
integrativi in caso di violazione dei vincoli e dei limiti
di competenza imposti dalla contrattazione nazionale o dalle
norme di legge), agli atti di costituzione e di utilizzo dei
fondi, comunque costituiti, per la contrattazione decentrata
adottati prima dei termini di attuazione della riforma
Brunetta, a patto che non abbiano comportato il
riconoscimento giudiziale della responsabilità erariale, se
adottati dalle regioni e dagli enti locali che hanno
rispettato i vincoli di finanza pubblica.
Per la Corte, l’articolo 4, comma 3, non si applica al caso
di specie, poiché la “sanatoria” si riferisce solo
all’ipotesi in cui la contrattazione integrativa non abbia
rispettato i vincoli derivanti dalla legge e dai contratti
nazionali. Al contrario, nel giudizio, non viene contestata
l’illegittimità della contrattazione integrativa rispetto ai
vincoli anche finanziari ad essa imposti, ma viene valutata
una condotta specifica dei convenuti (erogazione/percezione
dell’indennità di turno in assenza di turni pomeridiani-notturni) con cui si è violato e non si è dato adempimento
al contratto integrativo in vigore nel Comune, conforme, sul
punto, all’articolo 22 del contratto nazionale del 14.09.2000.
In altre parole, la “sanatoria” scatta solo se gli
atti di costituzione dei fondi o le clausole contrattuali
non rispettano la disciplina di livello nazionale. È
precluso ogni suo effetto, invece, nei casi di applicazione
“sbagliata” di decentrati in regola (articolo Il Sole 24 Ore del 06.06.2016). |
SEGRETARI COMUNALI:
Giudici in ordine sparso sui diritti di rogito.
Quella dei diritti di rogito dei segretari comunali sembra
ormai una stucchevole partita di tennis.
L'ultimo colpo è stato quello della Corte dei conti Liguria,
che nel
parere 12.05.2016 n. 49 ha ribadito la tesi della
magistratura contabile, in base alla quale l'emolumento
spetta solo agli appartenenti alla categoria C (con
esclusione quindi di quelli equiparati ai dirigenti), mentre
va riconosciuto in ogni caso ai vicesegretari, anche quando
il titolare appartiene alle fasce A e B.
La stessa lettura
era stata fornita qualche settimana fa dalla sezione Marche
(parere n. 90/2016), in aderenza con i principi di diritto
espressi dalla sezione autonomie (deliberazione n. 21/2015).
Ma dall'altra parte del campo si sono schierati la Corte
costituzionale e, da ultimo, il Tribunale lavoro di Milano,
secondo i quali i diritti di rogito competono a tutti i
segretari che operano negli enti privi di personale con
qualifica dirigenziale, a prescindere dalla fascia
professionale in cui è inquadrato il segretario. Mentre la
Consulta si è espressa in una sentenza di rigetto (la n.
75/2016), che tipicamente ha effetto solo inter partes, i
giudici meneghini hanno assunto una posizione tranchant.
Ancor più rigida la Ragioneria generale dello Stato, che nel
parere n. 26297/2016 non solo ha confermato il niet
per i segretari di fascia A e B, ma ha sostenuto che, in
tali casi, i soldi non spettano neppure ai vice
(articolo ItaliaOggi dell'01.06.2016). |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/
Consiglieri, accesso a 360°.
Il comune non può sindacare le richieste.
L'ente non può porre a carico degli istanti un obbligo di
motivazione.
In materia di diritto di accesso dei consiglieri comunali,
ai sensi dell' art. 43 del dlgs n. 267/2000, possono
considerarsi legittime le norme regolamentari che impongono
al consigliere comunale di motivare la propria richiesta di
accesso agli atti; ovvero che affidano al sindaco il potere
di verificare che l'informazione richiesta attenga al
mandato del consigliere; oppure che limitano il diritto di
visione degli atti quando ciò si traduca in «un potere di
inchiesta, di ispezione o di verifica»?
Il «diritto di accesso» e il «diritto di informazione» dei
consiglieri comunali in ordine agli atti in possesso
dell'amministrazione comunale, utili all'espletamento del
proprio mandato, trovano la loro disciplina specifica nel
citato art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000, che si
differenzia rispetto al pur ampio diritto di accesso
riconosciuto al cittadino dall'articolo 10 del medesimo
decreto legislativo.
Il termine «utili», contenuto nella
citata disposizione del Tuel, garantisce, infatti,
l'estensione di tale diritto di accesso a qualsiasi atto
ravvisato utile per l'esercizio del mandato (cfr. Cds n.
6963/2010) senza che alcuna limitazione possa derivare
dall'eventuale natura riservata delle informazioni
richieste.
Anche la Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi, con parere reso in data 09.04.2014, ha
specificato che l'accesso del consigliere non può essere
soggetto ad alcun onere motivazionale, giacché diversamente
opinando sarebbe introdotta una sorta di controllo
dell'ente, attraverso i propri uffici, sull'esercizio del
mandato del consigliere comunale.
Tale commissione, infatti,
considerato che il consigliere è comunque vincolato al
segreto d'ufficio, ha ritenuto che gli unici limiti
all'esercizio del diritto di accesso dei consiglieri
comunali si rinvengono, per un verso, nel fatto che esso non
deve sostanziarsi in richieste assolutamente generiche,
ovvero meramente emulative (fermo restando che la
sussistenza di tali caratteri necessita di attento e
approfondito vaglio, al fine di non introdurre
surrettiziamente inammissibili limitazioni al diritto
stesso), nonché, per altro verso, nel fatto che esso debba
avvenire in modo da comportare il minor aggravio possibile
per gli uffici comunali.
Conseguentemente, gli uffici comunali e il sindaco non hanno
il potere di sindacare il nesso intercorrente tra l'oggetto
delle richieste di informazioni avanzate da un consigliere
comunale e le modalità di esercizio del munus da questi
espletato.
Ciò, anche nel rispetto della separazione dei poteri (art. 4
e art. 14 del decreto legislativo n. 165/2001) sancita per gli
enti locali dall'art. 107 del decreto legislativo n. 267/2000
che richiama il principio per cui i poteri di indirizzo e di
controllo politico-amministrativo spettano agli organi di
governo, essendo riservata ai dirigenti la gestione
amministrativa, finanziaria e tecnica.
Peraltro, ai sensi dell'art. 42, comma 1, del Tuel il
consiglio è l'organo di indirizzo e «di controllo
politico-amministrativo»; sicché, il controllo del sindaco
sull'operato anche dei singoli consiglieri si porrebbe in
contrasto alla predetta normativa.
Nel caso di specie si rende, pertanto, opportuna la
revisione delle disposizioni che impongono l'obbligo
motivazionale a carico dei consiglieri richiedenti l'accesso
e che affidano al sindaco il potere di verifica. Tuttavia
l'ente, attraverso l'esercizio della propria potestà
regolamentare, può optare, tra le varie opzioni possibili,
per la disciplina che, in concreto, meglio contemperi
esigenze concorrenti.
In particolare, quelle di garanzia delle condizioni più
adeguate all'espletamento del mandato da parte dei
consiglieri comunali e quelle di salvaguardia della
funzionalità degli uffici e del normale espletamento del
servizio da parte del personale dipendente, nonché quella di
tutela della sicurezza degli uffici, del personale e del
patrimonio
(articolo ItaliaOggi del 17.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Personale distaccato. Compenso incentivante.
Nell'ipotesi di comando/distacco di
personale da ente pubblico a cooperativa cui è stata
appaltata la gestione corrente, non pare sussistano i
presupposti per corrispondere compensi incentivanti, in
quanto all'uopo è necessaria un'attività di pianificazione e
programmazione, da realizzare annualmente, a seguito della
quale i dipendenti siano coinvolti in attività e concrete
azioni di miglioramento, da valutare a posteriori in
relazione al grado di raggiungimento dell'obiettivo
programmato.
L'Ente ha chiesto un parere in ordine ad alcune
problematiche connesse alla possibilità di corrispondere il
compenso incentivante a personale 'distaccato' (due
dipendenti) presso una cooperativa, cui nel corso del 2015 è
stata appaltata la gestione corrente. Si precisa che i
dipendenti interessati non hanno più un rapporto di servizio
diretto con l'Ente e, quindi, si è posta la questione
relativa alla possibilità di riscontrare, nei loro
confronti, una qualsivoglia forma remunerativa collegata
alla realizzazione di progetti obiettivo o premi legati alla
produttività collettiva.
Preliminarmente si osserva che, nel caso prospettato, si è
applicato l'istituto del comando/distacco da ente pubblico a
soggetto privato, fattispecie non esclusa in considerazione
dell'intervenuta privatizzazione del pubblico impiego e
della conseguente riconducibilità di siffatta determinazione
nell'ambito del potere direttivo del privato datore di
lavoro [1].
Premesso un tanto, è importante evidenziare che, agendo
l'Azienda distaccante alla stregua di privato datore di
lavoro, la definizione delle condizioni e modalità di
utilizzo del personale distaccato/comandato, ed altresì
degli oneri economici ad esso relativi, può essere stabilita
tramite accordo tra le parti.
Particolare rilevanza assume, infatti, la volontà di
inserire eventualmente specifiche clausole contrattuali
volte a definire in dettaglio lo svolgimento di attività
lavorative che comportino l'erogazione di indennità o
compensi disciplinati nella contrattazione collettiva di
pertinenza.
Tali determinazioni, riferite agli istituti applicabili e
riconoscibili ai dipendenti distaccati/comandati, potrebbero
comportare conseguentemente risvolti concreti anche sulla
determinazione del fondo risorse decentrate dell'Ente di
appartenenza, deputato alla corresponsione del trattamento
accessorio.
Si osserva che l'istituto del comando/distacco è comunque
caratterizzato da una situazione di temporaneità e che la
prestazione lavorativa è resa, per un determinato periodo,
non in favore del proprio datore di lavoro, ma in favore del
soggetto utilizzatore.
Il datore di lavoro distaccante rimane responsabile, per
tutta la durata del distacco, del trattamento economico e
giuridico del lavoratore ed è pertanto fondamentale che le
parti stabiliscano di comune accordo le modalità di rimborso
dei costi relativi al trattamento economico dei lavoratori,
sia di quello fondamentale che di eventuali ulteriori voci
correlate a particolari prestazioni rese dai dipendenti.
Per quanto concerne, nello specifico, la corresponsione del
compenso incentivante, la giurisprudenza amministrativa ha
sottolineato che la produttività può essere erogata ad ogni
buon conto soltanto nel caso in cui il responsabile
dell'ente (distaccante) abbia approvato, preventivamente,
l'azione di miglioramento e, a consuntivo, ne abbia
accertato la concreta realizzazione [2].
Pertanto, la disciplina relativa ai compensi incentivanti,
secondo quanto previsto dai contratti collettivi di
comparto, condiziona la corresponsione del premio relativo
al raggiungimento dell'obiettivo programmato, tenuto conto
di parametri oggettivi, quali il tempo e il livello di
professionalità, oltre alla capacità di iniziativa e
all'impiego partecipativo alla realizzazione del progetto
obiettivo.
In linea generale, necessita un'attività di pianificazione e
programmazione, da realizzare annualmente, a seguito della
quale i dipendenti siano coinvolti in attività e concrete
azioni di miglioramento, che siano state ideate, pianificate
e approvate.
La Corte dei conti ha inoltre rimarcato come la disciplina
contrattuale esistente sia rivolta a differenziare le
posizioni e le valutazioni dei singoli dipendenti, al fine
di incentivare una più efficiente utilizzazione delle
risorse lavorative e di superare il fenomeno negativo delle
retribuzioni incentivanti distribuite 'a pioggia'
[3].
In conclusione, sulla scorta delle indicazioni fornite
dall'Amministrazione istante e in assenza di ulteriori
elementi, alla luce delle considerazioni sopra esposte, non
pare sussistano i presupposti richiesti per una corretta
erogazione del premio incentivante, nella peculiare realtà
illustrata.
---------------
[1] Cfr. art. 2104 del c.c e art. 5 del d.lgs. 165/2001.
[2] Cfr. Cons. di Stato, sez. V, n. 8949 del 16.12.2010.
[3] Cfr. Corte dei conti, sez. reg. di controllo per la
Liguria, deliberazione n. 4/2015 (16.06.2016 -
link a
www.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Referendum, norme certe.
Non basta lo statuto. Serve il regolamento. Deve essere la
fonte regolamentare a prevedere le fasi della consultazione.
Affinché sia ammissibile una richiesta di consultazione
referendaria comunale, la disciplina regolamentare di
dettaglio, se specificamente prevista dallo statuto
comunale, deve considerarsi presupposto imprescindibile per
l'attivazione della consultazione stessa?
L'eventuale
approvazione del regolamento da parte del consiglio
comunale, con la previsione di norme transitorie per lo
svolgimento del referendum, ferma restando la verifica
dell'ammissibilità del quesito da demandare all'esame di un
organismo che sostituisca l'abrogato difensore civico,
potrebbe sanare l'eventuale mancanza?
Il nostro ordinamento presta una particolare attenzione alla
partecipazione diretta del cittadino nella vita delle
istituzioni locali. Giova ricordare, in proposito, che
l'Italia ha fatto propri i principi della Carta europea
dell'autonomia locale a cui ha aderito sottoscrivendo la
relativa convenzione, poi ratificata con la legge 30.12.1989, n. 439. Gli istituti di partecipazione e gli
organismi consultivi del cittadino trovano una loro
concretizzazione nel Tuel n. 267/2000 e, indipendentemente
dalla dimensione demografica dell'ente, fanno parte del
contenuto necessario e non meramente facoltativo dello
statuto.
Un rinvio allo statuto è previsto dal comma 3 dell'art. 8
del citato decreto legislativo n. 267/2000 in merito alla
previsione di forme di consultazione della popolazione,
nonché alle procedure per l'ammissione di istanze, petizioni
e proposte di cittadini singoli o associati dirette a
promuovere interventi per la migliore tutela di interessi
collettivi con la determinazione delle garanzie per il loro
tempestivo esame.
La norma dispone che «possono» essere, altresì, previsti
referendum anche su richiesta di un adeguato numero di
cittadini, che (comma 4) devono comunque riguardare materie
di esclusiva competenza locale.
Fermo restando l'obbligo di previsione degli istituti di
partecipazione, il referendum, si configura, dunque, quale
elemento meramente eventuale e facoltativo dello statuto
comunale che una volta previsto deve, però, essere
compiutamente disciplinato dal regolamento.
Nel caso di specie, lo statuto comunale rimanda ad apposito
regolamento comunale la disciplina delle modalità operative
del referendum, fornendo peraltro una serie di indicazioni
di dettaglio che dovrebbero essere recepite dal medesimo
regolamento.
Il regolamento, conformemente al parere del Consiglio di
stato, sez. I, 08.07.1998, n. 464, reso, su richiesta
dell'amministrazione dell'interno, in relazione ad una
fattispecie analoga e il cui orientamento è stato
successivamente confermato dallo stesso Consiglio di stato,
sez. IV, con la sentenza n. 3769/2008, si prospetta,
infatti, in funzione complementare ed integrativa rispetto
alle previsioni statutarie, tanto da rendere inapplicabile
l'istituto del referendum consultivo in mancanza dello
stesso.
La giurisprudenza amministrativa formatasi in materia
ritiene, infatti, che debba essere la fonte regolamentare a
«prevedere le varie fasi nelle quali si articola la
consultazione, dall'iniziativa sino alla proclamazione dei
risultati» inclusi i sistemi con cui sindacare
l'ammissibilità della consultazione.
Del resto, i cittadini interessati all'approvazione del
regolamento potranno sensibilizzare l'ente affinché proceda
in tal senso, atteso che le previsioni dello statuto, non
consentono alcun margine discrezionale da parte
dell'amministrazione.
Ferma restando l'ammissibilità dell'adozione di un
regolamento attuativo per consentire, con specifiche norme
transitorie, anche il regolare espletamento della procedura
già avviata, deve essere garantito ai promotori l'effettivo
esercizio entro i termini previsti dallo statuto.
Peraltro, le eventuali soluzioni tecniche da adottare con le
norme transitorie, in assenza delle modifiche statutarie,
devono comunque essere coerenti con le disposizioni di tale
ultimo strumento.
In particolare, l'art. 2, comma 186, lett. a) della legge
23.12.2009, n. 191, pur avendo soppresso la figura del
difensore civico comunale, ha stabilito che le relative
funzioni possono essere attribuite, mediante convenzione, al
difensore civico della provincia
(articolo ItaliaOggi del 10.06.2016). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Quorum
strutturale.
Qual è il quorum strutturale necessario
per la validità delle sedute del consiglio comunale in
seconda convocazione?
L'art. 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000
demanda al regolamento comunale, «nel quadro dei principi
stabiliti dallo statuto», la determinazione del «numero dei
consiglieri necessario per la validità delle sedute», con il
limite che detto numero non può, in ogni caso, scendere
sotto la soglia del «terzo dei consiglieri assegnati per
legge all'ente, senza computare a tale fine il sindaco e il
presidente della provincia».
Il citato art. 38, va letto in combinato disposto con l'art.
273, comma 6, dello stesso Tuel il quale detta una
disciplina transitoria che legittima l'applicazione, tra gli
altri, dell'art. 127 del T.u. n. 148/1915, fino
all'adeguamento della normativa locale ai criteri indicati
dal decreto legislativo n. 267/2000.
Nel caso di specie, il consiglio comunale è composto da 24
consiglieri più il sindaco, pertanto sarebbe necessaria la
presenza di almeno 8 consiglieri al fine della validità
delle sedute.
Tuttavia è stato chiesto se sia possibile applicare la
disposizione recata dal regolamento sul funzionamento del
consiglio comunale in base alla quale le sedute di seconda
convocazione sono valide purché intervengano almeno quattro
membri, salvo le eccezioni previste dalla legge e dallo
statuto.
La normativa regolamentare risulta conformata all'art. 127
del T.u. 148/1915 che prevede, per la validità delle sedute
di prima convocazione, la presenza della metà dei
consiglieri assegnati mentre, in seconda convocazione,
quella di almeno quattro membri.
In merito, appare inoltre utile richiamare le osservazioni
formulate dal Consiglio di stato con sentenza n. 3357 del
2010, in base alle quali, una volta adottato il regolamento
recante le norme sul funzionamento del consiglio comunale,
queste ultime, ancorché illegittime, non possono essere
disapplicate se non previo ritiro.
Pertanto, considerata la discrasia tra le disposizioni
contenute nel regolamento consiliare e le previsioni recate
dal citato art. 38, comma 2, del Tuel, l'ente locale dovrà
adeguare la fonte regolamentare ai criteri previsti dalla
legge, anche al fine di non esporre gli atti adottati al
rischio di eventuali impugnative
(articolo ItaliaOggi del 03.06.2016). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Prima le interrogazioni.
Devono essere trattate all'inizio della seduta. Agli atti di
sindacato non si applica la disciplina sulla modifica dell'odg.
Il presidente del consiglio comunale può opporre un diniego
alla richiesta di invertire l'odg di una seduta di
consiglio, formulata da un gruppo consiliare al fine di
posporre l'esame degli atti di sindacato ispettivo?
Nel caso di specie, il regolamento del consiglio comunale
prevede che «la trattazione delle interrogazioni avviene
nella parte iniziale della seduta secondo l'ordine
cronologico di presentazione».
La stessa fonte regolamentare dispone inoltre che il
presidente del consiglio possa modificare l'ordine di
trattazione degli argomenti inseriti all'odg anche su
proposta di un gruppo consiliare e che, in caso di
opposizione, la richiesta debba essere messa ai voti ed
eventualmente accolta a maggioranza dei votanti.
In considerazione del quadro normativo delineato, appare
corretto il diniego opposto dal presidente del consiglio
alla richiesta, formulata da un gruppo consiliare, di voler
posporre la trattazione delle interrogazioni. Ciò in quanto
il regolamento del consiglio comunale prevede espressamente
che la trattazione dei suddetti atti di sindacato ispettivo
debba avvenire «nella parte iniziale della seduta».
Pertanto, agli atti in questione non può essere applicata la
disciplina sulla modifica dell'ordine di trattazione degli
oggetti dell'odg prevista, in generale, dalla citata
normativa regolamentare
(articolo ItaliaOggi del 03.06.2016). |
NEWS |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Rivoluzione
audit nella p.a.. In g.u. il decreto
sulla valutazione delle performance.
Rivoluzione audit nella p.a. Arrivano i nuovi organismi
interni di valutazione costituiti in forma monocratica o
collegiale. I componenti saranno nominati da ciascuna
amministrazione tra i soggetti iscritti all'elenco nazionale
dei componenti degli organismi indipendenti di valutazione,
tenuto dalla Funzione pubblica. Tra le funzioni, verificare
la correttezza dei processi di misurazione, monitoraggio,
valutazione e rendicontazione della performance
organizzativa e individuale.
Lo prevede il dpr 09.05.2016 n. 105 sulle funzioni
attribuite a palazzo Vidoni in materia di misurazione e
valutazione delle performance della p.a., pubblicato sulla
Gazzetta Ufficiale n. 140 del 17.06.2016. Il dpr,
anticipato da ItaliaOggi il 29 aprile scorso, attua alcuni
criteri direttivi contenuti nella delega Madia (legge
124/2015) e che saranno trasposti in un dlgs ad hoc in
materia di valutazione dei dipendenti.
A cominciare dalla
riduzione degli adempimenti in materia di programmazione
anche attraverso una maggiore integrazione con il ciclo di
bilancio. In attesa che arrivi il dlgs, le norme del
regolamento avranno un'applicazione limitata per le regioni
e gli enti locali che definiranno il proprio convolgimento
con appositi protocolli d'intesa sottoscritti da Conferenza
delle regioni, Anci e Upi.
Il dipartimento della Funzione pubblica a cui sono
transitate le competenze in materia, un tempo in mano all'Anac
e prima ancora alla Civit, dovrà tenere conto delle
esperienze maturate sul territorio, coinvolgendo gli enti
nel confronto fra amministrazioni e nello sviluppo di buone
pratiche.
Rafforzati gli Oiv, gli Organismi indipendenti di
valutazione, che risultano potenziati con nuove funzioni, ma
ne perdono una, ossia il monitoraggio del livello di
benessere organizzativo. Sarà infatti compito dei dirigenti
effettuare a questo scopo indagini sul personale dipendente,
in modo che gli Oiv possano focalizzarsi «sulle loro
funzioni fondamentali ad ulteriore garanzia di efficacia e
indipendenza»
(articolo ItaliaOggi del 18.06.2016). |
TRIBUTI: Atti,
firma chiara. Uniformità nei criteri da usare. Nota delle
Entrate sul responsabile procedimento.
L'Agenzia delle entrate detta le regole per l'individuazione
del responsabile del procedimento. Che nella maggior parte
dei casi non coincide con il funzionario che gestisce la
pratica. I direttori provinciali, degli uffici periferici e
dei Cam, in base alla rilevanza (anche economica) dei
singoli provvedimenti adottati, possono decidere se
riservare per se stessi tali ruolo oppure designare
dirigenti o funzionari (Pos, Pot e titolari di posizioni
organizzative e professionali o di posizioni di
responsabilità).
A tale fine possono essere utilizzati atti
puntuali o criteri automatici di individuazione, purché
siano noti ex ante i soggetti che dovranno assumere tale
veste (per esempio: i capi team per gli atti emessi dal
rispettivo gruppo di lavoro). In ogni caso, la designazione
non comporta l'attribuzione di funzioni aggiuntive, né
tantomeno di competenze dirigenziali a funzionari privi
della relativa qualifica.
Queste le indicazioni operative fornite dal direttore
centrale del personale delle Entrate, Margherita Maria
Calabrò, in una nota diramata alle Direzioni centrali e
regionali nei giorni scorsi.
La figura del responsabile del procedimento, prevista
dall'articolo 5 della legge n. 241/1990, ha un compito di
«predisposizione, istruttoria, impulso e coordinamento per
il corretto e sollecito svolgimento dei singoli atti in cui
il procedimento è composto». Tale ruolo «non va confuso con
il referente di una specifica trattazione», prosegue la
nota, dal momento che il funzionario dell'Agenzia
assegnatario della pratica è il soggetto a cui il
contribuente può rivolgersi per avere informazioni o
chiarimenti, ma non il responsabile dell'azione
amministrativa.
Una precisazione che è salutata con favore dalle sigle
sindacali, dal momento che in passato non sono mancati casi
di singoli dipendenti raggiunti da azioni legali dei
contribuenti ritenutisi danneggiati.
«Ora si tratta di modificare le procedure operative, in
quanto negli atti che scaturiscono dai programmi informatici
(per esempio Aures) la dicitura responsabile del
procedimento esce di default con il nome del funzionario»,
spiega la segreteria nazionale di Flp Ecofin-Agenzie
fiscali, «riteniamo sia necessario individuare in modo
omogeneo i livelli di responsabilità, che sono diversi, ai
fini dell'individuazione del responsabile del procedimento,
tra titolari di Pos e Pot e i destinatari degli artt. 17 e
18 del contratto integrativo, per evitare che su questo si
apra un nuovo fronte di comportamenti e azioni diverse
ufficio per ufficio. Va detto però che un passo in avanti è
stato fatto e ne diamo atto all'Agenzia»
(articolo ItaliaOggi del 18.06.2016). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO:
Obbligatori i corsi di privacy. Tenuti dipendenti
pubblici e privati. E professionisti. Lo prevede il
regolamento europeo. Sanzioni per le imprese fino al 2% del
fatturato.
Obbligatori corsi privacy per dipendenti pubblici e privati.
E anche i professionisti esterni, che lavorano per la p.a. o
per un'azienda, dovranno dimostrare la loro conoscenza delle
disposizioni sulla protezione dei dati personali.
Il regolamento europeo sulla privacy,
n. 679/2016, prescrive
ai titolari di trattamento (aziende e pubbliche
amministrazioni) di far seguire dai propri collaboratori
appositi corsi per acquisire conoscenze sulla normativa
europea e nazionale in materia di protezione dei dati.
La norma di riferimento è l'articolo 29 del regolamento
europeo, secondo cui il responsabile del trattamento, o
chiunque agisca sotto la sua autorità o sotto quella del
titolare del trattamento, che abbia accesso a dati personali
non può trattare tali dati se non è istruito in tal senso
dal titolare del trattamento, salvo che lo richieda il
diritto dell'Unione o degli stati membri. Bisogna fare
comunque uno sforzo per capire il linguaggio tecnico
utilizzato.
La traduzione è che chi tratta dati personali
nell'ambito di un ente pubblico o di una organizzazione di
impresa deve essere stato istruito e deve dimostrare di
conoscere gli adempimenti di privacy. L'obbligo è
particolarmente cogente. Si pensi all'articolo 83, paragrafo
4, del regolamento, che assoggetta, tra le altre, la
violazione dell'articolo 29 alla sanzione amministrativa
pecuniaria fino a 10 milioni di euro, o per le imprese, fino
al 2 % del fatturato mondiale totale annuo dell'esercizio
precedente, se superiore.
Un analogo obbligo era espressamente previsto dall'allegato
«b» al codice della privacy, nella versione originaria
relativa al documento programmatico sulla sicurezza.
L'obbligo è stato formalmente abrogato, ma non è venuto meno
l'obbligo di garantire la protezione dei dati e la sicurezza
dei trattamenti.
Nel regolamento europeo (che diventerà operativo dal 25.05.2018) imprese e p.a. devono preoccuparsi di
dimostrare la liceità dei trattamenti dei dati da loro
effettuati (principio di responsabilizzazione). A carico del
titolare del trattamento si pone anche la prova di avere
reso edotti tutti coloro che trattano dati dei rischi del
trattamento. Sul piano del risarcimento del danno, un
titolare del trattamento, pubblico o privato, potrà
difendersi se dimostra che l'evento dannoso non gli è
imputabile.
Anche a questo fine il titolare del trattamento
dovrà dimostrare di avere addestrato il personale al
rispetto delle prerogative dell'interessato. I dipendenti e
collaboratori devono essere formati al loro ingresso in
azienda o nell'ente e in occasione di novità organizzative o
normative significative. Gli interventi di formazione e la
loro adeguatezza alla realtà lavorativa potranno essere
presi in considerazione per calibrare le sanzioni
amministrative e la decisione sul risarcimento del danno.
La dimostrazione del grado di conoscenza della normativa
sulla privacy riguarda non solo i dipendenti, ma anche chi
agisce per l'ente pubblico o privato sulla base di un
rapporto di lavoro autonomo e professionale
(articolo ItaliaOggi del 18.06.2016). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Riforma Madia, all’appello mancano 10 decreti.
Prossime tappe la revisione delle regole sui premi di
produttività degli statali e il riordino della dirigenza.
Archiviata
mercoledì la questione «furbetti» insieme ai decreti su
conferenza dei servizi e Scia, la riforma della Pa apre il
secondo capitolo dell’attuazione, che conta una decina di
decreti in attesa del primo via libera (mentre altri sei,
tra i quali il taglio alle partecipate) stanno ultimando il
passaggio in Parlamento prima di tornare a Palazzo Chigi.
In prima fila ci sono gli interventi paralleli su dirigenza
e pubblico impiego, chiamati a decidere su articolo 18 e
premi di produttività. Il passaggio è indispensabile per
rinnovare i contratti nazionali, passati da 11 a 4 grazie al
ridisegno approvato sempre mercoledì. Il dibattito sugli
statali e le loro buste paga, insomma, entra ora nel vivo.
Lo stallo sul riordino della geografia del pubblico impiego
ha infatti rappresentato finora un ottimo pretesto per non
mettere mano ai nuovi contratti, su cui sia il governo sia i
sindacati si giocano una parte importante della loro
credibilità nella battaglia per rinnovare davvero la
pubblica amministrazione: con il testo sui nuovi comparti,
che la prossima settimana tornerà all’Aran per la sigla
definitiva e sarà quindi in vigore nei primi giorni di
luglio dopo l’ok della Corte dei conti, la partita si riapre
ufficialmente.
Sul risultato finale giocherà però un ruolo
determinante un altro pezzo della riforma Madia in arrivo,
quello che appunto riscrive il testo unico del pubblico
impiego e che entro la prima metà di luglio potrebbe
arrivare sul tavolo del consiglio dei ministri insieme alla
riforma della dirigenza: lì si riscriveranno le regole per i
premi di produttività dei dipendenti pubblici. Viste le
cifre, esili, che accompagnano i nuovi contratti (300
milioni, più una settantina, cioè lo 0,4% della massa
salariale, che regioni ed enti locali devono stanziare), le
sorti delle buste paga reali si giocheranno proprio su
integrativi e premi. «Licenziamo i dipendenti pubblici che
fanno i furbetti e valorizziamo i bravi», ha sintetizzato
ieri in un tweet il premier Matteo Renzi: dopo il decreto
anti-assenteismo, quindi, ora tocca alla seconda mossa.
Anche su questo aspetto la situazione è andata in stallo con
il blocco contrattuale introdotto nel 2010. La riforma
Brunetta aveva tentato di rivoluzionare il quadro imponendo
una doppia regola, mai applicata. La quota maggioritaria
delle risorse integrative deve andare alla produttività, e i
premi devono andare per metà ai dipendenti «eccellenti»,
pari al 25% del totale, e per l’altra metà al 50% degli
organici, collocati in fascia media, lasciando a secco
l’ultimo quarto del personale.
Per la riforma Madia il
sentiero è stretto, perché l’obiettivo è di superare la
rigidità delle tre fasce, che ha contribuito non poco alla
loro mancata attuazione, senza mettere in discussione il
principio che concentra i premi su una quota di «migliori» e
li azzera per una fascia di persone giudicate meno
produttive. L’idea potrebbe tradursi nel mantenimento di una
soglia in alto, che individua la quota di personale a cui
attribuire i premi maggiori, e di una in basso, per blindare
il concetto che non possono esserci premi per tutti, e
ampliare gli spazi di autonomia della contrattazione.
Una
semplificazione drastica, poi, dovrebbe arrivare per la
giungla di regole che in questi anni ha creato il caos nella
gestione dei fondi decentrati, quelli che finanziano la
parte integrativa della busta paga, con l’obiettivo di
cancellare le indennità che ancora “premiano” aspetti
ordinari (e spesso in pratica la stessa presenza in
servizio).
Il rafforzamento della contrattazione decentrata sarà anche
una delle linee guida dell’atto di indirizzo con cui la
Funzione pubblica aprirà ufficialmente le trattative dei
rinnovi. L’altra punterà a evitare un mini-ritocco del
tabellare uguale per tutti, introducendo una progressività
che concentri gli effetti sulle fasce più basse e li
alleggerisca via via che cresce il peso dello stipendio.
L’atto di indirizzo, comunque, non indicherà soglie (e
quindi nemmeno l’ipotesi di bloccare gli aumenti a quota
26mila euro circolata ma smentita da Palazzo Vidoni), ma il
principio.
L’altro rebus da sciogliere con i rinnovi contrattuali è
quello dell’incrocio con gli 80 euro, perché una fetta
consistente del pubblico impiego si affolla fra 24mila e
26mila euro di reddito, cioè nella fascia in cui può bastare
un piccolo aumento per uscire dal raggio d’azione del bonus.
Due le ipotesi al momento:?inserire l’effetto 80 euro
direttamente nelle tabelle, oppure indicare nell’atto di
indirizzo l’esigenza di tenerne conto nella modulazione
degli aumenti.
Sul fronte semplificazioni, invece, manca solo il tassello
rappresentato dal via libera finale al Dpr taglia-tempi,
quello che dimezza i termini per l’autorizzazione delle
opere (infrastrutture e impianti produttivi) considerate
«strategiche» e commissaria le amministrazioni che non
rispettano il calendario abbreviato: dopo un tira e molla
con le regioni, l’accordo è stato trovato sul passaggio
attraverso un altro decreto, da scrivere entro due mesi dopo
l’entrata in vigore del primo, per fissare i criteri con cui
individuare gli interventi strategici. Il grosso del lavoro,
comunque, è contenuto dalle riforme di Scia e conferenza dei
servizi approvate mercoledì, che nella sintesi via twitter
del premier produrranno «tempi certi, finalmente».
Gli
effetti attesi sono stati riassunti in una serie di slide
diffuse ieri sul sito della Funzione pubblica: agibilità
immediata per gli edifici (oggi si aspettano 60 giorni),
riduzione a tre dei regimi per le autorizzazioni (attività
libera per la manutenzione ordinaria, Scia per la
ristrutturazione e permesso di costruire per i nuovi
edifici) e domanda unica online per aprire un’attività.
Definite le regole, però, la possibilità di arrivarci
davvero passa anche dalla riorganizzazione delle
amministrazioni, a partire da Palazzo Chigi e ministeri la
cui struttura sarà rivista dal secondo pacchetto di decreti
attuativi in arrivo (articolo Il Sole 24 Ore del 17.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Licenziamento sprint per chi attesta il falso.
Entro 48 ore il dipendente è a casa senza stipendio.
Riforma Pa. Procedura accelerata per i «furbetti del
cartellino».
La falsa
attestazione della presenza in servizio porta direttamente
al licenziamento senza preavviso del dipendente pubblico; si
tratta della conferma di una fattispecie sanzionatoria già
presente nell'ordinamento.
La novità -contenuta nel decreto
attuativo approvato l’altro ieri dal Consiglio dei ministri-
consiste nell'introduzione di un procedimento disciplinare
speciale e “accelerato” riservato a un comportamento
infedele ritenuto particolarmente grave sia per l'opinione
pubblica che per l'efficienza stessa della Pa. Quello che
nel gergo giornalistico viene additato come “furbetto del
cartellino”, tecnicamente è definito come “falsa
attestazione della presenza in servizio”.
Locuzione che il
Governo ha voluto riempire di contenuti specificando che si
verifica con qualunque modalità fraudolenta tesa ad
ingannare l'amministrazione sull'orario di lavoro o sulla
presenza in servizio. Perché scatti la procedura speciale è
necessario che l'inganno venga accertato in flagranza ovvero
tramite sistemi automatici di sorveglianza o rilevazione
delle presenze.
Il primo che scopre il fatto, sia esso il responsabile del
servizio o l'ufficio per i procedimenti disciplinari, deve
immediatamente attivarsi adottando, con lo stesso atto, la
sospensione del dipendente e la contestazione degli
addebiti. Tempo massimo 48 ore e il dipendente è a casa
senza stipendio, fatto salvo l'assegno alimentare pari al
50% del tabellare. Ma il termine è solo ordinatorio e il
ritardo non avrà effetti invalidanti sul procedimento
disciplinare ma, eventualmente, ne farà partire uno nuovo
nei confronti del responsabile.
Al contrario il dirigente
verrà licenziato qualora non si attivi nei confronti dell'Upd,
non contesti gli addebiti o non sospenda il dipendente senza
giustificato motivo. Se l'allontanamento del dipendente in
48 ore ha un effetto mediatico importante, non si deve
sottovalutare che una contestazione degli addebiti
frettolosa e potenzialmente imprecisa può rischiare di
buttare nel cestino l'intero procedimento disciplinare.
Sempre nelle 48 ore e con lo stesso atto il dipendente dovrà
essere convocato a sua difesa davanti all'Upd non prima di
15 giorni, rinviabili una sola volta al massimo di altri 5.
Evidente a tutti l'ossessione per una tempistica
“accelerata”.
In un procedimento ordinario che porti al licenziamento, la
contestazione degli addebiti può avvenire entro 40 giorni e
la convocazione ha un preavviso minimo di 20. Con lo stesso
spirito il licenziamento dovrà avvenire entro 30 giorni
dalla contestazione dell'addebito contro i 120
ordinariamente previsti. Ma ancora una volta il termine è
indicativo poiché può essere tranquillamente superato ad
libitum, salvo garantire il diritto alla difesa da parte del
dipendente. Il ritardo non è neppure sanzionabile nei
confronti del o dei responsabili.
Licenziato il dipendente il lavoro non è ancora finito
perché i fatti dovranno passare al vaglio sia dell'Autorità
giudiziaria che della Corte dei conti. La prima dovrà
valutare la sussistenza di fattispecie penalmente rilevanti,
mentre ai magistrati contabili spetterà il compito di
valutare il danno all'immagine che dovrà tenere in debita
considerazione la rilevanza che l'episodio ha avuto sui
mezzi di informazione. Se accertato, il danno non potrà
comunque essere quantificato in meno di sei mensilità
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.06.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: L’imprecisione nella Scia non blocca l’attività.
Adempimenti. L’ente decide lo stop solo per dati non
veritieri sui requisiti o pericoli per salute e ambiente.
Il
decreto
legislativo di attuazione dell'articolo 5 della legge
124/2015, che sarà a breve pubblicato sulla Gazzetta
Ufficiale, ha come obiettivo prioritario la semplificazione
della procedura della Scia (segnalazione certificata di
inizio attività) recentemente modificata con l'articolo 6
della legge 124.
Le novità più significative possono essere così
sintetizzate. L'ente competente a ricevere la Scia (Comune,
Camera di Commercio e così via) il quale, in sede di
controllo, da effettuarsi tassativamente entro sessanta
giorni, riscontra la carenza di requisiti previsti dalla
legge speciale relativa alla attività intrapresa, deve
intervenire in due modi se la carenza può essere
regolarizzata dal privato:
- se la Scia contiene attestazioni non veritiere circa i
requisiti posseduti o se l'attività comporta pericoli per i
cosiddetti interessi sensibili come l'ambiente, la salute, i
beni culturali l'ente deve decidere la sospensione
dell'attività intrapresa;
-
negli altri casi in cui la Scia non è conforme a legge
l'ente deve prescrivere al privato le misure per la sua
regolarizzazione, ma l'attività non viene sospesa.
Nel caso di Scia carente dei requisiti, il dipendente
pubblico è responsabile della eventuale omissione dei
provvedimenti inibitori da assumere entro sessanta giorni;
non è però chiarita la natura di questa responsabilità.
Nei rispettivi siti gli enti destinatari della Scia devono
pubblicare i moduli unificati (a livello nazionale)
contenenti le notizie da dichiarare e i documenti da
allegare.
I moduli sono adottati dai ministeri per le attività di loro
competenza e dalla conferenza Stato-Regioni per le attività
produttive e l'edilizia.
Considerato che questi moduli non saranno disponibili a
breve il decreto impone agli enti di pubblicare nel sito (si
ritiene da subito) l'elenco dei requisiti e della
documentazione per ciascuna delle attività.
Da tempo però parecchi enti pubblicano moduli da essi
elaborati che spesso soddisfano queste nuove prescrizioni.
Le novità collegate alla pubblicità sono due: l'ente può
chiedere al privati notizie e documenti solo se il contenuto
della Scia e dei documenti già inviati non corrispondono a
quelli pubblicati nel sito; l'omessa pubblicazione nel sito
e la richiesta di ulteriori notizie e documenti
costituiscono illecito disciplinare punito con la
sospensione dal servizio e la privazione della retribuzione
da tre giorni a sei mesi.
Nel sito deve essere indicato anche lo “sportello unico” al
quale va presentata la Scia e questo può avere più sedi per
favorire l'accesso nel territorio. Dovrebbe coincidere con
il Suap (sportello unico attività produttive) ma un
chiarimento si impone visto anche il silenzio della
relazione illustrativa su questo tema importante.
Il decreto legislativo aggiunge l'articolo 19-bis da
applicare alla Scia che riguarda le attività economiche
quando le norme di settore impongono anche l'ottenimento di
attestazioni e simili o atti di assenso e simili rilasciati
da enti diversi da quello che riceve la Scia.
È una tematica complessa che dovrà essere coordinata con
l'articolo 17-bis (silenzio assenso tra Pubbliche
amministrazioni) e l'articolo 14 (conferenza di servizi)
della legge 241/1990.
Il decreto fissa le regole per due situazioni:
-
se una attività è soggetta a Scia non solo dell'ente
competente ma anche a altre Scia connesse (per esempio
nell’edilizia o ambientale) o ad attestazioni di altri enti
(per esempio vigili del fuoco) il privato può iniziare
subito l'attività e il primo ente deve inviare la Scia agli
altri enti che devono controllare gli aspetti di loro
competenza;
-
se per una attività soggetta a Scia occorre ottenere atti di
“assenso” di altre Pa il privato deve, assieme all'invio
della Scia, trasmettere anche la domanda per il rilascio di
questo atto. L'inizio effettivo della attività soggetta a
Scia in questo caso è subordinato all'assenso, unico caso
di deroga al principio dell'immediata efficacia della Scia.
Con il nuovo articolo 18-bis si attua una definizione
organica dello strumento della ricevuta rilasciata con la
presentazione sia della Scia della domanda.
Viene precisato che: la data della protocollazione della
ricevuta deve essere sempre quella della
presentazione(ricezione) della Scia e della domanda; questi
atti producono effetto anche senza il rilascio della
ricevuta purché presentati all'ufficio competente; la
ricevuta indica il termine entro cui l'ente deve
rispondere (nel caso della Scia va inteso che l'ente dopo i
sessanta giorni deve comunicare l'esito della verifica?) (articolo Il Sole 24 Ore del 17.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Edilizia, meno lacci nei lavori. Agibilità, basta
la segnalazione. Piccoli interventi liberi. Lo schema di
decreto che attua la legge 124/2015 approvato dal consiglio
dei ministri.
Pratiche edilizie in outsourcing.
Con le segnalazioni certificate si sposta sul privato
l'onere di verificare la regolarità edilizia e l'agibilità
degli edifici.
Questa la direzione in cui si muove il
decreto legislativo
attuativo della legge 124/2015, esaminato in via preliminare
dal consiglio dei ministri del 15.06.2016, che si occupa
anche di titoli edilizi, mandando in soffitta la denuncia di
inizio attività alternativa al permesso di costruire.
Il decreto dice addio anche al certificato di agibilità,
sostituito dalla segnalazione certificata di agibilità.
Vediamo le principali modifiche al Testo Unico dell'Edilizia
(dpr 380/2001).
OPERE LIBERE
Si amplia l'elenco delle attività non assoggettate al
rilascio di un titolo edilizio. Per effetto del decreto
rientrano nell'attività edilizia libera (prima erano
soggette a Comunicazione di inizio lavori) le opere precarie
destinate a sopperire a necessità fino a 90 giorni; la
pavimentazione e di finitura di spazi esterni, anche per
aree di sosta; la realizzazione di intercapedini interamente
interrate e non accessibili, vasche di raccolta delle acque,
locali tombati; i pannelli solari, fotovoltaici, a servizio
degli edifici, da realizzare al di fuori dei centri storici;
aree ludiche senza fini di lucro e gli elementi di arredo
delle aree pertinenziali degli edifici.
TITOLI EDILIZI
La comunicazione di inizio lavori (Cil) diventa
«Comunicazione di inizio lavori asseverata» e riguarda, per
differenza, tutte le opere escluse da quelle libere
(articolo 6) e quelle assoggettate a segnalazione
certificata di inizio attività o a permesso di costruire.
Si
tratta, ad esempio, degli interventi di manutenzione
straordinaria, ma su parti diverse da quelle strutturali
degli edifici o delle modifiche interne o delle modifiche di
destinazione d'uso per fabbricati ad uso d'impresa.
SCIA
Ci vuole la Segnalazione certificata di inizio attività per
gli interventi di manutenzione straordinaria su parti
strutturali dell'edificio; gli interventi di restauro e di
risanamento conservativo sempre su parti strutturali
dell'edificio; interventi di ristrutturazione edilizia
«pesante». La ristrutturazione edilizia «pesante» comprende
gli interventi che portano a un organismo edilizio in tutto
o in parte diverso dal precedente e che comportino modifiche
della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti,
o ancora che, limitatamente agli immobili compresi nei
centri storici, comportino mutamenti della destinazione
d'uso, oltre agli interventi che comportino modificazioni
della sagoma di immobili sottoposti a vincoli.
Muore la Dia
alternativa al permesso di costruire, sostituita dalla Scia
alternativa al permesso di costruire. Quest'ultimo titolo
servirà per le ristrutturazioni pesanti, per le nuove
costruzioni e le ristrutturazioni urbanistiche (se
disciplinati da piani attuativi comunque denominati), per le
nuove costruzioni diretta esecuzione di strumenti
urbanistici generali recanti precise disposizioni
plano-volumetriche e anche per gli interventi di nuova
costruzione qualora siano in diretta esecuzione di strumenti
urbanistici generali recanti precise disposizioni
plano-volumetriche.
AGIBILITÀ
Scompare il certificato sostituito dalla segnalazione
certificata di agibilità, da presentare entro 15 giorni
dall'ultimazione dei lavori di finitura di nuove
costruzioni; ricostruzioni o sopraelevazioni, totali o
parziali; oppure interventi sugli edifici esistenti che
possano influire sulle condizioni igienico-sanitarie.
La
mancata presentazione della segnalazione comporta
l'applicazione della sanzione amministrativa pecuniaria da
77 a 464 euro. La segnalazione certificata di agibilità può
riguardare anche singoli edifici o singole porzioni della
costruzione, o singole unità immobiliari, purché siano
completate e collaudate le opere strutturali connesse, siano
certificati gli impianti.
PERMESSO DI COSTRUIRE
Il progettista, tenuto a d asseverare la conformità a leggi
e strumenti urbanistici ed edilizi, deve sempre dichiarare
la conformità del progetto alla disposizioni
igienico-sanitarie e non solo, come ora previsto, nel caso
in cui la verifica non comporti valutazioni
tecnico-discrezionali.
COLLAUDO STATICO
Non sarà sempre necessario il collaudo statico. Per gli
interventi di riparazione e per gli interventi locali sulle
costruzioni esistenti, come definiti dalla normativa
tecnica, il certificato di collaudo è sostituito dalla
dichiarazione di regolare esecuzione resa dal direttore dei
lavori.
AMBIENTE
Il decreto razionalizza la fase finale del procedimento di
rilascio dell'autorizzazione integrata, rimodulando lo
svolgimento della conferenza dei servizi In materia di
bonifica di siti inquinati il decreto prevede che il
proprietario del fondo inquinato possa auto-dichiarare la
propria estraneità rispetto alla potenziale contaminazione
dei siti, attestando di non avere operato presso il sito a
qualsiasi titolo, anche tenuto conto dei collegamenti
societari e di cariche direttive ricoperte in soggetti che
abbiano invece operato in quel luogo.
---------------
La Scia non libera gli enti dall'onere
delle istruttorie.
Può costare caro ai funzionari pubblici restare inerti nei
procedimenti amministrativi e farli concludere col silenzio
assenso o con il consolidamento delle attività avviate con
la Scia.
Il decreto attuativo della legge 124/2015 proprio di riforma
della Scia (segnalazione certificata di inizio attività)
incide in maniera molto rilevante sulla legge 241/1990 che
regola il procedimento amministrativo, responsabilizzando in
maniera molto forte gli apparati.
L'operazione è compiuta in particolare con l'inserimento
nell'articolo 21 della legge sul procedimento amministrativo
del nuovo comma 2-ter, ai sensi del quale «la decorrenza del
termine previsto dall'articolo 19, comma 3, e la formazione
del silenzio assenso ai sensi dell'articolo 20 non escludono
la responsabilità del dipendente che non abbia agito
tempestivamente nel caso in cui la segnalazione certificata
o l'istanza del privato non fosse conforme alle norme
vigenti».
L'articolo 19, comma 3, contiene il termine di 60 giorni
dalla ricezione della Scia, entro il quale l'amministrazione
accerta l'effettivo possesso dei requisiti e dei presupposti
di legittimità e di diritto che consentono il legittimo
avvio dell'attività imprenditoriale.
L'articolo 20 disciplina il silenzio-assenso, stabilendo che
nei procedimenti ad istanza di parte il silenzio
dell'amministrazione competente equivale a provvedimento di
accoglimento della domanda, senza necessità di ulteriori
istanze o diffide, se la medesima amministrazione non
comunica all'interessata entro il termine finale del
procedimento (stabilito dalla legge o dai regolamenti) il
provvedimento di diniego.
Non poche amministrazioni hanno inteso queste disposizioni
come una sorta di liberazione dall'onere di svolgere le
istruttorie sulle pratiche e di concluderle con
provvedimenti espressi.
In effetti, questo modo di agire è di per sé contrario
all'obbligo, sempre posto dalla legge 241/1990, all'articolo
21, comma 1, di concludere ogni procedimento amministrativo
con un provvedimento espresso.
Qualsiasi Scia, quindi, dovrebbe implicare l'apertura di un
procedimento, da concludere entro 60 giorni, per la verifica
dei presupposti oggetto della dichiarazione; allo stesso
modo, tutti i procedimenti ad istanza di parte vanno
conclusi entro la scadenza fissata, prima che si formi il
silenzio assenso. Infatti, sia il silenzio assenso, sia la
formazione implicita dell'autorizzazione all'esercizio
dell'attività oggetto di Scia sono un rimedio all'inerzia
della p.a.: quindi, strumenti straordinari, finalizzati a
non lasciare cittadini e imprese privi di un titolo
giuridico, anche se tacito.
La riforma della Scia, adesso, chiarisce che i dipendenti
che non hanno esercitato i controlli sulle Scia entro i 60
giorni, o che hanno lasciato decorrere i termini del
silenzio assenso senza istruire la pratica come dovuto,
incorrono in responsabilità qualora si accerti, a
posteriori, che la Scia era fondata su presupposti erronei o
che il richiedente non aveva titolo alla formazione di un
provvedimento tacito di assenso.
In parole più povere, gli strumenti di autoproduzione del
titolo giuridico (Scia) o di formazione tacita dell'assenso
non esentano in alcun modo la p.a. dal dovere di istruire le
pratiche, per verificare la legittimità delle attività del
privato entro i termini previsti. Non solo, infatti, se non
si provvede si vìola il dovere di concludere ogni
procedimento in modo espresso, ma si rischia di rispondere
dei danni possibili eventualmente connessi all'inerzia che
ha permesso alle Scia di consolidarsi senza verifiche nei 60
giorni, e alle istanze di ottenere assensi taciti, senza
alcuna attività istruttoria che, se realizzata, avrebbe
dovuto condurre al rigetto, invece che all'accoglimento
(articolo ItaliaOggi del 17.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Un catasto infrastrutture. Accelerati scavi e
posa della banda ultra larga. In
Gazzetta il dm che istituisce il Sinfi. In arrivo il dlgs
che accelera i lavori.
Svolta per la banda ultra larga. Nasce il catasto nazionale
delle infrastrutture. Con la finalità di accelerare i tempi
di realizzazione della posa della fibra ottica e
dell'utilizzo delle nuove tecnologie in materia di scavo. In
assenza di infrastrutture disponibili, l'installazione delle
reti di comunicazione elettronica ad alta velocità sarà
«effettuata preferibilmente con tecnologie di scavo a basso
impatto ambientale».
In concreto si avrà, una spinta
all'utilizzo delle «tecnologie trenchless» che permettono la
posa di manufatti e di condotte sotterranei limitando o
addirittura eliminando la realizzazione di scavi a cielo
aperto.
Queste le più importanti novità contenute nel dlgs attuativo
della direttiva 2014/61/Ue recante misure volte a ridurre i
costi dell'installazione di reti di comunicazione
elettronica ad alta velocità (in via di pubblicazione sulla
Gazzetta Ufficiale).
Il decreto (che ha ricevuto il via libera dal consiglio dei
ministri del 15.02.2016), che attua le disposizioni
del decreto legge 12.09.2014 n. 133, convertito con
modificazioni dalla legge 11.11.2014 n. 164, definisce
le regole tecniche e le modalità per la costituzione, la
consultazione e l'aggiornamento dei dati territoriali
detenuti dalle pubbliche amministrazioni e dai soggetti
proprietari o concessionari di infrastrutture di gas, luce,
acqua e telecomunicazioni.
Gestione sistema informativo e disciplina
fiscale applicabile agli operatori.
Il «sistema informativo» gestito dal ministero dello
Sviluppo economico e regolato da un decreto ministeriale
dell'11/5/2016 (pubblicato sulla Gazzetta del 16/06/2016 n.
139), conterrà tutte le informazioni relative alle
infrastrutture sul territorio, sia nel sottosuolo che nel
sopra suolo.
Le p.a. avranno a disposizione 180 giorni dalla
pubblicazione del dm per comunicare le informazioni al Sinfi
(sistema informativo nazionale federato delle
infrastrutture) e gli operatori avranno a disposizione
invece 90 giorni. Un'altra novità di rilievo trattata nel
dlgs (articolo 12, 3° comma) è quella relativa al regime
fiscale cui possono essere assoggettati gli operatori.
Questi ultimi potrebbero essere tassati per la sola
occupazione di suolo pubblico (Tosap e Cosap), privando così
i comuni della possibilità di applicare altre tasse sui
lavori, i cosiddetti oneri non ricognitori.
Tecnologie di scavo innovative.
Una novità importante è quella prevista dall'articolo 5 del
dlgs, dove viene disciplinato il coordinamento delle opere
di genio civile e l'accesso all'infrastruttura in corso di
realizzazione. Il dettato normativo prevede infatti che in
assenza di infrastrutture disponibili, l'installazione delle
reti di comunicazione elettronica ad alta velocità sia
«effettuata preferibilmente con tecnologie di scavo a basso
impatto ambientale» (cd. «tecnologie trenchless»).
Ma c'è un
tassello in più, perché «le specifiche delle tecniche di
posa su tralicci e pali, di scavo tradizionale e di scavo a
basso impatto ambientale, nonché dei relativi ripristini
sono definite dall'Ente nazionale italiano di unificazione
attraverso le apposite norme tecniche e prassi di
riferimento».
Questa statuizione dà potere all'ente
incaricato di definire gli standard e contemporaneamente
elimina la necessità di ricorrere continuamente a interventi
normativi «di sblocco» delle tecnologie innovative.
Condomini.
Ai proprietari di unità immobiliari, o il condominio ove
costituito in base alla legge, viene riconosciuto (art. 8
del dlgs) «il diritto, ed ove richiestone, l'obbligo, di
soddisfare tutte le richieste ragionevoli di accesso
presentate da operatori di rete, secondo termini e
condizioni eque e non discriminatorie, anche con riguardo al
prezzo».
Nel caso in cui «un condominio anche di edifici
esistenti realizzi da sé un impianto multiservizio in fibra
ottica e un punto di accesso» ha il diritto e, ove
richiestone, l'obbligo, di «soddisfare tutte le richieste
ragionevoli di accesso presentate da operatori di rete,
secondo termini e condizioni eque e non discriminatorie,
anche con riguardo al prezzo»
(articolo ItaliaOggi del 17.06.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO:
P.a., licenziamenti a due facce. Non sarà facile
rispettare il termine dei 30 giorni. DECRETI MADIA/ Il
problema si pone in caso di falsificazioni collettive delle
presenze.
Più veloci ma non più semplici i licenziamenti degli
assenteisti. I problemi nascono dalla difficile combinazione
tra i termini brevissimi del procedimento disciplinare (30
giorni), la garanzia del diritto alla difesa e la generale
configurazione della falsificazione dei dati sulle presenze
come violazione disciplinare «collettiva». Il procedimento
disciplinare, come dimostrano i fatti di cronaca, non
riguarda mai uno o pochi dipendenti: di solito, i «furbetti
del cartellino» sono un'organizzazione di parecchi soggetti
che si coprono a vicenda, mediante la falsificazione delle
attestazioni della presenza.
Poiché la prima audizione per consentire agli incolpati di
esporre le difese deve garantire loro un termine di almeno
15 giorni, è perfettamente chiaro che rispettare il termine
di 30 giorni per concludere un procedimento disciplinare
resta possibile se la scoperta del fatto riguardi uno o
comunque pochi lavoratori; se si tratta di decine, quando
non di centinaia, materialmente non si avrebbe il tempo per
chiudere per ciascun procedimento per ogni dipendente entro
i termini fissati.
Sia i dirigenti ai vertici delle
strutture presso i quali i dipendenti infedeli lavorano,
sia, soprattutto, gli uffici per i procedimenti disciplinari
saranno chiamati a un super lavoro e a una corsa contro il
tempo, che rischia di compromettere, nei fatti, il lodevole
intento di mostrare il pugno di ferro contro l'assenteismo.
Il decreto deve spingere le amministrazioni a immaginare
sistemi di controllo delle presenze più efficaci, visto che
i dirigenti sono chiamati a una responsabilità disciplinare
quasi oggettiva, nel caso si verifichino eventi di
assenteismo.
Saranno sicuramente necessarie direttive molto rigorose per
disciplinare l'attestazione della presenza in servizio, che
non riguarda solo l'ingresso a inizio lavoro, ma l'intera
giornata lavorativa, ma forse non saranno sufficienti.
Occorrerà una vigilanza molto stretta. Non potendo
immaginare, però, che i dirigenti possano impiegare il loro
tempo stazionando ai tornelli e agli orologi marcatempo,
probabilmente le amministrazioni dovranno effettuare
investimenti in impianti video, concordando con le
organizzazioni sindacali il tutto, per assicurare una
vigilanza continuativa, specie nelle sedi decentrate, fuori
dalla portata materiale del controllo dei vertici
amministrativi. Ma anche in questo caso si pongono problemi,
perché la riforma prevede che dalla propria attuazione «non
devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della
finanza pubblica».
Infine, occorrerebbe un urgente coordinamento con la
questione dell'articolo 18. La brevità dei termini dei
procedimenti disciplinari li espone tutti a errori che
potrebbero essere considerati dal giudice del lavoro come
causa di annullamento dei licenziamenti
(articolo ItaliaOggi del 17.06.2016). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Liti pendenti, conflitti limitati. Al fine di
valutare l'incompatibilità.
Con le elezioni amministrative in corso in molte città
d'Italia, si ripropone, negli enti locali, l'esame delle
incompatibilità alla carica degli amministratori. Si tratta
di un limite al diritto costituzionalmente garantito
all'elettorato passivo, ai sensi dell'art. 51 della
Costituzione, che, pertanto, può essere ammesso soltanto
laddove sussista il rischio di conflitto tra l'interesse
personale dell'eletto e l'interesse collettivo che questi,
come amministratore, è tenuto a perseguire.
La disciplina, nel dlgs n. 267/2000 si rinviene nell'art.
63, comma 1, che elenca le cause di incompatibilità con la
carica di amministratore locale. Tra queste, vi è la
pendenza di una lite con l'ente in cui si è amministratore,
in qualità di parte di un procedimento civile o
amministrativo. La lettura costituzionalmente orientata
della norma ha delimitato il concetto di «parte», in senso
strettamente processualistico.
La Cassazione ha ulteriormente precisato che, al dato
formale, corrisponda una concreta contrapposizione di parti,
una reale situazione di conflitto. È stata, per esempio,
esclusa l'incompatibilità per il consigliere comunale, socio
accomandante in una società di persone, la quale è
controparte dell'ente, in un contenzioso innanzi al Tar, in
quanto l'amministratore locale non è parte processuale, ma
lo è la società di cui lo stesso è socio. Il legislatore,
nel ragionevole esercizio della sua discrezionalità, in
attuazione dell'art. 51 Cost., regolamenta il regime delle
cause di incompatibilità e circoscrive l'ambito di
applicabilità dell'istituto.
Laddove il conflitto, tra l'interesse pubblico e quello
privato, non è ravvisato, anche solo potenzialmente, sono
state previste le cosiddette esimenti, ovvero i casi in cui,
nonostante la lite pendente, non sussiste incompatibilità:
in materia tributaria, per liti connesse all'esercizio del
mandato, per lite conseguente a sentenza di condanna in sede
civile o amministrativa
(articolo ItaliaOggi del 17.06.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO: Pa, arriva la stretta contro i «furbetti».
Renzi: «È finita la pacchia per chi timbra e se ne va - La
riduzione dei comparti riapre il dialogo sui contratti».
Un massimo di 48 ore per la sospensione dell’assenteista,
che andrà convocato per il contraddittorio dopo 15 giorni e
potrà chiedere uno slittamento di 5 giorni in caso di
«oggettivo, oggettivo e assoluto impedimento» in vista del
verdetto finale entro 30 giorni.
È il calendario il cuore delle nuove
regole sui dipendenti pubblici che vengono individuati in
flagrante oppure filmati mentre timbrano l’entrata e poi
evitano l’ufficio, per arrivare a quello che il premier
Matteo Renzi ha definito ieri in conferenza stampa un
«licenziamento cattivo ma giusto», con cui «chi viene
beccato a timbrare il cartellino e ad andarsene vede
finalmente finita la pacchia».
Si gioca tutta sui termini la stretta su un fenomeno, quello
dell’assenteismo, che da Sanremo ad Agrigento torna
ciclicamente al centro delle cronache e delle riforme della
pubblica amministrazione, ma che finora ha prodotto
licenziamenti veri con il contagocce. Il lavoro di
rifinitura rispetto alla versione approvata a gennaio si è
concentrato sulla doppia esigenza di garantire tempi rapidi
alle decisioni disciplinari, cancellando la «lunga trafila»
evocata ieri dal premier, e tutelare il diritto di difesa
del dipendente, senza il quale il decreto avrebbe rischiato
di trasformarsi in una petizione di principio destinata a
cadere davanti ai giudici delle leggi.
Per centrare il doppio obiettivo, il
testo finale approvato
ieri, che ora attende solo la pubblicazione in Gazzetta
Ufficiale per diventare legge dello Stato, apre una finestra
di difesa che dura 15 giorni, durante i quali il dipendente
accusato di assenteismo «flagrante» può produrre memorie e
difese in vista del contraddittorio, a cui può farsi
accompagnare da un procuratore o da un rappresentante
sindacale. Durante la sospensione, il dipendente avrà
diritto all’assegno alimentare.
Tagliare davvero il traguardo nei tempi chiesti dalla
riforma metterà sotto pressione dirigenti e uffici
disciplinari, anche se ovviamente non basterà un ritardo per
far cadere il tutto, e per evitare distrazioni interviene il
capitolo delle sanzioni destinate ai dirigenti, oppure ai
responsabili dei servizi negli enti più piccoli dove i
dirigenti non ci sono. Sul punto, la polemica è stata sulla
citazione esplicita del reato di «omissione di atti
d’ufficio» a carico dei dirigenti che avrebbero ritardato
l’avvio della procedura verso il licenziamento.
Giudici
amministrativi e parlamentari hanno chiesto di toglierla,
per evitare l’eccesso di delega che avrebbe messo a rischio
la legittimità della nuova regola, ma va chiarito che
all’atto pratico cambia poco rispetto alla previsione
iniziale. «Per il dirigente che gira le spalle», come l’ha
definito ieri la ministra per la Pa e l’Innovazione Marianna
Madia, il decreto approvato ieri conferma il licenziamento
per illecito disciplinare già scritto nel testo di gennaio,
a cui affianca la segnalazione all’autorità giudiziaria,
chiamata ad accertare «la sussistenza di eventuali reati».
Ovvio che il reato in gioco resta quello dell’omissione di
atti d’ufficio, per la quale l’articolo 328 del Codice
penale prevede una reclusione da sei mesi a due anni: con
una pena di questo tipo, è il caso di precisare, non si apre
il carcere alla prima condanna.
Il pacchetto delle sanzioni a carico degli assenteisti non
si esaurisce comunque qui, perché contempla anche un
versante erariale, con la definizione delle modalità con cui
i dipendenti condannati devono risarcire l’amministrazione
per il «danno all’immagine» prodotto dal loro comportamento.
Anche in questo caso, la riforma interviene su un filone già
aperto dalle regole in vigore, ma gioca la carta della
precisazione per legge di tempi e sanzioni per provare a
tradurlo in pratica.
Gli assenteisti colti sul fatto vanno
segnalati entro 15 giorni alla procura della Corte dei
conti, che deve avviare l’azione di responsabilità entro 120
giorni dalla denuncia. Pesare il danno, e quindi il
risarcimento, rimane compito della «valutazione equitativa»
del giudice contabile, che dovrà muoversi però entro due
parametri: la condanna non potrà essere inferiore a sei
mensilità dell’ultimo stipendio, più interessi e spese di
giustizia, e dovrà essere misurata anche sulla base della
«rilevanza del fatto per i mezzi d’informazione».
La fortuna
incontrata dal suo caso su giornali e televisioni, insomma,
potrà aumentare il conto a carico dell’assenteista, sulla
base del presupposto che un assenteismo “da prima pagina”
danneggia l’immagine della Pa più di una vicenda confinata
nelle brevi. Il collegamento fra i due fattori è
indiscutibile ma il parametro è piuttosto atecnico, e ha
fatto storcere il naso al Consiglio di Stato: alla base,
però, ci sono ragioni più politiche che giuridiche.
Dal consiglio dei ministri di ieri è arrivato poi il via
libera finale alla riforma dei comparti, che in base
all’accordo raggiunto il 6 aprile scorso e poi passato
all’esame dell’Economia riduce da 11 a 4 i contratti
nazionali del pubblico impiego. Il passaggio era
indispensabile per aprire le trattative sul rinnovo dei
contratti, definiti da Renzi «un obbligo ma anche un impegno
che ci sentiamo di prendere».
Costruito il quadro delle
regole occorre cominciare a discutere su come gestire i
soldi, 300 milioni più la quota a carico dei bilanci di
regioni ed enti locali, messa a disposizione dall’ultima
manovra: e sul punto le trattative promettono scintille (articolo Il Sole 24 Ore del 16.06.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Al debutto il modello standard per la Scia.
Semplificata la procedura per cittadini e imprese -
Silenzio-assenso se la Pa non risponde entro 30 giorni.
Procedure e
tempi standard, rafforzate nella versione finale da un
divieto esplicito per le pubbliche amministrazioni di fare
richieste ulteriori rispetto a quelle previste dal modello.
La «segnalazione certificata di inizio attività», cioè la
comunicazione che va trasmessa alla Pa quando si avvia un
intervento (nell’edilizia, per esempio, o nel commercio) che
non ha bisogno di un’autorizzazione espressa, prova a
raggiungere davvero gli obiettivi di semplificazione che
erano alla base della sua introduzione. Per farlo, con il
decreto attuativo della delega Madia approvato ieri in via
definitiva dal consiglio dei ministri, punta tutto sulla strandardizzazione.
Il «manuale d’uso», che per ogni intervento precisa regole e
procedure, è scritto in un decreto parallelo avviato ieri
verso l’esame di consiglio di Stato e Parlamento, ma anche
lo stesso principio ispira il quadro dei principi generali
disegnato dal decreto ora arrivato al traguardo finale.
Ora tocca all’attuazione, che impegna la pubblica
amministrazione nel suo complesso perché gli standard devono
essere individuati da ogni livello di governo, ciascuno per
le proprie competenze: nei ministeri è più facile, perché
ogni ministro dovrà provvedere con decreto d’intesa con la
Funzione pubblica, mentre regioni ed enti locali dovranno
adottare i modelli in conferenza unificata. Il sistema dovrà
essere pronto entro il 1° gennaio prossimo.
L’altro versante della semplificazione è nell’interlocutore
unico, che dovrà smistare la documentazione quando la
richiesta del cittadino o dell’impresa coinvolge le
competenze di più uffici. L’assenso, anche silenzioso, dovrà
di regola arrivare in 30 giorni, con avvio immediato
dell’attività «segnalata» nella Scia: se poi un controllo
individua vizi non irrimediabili, ci si potrà mettere in
regola in 30 giorni senza interrompere l’attività. Vista
l’ampiezza delle procedure in gioco, però, le scadenze
possono variare a seconda dei casi, ma dovranno essere
esplicite: l’ufficio che riceve l’istanza dovrà infatti
rilasciare una ricevuta, anche in via telematica, nella
quale è scritta la data entro cui deve arrivare la risposta,
esplicita o tramite silenzio-assenso.
Come accade nel
decreto anti-assenteismo, poi, a blindare il tutto
intervengono le sanzioni: i dirigenti degli uffici che non
pubblicano gli standard o che chiedono documenti ulteriori
rispetto a quelli previsti dai modelli inciampano in un
illecito disciplinare che a seconda della gravità del caso
li sospenderà da servizio e stipendio per un periodo da tre
giorni a sei mesi.
A completare il pacchetto delle semplificazioni approvate
ieri in consiglio dei ministri arriva poi il regolamento che
semplifica le procedure per le autorizzazioni paesaggistiche
previste dal Codice dei beni culturali. Il decreto esclude
dalle autorizzazioni anche nelle aree vincolate le opere
interne che non alterano l’aspetto esteriore degli edifici,
e prevede un iter alleggerito per una serie di opere
considerate a basso impatto (per esempio gli incrementi non
superiori a 100 metri cubi o al 10% della volumetria
originaria) o per i rinnovi di autorizzazioni già ricevute
in passato.
Il regolamento, a conferma del fatto che tra gli
obiettivi di semplificazione e la loro traduzione pratica il
passo non è breve, era previsto da un decreto del maggio
2014, ritoccato quattro mesi dopo dallo «sblocca-Italia», e
avrebbe dovuto vedere la luce entro il novembre di
quell’anno (articolo Il Sole 24 Ore del 16.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: Conferenza servizi, per chiudere 150 giorni (45 per casi
semplificati). Autorizzazioni. La nuova disciplina si applicherà solo ai
procedimenti avviati dopo l’entrata in vigore.
Cinque mesi
per completare l’intera procedura nei casi più complessi,
che possono scendere fino ad appena 45 giorni. Possibilità
di svolgere le riunioni in via telematica e “asincrona”,
cioè senza la presenza fisica dei rappresentanti delle varie
amministrazioni. Una voce sola per tutte le Pa, per evitare
sovrapposizioni, blocchi e veti. E acquisizione automatica
dell’assenso di chi non si esprime.
Sono solo alcuni
ingredienti della nuova conferenza di servizi che ieri il
Consiglio dei ministri ha varato in via definitiva. Molte le
conferme rispetto alla prima versione del decreto che attua
la delega Madia, ma qualche novità di peso è arrivata
all’ultimo minuto.
Soprattutto, accogliendo alcune
osservazioni formulate da Consiglio di Stato, Conferenza
unificata e Parlamento, è stato previsto che alle riunioni
della conferenza possono essere invitati i privati
interessati, inclusi i soggetti che hanno proposto il
progetto, per depositare documenti e memorie. Ed è stata
anche inserita una tagliola per regolare la fase
transitoria: le norme ormai prossime alla pubblicazione si
applicheranno, quindi, solo alle nuove procedure.
La strada ordinaria da seguire per acquisire pareri e intese
di diverse amministrazioni diventa la conferenza
semplificata. Andrà svolta in modalità “asincrona”, dice il
decreto, cioè senza la presenza fisica dei vari
rappresentanti delle amministrazioni coinvolte attorno a un
tavolo, ma con scambio di documenti via mail. La conferenza
deve essere indetta entro cinque giorni lavorativi
dall’inizio del procedimento d’ufficio o dal ricevimento
della domanda e deve concludersi in tempi certi.
Per la
precisione, ai partecipanti alla conferenza vengono
assegnati 45 giorni per fornire il proprio parere. Un ritmo
serrato, dal momento che nella prima versione del decreto
veniva fissato un limite massimo di 60 giorni. Il termine
raddoppia e sale a 90 giorni per gli enti di tutela
ambientale, paesaggistica, culturale e della salute dei
cittadini. La mancata pronuncia entro il termine viene
considerata alla stregua di un assenso incondizionato. Al
contrario, gli eventuali dissensi devono essere «non
superabili» per portare a una pronuncia negativa.
La seconda strada, da seguire «solo quando è strettamente
necessaria», porta alla conferenza simultanea, cioè con la
presenza dei rappresentanti delle amministrazioni, «ove
possibile anche in via telematica». Anche in questo caso la
conclusione del procedimento deve avvenire entro 45 giorni
dalla prima riunione. E varrà la regola del rappresentante
unico. Ciascun ente invitato, cioè, potrà farsi
rappresentare da un unico soggetto. Nel caso di
amministrazioni statali, addirittura, è previsto che
parleranno tutte per bocca di un unico soggetto, «abilitato
ad esprimere definitivamente in modo univoco e vincolante la
posizione di tutte». A indicare il rappresentante unico sarà
Palazzo Chigi o, nel caso di amministrazioni statali
periferiche, il prefetto. In caso di disaccordo, le altre
amministrazioni potranno mettere a verbale il loro parere
negativo ma non potranno incidere sulla volontà del
rappresentante unico.
Una terza alternativa viene prevista per i progetti di
particolare complessità e per gli insediamenti produttivi di
beni e servizi. Su motivata richiesta dell’interessato,
corredata da uno studio di fattibilità, l’amministrazione
potrà indire una conferenza preliminare «finalizzata a
indicare al richiedente», le condizioni per ottenere il via
libera. Per i progetti da sottoporre a valutazione di
impatto ambientale si procede di norma con una sola
conferenza di servizi da svolgere in forma simultanea e non
con due procedimenti paralleli come accaduto finora. Fanno
eccezione i procedimenti relativi a progetti sottoposti a
valutazione ambientale di competenza statale.
Una volta conclusa la conferenza, resta la possibilità di
fare opposizione. Ma non per tutti, Entro dieci giorni dalla
conclusione della conferenza gli enti di tutela possono
chiedere l’intervento del Consiglio dei ministri. Un
chiarimento importante arriva, infine, nella parte che
regola le norme transitorie. Le disposizioni del decreto,
infatti, saranno applicate solo ai procedimenti avviati
«successivamente alla data della sua entrata in vigore» (articolo Il Sole 24 Ore del 16.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Un solo sportello per la Scia. Moduli standard,
info per e-mail, iter semplificati.
CONSIGLIO DEI MINISTRI/ Ultimo sì al decreto sulla
segnalazione attività.
One stop shop per la nuova Scia. Si va da un solo sportello
per presentare la segnalazione certificata di inizio
attività, anche quando ci sono procedimenti connessi di
competenza di più p.a. e quando ci sono catene di Scia
(l'una presupposto di altra).
La procedura semplificata è prevista dallo schema di decreto
legislativo in attuazione dell'articolo 5 della legge
124/2015, approvato ieri in via definitiva dal Consiglio dei
ministri.
Il decreto in commento stabilisce la disciplina generale
applicabile alle attività private soggette a segnalazione
certificata di inizio di attività (Scia), ma non vengono
elencati i casi in cui si può ricorrere alla segnalazione.
Anzi si rinvia a successivi decreti legislativi
l'individuazione delle attività oggetto di mera
comunicazione, di Scia o di silenzio assenso, nonché di
quelle per le quali è necessario il titolo espresso. Tutte
le attività private non espressamente disciplinate dai
decreti o dalla normativa europea, statale o regionale non
sono soggette a controllo preventivo.
Ma vediamo in dettaglio i profili di semplificazione.
Moduli standard e poco da chiedere.
Il cittadino deve
ricevere dalla p.a. moduli chiari e completi sulle
circostanze da dichiarare e su eventuali documenti da
allegare alle pratiche. Per l'edilizia e le attività
produttive ci saranno modelli standard a livello italiano.
Se i singolo enti non provvedono ai modelli standard, si
attiva il potere sostitutivo, in salita, di regioni e stato.
L'amministrazione deve stabilire prima che cosa serve,
pubblicando sul sito i modelli e da subito tutte le
dichiarazioni, attestazioni, asseverazioni e simili d
allegare alla Scia.
Solo in via eccezionale la p.a. può
chiedere documenti al cittadino. Anzi c'è un solo caso
residuale, e cioè la mancata corrispondenza del contenuto
dell'istanza, segnalazione o comunicazione e dei relativi
allegati rispetto ai fatti che l'ente richiede in generale a
corredo delle istanze/segnalazioni. Per il resto è vietata
ogni richiesta di informazioni o documenti ulteriori
rispetto a quelli che sono indicati preventivamente come
necessari o di documenti in possesso di una pubblica
amministrazione.
Stipendio in fumo.
Se non si fa la pubblicazioni delle
dichiarazioni/attestazioni che servono per la singola
pratica, ci va di mezzo lo stipendio del funzionario
pubblico: la sanzione disciplinare è della sospensione dal
servizio con privazione della retribuzione da tre giorni a
sei mesi. Lo stesso se si chiedono documenti diversi da
quelli pubblicati.
Ricevuta.
Il decreto obbliga a rilasciare una ricevuta della
segnalazione o istanza presentata. Nella ricevuta si indica
quando scatta il silenzio-assenso o il termine di
conclusione del procedimento. Per i termini non si può
giocare sulla differenza tra protocollazione dell'istanza e
giorno (precedente) di effettiva presentazione: le due date
devono essere identiche.
Controlli sulla Scia.
Se durante i controlli sulla scia,
emergono vizi regolarizzabili non si può sospendere
l'attività, ma si apre un subprocedimento finalizzato alla
regolarizzazione. La sospensione scatta, invece, in presenza
di attestazioni non veritiere o di pericolo per la tutela
dell'interesse pubblico in materia di ambiente, paesaggio,
beni culturali, salute, sicurezza pubblica o difesa
nazionale. L'atto motivato interrompe il termine di 60
giorni (previsto per i controlli dell'ente competente), che
ricomincia a decorrere dalla data in cui il privato comunica
l'adozione delle misure.
Sportello unico Scia.
Si prevede un solo sportello, di
regola telematico, per la presentazione della Scia. Si
tratta di one stop shop anche per procedimenti connessi a
più p.a. e per Scia a servizio di altre Scia.
Domicilio digitale.
Tutti i cittadini hanno la possibilità
di indicare un indirizzo e-mail per ricevere tutte le
comunicazioni.
Silenzio-assenso.
I termini del silenzio assenso decorrono
dalla data di ricevimento della domanda del privato.
Responsabilità.
È responsabile il funzionario pubblico che
ha lasciato correre una Scia o una istanza non conforme alla
normativa, per le quali è sempre possibile l'attività di
vigilanza.
Enti locali e regioni.
Devono adeguare i propri regolamenti
alla nuova Scia entro il 01.01.2017
(articolo ItaliaOggi del 16.06.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
In edilizia uno snellimento dei regimi
amministrativi.
Mappatura completa e precisa individuazione delle attività
oggetto di procedimento di mera comunicazione o segnalazione
certificata di inizio attività (Scia) o di silenzio-assenso,
nonché quelle per le quali è necessario il titolo espresso,
con conseguenti disposizioni normative di coordinamento.
Semplificazione di regimi amministrativi in materia
edilizia.
Lo prevede lo
schema di decreto legislativo, approvato ieri
dal consiglio dei ministri in via preliminare, recante
«Norme in materia di regimi amministrativi delle attività
private (Scia 2)», in attuazione della delega (legge 07.08.2015, n. 124).
Conferenza dei servizi.
Via libera definitivo, invece, a un
decreto legislativo recante norme per il riordino della
disciplina in materia di conferenza dei servizi, in
attuazione dell'articolo 2 della legge 07.08.2015, n.
124.
Nello specifico, spiega una nota di palazzo Chigi, si
abbattono i tempi lunghi attivando la conferenza
semplificata, che non prevede riunioni fisiche ma solo
l'invio di documenti per via telematica; la conferenza
simultanea con riunione (anche telematica) si svolge solo
quando è strettamente necessaria; l'assenso delle
amministrazioni che non si sono espresse si considera
acquisito; ciascun livello di governo parlerà con una sola
voce; il termine della conferenza, oggi di fatto indefinito,
viene stabilito perentoriamente in al massimo cinque mesi.
Interpreti e traduttori nei procedimenti penali.
Approvato,
in esame definitivo, un decreto legislativo recante
disposizioni integrative e correttive del decreto
legislativo 04.03.2014, n. 32, di attuazione della
direttiva 2010/64/Ue sul diritto all'interpretazione e alla
traduzione nei procedimenti penali.
Viene previsto che, nei
casi in cui l'interprete o il traduttore risieda nella
circoscrizione di altro tribunale, il giudice possa chiedere
al giudice delle indagini preliminari del luogo di residenza
dell'ausiliario di procedere per rogatoria alle attività di
identificazione, ammonimento e conferimento di incarico.
Vengono anche dettate le regole che attuano il diritto al
colloquio con il difensore assistito gratuitamente
dall'interprete, prevedendo che nei casi che legittimano
l'assistenza gratuita dell'interprete a spese dello stato
l'imputato abbia diritto a un colloquio soltanto in
riferimento al singolo atto da compiere, salvo che si
ravvisino particolari esigenze collegate all'esercizio del
diritto di difesa. E che, nel caso di soggetti indagati o
imputati non abbienti, le spese spettanti anche per
l'interprete e il traduttore rimangono comunque a carico
dello stato.
Inoltre viene previsto che nel caso di
particolari situazioni di urgenza (per esempio, nelle
ipotesi di incidente probatorio disposto con urgenza e
abbreviazione dei termini ordinari per imminente pericolo di
vita del testimone), in assenza di una traduzione scritta
prontamente disponibile degli atti per i quali è
obbligatoria, l'autorità giudiziaria ne disponga, con
decreto motivato, se ciò non pregiudica il diritto di difesa
dell'imputato, la traduzione orale anche in forma
riassuntiva, dandone atto in apposito verbale.
Presso il
ministero della giustizia sarà istituito l'elenco nazionale
degli interpreti e traduttori iscritti negli albi dei periti
di ogni tribunale.
Apparecchiature radio.
Via libera definitivo al decreto
legislativo di attuazione della direttiva 2014/53/Ue del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 16.04.2014,
concernente l'armonizzazione delle legislazioni degli stati
membri relative alla messa a disposizione sul mercato di
apparecchiature radio e che abroga la direttiva 1999/5/Ce.
Si stabiliscono i requisiti essenziali che devono essere
rispettati nella fabbricazione delle stesse apparecchiature
e si fissano disposizioni relative agli obblighi degli
operatori economici (fabbricanti, importatori,
distributori), alla verifica di conformità degli apparecchi
radio e alle sanzioni applicabili.
Autorizzazione paesaggistica.
Approvato in esame preliminare
un regolamento che individua gli interventi esclusi
dall'autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata, ai sensi dell'art. 12 del
decreto legge 31.05.2014 n. 83. Il regolamento
razionalizza le procedure per l'autorizzazione paesaggistica
per gli interventi di lieve entità, come l'eliminazione
delle barriere architettoniche.
Contrattazione p.a.
L'esecutivo ha autorizzato il ministro
per la semplificazione e la pubblica amministrazione Maria
Anna Madia a esprimere il parere favorevole del governo
sull'ipotesi di contratto collettivo nazionale quadro (Ccnq)
per la definizione dei comparti di contrattazione collettiva
e delle relative aree dirigenziali per il triennio
2016-2018, firmata il 05.04.2016.
Si riduce il numero dei comparti e delle aree di
contrattazione. Sono individuati quattro comparti di
contrattazione collettiva: comparto delle Funzioni centrali;
comparto delle Funzioni locali; comparto dell'Istruzione e
della ricerca; comparto della Sanità
(articolo ItaliaOggi del 16.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
P.a., stretta leggera sui furbetti. Garantito
l'assegno alimentare. Meno rischi per i dirigenti.
CONSIGLIO DEI MINISTRI/ Ok definitivo al dlgs
Madia. Statali infedeli sospesi entro 48 ore.
Si fa un po' più soft la stretta sui «furbetti del
cartellino». Gli statali, scovati ad attestare il falso
sulla propria presenza in ufficio, saranno sospesi dal
lavoro senza stipendio entro 48 ore. Ma conserveranno
comunque il diritto all'assegno alimentare (circa il 50%
dello stipendio base).
Il procedimento disciplinare, che si potrà concludere con il
licenziamento del dipendente, dovrà durare al massimo 30
giorni, calcolati dalla contestazione dell'addebito, durante
i quali però lo statale messo sotto accusa avrà piene
garanzie di contraddittorio. Sarà convocato per esporre la
propria difesa con un preavviso di almeno 15 giorni e potrà
farsi assistere da un procuratore o da un rappresentante
sindacale. Per i dirigenti viene eliminato lo spauracchio
del reato di omissione di atti d'ufficio. Se non fanno
partire il procedimento disciplinare o omettono di
sospendere il dipendente infedele, saranno segnalati
all'autorità giudiziaria che dovrà decidere se ci sono
profili di responsabilità penale.
Il decreto Madia, che opera un giro di vite sulla falsa
attestazione delle presenze nella p.a., ha tagliato ieri il
traguardo dell'approvazione definitiva da parte del
consiglio dei ministri in una versione un po' più edulcorata
che tiene conto dei rilievi mossi dal Consiglio di stato e
dal parlamento.
Il dlgs modifica il Testo unico sul pubblico impiego (dlgs
n. 165/2001), così come novellato dalla legge Brunetta (dlgs
n. 150/2009), con disposizioni ad hoc per introdurre un giro
di vite sulla falsa attestazione delle presenze. Rischierà
il posto non solo chi altera i sistemi di rilevamento delle
presenze, ma anche chi si avvale dell'aiuto di terzi per
risultare in servizio o trarre in inganno la p.a. di
appartenenza. Quindi per esempio chi si fa timbrare il
cartellino dal collega. In questo caso sia lo statale
assenteista sia il «complice» risponderanno entrambi di
falsa attestazione.
Una volta accertata la violazione (in flagranza o attraverso
strumenti di videosorveglianza), il dipendente pubblico sarà
sospeso entro 48 ore dal responsabile della struttura presso
cui presta servizio o dall'ufficio competente per i
procedimenti disciplinari. La sospensione dal servizio sarà
senza stipendio, ma, come richiesto dal Consiglio di stato e
dalle commissioni parlamentari, verrà comunque garantito il
diritto del dipendente a percepire l'assegno alimentare.
Come detto, con il provvedimento di sospensione, la p.a.
dovrà procedere alla contestazione dell'addebito a carico
del dipendente e da quel momento inizieranno a decorrere i
30 giorni per la chiusura dell'iter disciplinare. Il
dipendente sarà convocato per il contraddittorio con un
preavviso di almeno 15 giorni e fino alla data
dell'audizione potrà inviare una memoria scritta o, in caso
di grave impedimento, formulare istanza di rinvio del
termine per l'esercizio della difesa per non più di 5
giorni.
L'accertamento della falsa attestazione in servizio
comporterà l'obbligo di denuncia al pubblico ministero e di
segnalazione alla competente procura regionale della Corte
dei conti entro 15 giorni dall'avvio del procedimento
disciplinare. La procura erariale, entro tre mesi dalla
conclusione del procedimento disciplinare, potrà procedere
per danno all'immagine nei confronti del dipendente
infedele. L'ammontare del danno sarà quantificato anche in
relazione alla rilevanza mediatica del fatto e in ogni caso
non potrà essere inferiore a sei mensilità dell'ultimo
stipendio.
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L'analisi/1 - Termini solo ordinatori.
Termini solo ordinatori, cioè senza scadenza fissa, per
licenziare i dipendenti assenteisti. Così il testo
definitivo del decreto legislativo attuativo della
«riforma-Madia», approvato ieri in via definitiva dal
Consiglio dei ministri, prova a risolvere i problemi
procedurali posti dalla stesura iniziale dello scorso
gennaio.
Il risultato, tuttavia, non pare possa mettere al riparo dal
caos operativo e dal rischio dell'incremento esponenziale
del contenzioso davanti al giudice del lavoro, che potrebbe
giocare scherzi molto brutti alle pubbliche amministrazioni
intenzionate a licenziare i «furbetti del cartellino».
Specie dopo la sentenza della Cassazione che ritiene ancora
applicabile al lavoro pubblico la tutela del reintegro nel
posto di lavoro.
L'assenteismo è generalmente di massa, come dimostrato dal
caso eclatante del comune di San Remo. Generalmente, sono
molti i dipendenti che si organizzano per coprirsi tra loro,
in modo che qualcuno timbri al posto degli altri, mentre si
assentano.
Il governo ha fatto dell'abbreviazione dei termini ordinari,
120 giorni, a soli 30 un cavallo di battaglia per
evidenziare una maggiore velocità e decisione nel licenziare
gli assenteisti. Tuttavia, molti avevano osservato che
l'abbreviazione dei termini per concludere il procedimento
disciplinare, lasciando 20 giorni di tempo per convocare i
dipendenti e consentire loro di esprimere le difese in
contraddittorio, avrebbe compromesso le buone intenzioni,
perché sarebbero rimasti a disposizione 10 giorni: troppo
pochi, specie quando i dipendenti interessati siano decine.
Il testo finale, per rispondere a questi problemi, allora
prevede che nei confronti degli assenteisti colti in
flagranza o ripresi da mezzi di registrazione visiva il
responsabile della struttura (o dell'ufficio dei
procedimenti disciplinari se informato per primo) adotti il
provvedimento motivato di sospensione dal lavoro
immediatamente e comunque entro 48 ore dal momento in cui il
soggetto competente ne viene a conoscenza. Già costituirà un
problema comprovare il momento nel quale emerge la piena
conoscenza del fatto.
In ogni caso, la violazione del termine di 48 ore non
determinerà, come conseguenza, la decadenza dall'azione
disciplinare né l'inefficacia della sospensione cautelare;
potrà scattare eventualmente la responsabilità del
dipendente che abbia lasciato trascorrere il termine di 48
ore che, comunque, come si vede non è perentorio.
Il rimedio alle critiche sulla tempistica viene dal
correttivo previsto: il provvedimento che dispone la
sospensione cautelare deve contenere anche la contestuale
contestazione per iscritto dell'addebito disciplinare la
convocazione dell'incolpato davanti all'ufficio per i
procedimenti disciplinari. Ma, il tempo che si guadagna è
irrisorio: infatti, la convocazione per il contraddittorio a
difesa dell'incolpato deve avere un preavviso di almeno 15
giorni, nel corso dei quali l'incolpato può inviare memorie
scritte o anche chiedere in caso di grave, oggettivo e
assoluto impedimento chiedere il rinvio per non più di altri
5 giorni. Dunque, in ogni caso alle amministrazioni
resterebbero al massimo 15 giorni, dopo le audizioni, per
adottare i licenziamenti, a meno che il tempo a disposizione
non si riduca a 10, nei casi di rinvio.
Il procedimento disciplinare si dovrebbe concludere entro 30
giorni dalla ricezione della contestazione dell'addebito.
Tuttavia, si prevede che «la violazione dei suddetti termini
non determina la decadenza dall'azione disciplinare, né
l'invalidità della sanzione irrogata, salvo che non risulti
irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa del
dipendente».
Dunque, si consente anche di sforare i termini. Ma, la
configurazione dei termini come solo ordinatori e non
perentori di per sé lede il diritto alla difesa, perché
l'incolpato non può sapere mai con precisione quando decade
il potere del datore di lavoro di agire in via disciplinare.
La violazione dei termini o, comunque, l'allungamento dei
procedimenti sarà certamente oggetto di vasti ricorsi al
giudice del lavoro, per violazione del diritto alla difesa
e, comunque, della procedura, con richiesta di reintegro.
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L'analisi/2 - Resta il diritto
all'assegno alimentare.
Assegno alimentare per gli assenteisti colti in flagrante e
sospesi dal servizio. Il testo finale del decreto anti
«furbetti del cartellino» ha accolto molte delle richieste
di correzione alla formulazione iniziale, avanzate dal
Consiglio di stato e dalle commissioni di camera e senato.
Viene, infatti, fatto salvo anche successivamente
all'adozione immediata della sospensione «il diritto
all'assegno alimentare nella misura stabilita dalle
disposizioni normative e contrattuali vigenti» durante la
sospensione.
Eliminata anche la configurazione come reato di omissione
d'atti d'ufficio dei casi di omessa comunicazione
all'ufficio dei procedimenti disciplinari, omessa
attivazione del procedimento disciplinare ed omessa adozione
della sospensione cautelare senza giustificato motivo, a
carico sia dei dirigenti o responsabili di servizio presso i
quali operano i dipendenti assenteisti, sia dei responsabili
degli uffici dei procedimenti disciplinari.
Il testo
approvato dal consiglio dei ministri dispone che tali
omissioni costituiscono fattispecie di illecito disciplinare
eventualmente punibile con il licenziamento ed impone che di
ciò l'ufficio competente per il procedimento disciplinare ne
dia notizia all'autorità giudiziaria «ai fini
dell'accertamento della sussistenza di eventuali reati».
Resta l'obbligo di segnalare il fatto alla competente
procura regionale della Corte dei conti avvengono entro
quindici giorni dall'avvio del procedimento disciplinare.
Resta anche la possibilità che la magistratura contabile
avvii l'azione risarcitoria entro i 120 giorni successivi
alla denuncia, senza possibilità di proroga anche per danno
di immagine, come nel testo iniziale.
L'ammontare del danno risarcibile sarà determinato in via
equitativa dal giudice, che terrà conto dell'impatto
mediatico dell'evento, fermo restando che l'eventuale
condanna non può essere inferiore a sei mensilità
dell'ultimo stipendio in godimento, oltre interessi e spese
di giustizia
(articolo ItaliaOggi del 16.06.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO: Pa, tempi certi per licenziare i «furbetti».
Oggi l’ok finale al decreto con il licenziamento in 30
giorni: il lavoratore avrà due settimane per difendersi.
Nel consiglio
dei ministri di oggi pomeriggio la riforma della Pubblica
amministrazione incasserà tre approvazioni definitive per i
decreti che rivedono le sanzioni contro l’assenteismo e
riformano la Conferenza dei servizi e la Scia, e ancora
sulla «segnalazione certificata di inizio attività» arriverà
il primo via libera al provvedimento che fissa l’elenco
delle procedure caso per caso.
Nel menu del governo, poi,
dovrebbe rientrare l’ok definitivo alla riforma dei comparti
pubblici, che riduce da 11 a 4 i contratti nazionali del
pubblico impiego e pone la premessa indispensabile alla
ripresa delle trattative; sul decreto enti locali, che
blocca le sanzioni per le Città metropolitane e le Province
che nel 2015 hanno sforato il Patto di stabilità e si è poi
allargato a norme su altri aspetti come la sanità e
l’agricoltura, l’appuntamento è invece per l’inizio di
settimana prossima, insieme al disegno di legge con le
misure per la sicurezza urbana.
Sul piano politico, ovviamente, il piatto forte è
rappresentato dal provvedimento che prevede la sospensione
in 48 ore e il licenziamento in 30 giorni dei dipendenti
pubblici pescati in flagrante nelle false timbrature. I
correttivi del testo finale, che raccolgono le
sollecitazioni arrivate dal Parlamento e dal Consiglio di
Stato, puntano a blindare questo calendario, prevedendo che
entro 48 ore arrivi la sospensione e la «contestuale»
contestazione dell’addebito; da qui partono i 30 giorni per
arrivare al licenziamento, ma per garantire il diritto alla
difesa del dipendente il contraddittorio andrà fissato
almeno 15 giorni dopo la sospensione: nel periodo di attesa
del verdetto, poi, il dipendente sospeso avrà diritto
all’assegno alimentare.
Per i dirigenti che non fanno
partire subito il procedimento disciplinare sarà prevista la
segnalazione all’autorità giudiziaria, che avrà il compito
di valutare se ci sono gli estremi per contestare il reato
di omissione d’atti d’ufficio.
Anche sulla Scia e la Conferenza dei servizi il lavoro di
rifinitura dei testi conferma gli obiettivi di fondo, che
sono quelli di garantire a imprese e cittadini tempi e
procedure certe nella definizione delle autorizzazioni, e
accoglie una serie di indicazioni che giudici amministrativi
e commissioni parlamentari hanno scritto nei loro pareri.
Sulla segnalazione certificata che serve a far partire una
serie di attività, in particolare nell’edilizia, il testo
finale del decreto precisa che gli enti locali non potranno
effettuare richieste ulteriori rispetto a quelle del modello
standard, per assicurare che la procedura telematica scritta
nella riforma sia davvero la strada unica chiesta
dall’amministrazione pubblica. Anche in questo caso, il
termine chiave è quello dei 30 giorni, entro i quali la Pa
dovrà dare il via libera, anche con silenzio assenso. Nel
decreto definitivo si prevede che il conteggio parta
dall’arrivo della segnalazione.
Sulla conferenza dei servizi, accanto a un ripensamento
tecnico che trasforma una serie di norme in correttivi alla
legge 241/1990 per evitare una dispersione eccessiva delle
regole, arrivano due modifiche importanti, chieste anche
dalle imprese nel corso delle audizioni. La prima amplia e
specifica le possibilità per i privati di partecipare e
presentare documenti alla conferenza semplificata, e la
seconda chiarisce che la riforma si applicherà a partire
dalle nuove procedure (articolo Il Sole 24 Ore del 15.06.2016). |
APPALTI:
Comuni, aggregazioni rinviate.
In attesa della qualificazione della Pa più spazi per gare
in autonomia.
Appalti. Il nuovo codice nella fase transitoria ammorbidisce
i vincoli a carico delle piccole amministrazioni.
Aggregazione
delle stazioni appaltanti ferma un giro. I piccoli Comuni,
almeno per qualche mese, saranno considerati qualificati e
potranno fare in autonomia le gare entro i 209mila euro per
servizi e forniture e fino a un milione di euro per i lavori
di manutenzione ordinaria, purché utilizzino una procedura
elettronica. Soglie molto più elevate di qualche settimane
fa, quando queste stesse amministrazioni erano costrette a
restare entro il bassissimo tetto di 40mila euro o a passare
da un soggetto aggregatore.
È questo il paradossale effetto
che deriva dall’entrata in vigore delle nuove norme del
Codice appalti (Dlgs n. 50 del 2016) e che l’Anac ha messo
nero su bianco in un comunicato datato 8 giugno 2016: in
attesa che entrino in vigore le regole sulla qualificazione
delle stazioni appaltanti, basta iscriversi all’Anagrafe
unica tenuta proprio dall’Anticorruzione per fare tutto da
soli, purché si passi da strumenti telematici di
negoziazione, messi a disposizione da soggetti come Consip.
Per capire questo complesso intreccio di norme, bisogna
partire dalla situazione del vecchio Codice (Dlgs n. 163 del
2006). L’articolo 33, comma 3-bis, consentiva ai Comuni non
capoluogo di procedere all’acquisizione di lavori, beni e
servizi solo tramite unioni di Comuni, accordi consortili o
soggetti aggregatori. Unica eccezione: gli appalti sotto la
soglia di 40mila euro, per i quali si poteva fare tutto in
autonomia.
Quella norma, dopo una serie di proroghe, è
andata in vigore lo scorso novembre, con qualche ritocco
nella legge di Stabilità. Il nuovo Codice, rispetto a questo
assetto, porta diverse correzioni. E stabilisce anzitutto,
come spiega l’Anac, che i Comuni non capoluogo «possono
procedere all’acquisizione di servizi di importo inferiore a
40mila euro e di lavori di importo inferiore a 150mila euro
direttamente e autonomamente». Quindi, la soglia per
l’autonomia nei lavori passa da 40mila a 150mila euro.
Sopra questi tetti, in base alla riforma, la stazione
appaltante dovrà essere qualificata per fare le gare,
secondo un sistema che sarà regolato dall’Anac. Un modo per
garantire un alto livello di professionalità delle
amministrazioni. C’è, però, un’eccezione molto rilevante:
questa qualificazione, stando a quanto spiega l’Authority,
«nel periodo transitorio si intende sostituita
dall’iscrizione all’Anagrafe unica delle stazioni
appaltanti».
Lo dice chiaramente l’articolo 216 del nuovo
Codice: fino all’entrata in vigore del sistema di
qualificazione, i relativi requisiti sono soddisfatti
tramite la semplice iscrizione all’anagrafe. Questa
iscrizione, però, non garantisce nessun controllo sulla
professionalità delle amministrazioni, a differenza del
sistema che arriverà. Lo testimonia il fatto che, ad oggi,
sono circa 8mila i Comuni che compaiono negli elenchi
dell’Anticorruzione. Praticamente tutti.
Quindi, per gli appalti dei piccoli Comuni, in attesa che si
chiuda la fase transitoria con l’approvazione di un Dpcm che
dovrà regolare la qualificazione delle stazioni appaltanti,
dallo scorso 19 aprile c’è stata un’apertura parecchio
importante.
In base a quanto spiega l’Autorità, per gli
acquisti di forniture e servizi che arrivano fino a 209mila
euro e per i lavori di manutenzione ordinaria che non
superano il milione, «i Comuni non capoluogo di provincia,
se iscritti all’Anagrafe unica delle stazioni appaltanti,
possono procedere all’affidamento mediante utilizzo autonomo
degli strumenti telematici di negoziazione», messi a
disposizione da soggetti come Consip o da altre centrali di
committenza.
Nell’immediato, quindi, non c’è nessun
incentivo alle aggregazioni. Le piccole amministrazioni
potranno continuare a fare gare in autonomia, entro soglie
parecchio più alte del passato (articolo Il Sole 24 Ore del 15.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Per i dipendenti pubblici escluse le dimissioni online.
Fine del rapporto di lavoro. Decreto del governo.
La procedura
di comunicazione telematica delle dimissioni e delle
risoluzioni consensuali è obbligatoria solo per i dipendenti
privati, mentre non si applica ai rapporti di lavoro con le
pubbliche amministrazioni:
lo stabilisce una norma (articolo
6, comma 3) contenuta nello schema di decreto correttivo del
Jobs Act approvato in via preliminare dal Consiglio dei
ministri venerdì scorso e in attesa di essere posto
all’esame del Parlamento.
La norma risolve una questione interpretativa sorta
all’indomani dell’entrata in vigore dell’articolo 26 del
Dlgs n. 151/2015, che ha introdotto una nuova procedura
obbligatoria per la presentazione delle dimissioni e delle
risoluzioni consensuali. Sulla base di tale procedura le
dimissioni sono valide solo se il lavoratore, da solo o
mediante l’ausilio di una struttura abilitata, comunica su
un apposito sito del ministero del Lavoro la propria
intenzione di recedere dal rapporto.
La legge istitutiva di questa controversa procedura, nella
versione antecedente al correttivo appena approvato,
esonerava solo alcune tipologie di rapporti dall’obbligo di
seguire la comunicazione telematica; considerato che il
pubblico impiego non veniva contemplato nell’elenco delle
esclusioni, molti commentatori avevano sollevato il dubbio
che la procedura valesse anche per le amministrazioni.
Il ministero del Lavoro (prima con la circolare n. 12/2016,
poi con le risposte alle Faq pubblicate sul sito
www.cliclavoro.gov.it) ha sostenuto una posizione diversa,
evidenziando che la procedura non sarebbe applicabile al
lavoro pubblico in quanto il fenomeno delle dimissioni in
bianco non sarebbe presente in tale settore; questa lettura
era molto originale ma non si fondava su alcuna norma di
legge.
L’entrata in vigore della norma correttiva risolve la
questione, dando un fondamento normativo solido a tale
lettura, chiarendo l’inapplicabilità sia della procedura
telematica, sia della regola che dà diritto al lavoratore di
revocare le dimissioni (o il consenso prestato alla
risoluzione consensuale) entro 7 giorni dalla comunicazione:
le dimissioni potranno continuare ad essere rassegnate in
forma semplice, seguendo soltanto le norme del codice civile
e quelle eventualmente fissate dalla contrattazione
collettiva di riferimento.
Da notare che l’esclusione della procedura vale soltanto per
i dipendenti delle amministrazioni pubbliche statali e
locali rientranti nell’articolo 1, comma 2, del Dlgs n.
165/2001 (il testo unico sul pubblico impiego); questo
significa che la procedura telematica dovrà, invece, essere
obbligatoriamente seguita per i lavoratori delle imprese che
operano in regime di diritto privato, pur avendo un
azionista pubblica, come ad esempio le aziende
municipalizzate.
La procedura telematica –secondo quanto previsto dal Dlgs
n. 151/2015– non si applica neanche per le dimissioni e le
risoluzioni consensuale convalidate presso alcune delle sedi
protette per i rapporti di lavoro domestico e per gli atti
compiuti dalla lavoratrice e dal lavoratore entro i primi
tre anni di vita del bambino (in questo caso continua ad
applicarsi la procedura speciale di convalida prevista dal
Testo Unico Maternità).
La circolare n. 12/2016 ha aggiunto altre fattispecie alla
lista delle esclusioni, esonerando dalla procedura i
rapporti di lavoro in prova e quelli di lavoro marittimo (in
quanto il relativo rapporto di lavoro sarebbe regolato da
una normativa esclusiva); non è da escludere che nei
prossimi mesi siano necessari ulteriori chiarimenti in
merito a fattispecie speciali (quali, ad esempio, il lavoro
degli sportivi professionisti, soggetto alle regole speciali
della legge 91/1981)
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.06.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
La pratica del 65% va compilata online.
Le istruzioni Enea in merito alla domanda di detrazione.
La pratica per la detrazione del 65% per la riqualificazione
di un immobile (da utilizzarsi fino al 31.12.2016)
deve essere compilata online, registrandosi sul sito
http://finanziaria2016.enea.it/index.asp e accedendo poi
alla propria tipologia di intervento realizzato. La
documentazione deve essere inviata entro 90 giorni dalla
data di fine lavori sempre online tramite il sito, quindi
stampata, firmata e conservata per un eventuale controllo da
parte delle autorità competenti.
Queste le istruzione Enea in merito all'invio della domanda
di detrazione fiscale del 65% per riqualificazione degli
immobili.
Il Caf (Centro assistenza fiscale) o il
commercialista possono richiedere copia della pratica
inviata e dei documenti conservati per procedere alla
richiesta di detrazione in sede di dichiarazione dei redditi
e devono avere copia del codice Cpid (codice personale
identificativo) che viene ritornato all'utente per posta
elettronica dall'Enea, una volta ricevuta la documentazione.
Accedendo all'area personale del sito
http://finanziaria2016.enea.it/index.asp si potranno anche
modificare le pratiche già inserite tramite l'apposito link
«modifica pratica».
La modifica annulla e sostituisce la
precedente pratica; al termine della correzione si dovrà,
quindi, rinviare la pratica modificata per ottenere un nuovo
codice Cpid. È importante non annullare la pratica prima
ancora di averla modificata, cliccando sul link «annulla
pratica». In questo modo la pratica originale viene
cancellata e se sono già trascorsi 90 giorni dal termine dei
lavori, il sistema non permetterà l'inserimento di una nuova
pratica che sostituisca la vecchia e a nome dell'utente non
sarà più presente nessuna pratica.
Inoltre è necessario
conservare entrambe le ricevute, quella della prima
compilazione e quella della successiva modifica, in modo da
dimostrare di avere effettivamente inserito la propria
pratica entro 90 giorni dal termine dei lavori e di averla
modificata solo in seguito.
La comparsa di una segnalazione
relativa a campi non compilati non deve necessariamente
essere considerata come un errore, se tale compilazione non
è obbligatoria. Tale segnalazione, infatti, può valere solo
come promemoria. Continuare nella compilazione e immettere i
dati che verranno accettati dal sistema
(articolo ItaliaOggi del 15.06.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO: Assenteisti, «segnalato» il dirigente che non punisce.
Verso il Cdm. Parola al giudice sulla contestazione
dell’omissione di atti d’ufficio se non si avvia subito il
procedimento disciplinare - In calendario anche le riforme
di Scia e Conferenza dei servizi e l'ok finale all’intesa
sui comparti.
Per i
dirigenti pubblici che non attivano subito il procedimento
disciplinare a carico degli assenteisti scatterà la
segnalazione automatica all’autorità giudiziaria, che dovrà
valutare caso per caso i presupposti per il reato di
omissione d’atti d’ufficio.
Anti-assenteismo
Il decreto anti-assenteismo nella pubblica amministrazione è
pronto per il Consiglio dei ministri con questo correttivo,
chiesto da Consiglio di Stato e Parlamento e anticipato sul
Sole 24 Ore dell’8 giugno. Il testo finale rafforza anche il
calendario della procedura, con l’obiettivo di blindare gli
obiettivi della sospensione in 48 ore e del licenziamento in
30 giorni per i dipendenti pubblici che vengono individuati
in flagrante a timbrare l’entrata e poi evitare l’ufficio.
Per evitare rischi, il testo finale dovrebbe prevedere che
la notifica sia «contestuale» alla contestazione, in modo da
far partire subito il conto alla rovescia; nei casi, che a
questo punto dovrebbero essere residuali, di ritardo, i 30
giorni partirebbero comunque dalla notifica. Per i
dipendenti sospesi e in attesa del verdetto, infine, sarà
previsto l’assegno alimentare, come accade negli altri casi
di sospensione disciplinare.
Il nodo dei contratti
Insieme al via libera finale sui decreti che tagliano i
tempi della conferenza dei servizi e introducono il modello
standard per la Scia, il decreto anti-licenziamenti sarà il
piatto forte nel menu del Consiglio dei ministri, che
dovrebbe approvare anche l’intesa per ridurre da 11 a 4 i
comparti pubblici, siglata da Aran e sindacati il 6 aprile e
passata al vaglio dell’Economia, e quindi riavviare le
trattative sul rinnovo dei contratti del pubblico impiego.
I
tempi, in realtà, non sono immediati, perché l’intesa andrà
esaminata entro 15 giorni dalla Corte dei conti, dopo di che
servirà un mese per le riaggregazioni dei sindacati nei
nuovi compartoni delle «funzioni centrali» (dove vengono
“fusi” ministeri, agenzie ed enti pubblici) e della
«conoscenza» (scuola, università e ricerca). Il contesto,
insomma, si completerà ai primi di agosto, ma è probabile
che le trattative vere e proprie entrino nel vivo in
autunno, con il nuovo testo unico del pubblico impiego già
definito. Sul piano economico, ieri la ministra per la Pa e
la Semplificazione Marianna Madia ha smentito l’ipotesi di
aumenti limitati sui redditi fino a 26mila euro, ma ha
ribadito che «chi ne guadagna 200mila può aspettare».
In
pratica, l’atto di indirizzo confermerà l’obiettivo di
ritocchi salariali inversamente proporzionale ai livelli di
reddito, ma toccherà ad Aran e sindacati provare a trovare
la quadra fra le richieste e le risorse a disposizione.
Il decreto enti locali
In pista per il Consiglio dei ministri c’è anche il decreto
enti locali, slittato venerdì scorso perché va ancora
completato il quadro delle coperture su una serie di norme
per regioni autonome (a partire dai 500 milioni di
compartecipazione Irpef alla Sicilia), sanità e agricoltura.
Nel capitolo sugli enti locali che dà il nome al
provvedimento è confermato l’azzeramento delle sanzioni da
un miliardo per le Città metropolitane e le Province che
hanno sforato il Patto di stabilità 2015 (si veda Il Sole 24
Ore di venerdì scorso), già scontato dalla finanza pubblica
grazie ai surplus ottenuti dai Comuni: almeno per ora, però,
non è previsto nessun ritocco alle penalità per i 126 Comuni
(altri 58 non hanno mandato la certificazione secondo
l’ultimo censimento) che hanno sforato i vincoli di finanza
pubblica, per i quali l’Anci chiede di replicare le sanzioni
soft (20% dello sforamento e 2% delle entrate correnti).
Il correttivo-investimenti
Nel cantiere del decreto entra poi il problema della frenata
degli appalti prodotta dall’esigenza di adeguamento alle
regole del nuovo Codice entrato in vigore senza un periodo
transitorio adeguato (a maggio, come raccontato dal Sole 24
Ore di domenica, il valore dei bandi comunali è stato
inferiore del 79% rispetto allo stesso mese del 2015).
Il
blocco e i tempi tecnici per superarlo adeguandosi alle
nuove regole rischiano di azzoppare la ripresa degli
investimenti locali prodotta dall’addio al Patto di
stabilità, che la Ragioneria generale stimava fra il 10 e
15%, e di ribloccare le risorse “liberate” già a fine 2015
dal cambio delle regole per i bilanci pubblici.
Il rischio,
senza correttivi, è che i progetti avviati non arrivino
all’aggiudicazione definitiva entro l’anno, e che quindi la
spesa in conto capitale torni a congelarsi nell’avanzo di
amministrazione: per evitare il problema si studia un
correttivo che permetta di mantenere libere le risorse
collegate a investimenti che arrivino entro fine anno al
progetto definitivo ed esecutivo, anche nei casi in cui
l’aggiudicazione ritardi di qualche mese, ma sul punto la
discussione è ancora aperta (articolo Il Sole 24 Ore del 14.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La farmacia non fa interferenza.
Segnaletica stradale/parere del mintrasporti.
Le insegne delle farmacie possono anche essere di colore
vivace ma quando sono posizionate vicino ai segnali e ai
semafori non devono creare interferenze e devono essere
posizionate parallelamente al senso di marcia dei veicoli.
Lo ha chiarito il Ministero dei Trasporti con il parere
26.05.2016 n.
3139 di prot..
Un comune ha richiesto chiarimenti circa il corretto
posizionamento di insegne luminose in prossimità di impianti
semaforici, stante la particolare tecnologia a led che rende
molto brillanti le nuove insegne farmaceutiche. A parere del
ministero oltre all'art. 23 del codice della strada occorre
prestare particolare attenzione agli artt. 50 e 51 del
regolamento stradale.
In particolare l'art. 23 del codice specifica che qualsiasi
insegna non deve arrecare disturbo alla circolazione ovvero
deve essere evitata qualsiasi interferenza con la guida.
Stante l'obbligatorietà dell'insegna farmaceutica da un lato
e la necessità di salvaguardare la sicurezza della
circolazione stradale dall'altro, il comune ha richiesto
istruzioni di dettaglio. L'art. 50 del regolamento del
codice stradale, specifica la nota centrale, prevede che
dentro ai centri abitati trovi applicazione il locale
regolamento anche in riferimento all'apposizione delle
insegne farmaceutiche.
In buona sostanza è nella piena facoltà del comune adottare
provvedimenti che limitino l'intensità e la direzionalità
dei fasci luminosi emessi dall'impianto pubblicitario. Per
garantire la sicurezza della circolazione il primo cittadino
può sempre imporre ulteriori restrizioni all'esercente anche
in considerazione della resa cromatica degli impianti. Ma
prima di tutto andrà verificata la corrispondenza delle
installazioni con le previsioni del codice stradale ed in
particolare con le distanze minime previste dall'art. 51 del
regolamento stradale.
Queste distanze, prosegue il parere ministeriale, potranno
essere derogate solo nel caso in cui l'insegna di esercizio
sia collocata parallelamente al senso di marcia e in
aderenza a un fabbricato esistente. In pratica quindi se
l'insegna è perpendicolare al traffico non potrà essere
posizionata a ridosso di un incrocio o di un semaforo
(articolo ItaliaOggi del 14.06.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Fotovoltaico
senza scartoffie. Nessun accatastamento per l'impianto su
tetti e balconi. Una circolare
dell'Agenzia delle entrate sulle novità di fiscalità
immobiliare 2016.
Gli impianti fotovoltaici perdono la rendita, per il solo
fatto che gli stessi siano realizzati su edifici o su aree
di pertinenza, anche a comune, non devono essere accatastati
come unità autonome. E nei contratti di locazione, a
prescindere dal fatto che il locatore sia il soggetto
obbligato alla registrazione, permane la solidarietà passiva
ai fini tributari con il conduttore.
Queste alcune delle precisazioni fornite dall'Agenzia delle
entrate, con la
circolare 13.06.2016
n. 27/E, nell'ambito della
manifestazione dei 130 anni del Catasto.
Fotovoltaico. Le Entrate precisano che, con decorrenza dal
01.01.2016, alla luce del comma 21, dell'art. 1, legge
208/2015 (Stabilità 2016) e di recenti precisazioni (circ.
2/E/2016), per gli impianti dichiarati «autonomamente» in
catasto devono essere considerati il suolo (impianti a
terra), l'elemento strutturale (solaio o copertura) e gli
eventuali locali che ospitano i sistemi di controllo e
trasformazione (locali tecnici).
Con riferimento, invece,
alle installazioni realizzate su edifici o aree di
pertinenza (balconi, tetti, cortili e quant'altro), anche a
comune, non vi è alcun obbligo di accatastamento come unità
immobiliari «autonome» e, di conseguenza, di assegnazione di
una specifica rendita, poiché gli stessi possono essere
considerati come «assimilati» agli impianti di pertinenza
degli immobili.
Nel caso in cui gli impianti siano collocabili quali
pertinenze di impianti speciali e/o particolari (gruppi «D»
ed «E»), a decorrere dal 1° gennaio scorso, il proprietario
deve procedere con una variazione per la rideterminazione
della rendita dell'unità immobiliare di cui l'impianto è
pertinenza, ma esclusivamente quando il detto impianto
incrementa il valore capitale di una percentuale pari al
15%.
Locazioni. Sul punto l'Agenzia ha preso atto delle novità
introdotte dal comma 1, dell'art. 13, legge 431/1998
(locazioni abitative) che impongono al locatore di
provvedere alla registrazione del contratto di locazione nel
termine «perentorio» di 30 giorni dalla data della relativa
stipula (con invio, nei successivi sessanta giorni, di una
comunicazione documentata al conduttore e all'amministratore
di condominio) e ha fornito i necessari chiarimenti sulla
solidarietà passiva tributaria e sull'utilizzo dell'istituto
del ravvedimento operoso, di cui all'art. 13, dlgs 472/1997.
In effetti, la nuova norma si poneva apparentemente in
contrasto con l'art. 57, del dpr 131/1986 (Tur), che prevede
la solidarietà tra il locatore e il conduttore, per la
registrazione del contratto e il versamento dell'imposta di
registro. L'Agenzia delle entrate ha confermato che la
modifica introdotta ha natura esclusivamente civilistica e
che, quindi, non impatta sulla disciplina tributaria, di cui
all'art. 10 del Tur, con la conseguenza che, pur essendo
posto a carico del locatore l'obbligo di registrazione del
contratto, ai fini fiscali entrambi i soggetti (e
l'eventuale intermediario, ai sensi della lettera d-bis,
art. 10 del Tur) sono solidalmente responsabili.
Le Entrate precisano, inoltre, che rimangono inalterate le
sanzioni prescritte dall'art. 69 del Tur (dal 120% al 240%
dell'imposta dovuta o dal 60% al 120%, con un minimo di 200
euro, in caso di registrazione tardiva entro 30 giorni) con
la possibilità del ravvedimento operoso. Con riferimento
alla proroga «tacita» del contratto, le parti devono
comunicare la stessa alle Entrate entro 30 giorni dal suo
verificarsi, utilizzando l'apposito modello (RLI) al fine di
evitare la sanzione, ravvedibile, del 30% dell'imposta di
registro dovuta.
Prima casa. Con il comma 55, dell'art. 1 della Stabilità
2016, il legislatore ha introdotto la possibilità di
acquistare un nuovo immobile, da parte di un soggetto che ha
già beneficiato dell'agevolazione per l'unità abitativa già
in possesso, purché lo stesso proceda nell'alienazione di
quest'ultima entro un anno dal nuovo acquisto. L'Agenzia ha
preliminarmente precisato che, in caso di mancata
alienazione dell'immobile, già posseduto entro l'anno dal
nuovo acquisto, il contribuente può segnalare detta
circostanza, evitando di pagare le sanzioni prescritte,
versando soltanto la differenza tra l'imposta ordinaria
dovuta e l'imposta agevolata versata, applicando gli
interessi al saggio legale ma evitando l'ulteriore aggravio
del 30% a titolo di sanzione.
Non solo. Dopo la scadenza del
termine annuale, il contribuente può utilizzare l'istituto
del ravvedimento operoso, ottenendo la riduzione della
sanzione, presentando una specifica istanza all'ufficio
territoriale dell'Agenzia delle entrate, con il quale
dichiari l'intervenuta decadenza dell'agevolazione ottenuta,
tenendo conto della nuova modulazione della
regolarizzazione, ma considerando che i diversi termini
decorrono dal giorno in cui si è verificata la decadenza del
bonus ovvero dal giorno in cui matura l'anno della stipula
dell'atto
(articolo ItaliaOggi del 14.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Furbetti, il dirigente può sospenderli senza
contraddittorio Procedimento disciplinare contingentato in
30 giorni. Al prossimo consiglio dei
ministri l'ok finale al decreto madia. Quando si applicano
le norme del contratto.
Al via la riforma del procedimento disciplinare. All'ordine
del giorno del prossimo consiglio dei ministri è atteso, per
l'ok definitivo, lo schema del decreto legislativo recante
modifiche all'art. 55-quater, introdotto nel decreto
legislativo 30.03.2001, n. 165 dall'art. 69, comma 1, del
decreto legislativo n. 150/2009, contenente disposizioni più
incisive e soprattutto più immediate sul licenziamento
disciplinare nella pubblica amministrazione.
Rispetto allo schema di decreto approvato dal consiglio dei
ministri in via preliminare il 20.01.2016, quello che
entrerà in vigore dopo la pubblicazione nella Gazzetta
Ufficiale dovrebbe comunque apportare alcune delle modifiche
richieste dalle commissioni parlamentari I e XI della camera
dei deputati e dal senato della repubblica, oltre che dal
Consiglio di stato.
Il decreto si inserisce nel pacchetto di riforma del
ministro della funzione pubblica, Marianna Madia.
La sanzione disciplinare del licenziamento, ferma la
disciplina in tema di licenziamento per giusta causa o per
giustificato motivo e salvo ulteriori ipotesi previste dal
contratto collettivo (per la scuola l'art. 91 e seguenti del
contratto 2007), continuerà senza modifiche ad applicarsi
nei casi di cui alla lettera b, c), d), e) ed f) del comma 1
dell'art. 55-quater come di seguito sintetizzati:
- b) assenza priva di valida giustificazione ovvero mancata
ripresa del servizio, in caso di assenza ingiustificata,
entro il termine fissato dall'amministrazione;
- c) ingiustificato rifiuto del trasferimento disposto
dall'amministrazione per motivate esigenze di servizio;
- d) falsità documentali o dichiarative commesse ai fini o
in occasione dell'instaurazione del rapporto di lavoro
ovvero di progressione di carriera:
- e) reiterazione nell'ambiente di lavoro di gravi condotte
aggressive o moleste o minacciose o ingiuriose o comunque
lesive dell'onore e della dignità personale altrui;
- f) condanna penale definitiva, in relazione alla quale è
prevista l'interdizione perpetua dai pubblici uffici ovvero
l'estinzione, comunque denominata, del rapporto di lavoro.
Le modifiche che il nuovo decreto legislativo introduce
nell'art. 55-quater riguardano infatti la lettera a) del
comma 1 dell'art. 55-quater (falsa attestazione della
presenza in servizio). Si dispone infatti che costituisce
falsa attestazione della presenza in servizio, oltre a
quella realizzata mediante l'alterazione dei sistemi di
rilevamento della presenza, qualunque modalità fraudolenta
posta in essere, anche avvalendosi di terzi per fare
risultare il dipendente in servizio o trarre in inganno
l'amministrazione presso la quale il dipendente presta la
propria attività lavorativa circa il rispetto dell'orario di
lavoro dello stesso. Della violazione risponderà anche chi
ha agevolato la condotta fraudolenta, con la propria
condotta attiva o omissiva.
Ma la vera novità consiste nella introduzione di una nuova
fattispecie di sospensione cautelare obbligatoria che si
applica, entro 48 ore e senza obbligo di preventiva
audizione dell'interessato, in casi di falsa attestazione
della presenza in servizio accertata in flagranza ovvero
mediante strumenti di sorveglianza o di registrazione degli
accessi o delle presenze. Al dipendente che sarà sospeso
cautelativamente dal servizio dovrà comunque essere
corrisposta un assegno alimentare, avente natura non
retributiva, ma assistenziale, pari alla metà della
retribuzione.
Altra importante novità è la durata dell'iter del
procedimento disciplinare che dovrà essere ultimato entro il
trentesimo giorno dalla data di notifica al dipendente del
procedimento in corso.
Nel testo finale del decreto legislativo non potrà peraltro
non mancare una precisazione circa la natura giuridica della
omissione da parte del dirigente che non sanziona il
dipendente infedele. E che a sua volta verrà sanzionato
(articolo ItaliaOggi del 14.06.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Fotovoltaico, i primi passi del nuovo modello unico. Ma la
conoscenza ancora limitata della procedura frena le pratiche.
Autorizzazioni. Operativo da gennaio l’iter semplificato per
installazioni fino a 20 kW.
Modello unico
fotovoltaico, i primi passi. In vigore dallo scorso 24
novembre, la procedura semplificata per l’autorizzazione dei
piccoli impianti di produzione di energia elettrica,
aderenti o integrati sui tetti degli edifici, è pienamente
operativa. E a dimostrarlo sono i dati forniti dal Gse
(Gestore dei servizi energetici) che, da gennaio a oggi, ha
ricevuto dai gestori di rete 600 richieste di attivazione
del servizio di scambio sul posto e ha stipulato quasi 200
convenzioni.
Tuttavia, a frenare l’impiego della nuova procedura –che
snellisce i passaggi per installare i sistemi domestici– è
anche la scarsa conoscenza del modello stesso.
Secondo Anie (associazione confindustriale delle imprese
elettrotecniche ed elettroniche) esiste un problema di
scarsa informazione, anche a livello comunale, che inceppa
il buon funzionamento di un meccanismo di per sé virtuoso.
Procedura più snella
Approvato dal ministero dello Sviluppo economico con il
decreto del 19.05.2015 (che agisce su norme
preesistenti), il modello è denominato “unico” perché
sostituisce tutta la modulistica eventualmente adottata dai
Comuni, dai gestori di rete (ad esempio Enel) e dal Gse, e
riduce i diversi adempimenti finora previsti a due soli
passaggi: la comunicazione preliminare e quella di fine
lavori.
Entrambi i passaggi possono oggi essere indirizzati
a un solo soggetto, cioè l’impresa distributrice sulla cui
rete insiste il punto di connessione esistente, che si
incarica di svolgere il ruolo di interfaccia unitaria con
tutti gli altri soggetti coinvolti nell’iter autorizzativo.
La semplificazione è riservata agli impianti di piccola
taglia, con potenza nominale fino a 20 kW e comunque non
superiore a quella già disponibile in prelievo. Impianti
aderenti o integrati ai tetti con la stessa inclinazione e
lo stesso orientamento della falda, installati presso
clienti finali già dotati di punti di prelievo in bassa
tensione (dove non ci sia ulteriore produzione
fotovoltaica), e per i quali sia richiesto l’accesso al
regime di scambio sul posto.
«La procedura –commenta Davide Valenzano, responsabile
degli Affari regolatori del Gse– è notevolmente snellita
rispetto al passato. Prima dell’inizio dei lavori, chi
intende realizzare l’impianto compila una comunicazione
preliminare che viene trasmessa, per via informatica, al
gestore della rete. Un passaggio che sostituisce ogni
adempimento autorizzativo. Allo stesso modo, al termine dei
lavori va poi inviata la seconda parte del documento, che
comprende dati tecnici sull’impianto, la dichiarazione di
conformità alle disposizioni normative di riferimento e la
presa visione e accettazione del regolamento di esercizio e
del contratto di scambio sul posto con il Gse».
Il modello, spiega lo stesso Gse, sta iniziando a
funzionare. «Il flusso di domande processate dai gestori di
rete, che sono oltre un centinaio in Italia, è partito da
gennaio. Certo –prosegue Valenzano– come tutte le nuove
procedure, per tirare bilanci complessivi bisogna ancora
attendere».
Difficoltà applicative
In concreto, non mancano però le difficoltà. Soprattutto
perché chi dovrebbe applicare la norma dimostra spesso di
non conoscerla a fondo.
Durante questi primi mesi di applicazione, si sono infatti
registrati casi di pratiche interrotte per la richiesta di
documentazioni aggiuntive (fotografie, planimetrie, schemi
dell’impianto), che il gestore della rete non era in realtà
tenuto a presentare e che sono “ricadute” sull’utente
finale.
Il tutto evidentemente in contrasto con lo spirito
di semplificazione della disciplina. Un altro tipo di
ostacolo è poi nato intorno alla questione
dell’autorizzazione paesaggistica che, come chiarito anche
dallo stesso decreto del Mise, non è invece richiesta per
l’installazione degli impianti in edilizia libera o soggetti
a Dia (cioè quelli trattati dal modello unico), se non in
casi di vincolo peculiari.
«A complicare la situazione –commenta Alberto Pinori,
presidente di Anie– c’è sicuramente il fatto che, come
spesso accaduto in Italia in altri casi simili, il modello
unico è contenuto in una norma non redatta ex novo, ma che a
sua volta rimanda ad altre norme precedenti. Questo,
aggiunto alla scarsa conoscenza dello strumento da parte di
alcun funzionari degli enti locali, ha favorito in certi
casi gli impedimenti, obbligando i titolari a rinunciare
all’uso del modello unico. In fin dei conti, un’occasione
mancata, pur in presenza di una procedura che costituisce
una reale semplificazione per gli utenti» (articolo Il Sole 24 Ore del 13.06.2016). |
APPALTI - ENTI LOCALI: Nel nuovo Dup il programma degli acquisti.
Documento da approvare entro il 31 luglio ma crescono le
incognite sulle competenze.
Contabilità. La riforma del Codice appalti impone la
previsione biennale per tutte le operazioni di valore
unitario pari o superiore a 40mila euro.
Sono ancora
molti i dubbi e le incertezze procedurali che accompagnano
la nuova edizione del documento unico di programmazione.
Entro il 31 luglio la giunta deve presentare al Consiglio lo
schema di Dup per la nuova programmazione 2017 e anni
successivi con il parere di attendibilità e congruità dei
revisori dei conti.
In base all’articolo 151 del Tuel, il Dup è composto dalla
sezione strategica, di durata pari a quella del mandato
amministrativo, e dalla sezione operativa, triennale. La
sezione strategica sviluppa le linee programmatiche di
mandato e individua gli indirizzi strategici, anche con
riferimento alle partecipate, mentre la sezione operativa
contiene i principali atti programmatori dell’ente, quali il
piano delle opere pubbliche, i fabbisogni del personale, il
piano delle alienazioni e valorizzazioni immobiliari, il
piano degli acquisti e i piani triennali di
razionalizzazione e riqualificazione della spesa.
Il Dup al 31 luglio anticipa i tempi previsti dalla legge
per la programmazione degli acquisti di beni e servizi e dei
lavori pubblici. Secondo l’articolo 21 del nuovo Codice
degli appalti (Dlgs 50/2016), le amministrazioni pubbliche
devono adottare il programma delle acquisizioni, che si
compone del programma biennale degli acquisti di beni e
servizi (di importo unitario pari o superiore a 40mila euro)
e del programma triennale dei lavori pubblici. In attesa che
sia emanato il decreto attuativo del ministro delle
Infrastrutture (il termine è di 90 giorni dall’entrata in
vigore del Codice), le amministrazioni sono infatti tenute
ad applicare la disciplina precedente, in base alla quale la
giunta deve adottare il programma dai lavori pubblici entro
il 15 ottobre dell’anno antecedente al triennio di
riferimento.
Per garantire la coerenza del sistema di programmazione
occorre verificare la corrispondenza fra le previsioni di
bilancio e quelle di realizzazione delle opere pubbliche già
in sede di Dup. Anche se la normativa sulla programmazione
dei lavori pubblici non lo prevede (perché non in linea con
l’armonizzazione), per ogni intervento programmato occorre
produrre il cronoprogramma, attraverso cui individuare
l’esigibilità e quindi l’imputazione della spesa per ogni
esercizio. Per le opere per le quali non è possibile
predisporre il cronoprogramma dovrebbe essere fornita
adeguata motivazione e seguire le indicazioni del principio
contabile.
Anche la programmazione del fabbisogno del personale
presente nella sezione operativa del Dup appare poco
coordinata con la normativa di settore, secondo cui la
competenza all’adozione dell’atto è assegnata alla giunta
(Consiglio di Stato, sentenza 1208/2010).
Tempi e competenze per l’approvazione di questi diversi
strumenti di programmazione dovranno dunque essere
allineati. La presentazione del documento al consiglio entro
il 31 luglio costituisce infatti il primo passo dell’intero
ciclo di programmazione dell’ente. Il Consiglio potrà
successivamente approvare il Dup come presentato dalla
giunta o chiedere integrazioni e modifiche per la
predisposizione dell’eventuale nota di aggiornamento. Poiché
la legge non ha fissato un termine per la deliberazione
consiliare, spetta al regolamento di contabilità
disciplinarne le modalità. In ogni caso il Consiglio deve
deliberare in tempo utile per consentire alla giunta la
presentazione dell’eventuale aggiornamento del Dup entro la
scadenza del 15 novembre.
Entro quel termine, infatti, la
giunta deve presentare al consiglio, con lo schema di
delibera del bilancio di previsione, la nota di
aggiornamento del Dup, corredata dalla relazione dei
revisori. Ciò in vista dell’approvazione consigliare entro
il 31 dicembre del Dup e del preventivo 2017 (articolo Il Sole 24 Ore del 13.06.2016). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Professionisti amministratori è un aut aut.
Interrogazione.
O professionisti o amministratori locali. L'aut aut che sta
costringendo geometri, avvocati, architetti, ingegneri che
siano stati eletti in amministrazioni locali a rinunciare
all'incarico pubblico pur di preservare la propria attività
professionale, finisce sul tavolo del governo. Sarà il
ministro dell'interno, Angelino Alfano, a dover chiarire
l'orientamento ufficiale dell'esecutivo sulla discussa norma
del dl 78/2010 che, interpretata in modo restrittivo dalla
sezione autonomie della Corte dei conti, ha posto i
professionisti-amministratori locali davanti a un bivio.
Il numero uno del Viminale è stato chiamato in causa da
un'interrogazione (Interrogazione
a risposta in commissione 5-08842) del deputato Pd Simonetta Rubinato
sottoscritta anche dai colleghi Floriana Casellato, Alessia
Rotta, Diego Crivellari ed Ezio Primo Casati.
Oggetto del
contendere è la lettura dell'art. 5 comma 5 del decreto che
vieta ai titolari di cariche elettive la possibilità di
percepire compensi per lo svolgimento di qualsiasi incarico
conferito dalle p.a., eccezion fatta per i rimborsi spese e
per eventuali gettoni di presenza che non possono superare
l'importo di 30 euro a seduta.
Sull'interpretazione da dare
alla norma si sono infatti alternate due opposte visioni.
Quella, più a maglie larghe, del ministero dell'interno che
ha circoscritto il divieto di cumulo ai soliti incarichi
conferiti dalla p.a. in relazione alla carica elettiva, e
quella restrittiva della sezione autonomie secondo cui «la
disciplina vincolistica si riferisce a tutte le ipotesi di
incarico comunque denominato».
Alfano dovrà chiarire non solo l'orientamento del governo
sulla querelle ma anche «se e quali iniziative, anche
normative, intenda adottare al fine di escludere la portata
applicativa della disposizione a quegli incarichi
eventualmente conferiti all'amministratore, nell'ambito
della sua attività libero professionale, da enti diversi da
quello di appartenenza»
(articolo ItaliaOggi dell'11.06.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO: Riforma
della dirigenza verso lo slittamento.
È sempre più probabile lo slittamento della riforma della
dirigenza pubblica. Sulla strada che porta all'approvazione
del decreto legislativo attuativo dell'art. 11 della legge
Madia pesa come un macigno il ricorso alla Consulta
presentato dalla regione Veneto. E anche il Consiglio di
stato ha invitato il governo a un supplemento di
riflessione.
Secondo l'amministrazione guidata da Luca Zaia,
la norma in questione presenta diversi vizi di illegittimità
costituzionale. Essa, infatti, si porrebbe in contrasto con
la costante giurisprudenza della Corte, che ha ritenuto che
l'impiego pubblico anche regionale deve ricondursi, per i
profili privatizzati del rapporto, all'ordinamento civile e
quindi alla competenza legislativa statale esclusiva, mentre
i profili «pubblicistico-organizzativi» rientrano
nell'ordinamento e organizzazione amministrativa regionale,
e quindi appartengono alla competenza legislativa residuale
delle regioni.
Al contrario, nell'art. 11 vengono stabiliti puntuali
principi e criteri direttivi rivolti a disciplinare
direttamente anche la dirigenza regionale, senza che
intervenga alcuna distinzione e qualificazione, all'interno
di questi, di quei «principi generali dell'ordinamento» che
soli sarebbero idonei a vincolare la potestà legislativa
regionale in materia. Inoltre, nello stabilire un principio
generale di ampliamento delle ipotesi di mobilità senza
considerare che la selezione dei dirigenti in servizio è
avvenuta sulla base dell'accertamento di specifiche
competenze tecniche da parte dell'ente che ha bandito il
concorso, la legge Madia si porrebbe in contrasto anche con
il principio di ragionevolezza e buon andamento.
La serietà di tale contestazioni è stata confermata dal
Consiglio di stato, che nel parere rilasciato lo scorso 5
maggio in relazione al decreto sulla nomina dei dirigenti
sanitari, ha evidenziato come il ricorso del Veneto metta a
rischio la tenuta dell'intero disegno riformatore, di fatto
invitando il governo a rimettere mano alla questione.
Da qui il probabile rinvio, anche perché i tempi sono
strettissimi. La delega scade il 28 agosto e per di più il
ministro Madia si è personalmente impegnata, nel marzo
scorso, a sottoporre, preventivamente ad Anci il testo del
decreto prima dell'esame preliminare in Consiglio dei
ministri. Ma un testo definitivo, al momento, non c'è
(articolo ItaliaOggi dell'11.06.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI:
Ordinanze d'urgenza motivate. Rifiuti.
Ordinanze contingibili e urgenti per la gestione dei rifiuti
proporzionate, motivate ed emanate dando conto, in
motivazione, del parere espresso dai competenti organi
tecnico-sanitari. Tali ordinanze, sostanzialmente
discrezionali (che, in caso di eccezionali e urgenti
necessità ambientali e sanitarie, possono essere emanate dal
sindaco, dal presidente della giunta regionale o della
provincia) se emanate in assenza dell'acquisizione dei
pareri tecnici sulle conseguenze ambientali devono ritenersi
radicalmente illegittime.
Lo sottolinea il Ministero dell'ambiente con la
circolare
22.04.2016 n. 5982, nella quale si mettono nero su bianco
presupposti e limiti dei provvedimenti ex art. 191 «Codice
ambientale» (dlgs 152/2006).
L'acquisizione del parere degli organi tecnico-sanitari
locali, spiega il dicastero, «mira a contenere la
discrezionalità dell'amministrazione la quale deve essere
limitata dalla necessità di dar conto, nella scelta delle
speciali forme (straordinarie, ndr) di gestione dei rifiuti
delle valutazioni espresse dagli organi competenti».
L'espressione «dar conto», peraltro, suggerisce un obbligo
di acquisire il parere tecnico e di riportarlo in
motivazione e non una necessità di adeguarsi al parere
stesso.
Nella circolare si ricordano i presupposti del
provvedimento: l'urgenza, la contingibilità, l'impossibilità
di provvedere con metodi ordinari. Sotto tale profilo, si
ribadisce che con l'ordinanza contingibile e urgente non si
possono prorogare affidamenti pubblici di servizi
(l'amministrazione dovrà effettuare una nuova gara a
evidenza pubblica). Oltre a essere motivata, l'ordinanza
dovrà avere una durata massima (sei mesi).
Nella circolare,
infine, vengono indicati alcuni esempi di ordinanze contingibili
e urgenti ammissibili: l'autorizzazione di depositi
temporanei o siti di stoccaggio rifiuti in caso di eventi
alluvionali o l'autorizzazione di centri raccolta che stiano
effettuando lavori di rifacimento
(articolo ItaliaOggi del 10.06.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Chi usa il Sistri deve conservare per tre anni i
documenti.
Gli utilizzatori del Sistri devono conservare a disposizione
delle autorità di controllo per almeno tre anni dalla data
di registrazione o di movimentazione la copia in formato
elettronico di ogni movimento del registro cronologico e
della scheda di movimentazione. Le schede per le operazioni
di smaltimento dei rifiuti in discarica devono essere
conservate al contrario a tempo indeterminato ed al termine
dell'attività devono essere consegnati all'autorità che ha
rilasciato l'autorizzazione. Per calcolare il numero di
dipendenti della singola unità locale, occorre fare
riferimento al numero medio degli addetti nell'anno solare
precedente a quello a cui si riferisce il pagamento del
contributo Sistri, indipendentemente dalla chiusura del
bilancio.
Queste alcune delle novità contenute negli ultimi due
documenti in materia di Sistri (manuale operativo Sistri e
procedure di iscrizione e gestione del fascicolo aziendale)
redatti dal ministero dell'ambiente guidato da Gian Luca Galetti.
Ma andiamo con ordine e cerchiamo di sintetizzare
le novità attuative del decreto ministeriale del 30.03.2016 n. 78 entrato in vigore lo scorso
08.06.2016.
Registro cronologico.
Gli operatori iscritti al Sistri
comunicano le quantità e le caratteristiche qualitative dei
rifiuti oggetto della loro attività mediante la compilazione
del registro cronologico. Quest'ultimo è costituito dalle
registrazioni cronologiche prodotte e firmate
elettronicamente sul Sistri.
Le registrazioni cronologiche
una volta firmate devono essere scaricate e conservate
elettronicamente presso la sede legale dell'azienda. Queste,
comunque, rimarranno anche negli archivi informatici del
Sistri in modo che possano essere messe a disposizione delle
autorità di controllo. Mediante l'utilizzo della
applicazione «gestione azienda» accessibile in area
autenticata del sito sistri (www.sistri.it) è possibile
modificare la descrizione del registro cronologico
assegnando identificativi personalizzati.
Tale funzionalità
consente infatti di rinominare i registri cronologici al
fine di renderli immediatamente individuabili nella
consultazione o nella compilazione delle registrazioni
cronologiche di ogni singolo registro in base alle esigenze
operative.
Pagamento contributo Sistri.
Il contributo è versato da ciascuna azienda iscritta per
ciascuna attività di gestione dei rifiuti svolta all'interno
dell'unità locale. Il contributo si riferisce all'anno
solare di competenza, indipendentemente dal periodo di
effettiva fruizione del servizio, e deve essere versato al
momento dell'iscrizione.
Negli anni successivi, il contributo è versato entro il 30
aprile dell'anno al quale i contributi si riferiscono. Tale
disposizione si applica anche agli operatori che hanno
aderito volontariamente al Sistri anche qualora, nel
medesimo anno solare, optino per il ritorno al sistema
cartaceo.
Per le imprese, a esclusione di quelle di raccolta e
trasporto dei rifiuti, il contributo, determinato in
relazione alle quantità dei rifiuti ed, eventualmente, alla
tipologia degli stessi, è dovuto per ciascuna unità locale e
per la sede legale, qualora quest'ultima produca e/o
gestisca rifiuti e per ciascuna operazione di recupero o
smaltimento svolta all'interno dell'unità locale o della
sede legale, qualora quest'ultima produca e/o gestisca
rifiuti.
Per le unità locali in cui insistano più unità operative da
cui originano in maniera autonoma rifiuti per le quali è
stato richiesto un dispositivo per ciascuna unità operativa,
il calcolo dei contributi è effettuato per ciascuna unità
operativa
(articolo ItaliaOggi del 10.06.2016). |
ENTI LOCALI:
Mini enti, spetta ai consigli rinviare la
contabilità.
Gli enti locali fino a 5.000 abitanti possono rinviare al
2017 l'adozione del nuovo sistema di contabilità
economico-patrimoniale, ma devono adottare una espressa
deliberazione consiliare. In tal caso, l'obbligo di
approvare il bilancio consolidato slitterà al 30.09.2018.
La tenuta della contabilità economico-patrimoniale
rappresenta un ulteriore adempimento imposto dal dlgs
118/2011 agli città metropolitane, province e comuni, che
devono garantire la rilevazione dei fatti gestionali nel
rispetto del principio contabile generale n. 17 della
competenza economica e dei principi applicati di cui agli
allegati n. 1 e n. 4/3.
È bene precisare che si tratta di una rilevazione
contestuale a quella in contabilità finanziaria, attraverso
l'adozione del piano dei conti integrato, che «trasforma»
gli accertamenti di entrata e gli impegni/liquidazioni in
costi/oneri e ricavi/proventi e ne misura gli effetti
patrimoniali.
Per la generalità degli enti non sperimentatori, il 2016 è
il primo anno di applicazione delle nuove regole, dato che
quasi tutti nel 2015 si sono avvalsi della facoltà di
rinviarla di un anno.
Per i soli enti fino a 5.000 abitanti (comuni, ma anche
unioni di comuni), l'art. 232, comma 2, del Tuel consente un
ulteriore differimento al 2017. Per avvalersi di tale
facoltà, però, occorre l'autorizzazione espressa del
consiglio comunale. Pertanto, laddove gli enti non abbiano
operato già nel 2015 un rinvio «secco» di due anni, è
necessario adottare una nuova deliberazione.
La contabilità economico-patrimoniale è legata a doppio filo
al bilancio consolidato, anch'esso imposto dal dlgs 118. Il
consolidato, infatti, è un bilancio tipicamente civilistico,
la cui redazione presuppone la corretta tenuta delle
scritture economico-patrimoniali.
Per la generalità degli enti, il primo appuntamento con
questo nuovo strumento è al 30.09.2017, allorché
occorrerà approvare il bilancio consolidato 2016.
Per i mini enti che si sono avvalsi o si avvarranno della
facoltà di proroga della contabilità economico-patrimoniale
al 2017, invece, il primo consolidato dovrà essere approvato
entro il 30.09.2018. Sempre che, prima di allora, tale
obbligo non venga cancellato, come sarebbe probabilmente
opportuno, per le amministrazioni di modeste dimensioni
(articolo ItaliaOggi del 10.06.2016). |
APPALTI: La
tutela ambientale premia. I criteri minimi dovranno essere
applicati al 100% nel 2020. Le indicazioni in due decreti
del ministero di Galletti pubblicati sulla G.U. del
07.06.2016.
Criteri ambientali minimi da rispettare negli appalti
pubblici e valutabili in sede di offerta con incrementi
premiali nei punteggi; applicazione progressiva dei Cam
nelle specifiche tecniche e nelle clausole contrattuali, per
passare dal 50% a fine 2015 al 100% nel 2020.
È quanto prevedono due decreti del ministero dell'ambiente
del 24.05.2016 pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale del 07.06.2016, n. 131.
Il primo provvedimento è quello recante la determinazione
dei punteggi premianti (nell'ambito del criterio
dell'offerta economicamente più vantaggiosa) per
l'affidamento di servizi di progettazione e lavori per la
nuova costruzione, ristrutturazione e manutenzione degli
edifici e per la gestione dei cantieri della pubblica
amministrazione (ma il provvedimento si applica anche alle
forniture di articoli di arredo urbano).
In esso è stabilito
che verrà assegnato, alle offerte tecniche, un punteggio
pari almeno al 5% del punteggio tecnico ai progetti che
«prevedono l'utilizzo di materiali o manufatti costituiti da
un contenuto minimo di materiale post-consumo, derivante dal
recupero degli scarti e dei materiali rivenienti
dall'assemblaggio dei prodotti complessi, maggiore rispetto
a quanto indicato nelle corrispondenti specifiche tecniche».
Nel decreto, che modifica il precedente decreto ministeriale
del dicembre 2015, si stabilisce anche uno specifico onere
per il progettista, tenuto a dichiarare «se tale materiale o
manufatto sia o meno utilizzato al fine del raggiungimento
dei valori acustici riferiti alle diverse destinazioni d'uso
degli immobili oggetto di gara» e ad allegare anche una
dichiarazione del produttore dalla quale deve risultare la
provenienza del materiale di recupero utilizzato (deve
emergere se si tratta di materiale derivato da post-consumo o
da scarti di lavorazione o da disassemblaggio dei prodotti
complessi, o loro combinazione, per quanto tecnicamente
possibile). Inoltre deve essere allegata anche
l'attestazione se il manufatto o il materiale sia in
possesso di marcatura Ce.
Il decreto integra inoltre l'allegato 1 al decreto
ministeriale 05.02.2015 sui criteri ambientali per le
forniture di articoli di arredo urbano definendo dei criteri
premianti legati al maggiore contenuto di materiale
riciclato, con un sistema impostato in analogia a quello dei
prodotti da costruzione.
Il secondo decreto riguarda l'incremento progressivo della
percentuale del valore a base d'asta a cui riferire
l'obbligo di applicare le specifiche tecniche e le clausole
contrattuali dei criteri ambientali minimi. Il testo
riguarda i servizi di pulizia, anche resi in appalti di
global service, e le forniture di prodotti per l'igiene,
quali detergenti per le pulizie ordinarie, straordinarie; i
servizi di gestione del verde pubblico e forniture di
ammendanti, piante ornamentali e impianti di irrigazione; i
servizi di gestione dei rifiuti urbani; le forniture di
articoli di arredo urbano; le forniture di carta in risme e
carta grafica.
Per tutti questi affidamenti si prevede che scatti
l'obbligo, per le stazioni appaltanti, di inserire nella
documentazione di gara almeno le «specifiche tecniche» e le
«clausole contrattuali» dei criteri ambientali minimi,
relativamente alle seguenti percentuali minime delle
prestazioni da affidare: il 62% dal 01.01.2017, il 71%
dal 01.01.2018, l'84% dal 01.01.2019; il 100% dal
01.01.2020.
Fino al 31.12.2016 le amministrazioni saranno comunque
tenute a rispettare almeno la percentuale del 50% del valore
a base d'asta a cui è da riferire l'obbligo di applicare le
specifiche tecniche e le clausole contrattuali dei criteri
ambientali minimi
(articolo ItaliaOggi del 10.06.2016). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: Pannelli fotovoltaici esenti se installati su «unità
speciali». I casi particolari. Le indicazioni.
Per gli
impianti fotovoltaici su edifici la circolare dell’agenzia
delle Entrate 36/2013 non prevede l’obbligo di
accatastamento per quelli minimali.
Gli impianti attualmente
accertati in catasto sono sostanzialmente distinguibili in
due categorie. Una prima afferente gli impianti costituenti
unità immobiliare finalizzate alla produzione di energia
elettrica principalmente da immettere sul mercato (di norma
categoria D/1 o D/10), e una seconda categoria di impianti a
corredo di unità immobiliari aventi altra destinazione d'uso
principale (spesso anche abitativa e categoria ordinaria).
Se si tratta di unità immobiliare in categoria speciale o
particolare, fatta eccezione per il caso di pannelli
fotovoltaici integrati nelle strutture (tetto o facciate
dell'edificio) quindi inseparabili senza danneggiamento
della struttura (per i quali non è consentito lo scorporo,
secondo le indicazioni fornite dall'Agenzia delle Entrate),
è sempre possibile presentare una dichiarazione di
variazione per lo sgravio dei pannelli e delle relative
apparecchiature e linee elettriche dal computo della
rendita.
Per gli impianti fotovoltaici accertati in catasto
come impianti a corredo di unità immobiliari a destinazione
ordinaria, i pannelli non sono scomputabili dalla rendita,
perché non strumentali a un ciclo produttivo, ma associabili
ad impianti fissi di un fabbricato ordinariamente
apprezzabili per usi diversi dell'unità immobiliare.
Per gli impianti fotovoltaici a terra e su serre agricole lo
sgravio segue le stesse regole per gli impianti fotovoltaici
realizzati nell'ambito degli edifici. In questa tipologia i
pannelli sono sempre scorporabili. Di fatto è bene ricordare
che le serre agricole, catastalmente e fiscalmente, non sono
considerati fabbricati ma sono iscrivibili in catasto con
reddito agrario e dominicale sulla base del quale scontano
le imposte immobiliari. In tali casi, ferme restando le
modalità di censimento indicate nella nota 31892 del 22.06.2012 della direzione centrale Catasto, dalla rendita
catastale delle unità immobiliari censite in categoria D/10
dovrà essere scomputato l'incidenza dei pannelli e delle
relative apparecchiature e linee elettriche.
Carroponti, gru e pese sono esclusi dalla stima della
rendita nell'ambito dell'industria manifatturiera. Ma appare
evidente l'escludibilità in ogni tipologia produttiva per
analogia e, a maggior ragione, se si considera che spesso
tali mezzi sono strumentali al solo spostamento per fini
manutentivi delle apparecchiature e macchinari produttivi
installati, da non considerare nella rendita (articolo Il Sole 24 Ore del 09.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Amministratori
locali tutelati. Giro di vite contro le intimidazioni.
Arresto in flagranza. Ok del senato sul ddl. Pene inasprite
per gli atti ritorsivi. Scompare la diffamazione.
Più tutele per gli amministratori locali contro le
intimidazioni. Chi usa violenza o minaccia contro sindaci,
consiglieri e assessori per impedirne o turbarne l'attività,
oppure per ottenere, ostacolare o impedire il rilascio di un
provvedimento, andrà incontro alla reclusione da uno a sette
anni secondo quanto previsto dall'art. 338 del codice
penale.
E se colto in flagranza di reato potrà essere arrestato. Non
solo. Chi compie atti di natura ritorsiva (lesioni
personali, violenza privata, minaccia o danneggiamento) nei
confronti dei componenti di un corpo politico,
amministrativo o giudiziario a causa dell'adempimento del
mandato o del loro servizio, subirà un inasprimento della
pena che verrà aumentata da un terzo alla metà.
Nessun
pericolo però per i giornalisti che non rischieranno più il
carcere fino a nove anni se accusati di aver diffamato a
mezzo stampa un politico, un amministratore pubblico o un
magistrato. All'ultimo minuto, infatti, la diffamazione è
stata espunta dall'elenco di reati per i quali il ddl sul
contrasto delle intimidazioni a danno degli amministratori
locali prevede l'aumento di pena.
«Abbiamo voluto evitare qualunque tipo di
strumentalizzazione per non svilire un provvedimento che
tutta l'Italia aspetta», ha spiegato a ItaliaOggi Giuseppe
Cucca, relatore del disegno di legge che è stato approvato
in prima lettura al senato con 180 sì, 43 astensioni (di M5S
e Lega) e nessun voto contrario.
«Non ci sono mai stati dubbi sul fatto che il nuovo articolo
339-bis del codice penale, con cui si prevede un'aggravante
qualora un certo tipo di reati sia commesso contro un
amministratore locale a causa dell'adempimento del mandato,
delle funzioni o del servizio, non si sarebbe applicato alla
diffamazione a mezzo stampa. Per far scattare l'aumento di
pena la diffamazione avrebbe dovuto avere natura ritorsiva
richiedendo un dolo specifico da parte dell'autore».
«Nulla
a che vedere», ha proseguito Cucca, «con la comune
diffamazione a mezzo stampa, che non viene contemplata
assolutamente e resta regolata dalla normativa vigente. In
ogni caso per evitare altre strumentalizzazioni e polemiche
infondate che avrebbero nuociuto all'intero impianto del
ddl, abbiamo deciso di cancellare dal testo dell'articolo 3
anche il riferimento all'articolo 595 del codice penale e
non vi sarà più alcun legame con il reato della
diffamazione», conclude il senatore del Pd.
Il disegno di legge trae origine dal lavoro svolto dalla
commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle
intimidazioni ai danni degli amministratori locali, la
quale, costituita all'inizio della legislatura, ha concluso
la propria attività il 26.02.2015. La Commissione ha
sollecitato un intervento urgente del parlamento per
arginare un fenomeno che in 40 anni ha visto l'uccisione di
132 amministratori locali e 11 congiunti.
«La Costituzione», ha sottolineato Doris Lo Moro, capogruppo
del Pd in commissione Antimafia, già presidente della
commissione Intimidazioni e prima firmataria del disegno di
legge, «pretende che a tutti i rappresentati delle
istituzioni siano richieste dignità ed onore, ma queste
persone vanno anche tutelate. Non si tratta di un
privilegio, o tantomeno dell'ennesima tutela della casta, ma
di proteggere persone che nel compimento del proprio dovere
vengono fatte oggetto di intimidazioni e minacce e che
peraltro rappresentano lo stato sul territorio. Per questo
non condivido l'astensione dei senatori del Movimento 5
stelle».
La replica dei pentastellati non si è fatta attendere.
«Ancora una volta il Pd e la maggioranza hanno approfittato
di una norma sacrosanta per dare più tutela anche alla casta
dei parlamentari che non ne aveva assolutamente bisogno», ha
affermato il capogruppo M5s in commissione giustizia al
senato, Enrico Cappelletti. «Abbiamo sempre condiviso la
preoccupazione e la necessità di intervenire con una norma
di maggiore tutela per gli amministratori locali. Ma non è
accettabile che il Pd abbia esteso tutele anche ai
parlamentari ed è proprio questo che abbiamo voluto
denunciare con il nostro voto di astensione»
(articolo ItaliaOggi del 09.06.2016). |
APPALTI: Appalti, a rischio un’impresa su 5.
L’effetto-tagliola colpisce le Pmi: possibile esclusione per
5.500 unità.
Lavori pubblici. Con le nuove regole di qualificazione più
difficile provare i requisiti per l’attestazione Soa.
Un’impresa di
costruzione su cinque rischia di uscire dal mercato dei
lavori pubblici. Mentre una su due potrebbe essere costretta
a limitare il suo raggio d’azione. Il nuovo codice appalti (Dlgs
n. 50/2016), nella parte che riguarda le attestazioni, pone
tutti i presupposti per un massacro delle Pmi: per effetto
della regola che impone di guardare agli ultimi cinque anni
di fatturato per sottoscrivere il contratto Soa, molti
operatori dovranno ridimensionarsi.
L’analisi del casellario Anac dà una dimensione preoccupante
a questa valanga in arrivo: su 29mila imprese attestate,
sono circa 14.500 quelle che in futuro rischiano il taglio
di una categoria o di una classifica e sono quasi 5.500
quelle che potrebbero doversi limitare alle gare sotto i
150mila euro, che non prevedono attestazione Soa.
Il primo tassello di questo caos è stato piantato
nell’ultimo milleproroghe (decreto n. 210/2015). Qui è stata
rinviata fino al prossimo 31 luglio una previsione già in
vigore da anni: per dimostrare i requisiti di fatturato, in
fase di sottoscrizione del contratto Soa, si guardava ai
dieci anni che precedono la firma.
Questo assetto serviva a
favorire le imprese in un periodo di crisi. Con l’entrata in
vigore del nuovo codice appalti, dal 19 aprile scorso, il
regime di favore è stato cancellato. L’effetto di questo
taglio è che si torna alla regola fissata dal Dpr n.
207/2010: la cifra di affari in lavori per la sottoscrizione
dell’attestazione va dimostrata guardando al quinquennio
antecedente la firma. Quindi, il mercato riparte da un
sistema pensato per una fase di crescita. Analizzando gli
effetti di questo cambiamento, si può intravedere un vero
terremoto.
Lo spiega Edoardo Bianchi, vicepresidente
dell’Ance con delega alle Opere pubbliche. Premesso che «noi
abbiamo fiducia nel nuovo codice», con le nuove regole
«nessuno potrà crescere. Gli ultimi cinque anni coincidono
con il periodo più acuto di crisi. Quindi se per documentare
la propria capacità un'impresa deve fare riferimento a
questo periodo è chiaro che si troverà nel curriculum molti
meno lavori».
Attualmente in Italia ci sono 29.302 attestazioni. Il nuovo
regime è meno favorevole, perché porterà a tenere conto
soltanto di anni nei quali la crisi era al suo apice. Così,
andando a rinnovare le attestazioni, molti incontreranno
sorprese. Considerando le attestazioni rinnovate, integrate
o sottoscritte nel 2015, solo il 31,8% avrebbe confermato la
sua vecchia classifica anche con il nuovo sistema:
un’impresa su tre. La metà degli operatori avrebbe avuto dei
problemi, come l’abbattimento di una classifica o la perdita
di una categoria: il 49,5 per cento. Ma, soprattutto, il
18,7% avrebbe sofferto la sanzione più dura: l’uscita dal
mercato.
Proiettando queste cifre su larga scala, viene fuori che
solo 9.318 imprese resteranno indenni. Circa 14.500 si
vedranno restringere il raggio d’azione, mentre quasi 5.500
usciranno dal mercato. Non si tratta –va specificato– di
un problema immediato. I contratti con le Soa, infatti,
hanno validità quinquennale e vanno sottoposti a verifica
dopo tre anni. Chi aveva il contratto in scadenza si è
affrettato a rinnovarlo con le vecchie regole, per usufruire
del bonus.
«Considerando che il contratto di attestazione
deve essere portato a conclusione entro 180 giorni dalla
data della sua sottoscrizione -spiega il vicepresidente di Unionsoa, Rosario Parasiliti-, ne consegue che allo stato
sulle Soa grava una considerevole mole di lavoro che dovrà
necessariamente essere smaltita entro e non oltre il
prossimo 18 ottobre».
Il problema su scala più ampia,
allora, comincerà a porsi solo tra qualche mese. Potrebbe,
però, trattarsi di un problema difficile da risolvere, anche
perché sarà combinato ad altre criticità. All’orizzonte,
infatti, ci sono difficoltà anche per le imprese che hanno
un direttore tecnico che svolga il suo ruolo in deroga
rispetto alla regola generale che prevede un titolo di
studio. In base al nuovo codice, non potranno più
attestarsi (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Sistri, in vigore il decreto Primo passo per la svolta.
Ambiente. Ma per ora non cambia nulla sul piano operativo.
Comincia oggi
il nuovo corso del Sistri (Sistema elettronico di
tracciabilità dei rifiuti) anche se per ora, in attesa di
futuri decreti e nuovi gestori dell’infrastruttura
telematica, tutto rimane quasi uguale.
Infatti, oggi entra
in vigore il nuovo “testo unico Sistri” previsto al Dm 30.03.2016, n. 78 che, con decorrenza immediata, abroga il
precedente Dm 18.02.2011, n. 52 (si veda Il Sole 24
Ore del 25 maggio). Il Sistema si conferma per i rifiuti
pericolosi. La gestione dei processi e dei flussi
informativi è affidata ai Carabinieri. Un decreto stabilirà
come connettere gli altri organi di controllo.
L’interconnessione con il Corpo forestale dello Stato, per
ora, è oggetto del Dm 15.01.2015.
Con sentenza 11.05.2016, n. 5569 il Tar Lazio ha dichiarato
inammissibile, per carenza di interesse, il ricorso
presentato da Selex Se.Ma. (attuale gestore Sistri) contro
il bando con cui Consip ha indetto la gara per il nuovo
affidamento del Sistri.
Le grandi aspettative delle imprese per un Sistri
semplificato non sono contenute in questo nuovo testo, che
però getta le basi affinché l’esperienza della tracciabilità
elettronica dei rifiuti si trasformi in qualcosa di
gestibile, almeno per giustificare i costi che le imprese
sopportano. Sotto il profilo operativo, da oggi –dunque-
non cambia nulla; gli obbligati all’iscrizione al Sistri e
al pagamento dei contributi (il termine per il 2016 è
scaduto lo scorso 30 aprile), continuano a operare come ieri
e così faranno fino al restyling dell’infrastruttura
telematica secondo le linee guida date dal decreto in esame.
Quindi, continueranno a usare registri e formulari cartacei,
affiancando l’apparato procedurale Sistri fatto di
chiavette, black box, schede, chiavi di accesso e
collegamenti online che si interrompono entro pochi minuti.
Gli errori per il momento non sono perseguibili poiché
l’articolo 11, comma 3-bis, Dl 101/2013 (legge 125/2013)
dispone la moratoria delle sanzioni “gestionali” fino al 31.12.2016. Per il futuro, l’articolo 23 del nuovo testo
recepisce le doglianze espresse per anni dalle imprese.
Tale
articolo traccia il solco invalicabile all’interno del quale
il gestore del sistema che vincerà la gara in corso dovrà
operare evitando anche sovrastrutture rivendute come
necessarie per la difesa dell’ambiente. È il caso delle black box: si sovrappongono ai sistemi Gps e nulla
aggiungono alla tutela dell’ambiente. Il perimetro del
futuro gestore, in attuazione dell’articolo 11, comma 9-bis,
Dl 101/2013, dispone che le procedure di affidamento del
Sistri “assicurano”: sostenibilità dei costi; interazione
con banche dati in uso alla Pa; interoperabilità con i
gestionali delle imprese e generazione automatica del Mud;
razionalizzazione e semplificazione del sistema, con
l’abbandono dei dispositivi Usb per i trasportatori e delle
black box e individuazione di strumenti idonei.
Si
aggiungono: tenuta in formato elettronico di registri e
formulari con compilazione in modalità offline e
trasmissione asincrona dei dati. La riproposizione dei
formati di registro e formulario facilita gli operatori che
si confrontano con modelli conosciuti da tempo ed è
fondamentale quando gli obbligati al Sistri si interfacciano
con i non obbligati che continuano a produrre registri e
formulari cartacei: se i formati non sono identici, si
moltiplicano dati, errori e complicazioni.
La trasmissione
asincrona sarà il vero punto di svolta; infatti, oggi è
previsto che l’impresa si colleghi al server Selex Se.Ma. e
invii i dati in contemporanea con l’operazione che si fa con
i rifiuti. Quindi, deve connettersi più volte al giorno e
ripetere le procedure.
Se la connessione non è disponibile,
l’impresa deve rinviare la compilazione delle schede o
mettere in atto complicate procedure alternative. La
trasmissione asincrona invece, consente all’operatore di
memorizzare i dati in locale (anche per più operazioni) e
inviarli in unica soluzione a fine giornata quando la
connessione è più agevole (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
TRIBUTI: Uffici
tributi locali a caccia di false residenze.
L'analisi/evasione di imu e iva sulle seconde case.
L'abitazione principale ai fini Ici ora Imu di cui al c. 2,
art. 13, dl 201/2011, è l'immobile in cui il possessore e il
suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono
anagraficamente. L'alternativa per il contribuente è di
scegliere l'unità immobiliare da destinare a propria
abitazione principale, ovvero di beneficiare su di un solo
fabbricato dell'aliquota agevolata e della detrazione prima
casa.
La ragion d'essere della norma è di evitare che i
coniugi, separando la loro residenza anagrafica in due
diversi immobili, possano usufruire entrambi delle
agevolazioni «prima casa» nell'ambito dello stesso comune,
prassi frequente ai fini Ici, ma che ancora oggi continua
con l'Imu. Nulla, però, viene stabilito dal legislatore
relativamente all'ipotesi in cui i componenti del nucleo
familiare abbiano stabilito la dimora abituale e la
residenza anagrafica in immobili situati in comuni diversi.
La circolare Mef n. 3/DF/2012 statuisce nel caso in cui due
coniugi fissano la loro residenza e dimora abituale in due
immobili ubicati in diversi comuni, la possibilità di
usufruire per entrambi delle agevolazioni prima casa,
qualora non si tratti di una mera operazione elusiva, ma al
contrario, sia motivata da un'effettiva e reale necessità.
La circolare non è in grado di collocarsi all'interno del
sistema di gerarchia delle fonti del diritto (Cass. n.
237/2009), rimanendo relegata da vincolo solo per
l'amministrazione che l'ha emanata.
Per di più nella
casistica giurisprudenziale sull'Ici, come abitazione
principale viene recepito il concetto di residenza
familiare, di ricondurre a unità immobiliare l'abitazione
principale che costituisca la dimora abituale non solo del
ricorrente, ma anche dei suoi familiari (Cass. 14389/2010),
quindi in favore della famiglia e non dei singoli
componenti. D'altra parte, il concetto di famiglia è da
intendersi, come composta da coniugi e figli, la cui unicità
determina di conseguenza la necessità di individuare
un'unica residenza e un'unica dimora della stessa.
A tal
fine giova richiamare gli artt. 43, 144, 145 e 146 del c.c.,
infatti l'art. 43 dispone: il domicilio di una persona è nel
luogo in cui essa ha stabilito la sede principale dei suoi
affari e interessi. La residenza è nel luogo in cui la
persona ha la dimora abituale. Mentre, l'art. 144, c. 1,
detta espressamente: «I coniugi concordano tra loro
l'indirizzo della vita familiare e fissano la residenza
della famiglia secondo le esigenze di entrambi e quelle
preminenti della famiglia stessa».
Tanto che in caso di disaccordo dei coniugi sulla fissazione
della residenza della famiglia è previsto l'intervento
sostitutivo dell'autorità giudiziaria ai sensi dell'art. 145
c.c.
L'art. 146 c.c. cita: «Il diritto all'assistenza morale e
materiale previsto dall'art. 143 è sospeso nei confronti del
coniuge che, allontanatosi senza giusta causa dalla
residenza familiare, rifiuta di tornarvi». Dunque,
convivenza e coabitazione dei coniugi costituiscono, di
norma e di fatto, un obbligo coniugale che si concretizza in
una delle ragioni dell'esistenza della famiglia stessa. In
ogni caso, costituirà una situazione anomala ed eccezionale
la non convivenza dei due coniugi spettando agli stessi di
fornire la prova. Infine, anche la circolare Mef non
consente di fruire delle agevolazioni prima casa
indiscriminatamente per due coniugi che stabiliscono la loro
residenza e dimora abituale in immobili ubicati in diversi
comuni, ma pone un chiaro limite nel divieto dell'elusione
tributaria.
In definitiva, ciò significa per
l'amministrazione un'attenta analisi e vaglio sui motivi che
comportano la scissione della residenza in immobili diversi,
da quello familiare esclusivo, rimanendo un'eccezione
all'unità della vita familiare dei coniugi e della prole,
che comporta per l'ente impositore una valutazione caso per
caso. A titolo semplificativo e al fine di una corretta
istruttoria della posizione contributiva, possono essere
annoverati: consumi di gas, acqua, energia elettrica,
raccolta rifiuti con porta a porta, motivi di salute,
verifica del luogo di lavoro, ciò anche al fine di evitare
un possibile danno erariale.
In particolare, gli uffici
dovranno concentrare la loro attività sui controlli del
luogo di lavoro del contribuente, che spesse volte è
distante anche centinaia di chilometri. In poche parole in
quest'ultimo caso gli uffici dovranno prestare attenzione in
quanto spesse volte le residenze fittizie si concentrano in
seconde case ubicate in luoghi di villeggiatura, mentre il
nucleo familiare conserva l'effettiva dimora in città.
In
aggiunta all'elusione dell'Imu si affianca anche quella
relativa ai fini Iva, infatti qualora il contribuente abbia
acquistato una seconda casa in tale località, non
abitandovi, paga l'Iva al 4% anziché al 10% rientrando
quindi tale casistica tra le segnalazioni qualificate per
l'Agenzia delle entrate, a cui l'ente è obbligato a
comunicare
(articolo ItaliaOggi dell'08.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
Alla gara europea con il tutor. Bruxelles lancia
un servizio web gratuito per operare bene. Arriva online il
vademecum per predisporre il documento unico e fare
l'autodichiarazione.
Al via la guida online della Commissione Ue per la
predisposizione del documento di gara unico europeo; un
servizio gratis per adempiere all'obbligatoria compilazione
dell'autodichiarazione necessaria per partecipare agli
appalti pubblici.
La Commissione Ue ha infatti pubblicato sul proprio sito una
guida per la compilazione on-line del Documento di gara
unico europeo, consultabile al
seguente indirizzo.
Si tratta di un servizio web gratuito a disposizione delle
stazioni appaltanti e degli operatori economici per la
redazione, step by step, del Dgue che dal 20 aprile scorso è
obbligatorio per tutti i partecipanti alle procedure di
affidamento di appalti pubblici, in base a quanto stabilito
dall'articolo 85 del nuovo codice sui contratti pubblici (dlgs
50/2016).
Le amministrazioni sono tenute ad accettarlo e,
sempre in base al nuovo codice n. 50/2016, deve essere
predisposto sulla base del formulario della Commissione
europea «esclusivamente» in forma elettronica. In realtà
l'esclusività della redazione in forma elettronica è
prevista soltanto dal decreto 50; a livello europeo questo
obbligo scatta soltanto dal 2018.
Il Dgue consiste in una
autodichiarazione «aggiornata come prova documentale
preliminare in sostituzione dei certificati rilasciati da
autorità pubbliche o terzi», in cui si conferma che
l'operatore economico non si trovi nelle situazioni che
determinano l'esclusione dalla gara (art. 80), è in possesso
dei requisiti minimi per l'accesso alla gara (art. 83) e i
criterio oggettivi (art. 91) che vengono indicati nel bando
di gara per la riduzione del numero dei candidati/offerenti.
Utilizzando la procedura online messa a punto dalla
Commissione Ue, la stazione appaltante potrà predisporre il Dgue e con la stessa piattaforma, l'operatore economico
potrà procedere alla compilazione del modello standard
(tradotto in tutte le lingue della Ue) che poi potrà essere
stampato e inoltrato alla stazione appaltante con le altre
parti dell'offerta.
Se si procede in via elettronica, il
documento può essere esportato, salvato e presentato
direttamente in formato elettronico; successivamente può
anche essere riutilizzato ma soltanto se le informazioni
sono ancora valide. Ovviamente se il Dgue contiene
inesattezze, false dichiarazioni e elementi non
riscontrabili con le «documenti complementari»
rilasciati dalle p.a. o da terzi, il concorrente rischia
l'esclusione dalla gara. Va ricordato che gli elementi
oggetto di autodichiarazione vanno confermati da documenti
complementari «su richiesta e senza indugio».
Inoltre nel documento di gara unico, in base al nuovo codice
appalti, devono essere indicate anche «l'autorità
pubblica o il terzo responsabile del rilascio dei documenti
complementari». Nella fase di accertamento di quanto
auto dichiarato si dovrà poi fare riferimento ai mezzi di
prova
(articolo ItaliaOggi del 07.06.2016). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Avvocati,
pubblicità trasparente. Maggior chiarezza possibile quando
si tratta di compensi. La sentenza del Consiglio nazionale
forense sulla vicenda Alt, il primo studio legale su strada.
Alla pubblicità degli avvocati è imposta la maggior
chiarezza possibile. Soprattutto quando di mezzo ci sono i
compensi. L'espressione «prima consulenza gratuita», in
particolare, di per sé non chiarisce i limiti dell'offerta
del servizio da parte dell'avvocato, esponendo il cliente,
inconsapevole della natura della prestazione, se nel merito
oppure orientativa, al rischio di dover poi pagare la
parcella.
Sono alcuni principi che emergono dalla sentenza del
Consiglio nazionale forense che ha di fatto chiuso l'annosa
vicenda che riguardava il primo studio legale su strada Alt
(Assistenza legale per tutti), che ha poi cambiato il nome
in Al Assistenza legale, annullando il provvedimento
disciplinare adottato dall'Ordine degli avvocati di Milano,
contro il quale aveva presentato ricorso il cofondatore
Cristiano Cominotto.
In particolare, secondo il Coa di
Milano, la dicitura «Alt» rappresenterebbe «un perentorio
invito al passante a fermarsi ed entrare nei locali dove si
svolge attività legale», costituendo quindi «una modalità
non conforme a dignità e decoro di captazione di clientela».
A parere del Cnf, però, «a fronte di un sistema di
comunicazioni che indirizza ai cittadini un continuo flusso
di messaggi», non si può ritenere che l'acronimo Alt, «possa
avere particolare efficacia persuasiva tanto più
perentoria». In virtù di questo, la sentenza specifica come
le modalità utilizzate «non pongano in essere alcuna
violazione delle norme deontologiche».
La vicenda che
riguarda il primo negozio di assistenza legale su strada,
nato sull'onda delle liberalizzazioni introdotte dal decreto
Bersani del 2006, ha inizio nel 2009, quando il Coa di
Brescia sanzionò la presunta infrazione delle norme
deontologiche.
Nel 2010, venne dichiarata dalla Corte di
Cassazione la competenza territoriale del Consiglio
dell'Ordine degli avvocati di Milano a decidere nei
confronti di Cominotto, mentre veniva confermata la sanzione
della censura nei confronti dell'altro cofondatore,
Francesca Passerini, inducendo lo studio a cambiare nome da
«Alt» ad «Al assistenza legale».
Il Coa di Milano, nel 2012,
sanzionava Cominotto con la censura, contro la quale venne
presentato ricorso al Cnf. La dicitura «prima consulenza
gratuita», secondo il Cnf, se da un lato «è in se stessa
tale da non chiarire i limiti dell'offerta», dall'altro lato
«non sono stati acquisiti elementi per valutare se in
concreto l'attività dello studio si svolgesse, in rapporto
alla richiesta di consulenza gratuita, con modalità tali da
indurre in inganno il richiedente o se fosse condotta in
modo corretto»
(articolo ItaliaOggi del 07.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
SICUREZZA LAVORO:
L'alunno cade, scuola colpevole. Dalla scivolata
alla sedia contesa, fioccano le condanne. L'orientamento
della Cassazione: censurare gli istituti per mancata o
inadeguata prevenzione.
Arrivano, sempre più numerosi in Cassazione, i giudizi di
responsabilità in ambito scolastico dai quali emerge
l'orientamento di censurare le situazioni prive di misure
preventive idonee ad evitare l'evento dannoso.
Di recente la Suprema Corte è stata chiamata a giudicare su
svariati casi tra i quali la caduta di uno studente nel
pavimento bagnato, l'incidente di un alunno in attività
extracurriculari, la palla calciata da un ragazzo che ha
colpito in faccia un docente.
Le tre situazioni avevano provocato seri danni alle vittime
che per ottenere risarcimento hanno spinto le loro ragioni
fino al Giudice di legittimità.
Il primo caso è stato deciso con la
sentenza
25.02.2016 n. 3695 (Sez. III civile) che ha ravvisato l'addebito della scuola in
punto di prevedibilità di un evento (seppur non voluto) e
nella carenza di adeguata prevenzione.
Era accaduto in una scuola friulana che un'alunna si fosse
provocata delle lesioni scivolando nel pavimento bagnato
pressi i servizi.
Il ministero si era difeso riferendo che l'acqua sul
pavimento non aveva origine da operazione di pulizia e
facendo intendere che essa era presente per uno scorretto
uso di rubinetti e lavandini, tuttavia restava provato che
le condizioni del pavimento erano tali prima dell'ingresso
dell'alunna caduta, tanto faceva dedurre che l'ingresso
dell'alunna poteva e doveva essere evitato (da parte del
personale scolastico; ad esempio ponendo il segnale
bifacciale giallo di pericolo).
La Corte ha ammonito che la scuola ha l'obbligo di vigilare
sulla sicurezza e l'incolumità dei ragazzi nel tempo in cui
essi fruiscono delle prestazioni, dovendosi comprendere
anche la cura dell'idoneità dei luoghi.
Il danneggiato ha solo l'onere di provare che l'evento
cagionante si è verificato durante il momento scolastico,
tanto a prescindere che sia invocata la responsabilità
contrattuale (il cosiddetto “contatto sociale”) che quella
extracontrattuale. La considerazione, poi, che l'allagamento
del pavimento del bagno e degli spogliatoi comuni sia cosa
frequente ne esclude l'eccezionalità e l'imprevedibilità
quali esimenti di responsabilità per la scuola.
Anche per un'altra situazione la Cassazione con la
sentenza
13.11.2015 n. n. 23202 ha accolto il ricorso dei genitori rinviando al
giudice di appello affinché rivaluti il fatto (un alunno era
caduto nell'atto di sedersi perché si contendeva la sedia
con una compagna) secondo il principio che, in tema di
responsabilità civile dei maestri e dei precettori, per
superare la presunzione di responsabilità che grava
sull'insegnante, è necessario dimostrare che sono state
adottate, in via preventiva, tutte le misure disciplinari o
organizzative idonee ad evitare il sorgere di una situazione
di pericolo causativa dell'evento e che, nonostante
l'adempimento di tale dovere, il fatto dannoso, solo per la
sua repentinità e imprevedibilità ha impedito un tempestivo
ed efficace intervento.
Diverso esito ha avuto invece il caso di una professoressa
di educazione fisica colpita al volto da una pallonata
durante la lezione: la Cassazione ha respinto il suo ricorso
(sentenza
26.01.2016 n. 1322 - Sez. III civile) confermando i
dinieghi dei giudici di merito.
Un alunno mentre disputava una partita di pallavolo, alla
guida di un docente, calciava impropriamente il pallone che
finiva per colpire al volto la docente (impegnata a lato con
un'altra classe) provocandole gravi danni. Il caso va a
collocarsi nelle possibili figure dell'art. 2048 cc della
responsabilità extracontrattuale, perché trattandosi di un
docente non è applicabile il principio del contatto sociale
(art. 1218 cc): pertanto il fatto costitutivo deve esser
provato dal danneggiato, mentre il fatto impeditivo (ossia,
il non aver potuto evitare l'evento) va provato dalla
scuola.
Nel caso, l'azione si era consumata nel corso di una gara
sportiva, sicché la Corte ha ritenuto di far rinvio al
criterio che distingue un comportamento lecito da quello
punibile nel collegamento funzionale tra gioco ed evento
lesivo, escludendolo se l'atto è compiuto allo scopo di
ledere oppure con una violenza incompatibile con le
caratteristiche del gioco. Scartata la volontà di colpire
l'insegnante, restava da valutare la funzionalità di un
calcio al pallone con le regole del volley che ad avviso
della Cassazione trova sussistenza.
La decisione suscita perplessità tanto evidenti (la docente
non è stata risarcita, e nel frattempo è pure venuta a
mancare) che la stessa sentenza nella parte conclusiva tenta
di sedare annotando che l'asserita violenza (che avrebbe
determinato l'illecito e quindi la risarcibilità) con cui il
pallone sarebbe stato calciato era stata esclusa dalla Corte
d'Appello e trattandosi di una valutazione tipicamente di
merito restava preclusa ogni modifica e censura presso il
giudice di legittimità
(articolo ItaliaOggi del 07.06.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Abusi
da demolire: i Pm di Reggio ripartono dal 1996.
In Calabria,
nella parte d’Italia che soffre la presenza prolungata e
violenta della mafia oggi più pericolosa –la ‘ndrangheta,
che nel Reggino ha le sue radici– c’è uno Stato che non
molla. Non è facile operare in un territorio così spesso
tradito dalle istituzioni, che stenta a credervi ancora,
quando non si mostra apertamente ostile. Eppure, a dispetto
delle apparenze e dei facili nichilismi, pezzi dello Stato
agiscono in silenzio e con delicatezza non limitandosi a
“fare la propria parte”, ma anche quella di molti altri, con
un plus di assunzione di responsabilità, operatività e
cultura civica.
Accade, dunque, a Reggio Calabria, che da quasi due anni la
Procura della Repubblica abbia messo mano al capitolo “abusi
edilizi”, sostituendosi di fatto ai Comuni, che negli ultimi
vent’anni non hanno eseguito le sentenze definitive di
abbattimento o acquisizione al patrimonio pubblico degli
immobili irregolari.
Inutile dilungarsi su questa tipologia di reato, che stronca
il paesaggio, l’ambiente, l’urbanistica, il turismo,
l’agricoltura e anche l’erario. E che presenta spesso
delicati risvolti sociali.
A oggi i fascicoli catalogati dal nucleo di Pg formato dal
Corpo forestale dello Stato sono 686, riguardano 21 Comuni,
Reggio Calabria compresa; i più datati risalgono al 1996, i
più recenti all’anno scorso, con eloquenti picchi nei
periodi precedenti i condoni. Alcuni sono casi gravi, per
collocazione o dimensioni, altri sfidano con protervia
regole e proprietà statali, altri sono minutaglia; alcuni
sono abitati, altri no; di alcuni edifici non si sa più a
chi appartengano, altri conducono ad ambienti poco puliti.
Tutti avrebbero dovuto già essere demoliti e invece sono
ancora lì dopo dieci o vent’anni.
Come fare –si sono chiesti in Procura– per agire a fianco
o al posto dei sindaci? Con che soldi? Utilizzando quali
imprese? E soprattutto: da quali costruzioni cominciare?
Tutti interrogativi cui troppo a lungo e troppi sindaci (non
solo calabresi) hanno preferito non rispondere per paura,
per non perdere voti, per ignavia personale e di sistema. Ma
se si cercano davvero, le risposte arrivano.
I soldi ci sono: la Cassa depositi e prestiti mette a
disposizione dei Comuni un fondo di rotazione pari a 50
milioni per anticipare le spese nel caso di inadempienza del
proprietario condannato. Con questo denaro vanno indette le
gare per demolire, smaltire macerie e rifiuti, riconsegnare
al sindaco il terreno ripulito. Già, ma a chi affidare un
lavoro impopolare e malvisto, specie in luoghi piccoli e ad
alto rischio? I bandi –è la risposta– riguardano le
imprese iscritte alle white list, tenute dalle prefetture,
dunque un bacino garantito che esclude ditte dai profili
incerti. Quanto alle priorità di esecuzione, dopo analisi e
consulti, il pool antiabusivismo reggino ha scelto di
rifarsi agli undici criteri di un Ddl ancora in mezzo al
guado tra Camera e Senato.
Non è proprio una legge, ma
quasi, ed elenca le condizioni di pericolosità strutturale,
gli immobili in costruzione, quelli utilizzati per attività
criminali, poi le lottizzazioni abusive, lasciando per
ultime le case abitate da persone che non avrebbero
un’alternativa.
Su questioni tanto delicate non esistono automatismi
applicativi e per questo gli agenti del Corpo forestale
inviati dai Pm sul territorio e negli archivi verificano
minuziosamente la correttezza topografica e proprietaria
degli immobili, l’effettiva situazione al 2016, e se è il
caso, la chiariscono agli interessati o ai loro eredi, ma il
tutto senza cedere di un millimetro sullo scopo finale:
ristabilire la legalità. Ci vogliono tempo e costanza, ma le
cose procedono anche se dopo l’enorme lavoro di verifica
(tuttora in corso), le demolizioni finora eseguite sono solo
due.
Altri casi sono stati definitivamente archiviati per scarsa
entità o acquisizione da parte del Comune, ma anche chiudere
la pendenza di una misera sopraelevazione dell’immigrato di
ritorno significa dimostrare che lo Stato non dimentica, non
è cieco né tanto meno un nemico per definizione (articolo Il Sole 24 Ore del 06.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Ecco quando l’avvocato deve risarcire il cliente.
Dalle prove-chiave dimenticate alla negligenza del
domiciliatario.
Professioni. Per i giudici non va garantito il risultato ma
occorre lavorare con correttezza.
La mancata
indicazione di prove indispensabili per decidere la causa.
Una scelta difensiva azzardata, fatta perché sollecitata dal
cliente. La negligenza del collega domiciliatario. Sono
diversi gli errori degli avvocati che, per i giudici, fanno
scattare la responsabilità professionale e la condanna a
risarcire i clienti.
E la casistica è articolata perché
rispecchia i vari profili dell’attività che gli avvocati si
impegnano a svolgere per i clienti: dalla fase di prima
disamina della questione, con l’indicazione degli elementi
che caratterizzano il fatto giuridico, alla fase di vera e
propria gestione delle difese più idonee a raggiungere lo
scopo.
L’obbligazione che l’avvocato assume è sempre legata a
un’attività intellettuale con la quale vengono messi a
disposizione del cliente i mezzi tecnici (le conoscenze e la
sua organizzazione) propri del professionista il quale, se
non deve garantire un risultato sempre positivo, certamente
deve però offrire un grado di professionalità e di diligenza
propria di un operatore qualificato.
È quanto affermano i
giudici (come si legge nella rassegna di decisioni riportate
in questa pagina) che si pronunciano sulla qualità
dell’attività dell’avvocato chiamato in giudizio dal cliente
non soddisfatto del suo operato.
Un particolare profilo di valutazione della condotta
dell’avvocato sta innanzitutto nella genesi del rapporto
professionale: il cliente vuole sapere dal professionista se
le istanze sono fondate sul piano giuridico e se vale la
pena investire tempo e denaro (non solo i compensi del
legale, ma anche le somme per il contributo unificato) nel
giudizio.
L’avvocato ha l’obbligo di informare il cliente sulle
difficoltà del giudizio che intende intraprendere, sui
rischi di insuccesso e sui costi che si dovranno sostenere
con una prognosi quanto più possibile vicina alla realtà. Né
è sufficiente, per l’avvocato, sostenere che è stato il
cliente a insistere per una certa azione con poche chance di
successo, perché la strategia difensiva è sempre un
patrimonio del professionista che opera una scelta in prima
persona (come ha affermato la Cassazione nella sentenza
10289/2015).
Attenzione, poi, alle prove: l’avvocato deve risarcire il
cliente se non indica una prova indispensabile per la
decisione del giudizio, a meno che non dimostri di non
averlo potuto fare per fatto a lui non imputabile o di avere
svolto tutte le attività che, nel caso concreto, potevano
essergli ragionevolmente richieste (come ha spiegato la
Cassazione nella sentenza 25963/2015).
Inoltre, all’avvocato è sempre richiesta una diligenza
associata a un obbligo di correttezza, nel rapporto sia con
il proprio assistito, sia con i terzi, sia con la
controparte: quest’ultima non deve essere danneggiata
intenzionalmente, anche se il legale difende gli intessi
della parte rappresentata. Così, il Tribunale di Trieste ha
condannato un avvocato a risarcire il danno a una parte
(diversa dal suo cliente) che era stata intenzionalmente
danneggiata con l’azione intrapresa (sentenza del 10.08.2015).
L’avvocato non è responsabile solo per la sua attività, ma
anche per quella del domiciliatario. Per il Tribunale di
Rimini (sentenza 240 del 15.02.2016), se il domiciliatario non compare formalmente in udienza, il
cliente può chiedere i danni al difensore.
Ma non tutti gli errori degli avvocati portano alla condanna
a risarcire il danno ai clienti. In primo luogo, non sempre
l’errore determina un danno: per esempio, la mancata
adozione di un’istanza nell’interesse del cliente potrebbe
non avere conseguenze se si dimostra che l’assistito avrebbe
comunque perso la causa. Infatti, l’avvocato non ha
un’“obbligazione di risultato”, nel senso che non è tenuto a
realizzare comunque l’esito positivo a favore della parte
assistita quando non sussistono in fatto e in diritto i
presupposti per questo risultato.
Un’altra ipotesi in cui l’avvocato può essere assolto, anche
se ha commesso un errore, è quella in cui sia chiamato ad
affrontare una questione di particolare difficoltà. Succede,
ad esempio, quando il legale deve dare soluzione a un
problema tecnico particolarmente complesso: in questo caso
risponde solo per dolo o colpa grave e non per una condotta
errata dovuta alla complessità del caso (come ha precisato
la Cassazione nella sentenza 2954/2016).
Per coprire i danni causati ai clienti, la riforma contenuta
nel Dpr 137/2012 ha introdotto l’obbligo di stipulare
un’assicurazione professionale. Ma per gli avvocati la
riforma forense (legge 247/2012) ha scritto un percorso ad
hoc. Il ministro della Giustizia, sentito il Consiglio
nazionale forense, deve stabilire le condizioni essenziali e
i massimali minimi delle polizze.
Al momento la bozza di decreto trasmessa dal ministero è in
consultazione presso l’avvocatura. Al termine di questa fase
(che si chiuderà entro fine mese) il Cnf formulerà il parere
per permettere al ministero di emanare il decreto. Così,
l’obbligo di stipulare una polizza a copertura della
responsabilità civile diventerà pienamente operativo anche
per gli avvocati (articolo Il Sole 24 Ore del 06.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Esuberi provinciali, entro dieci giorni le nuove
assegnazioni. I Comuni attendono lo sblocco delle assunzioni.
Personale. Ultima fase per la ricollocazione dei dipendenti.
I dipendenti
in soprannumero degli enti di area vasta e della Croce Rossa
stanno preparando le valigie: entro il 17 giugno sapranno
quale è il loro destino e il 17 luglio è il termine entro il
quale dovranno presentarsi al nuovo datore di lavoro.
Queste scadenze sono determinate partendo dagli ultimi due
comunicati, entrambi datati 15 aprile, pubblicati sul
portale «mobilità.gov» dalla Funzione pubblica: nel primo,
il Dipartimento avvertiva che era stata aggiornata la
domanda e l'offerta di mobilità con gli ultimi dati
provenienti dalle amministrazioni interessate; con il
secondo veniva consentito ai dipendenti in esubero di
esprimere le loro preferenze di assegnazione.
Per quest’ultima fase era inoltre determinato il termine di
scadenza: le ore 24 del 18.05.2016. Le tappe successive,
con i relativi termini, sono individuate invece
dall’articolo 9 del Dm del 14.09.2015. Conclusa la
fase in cui vengono manifestati i desiderata, la Funzione
pubblica ha 30 giorni di tempo per procedere
all’assegnazione dei lavoratori in eccedenza, e questi
ultimi hanno a disposizione ulteriori 30 giorni per prendere
servizio nell’amministrazione di destinazione.
Di
conseguenza, prima di partire per le vacanze, tutti
dovrebbero essere al loro nuovo posto di combattimento,
nella speranza che non si debba ricorrere a un’ennesima
proroga per intoppi imprevisti: la fase più delicata,
infatti, è quella che è in corso di realizzazione proprio in
queste settimane, vale a dire l’incrocio fra domanda di
mobilità, offerta di mobilità e preferenze espresse dai
dipendenti. E su questo processo non ci sono esperienze
pregresse.
Quindi, dal 18 luglio si dovrebbero ripristinare le
«ordinarie facoltà di assunzione previste dalla normativa
vigente», per dirla alla maniera della legge di stabilità di
quest’anno. Ma la cosa non è così automatica. È pur vero che
il primo periodo del comma 234 della legge 208/2015
stabilisce il via libera alle assunzioni di personale per le
amministrazioni locali nel momento in cui nell’ambito
regionale tutto il personale interessato al processo di
mobilità è stato collocato.
Ma il secondo periodo dello stesso comma impone agli enti di
attendere l’imprimatur della Funzione pubblica, la quale
attesterà la conclusione della procedura nella regione di
appartenenza. Solo da questo momento le assunzioni saranno
libere. In verità, il Dipartimento avrebbe potuto emettere
questo comunicato anche prima del termine per la
ricollocazione di tutto il personale, limitatamente ai casi
nei quali era stato deliberato il completo riassorbimento da
parte della regione: come accaduto, per fare sue esempi, in
Emilia Romagna e in Veneto. Ma questo non è avvenuto, se si
eccettua il personale della polizia locale, limitatamente ad
alcune regioni: oltre alle due appena citate, le assunzioni
dei vigili urbani sono state “liberate” in Basilicata, le
Marche, il Lazio e il Piemonte.
Ma a che cosa è dovuto il mancato sblocco? Ufficiosamente,
si dice che era necessario attendere la ricollocazione di
tutti i dipendenti in esubero, per poter sfruttare anche
ambiti sovraregionali se necessario. Ma i più maligni
suggeriscono che il vero motivo sia da rinvenire nel
risparmio di spesa a livello aggregato. Il ritardare la
pubblicazione del comunicato si sostanzia, infatti, in un
blocco delle assunzioni.
Gli effetti, però, stanno divenendo ormai insostenibili. A
distanza di un anno e mezzo dall’emanazione della legge
190/2014, le amministrazioni, soprattutto di piccole
dimensioni, si trovano in estrema difficoltà nel garantire
anche i soli servizi minimi. Il pensionamento del
responsabile dell’ufficio tecnico o di quello dell’ufficio
finanziario manda in ginocchio l’intera struttura. L’unica
soluzione è il ricorso alla sostituzione da parte del
segretario comunale, il quale è spesso in convenzione con
altre due o tre amministrazioni. Non a caso da più parti
provengono richieste pressanti al Governo affinché sblocchi
in tempi rapidi l’empasse che si è venuta a creare (articolo Il Sole 24 Ore del 06.06.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Sistema Sistri, punto e a capo. Iter d'accesso e
invio dati saranno riscritti da futuri dm.
Dall'8 giugno in vigore il decreto n. 78/2016 per
la tracciabilità telematica dei rifiuti.
In vigore dall'08.06.2016 il decreto Ambiente 78/2016,
provvedimento recante le nuove regole sul funzionamento del
sistema di tracciamento telematico dei rifiuti.
Il nuovo
decreto ministeriale (in G.U. 24.05.2016, n. 120)
conferma il panorama dei soggetti obbligati a iscriversi al
Sistri così come, almeno nell'immediato, il complesso
apparato software e hardware da utilizzare per tracciare i
rifiuti e l'entità del contributo di iscrizione dovuto dagli
operatori.
Parallelamente il nuovo decreto sovrascrive le procedure
previste dall'uscente dm 52/2011 che i soggetti operanti in
Sistri devono osservare per comunicare al Sistema i dati
relativi ai rifiuti, da un lato introducendo alcuni
snellimenti immediatamente spendibili e dall'altro affidando
a futuri decreti (oltre alla rivisitazione dei citati
contributi) la definizione di ulteriori regole operative.
In base allo stesso dm 78/2016 un'ulteriore fase di
ottimizzazione del Sistema sarà inaugurata dal nuovo gestore
del Sistri, il quale dovrà garantire un successivo
alleggerimento della complessa macchina.
Che cosa non cambia.
Come accennato, il nuovo decreto ministeriale n. 78/2016
conferma il novero dei soggetti obbligati a aderire al
Sistri già individuato da dlgs 152/2006 (cosiddetto «Codice
dell'ambiente») e provvedimenti satellite.
Fino alle diverse e citate future disposizioni normative,
l'assetto software e hardware da utilizzare resta inoltre,
rispettivamente, quello costituito da: schede Sistri «Area
registro cronologico» e «Area movimentazione» da tenere
sulla piattaforma telematica; «chiavette Usb» e «black box»
(per accesso al sistema e monitoraggio dei percorsi dei
mezzi di trasporto rifiuti). Confermate anche la necessità
della documentazione cartacea di accompagnamento del
trasporto e la videosorveglianza degli impianti di
trattamento rifiuti.
Che cosa cambia.
Rispetto a quanto previsto dall'abrogato dm 52/2011, il
nuovo dm 78/2016 prevede solo come «eventuale» la presenza
del «delegato», quale soggetto nell'ambito
dell'organizzazione aziendale dall'ente o impresa
formalmente incaricato all'utilizzo del Sistri.
Fermi restando i già previsti termini massimi per
compilazione firma delle schede Sistri, scompare altresì
l'obbligo (ex dm 52/2011) per produttori e trasportatori di
rifiuti pericolosi di informare il Sistri già diverse ore
prima della movimentazione dei rifiuti, diventando
sufficiente farlo immediatamente prima.
Possibile delega ad
associazioni imprenditoriali e società di servizi solo da
parte di «produttori e trasportatori di propri rifiuti»; a
livello generale viene inoltre sancito che i produttori di
rifiuti in quantità non superiore a 200 kg o litri per anno,
fermo restando l'obbligo della preventiva comunicazione in
caso di movimentazione, compilano la citata scheda «Sistri -
Area registro cronologico» con cadenza trimestrale.
Che cosa cambierà tramite futuri decreti.
Con uno o più decreti di natura non regolamentare il
ministero dell'ambiente detterà nuove procedure operative da
seguire per accesso al Sistri, inserimento e trasmissione
dati. Fino alla loro adozione, per quanto non espressamente
previsto dal neo dm 78/2016 varranno le procedure indicate
dai manuali e dalle linee guida pubblicati sul portale
www.sistri.it forniti di «visto di approvazione» del
dicastero.
Nel rispetto delle regole ministeriali, specifiche
istruzioni tecniche continueranno ad essere predisposte dal
concessionario del servizio e pubblicate, sempre previa
approvazione del minambiente, sul portale Sistri.
Con i citati futuri atti non regolamentari il dicastero
provvederà altresì da un lato a ridurre i contributi dovuti
da soggetti che, pur non essendo obbligati, aderiscono
volontariamente al Sistri e dall'altro a sospendere
l'obbligo di installazione ed utilizzo di «black box» (e,
ove sostenibile dal punto di vista tecnico-economico, delle
connesse «chiavi Usb») su mezzi di trasporto rifiuti.
Che cosa dovrà cambiare con il nuovo gestore del Sistema. Il
nuovo dm 78/2016 impegna, formalizzando alcune condizioni da
porre alla base delle relative procedure di affidamento, le
ulteriori semplificazioni e ottimizzazioni che dovranno
essere assicurate dal gestore del Sistri, tra cui:
l'abbandono degli attuali dispositivi hardware e
l'individuazione di altri strumenti di efficace
tracciabilità rifiuti; la traduzione in «formato
elettronico» dei registri carico/scarico e formulari
trasporto rifiuti, con generazione automatica del Mud; la
compilazione in modalità offline e trasmissione asincrona
dei dati; l'interoperabilità del Sistri con sistemi
gestionali di aziende, associazioni categoria e società di
servizi.
Il tutto innestandosi il nuovo decreto 78/2016 in un
orizzonte normativo che vede ancora in corso
l'individuazione del nuovo Gestore del sistema, la
sanzionabilità dell'omessa iscrizione al Sistri e il mancato
versamento dei relativi contributi e l'applicabilità delle
pene (invece) per le violazioni delle regole di tracciamento
Sistri dei rifiuti solo a partire dal 01.01.2017 (data
fino alla quale, però, gli operatori telematici sono
comunque obbligati a utilizzare anche il tracciamento
tradizionale dei rifiuti ex dlgs 152/2006 «pre riforma
Sistri», dietro minaccia delle relative sanzioni)
(articolo ItaliaOggi Sette del 06.06.2016). |
VARI:
Il canone Tv in bolletta è realtà. Inizia lo
scambio di informazioni fra gli enti coinvolti. Il decreto
n. 94 del 13.05.2016 sarà pubblicato oggi sulla Gazzetta
Ufficiale.
Il canone Rai in bolletta elettrica diventa una realtà.
Oggi, nella Gazzetta Ufficiale n. 129, verrà pubblicato il
decreto del Ministero dello sviluppo economico (Mise) di
concerto con il Ministero dell'economia e delle finanze (Mef)
n. 94 del 13.05.2016 relativo appunto al canone Rai in
bolletta.
Il decreto entrerà in vigore il giorno successivo alla sua
pubblicazione (domenica 5 giugno) e di conseguenza gli enti
coinvolti nella riscossione del canone Rai (Agenzia delle
entrate, Acquirente Unico S.p.a e le società elettriche)
dovranno rispettare alcune scadenze, imposte dal decreto
stesso (si veda tabella in pagina).
Ad esempio, l'Acquirente
Unico S.p.a dovrà comunicare alle imprese elettriche le
informazioni necessarie per l'addebito in bolletta del
canone Rai, vale a dire l'elenco dei clienti a cui è
applicabile l'imposta. Il passaggio dei dati tra i due
soggetti avverrà in tre tranche: la prima è già stata
consegnata entro il 31 maggio (data presente nel decreto),
la seconda lo sarà entro metà giugno e la terza entro il 04.07.2016. I contribuenti, quindi, a luglio si vedranno
recapitare a casa la prima bolletta elettrica con
incorporato l'addebito di 70 euro inerente al canone Rai.
Questo addebito così pesante, si verificherà solo per il
2016, perché dal 2017, come si legge dal decreto, i 100 euro
del canone Rai, saranno suddivisi in dieci rate da dieci
euro ciascuna a partire dal mese di gennaio fino a quello di
ottobre: con la prima bolletta utile, si pagheranno anche
gli arretrati. La bolletta si considererà scaduta quando
scoccherà il primo giorno del mese successivo.
Se si dovesse ricevere indebitamente l'imputazione del
canone Rai in bolletta, ad esempio perché si era inoltrata
la dichiarazione di non detenzione di un apparecchio
televisivo, è possibile chiedere il rimborso. Ad oggi, però
le modalità per chiederlo non sono ancora state definite
dall'Agenzia delle entrate, che ha tempo fino al 4 agosto
per poterle fissare tramite un provvedimento. Una volta che
verrà definito l'iter, la palla passerà all'Acquirente Unico
S.p.a che avrà tempo altri cinque giorni per spedire tutte
le informazioni necessarie alle imprese elettriche, che
entro 45 giorni dovranno procedere a rimborsare tutti i
contribuenti a cui è stato indebitamente addebitato il
canone nella bolletta.
In caso si fosse presentata la dichiarazione di non
detenzione dell'apparecchio televisivo per l'anno 2016, se
non ci si vuol vedere addebitato il canone in bolletta per
gli anni successivi, si dovrà presentare ogni anno
un'autodichiarazione di non possesso, entro le date
stabilite. Ad esempio, affinché la dichiarazione di non
detenzione abbia effetto per l'intero anno 2017, questa
dovrà essere presentata a partire dal 01.07.2016 al 31.01.2017.
Nel caso in cui, invece, la si presenti
nel range temporale che va dal 01.02. al 30.06.2017,
questa avrà valenza per il semestre che va da luglio a
dicembre 2017. Inoltre se si volesse attivare una nuova
utenza elettrica durante l'anno è possibile farlo. Nel caso
in cui, però, la si attivasse dopo ottobre, il canone dovuto
sarà addebitato in un'unica soluzione nella prima rata
dell'anno successivo, cioè a gennaio
(articolo ItaliaOggi del 04.06.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Multe pure nelle strade private.
La segnaletica stradale deve essere regolare anche sulle
strade private. E la polizia municipale può sanzionare i
trasgressori anche in questi ambiti purché aperti alla
libera circolazione.
Lo
ha chiarito il Ministero dei trasporti con il parere
29.04.2016 n. 2507 di prot..
La creatività nazionale non può esprimersi in materia di
segnaletica stradale, neppure nelle zone private chiuse alla
circolazione delle persone. Ma in queste aree non possono
entrare i vigili a fare multe. A prescindere dalla proprietà
del manufatto, specifica infatti il parere centrale, il
codice stradale si applica a tutte le aree aperta al
pubblico.
In queste zone l'apposizione della segnaletica deve essere
attentamente valutata dall'ente pubblico e disciplinata con
ordinanza ad hoc. Solo se una zona è chiusa alla
circolazione non si possono esercitare i servizi di polizia
stradale. Ma anche qui se il proprietario intende dotarsi di
segnaletica occorrerà armonizzarla alle regole stradali.
Niente segnali di fantasia sulle strade quindi, neppure
dietro alla recinzione di una villa
(articolo ItaliaOggi del 04.06.2016). |
TRIBUTI:
Paga l’area edificabile per il Prg. Il terreno è
«fabbricabile» anche senza l’adozione degli strumenti
attuativi.
Imu e Tasi. La determinazione dell’imponibile è effettuata
sulla base del valore commerciale o di quello definito
dall’ente locale.
Doppio appuntamento
per le aree fabbricabili: entro giugno occorre pagare
l’acconto Imu ed anche quello Tasi, se previsto dal Comune.
In generale, l’area è fabbricabile se le è stata attribuita
questa destinazione dallo strumento urbanistico comunale.
La normativa precisa che per area fabbricabile si intende
quella utilizzabile a scopo edificatorio in base agli
strumenti urbanistici generali o attuativi, ovvero in base
alle possibilità effettive di edificazione determinate
secondo i criteri previsti per l’esproprio. In caso di
dubbio, occorre rivolgersi al Comune, anche se una norma
(articolo 31 della legge n. 289/2002) prevede che se il
Comune attribuisce a un terreno la natura di area
fabbricabile ne deve dare comunicazione al proprietario.
Occorre poi tener conto che l’area si intende fabbricabile
già con la semplice adozione da parte del Comune dello
strumento urbanistico, indipendentemente dall’adozione di
strumenti attuativi (articolo 36 del Dl n. 223/2006). È
attratta a imposizione, quindi, anche l’area potenzialmente
edificatoria (perché non si è ancora concluso tutto l’iter
urbanistico) e non solo quella immediatamente sfruttabile ai
fini edificatori, ed ovviamente dello stato di attuazione
dello strumento urbanistico si deve tener conto nella
determinazione del valore.
La determinazione della base imponibile è effettuata
considerando il valore venale in comune commercio al 1°
gennaio dell’anno d’imposizione. Molti Comuni adottano una
delibera per determinare i valori venali di riferimento,
alla quale il contribuente può attenersi, anche se va detto
che la delibera non è comunque vincolante, perché se il
Comune ha deliberato valori “fuori mercato”, ovvero non
corrispondenti a quelli venali medi espressi dal mercato, il
contribuente può corrispondere l’imposta sul valore ritenuto
più congruo.
Va anche precisato che la delibera comunale non è una
“delibera tariffaria” e quindi non soggiace al blocco dei
tributi previsto dalla legge di Stabilità. Il Comune,
pertanto, potrebbe aver deliberato nuovi valori, anche più
bassi di quelli del 2015. Se l’area fabbricabile è diventata
tale nel corso del 2016 il contribuente ne deve tener conto
già con la rata di giugno, ricordandosi che occorre
considerare per intero il mese nel quale il possesso si è
protratto per almeno 15 giorni. Accanto alle aree
“ordinarie” vi sono casistiche particolari.
Così, nel caso di demolizione e ricostruzione del fabbricato
e di interventi di recupero del fabbricato, la base
imponibile non è più data dal fabbricato, ma dal valore
dell’area che è determinata senza computare il valore del
fabbricato in corso d’opera, e ciò fino alla data di
ultimazione dei lavori, ovvero, se antecedente, fino alla
data di utilizzo. Poi, come accade spesso nella materia dei
tributi comunali ci sono delle zone d’ombra.
Una riguarda le
aree fabbricabili pertinenziali, sulle quali si registrano
decine di pronunce della Cassazione che non vanno
esattamente nella stessa direzione. Ultimamente la Corte
sembra confermare (Cassazione n. 6139/2016) l’orientamento
in base al quale l’area fabbricabile pertinenziale è
soggetta autonomamente a imposta se risulta accatastata in
modo autonomo al Catasto terreni, indipendentemente dal
fatto che sia utilizzata a giardino, e ciò perché solo
l’accatastamento unitario all’abitazione assicura che il
valore dell’area sia incluso nella rendita del fabbricato.
Inoltre, la Cassazione ha ripetutamente detto che l’area
pertinenziale deve essere oggetto di esplicita dichiarazione
da parte del contribuente.
Altro dubbio ricorrente è la modalità di tassazione del
fabbricato “F/3”, ovvero del fabbricato in corso di
costruzione. Secondo alcuni, essendo un fabbricato ed
essendo sprovvisto di rendita, come tutti gli immobili
accatastati nelle categorie catastali F, nulla è dovuto. In
realtà, si ritiene che essendo un fabbricato in costruzione
le imposte vadano pagate in base al valore venale dell’area
fabbricabile, così come peraltro già ritenuto anche da parte
della giurisprudenza (Tar Calabria, n. 530/2013).
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Domande&Risposte. La valutazione
monetaria per metro quadrato.
Il piano particolareggiato alza il valore.
Cifre discordanti
Ho un’area fabbricabile per la quale è stato approvato il
piano particolareggiato in data 10 marzo. Il Comune nella
delibera di determinazione dei valori delle aree distingue
tra aree prive di piano particolareggiato, per le quali
attribuisce un valore di 100 euro/mq e le aree con piano
approvato, per le quali è previsto un valore di 150 euro/mq.
Siccome il valore al 1° gennaio della mia area era pari a
100 euro/mq, ritengo di dover utilizzare tale valore per
l’intero 2016. È corretta questa modalità di calcolo?
Si ritiene che la modalità seguita non sia corretta. La
normativa prevede di far riferimento al valore venale in
comune commercio al 1° gennaio, ma si tratta di
un’esemplificazione a favore del contribuente che deve
essere letta nel senso di far riferimento al valore delle
“singole categorie” di aree fabbricabili.
Infatti, il valore
dell’area fabbricabile cambia secondo lo stato di attuazione
dello strumento urbanistico, e un’area con piano
particolareggiato approvato ha indubbiamente un valore
venale più elevato di un’area sprovvista di piano. Pertanto,
il contribuente dovrà versare l’acconto considerando il
valore di 100 euro/mq per 2/12 ed il valore di 150 euro/mq
(ovvero il valore al 1° gennaio delle aree con piano
approvato) per gli altri 10/12.
Il «nodo» congruità
Il Comune delibera i medesimi valori da molti anni, ma
ritengo che con la crisi del settore edilizio questi valori
siano ormai eccessivi. Se non mi adeguo ai valori comunali
rischio di subire un accertamento?
A differenza dell’Ici la normativa Imu non prevede più la
possibilità per i Comuni di deliberare dei valori di
riferimento per limitare la propria attività di
accertamento. Ciononostante molti Comuni hanno continuato a
deliberare i valori delle aree per fornire un supporto ai
contribuenti.
Ciò detto va anche precisato che la delibera comunale non
può cambiare i criteri di determinazione della base
imponibile delle aree, perché la base imponibile è sempre
data dal valore venale in comune commercio. Se il
contribuente ritiene che i valori deliberati dal Comune
siano eccessivi potrà corrispondere l’imposta facendo
riferimento a valori più bassi.
Se il Comune dovesse in seguito accertare un infedele
versamento, al Comune spetterà anche dimostrare la congruità
del valore deliberato, non essendo sufficiente un mero
rinvio alla delibera comunale. Parimenti, il contribuente
dovrà dimostrare la congruità del valore utilizzato
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.06.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Amianto, bonus per i capannoni. Credito d'imposta
del 50% delle spese di bonifica sostenute. Lo prevede un
decreto alla firma di Padoan e presto in Gazzetta. Click day
per le domande.
In arrivo il bonus per le imprese che avviano operazioni di
bonifica da amianto sui loro beni e strutture produttive. I
titolari di reddito di impresa che effettuano interventi di
bonifiche su capannoni nel corso del 2016 potranno
beneficiare del riconoscimento di un credito d'imposta del
50%. La presentazione delle domande avverrà collegandosi a
una piattaforma informatica già predisposta dal ministero
dell'ambiente. Nel momento della presentazione della
domanda, le spese saranno certificate da un professionista
del settore (revisore legale, commercialista e consulente
del lavoro).
Questo è quanto riferiscono a ItaliaOggi fonti interne al
ministero dell'ambiente in merito al decreto sul «bonus
fiscale per le bonifiche dell'amianto» attualmente alla
firma del ministro dell'economia e delle finanze, Pier Carlo Padoan.
Il decreto è attuativo della legge 28.12.2015
n. 221 (cosiddetto collegato ambiente 2015) che ha
introdotto una serie di disposizioni per promuovere le
misure della green economy. La concessione delle nuove
risorse sarà gestita con un click day e andrà avanti fino
all'esaurimento del plafond disponibile. A disposizione 17
milioni, spalmati su tre annualità: 5,6 mln di euro
all'anno.
Tipologia di interventi ammissibili.
Due le categorie di
operazioni che saranno ammissibili al riconoscimento del
credito d'imposta del 50%. La prima riguarderà «gli
interventi di rimozione e smaltimento, anche previo
trattamento in impianti autorizzati, dell'amianto presente
in coperture e manufatti di beni e strutture produttive
ubicati nel territorio nazionale effettuati nel rispetto
della normativa ambientale e di sicurezza nei luoghi di
lavoro».
Quindi, potranno accedere all'incentivo gli
interventi fisici di bonifica operati su capannoni
industriali. La seconda categoria, invece, è relativa alla
possibilità di richiedere il credito d'imposta per le
consulenze professionali e le perizie tecniche, ma entro il
limite del 10% delle spese totali e, comunque, non oltre i
10 mila euro per ogni progetto.
Tetti al credito d'imposta.
Il credito d'imposta potrà
essere riconosciuto nella misura del 50% delle spese totali
sostenute dall'impresa che effettua la bonifica. Il bonus
spetta al contribuente che sostiene un intervento di
bonifica di almeno 20.000 euro.
Per ogni azienda, comunque, non potranno essere ammessi
costi superiori a 400 mila euro totali. Lo sconto fiscale
sarà pari a 200 mila euro. L'agevolazione sarà concessa nei
limiti e alle condizioni del regolamento europeo sugli aiuti
de minimis. E non concorrerà alla formazione del reddito ai
fini delle imposte dirette e del valore della produzione ai
fini Irap.
Il ministero dell'ambiente, una volta ricevute le
istanze delle imprese, determinerà l'ammontare del credito
spettante a ciascun richiedente e trasmetterà
telematicamente all'Agenzia delle entrate, l'elenco dei
soggetti beneficiari e il relativo credito spettante. La
prima quota annuale sarà utilizzabile a decorrere dal 1°
gennaio del periodo d'imposta successivo a quello in cui
sono stati effettuati gli interventi di bonifica (intervento
nel 2016, utilizzo in compensazione dal 01.01.2017).
Pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.
La pubblicazione del
decreto è prevista nel giro di qualche settimana, comunque
entro la fine di giugno. Dopo 30 giorni dovrebbe partirà il
click day che, quindi, facendo qualche calcolo dovrebbe
scattare a luglio. Per la presentazione della domanda
l'impresa dovrà utilizzare un modello standard già redatto
dal ministero dell'ambiente e allegato al dm
(articolo ItaliaOggi del 03.06.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per la Scia modelli unificati Ok della camera al
dlgs.
Parere positivo anche della camera al dlgs Madia di riforma
della Scia seppur con qualche correttivo da apportare al
provvedimento. Nella predisposizione della modulistica Scia
unificata sarà necessario definire, per tipologia di
procedimento, i contenuti tipici delle istanze, e delle
segnalazioni, come pure della documentazione da allegare.
Con la finalità di assicurare che tali formulari saranno
effettivamente standardizzati, esaustivi ed efficaci ai fini
dell'alleggerimento degli oneri burocratici a carico del
cittadino. Chiarendo la decorrenza dei termini per la
formazione della Scia e dei termini entro i quali il
silenzio dell'amministrazione equivale ad accoglimento della
domanda (silenzio-assenso), che dovrebbero decorrere dalla
data di ricevimento, da parte dell'amministrazione, della
comunicazione o istanza.
La commissione affari costituzionali della camera dopo la
posizione positiva del senato (si veda ItaliaOggi del
21.05.2016) ha concluso l'esame dello schema di dlgs recante
«attuazione della delega in materia di segnalazione
certificata di inizio attività (Scia)» [Atto
del Governo n. 291 - Schema di decreto
legislativo recante attuazione della delega in materia di
segnalazione certificata di inizio attività (SCIA)].
La commissione
parlamentare per la semplificazione, alla quale lo schema è
stato parimenti assegnato ha espresso sul provvedimento in
oggetto un parere favorevole lo scorso 25.05.2016, con
specifiche osservazioni. Ricordiamo che il provvedimento, a
seguito del parere della commissione bilancio del senato,
che deve ancora esprimersi sul testo, tornerà all'esame del
consiglio dei ministri.
Sullo schema di dlgs è previsto un parere parlamentare «rinforzato»
come stabilito dalla legge delega n. 124/2015 (cosiddetta
legge Madia). Qualora infatti, il governo non dovesse
conformarsi alle indicazioni del parlamento, dovrà
trasmettere nuovamente il testo alle camere con le sue
osservazioni e con eventuali rettifiche (supportate da
elementi integrativi di informazione e motivazione) per il
secondo parere, da esprimersi entro dieci giorni.
Decorso tale termine il testo potrà essere comunque adottato
in via definitiva dal consiglio dei ministri
(articolo ItaliaOggi del 03.06.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO: Accertamenti
ammessi per i permessi per assistenza.
Il datore di lavoro non può negare la fruizione dei permessi
per assistenza a disabili durante il periodo di ferie già
programmate, ma può verificare l'effettiva indifferibilità
della assistenza.
Lo precisa il Ministero del lavoro nell'interpello
20.05.2016 n.
20/2016, a risposta di un quesito della Cgil.
Il sindacato
ha chiesto chiarimenti sui permessi ex art. 33, comma 3,
della legge n. 104/1992, in particolare per sapere se, ai
sensi di tale norma, il datore di lavoro possa negare
l'utilizzo di tali permessi nel periodo di ferie
programmate, anche nel caso di chiusura di stabilimento
(c.d. fermo produttivo), nel rispetto delle disposizioni
contrattuali in materia.
La norma, spiega il ministero,
riconosce tali permessi ai familiari che assistono persone
con handicap, nonché ai lavoratori disabili, al fine di
tutelare i diritti fondamentali del soggetto diversamente
abile garantendogli dunque una adeguata assistenza morale e
materiale. Per quanto concerne, invece, l'istituto delle
ferie, diritto costituzionalmente garantito (art. 36, ult.
comma, Costituzione), la ratio risiede nella
possibilità concessa al lavoratore di recuperare le energie
psico-fisiche impiegate nello svolgimento dell'attività
lavorativa corrispondendo altresì ad esigenze, anche di
carattere ricreativo, personali e familiari.
Il datore di
lavoro, ai sensi dell'art. 2109 del codice civile, può
stabilire il periodo di godimento delle ferie annuali nel
rispetto della durata fissata dalla legge e dalla
contrattazione collettiva. Tenuto conto delle diverse
finalità dei due istituti, qualora la necessità di
assistenza al disabile si verifichi durante il periodo di
ferie programmate o del fermo produttivo, la fruizione del
relativo permesso sospende il godimento delle ferie.
In conclusione, il ministero ritiene che trovi applicazione
il principio della prevalenza delle improcrastinabili
esigenze di assistenza e di tutela del diritto del disabile
sulle esigenze aziendali e, pertanto, il datore di lavoro
non può negare la fruizione dei permessi (ex art. 33 della
legge n. 104/1992) durante il periodo di ferie già
programmate, ferma restando la possibilità di verificare
l'effettiva indifferibilità della assistenza (art. 33, comma
7-bis, della stessa legge n. 104/1992)
(articolo ItaliaOggi del 03.06.2016). |
APPALTI:
Gli appalti riservati si aprono anche ai
lavoratori svantaggiati.
L'articolo 112 del d.lgs 50/2016, in parte corretto rispetto
alla formulazione iniziale, introduce importanti novità in
merito alla possibilità attivare appalti a «causa mista», il
cui scopo, cioè, non sia solo l'acquisizione della
prestazione del bene, servizio o lavoro, ma anche la
possibilità di favorire l'inserimento socio-lavorativo delle
persone.
Fino ad oggi, gli scopi di inserimento socio-lavorativo sono
stati perseguiti fondamentalmente attraverso l'opera della
cooperazione sociale, applicando le disposizioni degli
articolo 4 e 5 della legge 381/1991, ai sensi delle quali
sono possibili affidamenti aventi valore inferiore alla
soglia comunitaria a cooperative sociali di tipo B, aventi
scopo di inserimento lavorativo, mediante procedure
semplificate, in tutto compatibili con quelle disciplinate,
oggi, dall'articolo 36, del nuovo codice degli appalti.
L'articolo 112 di detto codice si premura di confermare
esplicitamente l'applicabilità di questa normativa speciale
rivolta alle cooperative sociali: è, dunque, da concludere
che il dlgs 50/2016 non ha comportato l'abolizione delle
previsioni della legge 381/1991. Restano, quindi, in piedi
le possibilità degli affidamenti a cooperative sociali, per
altro recente oggetto delle linee guida espresse dall'Anac
con la determinazione 32/2016.
In aggiunta a questa disciplina, che resta confermata,
l'articolo 112 contiene un'altra importante precisazione:
lascia operante anche la disciplina dei cosiddetti «appalti
riservati», cioè gare per l'affidamento soprattutto di
servizi, che le stazioni appaltanti possono riservare alla
partecipazione o all'esecuzione solo di operatori economici,
e ovviamente anche cooperative sociali e loro consorzi, a
condizione che il loro scopo principale sia l'integrazione
sociale e professionale delle persone con disabilità o
svantaggiate. L'articolo consente a che la riserva
dell'esecuzione ai medesimi soggetti nel contesto di
«programmi di lavoro protetti», se almeno il 30 per cento
dei lavoratori dei suddetti operatori economici sia composto
da lavoratori con disabilità o da lavoratori svantaggiati.
L'importante novità consiste nell'estensione dell'elenco dei
lavoratori in condizione di svantaggio. Fino al d.lgs
50/2016 si consideravano esclusivamente i soggetti elencati
dall'articolo 4 della legge 381/1991. L'articolo 112 del
nuovo codice dei contratti, però, parlando esplicitamente di
«lavoratori svantaggiati» e «persone svantaggiate» si
riferisce indirettamente in modo chiaro a quella categoria
di lavoratori caratterizzati da particolari condizioni
soggettive tali da limitarne fortemente l'accesso al mercato
del lavoro, elencati, oggi, dal Regolamento (Ue) n. 651/2014
della Commissione del 17.06.2014.
Dunque, gli appalti riservati potranno prendere in
considerazione anche chi non abbia un impiego regolarmente
retribuito da almeno sei mesi, o i disoccupati di età
compresa tra i 15 e i 24 anni, o chi non possieda un diploma
di scuola media superiore o professionale (livello Isced 3);
o, anche a chi abbia completato la formazione a tempo pieno
da non più di due anni e non abbia ancora ottenuto il primo
impiego regolarmente, nonché i disoccupati over 50, gli
adulti che vivono da soli con una o più persone a carico,
gli occupati in professioni o settori caratterizzati da un
elevato tasso di disparità uomo-donna, gli appartenenti a
minoranze etniche degli Stati membri della Ue che
necessitino di migliorare la propria formazione linguistica
e professionale o la propria esperienza lavorativa per
aumentare le prospettive di accesso ad un'occupazione
stabile.
Per le amministrazioni pubbliche ed i comuni in particolare,
quindi, gli appalti riservati alla cooperazione sociale e
agli operatori economici ispirati alla tutela delle esigenze
sociale possono diventare una leva molto importante, allo
scopo di creare un «quasi mercato», nel quale agevolare vere
e proprie esperienze lavorative dei lavoratori svantaggiati.
Con l'evidente beneficio di attivare le persone verso un
lavoro concreto e di sostituire all'intervento assistenziale
puro e semplice un progetto di autonomia lavorativa che
favorisca un ingresso il più possibile forte nel mercato del
lavoro per persone che altrimenti resterebbero escluse e
dipendenti dalla sola assistenza
(articolo ItaliaOggi del 03.06.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Addio al certificato di agibilità. E dal 2017
saranno su internet tutti i dati dei rogiti. DECRETO
COMPETITIVITÀ/ Le misure allo studio per il rilancio
dell'economia.
Addio al certificato di agibilità. Sarà sostituito dalla
segnalazione certificata di agibilità. Inoltre trasparenza
delle vendite immobiliari: dal 2017 sul sito dell'Agenzia
del territorio saranno disponibili i dati dei rogiti (tranne
nomi delle parti).
Sono alcune delle novità, nel settore dell'edilizia e degli
immobili, in corso di definizione nel decreto competitività,
atteso in uno dei prossimi consigli dei ministri.
Ma vediamo di tratteggiare le disposizioni in corso di
elaborazione.
AGIBILITÀ
Viene riscritta tutta la procedura per l'agibilità. Viene
definitivamente eliminato il certificato di agibilità, che
prevede da parte del comune un mero controllo documentale.
Si valorizza il collaudo statico e il controllo ispettivo
sull'opera realizzata.
Inoltre il certificato di collaudo statico assorbirà il
certificato di rispondenza dell'opera alle norme tecniche
eliminando le duplicazioni di adempimenti.
Secondo le misure allo studio è attribuito al direttore
lavori o, se non è stato nominato, ad un professionista
abilitato il compito di attestare la sussistenza delle
condizioni di sicurezza, igiene e salubrità e risparmio
energetico degli edifici e degli impianti, valutate secondo
quanto dispone la normativa.
Alla presentazione delle Scia seguiranno i controlli anche
attraverso un'attività ispettiva sulle opere realizzate da
effettuarsi con modalità stabilite dalle regioni e dai
comuni. Le nuove norme danno uniformità alla procedura
relativa all'agibilità degli edifici, ad oggi sottoposta a
regimi differenziati tra una regione e l'altra (certificato
di agibilità rilasciato dal comune, attestazione del tecnico
e certificato di collaudo sempre previsti).
AUTORIZZAZIONE SISMICA
Per quanto riguarda gli adempimenti formali nei confronti
dell'ufficio tecnico regionale, ferma restando, se prevista,
l'autorizzazione sismica, viene assicurato nelle località a
bassa sismicità un regime omogeneo e tempi certi.
Sono previste modifiche agli articoli 93 e 94 del T.u.
Edilizia (dpr 80/2001). Il governo, le regioni e enti locali
concluderanno in sede di conferenza unificata accordi, ai
sensi dell'articolo 9 del dlgs 281/1997, in base ai quali
viene individuato un elenco tassativo di interventi
secondari e minori che non comportano pericoli per la
pubblica incolumità da sottoporre a Scia e Cil.
In questo modo gli adempimento vengono differenziati in
relazione alle esigenze di tutela della pubblica incolumità
sulla base del principio di proporzionalità.
Nelle relazioni esplicative del provvedimento si legge che
attualmente la costruzione di un muretto a secco in campagna
o di un tramezzo sono soggetti alla stessa disciplina
prevista per la sopraelevazione di un edificio. Le
disposizioni allo studio riducono i tempi medi di rilascio
delle autorizzazioni e del permesso di costruire.
Viene introdotta l'autorizzazione attualmente non prevista
nelle zone a bassa sismicità per interventi relativi a
edifici di interesse strategico e alle opere
infrastrutturali, la cui funzionalità durante gli eventi
sismici assume rilievo fondamentale per le finalità di
protezione civile nonché per gli interventi relativi agli
edifici e alle opere.
TRASPARENZA IMMOBILIARE
Il decreto vuole dare visibilità alle informazioni su
compravendite e prezzi nel settore immobiliare, informato
elettronico. Sul sito dell'Agenzia del territorio, dal 2017,
disponibili i dati sulla descrizione degli immobili e sui
prezzi degli atti rogitati dai notai. È una cosa diversa
dalla visura, che viene chiesta caso per caso presso le
conservatorie. La proposta normativa non riguarda gli
immobili e la loro storia come nelle visure in
catasto/conservatoria. Si tratta di informazioni sulle
transazioni definite con atti notarili.
Si potrà tracciare una mappa in cui si evidenziano i prezzi
delle singole case, cosicché gli operatori potranno
visualizzare i prezzi delle transazioni immobiliari in una
certa area.
Per ragioni di riservatezza non sono visibili le
informazioni personali delle parti e non sarà disponibile la
copia degli atti (per cui si dovrà continuare a chiedere la
visura)
(articolo ItaliaOggi dell'01.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Legali, l'assicurazione è d'obbligo. Coperta la
responsabilità per qualsiasi tipo di danno.
La prima bozza del decreto sulla rc professionale
messa a punto dal ministero della giustizia.
In arrivo l'assicurazione obbligatoria anche per gli
avvocati. Il ministero della giustizia, a tre anni e mezzo
dall'entrata in vigore della riforma forense, ha messo a
punto la bozza di decreto che individua le condizioni
essenziali della polizza sulla responsabilità civile
professionale. Dando così attuazione all'art. 12 della legge
n. 247/2012.
Considerando, però, che la bozza è all'inizio
del suo lungo iter di consultazione (Cnf, Consiglio di
stato, parlamento) e la sua entrata in vigore è prevista un
anno dopo la pubblicazione in G.U., con tutta probabilità
l'obbligo di rc professionale, per gli avvocati, sarà attivo
solo nel 2018. Il provvedimento è stato infatti inviato da
via Arenula al Cnf per il consueto parere, mentre ieri il
Cnf lo ha trasmesso a Oua, Cassa forense, ordini
territoriali e associazioni maggiormente rappresentative che
dovranno formulare le relative osservazioni entro il 27.06.2016.
La copertura. La bozza di decreto prevede che
l'assicurazione debba coprire la responsabilità per
qualsiasi tipo di danno: patrimoniale, non patrimoniale,
indiretto, permanente, temporaneo, futuro. Deve coprire
inoltre la responsabilità per i pregiudizi causati, oltre ai
clienti, anche alle controparti processuali, al difensore di
queste ultime e a qualunque soggetto estraneo al rapporto di
mandato professionale.
L'assicurazione deve prevedere
altresì la copertura della responsabilità civile derivante
da fatti colposi o dolosi di collaboratori, praticanti,
dipendenti, sostituti processuali. In caso di responsabilità
solidale dell'avvocato con altri soggetti, assicurati e non,
la polizza deve prevedere la copertura della responsabilità
dell'avvocato per l'intero, salvo il diritto di regresso nei
confronti dei condebitori solidali.
I massimali. L'art. 3 disciplina i massimali minimi di
copertura per fascia di rischio, prevedendo che, in presenza
di franchigie e scoperti l'assicuratore sarà comunque tenuto
a risarcire il terzo per l'intero importo dovuto, ferma
restando la sua facoltà di recuperare l'importo della
franchigia.
Gli infortuni.
L'art. 4 del decreto disciplina anche l'assicurazione contro
gli infortuni, che deve essere prevista a favore degli
avvocati e dei loro collaboratori, praticanti e dipendenti
per i quali non sia operante la copertura assicurativa
obbligatoria Inail. Devono essere coperti gli infortuni
occorsi durante lo svolgimento dell'attività professionale,
i quali causino la morte, invalidità permanente o
temporanea, nonché delle spese mediche.
Il contratto deve includere tra i rischi assicurati
l'infortunio derivante dagli spostamenti resi necessari
dallo svolgimento dell'attività professionale. Le somme
assicurate minime sono: 100 mila euro di capitale in caso di
morte; 100 mila euro di capitale in caso di invalidità
permanente e 50 euro di diaria giornaliera da inabilità
temporanea
(articolo ItaliaOggi dell'01.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Il
certificato di destinazione urbanistica rientra nella
categoria degli atti di certificazione redatti da pubblico
ufficiale aventi carattere dichiarativo o certificativo del contenuto di atti
pubblici preesistenti e pertanto esso non può essere
sussunto nella categoria del documento amministrativo così
come definito dall’art. 22 l. 07.08.1990, n. 241,
costituendo l’esercizio di una funzione dichiarativa o
certificativa sulla base degli atti di strumentazione
urbanistica.
Pertanto, il suo rilascio non può avvenire
nelle forme del diritto di accesso, ma secondo le specifiche
fonti normative, legislative e regolamentari, che
precipuamente riguardano tali tipi di atti amministrativi.
In sostanza, il certificato di destinazione urbanistica non
è soggetto alle norme in materia di accesso ai documenti
amministrativi, non essendo un “documento” già formato e
“detenuto” dalla Pubblica Amministrazione –come richiesto
dalla normativa di settore- ma implicando lo svolgimento di
un’attività ulteriore di carattere accertativo e
dichiarativo della P.A., sulla scorta delle risultanze della
strumentazione urbanistica: attività inammissibile in sede
di accesso agli atti, che presuppone il carattere già
formato e precostituito del documento oggetto dell’istanza,
suscettibile di essere osteso all’interessato attraverso una
semplice attività di ricerca e di rilascio di copia
---------------
... per l'accertamento del diritto della ricorrente ad
ottenere il rilascio del certificato di destinazione
urbanistica.
...
1. Con ricorso notificato il 18-22.03.2016 e depositato il
1° aprile successivo, la signora Fe.Gi., agendo in
proprio ai sensi dell’art. 23 cod. proc. amm., ha premesso
di aver presentato in data 21.01.2016 al Segretario Comunale
del Comune di Maglione un’istanza concernente il rilascio
del certificato di destinazione urbanistica (storicizzato
dal 10.01.2012), relativo alle seguenti particelle
catastali: Foglio 18 nn. 38 e 39; Foglio 18 nn. 24, 25 e 28;
Foglio 17 nn. 87 AA e 88, autocertificandone la comproprietà
con i signori Fe.Gi. e Ga. geom. Gi., a
dimostrazione della titolarità di una situazione soggettiva
giuridicamente rilevante all’accesso; tuttavia, l’istanza in
questione sarebbe stata respinta dall’Amministrazione.
Attraverso una serie di considerazioni di carattere
generale, non sempre di agevole percezione, la ricorrente ha
chiesto a questo Tribunale di dichiarare il suo diritto di
accedere al predetto documento, con conseguente condanna
dell’amministrazione comunale a rilasciarne copia alla
ricorrente.
2. Il Comune di Maglione non si è costituito in giudizio.
3. All’udienza in camera di consiglio dell’08.06.2016,
nessuna delle parti presente, la causa è stata trattenuta
per la decisione.
4. Il ricorso va dichiarato inammissibile, non essendo stati
prodotti in giudizio né l’asserito provvedimento di diniego
di accesso adottato dall’amministrazione comunale, né
l’istanza di accesso asseritamente presentata dalla
ricorrente in data 21.01.2016, rispetto alla quale valutare
l’eventuale formazione del silenzio rigetto di cui all’art.
25 L. n. 241/1990.
5. Solo per completezza –e fermo il rilievo
dell’inammissibilità– il ricorso è pure infondato nel
merito.
La giurisprudenza ha infatti affermato che “Il certificato
di destinazione urbanistica rientra nella categoria degli
atti di certificazione redatti da pubblico ufficiale aventi
carattere dichiarativo o certificativo del contenuto di atti
pubblici preesistenti e pertanto esso non può essere
sussunto nella categoria del documento amministrativo così
come definito dall’art. 22 l. 07.08.1990, n. 241,
costituendo l’esercizio di una funzione dichiarativa o
certificativa sulla base degli atti di strumentazione
urbanistica; pertanto, il suo rilascio non può avvenire
nelle forme del diritto di accesso, ma secondo le specifiche
fonti normative, legislative e regolamentari, che
precipuamente riguardano tali tipi di atti amministrativi”
(TAR Potenza, sez. I 29.01.2016 n. 55; TAR Lecce, sez. II
17.09.2009 n. 2121.
In sostanza, il certificato di destinazione urbanistica non
è soggetto alle norme in materia di accesso ai documenti
amministrativi, non essendo un “documento” già formato e
“detenuto” dalla Pubblica Amministrazione –come richiesto
dalla normativa di settore- ma implicando lo svolgimento di
un’attività ulteriore di carattere accertativo e
dichiarativo della P.A., sulla scorta delle risultanze della
strumentazione urbanistica: attività inammissibile in sede
di accesso agli atti, che presuppone il carattere già
formato e precostituito del documento oggetto dell’istanza,
suscettibile di essere osteso all’interessato attraverso una
semplice attività di ricerca e di rilascio di copia
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 18.06.2016 n. 887 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
VARI:
Titoli esecutivi, la sentenza in contumacia non è
sufficiente. La corte di giustizia europea sulla
certificazione delle decisioni giudiziarie.
Non basta una sentenza contumaciale di livello nazionale per
far valere un titolo esecutivo in altri Paesi europei.
Lo ha stabilito ieri la Corte europea di giustizia, con la
sentenza
16.06.2016 - C-511/14, con la quale ha precisato «che la
procedura di certificazione di una decisione giudiziaria
quale titolo esecutivo europeo deve necessariamente ricevere
una qualificazione autonoma rispetto alle norme processuali
dei singoli Paesi membri».
Il caso riguarda la società Pebros Servizi Srl, che aveva
ottenuto dal Tribunale di Bologna una sentenza di condanna
della Aston Martin Logonda Ltd al pagamento di 18 mila euro.
Durante il processo, quest'ultima era stata dichiarata
contumace, e pur essendo edotta della pendenza non si era
costituita e il processo si è svolto in sua assenza. La
sentenza non è stata impugnata e perciò resa definitiva.
A
questo punto la Pebros ha chiesto di certificare il valore
di titolo esecutivo europeo della sentenza di condanna (come
prevede il Regolamento 805/2004), per avviare l'esecuzione
in un altro Paese Ue. Ma il Tribunale di Bologna ha adito la
Corte Ue chiedendo «se la nozione di non contestazione
del credito ai sensi della normativa europea debba
intendersi in un'accezione svincolata da quella che ne dà il
diritto italiano, con la conseguenza che dovrebbe ritenersi
non contestato anche il credito portato da una sentenza
definitiva di condanna emessa all'esito di un giudizio
contumaciale».
La sentenza della Corte Ue ha stabilito che «la procedura
di certificazione va vista, più che come una vicenda
distinta dal processo giurisdizionale che l'ha preceduta (di
carattere amministrativo) come l'ultima tappa di tale
processo, necessaria al perfezionamento della decisione
giudiziale quale titolo esecutivo europeo». E una volta
ricevuta una qualificazione autonoma rispetto alle norme
processuali dei singoli Paesi membri, la procedura (propria
del diritto dell'Unione) «va interpretata soltanto alla
luce di tale diritto». E dunque «il rinvio alle norme
interne concerne esclusivamente le modalità procedurali di
opposizione alle richieste del creditore, e non le
conseguenze della contumacia del debitore».
Il credito «è da reputarsi incontestato laddove il
debitore non faccia nulla per eccepire il fatto che non sia
dovuto, non costituendosi, sebbene invitato, con atti
scritti o comparendo in udienza»
(articolo ItaliaOggi del 17.06.2016). |
ENTI LOCALI: Legittimo
tagliare le partecipate. La spending review giustifica la
razionalizzazione. La Consulta respinge il ricorso contro la
legge di Stabilità 2015. Blindata la riforma Madia.
Lo Stato, per ragioni di contenimento della spesa pubblica,
può imporre a regioni ed enti locali di razionalizzare le
proprie partecipate.
Il via libera arriva dalla Corte costituzionale, che con la
sentenza 16.06.2016 n. 144, depositata ieri, ha respinto il
ricorso della regione del Veneto che lamentava la lesione
delle proprie prerogative in materia di «organizzazione e
funzionamento».
Nel mirino c'erano le norme della legge di stabilità 2015
(legge 190/2014), ma il vero aspetto di interesse della
pronuncia è che essa pare scritta anche pensando alle misure
contenute nel decreti attuativi della legge Madia.
Tornando alla disciplina vigente (commi 611 e 612 della l.
190), essa ha imposto agli organi di vertice degli enti
territoriali (governatori, presidenti di provincia e
sindaci) di definire e approvare, entro il 31.03.2015, un
piano operativo di razionalizzazione delle società e delle
partecipazioni societarie direttamente o indirettamente
possedute, declinandone le modalità e i tempi di attuazione,
nonché i risparmi da conseguire. È stato anche previsto
l'intervento di un organo terzo individuato nella Corte dei
conti, stabilendo che il piano fosse trasmesso alla
competente sezione regionale di controllo cui, il
31.03.2016, occorreva dare conto dei risultati conseguiti.
Non tutte le amministrazioni, a dire il vero, si sono
adeguate, mentre il Veneto, come detto, si è rivolto alla
Consulta, la quale, però, ha dichiarato infondato il
ricorso. Secondo i giudici delle leggi, le norme in
questione, mirando alla razionalizzazione ed al contenimento
della spesa pubblica, si inquadrano nell'ambito della
potestà legislativa statale afferente al «coordinamento
della finanza pubblica» ex art. 117, terzo comma, Cost..
Il che dimostra che, al di là dell'esito del referendum
sulla riforma costituzionale (che rafforza ulteriormente in
ruolo statale in materia finanziaria), Roma ha ampi margini
di manovra anche a legislazione vigente.
Sempre ieri, la Corte ha respinto i ricorsi del Veneto
contro i tagli ai bilanci regionali previsti dalla stessa l
190. A differenza di quanto accaduto con la sentenza n.
129/2016, che ha bocciato le regole di finanziamento dei
comuni applicate negli ultimi quattro anni (si veda
ItaliaOggi del 06/06/2016), la sentenza n. 141/2016 non ha
ravvisato alcun problema di costituzionalità, atteso che la
misura delle riduzioni è rimessa ad un accordo fra i
governatori e solo in mancanza di intesa viene quantificata
in misura lineare in base a Pil e popolazione.
Da segnalare, infine, la sentenza n. 143/2016, che ha
respinto le contestazioni mosse da diverse regioni rispetto
alle limitazioni a specifiche voci di spesa delle province
(mutui, rappresentanza, personale, ecc) previste dalla l
190. Si tratta, infatti, di un intervento organico rispetto
alla revisione dell'assetto organizzativo e funzionale degli
enti di area vasta attuato dalla legge «Delrio» (l.
56/2014)
(articolo ItaliaOggi del 17.06.2016). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI:
La ruralità del fabbricato dipende dall'effettiva
destinazione. Il principio ribadito dalla commissione
tributaria provinciale di Firenze.
Ruralità dei fabbricati strumentali a prescindere da
“qualsiasi” caratteristica soggettiva e oggettiva. Conta
soltanto la destinazione “effettiva” dell'immobile allo
svolgimento delle attività agricole, di cui all'art. 2135
c.c..
Il principio è stato ribadito dalla Ctp Firenze (sentenza
15.06.2016 n.
889/2016) che ha richiamato in toto una precedente sentenza
di altra sezione (sezione 2 – sentenza 12.05.2016 n. 760/2016).
Il contenzioso verteva sul fatto che, per il Territorio,
l'annotazione di ruralità non poteva essere eseguita su un
immobile censito in categoria “A/1”, giacché immobile con
caratteristiche di lusso; il contribuente, in attesa
dell'esito del contenzioso aveva proceduto al versamento dei
tributi locali dovuti (Ici e Imu), ma aveva fatto istanza di
rimborso, puntualmente denegata dal comune di riferimento, e
il diniego era stato impugnato dalla società istante.
Il problema verteva sull'errata applicazione delle
disposizioni vigenti, poiché il Territorio (e di
conseguenza, il Comune) non aveva tenuto conto della
distinta collocazione dei fabbricati rurali strumentali
(comma 3-bis, art. 9, dl 557/1993), rispetto a quella degli
abitativi (comma 3, artt. 9, dl 557/1993), la quale non
richiede alcuna condizione ulteriore alla destinazione
“strumentale” allo svolgimento delle attività agricole del
fabbricato.
Dopo la riunione dei due ricorsi, la commissione adita
(sezione 2), pronunciandosi sul merito, ha riconosciuto la
ruralità, di cui al citato comma 3-bis, richiamando la
precedente presa di posizione di altra sezione (sezione 5)
della medesima commissione che aveva affermato, sempre per
il medesimo contribuente, che “il riconoscimento della
ruralità, in presenza dei requisiti di cui al citato art. 9,
c. 3-bis, prescinde da qualsiasi altra caratteristica
oggettiva e soggettiva dell'edificio, e anche
dall'appartenenza catastale, in quanto rileva soltanto la
sua oggettiva strumentalità all'attività agricola
dell'azienda”.
L'indicazione è in linea con le disposizioni vigenti e con
altra affermazione, in tal caso della Ctr Toscana (sentenza
n. 2003/2014), le quali confermano, in estrema sintesi, che,
per effetto della “autonoma” previsione (comma 3-bis e non
3, dell'art. 9, D.L. 557/1993), il requisito è solo
oggettivo (Cassazione, sentenze n. 24277/2009 e 24300/2009)
dovendo, l'immobile, essere soltanto destinato allo
svolgimento delle attività agricole, a prescindere dal classamento e dalla rendita attribuita.
La conseguenza, come nella fattispecie esaminata dalla
commissione, cui la sentenza in commento fa riferimento, è
che un fabbricato censito in categoria “A/1” destinato
effettivamente all'esercizio delle attività agrituristiche,
rispetta il requisito oggettivo e, quindi, deve poter
ottenere, dal Territorio, la classificazione in “D/10” o
l'annotazione di ruralità.
Infatti, con l'emanazione del dm 26/07/2012, le unità
immobiliari, di qualsiasi tipo (abitative e strumentali)
debbono essere censite nelle categorie “ordinarie” e, se
rispettose delle condizioni richieste, le stesse sono
qualificate “rurali”, con tutte le agevolazioni a tale
qualifica riferibili, con la semplice annotazione
(articolo ItaliaOggi del 18.06.2016). |
APPALTI:
Offerte: col prezzo a discrezione la busta
tecnica si apre insieme.
In una gara di appalto pubblico l'apertura delle buste
economiche contemporaneamente a quelle tecniche è legittima
quando il giudizio sul prezzo assume natura discrezionale.
È quanto ha stabilito il Consiglio di Stato, Sez. V,
con la
sentenza 13.06.2016 n. 2530 con riferimento
a una gara bandita con la disciplina dell'offerta
economicamente più vantaggiosa del decreto 163/2006 (art.
83, oggi 95 del decreto 50/2016).
Nel caso esaminato dalla stazione appaltante (un appalto del
servizio di assistenza per l'integrazione scolastica degli
alunni diversamente abili in una scuola di Roma) la
commissione di gara doveva valutare se la struttura dei
costi previsti dal concorrente per la realizzazione del
servizio esposta nel piano economico-finanziario fosse in
grado di soddisfare i sub-criteri di valutazione inerenti la
trasparenza, coerenza, completezza e sostenibilità
dell'offerta rispetto alle attività oggetto dell'appalto,
oltre all'efficace ed efficiente impiego delle risorse.
Per il collegio giudicante la rispondenza delle offerte a
questi parametri, che in effetti comportano una sorta di
anticipazione della verifica di congruità rispetto a un
valore economico predeterminato dall'amministrazione, non si
traduce in una valutazione effettuabile sulla base del mero
riscontro documentale dei valori esposti nel piano
economico-finanziario, ma richiede il necessario
approfondimento del documento in combinato con l'offerta
tecnica. Soltanto così, dice la sentenza, è possibile
accertare la coerenza complessiva del progetto proposto e la
plausibilità delle relative grandezze finanziarie.
Pertanto il fatto che la commissione abbia preso visione del
piano economico-finanziario prima di procedere alla
valutazione delle offerte tecniche non influenza i giudizi
della commissione sul pregio di queste ultime e, quindi, non
emerge alcun profilo di lesione dei principi di imparzialità
e trasparenza.
In considerazione della particolare natura dell'appalto e
del fatto che il giudizio richiesto alla commissione
sull'offerta economica è di carattere discrezionale,
l'apertura delle buste contenenti le offerte economiche
contestualmente a quelle contenenti l'offerta tecnica, non
determina alcuna indebita commistione tra le due fasi
valutative
(articolo ItaliaOggi del 17.06.2016).
---------------
MASSIMA
5. Tanto premesso in fatto, il Collegio ritiene di
aderire alle conclusioni cui è giunto il TAR, e cioè che
l’apertura delle buste contenenti le offerte
economiche contestualmente a quelle contenenti l’offerta
tecnica, non ha determinato alcuna indebita commistione tra
le due fasi valutative in cui si snoda la selezione condotta
con il criterio previsto dall’art. 83 cod. contratti
pubblici, per le particolari caratteristiche dell’elemento
di valutazione dell’offerta economica.
Come infatti sopra accennato, quest’ultima non consisteva
nella formulazione di un prezzo fisso, immediatamente
valutabile, e tale da creare una sovrapposizione rispetto
all’offerta tecnica. Al pari di quest’ultima, il giudizio
richiesto alla commissione sull’offerta economica era invece
di carattere discrezionale.
6. L’organo di gara era infatti chiamato a
valutare se la struttura dei costi previsti dalla
concorrente per la realizzazione del servizio esposta nel
piano economico-finanziario fosse in grado di soddisfare i
sub-criteri di valutazione sopra citati, e cioè la
trasparenza, coerenza, completezza e sostenibilità
dell’offerta rispetto alle attività oggetto dell’appalto ed
inoltre l’efficace ed efficiente impiego delle risorse.
La rispondenza delle offerte a questi parametri, comportanti
una sorta di anticipazione della verifica di congruità
rispetto ad un valore economico predeterminato
dall’amministrazione, non si traduce evidentemente in una
valutazione effettuabile sulla base del mero riscontro
documentale dei valori esposti nel piano
economico-finanziario, ma richiede il necessario
approfondimento di questo documento in combinato con
l’offerta tecnica, al fine di accertare la coerenza
complessiva del progetto proposto e la plausibilità delle
relative grandezze finanziarie.
In base a questi rilievi deve quindi escludersi che la
visione del piano economico-finanziario prima della fase di
valutazione delle offerte tecniche possa avere influenzato i
giudizi della commissione sul pregio di queste ultime e,
quindi, che possano essere stati lesi i principi di
imparzialità e trasparenza invocati dall’odierna appellante. |
PUBBLICO IMPIEGO: Vietato
restare in servizio. P.a., va garantito il ricambio
generazionale. Consulta: legittimo abrogare il trattenimento
al lavoro oltre i limiti d'età.
Eliminare il trattenimento in servizio nel pubblico impiego
è stato legittimo. L'abrogazione dell'istituto va
considerata l'ultimo tassello di un disegno legislativo
volto a ridimensionarne l'ambito di operatività per
realizzare il ricambio generazionale nella p.a. Un disegno
che ha portato prima a degradare il trattenimento in
servizio da vero e proprio diritto potestativo, esercitabile
dal dipendente pubblico, a mero interesse legittimo, fino
alla totale cancellazione a opera del decreto legge n.
90/2014.
Lo ha deciso la Consulta con la
sentenza
10.06.2016 n. 133 che ha
respinto tutte le censure mosse dai giudici rimettenti (i
Tar della Lombardia, dell'Emilia-Romagna e del Lazio, oltre
al Consiglio di stato) ritenendole in parte infondate e in
parte inammissibili.
Il Tar Lombardia, per esempio, aveva
contestato che vi fossero ragioni di necessità e urgenza per
provvedere con decreto legge, ma i giudici delle leggi hanno
replicato che si è trattato di «un primo intervento di un
processo laborioso, destinato a dipanarsi in un arco
temporale più lungo, volto a realizzare il ricambio
generazionale nel settore». In quanto tale, l'abrogazione
del trattenimento in servizio «è strumentale a una più
razionale utilizzazione dei dipendenti pubblici e non
contraddice la straordinaria necessità e urgenza di
provvedere sul punto».
Il Tar Emilia-Romagna, invece, si è concentrato sulla parte
della norma che ha fissato al 31.12.2014 il
trattenimento in servizio degli avvocati dello stato, dando
loro solo un preavviso di due mesi. Secondo i giudici
emiliani questa disposizione si sarebbe posta in contrasto
con la direttiva Ue (2000/78/Ce), in materia di parità di
trattamento e condizioni di lavoro, oggetto di un'apposita
sentenza da parte della Corte di giustizia.
In realtà,
osserva la Consulta, la Corte di giustizia aveva esaminato
le disposizioni di una legge ungherese che aveva anticipato
bruscamente (da 70 a 62 anni) i limiti di età per il
pensionamento di giudici, procuratori e notai. Un'ipotesi,
dunque, molto diversa da quella del dl 90/2014 che «non
incide sui limiti d'età pensionabile, ma sul trattenimento
in servizio». Invece, si osserva nella sentenza redatta dal
giudice Silvana Sciarra, «le finalità di ricambio
generazionale rientrano nell'ambito delle legittime finalità
di politica del lavoro che non danno seguito a
discriminazioni in base all'età».
«I lavori preparatori della legge di conversione del dl
90/2014», prosegue la Corte, «mostrano che l'accesso dei
giovani al lavoro pubblico e il contenimento della spesa»
sono «finalità legittime, tali da temperare la pretesa
eccessiva drasticità delle misure adottate, senza incrinare
la tutela dell'affidamento».
Respinta anche la censura del Tar Lombardia che contestava
la legittimità della norma nella parte in cui abolisce il
trattenimento in servizio anche per docenti e ricercatori
universitari. Secondo il Tar «l'esigenza di attuare il
ricambio generazionale non sarebbe bilanciata con quella,
riconducibile al buon andamento dell'amministrazione, di
mantenere in servizio, peraltro per un arco di tempo
limitato, docenti in grado di dare un positivo contributo
per la particolare esperienza acquisita».
La Consulta ha però ribattuto che «l'eliminazione del
trattenimento in servizio ha portato a compimento un
percorso già avviato, per agevolare, nel tempo, il ricambio
generazionale e consentire un risparmio di spesa, anche con
riguardo all'amministrazione universitaria, in attuazione
dei principi di buon andamento ed efficienza
dell'amministrazione, senza alcuna lesione dell'affidamento»
(articolo ItaliaOggi dell'11.06.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Linea tracciata sull’articolo 18 nella Pa.
Congresso Agi. Il primo presidente della Cassazione Canzio
sulla non applicabilità della legge Fornero.
Sull’applicazione del “vecchio”
articolo 18 ai dipendenti pubblici, la Cassazione non
tornerà sui suoi passi e non è nemmeno necessaria una
pronuncia delle sezioni unite.
A spiegarlo è stato
Giovanni Canzio, primo presidente della Corte di cassazione,
che ha coordinato una tavola rotonda nella giornata
conclusiva del congresso nazionale Agi (avvocati
giuslavoristi italiani) che si è svolto a Perugia.
Giovedì scorso, con la
sentenza 09.06.2016 n. 11868, i giudici hanno
stabilito che ai dipendenti pubblici, in caso di
licenziamento illegittimo, non si applica l’articolo 18 post
riforma Fornero (legge 92/2012), ma la versione precedente,
fino a quando i due regimi non verranno armonizzati. «La
sentenza –ha affermato Canzio– è stata pronunciata dalla
sezione lavoro dopo approfondita riflessione e con decisione
unanime, quindi una sorta di sezioni unite».
Questo
significa che la sentenza 24157/2015, con cui la stessa
Cassazione si è espressa in senso contrario alla fine
dell’anno scorso, è superata, come spiega ancora Canzio:
«Alle sezioni unite si va quando c’è contrasto di
giurisprudenza tra sezioni o all’interno di una sezione. Ma
se la sezione specializzata, dopo aver ampiamente dibattuto
al suo interno, perviene a una decisione unanime e
stabilizza l’interpretazione, non avrà più contrasti. Ecco
perché la definisco una sorta di sezioni unite».
Il primo presidente ritiene inoltre che la differenza
normativa tra dipendenti del settore privato o pubblico non
sia a rischio di incostituzionalità, come ipotizzato, tra
gli altri, dal presidente Agi Aldo Bottini, perché i due
ambiti sono diversi e si è tenuto conto di ciò.
Proprio dal presidente della Corte costituzionale, Mario
Morelli, che ha partecipato alla tavola rotonda insieme ad
Antonio Tizzano, vicepresidente della Corte di giustizia
dell’Unione europea, a Guido Raimondi, presidente della
Corte europea dei diritti dell’uomo, e a Giuseppe Bronzini,
componente della sezione lavoro della Cassazione, è arrivato
uno spunto che potrebbe accendere il rapporto tra giudici di
legittimità e legislatore.
In riferimento alla più che
decennale vicenda del riconoscimento dell’anzianità di
servizio al personale Ata della scuola trasferito nel 1999
dagli enti locali allo Stato, e alla norma di
interpretazione autentica retroattiva introdotta con la
legge 266/2005, Morelli ha chiesto a Canzio: «Perché la
Cassazione, alla quale è affidata l’uniforme interpretazione
della legge, in questi casi non promuove un conflitto di
attribuzione tra poteri davanti alla Corte costituzionale?».
«In linea teorica -ha commentato Canzio- non è impedito
sollevare un conflitto di attribuzioni in casi simili. Nel
caso concreto, però, è necessario un approfondimento e il
conflitto deve essere sollevato dal giudice chiamato a
decidere l’applicazione della norma, un giudice di
Cassazione o se fosse a sezioni unite molto meglio».
Proprio la vicenda del personale Ata è un esempio del
rapporto, a volte difficile, tra le due alte corti nazionali
e quelle internazionali, tema a cui è stata dedicata la
tavola rotonda finale del congresso. Sulla vicenda si sono
susseguiti decisioni contrastanti di Cassazione, Consulta e
Cedu, alimentando un contenzioso durato anni.
Sul fronte italiano, e più specificatamente lavoristico, è
stato ricordato che la sezione dedicata della Cassazione ha
22mila ricorsi pendenti, a fronte di un totale di 106mila,
ma che c’è un trend leggermente discendente delle
sopravvenienze, anche per effetto della crescita della
negoziazione e delle soluzioni stragiudiziali.
Bronzini ha
sottolineato che, per cercare di dare risposta in tempi
ragionevoli, la sezione è stata divisa in sottogruppi, anche
con l’obiettivo di avere sentenze coerenti tra loro e si
punta a decidere con rapidità soprattutto i licenziamenti,
anche se su questa materia, dopo gli interventi della legge
92/2012 e il Jobs act, le valutazioni non sono facili (articolo Il Sole 24 Ore del 12.06.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO: Licenziamenti con più strade.
Per le scelte illegittime rimedi diversi tra statali e
privati e in base alla data di assunzione.
Rapporti di lavoro. Dopo la sentenza della Cassazione
sull’applicabilità al pubblico impiego dell’articolo 18
nella versione 1970.
La
sentenza 09.06.2016 n. 11868
della Corte di Cassazione, che ha escluso
l'applicabilità verso i dipendenti pubblici delle modifiche
introdotte dalla legge Fornero all'articolo 18 dello Statuto
dei lavoratori rende, ancora più complicata la “geografia”
dei regimi normativi applicabili ai casi di licenziamento.
Il quadro normativo sembrava essersi semplificato con la
sentenza della Corte di Cassazione n. 24157 del 25.11.2015, che aveva affermato un principio opposto, riconoscendo
la completa parificazione, almeno per i lavoratori assunti
prima dell'entrata in vigore del Jobs Act, dei regimi
applicabili al lavoro pubblico e a quello privato.
Con la nuova sentenza, questa parificazione viene meno
(anche se non possono escludersi ulteriori ribaltoni
giurisprudenziali). Seguendo il ragionamento dei giudici, ai
dipendenti pubblici continua ad applicarsi, fino a quando
non sarà espressamente modificato, l'articolo 18 dello
Statuto dei lavoratori nella versione originaria, senza le
modifiche introdotte dalla legge 92/2012 (restando in vita,
quindi, la regola che sanziona il licenziamento invalido
esclusivamente con la reintegrazione sul posto di lavoro).
Non è chiaro se questa norma vale anche per i lavoratori
pubblici assunti dal 07.03.2015, data in cui è entrato il
vigore il decreto sulle tutele crescenti: da più parti si
esclude questa applicabilità, ma la legge tace al riguardo,
e quindi è probabile che il contenzioso attuale si
riprodurrà in termini simili anche rispetto a tale platea.
Diversa è la situazione per i licenziamenti intimati nei
confronti dei lavoratori privati, per i quali il regime
applicabile dipende dalla data di stipula del contratto a
tempo indeterminato. Se l'assunzione è avvenuta entro il 06.03.2015, si applica l'articolo 18, ma nella versione
modificata dalla legge Fornero (quindi, con la sanzione
esclusivamente risarcitoria, salvo casi specifici); questi
licenziamenti devono essere preceduti dalla conciliazione in
Dtl, se fondati su motivi organizzativi ed economici, e le
cause che li riguardano seguono il rito speciale introdotto
dalla legge Fornero.
Invece, per i lavoratori privati assunti dal 07.03.2015 in
poi si applica integralmente il regime delle “tutele
crescenti” (tutela risarcitoria pari a due mensilità per
ogni anno di lavoro, da un minimo di quattro sino a un
massimo di 24, reintegrazione limitata a casi eccezionali
come il licenziamento disciplinare fondato su un fatto
materiale insussistente oppure su ragioni di natura
discriminatoria) introdotto dal Dlgs 23/2015.
I licenziamenti intimati verso questi lavoratori non devono
essere preceduti dalla conciliazione in Dtl (ma si può usare
la nuova conciliazione facoltativa, che consente di
defiscalizzare le somme pagate a titolo conciliativo in
misura pari a una mensilità per ciascun anno di lavoro sino
a un massimo di 18) e in giudizio seguono il rito ordinario
(e non quello introdotto dalla legge Fornero).
Anche per i licenziamenti collettivi ci sono regimi diversi:
per gli assunti dal 07.03.2015 in poi si applica il
decreto sulle tutele crescenti (quindi, con la limitazione a
casi eccezionali della tutela reintegratoria), per le
persone assunte prima di tale data valgono ancora le regole
precedenti contenute nell'articolo 18 e riformate dalla
legge Fornero (in virtù delle quali la reintegrazione
continua ad applicarsi per i casi di violazione dei criteri
di scelta).
La convivenza di regole vecchie e nuove interessa anche i
dipendenti di partiti, sindacati e organizzazioni di
tendenza: per i “vecchi assunti” continua ad applicarsi la
regole che escludeva l'operatività dell'articolo 18, mentre
per i lavoratori assunti dal 07.03.2015 si applicano in
maniera integrale le regole delle tutele crescenti.
Difficile spiegare razionalmente le ragioni di questa grande
complessità e varietà delle regole; un assetto che
sicuramente non agevola la competitività del nostro
ordinamento e rende la vita difficile a chiunque debba
gestire il personale (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.06.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO: Statali
licenziati, c'è la reintegra. Non si applica l'art. 18
riformato dalla legge Fornero. La
Cassazione fa dietrofront. Ma ora la questione potrebbe
approdare alle sezioni unite.
Per gli statali in caso di licenziamento illegittimo scatta
ancora la reintegra nel posto di lavoro e non la sola tutela
risarcitoria o indennitaria. E ciò perché ai licenziamenti
nel pubblico impiego non si applica l'articolo 18 così come
riformato dalla legge Fornero.
Lo stabilisce la Corte di Cassazione con la
sentenza 09.06.2016 n. 11868,
pubblicata dalla Sez. lavoro.
Insomma: per i
licenziamenti dei dipendenti di enti e ministeri successivi
all'entrata in vigore legge 92/2012 vale dunque la vecchia
formulazione della norma di cui allo statuto dei lavoratori
e resta tutto come prima. Ma la questione potrebbe arrivare
presto alle sezioni unite della Suprema corte per la
presenza di un precedente contrario.
Norme inderogabili.
Il punto fondamentale, spiega oggi il
collegio, è che la legge Fornero tiene conto soltanto delle
esigenze dell'impresa privata. Decisivo in proposito è il
rinvio a un successivo intervento normativo contenuto nel
comma 8 dell'articolo 1 della legge 92/2012: fino a quando
le regole del pubblico impiego non saranno armonizzate con
le modifiche apportate all'articolo 18 per il licenziamento
dei dipendenti delle amministrazioni valgono ancora le
vecchie norme.
E in effetti la sentenza della Cassazione che ha affermato
il contrario, la 24157/15, ha comunque ritenuto che
bisognasse salvaguardare la particolare natura della
normativa del procedimento disciplinare dettata per
l'impiego pubblico.
Non c'è dubbio che la riforma Fornero
sia pensata per il settore privato perché mette in stretta
relazione la flessibilità in uscita e quella in entrata:
rende sì i licenziamenti più facili ma riduce l'uso
improprio dei contratti precari, diversi dal rapporto di
lavoro subordinato a tempo indeterminato. E le sanzioni
della legge 92/2012 non si prestano a essere estese al
pubblico impiego privatizzato: la disciplina dell'iter in
enti e ministeri è rigida e a determinati illeciti deve
seguire per forza il licenziamento.
In particolare si pone
il problema del licenziamento intimato senza l'osservanza
delle garanzie a difesa del dipendente pubblico: in base al
decreto legislativo 165/2001 il procedimento non può essere
toccato dalla contrattazione collettiva e i tempi e i modi
sono scanditi da norme inderogabili. Senza dimenticare che
le garanzie per dare il benservito nel pubblico impiego non
sono dettate solo per tutelare i lavoratori ma anche per
proteggere gli interessi della collettività.
«Il contrasto
andrà chiarito dalle sezioni unite o da un intervento
legislativo di interpretazione autentica», spiega Aldo
Bottini, presidente degli avvocati giuslavoristi italiani.
Il fatto che «sopravvivono due regime diversi», conclude il
leader Agi «rappresenta una disuguaglianza, una
discriminazione non so quanto sostenibile anche da un punto
di vista costituzionale».
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Una sentenza con alcune forzature interpretative.
L'analisi.
La Corte di cassazione fa dietrofront e ritiene
inapplicabile al lavoro pubblico la riforma dell'articolo 18
dello Statuto dei lavoratori, disposta dalla legge Fornero.
Ad appena pochi mesi dalla pronuncia della sezione lavoro 26.11.2015, n. 24157, la Corte suprema rivede in modo
diametralmente opposto il proprio avviso con la sentenza
della Sezione lavoro 06.06.2016, n. 11868, infiammando
nuovamente il dibattito sull'estensione o meno al lavoro
pubblico dell'abolizione della tutela assicurata dal
reintegro nel posto di lavoro.
Secondo la nuova pronuncia,
le conclusioni cui giunse la Suprema corte nel novembre 2015
non sono condivisibili e, al contrario, sussistono molte
ragioni per escludere che le riforme apportate all'articolo
dalla legge Fornero si estendano al lavoro pubblico
contrattualizzato.
Per la Cassazione, la combinazione tra i commi 7 e 8
dell'articolo 1 della legge 92/2012 costituiscono un primo
elemento che impedisce di estendere la riforma al pubblico
impiego (si veda pezzo in pagina). Secondo la Corte, «a fini
interpretativi assume peculiare rilievo il rinvio a un
successivo intervento normativo contenuto nel comma 8», che
demanda a un decreto del ministro della funzione pubblica
l'armonizzazione delle norme dettate per i privati anche al
lavoro pubblico.
Dunque, fino al successivo intervento di
armonizzazione, prosegue la sentenza, ai dipendenti pubblici
non si estendono le modifiche apportate all'articolo 18
dalla legge Fornero. In secondo luogo, osserva la Corte,
l'articolo 1, comma 1, della legge Fornero chiarisce che il
suo fine è regolare esclusivamente il lavoro nelle imprese
private. Ciò sarebbe ulteriormente dimostrato dalla
circostanza che l'articolo 18 nel testo riformato riguarda
ipotesi di illegittimità del licenziamento pensate
esclusivamente in relazione al lavoro privato, tali da non
prestarsi a estensioni nel pubblico impiego.
Pertanto, resta
cristallizzato nell'ordinamento giuridico il testo
dell'articolo 18 pre-riforma Fornero, dandosi così vita a
una «duplicità di normative, ciascuna applicabile in
relazione alla diversa natura dei rapporti giuridici in
rilievo».
La Cassazione richiama anche la sentenza della
Consulta 351/2008 per evidenziare le peculiarità del lavoro
pubblico rispetto al privato. Mentre nel lavoro privato,
osserva la sentenza, «il potere di licenziamento del datore
di lavoro è limitato allo scopo di tutelare il dipendente»,
cioè la singola posizione giuridica del lavoratore, nel
pubblico impiego il potere di risolvere il rapporto di
lavoro ha un altro fine: «È circondato da garanzie e limiti
che sono posti non solo e non tanto nell'interesse del
soggetto da rimuovere, ma anche e soprattutto a protezione
dei più generali interessi collettivi».
I passaggi della sentenza non appaiono tutti convincenti. In
particolare, sembra evidente la forzatura interpretativa
laddove si afferma, senza una dimostrazione chiara, che il
testo dell'articolo 18 rimarrebbe immodificato per il lavoro
pubblico, nonostante il rinvio dell'articolo 51, comma 2,
sia certamente dinamico e non statico.
Poco persuasiva, poi, è anche l'ultima motivazione. Le
cautele contro i licenziamenti illegittimi nel pubblico
impiego debbono certamente obbedire a interessi collettivi,
ma tali interessi possono senza alcun dubbio postulare
l'espulsione di lavoratori il cui comportamento risulti
lesivo esattamente di questi comportamenti
(articolo ItaliaOggi del 10.06.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO:
La Cassazione: per gli statali l’articolo 18
resta. I giudici cambiano orientamento: «Nel pubblico
impiego non valgono riforma Fornero e Jobs Act».
Contrordine. Negli uffici pubblici l’articolo 18 rimane
quello scritto nel 1970, e la legge Fornero del 2012 (così
come il Jobs Act del 2014) restano confinati al mondo
privato.
Lo ha stabilito la
Corte di Cassazione nella
sentenza 09.06.2016 n. 11868 depositata ieri dalla
Sez. lavoro, analizzando il caso di un dipendente del
ministero delle Infrastrutture che risultava in servizio
negli stessi giorni sia a Roma sia a Bussolengo, una
quindicina di chilometri a ovest di Verona, senza traccia di
viaggi aerei.
La decisione, che ha comunque confermato il
licenziamento perché i fatti erano provati, si dilunga però
sull’articolo 18 e va in senso contrario a quanto la stessa
sezione aveva scritto a novembre nella sentenza 24157 del
2015. In quell’occasione, con una decisione innovativa che
aveva fatto discutere, i giudici avevano aperto le porte
della pubblica amministrazione alla riforma Fornero, che in
pratica limita la reintegra ai casi di «manifesta
insussistenza» delle ragioni alla base del licenziamento,
con un ragionamento che avrebbe potuto portare anche
all’applicazione delle «tutele crescenti» previste dal Jobs Act per gli assunti dal
07.03.2014.
A dividere i giudici (solo uno dei cinque componenti del
collegio è stato della partita in entrambe le occasioni) è
il frutto di un intrico normativo figlio dei tanti tira e
molla che hanno accompagnato un tema a così alta sensibilità
politica. Il testo unico del pubblico impiego scritto nel
decreto legislativo 165 del 2001 spiega, all’articolo 51,
che ai dipendenti pubblici «contrattualizzati» (cioè tutti
tranne professori universitari, magistrati e militari) si
applica lo Statuto dei lavoratori con le sue «successive
modificazioni ed integrazioni».
Dal canto suo la riforma Fornero (legge 92/2012) riscrive i meccanismi di tutela per
i licenziamenti economici e sottolinea che le novità
«costituiscono principi e criteri per la regolazione dei
rapporti di lavoro» negli uffici pubblici. Tocca però al
ministro per la Pa e l’Innovazione il compito di definire
«ambiti, modalità e tempi dell’armonizzazione»: ma né il
governo Monti né quello successivo guidato da Letta si sono
avventurati su questo terreno, e con Renzi è intervenuta la
riforma Madia che nelle prossime settimane dovrebbe
ridefinire la questione nel nuovo decreto sui lavoratori
pubblici.
In questa architettura normativa incerta, hanno trovato
argomenti sia i sostenitori delle evoluzioni dell’articolo
18 anche negli uffici pubblici sia i fautori della sua
immutabilità nella versione del 1970. Nella sentenza di
novembre, che aveva lanciato la prima ipotesi, i giudici
avevano sottolineato gli adeguamenti “automatici” del testo
unico del pubblico impiego alle riforme dello Statuto dei
lavoratori, mentre nella decisione di ieri l’accento è
andato sul fatto che le regole attuative previste per
l’estensione della riforma Fornero alla Pa non sono state
scritte.
Fin qui la discussione da giuristi, che lascerebbe tuttavia
incerta la sorte delle «tutele crescenti» nel pubblico
impiego perché il rinvio alle norme attuative era previsto
nella legge Fornero (articolo 1, comma 8) ma non nel Jobs
Act; la stessa Cassazione, peraltro, sottolinea l’immediata
applicazione al pubblico impiego di altre regole che non
contemplavano un ulteriore passaggio attuativo, come il rito
Fornero per l’impugnazione del licenziamento.
La sentenza depositata ieri dalla suprema corte non trascura
però questioni più sostanziali. Secondo i giudici, la legge
Fornero nelle sue finalità «tiene conto unicamente delle
esigenze proprie dell’impresa privata», e di conseguenza la
riformulazione dell’articolo 18 «introduce una modulazione
delle sanzioni pensate in relazione al solo lavoro privato».
Una revisione delle tutele richiederebbe per i giudici «una
ponderazione diversa degli interessi», perché nelle aziende
private c’è da difendere solo il singolo lavoratore mentre
nell’amministrazione pubblica bisogna pensare alla
«protezione di più generali interessi collettivi».
I sindacati ovviamente esultano, a partire dalla segretaria
generale della Cgil secondo cui «la sentenza della
Cassazione dimostra che le istituzioni continuano a
funzionare», mentre i giuslavoristi parlano di
«disuguaglianza insostenibile fra pubblico e privato».
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Funzione pubblica «in linea» con i
giudici. Palazzo Vidoni. Anche l’interpretazione
ministeriale considera «speciale» il lavoro pubblico
rispetto a quello privato.
La discussione
infinita sull’applicabilità alla pubblica amministrazione
delle riforme realizzate in questi anni sull’articolo 18
nasce dal fatto che finora tutti gli interventi sul punto
sono stati circondati da polemiche e hanno prodotto
soluzioni ispirate più al compromesso che alla chiarezza.
L’ultima parola dovrebbe arrivare nelle prossime settimane
dal nuovo testo unico del pubblico impiego, cioè dal decreto
attuativo della delega Pa chiamato a riscrivere le regole
per i dipendenti di Stato, regioni ed enti locali.
L’indirizzo della Funzione pubblica è lo stesso seguito
dalla Cassazione nella sentenza di ieri, e punta a
sottolineare la «specialità» del rapporto di lavoro pubblico
che escluderebbe l’allineamento al mondo privato sul piano
delle tutele per i licenziamenti. Il ragionamento di Palazzo Vidoni poggia su tre premesse, che distinguono gli impieghi
pubblici da quelli privati: l’ingresso è per concorso, i
soldi sono pubblici e gli interessi da tutelare riguardano
il «buon andamento» e l’«imparzialità» dell’amministrazione
pubblica, previsti dall’articolo 97 della Costituzione, e
non solo la sorte individuale del singolo dipendente.
Questa impostazione, che escluderebbe in simultanea dagli
uffici pubblici sia la riforma Fornero sia il Jobs Act,
corre molto vicino a quella proposta ieri dalla Cassazione,
ed è confermata dal ministro del Lavoro Giuliano Poletti
secondo il quale «il governo ha sempre detto che le regole
del jobs act si applicano solo ai privati e non al pubblico
impiego». Nel governo e nella maggioranza ci sono però anche
posizioni diverse.
Il viceministro dell’Economia Enrico Zanetti, per esempio, si era detto molto più in linea con la
precedente posizione della Cassazione, quella che aveva
acceso il semaforo verde alla riforma Fornero nella pubblica
amministrazione sulla base del rinvio «automatico» alle
evoluzioni dello Statuto dei lavoratori scritto nel testo
unico del pubblico impiego ancora in vigore.
In
quell’occasione, Zanetti aveva parlato di «errore tecnico e
politico» da parte di chi sostiene la differenza di regole
tra uffici pubblici e privati, e analoga è l’opinione di
Pietro Ichino: «Le tutele crescenti nella pubblica
amministrazione -ha sottolineato ancora ieri il
giuslavorista e senatore Pd- sarebbero un grande passo
avanti per i precari che lavorano a volte da anni negli
enti, e che non riescono ad arrivare a un impiego stabile
perché le amministrazioni non hanno la certezza di poter
garantire nel tempo la provvista finanziaria che serve a
pagarli».
La discussione insomma resta aperta, anche all’interno del
governo e dello stesso partito democratico, e sembra
destinata a riaccendersi a breve. La riforma del pubblico
impiego, che corre parallela a quella dei dirigenti con
l’introduzione del ruolo unico e degli incarichi a tempo, è
in vista del traguardo ed è attesa nelle prossime settimane.
Sul piano degli effetti concreti, poi, il quadro è ancora
più articolato, come mostrano le storie individuali alla
base delle due sentenze opposte della Cassazione: quella di
fine novembre, che sosteneva l’applicabilità della riforma
Fornero alla Pa, ha salvato però il posto di lavoro del
dipendente mentre la decisione di ieri, pur ribadendo che
negli uffici pubblici l’articolo 18 rimane quello originale,
ha confermato il licenziamento (articolo Il Sole 24 Ore del
10.06.2016). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Corruzione a confini ridotti.
Il fatto contrario ai doveri d’ufficio deve rientrare nelle
mansioni.
Reati contro la Pa. Le motivazioni dell’assoluzione del
senatore Pd Margiotta nella vicenda «Tempa Rossa».
Il parlamentare non può essere condannato per corruzione
perché non ha alcun ruolo nelle gare d’appalto. È vero che
il parlamentare è un pubblico ufficiale, ma la “semplice”
partecipazione a una commissione che non ha alcuna
competenza nella materia oggetto dell’appalto contestato
esclude che possa essere sanzionato sulla base dell’articolo
319 del Codice penale.
Lo afferma la Corte
di Cassazione con la
sentenza
06.06.2016 n. 23355 della VI Sez. penale depositata
ieri.
La Corte ha così accolto il ricorso presentato dalla difesa
del senatore del Pd Salvatore Margiotta, annullando senza
rinvio, perché il reato «non sussiste», la condanna ricevuta
dalla Corte d’appello di Potenza per corruzione e turbativa
d’asta (si veda Il Sole 24 Ore del 27 febbraio). Il
Parlamentare si era sospeso dal Partito democratico e aveva
lasciato la vicepresidenza della commissione di vigilanza
sulla Rai.
Secondo il quadro accusatorio Margiotta, facendo valere il
proprio potere e influenza in qualità sia di senatore sia di
leader del Pd di Potenza, aveva indirizzato, con pressioni
anche sul presidente della Regione Basilicata,
l’aggiudicazione delle gare d’appalto sul «Centro oli Tempa
Rossa» a una cordata d’imprenditori a fronte di una promessa
di 200mila euro. L’impianto accusatorio era passato
all’esame dei giudici di primo grado, che avevano assolto il
politico e della Corte d’appello che, invece, l’aveva
condannato.
Nell’accogliere le tesi della difesa, la Cassazione ricorda
che il reato di corruzione, nell'interpretazione della
stessa Corte, appartiene alla categoria dei reati «propri
funzionali, perché elemento necessario di tipicità del fatto
è che l’atto o il comportamento oggetto del mercimonio
rientrino nelle competenze o nella sfera d’influenza
dell’ufficio al quale appartiene il soggetto corrotto».
Serve cioè che le condotte sospette siano espressione
diretta o indiretta della pubblica funzione esercitata.
Con la conseguenza che non si configura il reato di
corruzione passiva se l’intervento del pubblico ufficiale in
esecuzione dell’accordo illecito non conduce ad attivare
poteri istituzionali propri del suo ufficio o non sia
comunque a questi in qualche modo ricollegabile. Come nel
caso, per esempio, in cui l’intervento incide sulla sfera di
attribuzioni di pubblici ufficiali terzi «rispetto ai quali
il soggetto agente è assolutamente carente di potere
funzionale».
Allora, perché si possa parlare di corruzione propria non è
determinante che il fatto contrario ai doveri d’ufficio sia
compreso nell’ambito delle mansioni specifiche del pubblico
ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, ma è
necessario che si tratti di un atto che rientra nelle
competenze dell’ufficio di appartenenza.
Nel caso preso in esame, la Cassazione sottolinea che la
commissione Ambiente, nella quale Margiotta lavorava, non ha
competenze nella materia oggetto di appalti e che il
senatore non era neppure componente di comitati parlamentari
sull’estrazione del petrolio. In ogni caso, avverte la
sentenza, le condotte contestate, al di là di qualsiasi
questione sull’esistenza della promessa di 200miale euro,
potrebbero semmai assumere rilevanza penale ad altro titolo:
è il caso del traffico d’influenze (inapplicabile però
all’epoca dei fatti) che sanziona chi, sfruttando relazioni
con un pubblico ufficiale, fa dare a sé o ad altri denaro o
altri vantaggi patrimoniali (articolo Il Sole 24 Ore del 07.06.2016). |
APPALTI:
Appalti, sì all'ombrello finanziario di terzi.
Il diritto dell'Unione europea non vieta, in via di
principio, ai candidati a una gara d'appalto o agli
offerenti di fare riferimento alle capacità di uno o più
soggetti terzi per comprovare un livello minimo di capacità
finanziaria. Di conseguenza, a maggior ragione, «è possibile
avvalersi delle capacità e dei requisiti di terzi, ivi
comprese le referenze bancarie, in aggiunta ai propri, per
soddisfare i criteri fissati da un'amministrazione
aggiudicatrice».
Lo sostiene la Corte di giustizia europea, che però,
aggiunge: «Il bando dell'appalto può prevedere espressamente
limiti alla possibilità di fare ricorso alle capacità di
terzi». Spetterà, dunque, al giudice nazionale il compito di
verificare l'esistenza e la portata di eventuali clausole in
tal senso.
La
sentenza
02.06.2016 - causa C-27/15
della Corte di giustizia Ue, resa
nota ieri, ha visto
contrapporsi un raggruppamento temporaneo di imprese
denominato Pippo Pizzo e la Crgt srl. In merito, invece, al
mancato pagamento del contributo all'Autorità di vigilanza,
obbligo non previsto dagli atti gara, i giudici Ue affermano
che «l'esclusione dalla gara per il mancato rispetto di
un'obbligazione che non risulta espressamente dagli atti di
gara o da una legge nazionale cozza con i principi di parità
di trattamento e proporzionalità e con l'obbligo di
trasparenza della p.a.». Quindi, in ipotesi del genere, la
p.a. aggiudicatrice «dovrebbe quantomeno accordare al
concorrente escluso un termine aggiuntivo sufficiente a
permettergli di regolarizzare la propria posizione». In
sostanza, dargli il tempo di pagare l'onere.
Non solo, la Corte di giustizia Ue ha rincarato la dose,
aggiungendo che, in materia di appalti pubblici di opere o
servizi, la possibilità di un'impresa di partecipare a una
gara non può dipendere dalla sua conoscenza della linea
interpretativa seguita dai giudici dello stato in cui si
svolge la gara, perché in questo modo le imprese straniere
sarebbero discriminate rispetto a quelle locali. Quindi, le
regole devono essere chiare per tutti fin dal principio e
non affidate a interpretazioni giudiziarie a seguito di
contenzioso.
Il fatto.
Pippo Pizzo, titolare dell'omonima impresa di
servizi ecologici, ha impugnato davanti al consiglio di
giustizia amministrativa per la regione siciliana (in
proprio e in qualità di mandatario dell'a.t.i. con la ditta
Onofaro Antonino) la sentenza del Tar Sicilia (sezione
staccata di Catania), che l'ha sostanzialmente escluso
dall'aggiudicazione di una gara d'appalto. Al giudice
amministrativo si era rivolta, invece, la Crgt, esclusa
dalla gara per non aver pagato il contributo all'Autorità di
vigilanza dei contratti pubblici.
A quel punto, la Crgt ha
impugnato davanti al Tar Sicilia l'aggiudicazione a favore
di Pizzo, che a sua volta, si è difeso affermando che la
Crgt doveva comunque essere esclusa dalla gara perché, oltre
a non avere versato il contributo all'Autorità di vigilanza,
ha omesso di produrre due idonee referenze bancarie (come
invece era previsto dal disciplinare d'appalto, che imponeva
alle imprese partecipanti di comprovare la loro capacità
economica e finanziaria mediante la produzione delle
dichiarazioni di almeno due istituti bancari).
Il Tar ha dato ragione a Crgt, rilevando, in sintesi, che:
a) il requisito dell'indicazione di un doppio istituto
bancario era stato integrato da Crgt mediante indicazione di
un'impresa ausiliaria, che a sua volta aveva indicato un
solo istituto bancario;
b) l'obbligo del pagamento del contributo all'Avcp non era
previsto né nel bando né nel disciplinare di gara;
c) questo obbligo è comunque previsto espressamente dalla
legge solo per le opere pubbliche (mentre nel caso di specie
si trattava di un appalto di servizi).
Il Consiglio di giustizia amministrativa per la regione
siciliana, vista la sentenza del Tar ha sollevato la duplice
questione pregiudiziale, chiedendo alla Corte di dirimere la
questione
(articolo ItaliaOggi del 03.06.2016). |
APPALTI: Appalti senza richieste fuori bando.
Corte Ue. Le amministrazioni aggiudicatrici devono seguire i
criteri dei documenti.
Nel segno del principio di parità di trattamento e
dell’obbligo di trasparenza in materia di appalti, le
amministrazioni aggiudicatrici non possono chiedere
adempimenti non previsti nel bando, anche se desumibili
dalla giurisprudenza nazionale.
Lo ha stabilito la
Corte Ue (sentenza
02.06.2016 - causa C-27/15) pronunciandosi su richiesta del
Consiglio di Stato italiano.
Prima di decidere sul ricorso
di un’impresa di servizi ecologici esclusa
dall’aggiudicazione di una gara di appalto, i giudici
amministrativi hanno chiesto chiarimenti sulla direttiva
2004/18 sugli appalti di servizi recepita con Dlgs n.
163/2006, modificato dal nuovo codice degli appalti.
L’Autorità portuale di Messina aveva indetto una procedura
aperta di rilevanza europea per l’aggiudicazione di un
servizio di gestione dei rifiuti prodotti a bordo di navi
che facevano scalo nella zona controllata dall’Autorità
portuale. Una ditta esclusa perché non aveva depositato il
contributo richiesto all’Autorità di vigilanza e le
referenze bancarie aveva impugnato, con successo, il
provvedimento al Tar.
L’impresa vincitrice in origine ha
fatto ricorso al Consiglio di Stato. La Corte Ue parte dalla
constatazione che i documenti connessi alla procedura di
aggiudicazione dell’appalto non prevedevano espressamente
l’obbligo per gli offerenti «a pena di esclusione, di
versare un contributo all’Autorità di vigilanza». Di
conseguenza le amministrazioni aggiudicatrici, per non
violare parità di trattamento e trasparenza non possono
derogare all’obbligo di osservanza dei criteri stabiliti dai
documenti relativi alla procedura o dalla legge. E questo
anche se i criteri aggiuntivi sono desumibili dalla
giurisprudenza nazionale.
Tanto più che ad accogliere la
tesi che ammette adempimenti non previsti dalla procedura,
proprio gli offerenti stabiliti in altri Stati membri
sarebbero danneggiati per la maggiore difficoltà a conoscere
la prassi interna. L’unica concessione che fa la Corte è che
se una condizione per la partecipazione non è espressamente
prevista, ma può essere identificata ricorrendo alla
giurisprudenza nazionale, l’amministrazione aggiudicatrice
può richiederla solo accordando all’offerente escluso «un
termine sufficiente per regolarizzare la sua omissione».
Via
libera, invece, a una normativa interna che autorizza un
operatore economico a fare affidamento sulle capacità di
terzi per rispettare i requisiti minimi di partecipazione
alla gara (articolo Il Sole 24 Ore del 03.06.2016).
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MASSIMA
Per questi motivi, la Corte (Sesta Sezione) dichiara:
1) Gli articoli 47 e 48 della direttiva
2004/18/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 31.03.2004, relativa
al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli
appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi,
devono essere interpretati nel senso che non ostano
ad una normativa nazionale che autorizza un operatore
economico a fare affidamento sulle capacità di uno o più
soggetti terzi per soddisfare i requisiti minimi di
partecipazione ad una gara d’appalto che tale operatore
soddisfa solo in parte.
2) Il principio di parità di trattamento e
l’obbligo di trasparenza devono essere interpretati nel
senso che ostano all’esclusione di un operatore economico da
una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico in
seguito al mancato rispetto, da parte di tale operatore, di
un obbligo che non risulta espressamente dai documenti
relativi a tale procedura o dal diritto nazionale vigente,
bensì da un’interpretazione di tale diritto e di tali
documenti nonché dal meccanismo diretto a colmare, con un
intervento delle autorità o dei giudici amministrativi
nazionali, le lacune presenti in tali documenti.
In tali circostanze, i principi di parità
di trattamento e di proporzionalità devono essere
interpretati nel senso che non ostano al fatto di consentire
all’operatore economico di regolarizzare la propria
posizione e di adempiere tale obbligo entro un termine
fissato dall’amministrazione aggiudicatrice. |
SICUREZZA LAVORO: Edilizia, controlli a carico del
committente.
Sicurezza. Confermata in Cassazione la condanna per omicidio
colposo conseguente alla caduta di un operaio.
Nei lavori
edili concessi in appalto il committente costituisce la
figura espressamente contemplata dalla normativa di settore
come fonte di obblighi di controllo e di intervento, seppure
diversamente articolati in base alle dimensioni e alla
tipologia del cantiere.
Poiché il committente è un soggetto che normalmente
concepisce, programma , progetta e finanzia l’opera, egli è
quindi titolare ex lege di una posizione di garanzia che
integra quella di altre figure di garanti legali (ex
articolo 299 del Dlgs 81/2008: datore di lavoro, dirigente,
preposto), tanto da poter anche designare formalmente un
responsabile dei lavori con compiti di tipo decisionale e
gestionale, e il conseguente esonero, nei limiti
dell’incarico conferito, dalle responsabilità.
A tale principio si è ispirata la Corte di Cassazione
(Sez. IV penale,
sentenza
01.06.2016 n. 23171)
confermando la sentenza di condanna per omicidio colposo di
un committente a seguito della costruzione di un fabbricato
durante la quale era morto un operaio per caduta dall’alto,
complice, l’omessa predisposizione delle opere provvisionali
nel cantiere.
La decisione della Cassazione è conforme alle novità
introdotte nel nostro ordinamento con il recepimento della
direttiva comunitaria sui cantieri ad opera del Dlgs
494/1996, trasfuso poi nel Dlgs 81/2008 (Testo Unico sulla
salute e sicurezza sui luoghi di lavoro), che nei cantieri
edili anticipa gli obblighi della sicurezza sin dalla fase
della progettazione, coinvolgendo così anche il committente
mediante l’attribuzione di una sfera di responsabilità che
si sostanzia nella previsione di alcuni specifici obblighi
destinati a interagire e a integrarsi, come accennato, con
quelli di altre figure di garanti.
Si tratta di obblighi di controllo che non sono certamente
di natura formale, ma implicano un’effettiva e ragionata
verifica circa le soluzioni adottate, come è dimostrato dal
fatto che, nel caso in cui non sia in condizione o non
voglia o possa assumere direttamente tale ruolo, il
committente può nominare un responsabile dei lavori.
Tuttavia, ai fini della configurazione della responsabilità
del committente, la sentenza in esame entra più nello
specifico, precisando che occorre verificare in concreto
quale sia stata l’incidenza della condotta di questi ai fini
della determinazione dell’evento, a fronte delle capacità
organizzative della ditta esecutrice scelta, avuto riguardo
alla specificità dei lavori da eseguire, quali siano stati i
criteri seguiti dallo stesso committente per la scelta
dell’appaltatore e, non ultimo, la possibile, agevole e
immediata percezione da parte dello stesso committente di
situazioni di pericolo.
Lo stesso Dlgs n. 494/1996 prima, e il Testo Unico poi,
richiamano il committente ad attenersi ai principi e alle
misure generali di tutela, ad adempiere all’obbligo di
verifica riguardante la documentazione tra cui il documento
di valutazione dei rischi, la conformità alla legge di
macchine, attrezzature e opere provvisionali, dispositivi di
protezione individuali eccetera.
La verifica dell’idoneità tecnico-professionale
dell’appaltatore avrebbe consentito al committente di
accertare anche l’inadeguatezza dimensionale dell’impresa la
quale, assieme alle macroscopiche irregolarità del cantiere,
palesemente ed immediatamente evidenti, occupava lavoratori
“in nero” ai quali certamente non venivano garantite le
misure minime di sicurezza, come del resto è accaduto al
lavoratore infortunato, il quale era pensionato e
occasionalmente prestava attività lavorativa per la ditta
appaltatrice (articolo Il Sole 24 Ore del 03.06.2016).
---------------
MASSIMA
4. La valutazione di questa Corte deve essere preceduta
da alcune precisazioni preliminari.
Gli imputati sono stati chiamati a rispondere del reato loro
contestato per colpa generica e per colpa specifica,
individuata quest'ultima nella violazione delle norme anti
infortunistiche riconducibili alla qualità di committenti
privati di un'opera edile, per la cui esecuzione era
stato allestito un cantiere che vedeva impegnata una sola
ditta (cantiere c.d. sotto soglia), senza obbligo, quindi,
per il committente di nominare un coordinatore per la
progettazione e un coordinatore per la esecuzione dei
lavori.
Quanto alla cornice normativa nella quale è inquadrata la
posizione di garanzia riconosciuta in capo ai committenti,
la Corte d'appello, dato atto della intervenuta abrogazione
del d.lvo. 494/1996 a seguito dell'introduzione del T.U. di
cui al d.lv. 81 del 2008, nel quale le norme del primo sono
state sostanzialmente trasfuse, ha ritenuto esistente una
continuità normativa tra la disposizione di cui all'art. 3,
co. 8, del d.lgs. 494/1996 e l'art. 90 del d.lgs. 81/2008,
dando altresì atto del rinvio che lo stesso art. 3 comma 1
del d.lvo 494/1996 opera alle misure generali di tutela di
cui all'art. 3 del d.lvo. 626/1994 (oggi trasfuse nell'art.
15 del d.lvo 81/2008 cui rinvia l'art. 90 citato).
4.1. Il caso all'esame pone, quindi, il preliminare problema
di ricostruire esattamente lo statuto della committenza
'non qualificata', come quella che qui interessa,
rispetto al quale pare utile svolgere alcune
puntualizzazioni rispetto alla ricostruzione che il giudice
del gravame ha fatto della evoluzione normativa della
posizione di garanzia facente capo al committente privato di
opere edilizie.
La figura del committente dei lavori ha trovato esplicito
riconoscimento solo con il d.lgs. n. 494/1996, con il quale
si è data attuazione alla direttiva 92/57/CEE, concernente
le prescrizioni minime di sicurezza e di salute da attuare
nei cantieri temporanei o mobili.
Prima di esso né il d.P.R. 547/1955, né i successivi
164/1956, 302/1956 e 303/1956 menzionavano siffatto ruolo.
Neppure il d.lgs. 626/1994, vera e propria mappa dei
principi del diritto prevenzionistico, nel definire le
diverse posizioni soggettive (datore di lavoro, ecc.)
menzionava il committente. L'unica norma che delineava un
rapporto di affidamento di lavori, l'art. 7 del citato
decreto 626, faceva riferimento però ad una figura
particolare, quella del datore di lavoro/committente (colui,
cioè, che affida i "lavori ad imprese appaltatrici o a
lavoratori autonomi all'interno della propria azienda, o di
una singola unità produttiva della stessa, nonché
nell'ambito dell'intero ciclo produttivo dell'azienda
medesima"), essenzialmente pensato allo scopo di far
fronte al rischio cd. interferenziale, ovvero quel rischio
che si determina per il solo fatto della coesistenza in un
medesimo contesto di più organizzazioni, ciascuna delle
quali facente capo a soggetti diversi. Tali doveri, però,
non si riferivano al committente privato, non imprenditore,
che avesse appaltato lavori edili a terzi.
Si escludeva, pertanto, che il committente potesse
rispondere delle inadempienze prevenzionistiche verificatesi
nell'approntamento del cantiere e nell'esecuzione dei
lavori, delle quali rispondeva il solo datore di lavoro
appaltatore.
Una responsabilità concorrente del committente veniva
ravvisata in sostanza quando questi travalicava tale ruolo,
assumendo di fatto posizione direttiva, vuoi perché si
ingeriva nell'esecuzione dei lavori o perché datore di
lavoro di fatto; vuoi perché i lavori erano stati eseguiti
dall'appaltatore senza autonomia tecnica, con
l'apprestamento da parte del committente delle
apparecchiature di lavoro. In caso di appalto, quindi,
l'osservanza delle norme antinfortunistiche incombeva
all'imprenditore, titolare dell'organizzazione del cantiere
e datore di lavoro di quanti vi operano.
Il committente, invece, salvo contrario accordo
contenuto nel contratto di appalto, non aveva il diritto e
tanto meno il dovere di intervenire o, comunque, ingerirsi
in tale organizzazione dell'impresa con le logiche
conseguenze sul piano sanzionatorio, nel senso che egli non
rivestiva una autonoma posizione di garanzia a tutela della
salute e della vita dei lavoratori dipendenti dal soggetto
appaltatore, salvo che avesse in concreto assunto una
diversa posizione, e ciò in ragione del principio di
effettività, da sempre riconosciuto valido nella materia in
esame (vedi, per la ricognizione dei principi sin qui
esposti, Sez. 4 n. 44131 del 15/07/2015, Heqimi e altri).
Nella sentenza testé richiamata si dà, tuttavia, conto del
progressivo affinamento della riflessione in materia, grazie
al quale si è pervenuti ad individuare, accanto
all'ingerenza e all'assunzione di una posizione direttiva,
una ulteriore fonte di doveri, ovvero il potere di governo
della fonte di pericolo: "In materia di
omicidio colposo per infortunio sul lavoro, il
committente è corresponsabile con l'appaltatore o col
direttore dei lavori, qualora l'evento si colleghi
causalmente anche alla sua colposa azione od omissione. Ciò
avviene sia quando egli abbia dato precise direttive o
progetti da realizzare e le une e gli altri siano già essi
stessi fonte di pericolo ovvero quando egli abbia
commissionato o consentito l'inizio dei lavori, pur in
presenza di situazioni di fatto parimenti pericolose. Il
margine più o meno ampio di discrezionalità eventualmente
conferito ai soggetti innanzi indicati (appaltatore e
direttore dei lavori) non esclude di per sé la sua colpa
concorrente sotto il profilo eziologico".
Il quadro giuridico di riferimento, quindi, è mutato con il
d.lgs. 494/1996, poiché la figura del committente ha trovato
in quello strumento normativo una espressa definizione
[art., 2, co. 1, lett. b)], così come vi hanno trovato
esplicitazione gli obblighi sullo stesso incombenti (art.
3). Il committente (o il responsabile dei lavori),
nella fase di progettazione dell'opera, ed in particolare al
momento delle scelte tecniche, nell'esecuzione del progetto
e nell'organizzazione delle operazioni di cantiere, si
attiene ai principi e alle misure generali di tutela di cui
all'articolo 3 del decreto legislativo n. 626/1994;
determina altresì, al fine di permettere la pianificazione
dell'esecuzione in condizioni di sicurezza, dei lavori o
delle fasi di lavoro che si devono svolgere simultaneamente
o successivamente tra loro, la durata di tali lavori o fasi
di lavoro.
Nella fase di progettazione esecutiva dell'opera, valuta
attentamente, ogni qualvolta ciò risulti necessario, i
documenti di cui all'articolo 4, comma 1, lettere a) e b),
ovvero il piano di sicurezza e di coordinamento di cui
all'articolo 12 e il piano generale di sicurezza di cui
all'articolo 13 (la cui redazione grava sul coordinatore per
la progettazione), nonché il fascicolo contenente le
informazioni utili ai fini della prevenzione e protezione
dai rischi, ai quali sono esposti i lavoratori, tenendo
conto delle specifiche norme di buona tecnica e
dell'allegato II al documento U.E. 260/5/93. Inoltre,
contestualmente all'affidamento dell'incarico di
progettazione esecutiva, in alcuni casi specifici, designa
il coordinatore per la progettazione.
All'esito di tale ricognizione normativa, pertanto, può
affermarsi che la figura del committente,
in passato titolare di una posizione di garanzia ancorata
-in base al principio dell'effettività- ad una ingerenza in
concreto nell'attività dell'appaltatore/datore di lavoro,
dal d.lvo. 494/1996 in avanti è figura espressamente
contemplata dalla normativa di settore, come tale fonte di
obblighi di controllo e di intervento, diversamente
declinati in base alle dimensioni e alla tipologia del
cantiere. Il committente, soggetto che normalmente
concepisce, programma, progetta e finanzia l'opera, è quindi
titolare ex lege di una posizione di garanzia che
integra quella di altre figure di garanti legali, tanto da
poter anche designare formalmente un responsabile dei
lavori, con compiti di tipo decisionale e gestionale, con
esonero, nei limiti dell'incarico conferito, dalle
responsabilità
(Sez. 4, n. 37738 del 28/05/2013, Rv. 256635).
L'individuazione di tale peculiare figura è del resto
coerente con la complessiva configurazione del sistema di
protezione di cui si parla, che tende a collegare la
responsabilità penale al ruolo esercitato da alcune figure
che di regola intervengono nell'ambito delle attività
lavorative.
Tale ruolo giustifica, quindi, l'attribuzione di una sfera
di responsabilità per ciò che riguarda la sicurezza che si
sostanzia nella previsione di alcuni obblighi sia nella fase
progettuale che in quella esecutiva, destinati ad interagire
e ad integrarsi con quelli delle altre figure di garanti
legali. La normativa, peraltro, prevede ragionevolmente la
possibilità che il committente non possa o non voglia
gestire in proprio tale ruolo e, a tal fine, come già
ricordato, gli è consentito designare un responsabile dei
lavori (articolo 2 d.lvo. 494/1996, oggi art. 89 divo
81/2008) che può essere incaricato dal committente, secondo
la previgente disciplina, <<ai fini della progettazione o
della esecuzione o del controllo dell'esecuzione dell'opera>>,
secondo l'art. 89 citato <<per svolgere i compiti ad esso
attribuiti>> dallo stesso decreto 81/2008.
La giurisprudenza di questa Corte, per lo più intervenendo
in situazioni di contemporanea presenza nel cantiere di più
imprese (art. 3 co. 3, d.lgs. 494/1996) ha avuto modo di
precisare che il committente è
titolare di una autonoma posizione di garanzia e può essere
chiamato a rispondere dell'infortunio subito dal lavoratore
qualora l'evento si colleghi causalmente ad una sua
colpevole omissione, specie nel caso in cui la mancata
adozione o l'inadeguatezza delle misure precauzionali sia
immediatamente percepibile senza particolari indagini
(Sez. 4 n. 10608 del 04/12/2012 Ud. (dep. 07/03/2013), Rv.
255282, proprio con riferimento ad un caso di inizio dei
lavori nonostante l'omesso allestimento di idoneo
ponteggio). Egli è, pertanto, esonerato
dagli obblighi in materia antinfortunistica, con esclusivo
riguardo alle precauzioni che richiedono una specifica
competenza tecnica nelle procedure da adottare in
determinate lavorazioni, nell'utilizzazione di speciali
tecniche o nell'uso di determinate macchine, ma non anche
nel caso in cui abbia omesso di attivarsi per prevenire un
generico rischio di caduta, immediatamente percepibile
[Sez. 4 n. 1511 del 28/11/2013 Ud. (dep. 15/01/2014), Rv.
259086, con riferimento al rischio di caduta di operai che
lavoravano su un cornicione, la cui instabilità risultava
peraltro ben nota all'imputato; conf. Sez. 3 n. 12228 del
25/02/2015 Ud. (dep. 24/03/2015), Rv. 262757, in un caso in
cui il committente aveva omesso di attivarsi per prevenire
il rischio, non specifico, di caduta dall'alto di un operaio
operante su un lucernaio].
Tale controllo, a differenza di quanto si sostiene in
ricorso, non è di natura meramente formale, ma implica una
effettiva e ragionata verifica circa le soluzioni adottate
come è dimostrato dal fatto che il committente, ove non sia
in condizione o non voglia assumere direttamente tale ruolo,
può nominare un responsabile dei lavori sul quale trasferire
la responsabilità nei limiti dell'incarico e dei poteri
conferiti [cfr. in motivazione Sez. 4 n. 51190 del
10/11/2015 Ud. (dep. 30/12/2015)].
Così ricostruito il dovere di sicurezza,
con riguardo ai lavori svolti in esecuzione di un contratto
di appalto o di prestazione d'opera, tanto in capo al datore
di lavoro (di regola l'appaltatore, destinatario delle
disposizioni antinfortunistiche), che al committente, questa
sezione ha però avvertito la necessità che tale principio
non conosca una applicazione automatica, <<...non potendo
esigersi dal committente un controllo pressante, continuo e
capillare sull'organizzazione e sull'andamento dei lavori>>
(Sez. 4, n. 3563 del 18/01/2012, Rv. 252672).
Ne consegue che, ai fini della
configurazione della responsabilità del committente,
"...occorre verificare in concreto quale sia stata
l'incidenza della sua condotta nell'eziologia dell'evento, a
fronte delle capacità organizzative della ditta scelta per
l'esecuzione dei lavori, avuto riguardo alla specificità dei
lavori da eseguire, ai criteri seguiti dallo stesso
committente per la scelta dell'appaltatore o del prestatore
d'opera, alla sua ingerenza nell'esecuzione dei lavori
oggetto di appalto o del contratto di prestazione d'opera,
nonché alla agevole ed immediata percepibilità da parte del
committente di situazioni di pericolo"
(Sez. 4, n. 3563 del 2012 citata).
Il che presuppone, quindi, un attento esame della situazione
fattuale: diverso è, evidentemente, il caso
in cui il committente affidi in appalto lavori
relativi ad un complesso aziendale di cui sia titolare, da
quello di chi dia incarico ad un'impresa di ristrutturare o
costruire un immobile (come nel caso in esame); rilevanti
devono considerarsi i criteri seguiti dal committente per la
scelta dell'appaltatore o del prestatore d'opera (quale
soggetto munito dei titoli di idoneità prescritti dalla
legge e della capacità tecnica e professionale proporzionata
al tipo di attività commissionata ed alle concrete modalità
di espletamento della stessa); fondamentale è poi
l'accertamento di situazioni di pericolo così evidenti e
macroscopiche da non poter essere ignorate da un committente
sovente presente in cantiere. |
TRIBUTI: Il condominio paga la Tosap per le griglie di aereazione dei
box.
Tributi locali. Suolo pubblico.
Sulle griglie
di areazione dei garage il condominio deve pagare la tassa
per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche (Tosap) come
corrispettivo della sottrazione della superficie all’uso
pubblico.
Questo principio di diritto è stato applicato di recente
dalla Corte di Cassazione - Sez. VI civile (ordinanza
01.06.2016 n. 11449) a un condominio costituito da un
garage sotterraneo (realizzato in forza di un diritto di
superficie ipogeo –ossia di costruire al di sotto del suolo- concesso dal comune) al quale era stato notificato un
avviso di pagamento della Tosap in ordine alla occupazione
di suolo pubblico con l’apposizione di griglie di areazione.
Il condominio ricorreva innanzi alla Commissione tributaria
provinciale e, successivamente, al Tribunale amministrativo
regionale ma, in entrambi i casi, veniva condannato al
pagamento dell’imposta non avendo provato, tra l’altro,
l’esistenza di atti di trasferimento, dal condominio al
Comune, delle aree coperte dalle griglie, né l’esistenza di
alcun diritto di superficie relativamente a queste ultime né
di un eventuale trattamento fiscale di favore concessogli
dal Comune.
Anche il Cassazione il ricorso è stato rigettato.
Precisano infatti i giudici di legittimità che l’oggetto
dell’avviso di accertamento ai fini Tosap non era
l’occupazione di sottosuolo pubblico, determinata dalla
fabbricazione del garage, ma solo l’occupazione del suolo
pubblico con le griglie di areazione poste su detto suolo a
vantaggio del garage condominiale che costituisce il
presupposto impositivo (articoli 38 e 39 del Dlgs 507/93).
Inoltre, contrariamente a quanto sostenuto dal condomino,
per i supremi giudici, dette griglie non costituiscono una
«occupazione irreversibile» poiché le stesse, pur incidendo
sull’utilizzo del suolo pubblico, non ne modificano la
natura né la destinazione in quanto, a seguito di una
eventuale rimozione delle griglie, (non essenziali perché il
garage sotterraneo potrebbe essere aerato ed illuminato con
altri sistemi), verrebbe a cessare il godimento individuale,
con ripristino dell’uso collettivo.
Occorre precisare che qualora il Comune acquistasse l’area
circostante il perimetro di un fabbricato, nella quale siano
state precedentemente realizzate griglie ed intercapedini,
finalizzate a permettere la circolazione dell’aria ed il
passaggio della luce nei locali sotterranei dell’edificio,
non sorgerebbe a carico del condominio l’obbligo di
corrispondere il relativo canone «qualora il prezzo pattuito
per la cessione sia stato ridotto proprio a causa
dell’esistenza delle intercapedini, giustificandosi tale
riduzione con la volontà delle parti di escludere dal
trasferimento le porzioni di suolo in cui sono state
realizzate le intercapedini, ovvero con la contestuale
costituzione in favore del condominio di un diritto reale
sul suolo trasferito, con la conseguenza che viene a mancare
nella specie il presupposto dell’obbligazione, costituito
dall’occupazione del suolo pubblico» (Cassazione, Sezioni
unite, sentenza 1611/2007) (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.06.2016). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Sanzionato il legale che insulta. Misura
disciplinare del tutto indipendente dal contesto. Le sezioni
unite intervengono su un caso di espressioni diffamatorie
rivolte a un collega.
È legittima la sanzione disciplinare
dell'avvertimento quando il legale si rivolge al collega con
espressioni diffamatorie e ciò indipendentemente dal
contesto nel quale sono state pronunciate:
lo hanno chiarito le Sezz. unite civili della Corte di
Cassazione nella
sentenza 31.05.2016
n. 11370.
L'art. 20 del codice deontologico forense, espressamente
rubricato «Divieto di uso di espressioni sconvenienti o
offensive», porrebbe infatti per l'avvocato il preciso
obbligo di «evitare espressioni sconvenienti od offensive
negli scritti in giudizio e nell'attività professionale in
genere», obbligo che persisterebbe anche nelle ipotesi di
ritorsione, provocazione o reciprocità delle offese, le
quali non escludono l'infrazione della regola deontologica.
Più precisamente, nel caso di specie era accaduto che un
professionista era stato sanzionato disciplinarmente dal
proprio consiglio dell'ordine per aver rivolto in sede di
giudizio espressioni diffamatorie nei confronti di un
collega, sanzione disciplinare che era stata successivamente
ridotta a quella minima dell'avvertimento in parziale
accoglimento dell'impugnazione dinnanzi al Cnf.
In sede di legittimità a nulla è valso lamentare che il
giudice aveva decontestualizzato le frasi oggetto di
contestazione, «considerandole mera reazione a una
provocazione o a un'offesa», senza tenere presente invece
che i fatti ascritti erano «veri e inoppugnabili», tali da
non poter essere ritenuti di contenuto offensivo o
diffamatorio: per il ricorrente, quanto affermato non
avrebbe costituito illecito disciplinare, dal momento che
non nasceva dalla «gratuita attribuzione di comportamenti
specifici», ma costituiva «descrizione di fatti
inoppugnabili accertati».
Di diverso avviso sono stati gli ermellini, per i quali il
contesto nel quale erano state pronunciate le frasi non
aveva alcuna rilevanza ai fini della decisione: l'avvocato,
quale che sia il contesto in cui opera, «non deve usare
espressioni diffamatorie, nei confronti dei colleghi, né di
altri». In definitiva, quello che veniva contestato al
ricorrente era la fraseologia adottata, risultata
sconveniente.
Hanno, quindi, rigettato il ricorso e provveduto alla
liquidazione delle spese di giudizio
(articolo ItaliaOggi Sette del 13.06.2016). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI:
Usucapione, chi compra subisce la rinuncia.
Cassazione. Servitù di passaggio maturata per possesso
ultraventennale e poi «abbandonata» per iscritto dal
proprietario del fondo
Chi ha maturato un’usucapione di una
servitù e poi ne faccia rinuncia per iscritto impedisce al
suo avente causa nella proprietà del fondo dominante di far
valere l’usucapione rinunciata dal dante causa. Ciò anche se
l’acquirente del fondo non abbia saputo nulla di questa
rinuncia e se la rinuncia all’usucapione non sia stata
trascritta nei Registri immobiliari.
Lo afferma la
Corte di Cassazione, Sez. II civile, nella
sentenza 30.05.2016 n. 11158.
Nel grado d’appello della controversia in esame, il giudice
aveva invece ritenuto non opponibile, all’avente causa del
soggetto che aveva maturato l’usucapione di una servitù di
passaggio, il fatto che quest’ultimo vi avesse rinunciato,
in quanto l’acquirente stesso nulla aveva saputo di tale
rinuncia e l’atto di rinuncia non era stato trascritto nei
Registri.
La Cassazione ha analizzato la situazione del soggetto che,
dopo avere esercitato il possesso ultraventennale della
servitù e con ciò aver maturato l’usucapione della servitù
stessa, esprima al proprietario del fondo servente (e cioè
il fondo gravato dalla servitù usucapita) la volontà di non
avvalersi della causa di acquisto del diritto reale minore
maturatasi a titolo originario a favore del proprio fondo
(il cosiddetto fondo dominante). In questa situazione,
secondo la Cassazione, la rinuncia per iscritto
all’usucapione della servitù di passaggio fatta dal
proprietario del fondo dominante rileva dunque di per sé,
non potendo la sua efficacia negoziale essere fatta
dipendere né dall’avvenuta comunicazione al successivo
acquirente né dall’osservanza dell’onere di trascrizione
dell’atto di rinuncia nei Registri immobiliari.
Tra l’altro, nel caso specifico, la soluzione della tematica
analizzata è stata resa ancor più facile dal fatto che, al
momento della formulazione della rinuncia alla servitù, non
esisteva alcun avente causa del fondo dominante (in quanto
il fondo in questione venne alienato assai successivamente
all’atto di rinuncia all’usucapione) né si rendeva
plausibile la trascrizione di alcun atto di rinuncia, in
quanto mai era stato nemmeno trascritto alcun atto in cui
fosse stata accertata la maturazione dell’usucapione della
servitù.
L’usucapione è l’acquisto del diritto di proprietà di un
bene o di un diritto reale (come la servitù) mediante il
«possesso» del diritto in questione protratto per un certo
periodo di tempo. Per avere il «possesso» occorre esercitare
un potere corrispondente a quello che potrebbe esercitare il
proprietario o il titolare di un altro diritto reale sul
bene stesso (quindi non è possibile che ottenga l’usucapione
chi corrisponde canoni d’affitto, pur in assenza di
contratti scritti, in quanto così facendo egli si autoqualifica semplice detentore e non possessore
dell’immobile).
Per condurre all’usucapione, il possesso, protratto per il
tempo richiesto dalla legge, deve essere continuato (e cioè
deve consistere in una permanente manifestazione della
signoria sulla cosa), non interrotto (ad esempio, con azione
giudiziale del proprietario o il riconoscimento dell’altrui
diritto da parte del possessore o per perdita del possesso
per oltre un anno), pacifico (cioè non ottenuto con violenza
fisica o morale) e non clandestino, quindi non acquistato e
mantenuto nascostamente.
Il possesso altresì deve essere inequivoco (e cioè non
devono sorgere dubbi sui suoi connotati e sulla sua
effettività) ed esclusivo sul bene o sulla sua porzione che
si intende usucapire (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.06.2016).
---------------
MASSIMA
In ordine al primo profilo, si osserva che, secondo il
più recente orientamento della giurisprudenza di questa
Corte, che il Collegio condivide,
l'accessione del possesso della servitù, ai sensi dell'art.
1146, secondo comma, cod. civ., si verifica, a favore del
successore a titolo particolare nella proprietà del fondo
dominante, anche in difetto di espressa menzione della
servitù nel titolo traslativo della proprietà del fondo
dominante e pure in mancanza di un diritto di servitù già
costituito a favore del dante causa
(Cass., Sez. Il, 23.07.2008, n. 20287; Cass., Sez. II;
05.11.2012, n. 18909).
Per ciò che concerne la dimostrazione del possesso e
dell'usucapione in favore di Gi.Si., non è
pertinente la doglianza relativa alla violazione del
precetto di cui all'art. 2697 cod. civ.: posto che una tale
violazione è configurabile soltanto qualora il giudice abbia
attribuito l'onere della prova ad una parte diversa da
quella che ne risulta gravata, mentre qui la censura
riguarda la valutazione delle prove raccolte
(cfr. Cass., Sez. III, 17.06.2013, n. 15107).
Nel caso in questione, infatti, Ru.Si. ha contestato la
circostanza che la Corte d'appello di Trieste abbia ritenuto
dimostrata l'esistenza del possesso di Gi.Si. alla luce
delle prove agli atti, e non l'erronea applicazione delle
regole sul riparto dell'onere della prova. Se ne ricava che
egli si è doluto, in concreto, del fatto che la Corte
territoriale non abbia spiegato in maniera adeguata le
ragioni per cui, sulla base delle dette prove, ha deciso che
l'esercizio della servitù di passaggio ad opera di Gi.Si.
fosse stato accertato.
Nella specie, la Corte territoriale ha ritenuto che Gi.Si.
abbia acquistato per usucapione la servitù "unendo al
proprio possesso quello del suo dante causa (accessio
possesslonis) ex art. 1146, secondo comma, cod. civ.",
rilevando che "il prescritto periodo ultraventennale è
stato provato dalle plurime deposizioni testimoniali che
hanno confermato la sussistenza dell'animus e del corpus nei
proprietari del fondo dominante, da tempo immemorabile".
A fronte di tale motivata conclusione, Ru.Si. si limita a
denunciare la violazione del secondo coma dell'art. 1146
cod. civ., ma propone in realtà una censura astratta, perché
omette di riportare il contenuto delle deposizioni e così
non consente di valutare se il giudice del merito abbia
applicato l'accessio possessionis in un caso nel
quale l'avente causa non ha esercitato un possesso attuale. |
APPALTI:
Appalti, rinuncia leggera. Si evita la sanzione
per offerta incompleta. Sentenza del Tar Campania che dà
applicazione al Codice riformato.
L'impresa che rinuncia a partecipare alla gara non deve
pagare la sanzione inflitta dalla stazione appaltante perché
ha presentato un'offerta incompleta. E ciò perché la «multa»
introdotta nel 2014 dal dl semplificazioni rappresenta solo
una «fiscalizzazione» dell'irregolarità commessa dalla
società che aderisce al bando: è insomma il prezzo da pagare
per ottenere l'aiuto dall'amministrazione, che concede un
termine per integrare la documentazione insufficiente.
Ma chi accetta l'estromissione dalla gara non deve pagarlo
perché rinunciando al soccorso istruttorio non rallenta
ulteriormente l'iter burocratico, come ha spiegato anche l'Anac,
l'autorità nazionale anticorruzione. E a comporre il
contrasto di giurisprudenza risulta decisivo il nuovo codice
degli appalti che chiarisce come «la sanzione è dovuta
esclusivamente in caso di regolarizzazione».
È quanto emerge dalla
sentenza
27.05.2016 n. 2749, pubblicata dalla
I Sez. del TAR Campania-Napoli.
Forma e sostanza
Accolto il ricorso della società sanzionata per oltre 23
mila euro perché non ha indicato nomi e titoli dei
professionisti incaricati della progettazione ai sensi
dell'articolo 90, comma 7, del decreto legislativo 163/2006.
Il nuovo quadro normativo delineato dal dl 90/2014 punta più
sulla sostanza che sulla forma: le irregolarità nelle
dichiarazioni possono essere superate pagando, laddove la
sanzione pecuniaria costituisce la contropartita a favore
della stazione appaltante, costretta agli straordinari per
verificare la sussistenza dei requisiti di partecipazione;
obbligare anche chi è escluso dalla gara a versare la
sanzione finirebbe per incentivare alla caccia all'errore
l'amministrazione che incassa il denaro mentre la ratio del
dl semplificazioni è proprio accelerare le procedure.
Chi
partecipa agli appalti è responsabilizzato perché rischia di
pagare fino a 50 mila euro se non osserva il bando quando si
candida all'appalto.
Ed è in linea con le norme Ue che l'Anac
esclude che la «multa» vada applicata a chi non si serve del
soccorso istruttorio: oggi il decreto legislativo 50/2016 lo
prescrive in modo netto e deve ritenersi che il legislatore
abbia voluto «positivizzare» un principio non
esplicitato dal vecchio codice dei contratti pubblici. Spese
di giudizio compensate per il contrasto di giurisprudenza
(articolo ItaliaOggi del 09.06.2016).
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MASSIMA
Il ricorso è fondato.
L'art. 38, comma 2-bis, del D.Lgs. n. 163/2006
(disposizione introdotta dall’art. 39 del D.L. n. 90/2014
convertito con modificazioni dalla L. n. 114/2014) dispone
che "la mancanza, l'incompletezza e ogni altra irregolarità
essenziale degli elementi e delle dichiarazioni sostitutive
di cui al comma 2 obbliga il concorrente che vi ha dato
causa al pagamento, in favore della stazione appaltante,
della sanzione pecuniaria stabilita dal bando di gara, in
misura non inferiore all'uno per mille e non superiore
all'uno per cento del valore della gara e comunque non
superiore a 50.000 euro, il cui versamento e' garantito
dalla cauzione provvisoria. In tal caso, la stazione
appaltante assegna al concorrente un termine, non superiore
a dieci giorni, perché siano rese, integrate o regolarizzate
le dichiarazioni necessarie, indicandone il contenuto e i
soggetti che le devono rendere. ... In caso di inutile
decorso del termine di cui al secondo periodo il concorrente
è escluso dalla gara".
L’art. 46, comma 1-ter, del D.Lgs. n. 163/2006 (norma
introdotta dalla medesima novella del 2014) prevede inoltre
che “Le disposizioni di cui all’art. 38, comma 2-bis, si
applicano a ogni ipotesi di mancanza, incompletezza o
irregolarità degli elementi e delle dichiarazioni, anche di
soggetti terzi, che devono essere prodotte dai concorrenti
in base alla legge, al bando o al disciplinare di gara”.
La novella del 2014 ha quindi introdotto il c.d. soccorso
istruttorio "a pagamento" per le ipotesi più gravi di
irregolarità o incompletezza di documenti e dichiarazioni
dei concorrenti.
Tale fattispecie si affianca al c.d. soccorso istruttorio
ordinario “gratuito” previsto dall’art. 46, primo comma, del D.Lgs. n. 163/2006 che presenta un ambito di operatività
maggiore, potendo esplicarsi per tutte le ipotesi previste
dagli artt. 38 a 45, sempre inerenti la fase di ammissione,
il quale consente ai concorrenti di completare e fornire
chiarimenti in ordine al contenuto dei certificati,
documenti e dichiarazioni presentati e si applica solo alle
ipotesi lievi, avendo il legislatore mantenuto
esplicitamente al comma 1-bis la previsione di esclusione in
caso di carenza di “elementi essenziali”.
Il nuovo quadro normativo è chiaramente orientato alla
dequalificazione delle irregolarità dichiarative, da fattori
escludenti a carenze regolarizzabili o sanzionabili in via
pecuniaria, soluzione questa che punta ad appurare il più
possibile l'effettiva titolarità dei requisiti richiesti,
senza vanificare o stravolgere l'esito della gara in ragione
di mere carenze formali (TAR Valle d’Aosta, n. 25/2015).
Le modifiche introdotte risultano, peraltro, finalizzate a
superare le incertezze interpretative e applicative del
combinato disposto degli artt. 38 e 46 del D.Lgs. n.
163/2006, mediante la procedimentalizzazione del potere di
soccorso istruttorio (che diventa doveroso per ogni ipotesi
di mancanza o di irregolarità delle dichiarazioni
sostitutive) e la configurazione dell'esclusione dalla
procedura come sanzione derivante unicamente dall'omessa
produzione, integrazione o regolarizzazione delle
dichiarazioni carenti entro il termine assegnato dalla
stazione appaltante e non più da carenze originarie
(Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria n. 16/2014; Sez. VI,
n. 5890/2014).
Il comma 2-bis del citato art. 38 prevede un procedimento
che si articola nell’applicazione della sanzione pecuniaria
stabilita nel bando di gara, nell’assegnazione di un termine
non superiore a 10 giorni da parte della stazione appaltante
affinché il concorrente provveda a regolarizzare e
completare la documentazione e, solo in caso di inutile
decorso di tale termine (al quale la giurisprudenza
riconosce natura perentoria: cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 1803/2016)
nella successiva adozione del
provvedimento di esclusione. A tale disciplina fanno
eccezione le ipotesi di irregolarità non essenziali e quelle
di mancanza o incompletezza di dichiarazioni non
indispensabili, per le quali si prevede che la stazione
appaltante non ne richiede la regolarizzazione e non applica
alcuna sanzione pecuniaria.
La riforma del 2014 ha quindi introdotto una vera e propria
procedimentalizzazione del potere (dovere) di soccorso in
un'ottica collaborativa tra soggetto pubblico e privato che
“dialogano” al fine di evitare esclusioni legate a mere
irregolarità formali o incompletezze documentali.
Venendo al punto centrale del giudizio, il Collegio non
ignora l’orientamento della giurisprudenza amministrativa
(TAR Palermo, n. 1043/2016; TAR Emilia Romagna, Parma,
n. 66/2016; TAR Abruzzo, L’Aquila, n. 784/2015)
secondo
cui la sanzione di cui all’art. 38, comma 2-bis, deve essere
comminata in ogni caso di incompletezza e irregolarità di
elementi essenziali, sia che il concorrente che vi sia
incorso decida di avvalersi del soccorso istruttorio,
integrando o regolarizzando la dichiarazione resa, sia
nell’ipotesi in cui questi, non usufruendo del soccorso
istruttorio, manifesti il proprio disinteresse alla
prosecuzione della gara e, quindi, venga escluso dalla
procedura.
A sostegno di tale ermeneutica, tale indirizzo adduce
essenzialmente due argomentazioni.
In primo luogo, dalla formulazione letterale emergerebbe
chiaramente che l’essenzialità dell’irregolarità determina
in sé per sé l’obbligo del concorrente di pagare la sanzione
pecuniaria prevista dal bando, a prescindere dalla
circostanza che questi aderisca o meno all’invito, che la
stazione appaltante deve necessariamente fargli, di sanare
detta irregolarità. Solamente quando l’irregolarità non è
essenziale, il concorrente non sarebbe tenuto al pagamento
della sanzione pecuniaria né la stazione appaltante al
soccorso istruttorio. L’esclusione, invece, è una
conseguenza sanzionatoria diversa e in parte autonoma da
quella pecuniaria, nel senso che il concorrente vi incorrerà
solamente in caso di mancata ottemperanza all’invito alla
regolarizzazione da parte della stazione appaltante.
In secondo luogo, tale soluzione interpretativa garantirebbe
la serietà delle domande di partecipazione e delle offerte
presentate dai partecipanti, favorirebbe la
responsabilizzazione delle imprese partecipanti nel
confezionamento della documentazione di gara e, quindi, in
ultima analisi contribuirebbe a garantire la celere e sicura
verifica del possesso dei requisiti di partecipazione, in
un’ottica di buon andamento ed economicità dell’azione
amministrativa, a cui devono concorrere anche gli operatori
economici in ossequio ai principi di leale cooperazione, di
correttezza e di buona fede.
La Sezione non condivide tale orientamento per le ragioni
che ci appresta ad esporre.
L’interpretazione suggerita dal ricorrente appare
maggiormente conforme alla ratio del nuovo istituto che è
chiaramente quella di consentire ai partecipanti, in omaggio
al principio del favor partecipationis, di regolarizzare e
completare le dichiarazioni rese e la documentazione
prodotta senza incorrere nella sanzione espulsiva ma potendo
al contrario confidare nel beneficio del soccorso
istruttorio previo pagamento della sanzione pecuniaria.
In tale prospettiva, la sanzione costituisce una misura di
“fiscalizzazione” dell’irregolarità o dell’incompletezza
documentale e costituisce una contropartita da corrispondere
alla stazione appaltante per l’aggravamento del procedimento
di verifica della regolarità e completezza della
documentazione amministrativa: è evidente che tale
aggravamento consegue solo all’attivazione e alla effettiva
fruizione da parte del concorrente medesimo del soccorso
istruttorio mentre, qualora il partecipante non intenda
avvalersi del beneficio, la selezione concorsuale procederà
più spedita.
In altri termini, nel quadro delle misure di accelerazione
delle procedure di evidenza pubblica, attraverso la sanzione
pecuniaria di cui all’art. 38, comma 2-bis, il concorrente
che presenta una documentazione incompleta “paga” -secondo
un criterio prestabilito ed in base a una percentuale
rapportata al valore dell’appalto- il ritardo cagionato
all’amministrazione nel disimpegno dell’ulteriore attività
procedimentale (soccorso istruttorio) alla quale egli stesso
ha dato corso.
Distinta è l’ipotesi in cui versa l’impresa che non intenda
beneficiare del soccorso istruttorio: essa semplicemente
accetta e, quindi, presta acquiescenza alla estromissione
che sarà disposta dalla stazione appaltante, non costringe
l’amministrazione ad aprire una ulteriore fase di verifica
della regolarità della documentazione, non determina alcun
ritardo nell’espletamento della gara poiché consente
all’amministrazione di procedere celermente con le
operazioni concorsuali, in ultima analisi non lede
l’interesse pubblico alla rapida definizione della
selezione. In caso di mancata fruizione del beneficio del
soccorso istruttorio, quindi, viene meno la ratio sottesa
all’applicazione della sanzione pecuniaria di cui al comma
2-bis e, pertanto, la stessa non è dovuta.
Viceversa, prestando adesione all’interpretazione rigorosa
del comma 2-bis, quello che è stato delineato come un
beneficio in favore delle imprese, si tramuterebbe in un
disincentivo alla partecipazione alle gare pubbliche poiché
esporrebbe i concorrenti al rischio di vedersi comminare
sanzioni pecuniarie consistenti (il cui importo può arrivare
fine a 50.000,00 euro) come mera conseguenza
dell’incompletezza o della irregolarità documentale e a
prescindere dalla loro intenzione di avvalersi del soccorso
istruttorio, in più sarebbe incentivata una “caccia
all’errore” da parte delle amministrazioni appaltanti che va
certamente nel senso opposto a quanto auspicato dal
legislatore.
Inoltre, qualora costrette a versare in ogni caso la
sanzione di cui al comma 2-bis come effetto della mera
incompletezza o irregolarità formale della documentazione,
le imprese concorrenti potrebbero ritenere maggiormente
conveniente, anche in chiave strategica, la scelta di
avvalersi sempre e in ogni caso del soccorso istruttorio con
conseguente sistematica apertura di fasi istruttorie
supplementari e vanificazione delle esigenze di
semplificazione e celerità delle procedure di evidenza
pubblica.
E’ poi adeguatamente tutelata l’esigenza di
responsabilizzare i partecipanti nella predisposizione della
documentazione occorrente per la partecipazione alla gara
poiché, attraverso il nuovo istituto, essi sono previamente
resi edotti del maggior onere economico che saranno tenuti a
corrispondere qualora non osservino le prescrizioni poste
dalla lex specialis e dalla normativa di settore e,
ciononostante, intendano usufruire del soccorso istruttorio
per coltivare le proprie chance di aggiudicazione. Tuttavia,
tale forma di responsabilizzazione non può tramutarsi in una
misura vessatoria ed afflittiva per le imprese, quale si
avrebbe in caso di comminazione della sanzione pecuniaria
sganciata dall’effettiva volontà del concorrente di
usufruire del beneficio.
Peraltro, occorre prendere atto che, in ogni caso,
una
efficace forma di responsabilizzazione delle imprese è
costituita dai costi di partecipazione alla gara che
resterebbero a carico delle stesse in caso di incompletezza
o irregolarità della documentazione, rifiuto del soccorso
istruttorio e conseguente esclusione dalla gara.
Ancora, con la novella del 2014 il legislatore ha inteso
introdurre un meccanismo deflattivo del contenzioso in
materia di appalti pubblici derivante da provvedimenti di
esclusione dalle gare d’appalto, per vizi formali sulle
dichiarazioni rese dai partecipanti, con conseguente
possibile riduzione dei casi di annullamento e di
sospensione dei provvedimenti di aggiudicazione (ciò che,
peraltro, si desume dalla collocazione dello stesso art. 39,
nel Titolo IV del D.L. n. 90/2014 dedicato alle “misure per
lo snellimento del processo amministrativo e l’attuazione
del processo civile telematico”).
In tal modo è stato assegnato ai concorrenti e alle stazioni
appaltanti uno strumento alternativo di risoluzione
stragiudiziale delle controversie che possano insorgere in
caso di irregolarità ed incompletezza documentale.
L’opzione ermeneutica più rigorosa rischia invece di
vanificare tale scopo poiché espone le stazioni appaltanti a
maggiori contenziosi che potrebbero essere attivati proprio
da quelle imprese che, come è accaduto nella causa in
decisione, pur non avendo un concreto interesse ad usufruire
del soccorso istruttorio, non avrebbero altro modo per
opporsi all’applicazione della sanzione di cui al comma
2-bis.
Ma non è tutto.
L’interpretazione della disposizione in esame avallata dalla
stazione appaltante comporta un’illegittima equiparazione
tra fattispecie normative radicalmente distinte, cioè quella
del concorrente che abbia reso una dichiarazione incompleta,
ad esempio, sul possesso dei requisiti di ordine generale di
cui all’art. 38, comma 1 (il quale, secondo l’ermeneutica
avversata in questa sede, dovrebbe ugualmente versare una
sanzione il cui pagamento è garantito dalla cauzione
provvisoria) e quella dell’impresa che, all’esito del
controllo di cui all’art. 48 del Codice degli Appalti
pubblici, risulti carente di tali requisiti, posto che in
tale ipotesi, andrebbe escussa la cauzione provvisoria
(Consiglio di Stato, Ad. Plen. n. 34/2014; TAR Palermo,
n. 1757/2015).
In entrambe le ipotesi –pur ontologicamente distinte- il
concorrente sarebbe esposto ad una misura sanzionatoria
patrimoniale, ma tale equiparazione si porrebbe tuttavia in
contrasto con la ratio ispiratrice della novella del 2014
proclive, come si è visto, a dequotare le mere irregolarità
formali che non rendano chiaramente percepibile l’effettiva
carenza dei requisiti essenziali. Difatti, in base dell’art.
38, comma 2-bis, ai fini della partecipazione alla gara,
assume rilievo la reale sussistenza dei requisiti di ordine
generale in capo ai concorrenti e non le formalità né la
completezza del contenuto della dichiarazione resa a
dimostrazione del possesso dei predetti requisiti.
Si aggiunga che l’interpretazione sostenuta in questa sede è
conforme a quella espressa dall’ANAC, secondo cui “La
sanzione individuata negli atti di gara sarà comminata nel
caso in cui il concorrente intenda avvalersi del nuovo
soccorso istruttorio; essa è correlata alla sanatoria di
tutte le irregolarità riscontrate e deve pertanto essere
considerata in maniera onnicomprensiva. (…) In caso di
mancata regolarizzazione degli elementi essenziali carenti,
invece, la stazione appaltante procederà all’esclusione del
concorrente dalla gara. Per tale ipotesi la stazione
appaltante dovrà espressamente prevedere nel bando che si
proceda, altresì, all’incameramento della cauzione
esclusivamente nell’ipotesi in cui la mancata integrazione
dipenda da una carenza del requisito dichiarato.
All’incameramento, in ogni caso, non si dovrà procedere per
il caso in cui il concorrente decida semplicemente di non
avvalersi del soccorso istruttorio” (cfr. determinazione n.
1/2015).
L’ANAC esclude quindi che la sanzione debba essere applicata
qualora il concorrente non intenda usufruire del soccorso
istruttorio.
In argomento, va anche rilevato che, con comunicato del 23.03.2015, l’ANAC ha affrontato la questione circa il
giusto raccordo tra l’affermazione contenuta nella
richiamata determinazione n. 1/2015 (secondo cui “la
sanzione individuata negli atti di gara sarà comminata nel
caso in cui il concorrente intenda avvalersi del nuovo
soccorso istruttorio”) e la lettera dell’art. 38, comma
2-bis, del D.Lgs. n. 163/2006, laddove questo prevede che
l’operatore economico è obbligato al pagamento della
sanzione in caso di mancanza, incompletezza e ogni altra
irregolarità essenziale.
In tale comunicato, il Presidente dell’ANAC ha chiarito che
la lettura interpretativa fornita dalla determinazione n 1
del 2015 “si è imposta come doverosa sia per evitare
eccessive ed immotivate vessazioni delle imprese sia in
ossequio al principio di primazia del diritto comunitario,
che impone di interpretare la normativa interna in modo
conforme a quella comunitaria anche in corso di recepimento.
La direttiva 2014/24/UE sugli appalti pubblici, infatti,
prevede all’art. 59, paragrafo 4, secondo capoverso, la
possibilità di integrare o chiarire i certificati presentati
relativi al possesso sia dei requisiti generali sia di
quelli speciali, senza il pagamento di alcuna sanzione”.
Si è dato quindi atto della coerenza di tale interpretazione
con il quadro normativo comunitario.
A tale proposito, si rammenta che la direttiva 2014/24/UE è
stata adottata il 26.02.2014 e, secondo quanto
disposto dall’art. 93, è entrata in vigore il ventesimo
giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta
Ufficiale dell’Unione europea, avvenuta il 28.03.2014,
con termine di recepimento alla data del 18.04.2016
(art. 90). Benché non si tratti di direttiva self-executing
(Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 2660/2015) essa riveste
indubbio rilievo interpretativo vincolato alla stregua del
consolidato indirizzo della giurisprudenza comunitaria
(Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sentenza del 17.01.2008, causa C-246/06), secondo cui fra la data di
entrata in vigore e quella della scadenza del termine di
recepimento, la direttiva, per i principi che esprime, è
ormai entrata nell’ordinamento dell’Unione europea, sicché
richiede che la normativa nazionale sia applicata fin
dall’entrata in vigore della direttiva medesima in modo
conforme a quei principi.
Infine, è importante rilevare che l’ermeneutica sostenuta
dall’ANAC e condivisa dalla Sezione è stata, da ultimo,
espressamente recepita nel nuovo Codice degli Appalti
Pubblici approvato con D.Lgs. n. 50/2016 (“Attuazione delle
direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE
sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli
appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti
erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei
trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino
della disciplina vigente in materia di contratti pubblici
relativi a lavori, servizi e forniture”).
Il nuovo art. 83 (rubricato “criteri di selezione e soccorso
istruttorio”) prevede infatti una disciplina che ricalca
quella regolamentata dal previgente art. 38, comma 2-bis,
del D.Lgs. n. 163/2006 e che si articola nell’applicazione –in caso di mancanza, incompletezza e ogni altra irregolarità
essenziale degli elementi e del documento di gara unico
europeo di cui all'articolo 85, con esclusione di quelle
afferenti all'offerta tecnica ed economica– di una sanzione
pecuniaria in misura non inferiore all'uno per mille e non
superiore all'uno per cento del valore della gara e comunque
non superiore a 5.000 euro (quindi, con sensibile riduzione
del limite edittale massimo rispetto a quanto previsto dal
D.L. n. 90/2014) e nell’assegnazione al concorrente di un
termine non superiore a 10 giorni per procedere alla
regolarizzazione che, qualora decorso invano, comporta
l’esclusione dalla gara.
Per quanto rileva nel presente giudizio, è utile riportare
la previsione secondo cui “La sanzione è dovuta
esclusivamente in caso di regolarizzazione”, con ciò
intendendosi escludere l’applicazione qualora il concorrente
non intenda avvalersi del beneficio del soccorso
istruttorio.
Benché la disposizione non risulti applicabile
ratione
temporis alla controversia in esame, essa offre rilevanti
spunti di riflessione in quanto è ragionevole ritenere che
il legislatore del 2016 abbia inteso positivizzare un
principio già contenuto, seppur non esplicitato, nell’art.
38, comma 2-bis, del D.Lgs. n. 163/2006.
Le considerazioni illustrate conducono in definitiva
all’accoglimento del ricorso e al conseguente annullamento
dei provvedimenti impugnati, nei limiti dell’interesse di
parte ricorrente, ovvero limitatamente alla irrogazione nei
confronti della società ricorrente della sanzione pecuniaria
di cui all’art. 38, comma 2-bis, del D.Lgs. n. 163/2006. |
TRIBUTI:
Rifiuti speciali, stretta sulle esenzioni.
Spettano se il contribuente prova l'autosmaltimento.
Il contribuente non ha diritto all'esenzione dalla tassa
rifiuti qualora produca rifiuti speciali, se non fornisce la
prova all'amministrazione comunale di provvedere al loro
smaltimento. Infatti, incombe sui contribuenti l'onere di
fornire la documentazione atta a dimostrare che è stato
conferito a un'impresa specializzata l'incarico di
provvedere allo smaltimento dei rifiuti.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. V civile, con la
sentenza 25.05.2016 n. 10811.
Per la Cassazione, per escludere che i comuni possano
assimilare i rifiuti speciali non pericolosi agli urbani e
che possano smaltirli attraverso il servizio pubblico, sia
il Mud che i registri di carico e scarico possono essere
ritenuti elementi comprovanti il superamento della soglia di
produzione di rifiuti stabilita dal comune al fine di
consentire al privato di smaltirli in proprio.
Tuttavia,
secondo i giudici di legittimità, questa circostanza da sola
«non è sufficiente ai fini della esclusione dalla
tassazione, dovendo la società fornire la prova non solo
della produzione di rifiuti speciali in misura superiore ai
valori stabiliti dal comune, ma anche di avere provveduto al
loro effettivo smaltimento mediante ditte specializzate».
Occorre produrre «copia dei relativi contratti e/o delle
relative fatture». La ratio della norma di legge che prevede
l'esonero dal pagamento della tassa è quella «di evitare una
indebita duplicazione di costi in capo ai soggetti che
producono tali rifiuti».
Gli immobili produttivi di rifiuti speciali, in effetti, non
sono soggetti al pagamento della tassa rifiuti (Tarsu, Tia,
Tares e Tari) purché il contribuente delimiti le relative
superfici e dimostri all'amministrazione comunale di
provvedere allo smaltimento. Nella determinazione della
superficie tassabile, non si tiene conto di quella parte di
essa ove per specifiche caratteristiche strutturali e per
destinazione si formano, di regola, rifiuti speciali allo
smaltimento dei quali sono tenuti a provvedere a proprie
spese i produttori stessi.
Al riguardo la Cassazione (sentenza 18497/2010) ha più volte
ribadito il principio che costituendo le esenzioni
un'eccezione alla regola generale di assoggettamento alla
tassa di tutti coloro che occupano o detengono immobili
nelle zone del territorio comunale, l'onere della prova
circa l'esistenza e la delimitazione delle superfici per le
quali il tributo non è dovuto grava su chi ritiene di avere
diritto all'esenzione e non sull'amministrazione comunale.
Peraltro, l'esenzione di una parte delle aree utilizzate
perché si producono rifiuti speciali, come pure l'esclusione
di parti di aree perché inidonee alla produzione di rifiuti,
è subordinata all'adeguata delimitazione di questi spazi.
Spetta all'impresa produttrice l'onere di fornire i dati
precisi per delimitare le zone che non concorrono a
determinare la complessiva superficie imponibile,
presentando idonea documentazione
(articolo ItaliaOggi del 04.06.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Autotutela
ok senza fronzoli. Pochi i
presupposti per l'attivazione.
In considerazione del breve lasso di tempo intercorso tra il
rilascio del permesso di costruire e la comunicazione di
avvio del procedimento di annullamento, è da ritenersi
sufficiente, quale presupposto per l'esercizio del potere di
autotutela, l'esigenza di ripristino della legalità e una
motivazione che faccia unicamente riferimento alla
disposizione violata.
È quanto ribadito dai giudici della I Sez. del TAR Campania-Salerno con la
sentenza 25.05.2016 n. 1304.
Inoltre, l'orientamento giurisprudenziale (Tar Lecce
(Puglia), Sez. III, 06/06/2008, n. 1680) richiamato dai
giudici campani, continua affermando che: «Allorché non si è
ingenerato alcun legittimo affidamento nel destinatario del
provvedimento poiché l'annullamento d'ufficio interviene a
breve distanza di tempo dall'adozione del provvedimento
illegittimo, infatti, non è necessaria una penetrante
motivazione sull'interesse pubblico all'annullamento, né una
comparazione di tale interesse con l'interesse privato
sacrificato».
È stato, altresì rimarcato che in presenza di un remoto
avviso dell'inizio del procedimento, finalizzato
all'annullamento della sola concessione edilizia in
sanatoria, s'era evidentemente consolidato un affidamento,
da parte del soggetto, circa l'implicita archiviazione del
procedimento medesimo perché «un lasso temporale così
abnormemente dilatato, rispetto alla prefigurata scadenza
mensile del medesimo, finisce per aggirare, di fatto, e
frustrare completamente la funzione, cui l'atto dovrebbe
essere vocato, vale a dire quella di porre il destinatario
in condizione di interloquire con l'amministrazione, circa i
concreti contenuti del provvedimento conclusivo da
adottarsi».
Pertanto l'amministrazione comunale, prima di riattivare il
procedimento deve inviare un nuovo avviso d'avvio del
relativo procedimento, senza il quale la determina finale si
palesa come illegittima
(articolo ItaliaOggi Sette del 06.06.2016).
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MASSIMA
Il ricorso è fondato.
Sviluppando talune delle argomentazioni, già fondanti
l’accoglimento della domanda cautelare di parte ricorrente,
il Collegio ritiene come carattere dirimente, con
assorbimento d’ogni altra doglianza, rivesta, nel caso in
esame, la considerazione della censura d’omessa
comunicazione d’avvio del procedimento, omissione alla quale
deve essere equiparata, ad avviso del Tribunale, una
comunicazione d’avvio del procedimento inviata, come nella
specie, con un intervallo di tempo, rispetto all’adozione
dell’atto conclusivo del procedimento, talmente ampio (si
tratta, nella specie, di ben sei anni), da risultare, ormai,
la stessa, come “inutiliter data”.
La comunicazione in questione veniva trasmessa dal Comune di
Eboli al ricorrente, specificamente, con nota, prot. 39581
del 29.10.2008.
Pienamente condivisibili si palesano, in particolare, le
deduzioni difensive contenute in ricorso, in cui s’è
giustamente osservato come, a fronte di
siffatto, remoto, avviso dell’inizio del procedimento,
finalizzato all’annullamento (tra l’altro) della sola
concessione edilizia in sanatoria n. 724/22897/94 del
12.12.1997
(laddove il provvedimento, odiernamente gravato, ha
decretato l’annullamento anche degli “atti successivi
alla concessione de quo e, nello specifico, il permesso di
costruire n. 54/2003 del 23.12.2003”),
s’era evidentemente consolidato un affidamento, da parte del
ricorrente, circa l’implicita archiviazione del procedimento
medesimo (tanto più che, nel testo della citata
comunicazione, prot. 39581/2008, si asseriva che lo stesso
si sarebbe concluso, “entro trenta giorni dalla data di
ricezione della presente”).
Orbene, non è chi non veda come tale
termine di giorni trenta non potesse, evidentemente, essere
considerato perentorio; ma al contempo è altrettanto
intuitivo che un lasso temporale così abnormemente dilatato,
rispetto alla prefigurata scadenza mensile del medesimo,
finisce per aggirare, di fatto, e frustrare completamente la
funzione, cui l’atto dovrebbe essere vocato, vale a dire
quella di porre il destinatario in condizione di
interloquire con l’Amministrazione, circa i concreti
contenuti del provvedimento conclusivo da adottarsi.
Sicché va sottoscritta l’ulteriore considerazione difensiva
del ricorrente, secondo la quale –posto che la suddetta,
risalente, comunicazione ex art. 7 l. 241/1990 era ormai,
per le ragioni dianzi espresse, divenuta inefficace–
l’Amministrazione Comunale, prima di riattivare il
procedimento (tra l’altro con oggetto più ampio, rispetto a
quello previsto nel 2008), avrebbe dovuto inviargli un nuovo
avviso d’avvio del relativo procedimento, senza il quale la
determina finale si palesa come illegittima.
Né, tampoco, l’Amministrazione Comunale, nella propria
memoria difensiva, ha contrastato tali pregnanti deduzioni
di parte ricorrente, ovvero ha ritenuto d’invocare
l’efficacia sanante delle violazioni formali, ex art.
21-octies della l. 214/1990, onde nessuna particolare
motivazione deve spendersi sul punto.
L’abnormità del lasso temporale trascorso
(tra avviso previsto dalla legge e atto conclusivo del
procedimento) rende, poi, addirittura impensabile che
l’Amministrazione potesse appellarsi a ragioni d’urgenza,
onde giustificare l’omissione dell’adempimento partecipativo
de quo.
In giurisprudenza, a conferma di quanto sopra considerato,
si tenga presente, a contrario, la massima seguente: “In
considerazione del breve lasso di tempo intercorso tra il
rilascio del premesso di costruire e la comunicazione di
avvio del procedimento di annullamento, è da ritenersi
sufficiente, quale presupposto per l’esercizio del potere di
autotutela, l’esigenza di ripristino della legalità ed una
motivazione che faccia unicamente riferimento alla
disposizione violata. Allorché non si è ingenerato alcun
legittimo affidamento nel destinatario del provvedimento
poiché l’annullamento d’ufficio interviene a breve distanza
di tempo dall’adozione del provvedimento illegittimo,
infatti, non è necessaria una penetrante motivazione
sull’interesse pubblico all’annullamento, né una
comparazione di tale interesse con l’interesse privato
sacrificato”
(TAR Lecce (Puglia), Sez. III, 06/06/2008, n. 1680).
Quanto, poi, alla necessità d’inviare la comunicazione, ex
art. 7 l. 241/1990, al destinatario dell’atto (adempimento
nella specie, giusta quanto rilevato in precedenza,
sostanzialmente omesso), si consideri l’ulteriore decisione
che segue: “Il principio della previa
comunicazione dell’avvio del procedimento (art. 7 l.
07.08.1990 n. 241), che è di portata generale, opera a
maggiore ragione quando la p.a. adotta un provvedimento
all’esito di un procedimento c.d. di secondo grado,
annullando o revocando un precedente atto amministrativo
favorevole al ricorrente specie a distanza di 4 anni durante
i quali si è creato un legittimo affidamento per
l’interessato”
(TAR Toscana, Sez. III, 06/12/2005, n. 8234). |
EDILIZIA PRIVATA: Niente moschea sull’area inquinata.
Tar di Milano. Vietato il cambio di destinazione di un ex
capannone industriale.
Il cambio di
destinazione d’uso da capannone industriale a centro di
culto su un’area industriale bonificata può essere bloccato
dal Comune se il grado di inquinamento ambientale della zona
è incompatibile con la presenza a tempo indeterminato delle
persone che con ogni probabilità ne faranno uso. In
particolare bambini, donne e anziani.
Il TAR Lombardia-Milano,
nella
sentenza
25.05.2016 n. 1078, depositata dalla II Sez., ha dato ragione a un Comune che, per
rischio sanitario e ambientale per gli associati rilevato
dall’Asl, aveva negato a un’associazione islamica il
permesso di costruire per trasformare in centro culturale e
di culto un capannone di proprietà su un’area produttiva
sottoposta a bonifica.
Il no alla nuova attività –poi sospesa e vietata con due
ordinanze- era stato disposto non per incompatibilità
urbanistica (nella zona era ammesso l’uso di immobili per
«sedi di associazioni» e «servizi religiosi»), ma per valori
d’inquinamento oltre la soglia di contaminazione fissata dal
Testo unico ambientale per siti destinati a verde pubblico,
privato e residenziale (colonna a, tabella 1, allegato 5,
parte IV, Dlgs 152/2006).
Per Comune e Asl, al contrario
della tesi dell’associazione ricorrente, l’accertato
«notevole afflusso non episodico e non momentaneo» di
associati di ogni età, in particolare di «categorie
fragili», escludeva l’applicazione degli invocati parametri
più alti e meno stringenti sui rischi per l’uomo, cioè le
soglie d’inquinamento per siti a uso commerciale e
industriale (colonna b) che l’area rispettava.
I giudici, validando lo “stop” alla futura moschea, hanno
spiegato che il parere istruttorio dell’Asl fa riferimento
il Comune va ritenuto «pienamente attendibile» poiché
«attestato su una valutazione prudenziale circa il rischio
di superamento della soglia di concentrazione, in sintonia
con il principio di precauzione e prevenzione che permea
tutta la disciplina di cui al Dlgs 152/2006 e che è
espressamente sancito nell’articolo 301 (“in applicazione
del principio di precauzione di cui all’articolo 174,
paragrafo 2, del Trattato Ce, in caso di pericoli, anche
solo potenziali, per la salute umana e per l’ambiente, deve
essere assicurato un alto livello di protezione”)».
Secondo
il collegio, in casi come questi è dunque legittimo
attenersi in via «prudenziale» ai valori ambientali della
destinazione residenziale per la «massima tutela sanitaria»
di bambini, donne e anziani, e ciò in particolar modo se,
come nella fattispecie, l’«indeterminatezza dell’effettivo
flusso di affluenza» all’immobile è confermata dallo statuto
dell’associazione con la previsione di un numero di soci
«illimitato».
Nella sentenza, esclusa «una preclusione
assoluta per il futuro insediamento del luogo di culto» -da
valutare in base alla bonifica e all’adozione del locale
“Piano per le attrezzature religiose”–, si è precisato che
erano incontestabili anche gli altri provvedimenti adottati
dalla Pa. Infatti, l’ordine a sospenderne l’uso era «una
logica conseguenza dell’insussistenza dei presupposti per la
sanatoria» e l’ordinanza che ne disponeva il divieto
rispettava i compiti e le funzioni affidati al sindaco dal
Testo unico degli enti locali (articoli 50 e 54, decreto
legislativo 267/2000) (articolo Il Sole 24 Ore del 16.06.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Fioriere via, basta la comunicazione.
Cancellata la multa al condominio. Non dovrà più pagare
7.500 euro al Comune l'ente di gestione che ha fatto
togliere le fioriere lungo tutto il prospetto dell'edificio
senza effettuare la segnalazione di inizio attività
all'amministrazione: si tratta sì di un intervento di
manutenzione straordinaria, ma che richiede soltanto la Cila,
comunicazione di inizio attività asseverata, perché non
riguarda le parti strutturali dell'edificio.
È quanto emerge dalla
sentenza
24.05.2016 n. 6098, pubblicata dalla
Sez. II-quater del TAR Lazio-Roma.
Tecnico responsabile
Annullata la determinazione dirigenziale di Roma Capitale:
sbaglia l'amministrazione locale ad applicare la sanzione
pecuniaria per l'intervento senza Scia posto in essere dal
condominio, per la rimozione delle fioriere che ha
interessato un'area di circa 25 metri localizzata al primo
piano dell'edificio.
L'opera realizzata, infatti, non
integra la violazione dell'articolo 37 del testo unico
dell'edilizia rilevata dai tecnici comunali. La manutenzione
straordinaria effettuata, invece, risulta soggetta al regime
dell'edilizia libera di cui all'articolo dell'articolo 6,
comma 2, lettera a) e comma 4 del Dpr 380/2001.
Insomma: dopo
il decreto Sblocca Italia all'interessato basta solo
trasmettere al Comune il progetto e la comunicazione di
inizio lavori asseverata da un tecnico abilitato, il quale
attesta sotto la sua responsabilità che i lavori non
interessano le parti strutturali dell'edificio, oltre a
essere conformi agli strumenti urbanistici, ai regolamenti
edilizi vigenti, alle norme antisismiche e alle disposizioni
sul rendimento energetico.
Sportello unico
La comunicazione va presentata allo sportello unico
dell'edilizia presso il Comune deve contenere i documenti
con lo stato di fatto dell'immobile prima e dopo l'opera con
i dati dell'impresa che porta a termine i lavori, a partire
dal Durc, il documento unico di regolarità contributiva,
oltre che la relazione sottoscritta dal tecnico abilitato.
È
il proprietario committente del manufatto o un suo delegato
a presentare la Cila ma le amministrazioni locali si stanno
attrezzando per riceverla online. Nel caso di specie Roma
Capitale paga le spese di giudizio
(articolo ItaliaOggi Sette del 13.06.2016).
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MASSIMA
Considerato in fatto e in diritto:
a) che il condominio ricorrente impugna la determinazione
dirigenziale n. 1169/2015 di Roma Capitale, recante
l’irrogazione di una sanzione pecuniaria di Euro 7.500,00
conseguente alla realizzazione di opere abusive in Via San
..., 18;
b) che si è costituita in giudizio Roma Capitale, resistendo
al ricorso;
c) che il ricorso è stato chiamato per la trattazione della
domanda cautelare alla camera di consiglio del 18.04.2016;
d) che sussistono i presupposti per la decisione della causa
nel merito mediante sentenza in forma semplificata ai sensi
dell’art. 60 c.p.a.;
e) che la sanzione pecuniaria in questione è stata irrogata
sul presupposto dell’avvenuta violazione dell’art. 37 del
D.P.R. n. 380/2001, a seguito dell’accertamento
dell’esecuzione della seguente opera edilizia: “rimozione
fioriere, per una lunghezza di circa m. 25, lungo il
prospetto dell’edificio su via San ..., posta al piano primo
rispetto a tale strada”;
f) che è fondato il profilo di censura relativo
all’erroneità dell’avvenuta applicazione della normativa in
tema di lavori effettuati in assenza di S.C.I.A. da parte
dell’Amministrazione;
g) che in particolare
deve ritenersi corretta la qualificazione di detto
intervento come manutenzione straordinaria che non riguarda
parti strutturali dell’edificio ed è quindi assoggettata al
regime dell’edilizia libera previa presentazione di C.I.L.A.
ai sensi dell’art. 6, comma 2, lett. a) e comma 4 del D.P.R.
n. 380/2001, con la conseguenza dell’inapplicabilità della
sanzione pecuniaria nella misura irrogata
dall’Amministrazione nel caso di specie;
h) che il ricorso deve quindi essere accolto, con il
conseguente annullamento dell’atto impugnato. |
APPALTI:
Raggruppamento d'imprese, se una fallisce si
sostituisce.
Se in un appalto pubblico fallisce una delle due imprese
facenti parte di un raggruppamento temporaneo, l'altra può
legittimamente subentrare al raggruppamento a condizione che
possegga i requisiti di ammissione alla gara.
È quanto ha affermato la Corte di giustizia nella
sentenza 24.05.2016 (causa C 396/14) dirimendo una
fattispecie non disciplinata dalle direttive europee ed
inerente alla modifica soggettiva di un raggruppamento
temporaneo di imprese.
La Corte di giustizia ha affrontato la questione relativa
alla compatibilità con il diritto europeo del subentro di
una della società costituenti un originario raggruppamento
temporaneo, in caso di scioglimento del raggruppamento
stesso per fallimento dell'altra società.
In particolare, il
giudice del rinvio aveva chiesto, sostanzialmente, se il
principio di parità di trattamento degli operatori
economici, di cui all'articolo 10 della direttiva 2004/17,
in combinato disposto con l'articolo 51 della medesima
direttiva, dovesse essere interpretato nel senso che esso
osta a che una stazione appaltante autorizzi un operatore
economico, che faceva parte di un raggruppamento di due
imprese preselezionate e che avevano presentato la prima
offerta in una procedura negoziata di aggiudicazione di un
appalto pubblico, a continuare a partecipare in nome proprio
a tale procedura in seguito allo scioglimento del
raggruppamento di cui faceva parte a causa del fallimento
dell'altra impresa.
La materia non è trattata nelle direttive europee e quindi
la conclusione della Corte europea poggia sui principi
generali del Trattato e, in conclusione, dà il via libera
all'operato della stazione appaltante, ma ad alcune
condizioni precise.
La prima è che ovviamente l'impresa superstite copra i
requisiti richiesti per la partecipazione alla gara. La
seconda condizione attiene al fatto che la continuazione
della partecipazione alla procedura non comporta un
deterioramento della situazione degli altri offerenti sotto
il profilo della concorrenza. Si tratta di una formulazione
particolarmente vaga e di difficile traduzione che deve
essere letta alla luce della procedura (negoziata) che
impone almeno cinque offerenti
(articolo ItaliaOggi del 03.06.2016).
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MASSIMA
Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara:
"Il principio di parità di
trattamento degli operatori economici,
di cui all’articolo 10 della direttiva 2004/17/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 31.03.2004, che
coordina le procedure di appalto degli enti erogatori di
acqua e di energia, degli enti che forniscono servizi di
trasporto e servizi postali, in combinato disposto con
l’articolo 51 della medesima,
deve essere interpretato nel senso che un ente aggiudicatore
non viola tale principio se autorizza uno dei due operatori
economici che facevano parte di un raggruppamento di imprese
invitato, in quanto tale, da siffatto ente a presentare
un’offerta, a subentrare a tale raggruppamento in seguito
allo scioglimento del medesimo e a partecipare, in nome
proprio, a una procedura negoziata di aggiudicazione di un
appalto pubblico, purché sia dimostrato, da un lato, che
tale operatore economico soddisfa da solo i requisiti
definiti dall’ente di cui trattasi e, dall’altro, che la
continuazione della sua partecipazione a tale procedura non
comporta un deterioramento della situazione degli altri
offerenti sotto il profilo della concorrenza". |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Accesso, no a domande sproporzionate.
La domanda di accesso ai documenti amministrativi non può
essere palesemente sproporzionata rispetto all'effettivo
interesse conoscitivo del soggetto richiedente, il quale
deve specificare il nesso che lega il documento richiesto
alla propria posizione soggettiva, ritenuta meritevole di
tutela.
A ribadirlo sono stati i giudici della I Sez. del TAR
Friuli Venezia Giulia con la
sentenza
23.05.2016 n. 188.
I giudici amministrativi triestini hanno, altresì, aggiunto
che la domanda di accesso dovrà anche indicare i presupposti
di fatto idonei a rendere percettibile l'interesse
specifico, concreto e attuale, corrispondente a una
situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento
«de quo».
Nel caso sottoposto all'attenzione dei giudici friulani
l'interessato, con riferimento ai documenti di cui si
discorre, ha sostanzialmente riprodotto l'iniziale istanza
d'accesso, sulla quale il questore aveva, però, già espresso
parere negativo, senza che ne seguisse alcuna contestazione
in sede amministrativa o giurisdizionale.
Il ricorrente, secondo il tribunale amministrativo
regionale, avrebbe, pertanto, dovuto, eventualmente, gravare
il primo diniego per vizi riscontrati, ma, non avendolo
fatto ed essendo decaduto per inutile decorso del termine
dal relativo diritto, incorreva ovviamente in
inammissibilità. Pertanto legittima s'appalesa agli occhi
dei giudici la dichiarata inammissibilità dell'istanza di
accesso presentata.
E inoltre, non si può disconoscere, in
via meramente teorica, la possibilità per l'interessato di
ripresentare l'istanza ostensiva al sopravvenire di nuovi
elementi oppure di riqualificare l'interesse originario
rilevante, anche in ragione dell'esigenza di curare o
difendere i propri interessi giuridici
(articolo ItaliaOggi Sette del 06.06.2016).
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MASSIMA
Devesi, in primo luogo, rilevare l’inammissibilità del
ricorso, laddove rivolto a quella parte del provvedimento
questorile che dichiara inammissibile l’istanza ostensiva
con riferimento ai documenti richiesti dal-OMISSIS-ai pt.i
II (fascicoli relativi a vari stranieri di nazionalità
russa, tutti nominativamente indicati) e III (fascicoli
attinenti il rilascio e/o il rinnovo del permesso di
soggiorno per “residenza elettiva” ex d.m. 12/07/2000
inerenti i cittadini statunitensi e relativi agli anni
2009-2010-primi mesi anno 2011), essendo ictu oculi
evidente che la medesima, per come formulata, è meramente
reiterativa e confermativa del pt. 4 dell’istanza di accesso
in data 23.06.2015, denegata con provvedimento in data
24.07.2015, mai impugnato dal ricorrente (in termini C.d.S.,
VI, 04.10.2013, n. 4912; id., V, 17.12.2008, n. 6294)).
L’interessato si sofferma, invero, unicamente ad enfatizzare
la prevalenza dell’accesso difensivo su eventuali esigenze
di riservatezza di eventuali controinteressati,
acconsentendo, occorrendo, all’oscuramento dei loro
nominativi, nonché a rappresentare l’insussistenza di
profili di segretezza (peraltro unicamente con riferimento
alla richiesta sub pt. II), ma non allega elementi
ulteriori, idonei, in particolare, a comprovare l’interesse
connesso all’oggetto della richiesta ovvero la sussistenza
di un interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente
ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al
documento a cui è chiesto l’accesso, alla quale fa
riferimento l’art. 22, comma 1, lett. b), della l. n.
241/1990, tali da consentire di ritenere l’istanza
presentata quale “nuova” istanza.
In via meramente incidentale, si osserva, peraltro, che la
giurisprudenza (Cons. St., V, nn. 5226 e 3309 del 2010) ha
condivisibilmente precisato che la domanda
di accesso ai documenti amministrativi non può essere
palesemente sproporzionata rispetto all'effettivo interesse
conoscitivo del soggetto richiedente, il quale deve
specificare il nesso che lega il documento richiesto alla
propria posizione soggettiva, ritenuta meritevole di tutela;
detta domanda deve, inoltre, indicare i presupposti di fatto
idonei a rendere percettibile l'interesse specifico,
concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione
giuridicamente tutelata e collegata al documento “de quo”.
Ciò che rileva nel caso portato all’attenzione di questo
Tribunale è, in ogni caso, la circostanza che l’interessato,
con riferimento ai documenti di cui si discorre, ha
sostanzialmente riprodotto l’iniziale istanza d’accesso,
sulla quale il Questore di Pordenone ebbe, però, già ad
esprimersi negativamente, senza che ne seguisse alcuna
contestazione in sede amministrativa o giurisdizionale da
parte del -OMISSIS-
Né può trascurarsi di rilevare che il ricorrente, laddove,
al pt. III.c, contesta nel merito il decreto gravato, svolge
doglianze che nulla hanno a che vedere con i contenuti del
provvedimento ora in esame, che -si evidenzia- non motiva
assolutamente la dichiarata inammissibilità con ragioni
afferenti ad esigenze di riservatezza di soggetti
controinteressati, ma unicamente per la ritenuta natura
confermativa dell’istanza ostensiva presentata. Egli
avrebbe, pertanto, dovuto, eventualmente, gravare il primo
diniego per tali vizi, ma, non avendolo fatto ed essendo
decaduto per inutile decorso del termine dal relativo
diritto, incorre ora ovviamente in inammissibilità.
Anche in considerazione di tale ultimo profilo, legittima
s’appalesa, pertanto, la dichiarata inammissibilità in
parte qua dell’istanza di accesso presentata
dal-OMISSIS-in data 02.11.2015.
Quanto, invece, a quella parte del ricorso che concerne
l’inammissibilità della richiesta ostensione del fascicolo
d’inchiesta riguardante il ricorrente, formato dalla
Questura di Pordenone – Divisione Polizia Anticrimine (pt. I
dell’istanza d’accesso), il Collegio ritiene che lo stesso
s’appalesa ancora inammissibile, laddove il ricorrente
medesimo, al pt. IV, contesta nel merito il decreto gravato,
atteso che anche in tal caso, non avendo egli impugnato il
primo diniego, non può ovviamente svolgere in questo momento
censure atte a farne emergere illegittimità, che avrebbe
dovuto, eventualmente, sollevare tempestivamente e
ritualmente avverso tale (primo) provvedimento.
A nulla vale, pertanto, il tentativo della difesa del
ricorrente di far passare per inficiato il decreto del
27.11.2015 laddove –afferma- rinvia per relationem al
I diniego, se i vizi, che dovrebbero asseritamente
affliggerlo in via derivata, non sono mai stati
tempestivamente denunciati mediante la proposizione di
ricorso giurisdizionale o amministrativo.
Resta, quindi, ancora da valutare la legittimità o meno
della dichiarata inammissibilità della richiesta d’accesso
al fascicolo d’inchiesta unicamente con riferimento alle
deduzioni svolte da parte ricorrente ai pt. III.a e III.b
del proprio ricorso.
Orbene, a tale riguardo, pur non potendosi disconoscere, in
via meramente teorica, la possibilità per l’interessato di
ripresentare l’istanza ostensiva al sopravvenire di nuovi
elementi oppure di riqualificare l’interesse originario
rilevante, anche in ragione dell’esigenza di curare o
difendere i propri interessi giuridici, devesi, invero,
convenire con la difesa erariale circa la genericità e
indeterminatezza delle esigenze difensive cui il ricorrente
ha lasciato intendere di voler ancorare la reiterata istanza
d’accesso al fascicolo in questione.
Invero, al di là del fatto che il procedimento penale cui è
stato sottoposto il ricorrente è stato archiviato, sicché
può pacificamente escludersi che vengano in rilievo esigenze
difensive del medesimo in tale ambito, il Collegio rileva
che, in effetti, il-OMISSIS-né nell’istanza ostensiva, né
nella presente sede giurisdizionale ha fornito elementi
sufficienti a consentire di comprendere che tipo di azione
intenderebbe esperire a propria tutela e, conseguentemente,
di apprezzare per lo meno l’astratta sussistenza di una
correlazione tra la documentazione richiesta e le sue
esigenze difensive.
Stante la mancanza di chiara esplicitazione sul punto,
l’istanza non può, quindi, che ritenersi sostanzialmente
reiterativa della precedente e correttamente ritenuta
inammissibile dalla Questura. |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Apicoltori,
sindaci con mani legate. Sentenza Cds.
Sindaco con le mani legati in caso di disagio ai residenti
Non bastano gli esposti dei vicini per inibire l'attività
dell'apicoltore chi alleva api in un contesto abitativo.
L'ordinanza del sindaco infatti è una misura estrema che
deve essere utilizzata solo in casi di vero pericolo per
l'incolumità pubblica.
Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza 19.05.2016 n. 2090.
Il sindaco di un comune
del Salento ha imposto a un allevatore di api la rimozione
dell'impianto di produzione del miele a causa del disagio
provocato ai residenti. Contro questa determinazione
comunale l'interessato ha proposto con successo ricorso ai
giudici di palazzo Spada che hanno accolto le indicazioni
dell'agricoltore.
L'esercizio dell'apicoltura è disciplinato
dall'art. 896-bis del codice civile. Questo non significa
che il sindaco non abbia facoltà di intervento ai sensi
dell'art. 54 del Tuel. Solo che l'ordinanza urgente di
divieto deve essere proporzionata alla complessità delle
situazioni da gestire
(articolo ItaliaOggi del 14.06.2016). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Cumulo istanze con lo scaglione più favorevole al
professionista.
Nel caso in cui ci fosse cumulo tra una domanda di valore
determinato e un'altra di valore indeterminabile verrà
applicato lo scaglione tariffario più favorevole
all'avvocato.
È quanto stabilito dai giudici della II Sez. civile della
Corte di Cassazione con la
sentenza
16.05.2016 n. 9975.
In tema, poi, di onorari di avvocato e procuratore altro
tema importante è quello relativo alla ricerca di documenti
che va a costituire una prestazione di ordine intellettuale
che non va assolutamente confusa con l'attività meramente
materiale mediante la quale siano messi a disposizione
dell'avvocato i documenti da questi indicati.
Anche di recente (Cass. 01/02/2013 n. 2481) gli Ermellini
hanno ribadito che quella dell'avvocato in questo caso è una
prestazione d'ordine intellettuale che non va confusa con
l'attività meramente materiale con la quale i documenti sono
messi a disposizione del professionista. Tale attività si
inserisce tra l'attività di studio della controversia e
quella relativa alla consultazione con il cliente ed è
normalmente seguita dalla preparazione e redazione dell'atto
introduttivo del giudizio.
Ciò posto, è consequenziale e
logico il mancato riconoscimento da parte del giudice «a
quo» degli onorari e dei diritti per le attività di studio
non richieste e per la «ricerca di documenti», trattandosi
appunto di atti finalizzati alla redazione dell'atto
introduttivo, che, nella fattispecie, era stato scritto da
altro legale.
È evidente pertanto che il riconoscimento di tale compenso è
legato alla necessità di dover esaminare e valutare
l'esistenza di eventuali documenti utili alla difesa del
proprio assistito, nella fase che precede immediatamente la
redazione dell'atto introduttivo.
In una sentenza alquanto articolata, i giudici di piazza
Cavour hanno altresì ribadito che costituisce principio
costantemente ribadito dalla Cassazione stessa quello
secondo cui (cfr. ex multis Cass. 26/03/2012 n. 4787)
nel giudizio di Cassazione, che ha per oggetto solo la
revisione della sentenza in rapporto alla regolarità formale
del processo e alle questioni di diritto proposte, «non
sono proponibili nuove questioni di diritto o temi di
contestazione diversi da quelli dedotti nel giudizio di
merito, a meno che si tratti di questioni rilevabili di
ufficio o, nell'ambito delle questioni trattate, di nuovi
profili di diritto compresi nel dibattito e fondati sugli
stessi elementi di fatto dedotti»
(articolo ItaliaOggi Sette del 06.06.2016). |
APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI: Class
action, niente conflitti di interessi. Sentenza del
tribunale amministrativo regionale per la Basilicata.
I giudici del TAR Basilicata (sentenza
14.05.2016 n. 470) hanno trattato il tema del ricorso collettivo,
sottolineando che è ammissibile quando vi sia identità di
posizioni sostanziali e processuali dei ricorrenti e non
appaia individuabile alcun conflitto di interessi tra i
medesimi, in rapporto a domande giudiziali fondate sulle
stesse ragioni difensive, nonché ad atti che abbiano lo
stesso contenuto sostanziale.
Nella sentenza in commento si è, inoltre, trattato dell'art.
24, n. 7, della legge n. 241/1990, secondo cui deve comunque
essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti
amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o
per difendere i propri interessi giuridici, precisando che
l'acquisizione documentale in questione è intesa
all'eventuale esperimento di rimedio giurisdizionale avverso
la mancata assunzione.
Anche perché un orientamento dettato dalla giurisprudenza
amministrativa in proposito ha espresso che: «Il diritto di
accesso non costituisce una pretesa meramente strumentale
alla difesa in giudizio della situazione sottostante,
essendo in realtà diretto al conseguimento di un autonomo
bene della vita così che la domanda giudiziale tesa a
ottenere l'accesso ai documenti è indipendente non solo
dalla sorte del processo principale nel quale venga fatta
valere l'anzidetta situazione (Cons. stato, sez. VI del 12.04.2005 n. 1680) ma anche dall'eventuale infondatezza o
inammissibilità della domanda giudiziale che il richiedente,
una volta conosciuti gli atti, potrebbe proporre (Cons.
stato, sez. VI, 21.09.2006 n. 5569)» (cfr. Cds, sez.
V, 23.02.2010, n. 1067).
Inoltre, i giudici lucani hanno rimarcato come l'interesse
all'accesso ai documenti debba essere valutato in astratto,
senza che possa essere operato alcun apprezzamento circa la
fondatezza o ammissibilità della domanda giudiziale che gli
interessati potrebbero eventualmente proporre sulla base dei
documenti acquisiti mediante l'accesso medesimo e quindi la
legittimazione all'accesso non può essere valutata alla
stessa stregua di una legittimazione alla pretesa
sostanziale sottostante (cfr. Tar. Veneto, sez. I,
26.02.2016, n. 220)
(articolo ItaliaOggi Sette del 06.06.2016).
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MASSIMA
5. Appare sussistere la legittimazione dei richiedenti a
conseguire la documentazione richiesta, vantando questi
ultimi una posizione differenziata discendente dall’essere
stati dipendenti dell’impresa che ha svolto il servizio in
questione fino all’aggiudicazione della nuova procedura di
affidamento, e dal preteso obbligo in capo
all’aggiudicataria, derivante dagli atti di gara, di
assumerli nel proprio organico. Risulta dunque integrato il
presupposto inerente l’interesse diretto, concreto ed
attuale in capo a parte ricorrente ad accedere ai documenti
richiesti.
5.1. In tal senso, va rilevato che l’Amministrazione
intimata, nelle proprie comunicazioni di diniego, nulla ha
osservato in relazione all’insussistenza di tale obbligo.
D’altro canto, l’accesso alla
documentazione prodotta in gara dall’impresa affidataria di
un appalto non è preclusa ai soggetti che non abbiano preso
parte alla procedura
(cfr. C.d.S., sez. VI, 30.07.2010, n. 5602).
5.2. Quanto all’oggetto della richiesta, ovverosia l’offerta
tecnica ed economica dell’impresa prima graduata, è
incontroverso che la procedura comparativa in questione si
sia conclusa, sicché non opera il differimento contemplato
dall’art. 13, n. 2, del d.lgs. n. 163/2006. Inoltre, né
dagli atti di causa, né dal diniego di parte resistente,
emerge che gli atti richiesti integrino i casi per i quali
il n. 5 dello stesso art. 13 esclude il diritto di accesso.
5.3. Gli istanti, inoltre, hanno espressamente invocato
l’art. 24, n. 7, della legge n. 241/1990, secondo cui deve
comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai
documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria
per curare o per difendere i propri interessi giuridici,
precisando che l’acquisizione documentale in questione è
intesa all’eventuale esperimento di rimedio giurisdizionale
avverso la mancata assunzione.
In proposito, si è osservato in giurisprudenza che: “il
diritto di accesso non costituisce una pretesa meramente
strumentale alla difesa in giudizio della situazione
sottostante, essendo in realtà diretto al conseguimento di
un autonomo bene della vita così che la domanda giudiziale
tesa ad ottenere l’accesso ai documenti è indipendente non
solo dalla sorte del processo principale nel quale venga
fatta valere l’anzidetta situazione (Cons. Stato, sez. VI
del 12.04.2005 n. 1680) ma anche dall’eventuale infondatezza
od inammissibilità della domanda giudiziale che il
richiedente, una volta conosciuti gli atti, potrebbe
proporre (Cons.
Stato, sez. VI, 21.09.2006 n. 5569)”
(cfr. C.d.S., sez. V, 23.02.2010, n. 1067).
A quanto sopra consegue che l’interesse
all’accesso ai documenti deve essere valutato in astratto,
senza che possa essere operato, con riferimento al caso
specifico, alcun apprezzamento in ordine alla fondatezza o
ammissibilità della domanda giudiziale che gli interessati
potrebbero eventualmente proporre sulla base dei documenti
acquisiti mediante l’accesso medesimo e quindi la
legittimazione all’accesso non può essere valutata alla
stessa stregua di una legittimazione alla pretesa
sostanziale sottostante
(cfr. TAR Veneto, sez. I, 26.02.2016, n. 220).
5.4. Coglie nel segno, infine, la dedotta censura di carenza
di istruttoria e di motivazione, posto che il Comune
intimato, nelle note impugnate, si è meramente limitato a
comunicare che il legale rappresentante della società
controinteressata, in sede di procedimento attivato ai sensi
dell’art. 3 del d.P.R. n. 184/2006: “ha disposto il
diniego di accesso agli atti”, senza svolgere alcuna
autonoma valutazione in relazione a quanto rappresentato da
quest’ultimo.
Sul punto, peraltro, ritiene il Collegio che le ragioni
ostative recate dalle impugnate note di diniego vadano
disattese, in quanto sussistono i
presupposti di legge per l’accesso, le istanze sono
sufficientemente motivate e i documenti richiesti risultano,
nella specie, agevolmente identificabili.
6. Dalle considerazioni che precedono discende
l’accoglimento del ricorso e, per l’effetto, l’annullamento
delle impugnate note di diniego e la declaratoria
dell’obbligo del Comune resistente di consentire a parte
ricorrente di prendere visione ed estrarre copia, previo
rimborso dei relativi costi, degli atti indicati nelle
istanze di accesso di cui trattasi, nel termine di giorni
trenta decorrente dalla comunicazione o, se a questa
anteriore, dalla notificazione della presente decisione.
In sede di esercizio del diritto di accesso,
l’Amministrazione intimata valuterà l’eventuale sussistenza
di profili di segretezza tecnica e commerciale della
documentazione richiesta, ove risultanti da motivata
dichiarazione prodotta in sede di presentazione
dell’offerta, avendo cura di evitarne l’ostensione tramite
idonei accorgimenti tecnici, quali l’apposizione di c.d. “omissis”. |
ATTI AMMINISTRATIVI - INCARICHI PROFESSIONALI: Chi
soccombe pagherà al legale i diritti professionali post
sentenza.
La parte soccombente deve all'avvocato tutti i diritti
professionali che nasceranno dopo la sentenza.
È quanto emerge dalla
sentenza
13.05.2016 n. 9933 pronunciata dai giudici della Sez.
VI civile della Corte di Cassazione.
I giudici di piazza Cavour sono stati chiamati a esprimersi
su un caso in cui un soggetto aveva proposto opposizione a
precetto e questa veniva rigettata dal giudice del tribunale
e la Corte d'appello parzialmente accoglieva tale istanza.
Secondo i giudici della Corte d'appello era da dichiarare
parzialmente inefficace l'atto di precetto nella parte in
cui si trattava della quantificazione delle spese, diritti e
onorari.
Gli Ermellini hanno posto l'accento sul fatto che il
ricorrente trascurava di considerare che, per la fase di
esecuzione, la tariffa invocata (che è quella applicabile
ratione temporis di cui al dm n. 127 del 2004) prevedeva, al
punto 74 della parte 2ª della tabella B, che «per ogni altra
prestazione concernente il processo di esecuzione e i
procedimenti concorsuali, non prevista nel presente
paragrafo e per i giudizi a cui diano luogo i processi
medesimi, sono dovuti gli onorari e i diritti stabiliti nel
paragrafo concernente le corrispondenti prestazioni»: e ciò
fonda, anche dal punto di vista testuale, l'astratta
ammissibilità anche in sede esecutiva o pre-esecutiva delle
voci previste con riferimento al processo ordinario di
cognizione (così Cass. n. 13482/2011).
E inoltre il ricorrente non tiene conto del principio
generale della tariffa, riferito espressamente agli onorari
ma facilmente estensibile anche ai diritti, contenuto
nell'art. 5, comma 6, del testo normativo premesso alla
tariffa, a mente del quale «la liquidazione ... deve
essere fatta in relazione a tutte le prestazioni
effettivamente occorse ogni volta che vi sia stata una
decisione anche se espressa con ordinanza collegiale o con
sentenza non definitiva»; quindi dopo qualsivoglia
decisione presa in sede cognitiva sono astrattamente
remunerabili tutte le attività poste in essere dal difensore
anche prima della predisposizione dei precetto (cfr. Cass.
n. 1348/2111 cit.).
Pertanto, risultava ai giudici della Cassazione estremamente
generico l'assunto del ricorrente basato sulla non
inclusione della singola voce tra quelle previste per il
processo esecutivo, laddove lo stesso avrebbe dovuto
argomentare tenendo presenti (anche) le norme di legge e di
tariffa richiamate
(articolo ItaliaOggi Sette del 06.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
5.- Per ogni altro aspetto i motivi, così come
prospettati nel ricorso, sono inammissibili poiché si
limitano a riportare il contenuto dell'atto di precetto e
quello delle tariffe forensi, senza contenere l'argomentata
e specifica illustrazione delle ragioni del ricorrente.
Risulta violato il disposto dell'art. 360 n. 4 cod. proc.
civ., che va interpretato nel senso che il
ricorso per cassazione deve contenere, a pena di
inammissibilità, i motivi per i quali si richiede la
cassazione, aventi i caratteri di specificità, completezza e
riferibilità alla decisione impugnata, il che comporta
l'esposizione di ragioni che illustrino in modo
intelligibile ed esauriente le dedotte violazioni di norme o
principi di diritto, ovvero le carenze della motivazione
(cfr. Cass. n. 13259/2006).
Siffatta illustrazione non si rinviene nel ricorso in esame,
in cui l'assunto del ricorrente secondo cui le voci di
diritti ed onorari contestate non sarebbero applicabili al
processo esecutivo si ferma alla mera affermazione dello
stesso ricorrente, non essendo questa specificamente
supportata dal rinvio alla sola elencazione delle voci della
tariffa relative al processo di esecuzione.
In particolare, il ricorrente trascura di considerare che,
per la fase di esecuzione, la tariffa invocata (che è quella
applicabile ratione temporis di cui al D.M. n. 127
del 2004) prevede, al punto 74 della parte 2^ della tabella
B, che "per ogni altra prestazione
concernente il processo di esecuzione ed i procedimenti
concorsuali, non prevista nel presente paragrafo e per i
giudizi a cui diano luogo i processi medesimi, sono dovuti
gli onorari e i diritti stabiliti nel paragrafo concernente
le corrispondenti prestazioni":
cosa che fonda, anche dal punto di vista testuale,
l'astratta ammissibilità anche in sede esecutiva o
pre-esecutiva delle voci previste con riferimento al
processo ordinario di cognizione (così Cass. n. 13482/2011);
ancora, il ricorrente non tiene conto del principio generale
della tariffa, riferito espressamente agli onorari ma
facilmente estensibile anche ai diritti, contenuto nell'art.
5, comma 6, del testo normativo premesso alla tariffa, a
mente del quale "la liquidazione .. deve
essere fatta in relazione a tutte le prestazioni
effettivamente occorse ogni volta che vi sia stata una
decisione anche se espressa con ordinanza collegiale o con
sentenza non definitiva";
quindi dopo qualsivoglia decisione presa in sede cognitiva
sono astrattamente remunerabili tutte le attività poste in
essere dal difensore anche prima della predisposizione del
precetto (cfr. Cass. n. 13482/2011 cit., in motivazione).
Pertanto, estremamente generico è l'assunto del ricorrente
basato sulla non inclusione della singola voce tra quelle
previste per il processo esecutivo, laddove lo stesso
avrebbe dovuto argomentare tenendo presenti (anche) le norme
di legge e di tariffa richiamate. |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
Via all'istruttoria entro 60 giorni. APPALTI/
Revisione del prezzo nelle scuole.
Via all'istruttoria entro 60 giorni. Le scuole devono aprire
entro il termine indicato dal giudice la procedura per la
revisione del prezzo dell'appalto di pulizia per ogni anno
di attività imprenditoriale che l'azienda ha passato al
servizio dell'amministrazione. E ciò perché il meccanismo di
adeguamento sulla base di indici Istat è previsto dalla
legge e dal contratto e avvantaggia entrambe le parti: i
dirigenti pubblici non possono rifiutarsi di procedere.
Così la
sentenza
12.05.2016 n. 5667 del TAR Lazio-Roma, Sez.
III-bis.
Accolto il ricorso
dell'impresa contro una serie di istituti scolastici che nei
fatti si sono sempre sottratti all'obbligo. Per gli appalti
di durata l'articolo 115 del codice dei contratti pubblici
prevede un meccanismo che a determinate scadenze e
condizioni consente di definire un «nuovo» corrispettivo per
le prestazioni oggetto del contratto; il tutto per tenere
conto della dinamica dell'inflazione registrata in un dato
arco temporale.
Il parametro è l'indice semestrale Istat
sull'andamento dei prezzi dei principali beni e servizi
acquisiti dalle pubbliche amministrazioni, ma si può fare
riferimento al Foi, l'indice pubblicato ogni mese
dall'istituto con la variazione dei prezzi per le famiglie
di operai e impiegati.
I benefici dell'applicazione vanno a entrambi i contraenti
perché per l'appaltatore l'alea dei contratti di durata si
riduce, mentre la stazione appaltante si mette al riparo dal
pericolo che la prestazione possa peggiorare per quantità o
qualità laddove divenisse troppo onerosa o poco remunerativa
per l'impresa
(articolo ItaliaOggi del 18.06.2016).
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MASSIMA
Si premette in punto di fatto quanto segue.
La ricorrente, nella qualità di mandataria capogruppo
dell’A.T.I. con la società La Lu. s.r.l., ha stipulato con
l’U.S.R. Abruzzo, in data 12.09.2007, un contratto normativo
avente ad oggetto il servizio di pulizia presso gli istituti
scolastici della regione, in quanto dichiarata, con il
provvedimento di cui al prot. n. AOO-DRAB3156
dell’11.07.2007, aggiudicataria della procedura di gara
indetta con il bando del 30.06.2006, pubblicato in G.U.R.I.
dell’11.07.2006 e in G.U.C.E. del 05.07.2006, adottato in
attuazione della direttiva M.I.U.R. del 28.7.2005.
Il predetto contratto normativo disponeva, all’articolo 12,
comma 2, testualmente che “I prezzi di aggiudicazione
resteranno invariati per il primo anno di validità del
Contratto attuativo. Decorsi i primi 12 mesi dalla stipula
del Contratto attuativo, ciascun Contraente potrà effettuare
una revisione dei prezzi pattuiti ai sensi dell’art. 6 della
legge 537/1993, come sostituito dall’art. 44 della legge n.
724/1994; tale revisione andrà a valere sul secondo anno
(successivi 12 mesi) di validità del Contratto attuativo
come specificato nel Capitolato tecnico.”; e, al
successivo comma 3, che “L’Assuntore non potrà vantare
diritto ad altri compensi, ovvero ad adeguamenti, revisioni
o aumenti dei corrispettivi come sopra indicati, salvo
quanto previsto dal precedente comma 2.”.
In attuazione del predetto contratto normativo sono stati,
quindi, stipulati tra la ricorrente e i singoli istituti
scolastici della regione, nelle date indicate nei singoli
contratti prodotti in copia agli atti soltanto nella pagina
iniziale e finale, i predetti contratti attuativi della
durata di tre anni i quali, alla scadenza nel mese di aprile
2011, sono stati prorogati fino al mese di febbraio 2014.
La società ha, quindi, proceduto a emettere e trasmettere ai
singoli istituti scolastici, in data 31.10.2013, le fatture,
come da elenco in copia agli atti, aventi ad oggetto
specificatamente la revisione dei prezzi relativamente al
periodo aprile 2009-giugno 2013, sollecitandone il relativo
pagamento.
Alla suddetta richiesta di pagamento delle fatture emesse da
parte della società ricorrente, gli istituti scolastici
hanno dato riscontro esplicito soltanto in parte, nei sensi
indicati in ricorso.
In particolare, mentre la maggior parte degli istituti sono
rimasti assolutamente silenti, invece gli altri vi hanno
dato riscontro negativo adducendo motivazioni diversificate
ne termini che seguono:
- alcuni istituti hanno dedotto che i singoli contratti
attuativi non contenevano, in realtà, alcun riferimento alla
revisione dei prezzi;
- altri istituti hanno, invece, dato atto
dell’indisponibilità delle somme relative in quanto non
rientranti nel budget assegnato dal Ministero, invitando
contestualmente il M.I.U.R. a corrispondere le predette
somme;
- infine, i rimanenti istituti hanno dato atto che le somme
assegnate dal M.I.U.R. erano già comprensive sia di I.V.A.
che di adeguamento I.S.T.A.T..
Da quanto esposto consegue che, sulla base del richiamato
contratto normativo, la revisione dei
prezzi era espressamente prevista a decorrere dal secondo
anno di durata del singolo contratto attuativo e che,
tuttavia, i singoli istituti o non hanno proprio dato
riscontro alla relativa richiesta della ricorrente oppure vi
hanno dato riscontro negativo sulla base della valutazioni
diversificate di
cui in precedenza.
In punto di diritto rileva che:
- l’art. 115 del d.lgs. n. 163 del 2006 dispone che: a) “tutti”
i contratti ad esecuzione periodica o continuativa relativi
a servizi e forniture “debbono” contenere una
clausola di revisione periodica del prezzo; b) la revisione
“viene operata” sulla base di un’istruttoria fondata
sui dati di cui all’art. 7, comma 4, lett. c), e comma 5,
del medesimo d.lgs.;
- in particolare, è previsto che l’attività di revisione dei
prezzi deve essere svolta dai dirigenti della stazione
appaltante, responsabili della acquisizione dei beni e
servizi, sulla base dei dati rilevati e pubblicati
semestralmente dall'Istat sull'andamento dei prezzi dei
principali beni e servizi acquisiti dalle pubbliche
amministrazioni;
- sulla base di consolidata giurisprudenza del giudice
amministrativo in materia, poi, a fronte
della mancata pubblicazione da parte dell'I.S.T.A.T., la
revisione prezzi deve essere effettuata utilizzando l'indice
(medio del paniere) di variazione dei prezzi per le famiglie
di operai e impiegati (c.d. indice Foi) mensilmente
pubblicato dal medesimo Istat
(Cons. St., sez. V, 08.05.2002, n. 2461; Tar Lecce, sez. II,
09.02.2012, n. 262);
- il predetto articolo 115 del d.lgs. n. 163 del 2006, il
quale è entrato in vigore in data 01.07.2006 (e che,
peraltro, riproduce l’art. 6, comma 4, della l. 24.12.1993,
n. 537, abrogato per effetto dell’art. 256, comma 1, del
d.lgs. n. 163 del 2006), è applicabile ratione temporis
alla fattispecie in esame, sia in relazione alla data di
stipula del contratto normativo di cui trattasi che all’anno
a decorrere dal quale, sulla base del medesimo, era
obbligatorio effettuare la revisione dei prezzi;
- il legislatore ha imposto una sequenza
che rende obbligatori non soltanto l’inserzione automatica
nel contratto della clausola di revisione, ma anche il suo
concreto svolgimento sul piano procedimentale, non avendo
senso imporre per legge una norma integrativa del contratto,
non dispositiva ma cogente, per poi consentire che la stessa
resti disapplicata perché, alla prefissata scadenza, non
viene attivata la procedura revisionale, vanificando così
l’effettività dell’inserzione automatica della clausola e
corollario obbligato di tale premessa è che la revisione
deve essere sempre svolta, mediante attivazione del relativo
procedimento, anche se questo si conclude con l’invarianza
dei prezzi contrattuali se a questo risultato conduca
l’istruttoria
(cfr., nei termini, TAR Lazio-Roma, sez. III-quater, n.
2952/2014);
- segue da ciò che la procedura revisionale
non è discrezionale né nell’an né tanto meno nel
quantum, costituendo quest’ultimo il risultato di una
ricognizione di dati che, per la loro obiettività e per la
fonte da cui pervengono, s’impongono sia alla stazione
appaltante che all’appaltatore;
- l’articolo 115 prevede, dunque, espressamente che
la stazione appaltante è obbligata ad effettuare
annualmente un’istruttoria basata, sulla base dello stesso
articolo 115, direttamente e soltanto sui dati di cui
all’articolo 7 dello stesso d.lgs.n. 163 del 2006.
In conclusione, la previsione di un
meccanismo di revisione del prezzo di un appalto di durata
su base periodica è la riprova che la legge ha inteso munire
i contratti di forniture e servizi di un meccanismo che a
cadenze determinate comporti -all’occorrenza e sussistendo i
richiesti presupposti- la definizione di un "nuovo"
corrispettivo per le prestazioni oggetto del contratto
conseguente alla dinamica dei prezzi registrata in un dato
arco temporale, con beneficio per entrambi i contraenti,
poiché l’appaltatore vede ridotta, anche se non eliminata,
l’alea propria dei contratti di durata e la stazione
appaltante vede diminuito il pericolo di un peggioramento
della qualità o quantità di una prestazione divenuta per
l’appaltatore eccessivamente onerosa o, comunque, non
remunerativa
(cfr., nei termini, ancora, TAR Lazio-Roma, sez. III-quater,
n. 2952/2014; nonché, in materia, Cons. St., sez. III,
19.07.2011, n. 4362; Tar Lecce, sez. III, 13.09.2013, n.
1926).
Da quanto diffusamente in precedenza esposto, e proprio
nella considerazione che l’attivazione del procedimento di
verifica e lo svolgimento della necessaria istruttoria
costituiscono un preciso e inderogabile dovere per la
stazione appaltante, consegue che il ricorso è fondato nella
parte in cui la ricorrente chiede, nella sostanza e innanzi
tutto, che il giudice adito accerti e dichiari il suo
diritto -normativamente e contrattualmente riconosciuto-
all’attivazione concreta della procedura di revisione per
ciascuno degli anni di attività imprenditoriale svolta al
servizio della stazione appaltante, obbligo alla quale
questa, invece, sempre nella sostanza, si è, in realtà,
sottratta.
E, infatti, in applicazione della norma
primaria (art. 115, d.lgs. n. 163 del 2006, che peraltro
riproduce l’art. 6, comma 4, l. 24.12.1993, n. 537) e del
contratto normativo (art. 12) la stazione appaltante era
obbligata a verificare puntualmente la necessità di
procedere alla revisione prezzi e, in caso affermativo, alla
sua liquidazione e, ancora di più, una volta che il relativo
procedimento sia stato eventualmente avviato su istanza di
parte, lo stesso deve necessariamente essere concluso da
parte dell’amministrazione competente mediante l'adozione di
un provvedimento espresso, di contenuto positivo o negativo,
ampiamente motivato e, soprattutto, fondato su dati
accertati, documentati e, quindi, non obiettivamente
contestabili.
Nella fattispecie, invece, come in precedenza rilevato, i
singoli istituti o non hanno proprio dato alcun esplicito
riscontro alla relativa richiesta della ricorrente
dell’ottobre 2013 o vi hanno, invece, dato riscontro
negativo ma con motivazioni che non attengono specificamente
al merito della richiesta formulato.
E, peraltro, i suddetti ultimi atti di riscontro negativo
non sono stati, comunque, fatti oggetto di specifica
impugnazione da parte della società ricorrente, la quale si
è limitata a richiamarli in ricorso nella parte relativa
all’esposizione in punto di fatto (cfr., C.d.S., n.
5779/201; TAR Piemonte-Torino, n. 1432/2015).
Il ricorso è, invece, da disattendere nella parte in cui,
nella sostanza, la ricorrente chiede al Collegio giudicante
di intimare alle amministrazioni resistenti di pagarle le
differenze di prezzo che essa stessa ha autonomamente
quantificato con riferimento ad ogni anno di servizio, sulla
base di documenti asseritamente ufficiali, e come
esattamente quantificate nelle fatture richiamate e allegate
in copia al ricorso.
E, tuttavia, al riguardo, deve rilevarsi che, sulla base
della richiamata normativa, emerge che sia
la fase istruttoria che la successiva fase determinativa
della procedura revisionale rientrano, per legge e per
contratto, nell’esclusiva competenza della stazione
appaltante, autorità alla quale si deve l’adozione del
provvedimento finale che riconosca o nega l’aumento dei
prezzi.
Né potrebbe fondatamente ritenersi che, nella persistente
inerzia della stazione appaltante, spetterebbe alla stessa
ricorrente definire il se e il quanto dovutole al titolo che
interessa, proprio sulla base di quanto in precedenza
rilevato al riguardo.
Il ricorso deve, pertanto, essere accolto nei sensi di cui
sopra con il conseguente obbligo per i singoli istituti
scolastici di procedere all’attivazione del procedimento di
revisione dei prezzi di cui all’art. 115 del d.lgs. n. 163
del 2006, entro sessanta giorni dalla notificazione o, se
anteriore, dalla comunicazione in via amministrativa della
presente sentenza. |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Funzioni pubblicistiche extra. Per il compenso
non si applicano le tariffe forensi. AVVOCATI/ La Cassazione
rigetta l'opposizione proposta da un'azienda sanitaria.
Qualora un avvocato esplichi funzioni pubblicistiche, quale
quella di componente della commissione giudicatrice di
appalti, avrà diritto a un compenso per il quale non saranno
applicabili le tariffe professionali forensi.
Lo hanno sottolineato i giudici della II Sez. civile della
Corte di Cassazione con la
sentenza
11.05.2016 n. 9659.
Con sentenza il tribunale rigettava l'opposizione proposta
dalla Azienda unità sanitaria locale contro il decreto
emesso dal tribunale medesimo su ricorso dell'avvocato
Tizio, il quale, nominato dall'Azienda predetta componente
della commissione giudicatrice di un appalto, aveva chiesto
la liquidazione del compenso prestato in seno a detta
commissione in base alle tariffe forensi e su parcella
vistata dall'Ordine.
La Corte d'appello, con sentenza rigettava la domanda svolta
con il ricorso monitorio dall'avvocato Tizio, condannando
quest'ultimo a rifondere alla Ausl le spese del doppio grado
di giudizio.
L'avvocato ha, quindi, proposto ricorso in Cassazione,
asserendo che il rapporto si era instaurato secondo le
regole normative per la formazione delle commissioni
giudicatrici degli appalti concorso e tuttavia ne era
rimasta esclusa l'applicabilità delle norme di riferimento
per la determinazione dei compensi, non essendo il
professionista tenuto ad assoggettarsi a tale
determinazione, non avendola espressamente accettata, sicché
il compenso avrebbe dovuto essere determinato secondo la
tariffa forense.
Secondo i giudici di piazza Cavour le tariffe professionali
degli avvocati sono applicabili «solo per quelle attività
tecniche, o comunque collegate con prestazioni di carattere
tecnico, che siano considerate nella tariffa, oggettivamente
proprie della professione legale in quanto specificamente
riferite alla consulenza o assistenza delle parti in affari
giudiziari o extragiudiziari, e non possono essere,
pertanto, applicate, solo perché rese da un professionista
iscritto all'albo, alle prestazioni svolte nell'ambito di
una commissione mista, i cui atti siano imputabili
esclusivamente all'organo collegiale (Cass., sez. I, 13.12.2013, n. 27919; Cass., sez. I, 10.02.2014, n.
2966)».
Pertanto il compenso all'avvocato per la sua attività di
componente della commissione giudicatrice dell'appalto
concorso deve essere liquidato, non già applicando le
tariffe professionali forensi, bensì secondo la misura
stabilita dall'assessore regionale per i lavori pubblici, al
quale spetta provvedere alla relativa determinazione
(articolo ItaliaOggi Sette del 06.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
VARI: Durata
del fermo, il Tar è muto. Competenza in caso di contenzioso
al giudice ordinario. Revoca patente, sentenza del tribunale
amministrativo regionale dell'Emilia Romagna.
Il periodo di fermo obbligato per il conducente incappato
nel reato di guida alterata lo dispone il giudice mentre il
prefetto lo formalizza al trasgressore senza
discrezionalità. Per questo motivo la competenza in caso di
contenzioso sul periodo di inibizione alla guida spetta al
giudice ordinario.
Lo ha stabilito il Tar Emilia-Romagna, Sez. I, con la
sentenza
06.05.2016 n. 500.
La legge 120/2010 ha inasprito le conseguenze della guida
alterata dall'alcol e dalla droga prevedendo la revoca per
tre anni per i conducenti più negligenti. È il caso per
esempio degli autotrasportatori professionali trovati
gravemente alterati dall'alcol o sotto l'influenza di
sostanze stupefacenti. Oppure più semplicemente di chiunque
provochi un incidente con una quantità elevata di alcol nel
sangue o sotto l'effetto di droghe.
L'indicazione letterale
dell'art. 219/3-ter cds però ha aperto dubbi sulla data di
concreta applicazione della misura inibitoria. Specifica
infatti questo articolato che quando la revoca della patente
è disposta a seguito delle violazioni di cui agli articoli
186, 186-bis e 187, non è possibile conseguire una nuova
patente di guida prima di tre anni a decorrere dalla data di
accertamento del reato. Ovvero con riguardo al passaggio in
giudicato della sentenza penale. Recenti pronunce
giurisprudenziali però sostengono il contrario. Cioè che il
triennio di guida vietata decorre dalla data di accertamento
dell'infrazione. E in ogni caso tra sospensione cautelare e
revoca non si può andare oltre al triennio di fermo
complessivo.
Nel caso esaminato dal collegio un automobilista dopo oltre
quattro anni dal sinistro si è visto rigettare la richiesta
di ammissione all'esame di scuola guida. Contro questa
decisione, supportata dall'atto di revoca triennale della
prefettura, disposto a decorrere dalla data del passaggio in
giudicato della sentenza, l'interessato ha proposto censure
ma il collegio ha dichiarato la propria incompetenza.
Siccome la controversia si incentra sulla durata
dell'inibizione alla guida disposta dal prefetto senza
discrezionalità a seguito della sentenza di condanna,
spetterà al giudice ordinario decidere
(articolo ItaliaOggi Sette del 06.06.2016). |
INCARICHI PROGETTUALI:
Progettista escluso dalla gara per i lavori della
propria opera.
Se un professionista che ha redatto un progetto su incarico
di una stazione appaltante figura nell'organigramma di un
concorrente o fa parte di una sua controllata che partecipa
alla gara per i lavori dell'opera progettata, il concorrente
va escluso; il principio vale anche se il professionista,
che ha predisposto la progettazione posta a base di gara, fa
parte di una impresa ausiliaria che ha prestato i requisiti
per la progettazione.
È quanto ha stabilito il Consiglio di Stato (Sez. V,
sentenza 05.05.2016 n. 1817) con riferimento a una
fattispecie in cui si trattava di applicare il divieto (per
l'affidatario della progettazione posta a base di gara) di
partecipare all'appalto per i lavori dell'opera progettata
di cui al comma 8 dell'articolo 90 del vecchio codice
163/2006, norma peraltro riprodotta integralmente
all'articolo 24 del decreto 50/2016 (il nuovo codice dei
contratti pubblici).
Per i giudici è indiscutibile che la commistione di ruoli
che la norma mira a prevenire è comunque ravvisabile laddove
colui che ha svolto incarichi di progettazione per conto
della stazione appaltante sia comunque presente, non importa
a che titolo, nell'organigramma aziendale dell'impresa
concorrente, o in sue società controllanti, partecipanti o
di cui si avvale nell'esecuzione dei lavori.
E in questo
caso il progettista era responsabile tecnico di una società
partecipante al 48% del capitale del consorzio concorrente,
nonché ausiliaria per i requisiti di capacità tecnica,
economica e professionale concernenti la progettazione.
Constatata la violazione del divieto la sentenza dimostra
anche che da questa partecipazione sono derivati vantaggi
competitivi per il concorrente.
Per i giudici un elemento tale da rendere concreta la
lesione della par condicio (e quindi da configurare una
alterazione della concorrenza derivante dalla posizione di
vantaggio del progettista) è rappresentato dal fatto che
l'offerta del concorrente (che si è avvalso del progettista)
aveva conseguito il punteggio più alto per l'offerta
temporale per la realizzazione dei lavori di adeguamento
impiantistico e dunque aveva realizzato un vantaggio «nel
segmento nel quale lo svolgimento della pregressa attività
di progettazione si rivela maggiormente in grado di
orientare la formulazione dell'offerta»
(articolo ItaliaOggi del 10.06.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La strada di campagna non esclude l'uso pubblico.
Il privato che ottiene il via libera all'allargamento del
sentiero comunale per la realizzazione di uno scivolo
carrabile non può contestualmente limitarne il passaggio
agli altri utenti. Al massimo potrà richiedere una licenza
di passo carrabile per agevolare il passaggio dei veicoli.
Lo ha chiarito il TAR Lombardia-Milano, Sez. II, con la
sentenza
04.05.2016 n.
868.
Un privato ha ottenuto dal comune la regolare licenza
edilizia necessaria per la realizzazione di uno scivolo, in
allargamento di un sentiero comunale, per agevolare l'uso
del proprio garage con i mezzi a motore.
Contestualmente alla realizzazione del manufatto però il
cittadino ha anche installato dei paletti a delimitazione
della proprietà oggetto di un provvedimento urgente di
rimozione da parte del sindaco. Contro questa determinazione
l'interessato ha proposto ricorso ma senza successo.
L'assenso comunale è limitato alla realizzazione dello
scivolo. Non anche alla limitazione dell'uso pubblico del
sentiero, di proprietà comunale, da sempre destinato a uso
pubblico. Per evitare l'ostruzione del varco sarà
sufficiente richiedere un regolare passo carrabile, conclude
il Tar
(articolo ItaliaOggi del 07.06.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Ristrutturazioni
thrilling. Inibitoria anche con Dia-Scia consolidata. Il Tar
Lombardia accoglie il ricorso di un proprietario di
immobile.
Anche se la Dia-Scia per i lavori si è consolidata, il
vicino di casa può sempre ottenere l'inibitoria sul progetto
di ristrutturazione della costruzione contigua alla sua se
ha agito entro 60 giorni dal momento in cui si è reso conto
che il titolo edilizio del confinante risulta viziato, dopo
essersi procurato le relativa pratiche.
È quanto emerge dalla
sentenza
15.04.2016 n. 735, pubblicata dalla II Sez. del TAR Lombardia.
Lesione e consapevolezza.
Accolto il ricorso del
proprietario dell'immobile preoccupato per le intenzioni del
vicino, che punta ad abbattere e ricostruire un fabbricato.
Secondo il confinante il progetto contiene violazioni alle
norme sulle distanze minime tra fabbricati oltre che delle
stesse disposizioni urbanistiche.
Per il Comune, invece,
niente da segnalare: «decorsi i termini a seguito della
presentazione della documentazione integrativa», spiega
l'ufficio tecnico, la Dia-Scia ha ormai consolidato i suoi
effetti. E invece no, perché è l'articolo 19, comma 6-ter,
legge 241/1990 a imporre all'amministrazione anzitutto di
riscontrare l'istanza che proviene dal terzo titolare di un
situazione giuridica differenziata, come è il vicino di casa
che vuole bloccare il lavori.
Ma soprattutto il Comune deve
anche bloccare l'opera se risulta che il confinante ha
comunque agito entro sessanta giorni da quando ha avuto
notizia dei profili lesivi dell'intervento: altrimenti il
terzo subirebbe una diminuzione della tutela accordatagli
rispetto a chi sia leso da un permesso di costruire.
Canale unico.
È vero, il riferimento ai 60 giorni di tempo
non risulta dal comma 3-bis dell'articolo 19 della legge
sulla trasparenza: si tratta di un'interpretazione
sistematica perché la diffida prevista dalla norma
costituisce l'unico «canale» percorribile dall'interessato
al fine di ottenere la tutela dal giudice in un secondo
momento.
Obbligo di motivazione.
E se invece sono passati più di due mesi? Il terzo può
sempre chiedere all'ente locale di agire in autotutela.
Anche in questo caso l'amministrazione è tenuta a
pronunciarsi sull'istanza del confinante spiegando i motivi
per i quali non intende esercitare il potere di «rimangiarsi»
il nulla osta all'opera «incriminata».
Spese di giudizio compensate per la novità della questione
(articolo ItaliaOggi Sette del 13.06.2016).
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MASSIMA
8. Al fine di inquadrare correttamente la questione, si
rende necessario chiarire la portata delle previsioni
normative rilevanti nel presente giudizio.
In tale prospettiva, occorre prendere le mosse proprio dalla
sentenza di questa Sezione n. 2799 del 2014, che ha
raggiunto conclusioni che il Collegio condivide e ritiene di
dover ribadire, e che tuttavia non conducono all’esito
sostenuto dal controinteressato, come si dirà.
8.1 Deve anzitutto ricordarsi che
la denuncia d’inizio
attività, secondo quanto autorevolmente chiarito, ormai da
tempo, dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, “non è
un provvedimento amministrativo a formazione tacita e non dà
luogo in ogni caso ad un titolo costitutivo, ma costituisce
un atto privato volto a comunicare l’intenzione di
intraprendere un’attività direttamente ammessa dalla legge”
(Ad. Plen. n. 15 del 2011). Affermazione, questa, che ha poi
trovato piena conferma da parte del legislatore, posto che
l’attuale articolo 19, comma 6-ter, primo periodo della
legge n. 241 del 1990 –introdotto dall'articolo 6, comma 1,
lett. c) del decreto legge 13.08.2011, n. 138,
convertito, con modificazioni, dalla legge 14.09.2011, n. 148– stabilisce espressamente che “La segnalazione
certificata di inizio attività, la denuncia e la
dichiarazione di inizio attività non costituiscono
provvedimenti taciti direttamente impugnabili”.
L’atto non muta tale sua natura neppure dopo il decorso del
termine normativamente previsto per l’esercizio delle
verifiche da parte del Comune.
Conseguentemente, non può sostenersi che, una volta che il
terzo sia venuto a conoscenza del titolo, ormai
consolidatosi per mancato esercizio dei poteri inibitori, lo
stesso terzo disponga di sessanta giorni di tempo per
proporre impugnazione giurisdizionale. E’ vero infatti che
la sussistenza, in tale ipotesi, di un atto impugnabile era
stata autorevolmente sostenuta, sulla base del quadro
normativo allora vigente, dall’Adunanza Plenaria n. 15 del
2011, che aveva ravvisato un provvedimento suscettibile di
tutela giurisdizionale demolitoria nel diniego tacito di
esercizio del potere inibitorio. Tuttavia, le conclusioni
cui era pervenuta l’Adunanza Plenaria sono oggi superate
alla luce delle successive novità legislative e, in
particolare, di quanto ora disposto dal richiamato articolo
19, comma 6-ter, della legge n. 241 del 1990.
In base a quest’ultima disposizione, “(...) Gli interessati
possono sollecitare l'esercizio delle verifiche spettanti
all'amministrazione e, in caso di inerzia, esperire
esclusivamente l'azione di cui all'art. 31, commi 1, 2 e 3
del decreto legislativo 02.07.2010, n. 104”. Previsione,
questa, che come evidenziato dalla giurisprudenza, anche
della Sezione, “vieta sostanzialmente l’impugnazione diretta
della DIA o della SCIA –non costituenti provvedimenti
amministrativi, neppure impliciti– ma consente la sola
tutela giurisdizionale secondo il citato meccanismo di cui
all’art. 31” (TAR Lombardia, Sez. II, 14.01.2014, n.
126).
9. In tale quadro si colloca il tema della tutela del
soggetto che alleghi di essere stato leso dalla denuncia di
inizio di attività presentata da altri.
9.1 Con la richiamata sentenza n. 2799 del 2014, la Sezione
ha, anzitutto, rilevato che i poteri inibitori spettanti
all’amministrazione nei confronti degli interventi oggetto
di una denuncia di inizio di attività vanno esercitati entro
il termine normativamente prescritto, decorso il quale il
“consolidarsi” della d.i.a. determina –di regola–
l’impossibilità per il Comune di intervenire, se non
nell’esercizio dei poteri di autotutela
(Cons. Stato, Sez. VI, 22.09.2014 n. 4780).
Si tratta di conclusioni che trovano ormai pieno riscontro
nell’attuale previsione del comma 4 dell’articolo 19 della
legge n. 241 del 1990, come sostituito dall'articolo 6,
comma 1, lett. a) della legge 07.08.2015, n. 124, in base
al quale,
una volta decorso il termine per l’esercizio del
controllo sulla denuncia o segnalazione certificata di
inizio attività, “l'amministrazione competente adotta
comunque i provvedimenti previsti dal medesimo comma 3 in
presenza delle condizioni previste dall'articolo 21-nonies”.
Disposizione, questa, che è bensì inapplicabile ratione
temporis nel presente giudizio, ma che ha sostanzialmente
codificato gli esiti del dibattito giurisprudenziale sul
punto. E ciò anche avuto riguardo alla natura dei poteri
esercitati dall’amministrazione in quest’ultima ipotesi, che
sono pur sempre di tipo inibitorio, ma subordinatamente al
riscontro dei presupposti per l’intervento in autotutela (in
coerenza con quanto già da tempo autorevolmente chiarito da
Cons. Stato, Sez. VI, 09.02.2009, n. 717).
9.2 Ciò posto, la sentenza della Sezione n. 2799 del 2014 ha
affermato che
l’intervento inibitorio è, tuttavia, da
ritenere doveroso, e non soggetto al ricorrere dei
presupposti propri del potere di autotutela, laddove la
carenza dei presupposti della d.i.a. sia denunciata dal
terzo, titolare di una posizione giuridica qualificata e
differenziata, ai sensi del richiamato comma 6-ter del
medesimo articolo 19.
E ciò
–come già affermato nella sentenza richiamata–
perché è anzitutto il chiaro tenore testuale della
previsione normativa richiamata a non fare alcun riferimento
al decorso del termine per il “consolidarsi” della denuncia
di inizio di attività.
D’altra parte –come pure si è affermato nella sentenza n.
2799 del 2014– “laddove dovesse ritenersi che il terzo,
venuto a conoscenza della d.i.a. dopo il decorso del termine
per il compimento delle verifiche, non possa chiedere
l’esercizio dei poteri inibitori, ne deriverebbe un vulnus
nei confronti della tutela offerta dall’ordinamento nei
confronti di tale soggetto.” Questi, infatti, da un lato non
disporrebbe di alcun provvedimento impugnabile (ostandovi il
chiaro tenore del richiamato comma 6-ter dell’articolo 19)
e, dall’altro, potrebbe solo invocare l’intervento in
autotutela, che è però esercitabile solo in presenza di
precisi presupposti, ulteriori rispetto al mero riscontro
dell’illegittimità.
9.3 La posizione espressa con la sentenza di questa Sezione
n. 2799 del 2014 è stata condivisa e ribadita da numerose
successive pronunce di primo grado (TAR Campania, Napoli,
Sez. III, 05.03.2015, n. 1410; TAR Piemonte, Sez. II, 01.07.2015, n. 1114; TAR Veneto, Sez. II, 12.10.2015,
n. 1038 e n. 1039).
In particolare, la giurisprudenza ha evidenziato che “Una
tale interpretazione appare peraltro obbligata secondo una
lettura costituzionalmente orientata delle norme alla luce
dei principi di pienezza ed effettività della tutela
giurisdizionale sanciti dagli artt. 24, 111 e 113 della
Costituzione, non risultando altrimenti giustificabile,
rispetto all’intento di garantire una tendenziale stabilità
ai titoli abilitativi, l’eccessivo sacrificio che verrebbe
imposto al diritto di azione del terzo leso dall’attività
intrapresa.
Infatti il legislatore ha escluso che la denuncia e la
dichiarazione di inizio attività costituiscano provvedimenti
taciti direttamente impugnabili, ammettendo solo che i terzi
interessati possano sollecitare l'esercizio delle verifiche
spettanti all'Amministrazione e, in caso di inerzia,
esperire esclusivamente l'azione contro il silenzio.
Poiché il terzo leso ha quest’unico rimedio a tutela della
propria sfera giuridica, quando l’intervento di verifica
risulti dallo stesso sollecitato e ad esso possa
riconoscersi la titolarità di un interesse differenziato e
qualificato, il divieto di prosecuzione dell’attività o
l’inibitoria deve potersi svolgere in modo pieno e senza i
limiti propri dell’autotutela avviata d’ufficio.” (così TAR
Veneto, n. 1038 del 2015, cit.).
10.
Posto quindi che, secondo la lettura qui accolta,
l’articolo 19, comma 6-ter, impone all’amministrazione di
esercitare pieni poteri inibitori della denuncia di inizio
di attività, anche dopo il “consolidarsi” del titolo
edilizio, qualora sia a ciò sollecitata da un terzo titolare
di una situazione giuridica qualificata e differenziata,
occorre chiedersi se tale soggetto possa sollecitare in
qualunque momento l’intervento dell’amministrazione stessa,
ovvero abbia l’onere di farlo entro un lasso di tempo
stabilito.
10.1 Anche questa questione è stata affrontata, sia pure
sinteticamente, nella richiamata sentenza n. 2799 del 2014,
come correttamente rilevato, nel presente giudizio, dalla
difesa del controinteressato.
In quella pronuncia, infatti, è stato esplicitamente
evidenziato che il terzo che si assumeva leso dalla denuncia
di inizio di attività presentata dal confinante si era
rivolto all’amministrazione entro sessanta giorni dal
momento in cui, accedendo agli atti della pratica edilizia,
aveva preso piena conoscenza del contenuto della d.i.a. e
delle esatte caratteristiche dell’intervento progettato.
La pronuncia ha, quindi, implicitamente ritenuto rilevante
la circostanza che l’istanza volta a provocare l’esercizio
del potere inibitorio fosse intervenuta entro il suddetto
termine.
10.2 Il rilievo attribuito dalla suddetta pronuncia al
momento della presentazione dell’istanza rivolta
all’amministrazione non è stato condiviso da un altro
orientamento giurisprudenziale recentemente emerso.
In base a tale diversa ricostruzione, il terzo leso dalla
d.i.a. (o s.c.i.a.) potrebbe infatti rivolgersi in ogni
tempo all’amministrazione, e ottenere comunque il pieno
esercizio dei poteri inibitori, senza necessità del
riscontro dei presupposti propri dell’autotutela (in questo
senso: TAR Piemonte, Sez. II, n. 1114 del 2015, cit.).
Tesi,
questa, che viene argomentata sia sulla base del tenore
testuale del comma 3-bis dell’articolo 19 della legge n. 241
del 1990 –il quale non indica testualmente alcun limite
temporale per la diffida diretta all’amministrazione– sia
in considerazione della circostanza che la possibilità di un
intervento “a tutto campo” e in ogni tempo sulla d.i.a., in
presenza di una sollecitazione proveniente da un terzo che
si assuma pregiudicato dall’intervento, dovrebbe ritenersi
giustificata dalla natura stessa dell’istituto, che non dà
luogo alla formazione di un provvedimento amministrativo e
si basa sulla responsabilità del privato.
Il Collegio ritiene, tuttavia, che tali considerazioni
possano essere condivise soltanto in parte, come meglio si
illustrerà nel prosieguo.
10.3
Deve, anzitutto, confermarsi e ribadirsi in questa sede
l’orientamento già espresso
–anche in relazione al profilo
inerente ai termini per la sollecitazione dei poteri
inibitori–
dalla sentenza della Sezione n. 2799 del 2014.
E’ infatti da ritenere che le conclusioni raggiunte, sul
punto, dalla pronuncia richiamata siano necessitate, alla
stregua dell’interpretazione sistematica e –ancora una
volta– costituzionalmente orientata del dato normativo,
costituito dall’articolo 19, comma 3-ter, della legge n. 241
del 1990.
Per ciò che attiene al profilo sistematico,
l’interpretazione della disposizione deve necessariamente
tenere conto della circostanza che l’intera disciplina della
denuncia di inizio di attività, fino ai più recenti
interventi normativi (in parte successivi alla formazione
dei titoli oggetto del presente giudizio, ma comunque
rilevanti ai fini interpretativi e ricostruttivi del
sistema), risulta chiaramente ispirata dalla finalità di
coniugare l’esigenza di incentrare il fondamento normativo
della d.i.a sull’autoresponsabilità del privato con quella
di assicurare comunque una sostanziale stabilità del titolo
edilizio –analoga a quella propria del permesso di
costruire– dopo il decorso del tempo stabilito per il suo
“consolidarsi”.
In tale quadro normativo,
è certamente necessario
–come
sopra detto–
assicurare al terzo la possibilità di ottenere
piena tutela, mediante l’esercizio dei poteri inibitori
dell’amministrazione, anche dopo che sia trascorso tale
termine di tendenziale “stabilizzazione” del titolo
edilizio.
Tuttavia,
tale possibilità non può tradursi
nell’eliminazione di qualunque garanzia attinente al
“consolidarsi” della d.i.a., né eccedere quanto necessario e
sufficiente ad assicurare al terzo leso dalla denuncia di
inizio attività una tutela equivalente a quella riconosciuta
al soggetto leso da un permesso di costruire.
Per questa ragione,
deve ritenersi che il soggetto titolare
di una situazione giuridica qualificata e differenziata che
lamenti un pregiudizio derivante da una denuncia o
segnalazione certificata di inizio attività possa ottenere
il pieno e doveroso esercizio dei poteri inibitori, senza i
limiti propri dell’autotutela, soltanto laddove abbia
sollecitato l’intervento dell’amministrazione entro sessanta
giorni dal momento in cui ha avuto conoscenza della lesione.
Il predetto termine di sessanta giorni, pur non
espressamente previsto dal comma 3-bis dell’articolo 19
della legge n. 241 del 1990, deve infatti ricavarsi in via
sistematica, tenendo conto che la diffida prevista dalla
disposizione ora richiamata costituisce l’unico “canale”
percorribile dall’interessato al fine di adire
eventualmente, in un secondo momento, la tutela
giurisdizionale. In tale prospettiva, l’esigenza di
assicurare sia la pienezza della tutela
(ai sensi
dell’articolo 24 della Costituzione),
che la parità di
trattamento rispetto al soggetto leso da un permesso di
costruire
(in relazione all’articolo 3 della Costituzione)
impone di fare applicazione del termine ordinariamente
previsto per l’impugnazione dei provvedimenti
amministrativi, fissato dall’articolo 29 del codice del
processo amministrativo.
E’ ben vero che il termine di cui all’articolo 29 ora
richiamato ha natura processuale e non procedimentale;
tuttavia, come detto,
la fase procedimentale necessaria
stabilita dal comma 3-bis dell’articolo 19 della legge n.
241 del 1990 costituisce un passaggio obbligato per
l’accesso alla tutela giurisdizionale, per cui è dalla
disciplina propria di quest’ultima che può e deve trarsi il
dato necessario all’integrazione in via interpretativa della
lacuna normativa.
Tale opzione ermeneutica risulta essere stata accolta, del
resto, anche dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, la
quale non ha mancato di rimarcare, in una recente pronuncia,
che “il potere di sollecitazione del terzo non è da
intendersi come esercitabile ad libitum, bensì rimane
assoggettato al rispetto del termine di decadenza decorrente
dalla conoscenza della D.I.A.” (così Cons. Stato, Sez. IV, 12.11.2015, n. 5161).
11. Occorre a questo punto domandarsi quid iuris nel caso in
cui il terzo abbia richiesto l’intervento
dell’amministrazione dopo il decorso di sessanta giorni dal
momento in cui ha avuto piena conoscenza del contenuto
lesivo della denuncia di inizio di attività.
La difesa del controinteressato ritiene che, in questo caso,
l’impugnazione del provvedimento con cui l’amministrazione
ha negato l’esercizio dei poteri relativi alla d.i.a. sia
radicalmente inammissibile.
11.1 Il Collegio non ignora che tale soluzione risulta
essere stata accolta dalla sentenza del Consiglio di Stato
da ultimo richiamata (Cons. Stato n. 5161 del 2015, cit.),
ma ritiene –su questo specifico aspetto– di dover
addivenire a conclusioni in parte diverse rispetto al
giudice d’appello.
Deve, infatti, tenersi presente il dato imprescindibile (ben
evidenziato, come detto, da TAR Piemonte n. 1114 del 2015,
cit., che però perviene a conclusioni non coincidenti con
quelle qui sostenute) che
il comma 6-ter dell’articolo 19
della legge n. 241 del 1990 non prevede alcun termine per la
sollecitazione dei poteri dell’amministrazione e per
l’insorgere del correlativo obbligo, per quest’ultima, di
pronunciarsi sull’istanza.
Per le ragioni già diffusamente illustrate,
laddove
l’istanza sia presentata da un terzo titolare di una
situazione giuridica qualificata e differenziata, entro il
termine di sessanta giorni dalla conoscenza della d.i.a. o
s.c.i.a., l’amministrazione non potrà esimersi
dall’esercitare pienamente i propri poteri inibitori.
Ciò, però, non toglie che il terzo ben possa sollecitare
l’intervento dell’amministrazione anche oltre tale termine,
al fine di invocare non già il pieno esercizio dei poteri
inibitori, bensì il riscontro della sussistenza dei –diversi– presupposti normativamente previsti per
l’intervento in autotutela.
11.2 Al riguardo,
deve precisarsi che –anche laddove la
sollecitazione debba intendersi diretta a provocare
l’esercizio dei poteri di autotutela– l’amministrazione è
comunque tenuta ad esprimersi sull’istanza, eventualmente
illustrando le ragioni per le quali ritenga non sussistenti
i presupposti per la rimozione del titolo edilizio.
E’ vero, infatti, che –secondo i principi– l’esercizio
dell’autotutela è, di regola, tipicamente discrezionale
nell’an, per cui l’amministrazione non è tenuta, di norma,
neppure a riscontrare l’istanza di autotutela presentata da
un privato
(v. ex multis Cons. Stato, V, 03.05.2012 n.
2549). Tuttavia,
nel caso della denuncia o segnalazione
certificata di inizio attività, la sussistenza di un dovere
dell’amministrazione di verificare l’esistenza dei
presupposti per l’esercizio del potere è imposta dal chiaro
tenore testuale del richiamato comma 3-bis dell’articolo 19,
il quale attribuisce espressamente al terzo che si assuma
leso dal titolo edilizio un incondizionato accesso anche
alla tutela giurisdizionale avverso il silenzio.
D’altro canto, la soluzione prescelta dal legislatore è
coerente con il fondamentale rilievo che, nel caso di
intervento di controllo relativo alla d.i.a. o s.c.i.a., non
si fa questione di esercizio di poteri di autotutela in
senso proprio, poiché manca un provvedimento amministrativo
rispetto al quale possa esercitarsi un potere di secondo
grado. Piuttosto –come sopra detto– l’amministrazione, in
questo caso, esercita pur sempre poteri di tipo inibitorio,
ma subordinatamente al riscontro dei presupposti per
l’intervento in autotutela.
12. In definitiva, alla luce di tutto quanto sin qui
esposto,
il Collegio ritiene che la previsione del comma
6-ter dell’articolo 19 della legge n. 241 del 1990 imponga
all’amministrazione di riscontrare motivatamente, in ogni
caso, l’istanza con cui un terzo, titolare di una situazione
giuridica qualificata e differenziata, abbia sollecitato
l’intervento della stessa amministrazione in relazione a una
denuncia o segnalazione certificata di inizio attività.
In particolare,
laddove l’istanza pervenga entro sessanta
giorni dal momento in cui tale soggetto risulta aver avuto
conoscenza dei profili lesivi dell’intervento,
l’amministrazione sarà tenuta a esercitare, sussistendone i
presupposti, pieni poteri inibitori, poiché –in difetto–
il terzo subirebbe una diminuzione della tutela accordatagli
rispetto a chi sia leso da un permesso di costruire.
Superati i sessanta giorni, l’amministrazione dovrà comunque
a verificare, dandone conto motivatamente, unicamente la
sussistenza dei presupposti per l’esercizio dell’autotutela.
Logico corollario di quanto sin qui affermato è che la
circostanza che
tale terzo abbia avuto conoscenza del titolo
edilizio da più di sessanta giorni non comporta conseguenze
processuali, in relazione alla eventuale successiva azione
giurisdizionale contro il silenzio o il provvedimento
negativo emesso dall’amministrazione, ma ha unicamente
conseguenze di tipo procedimentale
(secondo quanto già
rilevato dalla Sezione con la sentenza n. 585 del 05.03.2014).
In entrambe le ipotesi sopra enunciate, il ricorso
giurisdizionale avverso il provvedimento con cui
l’amministrazione abbia negato il proprio intervento sarà
quindi ammissibile –sussistendo, beninteso, tutte le altre
condizioni dell’azione– ma la risposta dell’amministrazione
dovrà essere verificata tenendo conto del diverso potere
esercitato nelle due ipotesi sopra dette. |
VARI:
A piedi massimo per tre anni dal sinistro.
Chi subisce il ritiro della patente a seguito di un grave
sinistro stradale e poi la revoca del titolo può presentare
domanda per il conseguimento di una nuova licenza di guida
decorsi tre anni dalla data dell'incidente. Non deve cioè
attendere un ulteriore triennio dall'irrevocabilità della
sentenza di condanna.
Lo ha chiarito il Tar Veneto, sez. III, con
sentenza
15.04.2016 n. 393.
La riforma stradale introdotta con la legge 120/2010 ha
inasprito le conseguenze della guida alterata prevedendo
all'interno degli artt. 186, 186-bis e 187 del codice la
revoca per tre anni per i conducenti più negligenti. È il
caso per esempio degli autotrasportatori professionali
trovati gravemente alterati dall'alcol o sotto l'influenza
di droga. Oppure più semplicemente di chiunque provochi un
incidente con una quantità elevata di alcol nel sangue o
sotto l'effetto di stupefacenti.
L'indicazione letterale
dell'art. 219/3-ter cds però ha aperto dubbi sulla data di
concreta applicazione della revoca. Specifica infatti
letteralmente questo articolato che quando la revoca della
licenza è disposta a seguito delle violazioni di cui agli
artt. 186, 186-bis e 187, non è possibile conseguire una
nuova patente prima di tre anni a decorrere dalla data di
accertamento del reato.
Per questo motivo il ministero dei
trasporti ha richiesto un parere all'organo di coordinamento
dei servizi di polizia stradale il quale ha specificato che
la data di accertamento del reato, da cui decorre il
triennio per poter riottenere il titolo abilitativo alla
guida, va intesa con riguardo al passaggio in giudicato
della sentenza penale e non già con riferimento al momento
in cui l'organo di vigilanza contesta l'infrazione. A parere
del Tar questa interpretazione non è corretta.
Come
evidenziato anche dall'ufficio del massimario della
Cassazione se a seguito della condanna per una delle
contravvenzioni di cui agli artt. 186, 186-bis e 187 è stata
disposta la revoca della patente, il condannato non potrà
conseguirne una nuova prima di tre anni dalla data di
accertamento del reato e non da quella del passaggio in
giudicato della sentenza o del decreto di condanna
(articolo ItaliaOggi Sette del 06.06.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - TRIBUTI: Depurazione, si paga con l’allaccio.
Acque reflue. La Cassazione dà ragione a un condominio che
si era rifiutato di pagare la tariffa comunale.
Il condominio
non allacciato alla rete fognaria pubblica e con un proprio
impianto di depurazione può essere parzialmente esentato dal
pagamento della tariffa del Servizio idrico, intesa come
corrispettivo di una prestazione commerciale complessa di
natura contrattuale e quindi privatistica, soltanto se
dimostra dinanzi al giudice che i propri sistemi di collettamento e depurazione delle acque sono compatibili con
le finalità di tutela ambientale.
È quanto affermato dalla Sez. V civile della Corte di Cassazione
(sentenza 13.04.2016 n. 7210), che ha rinviato la
causa per un nuovo esame alla Corte d’appello di Trieste,
dopo che quest’ultima aveva dato ragione a un condominio che
si era rifiutato di pagare al Comune di Pordenone circa 4
mila euro, quale importo della tariffa dovuta al gestore
pubblico dell’acqua, relativa esclusivamente al servizio di
fognatura e depurazione.
Nel motivare la loro decisione, i giudici di secondo grado
avevano fatto riferimento alla Corte Costituzionale, che con
la sentenza 305/2008 ha dichiarato illegittimi l’articolo 14
della legge 36/1994 e l’articolo 155 del Dlgs 152/2006 «nella
parte in cui prevede che la quota di tariffa riferita al
servizio di depurazione sia dovuta dagli utenti anche nel
caso in cui la fognatura sia sprovvista di impianti
centralizzati di depurazione o questi siano temporaneamente
inattivi».
Se da un lato quindi il mancato pagamento, anche
parziale, della tariffa comporta una violazione dei termini
contrattuali, dall’altro è illegittimo far pagare al
condominio servizi di cui non ha usufruito.
La Corte d’appello, cui è rinviata la sentenza, dovrà quindi
decidere tenendo conto del principio di diritto secondo cui
l’obbligo di pagamento della tariffa di fognatura e
depurazione, intesa come componente del corrispettivo del
servizio idrico integrato, «non è automaticamente escluso
nel caso in cui i relativi impianti di fognatura e
depurazione siano stati dall’ente locale predisposti e siano
attivi e la mancata fruizione dei relativi servizi dipenda
da comportamento volontario dell’utente che non intenda allacciarvisi, provvedendo alla rispettive esigenze con
sistemi propri. In tal caso incombe all’utente, che intende
sottrarsi in parte qua della tariffa, l’onere probatorio di
dimostrare la compatibilità dei propri sistemi di
collettamento e depurazione delle acque reflue provenienti
da scarichi di insediamenti domestici con le preminenti
finalità di tutela ambientale e della concorrenza relative
all’istituzione del servizio idrico integrato»
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.06.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Passo carrabile non per sempre. Un garage
trasformato in negozio.
Il comune deve revocare il passo carrabile se il locale
prima destinato a garage viene poi trasformato in una
attività commerciale. Quindi senza alcuna necessità di
transito veicolare verso l'area di stazionamento dei mezzi.
Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. I, con il
parere
18.03.2016 n. 743.
Il comune di Genova ha negato la voltura di un passo
carrabile richiesto per agevolare l'accesso a un locale
originariamente destinato a garage e poi trasformato in
esercizio commerciale. Contro questa determinazione
l'interessato ha proposto ricorso straordinario al
Presidente della repubblica ma senza successo.
L'articolo 22 del codice e l'art. 46 del relativo
regolamento stradale specificano che la concessione di un
passo carrabile è subordinata a precise condizioni di
carattere oggettivo. Ovvero alla necessità di accedere con
veicoli ad un'area laterale idonea al loro stazionamento. Un
negozio non può essere certamente paragonato ad un garage,
prosegue il parere.
Quindi ha fatto bene il comune a revocare la licenza privata
di divieto di sosta con rimozione a fronte di un cambiamento
sostanziale della destinazione d'uso dei locali
(articolo ItaliaOggi Sette del 13.06.2016). |
ENTI LOCALI:
Autovelox con l'ok del prefetto.
Sentenza del Tar Piemonte sulle strade
extraurbane.
Spetta al rappresentante governativo autorizzare
l'installazione di un misuratore di velocità in sede fissa
fuori centro abitato. E in questo caso non occorre fare
riferimento alle dimensioni della strada ma solo
all'ubicazione esatta dell'autovelox.
Lo ha chiarito il TAR Piemonte, Sez. I, con la
sentenza
04.12.2015 n.
1691.
Un automobilista incorso nei rigori dei limiti di velocità
ha presentato un esposto alla prefettura denunciando
l'illegittimità del provvedimento che ammette la
collocazione di un misuratore elettronico su una strada
comunale extraurbana di modeste dimensioni. A seguito del
mancato accoglimento dell'istanza l'interessato ha proposto
ricorso ai giudici amministrativi contro il rinnovato
decreto prefettizio che ha confermato la precedente
determinazione. Ma senza successo.
A parere del collegio infatti l'elemento fondamentale da
valutare attiene alla natura della strada comunale scelta
dalla prefettura per l'installazione dell'autovelox fisso.
Ovvero se la stessa risulta essere una strada extraurbana o
meno. L'art. 4 della legge 168/2002 permette il controllo
automatico dell'eccesso di velocità, infatti, solo su certi
tipi di strade, previa autorizzazione del prefetto. Ovvero
le strade extraurbane secondarie e quelle locali di
scorrimento. Si definiscono strade extraurbane secondarie
tutte le strade che non interessano i centri abitati senza
riferimento alle dimensioni del manufatto.
A differenza delle strade extraurbane principali, munite di
spartitraffico, quelle secondarie devono solamente disporre
di una corsia per senso di marcia e delle banchine. Il
decreto ministeriale 6792/2004 sulle dimensioni delle
strade, prosegue la sentenza, interessa solo le modalità di
costruzione dei nuovi manufatti. Per l'attività di
classificazione delle strade occorre fare riferimento
all'art. 2 del codice stradale.
La strada in esame, conclude il Tar, è fuori dal centro
abitato, e quindi correttamente classificata come
extraurbana, dotata di due corsie, priva di uno
spartitraffico locale, ma le banchine sono esistenti,
essendovi su entrambi i lati una spazio tra la linea di
margine e il ciglio erboso
(articolo ItaliaOggi del 07.06.2016). |
AGGIORNAMENTO AL 14.06.2016 |
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IN EVIDENZA |
PUBBLICO IMPIEGO:
Cassazione: per licenziamento statali vale l'art.
18, niente Legge Fornero. Intatte quindi le garanzie
per il pubblico impiego.
Il licenziamento del personale
del pubblico impiego non è disciplinato dalla 'legge
Fornero', bensì dall'art. 18 dello Statuto dei
lavoratori.
Lo afferma la Corte di Cassazione, "all'esito di
una approfondita e condivisa riflessione", con
la
sentenza 09.06.2016 n.
11868 della Sez. Lavoro.
La Cassazione interviene quindi su una questione da
tempo dibattuta su cui ci sono state anche sentenze
di diverso orientamento ma il governo, con il
ministro della P.A. Marianna Madia, ha sempre tenuto
a precisare come l'articolo 18 per gli statali non è
stato cambiato né dalla legge Fornero, prima, né dal
Jobs act, dopo.
Per il pubblico impiego le garanzie sarebbero quindi
intatte, con la reintegra in caso di licenziamento
senza giusta causa. Un trattamento diverso rispetto
ai lavoratori privati, sostiene il ministero, perché
è diversa la natura del datore di lavoro.
Per mettere fine a possibili diverse interpretazioni
il governo resta dell'idea di intervenire, da quanto
si apprende, con una norma che chiarisca
l'esclusione dei dipendenti pubblici dalle nuove
regole. La precisazione dovrebbe trovare spazio nel
testo unico del pubblico impiego, in attuazione
della riforma della P.A.
Un impegno in questo senso era stato preso alla fine
dello scorso anno da Madia, dopo una sentenza della
stessa Cassazione che allora, però, sembrava dire il
contrario, ovvero che le modifiche della Fornero
valevano anche per gli statali. Ora tutto sia
riallinea (commento tratto da www.ansa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Licenziamenti nel pubblico impiego: inapplicabile la
legge Fornero.
Ai
licenziamenti dei dipendenti della pubblica
amministrazione non si applicano le modifiche
apportate dalla legge Fornero all'art. 18 dello
Statuto dei lavoratori.
E’ quanto
ha affermato la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con la
sentenza 09.06.2016
n. 11868.
Diverse le motivazioni alla base della decisione:
tra queste, la considerazione che la formulazione
dell'art. 18, come modificato dalla legge Fornero,
introduce una modulazione delle sanzioni con
riferimento ad ipotesi di illegittimità pensate in
relazione al solo lavoro privato, che non si
prestano ad essere estese all'impiego pubblico
contrattualizzato. La decisione apre la strada ad un
contrasto giurisprudenziale.
Il fatto trae origine dal contenzioso instaurato tra
un lavoratore e il Ministero delle Infrastrutture e
dei trasporti che ne aveva disposto il
licenziamento.
Il caso
La Corte d’Appello aveva respinto i reclami riuniti,
proposti in base alla c.d. legge Fornero (art. 1,
comma 58, della legge 28.06.2012 n. 92), dal
Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e da
R.C. avverso la sentenza del Tribunale che aveva
dichiarato l'intervenuta risoluzione del rapporto di
lavoro intercorso fra le parti, per effetto del
licenziamento intimato con provvedimento del
02.09.2012, e, ritenuta la violazione dell'art. 7
della legge n. 300 del 1970, aveva applicato il
sesto comma dell'art. 18 dello Statuto, come
modificato dalla legge sopra richiamata, condannando
il Ministero a corrispondere al C. l'indennità
risarcitoria onnicomprensiva, quantificata nella
misura minima di sei mensilità.
La Corte d’appello premetteva che il procedimento
disciplinare era stato avviato con contestazione del
02.03.2004, con la quale era stato addebitato al
dipendente, per quel che qui interessa, di avere
effettuato "operazioni per conto dell'Ufficio
Provinciale di R. mentre era in missione per
esigenze del CSRPAD (Centro Superiore Ricerche e
Prove Autoveicoli e Dispositivi) in località
ovviamente diverse".
Il procedimento era stato contestualmente sospeso
perché i fatti emersi a seguito di visita ispettiva,
di rilievo penale, erano stati segnalati dal
Ministero all'autorità giudiziaria. A seguito del
passaggio in giudicato della sentenza del
24.05.2012, che aveva dichiarato estinti per
prescrizione i delitti di truffa e falso addebitati
all'imputato, il procedimento disciplinare era stato
riavviato mediante richiamo alla originaria
contestazione e, all'esito della audizione
dell'incolpato, era stato disposto il licenziamento
per giusta causa senza preavviso, sul rilievo che in
almeno 4 dei 49 casi di sovrapposizione sussisteva
incompatibilità assoluta fra le missioni, non
giustificabile se non ipotizzando gravi falsità
compiute nel corso dell'uno o dell'altro incarico,
tali da ledere irrimediabilmente il vincolo
fiduciario.
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione
il lavoratore, il quale, sul presupposto della
insussistenza del fatto e, comunque, della non
riconducibilità dello stesso ad una delle ipotesi
per le quali il contratto collettivo prevede la
sanzione espulsiva, questi chiedeva alla Cassazione,
in via principale, di riconoscere le tutele previste
dall'art. 18, comma 4, della legge n. 300 del 1970,
o, in subordine, dal comma 5 dello stesso articolo,
come modificato dalla legge 28.06.2012 n. 92.
L'impugnazione incidentale, quindi, muoveva dalla
ritenuta applicabilità al rapporto di pubblico
impiego contrattualizzato della nuova disciplina,
applicabilità affermata anche dai giudici di merito
che, sia pure senza motivare sul punto, avevano
fatto discendere dalla ritenuta violazione delle
regole procedimentali le conseguenze previste dal
comma 6 della norma modificata.
Decisione della Corte di Cassazione
La Cassazione ha respinto il ricorso del lavoratore,
affermando un principio di grande importanza e che
entra in contrasto con altro, recente, precedente
giurisprudenziale di legittimità e che, proprio per
tale ragione, dev’essere in questa sede evidenziato.
Orbene, la Cassazione nella sentenza qui commentata
non ignora che sulla questione si sono formati nella
giurisprudenza di merito, anche sulla base delle
indicazioni provenienti dalla dottrina, orientamenti
contrastanti che, per giungere ad affermare o a
negare la applicabilità ai rapporti di pubblico
impiego contrattualizzato della nuova disciplina,
hanno valorizzato, principalmente, da un lato il
rinvio mobile alle disposizioni dettate dalla legge
n. 300 del 1970 contenuto nell'art. 51 del d.lgs.
165 del 2001 e la necessità di garantire, anche dopo
la riforma, uniformità di trattamento fra impiego
pubblico e privato; dall'altro i commi 7 e 8
dell'art. 1 della legge n. 92 del 2012 nonché la
inconciliabilità della nuova disciplina con lo
specifico regime imperativo dettato dagli artt. 54 e
seguenti delle norme generali sull'ordinamento del
lavoro alle dipendenze delle amministrazioni
pubbliche.
Una precedente sentenza della Cassazione (la
sentenza 25.11.2015 n. 24157) aveva fatto propria
solo parzialmente la prima delle due opzioni
esegetiche a confronto, poiché, pur affermando la
applicabilità della riforma ai rapporti disciplinati
dall'art. 2 del d.lgs. n. 165 del 2001, aveva
ritenuto di dovere, comunque, salvaguardare la
specialità della normativa del procedimento
disciplinare dettata per l'impiego pubblico dalle
disposizioni sopra richiamate e, quindi, ha
ricondotto al primo ed al secondo comma dell'art. 18
modificato la violazione delle regole
procedimentali, in quanto causa di nullità del
licenziamento.
Orbene, con la sentenza qui commentata la Cassazione
sconfessa quanto affermato da tale decisione,
giacché plurime ragioni inducono ad escludere che il
nuovo regime delle tutele in caso di licenziamento
illegittimo possa essere applicato anche ai rapporti
di lavoro disciplinati dall'art. 2 del d.lgs. n. 165
del 2001. Secondo la Cassazione non si estendono, in
particolare ai dipendenti delle pubbliche
amministrazioni le modifiche apportate all'art. 18
dello Statuto, con la conseguenza che la tutela da
riconoscere a detti dipendenti in caso di
licenziamento illegittimo resta quella assicurata
dalla previgente formulazione della norma.
Motivazioni della decisione
Queste in sintesi le ragioni che hanno indotto la
Cassazione a tale soluzione:
a) la definizione delle finalità della legge n. 92 del 2012, per
come formulata nell'art. 1, comma 1, tiene conto
unicamente delle esigenze proprie dell'impresa
privata, alla quale solo può riferirsi la lettera
c), che pone una inscindibile correlazione fra
flessibilità in uscita ed in entrata, allargando le
maglie della prima e riducendo nel contempo l'uso
improprio delle tipologie contrattuali diverse dal
rapporto di lavoro subordinato a tempo
indeterminato;
b) la formulazione dell'art. 18, come modificato dalla legge n. 92
del 2012, introduce una modulazione delle sanzioni
con riferimento ad ipotesi di illegittimità pensate
in relazione al solo lavoro privato, che non si
prestano ad essere estese all'impiego pubblico
contrattualizzato per il quale il legislatore, in
particolar modo con il d.lgs. 27.10.2009 n. 150, ha
dettato una disciplina inderogabile, tipizzando
anche illeciti disciplinari ai quali deve
necessariamente conseguire la sanzione del
licenziamento;
c) la inconciliabilità della nuova normativa con le disposizioni
contenute nel d.lgs. n. 165 del 2001 è
particolarmente evidente in relazione al
licenziamento intimato senza il necessario rispetto
delle garanzie procedimentali, posto che il comma 6
dell'art. 18 fa riferimento al solo art. 7 della
legge n. 300 del 1970 e non agli artt. 55 e 55-bis
del d.lgs. citato, con i quali il legislatore, oltre
a sottrarre alla contrattazione collettiva la
disciplina del procedimento, del quale ha previsto
termini e forme, ha anche affermato il carattere
inderogabile delle disposizioni dettate "ai sensi
e per gli effetti degli artt. 1339 e 1419 e seguenti
c.c.”;
d) una eventuale modulazione delle tutele nell'ambito dell'impiego
pubblico contrattualizzato richiede da parte del
legislatore una ponderazione di interessi diversa da
quella compiuta per l'impiego privato, poiché, come
avvertito dalla Corte Costituzionale, mentre in
quest'ultimo il potere di licenziamento del datore
di lavoro è limitato allo scopo di tutelare il
dipendente, nel settore pubblico il potere di
risolvere il rapporto di lavoro, è circondato da
garanzie e limiti che sono posti non solo e non
tanto nell'interesse del soggetto da rimuovere, ma
anche e soprattutto a protezione di più generali
interessi collettivi. Viene,cioè, in rilievo non
l’art. 41, 1° e 2° comma, della Costituzione, bensì
l'art. 97 della Carta fondamentale, che impone di
assicurare il buon andamento e la imparzialità della
amministrazione pubblica.
Da, qui, dunque, il rigetto del ricorso incidentale
del lavoratore.
Effetti della sentenza
Di rilievo le conseguenze pratiche della sentenza.
Ed invero, secondo l’interpretazione offerta dalla
Cassazione, ai rapporti di lavoro disciplinati dal
d.lgs. 30.03.2001 n. 165, art. 2, non si applicano
le modifiche apportate dalla legge Fornero all'art.
18 dello Statuto dei lavoratori, per cui la tutela
del dipendente pubblico in caso di licenziamento
illegittimo intimato in data successiva alla entrata
in vigore della richiamata legge Fornero resta
quella prevista dall'art. 18 dello Statuto dei
lavoratori nel testo antecedente alla riforma
(commento tratto da www.ipsoa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Plurime
ragioni inducono ad escludere che il nuovo regime
delle tutele in caso di
licenziamento illegittimo possa essere applicato
anche ai rapporti di lavoro
disciplinati dall'art. 2 del d.lgs. n. 165 del 2001.
---------------
Sino al successivo intervento
normativo di armonizzazione, non
si estendono ai dipendenti delle pubbliche
amministrazioni le modifiche apportate
all'art. 18 dello Statuto, con la conseguenza che la
tutela da riconoscere a detti
dipendenti in caso di licenziamento illegittimo
resta quella assicurata dalla
previgente formulazione della norma.
---------------
L'art. 18 della legge n. 300 del
1970, nel testo antecedente
alle modifiche apportate dalla legge n. 92 del 2012,
non è stato espunto
dall'ordinamento ma resta tuttora in vigore
limitatamente ai rapporti di lavoro di
cui all'art. 2 del d.lgs. n. 165 del 2001.
---------------
3.2 - Il Collegio non ignora che sulla questione che qui viene in rilievo
si sono
formati nella giurisprudenza di merito, anche sulla
base delle indicazioni
provenienti dalla dottrina, orientamenti
contrastanti che, per giungere ad
affermare o a negare la applicabilità ai rapporti di
pubblico impiego
contrattualizzato della nuova disciplina, hanno
valorizzato, principalmente, da un
lato il rinvio mobile alle disposizioni dettate
dalla legge n. 300 del 1970 contenuto
nell'art. 51 del d.lgs. 165 del 2001 e la necessità
di garantire, anche dopo la
riforma, uniformità di trattamento fra impiego
pubblico e privato; dall'altro i
commi 7 e 8 dell'art. 1 della legge n. 92 del 2012
nonché la inconciliabilità della
nuova disciplina con lo specifico regime imperativo
dettato dagli artt. 54 e
seguenti delle norme generali sull'ordinamento del
lavoro alle dipendenze delle
amministrazioni pubbliche.
La sentenza di questa Corte 25.11.2015 n.
24157 ha fatto propria solo
parzialmente la prima delle due opzioni esegetiche a
confronto, poiché, pur
affermando la applicabilità della riforma ai
rapporti disciplinati dall'art. 2 del d.lgs.
n. 165 del 2001, ha ritenuto di dovere, comunque,
salvaguardare la specialità
della normativa del procedimento disciplinare
dettata per l'impiego pubblico dalle
disposizioni sopra richiamate e, quindi, ha
ricondotto al primo ed al secondo
comma dell'art. 18 modificato la violazione delle
regole procedimentali, in quanto
causa di nullità del licenziamento.
Il Collegio ritiene che detto orientamento debba
essere disatteso, giacché plurime
ragioni inducono ad escludere che il nuovo regime
delle tutele in caso di
licenziamento illegittimo possa essere applicato
anche ai rapporti di lavoro
disciplinati dall'art. 2 del d.lgs. n. 165 del 2001.
Invero l'art. 1 della legge n. 92 del 2012, dopo
aver previsto al comma 7 che "Le
disposizioni della presente legge, per quanto da
esse non espressamente
previsto, costituiscono principi e criteri per la
regolazione dei rapporti di lavoro
dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni di
cui all'articolo 1, comma 2, del
decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, e
successive modificazioni, in
coerenza con quanto disposto dall'articolo 2, comma
2, del medesimo decreto
legislativo. Restano ferme le previsioni di cui
all'articolo 3 del medesimo decreto
legislativo.", al comma 8 aggiunge che "Al fine
dell'applicazione del comma 7 il
Ministro per la pubblica amministrazione e la
semplificazione, sentite le
organizzazioni sindacali maggiormente
rappresentative dei dipendenti delle
amministrazioni pubbliche, individua e definisce,
anche mediante iniziative
normative, gli ambiti, le modalità e i tempi di
armonizzazione della disciplina
relativa ai dipendenti delle amministrazioni
pubbliche.".
Sebbene la norma, che risulta dal combinato disposto
dei commi 7 e 8, sia stata
formulata in termini diversi rispetto ad altre
disposizioni, con le quali è stata
esclusa l'automatica estensione all'impiego pubblico
contrattualizzato di norme
dettate per l'impiego privato (si pensi, ad
esempio, all'art. 1, comma 2, del d.lgs.
n. 276 dei 2003), tuttavia a fini interpretativi
assume peculiare rilievo il rinvio ad
un successivo intervento normativo contenuto nel
comma 8, non dissimile da
quello previsto dall'art. 86, comma 8, del d.lgs. n.
276 del 2003, che ha, appunto,
demandato al Ministro della funzione pubblica,
previa consultazione delle
organizzazioni sindacali, di assumere le iniziative
necessarie per armonizzare la
disciplina del pubblico impiego con la nuova
normativa, pacificamente applicabile
al solo impiego privato.
La circostanza che il comma 7 faccia salve le
disposizioni della legge n. 92 che
dispongano in senso diverso, si giustifica
considerando che la stessa legge
contiene anche norme che si riferiscono
espressamente all'impiego pubblico (in
particolare l'art. 2, comma 2, esclude dall'ambito
della operatività dell'ASPI i
dipendenti delle pubbliche amministrazioni), sicché
la eccezione opera solo con
riferimento alle disposizioni in relazione alle
quali la questione della applicabilità
all'impiego pubblico sia stata già risolta in modo
espresso dal legislatore del
2012.
Non è, questo, il caso della nuova disciplina del
licenziamento, perché sulla
estensione della stessa all'impiego pubblico nulla è
detto nell'art. 1, con la
conseguenza che, in difetto di una espressa
previsione, non può che operare il
rinvio di cui al comma 8.
Ciò comporta che, sino al successivo intervento
normativo di armonizzazione, non
si estendono ai dipendenti delle pubbliche
amministrazioni le modifiche apportate
all'art. 18 dello Statuto, con la conseguenza che la
tutela da riconoscere a detti
dipendenti in caso di licenziamento illegittimo
resta quella assicurata dalla
previgente formulazione della norma.
3.3 - Dette conclusioni, fondate sul tenore
letterale della disciplina in commento,
sono avvalorate da considerazioni di ordine logico e
sistematico che, nel rispetto
della doverosa sintesi imposta dagli artt. 132
c.p.c. e 118 disp. att. c.p.c.,
possono essere così riassunte:
a) la definizione delle finalità della legge n. 92
del 2012, per come formulata
nell'art. 1, comma 1, tiene conto unicamente delle
esigenze proprie dell'impresa
privata, alla quale solo può riferirsi la lettera
c), che pone una inscindibile
correlazione fra flessibilità in uscita ed in
entrata, allargando le maglie della prima
e riducendo nel contempo l'uso improprio delle
tipologie contrattuali diverse dal
rapporto di lavoro subordinato a tempo
indeterminato;
b) la formulazione dell'art. 18, come modificato
dalla legge n. 92 del 2012,
introduce una modulazione delle sanzioni con
riferimento ad ipotesi di
illegittimità pensate in relazione al solo lavoro
privato, che non si prestano ad
essere estese all'impiego pubblico contrattualizzato
per il quale il legislatore, in
particolar modo con il d.lgs. 27.10.2009 n. 150, ha
dettato una disciplina
inderogabile, tipizzando anche illeciti disciplinari
ai quali deve necessariamente
conseguire la sanzione del licenziamento;
c) la inconciliabilità della nuova normativa con le
disposizioni contenute nel d.lgs.
n. 165 del 2001 è particolarmente evidente in
relazione al licenziamento intimato
senza il necessario rispetto delle garanzie
procedimentali, posto che il comma 6
dell'art. 18 fa riferimento al solo art. 7 della
legge n. 300 del 1970 e non agli artt.
55 e 55-bis del d.lgs. citato, con i quali il
legislatore, oltre a sottrarre alla
contrattazione collettiva la disciplina del
procedimento, del quale ha previsto
termini e forme, ha anche affermato il carattere
inderogabile delle disposizioni
dettate "ai sensi e per gli effetti degli artt.
1339 e 1419 e seguenti c.c.";
d) una eventuale modulazione delle tutele
nell'ambito dell'impiego pubblico
contrattualizzato richiede da parte del legislatore
una ponderazione di interessi diversa da quella
compiuta per l'impiego privato, poiché, come
avvertito dalla
Corte Costituzionale, mentre in quest'ultimo il
potere di licenziamento dei datore
di lavoro è limitato allo scopo di tutelare il
dipendente, nel settore pubblico il
potere di risolvere il rapporto di lavoro, è
circondato da garanzie e limiti che
sono posti non solo e non tanto nell'interesse del
soggetto da rimuovere, ma
anche e soprattutto a protezione di più generali
interessi collettivi (Corte Cost.
24.10.2008 n. 351). Viene, cioè, in rilievo non
l'art. 41, 1° e 2° comma, della
Costituzione, bensì l'art. 97 della Carta
fondamentale, che impone di assicurare il
buon andamento e la imparzialità della
amministrazione pubblica.
3.4 - La ritenuta inapplicabilità della riforma
all'impiego pubblico contrattualizzato
non può essere esclusa solo facendo leva sul rinvio
contenuto nell'art. 51, comma
2, alla legge 20.02.1970 n. 300 "e successive
modificazioni ed integrazioni".
Osserva innanzitutto il Collegio che il legislatore
dei T. U. nel rendere applicabili
le disposizioni dello Statuto e, quindi, l'art. 18,
a tutte le amministrazioni
pubbliche, a prescindere dal numero dei dipendenti,
ha voluto escludere in ogni
caso, pur in un contesto di tendenziale
armonizzazione fra impiego pubblico e
privato, una tutela diversa da quella reale
nell'ipotesi di licenziamento illegittimo,
anche per quelle amministrazioni, pur numerose (si
pensi, ad esempio agli enti
territoriali minori di limitate dimensioni), per le
quali sarebbe stata altrimenti
applicabile la tutela obbligatoria prevista
dall'art. 8 della legge n. 604 dei 1966.
Il rinvio, seppur mobile, nasce limitato da detta
scelta fondamentale compiuta dal
legislatore, che rende incompatibile con la volontà
espressa nella norma di rinvio
l'automatico recepimento di interventi normativi
successivi, che modifichino la
norma richiamata incidendo sulla natura stessa della
tutela riconosciuta al
dipendente licenziato.
Va, poi, sottolineato che, anche in presenza di una
norma di rinvio finalizzata ad
estendere ad un diverso ambito una normativa nata
per disciplinare altri
rapporti giuridici, è consentito al legislatore di
limitare, con un successivo
intervento normativo di pari rango, il rinvio
medesimo e, quindi, di escludere
l'automatica estensione di modifiche della
disciplina richiamata.
Detto intervento, che è quello verificatosi nella
fattispecie, fa sì che il rinvio si
trasformi da mobile a fisso, ossia che la norma
richiamata resti cristallizzata nel
testo antecedente alle modifiche apportate dalla
riforma, che, quindi, continua a
disciplinare i rapporti interessati dalla norma di
rinvio, dando vita in tal modo ad
una duplicità di normative, ciascuna applicabile in
relazione alla diversa natura
dei rapporti giuridici in rilievo.
In via conclusiva ritiene il Collegio di dovere
affermare, per le considerazioni tutte
sopra esposte, che l'art. 18 della legge n. 300 del
1970, nel testo antecedente
alle modifiche apportate dalla legge n. 92 del 2012,
non è stato espunto
dall'ordinamento ma resta tuttora in vigore
limitatamente ai rapporti di lavoro di
cui all'art. 2 del d.lgs. n. 165 del 2001.
3.5 - Resta fuori dal tema dibattuto, e che in
questa sede viene rimeditato
espressamente, l'indiscutibile immediata
applicazione alle impugnative dei
licenziamenti adottati dalle pubbliche
amministrazioni del nuovo rito, in primo
grado ed in sede di impugnazione, quale disciplinato
dalle norme in disamina,
nulla ostando né nelle previsioni della legge 92 del
2012 (art. 1, commi 48 e
seguenti) né nel corpo normativo di cui al d.lgs.
165 del 2001 ed anzi militando,
per la generale applicazione ad ogni impugnativa di
licenziamento ai sensi
dell'art. 18 S.L., la espressa previsione dell'art.
1 comma 47, della legge del 2012.
3.5 - L'avere il ricorrente incidentale invocato una
normativa sostanziale non
applicabile al rapporto non esime, peraltro, la
Corte dall'esame delle censure
mosse alla sentenza impugnata, poiché il principio
iura novit curia impone ai
giudice di ricercare le norme giuridiche applicabili
alla concreta fattispecie
sottoposta al suo esame, ponendo a fondamento della
sua decisione principi di
diritto diversi da quelli erroneamente richiamati
dalle parti, purché il petitum e la causa petendi della domanda proposta restino
immutati.
Nel caso di specie il ricorrente incidentale ha
invocato la tutela reintegratoria sul
presupposto della insussistenza dei fatti contestati
e, comunque, della giusta
causa, sicché la domanda formulata risulta
compatibile con la disciplina
effettivamente applicabile al rapporto (Corte
di Cassazione, Sez. lavoro, con la
sentenza 09.06.2016
n. 11868). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Strade, reti e servizi: il Codice appalti
riscrive le procedure. Realizzabili senza gara gli
interventi extra-standard.
Opere di urbanizzazione. Regole diverse per i lavori a
scomputo.
La nuova
disciplina in materia di appalti pubblici interessa anche le
operazioni immobiliari di sviluppo private. Il Codice (Dlgs
50/2016) regola infatti anche gli accordi tra i Comuni e i
costruttori per la realizzazione delle opere di
urbanizzazione a scomputo del contributo di costruzione.
Il vecchio sistema
Il previgente sistema (Dlgs 163/2006) assoggettava a diverso
regime la realizzazione delle opere di urbanizzazione
primaria (strade, parcheggi, reti elettriche, idriche e
fognarie) e secondaria (scuole, edifici religiosi, culturali
e sociali, parchi), distinguendo anche i casi in cui
l’ammontare delle opere fosse superiore o inferiore alla
soglia di rilevanza comunitaria (attualmente pari a
5.225.000 euro per gli appalti di lavori).
In particolare, la realizzazione di opere di urbanizzazione
primaria e secondaria da eseguire a scomputo oneri e con
valore superiore alla soglia seguiva una procedura a
evidenza pubblica, secondo l’ordinario percorso di gara
–aperta o ristretta– previsto dal vecchio Codice. Mentre
l’affidamento dei lavori inerenti alle opere di
urbanizzazione secondaria a scomputo e di valore inferiore
alla soglia di rilevanza doveva seguire una procedura
negoziata, senza previa pubblicazione del bando, con invito
rivolto ad almeno cinque soggetti idonei (articolo 122, comma
8, Dlgs 163/2006).
In virtù del comma 2-bis, articolo 16 del Dpr 380/2001
(introdotto dal Dl 201/2011 “Salva Italia”), le opere
di urbanizzazione primaria di importo inferiore alla soglia
comunitaria -sempreché funzionali all’intervento di
trasformazione urbanistica- potevano invece essere
realizzate a cura del titolare del permesso di costruire
(ovvero da questi liberamente assegnate a terzi) senza
applicare le norme del Dlgs 163/2006. Ma se l’opera di
urbanizzazione primaria sotto soglia non era funzionale
all’intervento, si doveva applicare la procedura negoziata
prevista all’articolo 122, comma 8.
Il nuovo sistema
Il Dlgs 50/2016 modifica parzialmente tale quadro, ma in
modo significativo.
Per le opere di urbanizzazione primaria e secondaria sopra
la soglia, resta ferma la piena applicabilità delle
procedure a evidenza pubblica ordinariamente previste dal
nuovo Codice. Così come, per le opere di urbanizzazione
primaria sotto soglia ma funzionali agli interventi di
trasformazione, continua ad applicarsi l’esclusione prevista
dal comma 2-bis, articolo 16, del Dpr 380/2001.
Per le opere di urbanizzazione secondaria sotto soglia e per
quelle di urbanizzazione primaria sotto soglia e non
funzionali all’intervento, invece, occorre ora far ricorso
alla procedura ordinaria, con avviso o bando di gara
(articolo 36, comma 3, Dlgs 50/2016).
Le opere non a scomputo
Altra novità rilevante, ma all’insegna della
semplificazione, è introdotta rispetto al tema (molto
dibattuto in dottrina e giurisprudenza) delle opere di
urbanizzazione che non vanno a scomputo del contributo di
costruzione. Vale a dire quelle opere, spesso previste dalle
convenzioni urbanistiche, realizzate in più rispetto agli
obblighi che da regolamento i Comuni attribuiscono ai
costruttori.
A riguardo, è bene ricordare che il criterio per applicare
le procedure a evidenza pubblica viene normalmente
riconosciuto nel requisito dell’onerosità della prestazione.
E in tale ottica, la normativa in materia di appalti non si
dovrebbe applicare alle opere pubbliche non a scomputo
(ossia a quelle con costi interamente a carico del privato).
In merito, l’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici
(determinazione 4/2008) aveva però precisato che il costo
delle “opere extra”, per quanto non scomputato dai
contributi ordinari, rappresenterebbe comunque un
corrispettivo riconosciuto al Comune a fronte
dell’approvazione del progetto di sviluppo. Non essendo
quindi opere realizzate dal costruttore in spirito di
liberalità, avrebbero dovuto seguire le procedure di
evidenza pubblica per la selezione dei soggetti chiamate a
realizzarle.
L’articolo 20 del Dlgs 50/2016 ricollega invece
l’applicabilità delle regole pubblicistiche solo ai casi in
cui il requisito dell’onerosità sussiste in via diretta e
immediata. Il nuovo Codice, dunque, non si applica quando
un’amministrazione stipula una convenzione con cui un
soggetto si impegna a realizzare a sua cura e spese, cioè
senza scomputarne il valore dai contributi dovuti al Comune,
un’opera pubblica prevista nell’ambito di strumenti o
programmi urbanistici.
In questi casi, è tuttavia previsto che l’amministrazione
svolga una funzione di controllo preventivo: prima della
stipula, valuterà infatti il progetto di fattibilità delle
opere e lo schema dei contratti di appalto. Spetterà inoltre
alla convenzione disciplinare le conseguenze in caso di
inadempimento.
---------------
Per importi elevati si applica ancora
l’iter ordinario. Valori rilevanti. Confermata la prassi del
Dlgs 163/2006.
Il quadro dei
procedimenti previsti per realizzare le opere di
urbanizzazione a scomputo è stato parzialmente rivisto.
Pur continuando a differenziare, a livello nominale, tra
opere di urbanizzazione primaria e secondaria, di valore
superiore o inferiore alla soglia di rilevanza comunitaria,
il Dlgs 50/2016 mantiene solo alcune delle distinzioni del
precedente assetto normativo (Dlgs 163/2006).
Per quanto concerne le opere di urbanizzazione primaria e
secondaria sopra la soglia di rilevanza comunitaria, la
scelta del soggetto a cui affidare i lavori è rinviata dal
nuovo Codice –così come dal previgente– alle ordinarie
procedure di gara, aperte o ristrette, previa pubblicazione
di un bando o un avviso (si veda l’articolo a lato).
In caso di procedura aperta, qualsiasi operatore economico
interessato potrà dunque presentare un’offerta in risposta
all’avviso di gara. Mentre nelle procedure ristrette si
dovrà presentare una specifica «domanda di partecipazione»,
e solo gli operatori economici espressamente invitati –dopo
l’opportuna valutazione– potranno presentare un’offerta.
Diversamente da quanto previsto in passato, per effetto
dell’articolo 36, comma 3, del Dlgs 50/2016, le procedure
ordinarie sono oggi applicabili anche per l’affidamento dei
lavori per le opere di urbanizzazione primaria, non
funzionali all’intervento, e secondaria a scomputo, anche se
di importo inferiore alla soglia comunitaria.
Nel quadro complessivo relativo alla realizzazione delle
opere di urbanizzazione permane, in ogni caso, un’eccezione.
Il nuovo Codice appalti fa infatti salvo quanto previsto dal
comma 2-bis, articolo 16, del Dpr 380/2001 secondo cui,
nell’ambito degli strumenti attuativi, nonché degli
interventi in attuazione dello strumento urbanistico
generale, l’esecuzione diretta delle opere di urbanizzazione
primaria di importo inferiore alla soglia -se funzionali
all’intervento di trasformazione urbanistica del territorio-
è a carico del titolare del permesso di costruire, e non si
applicano le disposizioni in materia di contratti pubblici.
In tali fattispecie, la realizzazione delle opere potrà
dunque avvenire prescindendo dalle regole per la selezione a
evidenza pubblica dell’appaltatore previste dal nuovo
Codice. Come rilevato dall’Autorità nazionale anticorruzione
(nella deliberazione 46 del 03.05.2012), con la norma in
esame «il legislatore ha di fatto estromesso detta
tipologia di lavori dalla categoria delle opere pubbliche».
---------------
La convenzione già stipulata segue la vecchia
normativa. Entrata in vigore. Fuori dal DLgs 50/2016 gli
accordi aggiudicati prima del 20 aprile.
Il Codice degli
appalti «entra in vigore il giorno stesso della sua
pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale» e «si applica
alle procedure e ai contratti per i quali i bandi o avvisi
con cui si indice la procedura di scelta del contraente
siano pubblicati successivamente alla data della sua entrata
in vigore».
Così è scritto nel Dlgs 50/2016, che è stato pubblicato
online sulla Gazzetta Ufficiale (n. 91) il 19 aprile scorso,
ma dopo le 22. Tale circostanza –come ha spiegato l’Anac con
nota del 3 maggio scorso– impone che, in base all’articolo
11 delle preleggi al Codice civile e «all’esigenza di
tutela della buona fede delle stazioni appaltanti», le
disposizioni del decreto si applichino a bandi e avvisi
pubblicati a decorrere dal 20.04.2016.
La stessa Autorità anticorruzione, pochi giorni dopo quella
nota, ha però dovuto chiarire a quali ulteriori casi
specifici –oltre quelli enunciati dalla norma– continuano ad
applicarsi le disposizioni previgenti. Con un comunicato del
presidente Raffaele Cantone, l’11 maggio è stato dunque
precisato che le norme del “vecchio” Dlgs 163/2006
valgono anche per gli «affidamenti diretti o procedure
negoziate in attuazione di accordi quadro aggiudicati prima
dell’entrata in vigore del nuovo Codice» e per le «adesioni
a convenzioni stipulate prima dell’entrata in vigore del
nuovo Codice».
Il chiarimento dell’Anac sembra fondarsi sulla necessità di
garantire l’affidamento generato dalle convenzioni stipulate
con l’amministrazione, che prevedano l’applicazione di
determinate procedure, nonché sulla necessità di
salvaguardare le attività già avviate ai fini delle
procedure stesse: ciò anche in conformità ai principi di
efficacia ed efficienza della Pa enunciati all’articolo 97
della Costituzione.
Ma il chiarimento può avere notevole incidenza sulle opere
di urbanizzazione a scomputo previste nell’ambito delle
convenzioni urbanistiche, per le quali è mutato il regime di
scelta dell’appaltatore (si vedano l’articolo e lo schema in
pagina). Il richiamo alle «convenzioni stipulate prima
dell’entrata in vigore del nuovo Codice» sembra infatti
riferibile anche a tale specifica tipologia di accordi: in
particolare, a tutti i casi in cui la convenzione
urbanistica disciplini le modalità per la selezione
dell’impresa o comunque contenga previsioni tali da generare
un affidamento sul soggetto attuatore.
Al contrario, alle convenzioni urbanistiche che non
dispongono sulle procedure per realizzare le opere di
urbanizzazione, e per le quali non siano comunque stati
pubblicati i relativi bandi o avvisi, dovrebbe applicarsi il
regime del nuovo Codice, con conseguenze di forte apertura
(si pensi alle opere extra-oneri ora tendenzialmente
liberalizzate) o di appesantimento procedurale (come nel
caso delle opere secondarie sotto soglia ora soggette alle
procedure a evidenza pubblica ordinarie).
Ad ogni modo, il tema potrà essere ulteriormente declinato
grazie alle linee giuda che l’Anac è impegnata ad adottare
entro 90 giorni dall’entrata in vigore del Dlgs 50/2016, per
offrire indicazioni interpretative e attuative agli
operatori del settore
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.06.2016
- tratto da
http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
IN EVIDENZA |
PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI:
Abuso d’ufficio il direttore generale di un Comune che
esprime una valutazione negativa della professionalità di un
proprio sottoposto al fine di bloccargli la progressione
economica.
La prova del dolo intenzionale del
delitto di abuso d'ufficio deve essere ricavata da elementi
ulteriori rispetto al comportamento non iure osservato
dall'agente, che evidenzino la effettiva ratio ispiratrice
del comportamento dell'agente, senza che al riguardo possa
rilevare la compresenza di una finalità pubblicistica, salvo
che il perseguimento del pubblico interesse costituisca
l'obiettivo principale dell'agente.
Si è anche condivisibilmente affermato che
il dolo intenzionale non è escluso per il solo fatto del
perseguimento da parte del pubblico agente di una finalità
pubblica, laddove la stessa rappresenti una mera occasione
della condotta illecita, posta in essere invece al preciso
scopo di perseguire, in via immediata, un danno ingiusto ad
altri o un vantaggio patrimoniale ingiusto per sé o per
altri.
Va richiamato l'insegnamento, secondo cui
la prova del dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie
criminosa dell'abuso di ufficio, può essere desunta anche da
elementi sintomatici come la macroscopica illegittimità
dell'atto compiuto.
---------------
2. Il primo motivo
è palesemente infondato.
In sede di appello, l'imputato aveva soltanto contestato la
sussistenza della condotta lesiva del principio di
imparzialità della P.A., sostenendo che il suo comportamento
era stato ispirato alla finalità di «premiare i
dipendenti produttivi e spronare quelli improduttivi a fare
meglio per poter ottenere dei riconoscimenti di natura
economica al contempo evitando di incorrere in eventuali
danni erariali ove non rispettasse la ratto della PEO».
Pertanto, oltre a non aver sollevato la questione, è lo
stesso imputato a riconoscere alla valutazione PEO un
diretto impatto economico sui dipendenti. In ogni caso, la
sentenza impugnata dimostra per tabulas l'ingiustizia
del danno patito dall'An., richiamando le iniziative legali
vittoriose da questo intraprese in sede civile per
ristabilire i propri diritti.
Invero, il sistema di progressione economica orizzontale
prevede la selezione -sulla base della valutazione del
personale che ne abbia fatto domanda e quindi una
graduatoria di merito- di dipendenti meritevoli ad accedere
a diverse posizioni economiche all'interno di una stessa
categoria.
Il vulnus arrecato
all'An. con l'attribuzione di un punteggio
insufficiente per il passaggio alla categoria D4 realizzava
quindi l'evento del danno ingiusto richiesto dall'art. 323
cod. pen., che -come più volte chiarito dalla Suprema Corte-
non deve intendersi limitato solo a situazioni soggettive di
carattere patrimoniale e nemmeno a diritti soggettivi
perfetti, riguardando l'aggressione ingiusta alla sfera
della personalità per come tutelata dai principi
costituzionali
(tra le tante, Sez. 5, n. 32023 del 19/02/2014, Omodeo
Zorini, Rv. 261899).
Nel caso in esame, oltre all'impossibilità
di accedere alla selezione per l'incremento economico (come
tale tutelabile davanti al giudice ordinario,
cfr. Sez. U civ., n. 26295 del 31/10/2008, Rv. 605275),
il danno subito dall'An. era da rinvenirsi
anche alla perdita di prestigio e di decoro nei confronti
dei propri colleghi di lavoro, strettamente connesso alla
valutazione decisamente negativa e pregiudizievole emessa a
suo carico dall'imputato.
...
4. Non può essere accolto neppure l'ultimo motivo.
Il ricorrente sostiene che la sentenza impugnata non abbia
motivato sul perché l'agire dell'imputato non fosse stato
sorretto dalla finalità di perseguire il buon andamento
dell'ente.
Va ribadito al riguardo che la prova del
dolo intenzionale del delitto di abuso d'ufficio deve essere
ricavata da elementi ulteriori rispetto al comportamento
non iure osservato dall'agente, che evidenzino la
effettiva ratio ispiratrice del comportamento
dell'agente, senza che al riguardo possa rilevare la
compresenza di una finalità pubblicistica, salvo che il
perseguimento del pubblico interesse costituisca l'obiettivo
principale dell'agente
(Sez. 2, n. 23019 del 05/05/2015, Adamo, Rv. 264280).
Si è anche condivisibilmente affermato che
il dolo intenzionale non è escluso per il solo fatto del
perseguimento da parte del pubblico agente di una finalità
pubblica, laddove la stessa rappresenti una mera occasione
della condotta illecita, posta in essere invece al preciso
scopo di perseguire, in via immediata, un danno ingiusto ad
altri o un vantaggio patrimoniale ingiusto per sé o per
altri (Sez. 3, n.
10810 del 17/01/2014, Altieri, Rv. 258893).
Fatte queste premesse, appaiono quindi non dirimenti le
osservazioni difensive.
Per il resto, le critiche sulle carenze motivazionali in
ordine all'elemento soggettivo si rivelano parimenti
infondate.
La sentenza impugnata ha sufficientemente dimostrato come
l'imputato avesse perseguito come obiettivo primario del suo
operato (evento tipico) quello di danneggiare la persona
offesa per ritorsione e vendetta personale, traendo elementi
dimostrativi dalla modalità della condotta, che si era
estrinsecata in punteggi così ingiustificatamente negativi
(come il punteggio per i rapporti con il dirigente pari a
uno) da rivelare le reali intenzioni dell'imputato.
A tal riguardo va richiamato l'insegnamento, secondo cui
la prova del dolo intenzionale, che qualifica la
fattispecie criminosa dell'abuso di ufficio, può essere
desunta anche da elementi sintomatici come la macroscopica
illegittimità dell'atto compiuto
(Sez. 6, n. 36179 del 15/04/2014, Dragotta, Rv. 260233; Sez.
3, n. 48475 del 07/11/2013, Scaramazza, Rv. 258290; Sez. 6,
n. 49554 del 22/10/2003, Cianflone, Rv. 227205) (Corte
di Cassazione, Sez. VI penale,
sentenza 19.05.2016 n. 20974). |
IN EVIDENZA |
PUBBLICO IMPIEGO:
Dipendente pubblico e autorizzazione ad assumere incarichi:
sanzioni al G.O..
Spetta al giudice ordinario e non a
quello tributario la giurisdizione sulle sanzioni inflitte
al pubblico dipendente per mancanza di autorizzazione ad
assumere incarichi.
Per la Corte di Cassazione è irrilevante a circostanza che
la sanzione venga inflitta da un Ufficio Finanziario, in
quanto la natura tributaria o no del rapporto deve essere
accertata su un piano meramente oggettivo; la controversia
rientra nella giurisdizione del giudice ordinario in tutti i
casi in cui non abbia ad oggetto l'esercizio del potere
impositivo, sussumibile nello schema potestà - soggezione,
bensì un rapporto implicante un accertamento avente valore
meramente incidentale.
Con una importante decisione emessa in tema di
giurisdizione, le Sezioni Unite della Cassazione hanno
affermato il principio per cui rientrano nella giurisdizione
del giudice ordinario e non in quella delle Commissione
tributarie le controversie insorte tra la Pubblica
Amministrazione ed i pubblici dipendenti riguardanti
incarichi retribuiti a questi ultimi senza la previa
autorizzazione dell'amministrazione di appartenenza dei
dipendenti stessi, a nulla rilevando che per legge
all'accertamento delle violazioni e all'irrogazione delle
sanzioni provvede il Ministero delle finanze, ciò in quanto
la previsione dell'obbligo dell'autorizzazione
dell'amministrazione di appartenenza per il conferimento di
un incarico retribuito ad un pubblico dipendente inerisce
strettamente allo svolgimento del rapporto di pubblico
impiego e non è certamente riconducibile ad un rapporto
tributario.
Il fatto trae origine dal contenzioso instaurato tra un
contribuente e l’Agenzia delle Entrate.
In breve, i fatti.
F.A., quale amministratore di un condominio, proponeva
opposizione, dinnanzi al Giudice di pace avverso l'ordinanza
ingiunzione emessa dall'Agenzia delle entrate, con la quale
veniva irrogata la sanzione di euro 8.236,80, per avere,
negli anni 2006 e 2007, conferito un incarico ad un
dipendente pubblico senza l'autorizzazione
dell'amministrazione di appartenenza.
Il Giudice di pace dichiarava il difetto di giurisdizione
del giudice ordinario e l'opponente riassumeva il giudizio
dinnanzi alla Commissione tributaria provinciale. Si
costituiva l'Agenzia delle entrate deducendo che la
giurisdizione spettava al giudice ordinario.
La CTP sollevava regolamento di giurisdizione d'ufficio
chiedendo alla Corte di Cassazione di affermare la
giurisdizione del giudice ordinario.
Il P.G. concludeva chiedendo che venisse dichiararla la
giurisdizione del giudice ordinario.
La Cassazione, a Sezioni Unite, ha accolto la tesi della CTP,
affermando un principio già presente nella giurisprudenza
della Corte ma che, per la sua importanza, merita qui di
essere ribadito.
In particolare, ricordano i Supremi Giudici, la Corte
costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale
dell'art. 2 del d.lgs. n. 546 del 1992 (come sostituita
dall'art. 12, comma 2, della legge n. 448 del 2001), nella
parte in cui attribuiva alla giurisdizione tributaria le
controversie relative a tutte le sanzioni irrogate da uffici
finanziari, anche quando conseguenti alla violazione di
disposizioni non aventi natura fiscale.
Le Sezioni Unite della Cassazione hanno poi ribadito
l'irrilevanza della circostanza che la sanzione venga
inflitta da un Ufficio Finanziario, in quanto la natura
tributaria o no del rapporto deve essere accertata su un
piano meramente oggettivo, chiarendo ulteriormente che
rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la
controversia, in tutti i casi in cui non abbia ad oggetto
l'esercizio del potere impositivo, sussumibile nello schema
potestà - soggezione, bensì un rapporto implicante un
accertamento avente valore meramente incidentale.
Nella specie, risulta evidente che la disposizione violata,
in relazione alla quale è stata emessa
l'ordinanza-ingiunzione, è norma afferente alla disciplina
del rapporto di pubblico impiego, trattandosi di
disposizione (art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001) inserita
nel testo comprendente le norme generali sull'ordinamento
del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche.
In relazione ai fini che qui rilevano, l'art. 53, comma 9,
nel testo ratione temporis (anni 2006 e 2007)
applicabile, prevedeva che “Gli enti pubblici economici e
i soggetti privati non possono conferire incarichi
retribuiti a dipendenti pubblici senza la previa
autorizzazione dell'amministrazione di appartenenza dei
dipendenti stessi. In caso di inosservanza si applica la
disposizione dell'articolo 6, comma 1, del decreto legge
28.03.1997, n. 79, convertito, con modificazioni, dalla
legge 28.05.1997, n. 140, e successive modificazioni ed
integrazioni. All'accertamento delle violazioni e
all'irrogazione delle sanzioni provvede il Ministero delle
finanze, avvalendosi della Guardia di finanza, secondo le
disposizioni della legge 24.11.1981, n. 689, e successive
modificazioni ed integrazioni. Le somme riscosse sono
acquisite alle entrate del Ministero delle finanze” (ma,
nella sostanza, la formulazione della disposizione non è
mutata alla data della proposizione della opposizione).
Orbene, pur se dai commi successivi si evince che la
disciplina in questione è finalizzata anche al controllo dei
compensi percepiti dai pubblici dipendenti ai fini
dell'assoggettamento degli stessi a imposizione, ciò non di
meno la previsione dell'obbligo dell'autorizzazione
dell'amministrazione di appartenenza per il conferimento di
un incarico retribuito ad un pubblico dipendente inerisce
strettamente allo svolgimento del rapporto di pubblico
impiego e non è certamente riconducibile ad un rapporto
tributario.
Da qui, dunque, l’esistenza della giurisdizione del giudice
ordinario.
Di rilievo le conseguenze pratiche della sentenza.
Ed invero, secondo l’interpretazione offerta dalla
Cassazione, in tema di giurisdizione, rientrano nella
giurisdizione del giudice ordinario e non in quella delle
Commissione tributarie le controversie insorte tra la
Pubblica Amministrazione ed i pubblici dipendenti
riguardanti incarichi retribuiti a questi ultimi senza la
previa autorizzazione dell'amministrazione di appartenenza
dei dipendenti stessi, a nulla rilevando che per legge
all'accertamento delle violazioni e all'irrogazione delle
sanzioni provvede il Ministero delle finanze, ciò in quanto
la previsione dell'obbligo dell'autorizzazione
dell'amministrazione di appartenenza per il conferimento di
un incarico retribuito ad un pubblico dipendente inerisce
strettamente allo svolgimento del rapporto di pubblico
impiego e non è certamente riconducibile ad un rapporto
tributario.
Precedenti giurisprudenziali: Non si registrano precedenti
in termini (commento tratto da www.ipsoa.it - Corte di
Cassazione, Sezz. unite civili,
ordinanza 08.06.2016 n. 11709). |
ARAN |
PUBBLICO IMPIEGO: Alle
posizioni organizzative niente soldi per il lavoro in più.
Aran. Va garantito l’orario minimo delle 36 ore settimanali.
I titolari di posizione organizzativa sono tenuti a
garantire che la loro prestazione settimanale non sia
inferiore a 36 ore, al pari di tutti i dipendenti. Nel caso
in cui questa soglia minima non venga garantita, l’ente deve
chiedere lo svolgimento di prestazioni aggiuntive
compensative o, in caso di mancata realizzazione, il
recupero delle somme illegittimamente erogate, facendo in
questo caso riferimento alla retribuzione individuale
mensile.
Sono queste le indicazioni dettate dall’Aran in risposta a
una serie di quesiti.
Il primo elemento da sottolineare è che le posizioni
organizzative sono tenute a garantire la prestazione oraria
minima settimanale prevista dal contratto collettivo
nazionale di lavoro del 01.04.1999, cioè 36 ore
settimanali. A differenza degli altri dipendenti, le loro
prestazioni aggiuntive non danno luogo ad alcuna
remunerazione, neppure nella forma del recupero
compensativo. Fanno eccezione a questa disposizione
solamente le attività svolte come straordinario elettorale
rimborsato da altre amministrazioni e quello svolto durante
calamità naturali. Essi hanno cioè una condizione intermedia
tra i dipendenti (che devono svolgere almeno 36 ore
settimanali e il cui surplus orario considerato come lavoro
straordinario) e i dirigenti (che non hanno un vincolo
orario).
L’Aran detta un insieme di indicazioni che sono analoghe a
quelle previste per il resto del personale dipendente in
caso di mancato rispetto di questo vincolo. Quando si sia
accumulata una differenza negativa è necessario che l’ente
provveda rapidamente. La prima strada è quella della
proposta di un piano di recupero entro cui concretizzare
l’azzeramento del debito orario. Nel caso in cui questa
soluzione non sia possibile, oppure nel caso in cui il
dipendente si opponga, l’amministrazione deve dare corso al
recupero del trattamento economico accessorio che è stato
illegittimamente erogato.
Con un altro parere l’Aran detta le modalità attraverso le
quali effettuare il recupero. In particolare, chiarisce che
occorre utilizzare la retribuzione individuale mensile. Alla
base della scelta c’è la constatazione che questa è la forma
di retribuzione da assumere come base in caso di trattenute
per scioperi brevi.
Va ricordato che questa è composta dalle
seguenti voci: posizione iniziale di accesso di ogni
categoria (quindi anche B3 e D3) comprensiva della indennità
integrativa speciale conglobata, incrementi economici
derivanti dalle progressioni economiche conseguite, assegni
personali non riassorbibili e riassorbibili, retribuzione
individuale di anzianità, retribuzione di posizione ed altri
eventuali assegni ad personam, siano essi riassorbibili o
meno. In questa voce non sono cioè compresi né la indennità
di comparto né le varie forme di salario accessorio
variabile, ivi compresa la indennità di risultato.
Le amministrazioni sono infine chiamate a valutare se sia
necessario dare corso a un procedimento disciplinare. Questa
riflessione deve condurre all’avvio dello stesso in caso di
accumulo di debito orario in modo non occasionale e/o per un
periodo di tempo prolungato e/o non adeguatamente
giustificato (articolo Il Sole 24 Ore del
23.05.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
UTILITA' |
SICUREZZA LAVORO:
Il
D.Lgs. 09.04.2008 n. 81 -noto come Testo Unico in
materia di salute e sicurezza sul lavoro- coordinato con il
Decreto Legislativo 03.08.2009 n. 106 e con i successivi
ulteriori decreti integrativi e correttivi (aggiornato
nell'edizione giugno 2016 - tratto da
www.lavoro.gov.it). |
APPALTI: Infografica:
il direttore dei lavori secondo il nuovo Codice appalti in
11 step.
Infografica direttore dei lavori in 11 step: ecco tutte le
attività del dl, sia in fase preliminare che esecutiva
secondo il nuovo Codice appalti (09.06.2016 - link a www.acca.it). |
APPALTI: Infografica
“I compiti del Rup secondo il nuovo Codice appalti in 8
step!”.
Compiti del Rup, verifiche e controlli durante l’esecuzione
secondo il nuovo Codice appalti. Ecco tutto quello che
occorre sapere nell’infografica in 8 step (26.05.2016
- link a www.acca.it). |
APPALTI: Infografica
PDF con i soggetti delle stazioni appaltanti secondo il
nuovo Codice appalti.
Infografica PDF con i soggetti delle stazioni appaltanti:
Rup, direttore dei lavori, direttore dell’esecuzione,
collaudatore, coordinatore della sicurezza e verificatore
della conformità. Chi sono e cosa fanno (19.05.2016 - link a www.acca.it). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
OGGETTO: Controllo di regolarità amministrativa e
contabile su documenti amministrativi informatici - regole
tecniche previste dal DPCM 13.11.2014 (MEF-RGS,
circolare 09.06.2016 n. 17). |
A.N.AC. (già
AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI) |
APPALTI: Ulteriori
Linee guida attuative del nuovo Codice dei Contratti
Pubblici. Consultazioni on-line del 10.06.2016 –
Invio contributi entro il 27.06.2016.
Gli artt. 80, comma 5, lett. c), 83, comma 10, 177, comma 3
e 181, comma 4, del d.lgs. 50/2016 prevedono l’adozione, da
parte dell’ANAC, di atti a carattere generale finalizzati a
dare attuazione alle disposizioni del Codice e/o ad offrire
indicazioni operative e interpretative agli operatori del
settore (stazioni appaltanti, imprese esecutrici, organismi
di attestazione) nell’ottica di perseguire gli obiettivi di
semplificazione e standardizzazione delle procedure,
trasparenza ed efficienza dell’azione amministrativa,
apertura della concorrenza, garanzia dell’affidabilità degli
esecutori, riduzione del contenzioso.
Sulla base delle citate previsioni e considerate le
disposizioni transitorie di cui agli artt. 216 e 217 del
Codice, l’Autorità, dopo la pubblicazione dei primi
documenti di consultazione finalizzati all’emanazione delle
Linee guida attuative del Codice dei Contratti pubblici,
intende sottoporre a consultazione, ai sensi del Regolamento
dell’08/04/2015 recante la disciplina della partecipazione
ai procedimenti di regolazione e del Regolamento del
27/11/2013 recante la disciplina dell’analisi di impatto
della regolamentazione (AIR) e della verifica dell’impatto
della regolamentazione (VIR), ulteriori documenti prodromici
alla predisposizione degli atti di propria competenza.
Si tratta di:
1. Linee guida per l'indicazione dei mezzi di prova
adeguati e delle carenze nell'esecuzione di un precedente
contratto di appalto che possano considerarsi significative
per la dimostrazione delle circostanze di esclusione di cui
all'art. 80, comma 5, lett. c) del Codice;
2. Criteri reputazionali per la qualificazione delle
imprese;
3. Linee guida sui sistemi di monitoraggio delle
amministrazioni aggiudicatrici sull'attività dell'operatore
economico nei contratti di partenariato pubblico privato.
Si evidenzia che, attesi i tempi ristretti per
l’approvazione degli atti definitivi, è concesso un termine
ridotto per la presentazione dei contributi, pari a quindici
giorni dalla pubblicazione del documento. Pertanto, il
termine per la presentazione delle osservazioni è fissato
alle ore 12 del 27.06.2016, mediante compilazione
dell’apposito modello.
Attraverso la consultazione, l’Autorità intende acquisire il
punto di vista dei soggetti interessati su tutti gli
argomenti indicati nei documenti presentati. Si chiede,
pertanto, di inviare osservazioni sulle proposte ivi
contenute, indicare ulteriori elementi che si ritiene
opportuno approfondire nelle linee guida e proporre
integrazioni su specifici aspetti
(link a www.anticorruzione.it). |
APPALTI: Oggetto:
Questioni interpretative relative all’applicazione delle
disposizioni del d.lgs. 50/2016 nel periodo transitorio
(comunicato
del Presidente 08.06.2016 -
link a www.anticorruzione.it). |
APPALTI SERVIZI:
Linee guida operative e clausole contrattuali-tipo per
l’affidamento di servizi assicurativi (deliberazione
08.06.2016 n. 618 - link a
www.anticorruzione.it). |
APPALTI:
Oggetto: Procedimenti per l’iscrizione nel casellario
informatico di cui all’art. 80, comma 5, lett. g), del
d.lgs. n. 50/2016 (comunicato
del Presidente 31.05.2016 - link a
www.anticorruzione.it). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 24 del 14.06.2016, "Approvazione
delle disposizioni attuative per l’adesione alla deroga
concessa dalla commissione europea ai sensi della direttiva
91/676/CEE del Consiglio relativa alla protezione delle
acque dall’inquinamento provocato dai nitrati provenienti da
fonti agricole, nel periodo 2016-2019"
(decreto
D.U.O. 10.06.2016 n. 5403). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 23 del 10.06.2016,
"Prescrizioni integrative tipo per le autorizzazioni
all’utilizzo, a beneficio dell’agricoltura, dei fanghi di
depurazione delle acque reflue di impianti civili ed
industriali" (deliberazione
G.R. 06.06.2016 n. 5269). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
G.U. 08.06.2016 n. 132 "Revisione e semplificazione delle
disposizioni in materia di prevenzione della corruzione,
pubblicità e trasparenza, correttivo della legge 06.11.2012,
n. 190 e del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, ai sensi
dell’articolo 7 della legge 07.08.2015, n. 124, in materia
di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche" (D.Lgs.
25.05.2016 n. 97). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - URBANISTICA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 23 dell'08.06.2016,
"Linee guida per il riutilizzo e la riqualificazione
urbanistica delle aree contaminate (art. 21-bis, l.r.
26/2003 - Incentivi per la bonifica di siti contaminati)"
(deliberazione
G.R. 31.05.2016 n. 5248). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 23 del 07.06.2016,
"Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del regolamento
regionale 21.01.2000, n. 1, dei nominativi e degli estremi
dei provvedimenti di riconoscimento di tecnico competente in
acustica ambientale alla data del 31.05.2016, in attuazione
dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447
e della deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935"
(comunicato
regionale 01.06.2016 n. 95). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
G.U. 07.06.2016 n. 131 "Incremento progressivo
dell’applicazione dei criteri minimi ambientali negli
appalti pubblici per determinate categorie di servizi e
forniture" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del
Territorio e del Mare,
decreto 24.05.2016). |
INCARICHI PROGETTUALI:
G.U. 07.06.2016 n. 131 "Determinazione dei punteggi
premianti per l’affidamento di servizi di progettazione e
lavori per la nuova costruzione, ristrutturazione e
manutenzione degli edifici e per la gestione dei cantieri
della pubblica amministrazione, e dei punteggi premianti per
le forniture di articoli di arredo urbano" (Ministero
dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare,
decreto 24.05.2016). |
VARI:
G.U. 04.06.2016 n. 129 "Regolamento recante attuazione
dell’articolo 1, comma 154, della legge 28.12.2015, n. 208
(Canone Rai in bolletta)" (Ministero dello Sviluppo
Economico,
decreto 13.05.2016 n. 94). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 22 del 31.05.2016,
"Approvazione del bando per la diffusione dei punti di
ricarica privata per autoveicoli elettrici in attuazione
della d.g.r. n. 4769 del 28.01.2016" (decreto
D.U.O. 20.05.2016 n. 4486). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R.
Lombardia, supplemento n. 22 del 30.05.2016, "Legge di
semplificazione 2016" (L.R.
26.05.2016 n. 14).
-----------------
La legge regionale n. 14 del 26.05.2016 ("Legge di
semplificazione 2016"), pubblicata sul BURL n. 22,
Supplemento, del 30.05.2016, all'art. 13 introduce alcune
modifiche alla Legge per il governo del territorio.
Le integrazioni o modifiche più significative, con
l'indicazione dei corrispondenti articoli della l.r. n. 12
del 2005, sono:
●
obbligo di utilizzo del database topografico (DBT), utile
per uniformare le basi geografiche di riferimento del
territorio regionale (art. 3)
●
eliminazione dei 15 mila abitanti per l'adozione e
l'approvazione dei piani attuativi conformi da parte della
Giunta comunale (art. 14)
●
previsione del permesso di costruire convenzionato come
modalità di intervento, comunque opzionale, in alternativa
al piano attuativo all’interno del tessuto urbano
consolidato (art. 14, nuovo comma 1-bis)
●
nuove modalità snelle di adeguamento del Piano Territoriale
Regionale (PTR) e di aggiornamento dei Piani Territoriali
Regionali d'Area nel caso di modifiche derivanti da
avanzamenti progettuali (art. 22)
●
pubblicazione finale dei PGT approvati dai Commissari ad
acta, e connessa efficacia, disposta d’ufficio dalla Giunta
regionale, se questa non è già intervenuta (art. 25-bis)
●
nuova disciplina dello Sportello unico telematico per
l'edilizia, nella prospettiva dell’interoperabilità,
valorizzando la modulistica edilizia unificata e
standardizzata (art. 32)
●
precisazioni normative in merito alla disciplina delle
autorizzazioni paesaggistiche, già revisionata con la
precedente Legge di semplificazione 2015 (art. 80) (commento
tratto da www.territorio.regione.lombardia.it). |
EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO:
G.U. 25.05.2016 n. 121 "Prescrizioni per l’attuazione,
con scadenze differenziate, delle vigenti normative in
materia di prevenzione degli incendi per l’edilizia
scolastica" (Ministero dell'Interno,
decreto 12.05.2016). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
PUBBLICO IMPIEGO:
Licenziamenti nel pubblico impiego: inapplicabile la legge
Fornero (10.06.2016 - tratto da
www.ipsoa.it). |
APPALTI:
UE: online il servizio web per la compilazione del Documento
di gara unico europeo (DGUE). Il modulo on-line può essere
compilato, stampato e poi inoltrato all'acquirente con le
altre parti dell'offerta.
La Commissione europea ha attivato un servizio web a
disposizione degli acquirenti, degli offerenti e di altre
parti interessate a compilare il
Documento di gara unico europeo (D.G.U.E.)
elettronicamente.
Il Documento di gara unico europeo è un'autodichiarazione
dell'impresa sulla propria situazione finanziaria, sulle
proprie capacità e sulla propria idoneità per una procedura
di appalto pubblico. È disponibile in tutte le lingue
dell'UE e si usa per indicare in via preliminare il
soddisfacimento delle condizioni prescritte nelle procedure
di appalto pubblico nell'UE.
Grazie al DGUE gli offerenti non devono più fornire piene
prove documentali e ricorrere ai diversi moduli
precedentemente in uso negli appalti UE, il che costituisce
una notevole semplificazione dell'accesso agli appalti
transfrontalieri.
A partire da ottobre 2018 il DGUE è fornito esclusivamente
in forma elettronica. (...continua) (07.06.2016 -
link a www.casaeclima.com). |
APPALTI:
G. Severini,
Il nuovo contenzioso sui
contratti pubblici (l’art. 204 del Codice degli appalti
pubblici e delle concessioni, ovvero il nuovo art. 120 del
Codice del processo amministrativo) (03.06.2016
- tratto da www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
CONTO TERMICO 2.0 - DECRETO MINISTERIALE 16.02.2016 -
EFFICIENTAMENTO E PRODUZIONE DI ENERGIA NUOVE MISURE DI
INCENTIVAZIONE (maggio 2016 - Grimaldi
Studio Legale). |
EDILIZIA PRIVATA: R.
Fattibene,
L’evoluzione del concetto
di paesaggio tra norme e giurisprudenza costituzionale:
dalla cristallizzazione all’identità
(18.05.2016
- tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario:
1.
Dalla cristallizzazione del bello al paesaggio dinamico;
2. La
primarietà del valore estetico-culturale;
3. Unitarietà
della tutela ambientale e paesaggistica; 4.
La valenza estetico-identitaria del paesaggio. |
APPALTI:
M. Lipari,
La tutela giurisdizionale e
“precontenziosa” nel nuovo Codice dei contratti pubblici
(d.lgs. n. 50/2016) (11.05.2016 - tratto da
www.federalismi.it).
---------------
Sommario:
I. Il quadro sistematico delle novità. 1.
Il nuovo
contenzioso in materia di contratti pubblici. Dalle
direttive al codice, attraverso la legge delega n. 11/2016.
2. Il contenzioso nelle tre direttive del 2014. la
salvezza delle procedure di ricorso di cui alla direttiva n.
865/665/cee. La tutela dell’interesse legittimo del
contribuente al corretto svolgimento della procedura. 3.
I criteri della legge delega: rimedi alternativi alla
tutela giurisdizionale; razionalizzazione del processo di
cui all’art. 120 CPA; nuovo rito speciale in materia di
ammissioni ed esclusioni, tutela cautelare subordinata
all’interesse generale. 4. L’ambito temporale di
applicazione della nuova disciplina e il regime transitorio
"graduale" riferito alle sole procedure avviate a partire
dal 20.04.2016.
II. Le modifiche
dell’art. 120 cpa. 5.
Le
correzioni dell’art. 120 CPA a portata generale. 6.
I cambiamenti dell’art. 120 CPA escpunti dal testo finale.
7. La nuova tutela cautelare dell’art. 120 e le
esigenze imperative connesse a un interesse generale
all'esecuzione del contratto. 8. La nuova disciplina
applicabile al giudizio di appello e alle altre impugnazioni
nel rito di cui all’art. 120. 9. I limiti al ricorso
cumulativo e la suddivisione in lotti.
III: Il rito "superspeciale" sulle ammissioni
ed esclusioni. 10.
Le
"specialissime" regole processuali previsto in materia di
esclusioni e di ammissioni. Un nuovo e autonomo rito
speciale? 11. Le finalità generali del nuovo rito
"superspeciale". 12. La durata variabile delle
diverse fasi di ammissione e selezione delle offerte. 13.
La complessità e varietà "qualitativa" del contenzioso
relativo alle ammissioni e alle esclusioni. 14. I
ricorsi contro le ammissioni degli altri operatori
partecipanti alla procedura. Legittimità della procedura e
oneri gravanti sui soggetti interessati. 15. Luci ed
ombre della nuova disciplina. Il confronto con il rito
elettorale in materia di esclusioni e di atti preparatori
(art. 129 CPA). 16. L’ambito oggettivo applicativo
del rito specialissimo. criticità. L’impugnazione del
"Provvedimento" unitario riguardante le esclusioni e le
ammissioni dei concorrenti. 17. Il rito superspeciale
e la fase preliminare di verifica formale delle offerte,
anteriore alla valutazione dei requisiti dei concorrenti.
18. Le esclusioni e le ammissioni nelle fasi successive
alla verifica dei requisiti di partecipazione. 19.
L’impugnazione degli atti successivi di autotutela incidenti
sulle esclusioni e sulle ammissioni. 20. La
decorrenza del termine di impugnazione nel giudizio
"specialissimo" sulle ammissioni. Il nuovo regime generale
delle comunicazioni, la soppressione dell’accesso informale
e la disciplina peculiare per il "provvedimento che
determina le ammissioni e le esclusioni". 21.
L’impugnazione dell’aggiudicazione per illegittimità
derivata dai vizi del provvedimento di ammissione e di
esclusione e il contributo unificato. 22. Il rito
specialissimo secondo la disciplina di cui al comma 6-bis.
Un processo "superspeciale" di terzo grado? 23. Il
giudizio in camera di consiglio: una scelta opinabile.
24. I motivi aggiunti per l’impugnazione di nuovi
provvedimenti connessi all’atto di esclusione. 25. Lo
svolgimento del giudizio. La comunicazione della data di
udienza gli ulteriori termini interni per le attività delle
parti. Il differimento (eccezionale) della camera di
consiglio o dell’udienza. 26. Il ricorso incidentale
nel giudizio "specialissimo": ambito e regole. 27.
L’impugnazione cumulativa del provvedimento di
ammissione-esclusione e di altri atti di gara: ammissibilità
e rito applicabile. 28. La tutela cautelare nel
giudizio "acceleratissimo" di cui al comma 2-bis. 29.
L’assenza di una disciplina specifica sullo stand still. la
proposizione del ricorso e il possibile sviluppo del
procedimento sostanziale di affidamento. 30. La
pubblicazione del dispositivo e il deposito della sentenza.
31. Il giudizio di appello e le altre impugnazioni.
IV. Il nuovo sistema
del precontenzioso dinanzi all’ANAC e la successiva tutela
giurisdizionale. 32.
L’impugnazione dei pareri di precontenzioso e delle
raccomandazioni dell’ANAC (art. 211 del d.lgs. n. 50/2016).
33. La portata del rinvio all’art. 120: termini della
notificazione del ricorso e decorrenza. Ulteriori criticità
dei pareri di precontenzioso e delle raccomandazioni
vincolanti dell’anac. 34. È possibile impugnare la
determinazione "negativa", con cui l’anac esclude la
sussistenza di vizi della procedura? 35. Il problema
della tutela precontenziosa dei cittadini titolari di un
"interesse legittimo in qualità di contribuenti a un
corretto svolgimento delle procedure di appalto". Un dovere
di pronuncia dell’anac? La legittimazione all’esposto degli
operatori economici decaduti dal potere di proporre ricorso.
|
EDILIZIA PRIVATA:
L. di Giovanni,
Valutazione tecnica e potere discrezionale nella tutela del
paesaggio (Giornale di diritto amministrativo
1/2016). |
PUBBLICO IMPIEGO:
S. La Fauci,
Enti locali: il responsabile del servizio finanziario,
titolare del fondamentale interesse pubblico di tutela della
gestione finanziaria, anche ... attraverso lo strumento
ricorsuale
(Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 1/2016).
---------------
Per finalità di tutela della gestione finanziaria, le
deliberazioni che incidano su di essa possono essere
impugnate o da singoli consiglieri o anche, in base all’art.
153 del d.lgs. n. 267/2000, dal Responsabile del servizio
finanziario, in rappresentanza dell’ente locale. Si tratta
di un’importante norma che costituisce una naturale, logica
e necessitata eccezione rispetto alla generale regola della
titolarità della legittimazione a ricorrere.
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SOMMARIO: 1. Premessa - 2. La portata applicativa
dell’art. 153 del d.lgs. 267/2000 - 3. Coordinamento tra
artt. 153 e 107 del d.lgs. 267/2000 - 4. Ambiti di
riferimento di eventuali azioni ricorsuali - 5. Autonomia
degli ambiti di rappresentanza - 6. Correlazioni con la
legge 20/1994. |
CORTE DEI CONTI |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: Gli
incentivi previsti e disciplinati dai commi 7-bis e 7-ter e
7-quater del d.lgs. n. 163 del 12.04.2016 possono essere
riconosciuti ed erogati in favore delle figure professionali
interne esplicitamente individuate dalla norma che svolgano
le attività tecniche ivi previste, anche in presenza di
progettazione affidata non integralmente a soggetti estranei
ai ruoli della stazione appaltante e dagli stessi
realizzata.
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Il Sindaco del Comune di Gallio (VI) ha presentato
richiesta di parere ai sensi dell’art. 7, comma 8, della
legge 05.06.2003, n. 131, formulando il seguente quesito:
“In sede di revisione ed aggiornamento del regolamento
comunale per la erogazione degli incentivi connessi al Fondo
per la progettazione e l’innovazione disciplinato all’art.
93 del D.Lgs. n. 163/2006, come modificato dall’art. 13-bis
della L. n. 114/2014, è emerso il dubbio circa la
possibilità di erogare tali incentivi anche in presenza di
progettazione affidata all’esterno. Ciò in quanto non
sembra sussistere univocità di interpretazione tra le varie
sezioni dei magistrati contabili laddove la Corte dei Conti
Piemonte, nella propria deliberazione n. 434/2013/SRCPIE/PAR
del 19.12.2013 appare chiaramente condizionare l’erogazione
degli incentivi in parola esclusivamente in presenza di
progettazione interna, mentre la Sezione della Lombardia nel
parere n. 236/2015 del 20.07.2015 evidenzia la legittimità
di erogazione anche nel caso in cui la progettazione sia
stata affidata all’esterno”.
...
Il quesito formulato dal Sindaco del Comune di Gallio,
inoltre, può essere considerato sufficientemente generale ed
astratto.
Lo stesso, come si dà atto nella stessa richiesta di parere,
era stato già affrontato da altre Sezioni regionali di
controllo e risolto in maniera contrastante.
In particolare, in merito si erano espresse la Sezione
regionale di controllo per il Piemonte (parere
19.12.2013 n. 434 e quella per la Lombardia
(parere
20.07.2015 n. 236 nonché
parere 01.10.2014 n. 247 e
parere 28.10.2015 n. 351), con tesi discordanti: secondo
la prima, la norma (allora l’art. 92, comma 5, del D.lgs. n.
163/2006, successivamente abrogata dall’art. 13-bis del D.L.
n. 90/2014, conv. dalla L. n. 114/2014 e sostituita, senza
modifiche sostanziali, dal comma 7-ter dell’art. 93, sempre
del D.lgs. n. 163/2006) avrebbe ancorato il riconoscimento
del diritto ad ottenere l’incentivo alla circostanza che la
redazione dell’atto di progettazione fosse avvenuta
all’interno dell’ente, escludendo, per converso, il diritto
al compenso in capo ai dipendenti dell’ufficio tecnico nel
caso di affidamento all’esterno di tale redazione; secondo
la Sezione Lombardia, invece, anche a seguito della modifica
legislativa prima richiamata, sarebbe rimasto il potere
dell’amministrazione di disporre un riconoscimento economico
in favore del personale interno concernente la fase della
gestione degli appalti di opere anche nel caso di
“esternalizzazione” dell’attività di progettazione.
Ad avviso di questa Sezione, l’interpretazione più corretta
sarebbe quella offerta dalla Sezione Lombardia, fondata
sull’analisi della “nuova” disposizione introdotta dal D.L.
n. 90/2014 –ossia del comma 7-ter dell’art. 93 del D.lgs. n.
163/2006– la quale, in deroga al principio di
onnicomprensività della retribuzione, vigente nel pubblico
impiego, in continuità con il previgente comma 5 dell’art.
92, attribuirebbe un compenso ulteriore e speciale a
soggetti tassativamente individuati (responsabile del
procedimento, incaricati della redazione del progetto, del
piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del
collaudo e loro collaboratori), subordinando, al pari della
precedente, la corresponsione del suddetto compenso,
disposta dal dirigente o dal responsabile di servizio
preposto alla struttura competente, al “previo accertamento
positivo delle specifiche attività svolte dai predetti
dipendenti”, prevedendone, in caso contrario (accertamento
negativo) la devoluzione in economia.
Presupposto indefettibile ai fini della erogazione
dell’incentivo in esame risulterebbe, quindi, l’effettivo
espletamento, in tutto o in parte, di una o più attività
afferenti alla gestione degli appalti pubblici e non anche
il necessario svolgimento, all’interno dell’ente,
dell’attività di progettazione, con conseguente legittimità
del riconoscimento dell’emolumento anche in ipotesi di
affidamento della progettazione all’esterno (purché si
remuneri solo l’attività di supporto a quest’ultima, ove
effettivamente svolta dai dipendenti dell’ente).
In tal senso, peraltro, questa Sezione si era già espressa
in precedenti pronunciamenti.
Comunque, essendo emerso un contrasto sulla interpretazione
della norma, in ossequio all’art. 6, comma 4, del D.L. n.
174 del 10.10.2012, conv. dalla L. n. 213 del 07.12.2012,
con
deliberazione 04.03.2016 n. 123, questa
Sezione ha rimesso gli atti al Presidente della Corte dei
conti, per le sue valutazioni in ordine al deferimento della
seguente questione di massima: “Se gli incentivi previsti e
disciplinati dai commi 7-bis, 7-ter e 7-quater del D.l.gs.
n. 163 del 12.04.2006 possano essere riconosciuti ed
erogati al personale indicato dal comma 7-ter anche nel caso
di progettazione affidata e realizzata da soggetti esterni
alla stazione appaltante”.
Con nota del 26.04.2016, n. 1952, il Presidente della Corte
ha disposto la convocazione della Sezione delle autonomie,
la quale, con
deliberazione 13.05.2016 n. 18
ha pronunciato il seguente principio di diritto: ”Gli
incentivi previsti e disciplinati dai commi 7-bis e 7-ter e
7-quater del d.lgs. n. 163 del 12.04.2016 possono essere
riconosciuti ed erogati in favore delle figure professionali
interne esplicitamente individuate dalla norma che svolgano
le attività tecniche ivi previste, anche in presenza di
progettazione affidata non integralmente a soggetti estranei
ai ruoli della stazione appaltante e dagli stessi
realizzata”.
Alla luce del principio affermato dalla Sezione delle
Autonomie, al quale questa Sezione è tenuta a conformarsi,
deve darsi risposta positiva alla richiesta di parere
formulata dal Comune di Gallio
(Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto,
parere 08.06.2016 n. 311). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: Il riconoscimento dell’incentivo alla progettazione di cui
all’art. 93 comma 7-ter del d.lgs. n. 163/2006 in favore del
responsabile unico del procedimento non presuppone
necessariamente che l’intera attività di progettazione sia
svolta all’interno dell’ente.
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La nozione di “collaboratori” di cui al comma 7-ter
dell’art. 93 del d.lgs. n. 163/2006 fa riferimento alle
professionalità –di norma tecniche- all’uopo individuate in
sede di costituzione dell’apposito staff, le quali devono
porsi in stretta correlazione funzionale e teleologica
rispetto alle attività da compiere per la realizzazione
dell’opera a regola d’arte e nei termini preventivati.
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Con nota del 28.10.2015, pervenuta a questa Sezione l’01.12.2015 per il tramite del CAL,
il Presidente della
Provincia di Teramo ha trasmesso una richiesta di parere
concernente la corretta interpretazione delle norme in tema
di incentivi alla progettazione di cui all’art. 93 del
Decreto legislativo n. 163/2006.
Più precisamente, l’ente,
in sede di predisposizione del regolamento richiesto dalla
norma per disciplinare le modalità di erogazione degli
incentivi, ravvisa la necessità di un intervento
interpretativo di questa Corte sui seguenti due quesiti, tra
loro strettamente connessi:
1) la possibilità di riconoscere l’incentivo in favore del
Responsabile unico del procedimento, anche nell’ipotesi in
cui tutte le attività che la legge individua come
incentivabili, sia di progettazione sia di direzione dei
lavori, sia di collaudo, siano state svolte all’esterno
dell’Ente da professionisti all’uopo incaricati;
2) se la nozione di “collaboratori” di cui al comma 7-ter
dell’art. 93 del d.lgs. n. 163/2006 faccia riferimento
solamente ai collaboratori con professionalità tecnica
(componenti lo staff tecnico delle specifiche figure
professionali richiamate dall’art. 93 citato, per lo
svolgimento delle attività ivi indicate) ovvero possa essere
estesa anche al personale addetto alle altre attività
amministrative connesse comunque alla realizzazione dei
lavori, quali: le procedure di espropriazione, di
accatastamento e frazionamento, procedure di appalto dei
lavori, predisposizione dei contratti di appalto, stesura
degli atti di gara e provvedimenti amministrativi afferenti
ai lavori.
...
La questione in esame concerne la disciplina degli incentivi
alla progettazione di cui all’art. 93 del Decreto
legislativo n. 163/2006, su cui si è andata formando nel
tempo una copiosa giurisprudenza della Corte dei conti in
funzione consultiva, sia in sede regionale sia in sede
centrale nomofilattica.
La normativa di riferimento, al momento della formulazione
del quesito e quindi precedentemente all’entrata in vigore
del nuovo Codice dei contratti pubblici, approvato con
decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, in attuazione
delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE del
Parlamento europeo e del Consiglio del 26.02.2014, era
rappresentata dai commi 7-bis e ter dell’art. 93 del D.Lgs. n.
163/2006 i quali recitavano: “A valere sugli stanziamenti di
cui al comma 7, le amministrazioni pubbliche destinano ad un
fondo per la progettazione e l'innovazione risorse
finanziarie in misura non superiore al 2 per cento degli
importi posti a base di gara di un'opera o di un lavoro; la
percentuale effettiva è stabilita da un regolamento adottato
dall'amministrazione, in rapporto all'entità e alla
complessità dell'opera da realizzare.
L'80 per cento delle risorse finanziarie del fondo per la
progettazione e l'innovazione è ripartito, per ciascuna
opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede
di contrattazione decentrata integrativa del personale e
adottati nel regolamento di cui al comma 7-bis, tra il
responsabile del procedimento e gli incaricati della
redazione del progetto, del piano della sicurezza, della
direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro
collaboratori; gli importi sono comprensivi anche degli
oneri previdenziali e assistenziali a carico
dell'amministrazione. Il regolamento definisce i criteri di
riparto delle risorse del fondo, tenendo conto delle
responsabilità connesse alle specifiche prestazioni da
svolgere, con particolare riferimento a quelle
effettivamente assunte e non rientranti nella qualifica
funzionale ricoperta, della complessità delle opere,
escludendo le attività manutentive, e dell'effettivo
rispetto, in fase di realizzazione dell'opera, dei tempi e
dei costi previsti dal quadro economico del progetto
esecutivo. Il regolamento stabilisce altresì i criteri e le
modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse
alla singola opera o lavoro a fronte di eventuali incrementi
dei tempi o dei costi previsti dal quadro economico del
progetto esecutivo, redatto nel rispetto dell'articolo 16
del regolamento di cui al decreto del Presidente della
Repubblica 05.10.2010, n. 207, depurato del ribasso
d'asta offerto. Ai fini dell'applicazione del terzo periodo
del presente comma, non sono computati nel termine di
esecuzione dei lavori i tempi conseguenti a sospensioni per
accadimenti elencati all'articolo 132, comma 1, lettere a),
b), c) e d). La corresponsione dell'incentivo è disposta dal
dirigente o dal responsabile di servizio preposto alla
struttura competente, previo accertamento positivo delle
specifiche attività svolte dai predetti dipendenti. Gli
incentivi complessivamente corrisposti nel corso dell'anno
al singolo dipendente, anche da diverse amministrazioni, non
possono superare l'importo del 50 per cento del trattamento
economico complessivo annuo lordo. Le quote parti
dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai
medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno
all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del
predetto accertamento, costituiscono economie. Il presente
comma non si applica al personale con qualifica
dirigenziale.
La ratio della norma, come precisato dalle SS.RR. in sede di
controllo (deliberazione n. 51 del 2011), era quella di
destinare una quota di risorse pubbliche “a incentivare
prestazioni poste in essere per la progettazione di opere
pubbliche, in quanto in tal caso si tratta all’evidenza di
risorse correlate allo svolgimento di prestazioni
professionali specialistiche offerte da personale
qualificato in servizio presso l’amministrazione pubblica;
peraltro, laddove le amministrazioni pubbliche non
disponessero di personale interno qualificato, dovrebbero
ricorrere al mercato attraverso il ricorso a professionisti
esterni con possibili aggravi di costi per il bilancio
dell’ente interessato”.
In linea con i principi di efficienza ed economicità, il
legislatore mostrava un favor per l’affidamento a
professionalità interne alle amministrazioni aggiudicatrici
di incarichi consistenti in prestazioni d’opera
professionale, consentendo il riconoscimento agli Uffici
tecnici delle amministrazioni aggiudicatrici un compenso
ulteriore e speciale, in deroga ai due principi cardine del
pubblico impiego: di onnicomprensività della retribuzione e
di definizione contrattuale delle componenti economiche,
sanciti, rispettivamente, dall’art. 24, comma 3, e dal
successivo art. 45, comma 1, del d.lgs. 30.03.2001, n.
165 (cfr. Sezione delle Autonomie
deliberazione 15.04.2014 n. 7).
Come si evinceva dal richiamato testo novellato, la legge
individuava alcune regole generali per la ripartizione
dell’incentivo in discorso, rimettendone la disciplina
concreta (“modalità e criteri”) ad un atto regolamentare
interno alla singola amministrazione, assunto previa
contrattazione decentrata.
Su alcuni punti fermi che il regolamento interno doveva
rispettare si registrava una generale uniformità di lettura
da parte delle Sezioni regionali di controllo, che di
seguito si richiamano:
- erogazione ai soli dipendenti espletanti gli incarichi
tassativamente indicati dalla norma (responsabile del
procedimento, incaricati della redazione del progetto, del
piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del
collaudo, e loro collaboratori), riferiti agli appalti di
lavori (non, pertanto, negli appalti di fornitura di beni o
di servizi);
- puntuale ripartizione del fondo incentivante tra gli
incarichi attribuibili (responsabile del procedimento,
progettista, responsabili della sicurezza, direttore dei
lavori, collaudatori, nonché loro collaboratori), secondo
percentuali rimesse alla discrezionalità
dell’amministrazione, da mantenere, tuttavia, entro i binari
della logicità, congruenza e ragionevolezza (cfr. Autorità
per la vigilanza sui contratti pubblici,
deliberazione 13.12.2007 n. 315,
deliberazione 22.06.2005 n. 70,
deliberazione 19.05.2004 n. 97-bis);
- devoluzione in economia delle quote del fondo incentivante
corrispondenti a prestazioni non svolte dai dipendenti, ma
affidate a personale esterno all'organico
dell'amministrazione. Obbligo che impone di prevedere
analiticamente nel regolamento interno la graduazione delle
percentuali spettanti per ogni incarico espletabile dal
personale, in maniera tale da permettere, nel caso in cui
alcune prestazioni siano affidate a professionisti esterni,
la predetta devoluzione (si rinvia all’Autorità di
vigilanza,
deliberazione 13.12.2007 n. 315,
deliberazione 08.04.2009 n. 35,
deliberazione 07.05.2008 n. 18
e
deliberazione 02.05.2001 n. 150);
- devoluzione in economia delle quote parti dell'incentivo
corrispondenti a prestazioni, anche se svolte da dipendenti
interni, prive dell’accertamento di esecuzione dell’opera in
conformità ai tempi ed ai costi prestabiliti (novità
discendente dal predetto art. 93, comma 7-ter, per gli
incarichi attribuiti dopo l’entrata in vigore della legge di
conversione n. 114/2014).
Diversamente, si rilevavano contrasti interpretativi in
relazione ad entrambi i quesiti formulati dalla Provincia di
Teramo.
Quesito n. 1
In merito alla possibilità di riconoscere l’incentivo in
favore del Responsabile unico del procedimento, anche
nell’ipotesi in cui tutte le attività che la legge
individuava come incentivabili (di progettazione, di
direzione dei lavori e di collaudo) fossero state svolte
all’esterno dell’Ente da professionisti all’uopo incaricati,
una prima linea di lettura appare incline a fornire risposta
positiva; tale orientamento, in sintesi, poggia sull’assunto
che l’incentivo economico sia finalizzato a remunerare le
figure professionali elencate nella norma, inclusa quella
del Responsabile del procedimento, purché ricoperte da
personale interno all’amministrazione e operanti nell’ambito
di procedimenti volti alla realizzazione di opere pubbliche
e lavori.
In tal senso può essere richiamata la
deliberazione della Sezione di controllo per la Liguria
(cfr.
parere 18.04.2013 n. 18) secondo la quale “La
soluzione del quesito proposto presuppone la preventiva
analisi del ruolo assolto dal Responsabile unico del
procedimento, il quale svolge una funzione pregnante
all’interno del medesimo, gestendone le varie fasi,
assicurando il contraddittorio con le parti private e il
coordinamento con gli uffici interni. Tali compiti assumono
particolare rilevanza nell’ambito delle procedure di
affidamento di opere o servizi. Ciò è confermato dal fatto
che anche in caso di incarichi di progettazione o
pianificazione a soggetti esterni deve essere nominato
comunque un Responsabile unico che coordini le diverse
attività svolte dagli incaricati.
Tale considerazione induce a ritenere che debba essere
riconosciuto a tale figura il diritto ad una quota parte
dell’incentivo di progettazione, anche in caso di totale
affidamento a soggetti esterni delle fasi di progettazione
ed esecuzione dell’opera”.
In sostanza, secondo l’interpretazione precedentemente
descritta, al Responsabile unico del procedimento, in caso
di opere pubbliche e lavori, può essere legittimamente
attributo l’incentivo economico, anche se l’attività di
progettazione è completamente affidata a figure esterne;
ciò, secondo quanto precisato dalla Sezione Liguria,
troverebbe giustificazione nella circostanza che i compiti
svolti dal RUP nel caso della realizzazione di opere
pubbliche e lavori rimarrebbero sostanzialmente uguali, a
prescindere dall’esternalizzazione delle altre attività
contemplate dall’art. 93 del D.lgs. 163 del 2006.
Questa prospettiva riecheggia anche in più recenti pronunce
della Sezione regionale di controllo per la Lombardia; tra
tutti, il
parere 01.10.2014 n. 247 collega l’erogazione
dell’incentivo all’espletazione degli “incarichi
tassativamente indicati dalla norma (responsabile del
procedimento, incaricati della redazione del progetto, del
piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del
collaudo, e loro collaboratori), riferiti all’aggiudicazione
ed esecuzione “di un’opera o un lavoro” (non, pertanto, di
un appalto di fornitura di beni o di servizi)”, escludendo
che la norma richieda “ai fini della legittima erogazione,
il necessario espletamento interno di una o più attività
(per esempio, la progettazione), purché il regolamento
ripartisca gli incentivi in maniera conforme alle
responsabilità attribuite e devolva in economia la quota
relativa agli incarichi conferiti a professionisti esterni”.
In linea con questa interpretazione possono essere citate
anche le pronunce della medesima Sezione Lombardia,
parere 28.10.2015 n. 351 e
parere 20.07.2015 n. 236 i quali, sebbene vertenti su quesiti
differenti dalla tematica in esame, ribadiscono la
possibilità di incentivare le attività strumentali alla
progettazione anche qualora la stessa venga esternalizzata
integralmente.
Una seconda linea interpretativa delle disposizioni in
commento emerge dal
parere 02.10.2014 n. 197 della
Sezione regionale di controllo per il Piemonte, la quale,
chiamata a rispondere in merito alla riconoscibilità
dell’incentivo economico al RUP in ipotesi di progettazione
affidata all’esterno (sia nel caso in cui anche le altre
attività di direzione lavori e collaudo risultino
esternalizzate, sia nel caso di direzione lavori interna e
collaudo esterno), ha fornito una lettura più restrittiva
dell’art. 93 (peraltro già preceduta dal
parere 30.08.2012 n. 290 e
parere 19.12.2013 n. 434),
stabilendo un nesso funzionale tra il compenso incentivante
e lo svolgimento dell’attività di progettazione all’interno
dell’Ente.
Le citate deliberazioni subordinano il diritto al
compenso incentivante non al mero espletamento delle
attività indicate nella norma nell’ambito della
realizzazione di opere pubbliche o lavori, ma alla
circostanza che la progettazione sia avvenuta all’interno
dell’amministrazione.
Conseguentemente, “con specifico
riferimento alla figura del responsabile del procedimento (r.u.p.),
occorre rilevare che questi normalmente, in base alle
previsioni contenute nei singoli regolamenti predisposti
dalle amministrazioni ai sensi del citato comma 5 dell’art.
92 del D.lgs. n. 163/2006, partecipa alla ripartizione
dell’incentivo, ovviamente sempre in relazione ad atti di
progettazione collegati alla realizzazione di opere
pubbliche. Occorre sottolineare, però, che la sua
partecipazione alla ripartizione degli emolumenti, ai sensi
del ridetto comma 5 dell’art. 92 del Codice dei contratti,
non avviene in ragione della sua qualifica, ma in relazione
al complessivo svolgimento interno dell’attività di
progettazione. In sostanza, qualora l’attività venga svolta
internamente tutti i soggetti che, a qualsivoglia titolo,
collaborano hanno diritto, in base alle previsioni del
regolamento dell’ente, a partecipare alla distribuzione
dell’incentivo. Qualora, al contrario, l’attività sopra
specificata venga svolta all’esterno, non sorgendo il
presupposto per la ripartizione di un incentivo fra i vari
dipendenti dell’ufficio non vi è neppure un autonomo diritto
del responsabile del procedimento ad ottenere un compenso
per un’attività che, al contrario, rientra fra i suoi
compiti e doveri d’ufficio”.
Con successiva pronuncia (parere
20.01.2015 n. 17), la
Sezione di controllo per il Piemonte ha ulteriormente
precisato che, ai fini della riconoscibilità dell’incentivo
al RUP, non è necessario che tutte le fasi della
progettazione (preliminare, definitiva e esecutiva) siano
svolte da personale interno all’Ente, purché il regolamento
ripartisca gli incentivi in maniera conforme alle
responsabilità attribuite e devolva in economia le quota
relativa agli incarichi conferiti a professionisti esterni.
Quesito n. 2
Il secondo quesito attiene alla nozione di “collaboratori”
di cui al comma 7-ter dell’art. 93 del d.lgs. n. 163/2006; la
Provincia di Teramo chiede se tale nozione faccia
riferimento solamente ai collaboratori con professionalità
tecnica (componenti lo staff tecnico delle specifiche figure
professionali richiamate dall’art. 93 citato, per lo
svolgimento delle attività ivi indicate) ovvero possa essere
estesa anche al personale addetto alle altre attività
amministrative connesse comunque alla realizzazione dei
lavori, quali: le procedure di espropriazione, di
accatastamento e frazionamento, procedure di appalto dei
lavori, predisposizione dei contratti di appalto, stesura
degli atti di gara e provvedimenti amministrativi afferenti
ai lavori.
Anche su questo quesito –strettamente connesso con il primo– si riscontra un contrasto interpretativo tra Sezioni
regionali. Più precisamente, con
parere 17.12.2014 n. 141, la Sezione regionale di controllo per le Marche ha
fornito una lettura restrittiva della nozione di
collaboratore, escludendo che la stessa possa essere estesa
per incentivare il personale tecnico e amministrativo:
a) addetto ai procedimenti di esproprio;
b) addetto alle attività relative agli accatastamenti e ai
frazionamenti;
c) responsabile o addetto allo svolgimento della procedura
di gara.
Facendo applicazione del principio di tassatività, la
pronuncia recita: “come si è avuto modo di chiarire, il
Fondo previsto dall’art. 92 cit. può essere destinato
esclusivamente alle specifiche figure professionali ivi
individuate, nonché ai loro collaboratori.
Non trova alcun fondamento normativo una diversa
interpretazione della norma tendente ad ampliare il novero
dei soggetti beneficiari.
Pertanto, i dipendenti –tecnici ed amministrativi- diversi
dal RUP, dal progettista, dal direttore lavori,
dall’incaricato del piano di sicurezza, dal collaudatore e
dai relativi collaboratori, benché svolgano attività
comunque connesse alla realizzazione di opere pubbliche
possono essere incentivati utilizzando soltanto gli ordinari
istituti contrattuali e le relative risorse finanziarie
stanziate in base alle norme dei vigenti Contratti
Collettivi Nazionali di Lavoro”.
Elementi in favore di una lettura più ampia della nozione di
collaboratore e delle attività incentivabili possono trarsi
dalla pronuncia della Sezione regionale di controllo per la
Lombardia (parere
20.07.2015 n. 236) la quale, sebbene non
avesse ad oggetto la qualificazione della nozione di
collaboratore, ha ritenuto ammissibile l’incentivo economico
anche per le attività attinenti alla fase di gestione degli
appalti di opere nel caso di attività di progettazione
esterna, in particolare con riferimento a quelle relative
alle operazioni di scelta del contraente, di redazione del
bando di gara, dei procedimenti di aggiudicazione,
liquidazione, verifica in corso d’opera e controllo di
conformità dell’opera. Ciò nella considerazione che tali
attività possano essere considerate di supporto alla
progettazione.
Alla luce dei sopra richiamati contrasti giurisprudenziali,
questa Sezione riteneva di sottoporre alla valutazione del
Presidente della Corte dei conti, ai sensi dell’art. 6,
comma 4, del decreto-legge 10.10.2012, n. 174,
convertito nella legge 07.12.2012, n. 213,
l’opportunità di rimettere alla Sezione delle Autonomie o
alle Sezioni Riunite, entrambi i quesiti formulati dalla
Provincia di Teramo.
Il Presidente della Corte dei Conti con ordinanze n. 9 del
30.03.2016 e n. 11 del 06.04.2016 deferiva le
questioni di massima prospettate alla Sezione delle
autonomie.
Quest’ultima, con
deliberazione 13.05.2016 n. 18, definiva, tra le altre, le questioni di massima
scaturenti dai quesiti formulati dalla Provincia di Teramo.
Nel dettaglio, la Sezione delle autonomie non riteneva
sufficienti a soddisfare la richiesta di parere della
Provincia di Teramo le disposizioni normative introdotte con
il nuovo Codice dei contratti pubblici, di cui al d.lgs. n.
50/2016. Queste ultime, infatti, in linea con quanto
previsto dai criteri di delega (art. 1, comma 1, lett. rr)
contenuti nella legge 28.01.2016, n. 11, contemplano un
nuova disciplina delle forme di incentivo, sostitutiva della
precedente; al riguardo, vengono aboliti gli incentivi alla
progettazione previsti dal previgente art. 93, comma 7-ter
ed introdotte, all’art. 113, nuove forme di “incentivazione
per funzioni tecniche”.
Disposizione, quest’ultima,
rinvenibile al Tit. IV del d.lgs. n. 50/2016 rubricato
“Esecuzione”, che disciplina gli incentivi per funzioni
tecniche svolte da dipendenti esclusivamente per le attività
di programmazione della spesa per investimenti e per la
verifica preventiva dei progetti e, più in generale, per le
attività tecnico-burocratiche, prima non incentivate, tese
ad assicurare l’efficacia della spesa e la realizzazione
corretta dell’opera.
Queste nuove disposizioni, tuttavia, sulla base
dell’articolata disciplina transitoria contenuta negli
articoli 216 e 217, trovano applicazione per le sole
attività poste in essere successivamente alla data di
entrata in vigore, ossia il 19.04.2016. Resta pertanto
valida, ad avviso dell’Organo nomofilattico, l’esigenza
interpretativa con riferimento alle attività poste in essere
nel vigore dell’art. 93 del d.lgs. n. 163/2006, come
modificato dal dl n. 90/2014.
Sul punto, con argomentazioni che si ritengono qui
integralmente richiamate e che muovono sostanzialmente dalla
ricostruzione del quadro normativo di riferimento precedente
al nuovo Codice dei contratti pubblici, la Sezione delle
autonomie perviene alla fissazione dei seguenti principi di
diritto, rilevanti ai fini della definizione dei quesiti
formulati dalla Provincia di Teramo:
-
“Il riconoscimento dell’incentivo alla progettazione di cui
all’art. 93 comma 7-ter del d.lgs. n. 163/2006 in favore del
responsabile unico del procedimento non presuppone
necessariamente che l’intera attività di progettazione sia
svolta all’interno dell’ente”.
-
“La nozione di “collaboratori” di cui al comma 7-ter
dell’art. 93 del d.lgs. n. 163/2006 fa riferimento alle
professionalità –di norma tecniche- all’uopo individuate in
sede di costituzione dell’apposito staff, le quali devono
porsi in stretta correlazione funzionale e teleologica
rispetto alle attività da compiere per la realizzazione
dell’opera a regola d’arte e nei termini preventivati” (Corte
dei Conti, Sez. controllo Abruzzo,
parere 01.06.2016 n. 131). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
L’applicazione di
qualunque regola di finanza pubblica impone di definire, a
priori, l’ambito oggettivo di applicazione della norma, nel
caso di specie della corretta qualificazione di un incarico
affidato a un professionista esterno.
Quest’ultimo, infatti,
è generalmente riconducibile, per il diritto civile, al contratto d’opera (art.
2222 cod. civ.) e, più di preciso,
al contratto d’opera intellettuale (art.
2229 cod. civ.).
----------------
Il confine fra contratto d’opera intellettuale (artt.
2222 e
2229 del codice civile) e
contratto d’appalto di servizi
(art. 1665 del codice civile) è individuabile, in base al
codice civile, nel carattere personale o intellettuale delle
prestazioni, nel primo caso, e nella natura imprenditoriale
del soggetto esecutore, nel secondo.
L’appalto di servizi,
pur presentando elementi di affinità con il contratto
d’opera (autonomia rispetto al committente), si differenzia
da quest’ultimo in ordine al profilo dell’organizzazione,
atteso che l’appaltatore esegue la prestazione con mezzi e
personale che fanno ritenere sussistente, assieme al
requisito della gestione a proprio rischio, la qualità di
imprenditore commerciale (art. 2195 cod. civ.). Il
prestatore d’opera, di converso, pur avendo anch’egli
l’obbligo di compiere, dietro corrispettivo, un servizio a
favore del committente, senza vincolo di subordinazione e
con assunzione del relativo rischio, si obbliga ad eseguirlo
con lavoro prevalentemente proprio, senza una necessaria
organizzazione.
La delimitazione fra contratto d’opera intellettuale e
contratto d’appalto di servizi sfuma, come accennato, in
sede di applicazione della disciplina, di derivazione
comunitaria, sui contratti pubblici (d.lgs. n. 50 del 2016
e, in precedenza, d.lgs. n. 163 del 2006), che, come noto,
impone predeterminate procedure amministrative, ad evidenza
pubblica, prodromiche alla stipulazione dei contratti da
parte delle pubbliche amministrazioni (o dei soggetti, anche
privati, a queste ultime assimilati).
---------------
Secondo una parte
della giurisprudenza amministrativa (TAR Lazio, Latina,
sentenza
20.07.2011 n. 604), infatti, il codice dei contratti
pubblici attrae nella nozione di appalto di servizi anche le
prestazioni d’opera intellettuale, imponendo di considerare
appaltatore non solo chi è tale in base alla nozione
civilistica, ma anche il professionista che partecipa ad una
gara pubblica per l’affidamento di un servizio di natura
intellettuale. Altra giurisprudenza (Consiglio di Stato,
sez. V,
sentenza
11.05.2012 n. 2730) valorizza, invece, le
differenze fra i due contratti ai fini delle conseguenti
ricadute in materia di soggezione al codice dei contratti
pubblici. In tale prospettiva, è stato ritenuto elemento
qualificante dell’appalto di servizi, oltre alla complessità
dell’oggetto, la circostanza che l’affidatario dell’incarico
necessiti, per l’espletamento, di apprestare una specifica
organizzazione finalizzata a soddisfare i bisogni dell’ente.
Il codice dei contratti pubblici adotta certamente una
nozione ampia di appalto di servizi, che comprende, in
alcuni casi, anche l’attività del professionista
intellettuale. Si tratta di nozione finalizzata ad estendere
l’ambito di applicazione oggettivo della disciplina di cui
al
d.lgs. n. 50 del 2016 (in aderenza, da ultimo, alle
direttive comunitarie del 26.02.2014, n. 2014/23/UE,
n. 2014/24/UE e n. 2014/25/UE, tese a favorire il confronto
concorrenziale fra operatori economici, la libera
circolazione di servizi ed il diritto di stabilimento).
Tale
nozione, come accennato,
non si ripercuote, tuttavia, sulle
definizioni di contratto di prestazione d’opera, di
prestazione d’opera intellettuale o di appalto di servizi,
come delineate dal codice civile, posto che il codice dei
contatti pubblici è teso a disciplinare le procedure di
affidamento di un’ampia gamma di contratti, che, pur
definiti come “appalto”, comprendono una serie eterogena di
negozi civilistici (per esempio, somministrazione, mandato,
trasporto, assicurazione etc., cfr. art. 1, comma 1, lett. dd), ii) ed ss) del
d.lgs. n. 50 del 2016).
Con riferimento alla fattispecie concreta,
va tuttavia ribadito
come spetti al Comune istante
valutare se, in concreto, ricorrano i presupposti per
qualificare gli incarichi tecnico-professionali che intende
affidare in termini di contratto d’opera intellettuale o di
appalto di servizi.
Attenendosi ai soli elementi desumibili
dalla richiesta di parere, la Sezione osserva che
la
prestazione sembra necessitare di competenze tecniche (e,
come tale, deve essere resa da soggetto qualificato e
regolarmente iscritto nell’albo professionale), ma non pare
ravvisarsi la necessità di un’organizzazione aggiuntiva
(tipica dell’appalto).
La necessità di utilizzare, da parte di un
professionista, mezzi compresi fra gli ordinari strumenti
cognitivi ed operativi a disposizione di qualunque
lavoratore del settore, non è sufficiente a ritenere che,
per il diritto civile, il contratto debba essere inquadrato
nell’appalto di servizi.
---------------
La Sezione
ricorda che i principi di unità e universalità, propri dei
bilanci degli enti locali (cfr. Allegato 1 al d.lgs. n. 118
del 2011), come di tutte le pubbliche amministrazioni,
comportano che tutte le entrate e le spese sostenute da un ente transitino
per il bilancio (mentre le gestioni fuori bilancio o le
contabilità separate sono ammesse solo nei casi previsti
dalla legge), imponendo, pertanto, che l’eventuale
contributo finanziario di un qualunque terzo (concretante un
atto di liberalità) debba essere accertato e incassato dal
Comune beneficiario e, successivamente, finalizzato
all’assunzione dell’impegno di spesa per il pagamento del
professionista incaricato.
---------------
Il Sindaco del Comune di Grassobbio (BG), con nota del
06.05.2016, ha formulato una richiesta di parere avente ad oggetto
i limiti finanziari agli incarichi di consulenza.
Premette
che il Comune ha un cospicuo fondo cassa (euro 13.562.052),
un congruo avanzo d'amministrazione (euro 4.891.491) ed una
spesa di personale (euro 1.061.538) peri a circa un quarto
di quella corrente. Tuttavia, nel 2009, aveva sostenuto
spese per consulenze per soli euro 3.182.
Nel 2016, l’Ente riferisce di avere la necessità
d'incaricare alcuni avvocati per la predisposizione delle
norme della variante del Piano di governo del territorio e
di altre specifiche e delicate regolamentazioni, ma,
riferisce il Sindaco, secondo il segretario ed il revisore
dei conti, queste spese sono da includere fra quelle di
consulenza (e non di appalti di servizi), per le quali
occorre osservare il limite del 20% della spesa sostenuta
nel 2009 allo stesso titolo.
L’istanza ricorda, altresì, come la Sezione delle Autonomie,
con deliberazione n. 26/2013/QMIG, abbia stabilito,
richiamando la sentenza della Corte Costituzionale n. 139
del 2012, che è possibile prendere in esame non le varie
tipologie di spese soggette a limite, ma la loro somma
totale.
Il quesito richiama, inoltre, un ulteriore limite
finanziario, in base al quale le spese per consulenze devono
comunque essere contenute nella percentuale del 4,2% di
quelle per il personale (tetto che, per il Comune istante,
ammonterebbe, nel 2016, a circa 42.000 euro). Tuttavia,
secondo il segretario ed il revisore, prosegue il Sindaco,
questo limite concorre con quello del 20% del 2009, per cui
il tetto per l’Ente sarebbe di euro 636 (20% di euro 3.182).
Il Sindaco istante ritiene evidente che si tratti di una
situazione imbarazzante ed ingiusta, posto che gli enti
locali che, negli anni precedenti, sono stati più virtuosi
vengono penalizzati.
Sulla base di tali premesse, in relazione al potenziale
conferimento di incarichi legali per la predisposizione
delle norme della variante del Piano di governo del
territorio e di altre specifiche regolamentazioni, pone
quattro
quesiti:
1) con il primo, se gli incarichi in discorso siano
qualificabili come consulenze o appalti di servizi;
2) con il secondo, quali siano le spese soggette a limite da
prendere in esame e se, tra esse, vanno inserite anche le
spese per collaborazioni continuative;
3) con il terzo, quali siano i limiti finanziari da
rispettare;
4) con il quarto, se sia possibile per il Sindaco, previo
conferimento in base alle procedure di legge, pagare i
professionisti incaricati direttamente di tasca propria
ovvero rimborsare al Comune, sempre di tasca propria, le
spese sostenute. Quest’ultima eventuale iniziativa, al fine
di non incorrere in danni erariali.
...
I. La distinzione fra contratti d’opera e contratti di appalto di servizi
Come più volte ribadito nelle pronunce della magistratura
contabile (da ultimo, si rinvia a SRC Liguria, deliberazioni
n. 54/2015/PAR e n. 79/2015/PAR), l’applicazione di
qualunque regola di finanza pubblica impone di definire, a
priori, l’ambito oggettivo di applicazione della norma, nel
caso di specie della corretta qualificazione di un incarico
affidato a un professionista esterno. Quest’ultimo, infatti,
è generalmente riconducibile, per il diritto civile, al
contratto d’opera (art.
2222 cod. civ.) e, più di preciso,
al contratto d’opera intellettuale (art.
2229 cod. civ.).
Le norme di finanza pubblica, tuttavia, fanno consueto
riferimento (si rinvia, appunto, all’art. 6, comma 7, del
decreto-legge 31.05.2010, n. 78, convertito dalla legge
30.07.2010, n. 122 o all’art. 1, comma 5, del
decreto-legge 31.08.2013, n. 101, convertito dalla legge
30.10.2013, n. 125), nel definire divieti o limitazioni
di spesa, ai “contratti di consulenza” (spesso affiancati a
quelli di studio o di ricerca) o, in altri casi, ai
“contratti conferibili ai sensi dell’art. 7, comma 6, del
d.lgs. 30.03.2001, n. 165” (cfr., per esempio, art. 17,
comma 30, del decreto-legge 01.07.2009, n. 78,
convertito dalla legge 03.08.2009, n. 122), norma che
disciplina i presupposti e la procedura per il conferimento
di incarichi a soggetti terzi mediante contratti di lavoro
autonomo, di natura occasionale o coordinata e continuativa.
Appare anche opportuno precisare che alcuni rapporti
negoziali, qualificabili, per il diritto civile, come
contratti d’opera o di opera intellettuale, sono stati
attratti, in punto di procedure per l’affidamento, alla
disciplina dettata dal codice dei contratti pubblici
(dlgs 19.04.2016, n. 50), che, in
esecuzione a specifiche direttive comunitarie, nel delineare
l’ambito oggettivo di applicazione, contiene una definizione
di “contratto di appalto di servizi” (cfr. art. 3, comma 1,
lett. dd), ii) ed ss) del d.lgs. n. 50 del 2016 e, in
precedenza, art. 3, commi 3, 6 e 10 del d.lgs. n. 163 del
2006) molto più ampia di quella del codice civile, attraendo
anche negozi qualificabili come contratti d’opera o di
opera
intellettuale.
Sul punto, si rinvia, per gli aspetti di carattere generale,
alle numerose pronunce rese in materia dalla magistratura
contabile, fra le quali possono ricordarsi, senza pretesa di
esaustività, Sezioni Riunite in sede di controllo,
deliberazione n. 6/CONTR/2005 del 15.02.2005; Sezione
delle Autonomie, deliberazione n. 6/AUT/2008; Sezione
regionale di controllo la Lombardia, deliberazioni n.
355/2012/PAR, n. 51/2013/PAR, n. 236/2013/PAR e n.
178/2014/PAR.
Il confine fra contratto d’opera intellettuale (artt.
2222 e
2229 del codice civile) e
contratto d’appalto di servizi
(art. 1665 del codice civile) è individuabile, in base al
codice civile, nel carattere personale o intellettuale delle
prestazioni, nel primo caso, e nella natura imprenditoriale
del soggetto esecutore, nel secondo.
L’appalto di servizi,
pur presentando elementi di affinità con il contratto
d’opera (autonomia rispetto al committente), si differenzia
da quest’ultimo in ordine al profilo dell’organizzazione,
atteso che l’appaltatore esegue la prestazione con mezzi e
personale che fanno ritenere sussistente, assieme al
requisito della gestione a proprio rischio, la qualità di
imprenditore commerciale (art. 2195 cod. civ.). Il
prestatore d’opera, di converso, pur avendo anch’egli
l’obbligo di compiere, dietro corrispettivo, un servizio a
favore del committente, senza vincolo di subordinazione e
con assunzione del relativo rischio, si obbliga ad eseguirlo
con lavoro prevalentemente proprio, senza una necessaria
organizzazione.
La delimitazione fra contratto d’opera intellettuale e
contratto d’appalto di servizi sfuma, come accennato, in
sede di applicazione della disciplina, di derivazione
comunitaria, sui contratti pubblici (d.lgs. n. 50 del 2016
e, in precedenza, d.lgs. n. 163 del 2006), che, come noto,
impone predeterminate procedure amministrative, ad evidenza
pubblica, prodromiche alla stipulazione dei contratti da
parte delle pubbliche amministrazioni (o dei soggetti, anche
privati, a queste ultime assimilati).
Secondo una parte
della giurisprudenza amministrativa (TAR Lazio, Latina,
sentenza
20.07.2011 n. 604), infatti, il codice dei contratti
pubblici attrae nella nozione di appalto di servizi anche le
prestazioni d’opera intellettuale, imponendo di considerare
appaltatore non solo chi è tale in base alla nozione
civilistica, ma anche il professionista che partecipa ad una
gara pubblica per l’affidamento di un servizio di natura
intellettuale. Altra giurisprudenza (Consiglio di Stato,
sez. V,
sentenza
11.05.2012 n. 2730) valorizza, invece, le
differenze fra i due contratti ai fini delle conseguenti
ricadute in materia di soggezione al codice dei contratti
pubblici. In tale prospettiva, è stato ritenuto elemento
qualificante dell’appalto di servizi, oltre alla complessità
dell’oggetto, la circostanza che l’affidatario dell’incarico
necessiti, per l’espletamento, di apprestare una specifica
organizzazione finalizzata a soddisfare i bisogni dell’ente.
Il codice dei contratti pubblici adotta certamente una
nozione ampia di appalto di servizi, che comprende, in
alcuni casi, anche l’attività del professionista
intellettuale. Si tratta di nozione finalizzata ad estendere
l’ambito di applicazione oggettivo della disciplina di cui
al
d.lgs. n. 50 del 2016 (in aderenza, da ultimo, alle
direttive comunitarie del 26.02.2014, n. 2014/23/UE,
n. 2014/24/UE e n. 2014/25/UE, tese a favorire il confronto
concorrenziale fra operatori economici, la libera
circolazione di servizi ed il diritto di stabilimento).
Tale
nozione, come accennato,
non si ripercuote, tuttavia, sulle
definizioni di contratto di prestazione d’opera, di
prestazione d’opera intellettuale o di appalto di servizi,
come delineate dal codice civile, posto che il codice dei
contatti pubblici è teso a disciplinare le procedure di
affidamento di un’ampia gamma di contratti, che, pur
definiti come “appalto”, comprendono una serie eterogena di
negozi civilistici (per esempio, somministrazione, mandato,
trasporto, assicurazione etc., cfr. art. 1, comma 1, lett. dd), ii) ed ss) del
d.lgs. n. 50 del 2016).
Con riferimento alla fattispecie concreta, posta all’odierno
esame della Sezione, va tuttavia ribadito (cfr. SRC Liguria,
deliberazione n. 79/2015/PAR) come spetti al Comune istante
valutare se, in concreto, ricorrano i presupposti per
qualificare gli incarichi tecnico-professionali che intende
affidare in termini di contratto d’opera intellettuale o di
appalto di servizi.
Attenendosi ai soli elementi desumibili
dalla richiesta di parere, la Sezione osserva che
la
prestazione sembra necessitare di competenze tecniche (e,
come tale, deve essere resa da soggetto qualificato e
regolarmente iscritto nell’albo professionale), ma non pare
ravvisarsi la necessità di un’organizzazione aggiuntiva
(tipica dell’appalto).
Come evidenziato in precedenti pareri
(cfr., per esempio, SRC Lombardia,
parere 20.05.2014 n.
178), la necessità di utilizzare, da parte di un
professionista, mezzi compresi fra gli ordinari strumenti
cognitivi ed operativi a disposizione di qualunque
lavoratore del settore, non è sufficiente a ritenere che,
per il diritto civile, il contratto debba essere inquadrato
nell’appalto di servizi.
II. Gli aggregati di spesa oggetto di limitazione
Con il secondo ed il terzo quesito, trattabili
unitariamente, il Sindaco istante chiede di conoscere quali
siano le spese vincolate da prendere in esame e se, tra
esse, debbano essere inserite anche quelle per le
collaborazioni coordinate e continuative. Di conseguenza,
anche per queste ultime, chiede quali siano i limiti
finanziari da rispettare.
II.a) La Sezione evidenzia, in primo luogo, come i contratti
di collaborazione coordinata e continuativa siano soggetti
ad una differente norma limitativa di finanza pubblica,
precisamente l’art. 9, comma 28, del citato decreto-legge n.
78 del 2010.
La ridetta norma dispone, infatti, che, dal
2011, le pubbliche amministrazioni possono avvalersi di
personale assunto a tempo determinato o con altri contratti
c.d. flessibili (fra i quali annovera, espressamente, quelli
di collaborazione coordinata e continuativa) nel limite del
50 per cento della spesa sostenuta per le stesse finalità
nell'anno 2009. Tale disposizione costituisce principio
generale ai fini del coordinamento della finanza pubblica ai
quali si adeguano le regioni, le province autonome, gli enti
locali e quelli del servizio sanitario nazionale.
In particolare, per gli enti locali, l’art. 11, comma 4-bis,
del decreto-legge 24.06.2014, n. 90, introdotto dalla
legge di conversione 11.08.2014, n. 114, ha inserito,
nel citato comma 28, un ulteriore periodo, in base al quale
le limitazioni ivi previste non si applicano agli enti
locali in regola con l'obbligo di riduzione delle spese di
personale, di cui ai commi 557 e 562 dell'articolo 1 della
legge 27.12.2006, n. 296, e successive modificazioni.
La spesa complessiva non può, comunque, essere superiore a
quella sostenuta per le stesse finalità nell'anno 2009 (sul
punto, si rinvia alla deliberazione della Sezione delle
Autonomine n. 2/2015/QMIG).
Le limitazioni poste agli enti locali alla spesa per il
personale assunto a tempo determinato o con altri contratti
c.d. flessibili sono state oggetti di svariate pronunce da
parte delle Sezioni regionali e centrali (alle cui
motivazioni e conclusioni può farsi rinvio), anche riguardo
le modalità di applicazione da parte degli enti di minori
dimensioni (si rinvia, per esempio, alla deliberazione delle
Sezioni riunite n. 11/CONTR/2012).
II.b) Per quanto riguarda, invece, i contratti d’opera e di
opera intellettuale (definiti nelle esaminate norme di
finanza pubblica, come “incarichi di consulenza e studio”),
l’art. 6, comma 7, del decreto legge n. 78 del 2010,
convertito dalla legge n. 122 del 2010, come accennato nel
precedente paragrafo, stabilisce che, a decorrere dal 2011,
la spesa annua non possa essere superiore al 20% di quella
sostenuta nel 2009.
Circa le concrete modalità applicative
della norma, tuttavia, sia in sede consultiva (cfr., per
esempio, SRC Liguria deliberazione n. 54/2015/PAR), che di
verifica dei rendiconti consuntivi (cfr., per esempio, SRC
Lombardia deliberazione n. 379/2013/PRSE), la magistratura
contabile, al fine di valutare la misura e le modalità con
cui la disciplina vincolistica influisce sullo spazio di
autonomia gestionale proprio degli enti locali, ha
richiamato la sentenza della Corte Costituzionale n. 139 del
04.06.2012, nella quale è stato precisato che,
per questi
ultimi, le disposizioni dell’art. 6 del decreto-legge n. 78
del 2010 "non operano in via diretta, ma solo come
disposizioni di principio”.
In particolare, dette disposizioni non impongono al sistema
delle autonomie l’adozione di tagli puntuali alle singole
voci di spesa considerate dal legislatore, bensì
costituiscono il riferimento per la determinazione
dell’ammontare complessivo dell’obiettivo di riduzione, che
ciascun ente locale può discrezionalmente rimodulare tra i
diversi aggregati oggetto di limitazione.
Pertanto,
nell'esercizio della propria autonomia, ove vi sia capienza
di bilancio, gli enti locali conservano la facoltà anche di
mantenere inalterata (o di incrementare) la spesa per
consulenze, purché riducano, per percentuali superiori, le
altre voci contemplate nell'art. 6 del decreto-legge n. 78
del 2010 (missioni; formazione; relazioni pubbliche,
convegni, mostre, pubblicità e rappresentanza; etc.).
In seguito, la Sezione delle autonomie di questa Corte, con
la deliberazione n. 26/QMIG del 30.12.2013, ha
ulteriormente esteso la possibilità, per gli enti locali, di
operare compensazioni fra le spese costituenti i c.d.
consumi intermedi, ammettendola con riferimento a tutte le
norme di finanza pubblica ponenti dei limiti al ridetto
aggregato (nell’occasione il problema afferiva
all’inclusione, fra le riduzioni passibili di compensazione,
dei limiti posti alla spesa per mobili e arredi dall’art. 1,
commi 141 e 142, della legge 24.12.2012, n. 228). Il
principio è stato poi ripreso dalle Sezioni regionali (da
ultimo, si può far rinvio a SRC Sardegna, deliberazione n.
5/2016/PAR).
II.c) L’art. 14, comma 1, del decreto legge n. 66 del 2014,
convertito con la legge n. 89 del 23.06.2014, ha
introdotto un diverso limite, che si aggiunge a quelli sopra
esaminati.
La norma dispone, infatti, che, fermi restando i
limiti derivanti dalle vigenti disposizioni, e in
particolare dall’art. 6, comma 7, del decreto-legge n. 78
del 2010 e dall’art. 1, comma 5, del decreto-legge n. 101
del 2013, “le amministrazioni pubbliche …, a decorrere
dall’anno 2014, non possono conferire incarichi di
consulenza, studio e ricerca quando la spesa complessiva
sostenuta nell’anno per tali incarichi è superiore rispetto
alla spesa per il personale dell’amministrazione che
conferisce l’incarico, come risultante dal conto annuale del
2012, al 4,2% per le amministrazioni con spesa di personale
pari o inferiore a 5 milioni di euro, e all’1,4% per le
amministrazioni con spesa di personale superiore a 5 milioni
di euro”.
Analoga limitazione è stata introdotta, dal legislatore, per
i contratti di collaborazione coordinata e continuativa,
precludendone il conferimento “quando la spesa complessiva
per tali contratti è superiore rispetto alla spesa del
personale dell'amministrazione che conferisce l'incarico
come risultante dal conto annuale del 2012, al 4,5% per le
amministrazioni con spesa di personale pari o inferiore a 5
milioni di euro, e all'1,1% per le amministrazioni con spesa
di personale superiore a 5 milioni di euro”.
Va, tuttavia, ricordato, come il comma 4-ter della medesima
disposizione, introdotto dalla legge di conversione n. 89
del 2014, consente alle regioni, alle province, alle città
metropolitane ed ai comuni di rimodulare o adottare misure
alternative di contenimento della spesa corrente, al fine di
conseguire risparmi non inferiori a quelli derivanti
dall'applicazione delle due sopraesposte limitazioni
finanziarie agli incarichi di consulenza, studio e
ricerca e
di collaborazione.
In proposito, nell’istanza di parere il Sindaco evidenzia
come, in base a quest’ultima limitazione normativa, il
Comune potrebbe sostenere spese annuali per consulenze fino
a 42.000 euro (onere che, in base ai dati di bilancio
sinteticamente esposti, appare anche finanziariamente
sostenibile). Tuttavia, questo vincolo, come sopra
accennato, concorre con quello del 20% dell’impegnato 2009
(che il legislatore ha, espressamente, fatto salvo), per cui
il tetto per l’Ente si riduce a soli euro 636 (il 20% di
euro 3.182).
II.d) Per quanto riguarda il profilo dell’assenza di spesa
nell’anno base di riferimento preso in considerazione dalla
norma statale di finanza pubblica (nel caso di specie, il
2009), la Sezione, poco dopo l’introduzione della norma in
questione (cfr.
parere 29.04.2011 n. 227), ha osservato
che la ratio sottesa alla legge è di rendere operante, a
regime, una riduzione della spesa per gli incarichi di
consulenza e di studio. Tuttavia, il legislatore non ha
inteso vietare agli enti locali la possibilità di conferire
i ridetti incarichi esterni, quando ne ricorrono i
presupposti. Pertanto, valorizzandone la ridetta finalità,
di riduzione dell’incidenza di questa tipologia di spesa sui
bilanci degli enti locali e non di divieto, si era giunti
alla conclusione che per gli enti locali che, nel corso
dell’anno 2009, non hanno sostenuto alcuna spesa a titolo di
incarichi per studi e consulenze, andasse individuato un
diverso, ma congruo e razionale, parametro di riferimento.
Era stato evidenziato che, ove non si fosse adottata questa
interpretazione, la riduzione lineare prevista dal citato
art. 6, comma 7, avrebbe finito per premiare proprio gli
enti meno virtuosi, che, nel corso dell’anno 2009 (o in
altri presi a riferimento dal legislatore statale), hanno
sostenuto una spesa rilevante per consulenze (al contrario,
il vincolo finanziario si tradurrebbe in un divieto assoluto
per gli enti più virtuosi che, in quello stesso anno, non
hanno sostenuto spese).
Pertanto, si era concluso nel senso
che il limite da osservare fosse quello della “spesa
strettamente necessaria” che l’ente locale deve sostenere
per conferire un incarico di consulenza o di studio.
Quest’ultimo limite, a sua volta, diverrà il parametro
finanziario per gli anni successivi.
In seguito, questo orientamento è stato ripreso dalla
Sezione in relazione ad altre norme di finanza pubblica. Può
farsi rinvio, per esempio, alla fattispecie dell’assenza di
parametro di spesa nel caso dei limiti ai compensi agli
amministratori di società partecipate (cfr. deliberazione n.
1/2015/PAR) o delle assunzioni a tempo determinato o con
altri contratti c.d. flessibili (cfr. deliberazioni n.
157/2014/PAR e n. 215/2014/PAR).
Tuttavia, la riferita interpretazione non è
stata seguita nel caso in cui l’ente abbia sostenuto una
spesa, anche se minima, nell’anno base di riferimento
(in tema di consulenze, può farsi rinvio al
parere 28.03.2012 n. 88)
o nell’ipotesi in cui la norma di finanza
pubblica preveda essa stessa un parametro alternativo (cfr.,
in materia di assunzioni a tempo determinato, i citati
parere 18.04.2013 n. 157 e n. 215/2014/PAR).
In questi ultimi casi, infatti, la difficoltà per
l’interprete di stabilire fino a che punto una “spesa
minima” possa essere assimilata ad una “spesa assente”,
unitamente agli elementi di flessibilità applicativa
affermati, per le autonomie locali, dalla Corte
costituzionale nella citata sentenza n. 139/2012, hanno
indotto la Sezione, in attesa di auspicabili interventi
chiarificatori o correttivi da parte del legislatore, a non
estendere il principio di diritto affermato in caso di
mancanza di spesa nell’anno base di riferimento.
III. La possibilità di pagamento al consulente con fondi
privati
Con il quarto quesito il Sindaco istante chiede se sia
possibile, previo conferimento in base alle procedure di
legge (il richiamo, implicito, è ai presupposti ed alle
procedure comparative previste dall’art. 7, comma 6, del
d.lgs. 165 del 2001, ovvero, qualora l’incarico sia
qualificabile come appalto di servizi, a quelle di gara
poste dal d.lgs. n. 50 del 2016), pagare i professionisti
direttamente di tasca propria o rimborsare al Comune le
spese sostenute.
Sul punto, va premesso, in primo luogo, come
costituisca
approdo ormai consolidato della giurisprudenza contabile il
principio secondo cui, dal computo delle spese per consulenza (come dalle altre elencate dall’art. 6 del
decreto-legge n. 78 del 2010 o da ulteriori norme di finanza
pubblica), vadano escluse quelle coperte mediante
finanziamenti finalizzati o risorse provenienti (per
esempio, sponsorizzazioni) da altri soggetti, pubblici o
privati (cfr., ex multis, le deliberazioni delle Sezioni
regionali di controllo per l’Emilia Romagna, n.
233/2014/PAR, per la Lombardia, n. 398/2012/PAR, per il
Piemonte, n. 40/2011/PAR).
Come affermato, infatti, nella deliberazione delle Sezioni
riunite in sede di controllo n. 7/CONTR del 07.02.2011,
in cui il principio era stato formulato proprio con
riferimento alle spese per studi e consulenze, l’obiettivo
comune di tali disposizioni finanziarie non è di limitare tout court i servizi e le funzioni realizzate a mezzo di
determinate spese, bensì quello di ridurne l’impatto sul
bilancio degli enti. Pertanto,
ove tale incidenza non
sussista o sia neutralizzata da una fonte esterna, la norma
limitativa di spesa non trova applicazione.
Per quanto riguarda le specifiche modalità alternative
proposte dal Sindaco istante, la Sezione ricorda che i
principi di unità e universalità, propri dei bilanci degli
enti locali (cfr. Allegato 1 al d.lgs. n. 118 del 2011),
come di tutte le pubbliche amministrazioni, comportano che
tutte le entrate e le spese sostenute da un ente transitino
per il bilancio (mentre le gestioni fuori bilancio o le
contabilità separate sono ammesse solo nei casi previsti
dalla legge), imponendo, pertanto, che l’eventuale
contributo finanziario di un qualunque terzo (concretante un
atto di liberalità) debba essere accertato e incassato dal
Comune beneficiario e, successivamente, finalizzato
all’assunzione dell’impegno di spesa per il pagamento del
professionista incaricato (Corte dei Conti, Sez. controllo
Lombardia,
parere 30.05.2016 n. 162). |
QUESITI & PARERI |
PUBBLICO IMPIEGO:
La delegabilità delle funzioni dirigenziali.
DOMANDA:
L'art. 7 del DPR n. 62/2013, concernente "l'obbligo di
astensione" di un pubblico dipendente, prevede che: "Il
dipendente si astiene dal partecipare all'adozione di
decisioni o ad attività che possano coinvolgere interessi
propri, ovvero di suoi parenti, affini entro il secondo
grado, del coniuge o di conviventi, oppure di persone con le
quali abbia rapporti di frequentazione abituale, ovvero, di
soggetti od organizzazioni con cui egli o il coniuge abbia
causa pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o
debito significativi, ovvero di soggetti od organizzazioni
di cui sia tutore, curatore, procuratore o agente, ovvero di
enti, associazioni anche non riconosciute, comitati, società
o stabilimenti di cui sia amministratore o gerente o
dirigente. Il dipendente si astiene in ogni altro caso in
cui esistano gravi ragioni di convenienza. Sull'astensione
decide il responsabile dell' ufficio di appartenenza".
Nel nostro Comune (Ente dotato di Dirigenza), nei casi di
incompatibilità, si pone il problema di quale sia il
procedimento più corretto per la sostituzione del Dirigente
di Area Tecnica, in fase di rilascio di permessi di
costruire o altri provvedimenti aventi natura tecnica. Nel
caso specifico, si precisa che nell'organico dell'Ente non
vi sono altri Dirigenti aventi qualifica tecnica. Vi sono
però n. 4 Funzionari tecnici (n. 3 Ingegneri e n. 1
Architetto), di cui due incaricati di posizione
organizzativa.
Il vigente Regolamento comunale sull'organizzazione degli
uffici e dei servizi, pur non trattando esplicitamente i
casi di incompatibilità, prevede genericamente che "In
caso di assenza del Dirigente le sue funzioni sono
esercitate in via prioritaria da altro Dirigente individuato
dal Sindaco con decreto e in via secondaria dal Segretario
generale".
D'altro canto, l'art. 17 del decreto legislativo 165/2001
recita: "i dirigenti, per specifiche e comprovate ragioni
di servizio, possono delegare per un periodo di tempo
determinato, con atto scritto e motivato, alcune delle
competenze comprese nelle funzioni di cui alle lettere b),
d) ed e) del comma 1 a dipendenti che ricoprano le posizioni
funzionali più elevate nell'ambito degli uffici ad essi
affidati. Non si applica in ogni caso l'articolo 2103 del
codice civile".
L'istituto della "delega" prevede che il funzionario
designato debba accettare la suddetta delega e, in caso di
mancata accettazione, si potrebbe creare uno stallo per le
attività amministrative.
Visto tutto quanto innanzi, si chiede, pertanto, se per il
rilascio di provvedimenti aventi natura tecnica, nei casi di
incompatibilità del Dirigente Tecnico:
1) la sostituzione debba essere effettuata per il tramite di
altro Dirigente designato, ancorché non vi siano specifiche
competenze tecniche, ovvero
2) la sostituzione debba essere effettuata per il tramite
dell'istituto della delega, individuando un funzionario
tecnico all'uopo designato. Nel caso in cui la soluzione sia
quella prevista al punto 2 che precede, si chiede se la
attribuzione sia suscettibile -o meno- di accettazione da
parte del funzionario designato e se la designazione debba
avvenire esclusivamente nei confronti di un titolare di
posizione organizzativa o possa essere individuato un
qualsiasi funzionario.
RISPOSTA:
L’art. 2 della L. 154/2002, aggiungendo il comma 1-bis
all'art. 17, del D.Lgs. n. 165/2001, ha previsto, accanto ai
compiti e poteri dei dirigenti, che essi “per specifiche
e comprovate ragioni di servizio, possono delegare per un
periodo di tempo determinato, con atto scritto e motivato,
alcune delle competenze comprese nelle funzioni di cui alle
lettere b), d) ed e) del comma 1 a dipendenti che ricoprano
le posizioni funzionali più elevate nell'ambito degli uffici
ad essi affidati. Non si applica in ogni caso l'articolo
2103 cod.civ.”.
La delegabilità delle funzioni dirigenziali al personale
dipendente privo della qualifica dirigenziale è dunque
possibile a condizione che avvenga:
- per specifiche e comprovate ragioni di servizio;
- per un periodo di tempo determinato;
- con atto scritto e motivato;
- riguardi la cura e l'attuazione dei progetti e delle
gestioni ad essi assegnati dai dirigenti degli uffici
dirigenziali generali, adottando i relativi atti e
provvedimenti amministrativi ed esercitando i poteri di
spesa e di acquisizione delle entrate;
- inerisca al coordinamento e controllo dell'attività degli
uffici che da essi dipendono e dei responsabili dei
procedimenti amministrativi;
- riguardi la gestione del personale e delle risorse
finanziarie e strumentali assegnate ai propri uffici.
Il potere di delega deve trovare esplicitazione tanto nello
statuto dell'ente locale quanto nel regolamento degli uffici
e dei servizi che deve individuare la disciplina di
dettaglio della delega ed i soggetti nei confronti dei quali
essa potrà valere (“dipendenti che ricoprano le posizioni
funzionali più elevate”, ossia p.o. o, in assenza,
personale di Cat. D).
Si ritiene che un caso di incompatibilità, che obbliga il
dirigente ad astenersi dal compimento di un atto di sua
competenza, ai sensi dell’art. 7 del d.P.R. 62/2013,
concretizzi una “specifica e comprovata ragione di
servizio” tale da giustificare la delegabilità delle
funzioni dirigenziali al personale dipendente privo della
qualifica dirigenziale (ma in possesso delle competenze
tecniche necessarie) e che questa sia la soluzione ottimale
da seguire nel caso concreto.
Si esprime altresì il parere che, in presenza di p.o., la
delega di funzioni debba avvenire nei loro confronti e che
l’attribuzione non possa essere oggetto di rifiuto od
opposizione da parte degli interessati, rientrando tra i
doveri di ufficio ai sensi del richiamato art. 17, comma
1-bis D.Lgs. 165/2001 (link
a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Comando. Assunzione a tempo determinato e parziale.
Nell'ipotesi di assunzione a tempo
determinata finalizzata alla sostituzione di dipendente in
comando presso altra pubblica amministrazione, la Corte dei
conti ha ritenuto imprescindibile riscontrare la sussistenza
del duplice requisito della temporaneità e
dell'eccezionalità dell'esigenza, come richiesto dal
legislatore per il legittimo ricorso a tale tipologia di
assunzioni.
L'Ente ha chiesto un parere in ordine alla possibilità di
procedere all'assunzione di una unità di personale, con
contratto a tempo determinato part-time (18 ore
settimanali), per supplire alle esigenze derivanti dalla
concessione di un comando presso altra amministrazione di
proprio dipendente, e fino al rientro del medesimo.
Preliminarmente si osserva che l'art. 12, comma 1, della
l.r. 19/2003 stabilisce che, alle aziende pubbliche di
servizi alla persona si applicano, per quanto compatibili,
le norme generali contenute nel decreto legislativo
30.03.2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento del
lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni).
Si ritiene pertanto utile fornire innanzitutto un quadro
generale illustrativo dei presupposti e condizioni che
disciplinano, allo stato attuale, il ricorso ad assunzioni a
tempo indeterminato e determinato nelle amministrazioni
pubbliche.
Norme di principio, come tali applicabili a tutte le
pubbliche amministrazioni, sono rinvenibili all'art. 36,
commi 1 e 2, del citato decreto.
Il comma 1 prevede infatti che, per le esigenze connesse con
il proprio fabbisogno ordinario, le pubbliche
amministrazioni assumono esclusivamente con contratti di
lavoro subordinato a tempo indeterminato, seguendo le
procedure di reclutamento previste dall'articolo 35 del
d.lgs. 165/2001.
Il successivo comma 2 precisa altresì che, per rispondere ad
esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o
eccezionale, le amministrazioni pubbliche possono avvalersi
delle forme contrattuali flessibili di assunzione e di
impiego del personale previste dal codice civile e dalle
leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa, nel
rispetto delle procedure di reclutamento vigenti.
Il Dipartimento della funzione pubblica [1]
ha evidenziato come il richiamato comma 2 'con
l'inserimento della parola esclusivamente' (esigenze di
carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale), ha
rafforzato il principio secondo cui la regola
nell'instaurazione dei rapporti di lavoro è il contratto a
tempo indeterminato (contratto dominante).
Premesso un tanto, si rileva come, a mente della
legislazione vigente, il ricorso a contratti di lavoro
flessibile (tempo determinato) non sia comunque giustificato
per fronteggiare esigenze di natura stabile e continuativa,
che presuppongono l'instaurazione di un rapporto a tempo
indeterminato.
Come rilevato anche dall'ANCI [2],
la normativa vigente concernente l'utilizzo dei contratti di
lavoro a tempo determinato nella P.A. prevede un obbligo, a
carico del datore di lavoro, di effettuare una preventiva
verifica ed istruttoria circa la sussistenza o meno dei
presupposti e delle motivazioni che consentono di avvalersi
di tale forma contrattuale di lavoro.
Nella fattispecie rappresentata si tratta di sostituire per
un determinato periodo un dipendente comandato parzialmente
presso un'altra amministrazione e, pertanto, alla luce delle
considerazioni espresse, l'Ente può valutare se ricorrano i
presupposti per l'assunzione a tempo determinato di cui
trattasi, per esigenze a carattere temporaneo o eccezionale,
considerato che comunque il comando in essere ha una
scadenza prestabilita e che il posto d'organico è in ogni
caso indisponibile per una diversa copertura.
Si rileva, a tal proposito, che la Corte dei conti
[3],
esprimendosi in merito ad analoga fattispecie, ha
innanzitutto rimarcato che andrebbero sottoposte ad attenta
valutazione di coerenza sia le ragioni della concessione
dell'autorizzazione al comando [4],
da parte dell'ente cedente, sia le sopravvenute necessità di
sostituzione del dipendente ceduto.
Nell'ipotesi specifica di assunzione a tempo determinato
finalizzata alla sostituzione di dipendente in comando
presso altra pubblica amministrazione, la Corte dei conti ha
ritenuto quindi imprescindibile riscontrare la sussistenza
del duplice requisito della temporaneità e
dell'eccezionalità dell'esigenza, come richiesto dal
legislatore per il legittimo ricorso a tale tipologia di
assunzioni.
E' necessario inoltre che l'Ente interessato verifichi in
concreto che l'assunzione a tempo determinato e parziale
rispetti gli obblighi imposti dalle vigenti disposizioni
finanziarie, anche in materia di riduzione dei costi per il
personale [5].
Si evidenzia tra l'altro che lo stesso statuto dell'Ente
istante prevede espressamente, all'articolo 16, comma 6, che
possono essere utilizzate forme di lavoro temporaneo ed
altre forme di flessibilità, nel rispetto della legge e dei
contratti collettivi.
In conclusione, ove ricorrano i delineati presupposti, si è
dell'avviso che si possa ricorrere ad assunzioni a tempo
determinato anche per far fronte ad un temporaneo comando di
proprio personale.
---------------
[1] Cfr. circolare n. 5/2013.
[2] Cfr. parere del 17.06.2014.
[3] Cfr. sez. controllo per la Regione Sardegna,
deliberazione n. 39/2014. Il parere è stato reso a un
comune, ma le considerazioni svolte appaiono utili in linea
generale.
[4] La posizione di comando del pubblico dipendente non
determina l'instaurazione di un nuovo rapporto di lavoro, ma
semplicemente una modifica del solo rapporto di servizio.
[5] Cfr. Corte dei conti, sezione regionale di controllo per
l'Emilia Romagna, deliberazione n. 172/2014/PAR (31.05.2016
-
link a
www.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/
Consigli, gruppi autonomi. Non sono configurabili come
organi dei partiti. I presentatori
di lista non possono condizionarne l'attività politica.
I presentatori di una lista civica possono diffidare alcuni
consiglieri eletti nell'ambito della medesima lista
dall'utilizzare le corrispondenti prerogative, in materia di
costituzione di gruppi e commissioni consiliari?
L'esistenza dei gruppi consiliari non è espressamente
prevista dalla legge, ma si desume implicitamente da quelle
disposizioni normative che contemplano diritti e prerogative
in capo ai gruppi o ai capigruppo (art. 38, comma 3, art.
39, comma 4 e art. 125 del decreto legislativo n. 267/2000).
I
mutamenti che possono sopravvenire all'interno delle forze
politiche presenti in consiglio comunale per effetto di
dissociazioni dall'originario gruppo di appartenenza, che
danno origine alla costituzione di nuovi gruppi consiliari o
all'adesione a diversi gruppi già esistenti, sono
ammissibili. Nell'ambito della propria potestà di
organizzazione, riconosciuta ai consigli comunali dal citato
art. 38 del Tuel, i singoli enti locali potranno dettare
norme, statutarie e regolamentari, in materia. Poiché tali
variazioni modificano i rapporti tra le forze politiche
presenti in consiglio, incidendo sul numero dei gruppi
ovvero sulla loro consistenza numerica, ciò non può non
influire sulla composizione delle commissioni consiliari che
deve, pertanto, adeguarsi ai nuovi assetti.
Del resto, la
possibilità di transitare da un gruppo ad altro, o di
costituire nuovi gruppi, non potrebbe non essere finalizzata
alla formazione delle commissioni consiliari, che non sono
componenti indispensabili della struttura organizzativa
bensì organi strumentali dei consigli, alle quali, una volta
istituite, deve partecipare almeno un rappresentante di
ciascun gruppo.
Nel caso in esame, lo statuto comunale,
prevedendo la facoltà di istituire le commissioni
consiliari, dispone l'obbligo del rispetto del criterio
proporzionale, assicurando, correttamente, la presenza di
almeno un rappresentante per ogni gruppo. Il regolamento
disciplina i gruppi, prevedendo che i consiglieri eletti
nella medesima lista formino, di regola, un gruppo
consiliare, anche unipersonale.
I nuovi gruppi sono ammessi solo se costituiti da almeno due
consiglieri, mentre il consigliere che nel corso del mandato
rimanga da solo nel gruppo precostituito, mantiene le
prerogative. La fonte regolamentare non contiene, invece,
specifiche disposizioni che prevedano l'ipotesi della
espulsione di un consigliere dal proprio gruppo di
appartenenza originario, fatta salva la previsione di
potersi distaccare dal gruppo originario. Peraltro il Tar
Puglia, sez. di Bari, con sentenza n. 506/ 2005, ha
affermato che il rapporto tra il candidato eletto e il
partito di appartenenza «non esercita influenza
giuridicamente rilevabile, attesa la mancanza di rapporto di
mandato e la assoluta autonomia politica dei rappresentanti
del consiglio comunale e degli organi collegiali in generale
rispetto alla lista o partito che li ha candidati».
Ciò in quanto nel nostro sistema legislativo la «lista»
è lo strumento a disposizione dei cittadini per presentare
all'elettorato i propri candidati ed esaurisce la sua
funzione giuridica al momento delle elezioni che si
concludono con la proclamazione degli eletti, atto anteriore
e del tutto autonomo rispetto alla convalida.
Ne consegue che all'interno del consiglio i gruppi non sono
configurabili quali organi dei partiti e, pertanto, non
sembra sussistere in capo a questi ultimi una potestà
direttamente vincolante sia per un membro del gruppo di
riferimento, sia per gli organi assembleari dell'ente.
Il Tar per il Lazio, con sentenza n. 16240/2004, ha
precisato che i gruppi consiliari rappresentano, per un
verso, la proiezione dei partiti all'interno delle
assemblee, e, per altro verso, costituiscono parte
dell'ordinamento assembleare, in quanto articolazioni
interne di un organo istituzionale. Pertanto non sembra
possibile alcuna interferenza dei primi nei riguardi dei
secondi
(articolo ItaliaOggi del
27.05.2016). |
PATRIMONIO:
Affrancazione di terreni comunali gravati da livello.
L'affrancazione consiste nell'acquisto
della proprietà da parte dell'enfiteuta e si opera mediante
il pagamento di una somma risultante dalla capitalizzazione
del canone annuo sulla base dell'interesse legale.
La disciplina relativa al calcolo dei canoni è stabilita da
due leggi speciali le quali indicano quali parametri di
riferimento rispettivamente il reddito dominicale del fondo
per le enfiteusi anteriori al 28.10.1941 e la quindicesima
parte dell'indennità di esproprio prevista dalle leggi di
riforma agraria del 1950 per le enfiteusi sorte
successivamente. In entrambi i casi è previsto che il
capitale di affranco sia determinato in misura pari a
quindici volte il canone.
A seguito di una serie di pronunce della Corte
Costituzionale, la determinazione del canone deve essere
aggiornata, rispetto alle modalità indicate nelle leggi
speciali, mediante l'applicazione di coefficienti di
maggiorazione idonei a mantenere adeguata, con una
ragionevole approssimazione, la corrispondenza con la
effettiva realtà economica.
Il Comune, sentito anche per le vie brevi, chiede di sapere
quale sia la procedura da seguire per consentire
l'affrancazione di terreni comunali gravati da livello,
considerando che in ordine agli stessi l'amministrazione
comunale non percepisce, da tempo immemore, alcun canone.
In via preliminare, si osserva che il livello è un contratto
agrario in uso nel Medioevo, che consiste nella concessione
di una terra dietro il pagamento di un fitto. L'istituto del
livello non è disciplinato dal codice civile e la
giurisprudenza di legittimità [1]
in più occasioni lo ha equiparato ad un diritto di
enfiteusi.
L'affrancazione consiste nell'acquisto della proprietà da
parte dell'enfiteuta e 'si opera mediante il pagamento di
una somma risultante dalla capitalizzazione del canone annuo
sulla base dell'interesse legale. Le modalità sono stabilite
da leggi speciali' (articolo 971, sesto comma, codice
civile).
In particolare, la disciplina relativa al calcolo ed
all'aggiornamento dei canoni è contenuta in due leggi
speciali, la legge 22.07.1966, n. 607 [2]
e la legge 18.12.1970 [3],
n. 1138, le quali prescrivono criteri di determinazione dei
canoni enfiteutici, indicando come parametri di riferimento
rispettivamente il reddito dominicale del fondo per le
enfiteusi anteriori al 28.10.1941, [4]
e la quindicesima parte dell'indennità di esproprio prevista
dalle leggi di riforma agraria del 1950 per le enfiteusi
sorte successivamente [5].
In entrambi i casi è previsto che il capitale di affranco
sia determinato in misura pari a quindici volte il canone.
[6]
Dopo la loro emanazione, sulle due leggi citate si è
pronunciata a più riprese la Corte costituzionale, la quale
ha dichiarato l'illegittimità della normativa sotto diversi
profili, modificandone profondamente la portata.
[7]
Sia per la legge n. 607/1966 che per quella n. 1138/1970 la
Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità dei
criteri di calcolo ivi prescritti dettando, quale principio
generale della materia, la regola per cui i canoni devono
essere periodicamente aggiornati mediante l'applicazione di
coefficienti di maggiorazione idonei 'a mantenere
adeguata, con una ragionevole approssimazione, la
corrispondenza con la effettiva realtà economica'.
[8]
In base a quali criteri debba essere garantita tale
corrispondenza, tuttavia, la Corte nulla ha detto, né
avrebbe potuto farlo, essendo prerogativa del legislatore
dettare una regolamentazione della materia.
In mancanza di parametri di riferimento certi per la
determinazione e/o l'aggiornamento dei canoni enfiteutici,
considerato che non vi sono stati interventi normativi volti
a dettare una nuova regolamentazione della materia, nel
corso degli anni sono state adottate o suggerite soluzioni
di varia natura e portata.
Tra queste si segnalano una circolare del Ministero
dell'Interno [9]
che, nel fare proprie le conclusioni espresse da
un'Avvocatura Distrettuale, [10]
ha ritenuto coerente quale modalità di calcolo del capitale
di affranco, sia per le enfiteusi antecedenti che successive
al 1941, il criterio dettato per il computo dell'indennità
di esproprio ordinaria, che per i terreni agricoli è
calcolata in base al valore agricolo medio del tipo di
coltura in atto nell'area da espropriare,
[11] stabilito
annualmente da rilevazioni operate da un'apposita
commissione provinciale. [12]
Sulla stessa linea si pone una circolare dell'Agenzia del
Territorio [13]
la quale richiama una precedente nota del Ministero delle
Finanze la quale statuiva che, per le enfiteusi antecedenti
al 1941, il canone dovesse essere equiparato al reddito
dominicale opportunamente attualizzato tramite idonei
criteri di aggiornamento. L'Agenzia del Territorio,
constatato che 'l'ultimo coefficiente di rivalutazione
dei redditi dominicali -non soggetti a revisione dal lontano
1979- pare, allo stato, ancora quello dell'80%',
[14] ha
ritenuto che il criterio indicato nella precedente nota
ministeriale portasse 'alla determinazione di somme non
adeguatamente corrispondenti alla realtà economica.
Alla luce di un tanto la circolare 29104/2011 conclude
ritenendo «più opportuno utilizzare, anche con
riferimento alle enfiteusi antecedenti al 1941, il criterio
dell'indennità di esproprio dei fondi rustici,
sostanzialmente in linea con quanto statuito dalla Corte
Costituzionale (Sent. 406/1988) in merito alla necessità di
rapportare i canoni ed il capitale di affrancazione 'alla
effettiva realtà economica' (si veda anche, in proposito, il
parere dell'Avvocatura Distrettuale dell'Aquila CS 260/1999,
recepito in una circolare del Ministero n. 118 del
09/09/1999)». Conclude l'indicata circolare nel senso
che «per tutte le enfiteusi su fondo agricolo il capitale
di affrancazione ed i canoni andranno determinati facendo
ricorso al criterio dell'indennità di esproprio e non
piuttosto a quello del reddito dominicale rivalutato non più
rispondente all'effettiva realtà economica».
[15]
Per completezza espositiva, è necessario, tuttavia,
considerare la normativa in tema di determinazione dei
coefficienti di rivalutazione dei redditi dominicali,
intervenuta successivamente all'emanazione delle suindicate
circolari. Ci si riferisce, in particolare, alla legge
24.12.2012, n. 228 e successive modificazioni, di cui
l'ultima ad opera della legge 28.12.2015, n. 208, la quale,
all'articolo 1, comma 512, stabilisce che: 'Ai soli fini
della determinazione delle imposte sui redditi, per i
periodi d'imposta 2013, 2014 e 2015, nonché a decorrere dal
periodo di imposta 2016, i redditi dominicale e agrario sono
rivalutati rispettivamente del 15 per cento per i periodi di
imposta 2013 e 2014 e del 30 per cento per il periodo di
imposta 2015, nonché del 30 per cento a decorrere dal
periodo di imposta 2016. Per i terreni agricoli, nonché per
quelli non coltivati, posseduti e condotti dai coltivatori
diretti e dagli imprenditori agricoli professionali iscritti
nella previdenza agricola, la rivalutazione è pari al 5 per
cento per i periodi di imposta 2013 e 2014 e al 10 per cento
per il periodo di imposta 2015. L'incremento si applica
sull'importo risultante dalla rivalutazione operata ai sensi
dell'articolo 3, comma 50, della legge 23.12.1996, n. 662.
[...]'.
Segue che sarà opportuno valutare se, a seguito delle
operazioni di calcolo, il capitale di affrancazione dei
fondi risulti essere adeguatamente corrispondente alla
realtà economica.
Se così fosse, sarebbe possibile utilizzare, per determinare
il prezzo dell'affrancazione delle enfiteusi sorte
antecedentemente al 28.10.1941, il criterio che risulta
dall'applicazione, al reddito catastale dei terreni, dei
coefficienti utilizzati per calcolare le imposte sui redditi
disposti dal legislatore negli specifici provvedimenti
normativi sopra richiamati.
In caso contrario, si potrebbe utilizzare il criterio
proposto nelle circolari sopra citate, che rimanda al
calcolo dell'indennità che sarebbe corrisposta in caso di
espropriazione per pubblica utilità.
Da ultimo, si osserva come non sarebbe possibile per l'Ente
consentire l'affrancazione gratuita dei propri fondi. Si
rileva come non sia applicabile agli enti locali il disposto
di cui alla legge 29.01.1974, n. 16, recante 'Rinuncia ai
diritti di credito inferiori a lire mille' il cui
articolo 1 così recita: 'Sono estinti i rapporti perpetui
reali e personali, costituiti anteriormente, alla data del
28.10.1941, in forza dei quali le amministrazioni e le
aziende autonome dello Stato, comprese l'Amministrazione del
fondo per il culto, l'Amministrazione del fondo di
beneficenza e di religione nella città di Roma e
l'Amministrazione dei patrimoni riuniti ex economali hanno
il diritto di riscuotere canoni enfiteutici, censi, livelli
e altre prestazioni in denaro o in derrate, in misura
inferiore a lire 1.000 annue'. [16]
Tale legge, oltretutto, è stata abrogata dall'articolo 24
del decreto legge 25.06.2008, n. 112, convertito in legge,
con modificazioni, dall'articolo 1, comma 1, della legge
06.08.2008, n. 133 a far data dal centottantesimo giorno
successivo alla data della sua entrata in vigore.
Si riportano, altresì, le affermazioni del Supremo giudice
civile [17]
il quale, nel ribadire la necessità che il computo per la
determinazione del capitale per l'affrancazione venga
periodicamente aggiornato, applicando coefficienti di
maggiorazione idonei a mantenere adeguata, con ragionevole
approssimazione, la corrispondenza del capitale di
affrancazione con l'effettiva realtà economica, precisa,
altresì, che, una tale operazione è, altresì, diretta 'ad
impedire che l'affrancazione si trasformi in una sostanziale
ablazione gratuita del diritto del concedente'.
---------------
[1] Così, Cassazione civile, sez. VI, ordinanza del
06.06.2012, n. 9135 che afferma: 'Il regime giuridico del
cosiddetto "livello" va assimilato a quello dell'enfiteusi,
in quanto i due istituti, pur se originariamente distinti,
finirono in prosieguo per confondersi ed unificarsi,
dovendosi, pertanto, ricomprendere anche il primo, al pari
della seconda, tra i diritti reali di godimento'. Nello
stesso senso si veda, anche, Cassazione civile, sez. III,
sentenza dell'08.01.1997, n. 64 e più datate nel tempo,
Cassazione n. 1366/1961 e Cassazione n. 1682/1963.
[2] Recante 'Norme in materia di enfiteusi e prestazioni
fondiarie perpetue'.
[3] Recante 'Nuove norme in materia di enfiteusi'.
[4] Articolo 1, primo comma, della legge 607/1966 unitamente
ad articolo 1 della legge 1138/1970.
[5] Articolo 2, terzo comma, della legge 1138/1970.
[6] Articolo 1, quarto comma, della legge 607/1966 e
articolo 9 della legge 1138/1970.
[7] Corte costituzionale, sentenze del 19-23.05.1997, n.
143; del 24.03-07.04.1988, n. 406; del 07-20.05.2008, n.
160.
[8] Corte costituzionale, sentenza del 07.04.1988, n. 406 e
del 23.05.1997, n. 143.
[9] Ministero dell'Interno, circolare del 09.09.1999, n.
118.
[10] Avvocatura Distrettuale dell'Aquila, parere 260/1999.
[11] Il D.P.R. 08.06.2001, n. 327, recante 'Testo unico
delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di
espropriazione per pubblica utilità', all'articolo 40, comma
1, recita: 'Nel caso di esproprio di un'area non
edificabile, l'indennità definitiva è determinata in base al
criterio del valore agricolo, tenendo conto delle colture
effettivamente praticate sul fondo e del valore dei
manufatti edilizi legittimamente realizzati, anche in
relazione all'esercizio dell'azienda agricola, senza
valutare la possibile o l'effettiva utilizzazione diversa da
quella agricola'.
[12] L'articolo 41 del D.P.R. 327/2001, al comma 1, prevede
che: 'In ogni provincia, la Regione istituisce una
commissione composta:
a) dal presidente della Provincia, o da un suo delegato, che
la presiede;
b) dall'ingegnere capo dell'ufficio tecnico erariale, o da
un suo delegato;
c) dall'ingegnere capo del genio civile, o da un suo
delegato;
d) dal presidente dell'Istituto autonomo delle case popolari
della Provincia, o da un suo delegato;
e) da due esperti in materia urbanistica ed edilizia,
nominati dalla Regione;
f) da tre esperti in materia di agricoltura e di foreste,
nominati dalla Regione su terne proposte dalle associazioni
sindacali maggiormente rappresentative'.
[13] Agenzia del Territorio, circolare dell'11.05.2011, n.
29104.
[14] L'articolo 3, comma 50, della legge 23.12.1996, n. 662
recita: 'Fino alla data di entrata in vigore delle nuove
tariffe d'estimo, ai soli fini delle imposte sui redditi, i
redditi dominicali e agrari sono rivalutati,
rispettivamente, dell'80 per cento e del 70 per cento.
L'incremento si applica sull'importo posto a base della
rivalutazione operata ai sensi dell'articolo 31, comma 1,
della legge 23.12.1994, n. 724'.
[15] Anche l'ANCI, con parere dell'08.01.2013,
nell'affrontare la questione della determinazione del
capitale di affrancazione ha ritenuto 'condivisibile la tesi
sostenuta dall'Agenzia del Territorio, [...], in quanto
aderisce al principio della corrispondenza all'effettiva
realtà economica'.
[16] La giurisprudenza, con riferimento al tempo in cui la
norma risultava vigente, ha affermato la sua inapplicabilità
agli enti locali. Così Cassazione civile, sez. II, sentenza
del 21.02.2014, n. 4201 e Corte dei Conti, sez. regionale di
controllo, Campania, parere del 20.07.2006, n. 18.
[17] Cassazione civile, sez. II, sentenza del 12.10.2000, n.
13595 (24.05.2016 -
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ENTI LOCALI:
Quesito relativo al Gonfalone provinciale.
Qualora la Provincia sia priva di
personale le cui mansioni siano compatibili con il servizio
di scorta al Gonfalone decorato con la Medaglia d'oro al
Valore militare e laddove nella specifica occasione non sia
reso un servizio stabile da una diversa Forza Armata o da un
Corpo armato, il servizio d'onore in questione potrà essere
reso, previ gli opportuni accordi, dall'Arma dei
Carabinieri.
Infatti, le disposizioni generali in materia di cerimoniale
e di precedenza tra le cariche pubbliche sono contenute nel
DPCM 14.04.2006 il cui articolo 26 prevede che 'I servizi
d'onore sono, di norma, resi dall'Arma dei Carabinieri,
fatte salve le prerogative del Capo dello Stato e ad
eccezione delle sedi istituzionali e delle occasioni ove già
sia reso servizio stabile da una diversa Forza Armata o da
un Corpo armato'.
La Provincia, insignita della Medaglia d'oro al Valore
militare, espone che nel corso delle uscite ufficiali il
Gonfalone provinciale viene decorato con la suddetta
medaglia e che, ai sensi del vigente regolamento provinciale
lo stesso deve essere scortato da tre dipendenti in alta
uniforme.
Nella prospettiva del trasferimento ad altri enti locali di
tutte le funzioni provinciali e del personale ad esse
preposto in esito al processo di riordino istituzionale
intrapreso dalla Regione e finalizzato, tra l'altro, al
superamento delle province, la Provincia pone i seguenti
quesiti:
1) quale personale in alta uniforme potrà svolgere il
servizio di scorta del Gonfalone in mancanza di personale
della Provincia e atteso l'imminente trasferimento delle
funzioni e del personale della polizia provinciale
all'Amministrazione regionale;
2) quali siano le procedure da seguire per la riconsegna
della medaglia d'oro e del gonfalone della Provincia una
volta operato il superamento di detto ente.
Si formulano al riguardo le seguenti considerazioni.
Le disposizioni generali in materia di cerimoniale e di
precedenza tra le cariche pubbliche sono contenute nel DPCM
14.04.2006. In particolare, l'articolo 23 annovera tra i
simboli destinatari di onori militari 'Gonfaloni e
Vessilli decorati di Medaglia d'oro al Valore militare.'.
Il successivo articolo 26 prevede che 'I servizi d'onore
sono, di norma, resi dall'Arma dei Carabinieri, fatte salve
le prerogative del Capo dello Stato e ad eccezione delle
sedi istituzionali e delle occasioni ove già sia reso
servizio stabile da una diversa Forza Armata o da un Corpo
armato.'.
Il vigente regolamento provinciale di riferimento,
all'articolo 9 (Uso del Gonfalone), comma 4 dispone che 'La
scorta d'onore al gonfalone della Provincia sarà effettuata
da tre dipendenti in alta uniforme, di cui uno sorregge il
gonfalone e gli altri si porranno ai lati dello stesso. Il
servizio di scorta sarà svolto anche da agenti della
vigilanza ittico venatoria.'.
Alla luce di un tanto, in relazione al quesito sub 1 pare
potersi affermare che, qualora la Provincia sia priva di
personale le cui mansioni siano compatibili con il servizio
in questione e laddove nella specifica occasione non sia
reso un servizio stabile da una diversa Forza Armata o da un
Corpo armato, il servizio d'onore in questione potrà essere
reso, previ gli opportuni accordi, dall'Arma dei
Carabinieri.
Con riferimento infine al quesito sub 2, la legge regionale
che disciplinerà il superamento delle province del Friuli
Venezia Giulia provvederà a disporre anche in ordine alle
procedure per la riconsegna del Gonfalone e della Medaglia
d'oro in argomento (18.05.2016 -
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PUBBLICO IMPIEGO:
Effetti del giudicato penale sui dipendenti delle p.a.:
distinguo tra reato consumato o tentato (parere
28.12.2015-582635, AL 43914/15 -
Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 1/2016).
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1) Con la nota in riscontro codesta Direzione chiede di
conoscere il parere della Scrivente in merito ai criteri
applicativi dell’istituto della sospensione del pubblico
dipendente a seguito di condanna non definitiva previsto
dall’art. 4, comma 1, L. n. 97/2001 -recante “Norme sul
rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare
ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti
delle amministrazioni pubbliche”- che dispone la sospensione
(obbligatoria) dal servizio nel caso in cui un dipendente
pubblico riporti una condanna, anche non definitiva, per
taluno dei reati elencati tassativamente all’articolo 3,
comma 1, della stessa legge (come modificata da ultimo dalla
L. n. 190/2012), ancorché sia stata concessa la sospensione
condizionale della pena. (...continua). |
APPALTII:
Prestazioni previdenziali erogate da Stazione appaltante
a fronte di irregolare posizione contributiva dell’impresa
fallita (parere
14.12.2015-562411, AL 22627/15 -
Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 1/2016).
---------------
Con la nota che si riscontra codesta Avvocatura ha
richiesto l’avviso della Scrivente in merito
all’individuazione del soggetto legittimato a ricevere il
pagamento dei corrispettivi contrattuali in relazione a
prestazioni rese da una ditta incaricata dalla Direzione
Generale per la gestione e la manutenzione degli edifici
giudiziari di Napoli per la realizzazione di un sistema di
consultazione al pubblico per l’accesso agli uffici ed ai
servizi del nuovo palazzo di giustizia di Napoli.
(...continua). |
APPALTI:
Soggetti tenuti al rilascio della documentazione
antimafia in caso di partecipazioni societarie indirette
(parere
26.11.2015-536024, AL 35225/15 -
Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 1/2016).
---------------
1. Quesito
Si fa riferimento alla nota in oggetto, con cui codesta
Amministrazione ha chiesto un parere della Scrivente in
merito all’ambito di operatività, sul piano della sfera
soggettiva, della prescrizione contenuta nell’art. 85, comma
2, lett. c), D.Lgs. n. 159/2011 la quale, in materia di
soggetti tenuti al rilascio della documentazione antimafia,
fa riferimento al «socio di maggioranza in caso di società
con un numero di soci pari o inferiore a quattro».
(...continua). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Sul principio di onnicomprensività del trattamento
economico dirigenziale di cui all’art. 24, D.lgs 165/2001
(parere
18.11.2015-521594, AL 34140/15 -
Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 1/2016).
---------------
Con la nota che si riscontra, codesto Dipartimento chiede
di conoscere l'avviso dello scrivente in ordine al seguente
quesito: "Se il compenso liquidato dal Tar/Consiglio di
Stato ad un funzionario ovvero dirigente
dell'amministrazione nella qualità di Commissario ad acta,
nominato ai sensi dell'art. 114 CPA, nel giudizio di
ottemperanza, sia o meno soggetto al principio di
onnicomprensività del trattamento economico di cui all'art.
24, D.lgs 165/2001".
Al riguardo codesto Dipartimento ha evidenziato due diversi
orientamenti espressi rispettivamente dal Dipartimento della
Funzione pubblica e dalla Ragioneria generale dello Stato.
(...continua). |
NEWS |
EDILIZIA PRIVATA:
Il «peso» delle varianti definisce il titolo
edilizio. Le modifiche ai progetti si dividono in tre
categorie.
Urbanistica. Affidato alla giurisprudenza il compito di
classificare la tipologia di intervento.
Durante lo
svolgimento dei lavori, può accadere di voler apportare dei
cambiamenti all’originaria idea costruttiva. La normativa
edilizia ammette la possibilità di modificare il progetto
approvato presentando delle varianti, ma non le definisce in
maniera compiuta.
A questo difetto ha supplito da tempo la giurisprudenza,
individuando le varianti ordinarie, leggere ed essenziali.
Le varianti ordinarie
Il Consiglio di Stato (1572/2007) ha chiarito che le
modifiche (qualitative o quantitative) possono definirsi
varianti in senso proprio solo quando il progetto già
approvato non viene radicalmente mutato. E gli elementi da
prendere in considerazione, per valutare la necessità di un
nuovo permesso di costruire, riguardano la superficie
coperta, il perimetro, la volumetria, le distanze dalle
proprietà limitrofe, nonché le caratteristiche funzionali e
strutturali, interne ed esterne, del fabbricato.
Nella variante ordinaria il progetto resta collegato a
quello originario: un rapporto di complementarità e
accessorietà che giustifica anche il peculiare regime
giuridico. Il nuovo titolo viene infatti concesso con lo
stesso procedimento previsto per il rilascio del permesso di
costruire, pur restando salvi tutti i diritti quesiti. Ciò
rileva soprattutto nel caso di «una contrastante
normativa sopravvenuta, che, se non fosse ravvisata
l’anzidetta situazione di continuità, potrebbe rendere
irrealizzabile l’opera» (Tar Campania-Napoli, 1154/2015;
Tar Calabria-Catanzaro, 150/2016).
Le varianti leggere
Il Dpr 380/2001 (articolo 22, comma 2, come modificato dal
Dl 69/2013) prevede che possa essere presentata una Scia (ex
Dia) per le cosiddette varianti leggere o minori, cioè
quelle applicate a permessi di costruire che non incidono
sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, non modificano
la destinazione d’uso e la categoria edilizia, non alterano
la sagoma dell’edificio se questo è sottoposto a vincolo
paesaggistico o storico-artistico ai sensi del Dlgs 42/2004,
non violano le prescrizioni del permesso di costruire
(Cassazione, 49290/2012).
In questo caso la Scia costituisce «parte integrante del
procedimento relativo al permesso di costruzione
dell’intervento principale» e può essere presentata
prima della dichiarazione di fine lavori, regolarizzando le
opere in difformità.
Il Dl 133/2014 (“sblocca Italia”), aggiungendo il
comma 2-bis all’articolo 22 del Dpr 380/2001, ha ampliato la
casistica e ammesso nella categoria delle “modifiche
leggere” le varianti a permessi di costruire che non
configurino una variazione essenziale, a condizione che
siano conformi alle prescrizioni urbanistico-edilizie e
realizzate dopo aver acquisito gli eventuali atti di assenso
prescritti dalla normativa sui vincoli paesaggistici,
idrogeologici, ambientali, di tutela del patrimonio storico,
artistico e archeologico, e dalle altre normative di
settore.
Le varianti essenziali
Quella cosiddetta essenziale, in realtà, non può
considerarsi una vera “variante”, perché l’intervento
edilizio viene radicalmente mutato sotto l’aspetto
qualitativo e quantitativo, tanto da perdere collegamento
con l’originario. Ne consegue che «deve riconoscersi il
carattere di nuovo permesso di costruire ad un provvedimento
che, nonostante la qualificazione formale di variante,
autorizzi la realizzazione di un manufatto completamente
diverso da quello originario» (Cassazione, 24236/2010).
Le varianti essenziali necessitano quindi del rilascio di un
nuovo e autonomo permesso di costruire, e sono soggette alle
disposizioni vigenti nel momento in cui vengono presentate.
La giurisprudenza (Consiglio di Stato, 2294/2015) ha anche
chiarito la differenza tra i concetti di “variante” e
“variazione” essenziale. Mentre il primo concerne la
modifica del titolo edilizio, il secondo riguarda
l’esecuzione difforme dell’opera rispetto al progetto
approvato con il titolo edilizio e rileva ai fini del tipo
di sanzione applicabile, tenendo presente che «la
rimozione delle difformità dal progetto deve essere
proporzionale e ragionevole» (Consiglio di Stato,
4790/2014) (articolo Il Sole 24 Ore del
30.05.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Consiglio
di Stato. Va chiarito quando si applica la Scia.
Le modifiche degli ultimi anni riguardanti la disciplina
della Scia (Dl 69/2013 e 133/2014) hanno delineato un quadro
normativo sempre più incerto e di difficile applicazione in
materia di “governo del territorio”.
Era quindi molto atteso l’intervento della riforma Madia
(legge 124/2015), il cui articolo 5 ha delegato il Governo
ad adottare «uno o più decreti legislativi per la precisa
individuazione dei procedimenti oggetto di segnalazione
certificata di inizio attività o di silenzio assenso»,
ai sensi degli articoli 19 e 20 della legge 241/1990. Le
aspettative rischiano però di restare in parte deluse.
Sullo schema di decreto approvato in via preliminare dal
Governo lo scorso 20 gennaio si è espresso il Consiglio di
Stato (parere
30.03.2016 n. 839),
che ha ricordato come -in tema di Scia- l’articolo 6 della
legge Madia abbia già riformulato l’articolo 19, comma 3,
della legge 241/1990, attribuendo alla Pa tre tipi di poteri
(inibitori, repressivi e conformativi) esercitabili entro 60
giorni dalla segnalazione, dando la preferenza a quelli
conformativi «qualora sia possibile».
Il comma 6-bis dello stesso articolo 19 applica questa
disciplina anche alla Scia edilizia, riducendo però il
termine a 30 giorni. Mentre il nuovo comma 4 stabilisce che,
dopo tale scadenza, i poteri possono essere esercitati «in
presenza delle condizioni previste dall’articolo 21-nonies»:
norma anch’essa modificata dalla riforma Madia e che
disciplina le ipotesi di annullamento d’ufficio (il quale
sarà possibile «entro un termine ragionevole, comunque
non superiore a diciotto mesi»).
Scaduto anche quest’ultimo termine, la Pa conserva il potere
di intervenire solo se i provvedimenti amministrativi sono
stati «conseguiti sulla base di false rappresentazioni
dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e
dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di
condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata
in giudicato» (si veda il Sole 24 Ore del 9 maggio).
Il Consiglio di Stato ha però rilevato il mancato esercizio
della delega sotto due profili: la ricognizione dei
procedimenti soggetti a Scia (oltre che silenzio assenso,
autorizzazione espressa e comunicazione preventiva); e la
previsione dell’obbligo di comunicare ai soggetti
interessati i «termini entro i quali l’amministrazione è
tenuta a rispondere ovvero entro i quali il silenzio
dell’amministrazione equivale ad accoglimento della
domanda».
Il Consiglio ha infine sottolineato la necessità di
risolvere fin da ora, senza rimandare la soluzione a
successivi decreti, la questione dell’applicabilità delle
nuove disposizioni generali anche ai casi disciplinati da
leggi “speciali” anteriori, come quella in tema di
Scia e silenzio assenso in materia edilizia, «in
un’ottica di chiarezza e comprensibilità del quadro
normativo» (articolo Il Sole 24 Ore del
30.05.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Elezioni,
spam ko. Stop agli invii alle e-mail interne. PRIVACY/ Il
Garante bacchetta un politico locale.
L'assessore uscente non può mandare e-mail di propaganda
elettorale alla mailing list interna dei dipendenti
comunali. La casella di posta elettronica può essere
utilizzata dall'amministratore per scopi relativi alla
carica ricoperta e tra queste finalità non rientra la
propaganda per le elezioni amministrative.
Il garante della privacy (newsletter 27.05.2016 n.
415) ha bacchettato un politico locale che ha utilizzato a
sproposito gli indirizzi di posta elettronica dell'ente
locale.
Il principio applicato dal Garante è quello della
pertinenza del trattamento rispetto alle finalità
consentite. Certamente un assessore ha la disponibilità
delle caselle di posta elettronica dei dipendenti del
comune, ma questo solo per ragioni istituzionali e non per
procurarsi il consenso per future cariche.
Lo stesso
ragionamento vale, tra l'altro, per il consigliere, che non
può utilizzare le sue prerogative di accesso ad atti e
informazioni (articolo 43 del dlgs 267/2000) se non per
compiere il suo mandato. Ma si tratta del mandato attuale e
non di quello futuro, che si spera di avere dalle elezioni.
Il Garante ha, poi, ribadito che i partiti, le liste o i
singoli candidati non possono utilizzare indirizzi di posta
elettronica senza il consenso specifico e informato dei
destinatari. Consenso che, nel caso in esame, non è stato
acquisito, come non risulta che i destinatari siano stati
informati sull'uso che veniva fatto dei loro dati.
Il Garante ha aperto un'istruttoria per l'applicazione della
sanzione amministrativa prevista per l'omessa informativa e
la mancata acquisizione del consenso
(articolo ItaliaOggi del
28.05.2016). |
VARI:
Punti esauriti, tempestività sulla patente.
Il trasgressore che finisce tutti i bonus patente deve
presentare tempestivamente una istanza alla motorizzazione
per sostenere l'esame di revisione della licenza di guida. E
per chi non si presenta alle prove scatta la sospensione
della patente oppure la revoca per i più negligenti.
Lo ha chiarito il Ministero dei trasporti con la
circolare
18.05.2016 n. 117.
Il 01.07.2016 entreranno in
vigore i nuovi programmi d'esame e i nuovi quiz per
l'effettuazione degli esami di teoria per la revisione delle
patenti di guida e della carta cqc. Per sostenere l'esame di
revisione, specifica la nota, il candidato dovrà presentare
una domanda, redatta su un modello ad hoc, con allegata una
copia del provvedimento di revisione e il certificato
medico, se richiesto.
La richiesta ha validità annuale,
specifica il ministero. Alla scadenza annuale l'interessato
dovrà presentare una nuova istanza se non ha superato
entrambe le prove. La domanda dovrà essere presentata entro
30 giorni dal ricevimento del provvedimento di revisione
della licenza di guida, prosegue la circolare. Decorsi 30
giorni dalla ricezione del provvedimento senza alcuna
richiesta formale scatterà la sospensione della patente fino
al superamento delle prove.
Lo stesso provvedimento verrà
adottato a carico del candidato assente alla prova fissata,
decorsi 30 giorni. Gli esami di revisione della licenza di
guida si svolgeranno in due giorni diversi. Prima quello
teorico, con revoca della patente in caso di mancato
superamento. La prova pratica, conseguente al superamento di
quella teorica, verrà invece disposta successivamente e in
caso di mancato superamento comporterà la revoca della
patente. In questo caso il conducente dovrà eventualmente
conseguire nuovamente tutte le categorie, fatti salvi i
criteri di propedeuticità indicati dall'art. 130 cds.
La
revisione della carta di qualificazione del conducente,
infine, scatterà all'esaurimento del punteggio dei
conducenti professionali. Se il conducente risulta titolare
sia della cqc trasporto cose che trasporto persone scatterà
il programma d'esame attinente alla materia in cui il
trasgressore ha commesso più violazioni
(articolo ItaliaOggi del
27.05.2016). |
COMPETENZE GESTIONALI:
Raffica di variazioni di bilancio. Correzioni ai
consigli. Giunte e dirigenti con più poteri. La riforma
della contabilità costringe ad adeguare le cifre iscritte
nei preventivi.
Variazioni di bilancio in aumento, con un ruolo più
rilevante di dirigenti e responsabili del servizio (non solo
finanziario).
Si può riassumere in questi termini l'impatto della nuova
disciplina contabile in ordine ai provvedimenti che in corso
di esercizio si rendono necessari per adeguare le cifre
iscritte nei preventivi.
Le nuove regole sono contenute nell'art. 175 del Tuel, che
dal 2016 è pienamente applicabile a tutti gli enti locali
(mentre fino al 2015 si estendeva solo ai c.d.
sperimentatori).
Tale norma assegna la competenza generale in materia di
variazioni ai consigli, mentre alle giunte e ai
dirigenti/responsabili spettano solo i provvedimenti loro
espressamente attribuiti.
Tuttavia, i casi in cui entrano in gioco l'organo esecutivo
o la tecno-struttura sono assai numerosi e frequenti.
In linea di principio, il consiglio interviene sulle
variazioni strategiche, che incidono sugli stanziamenti
delle tipologie di entrata e dei programmi di spesa
(aggregati che rappresentano le unità di voto del nuovo
bilancio).
Le stesse variazioni possono ancora essere adottate dalla
giunta in via d'urgenza: la relativa disciplina è rimasta
invariata, per cui continua a sussistere l'obbligo di
ratifica consiliare entro 60 giorni e comunque entro il 31
dicembre dell'anno in corso.
Sempre al consiglio spetta la variazione di assestamento
generale, che da quest'anno deve essere deliberata entro il
31 luglio, con la quale si attua la verifica di tutte le
voci di entrata e di uscita, compreso il fondo di riserva ed
il fondo di cassa, al fine di assicurare il mantenimento del
pareggio di bilancio.
Oltre ai casi di urgenza, la giunta effettua le variazioni
non discrezionali, quali l'applicazione dell'avanzo
vincolato e accantonato in esercizio provvisorio, le
variazioni compensative su risorse vincolate, le variazioni
di cassa, le variazioni per trasferimento interno di
personale, l'applicazione di avanzo accantonato per fondo
rischi e fondo oneri e del fondo di riserva. Sempre alla
giunta spetta la variazione conseguente al riaccertamento
straordinario dei residui, che per quest'anno la quasi
totalità degli enti ha già chiuso. Sono vietate le
variazioni di giunta compensative tra macroaggregati
appartenenti a titoli diversi.
Al responsabile del servizio finanziario toccano le
variazioni compensative tra capitoli (ad eccezione di quelle
relative a trasferimenti e contributi, che restano in capo
alla giunta), l'applicazione di avanzo vincolato derivante
da economie, le variazioni di esigibilità che incidono sul
fondo pluriennale vincolato, quelle sulle partite di giro,
nonché le variazioni degli stanziamenti riguardanti i
versamenti ai conti di tesoreria statale intestati all'ente
e i versamenti a depositi bancari intestati all'ente.
Peraltro, i regolamenti di contabilità (che molti enti
devono ancora adeguare) possono assegnare alcune delle
variazioni di competenza dirigenziale o alla giunta o a
responsabili diversi da quello finanziario (ad esempio, le
variazioni di esigibilità o quelle compensative).
Restano vietati gli spostamenti di dotazioni dai capitoli
riguardanti le entrate e spese conto terzi verso altre parti
del bilancio, nonché tra residui e competenza
In generale, il numero di variazioni aumenterà sia a causa
dell'incremento dei capitoli dovuto alla necessità adeguarsi
al piano dei conti integrato, sia dell'introduzione a regime
del fondo pluriennale vincolato.
L'organo di revisione deve dare il parere solo sulle
variazioni di consiglio e su quelle su cui tale adempimento
è espressamente previsto dalle norme. Tuttavia, l'art. 239
Tuel dispone che ai revisori spetta il compito di «verificare,
in sede di esame del rendiconto della gestione, dandone
conto nella propria relazione, l'esistenza dei presupposti
che hanno dato luogo alle variazioni di bilancio approvate
nel corso dell'esercizio, comprese quelle approvate nel
corso dell'esercizio provvisorio»
(articolo ItaliaOggi del
27.05.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO: Per i malati gravi diritto al part-time.
Welfare. Tutelati i lavoratori a tempo pieno affetti da
patologie oncologiche o cronico-degenerative.
Ai lavoratori
affetti da patologie oncologiche o da altre gravi patologie cronico-degenerative, per i quali residui una ridotta
capacità lavorativa anche a causa degli effetti invalidanti
di terapie salvavita, è riconosciuto il diritto alla
trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo
parziale.
Questa particolare tutela, già prevista dall’articolo 46 del
Dlgs 276/2003, è ripresa dall’articolo 8, comma 3, del Dlgs
81/2015, che ne ha espressamente previsto l’applicazione a
tutti i dipendenti del settore privato e pubblico a
condizione che la malattia parzialmente invalidante sia
accertata da una commissione medica istituita presso l'unità
sanitaria locale territorialmente competente.
L’estensione
alle patologie cronico-degenerative è, però, limitata a
quelle definite dalla stessa norma «ingravescenti» e sembra
pertanto limitata a malattie che si aggravano
progressivamente, con un non facile distinguo rispetto a
quelle malattie che, seppure croniche, non peggiorano
gradualmente nel corso del tempo.
Su richiesta del lavoratore il rapporto a tempo parziale
deve essere trasformato nuovamente in rapporto a tempo
pieno. Il ministero del Lavoro, con la circolare 40/2005, ha
precisato che la richiesta del lavoratore non può essere
negata anche se possono essere fatte valere contrastanti
esigenze aziendali e che le parti si dovranno accordare sul
nuovo orario di lavoro e sulla sua collocazione temporale,
che può essere di tipo orizzontale, verticale o misto ma che
deve prioritariamente tenere in considerazione le specifiche
esigenze del lavoratore.
Non volendo (o non potendo) ricorrere al part-time è utile
rammentare che l’Inps, con la circolare 136/2003 ha
considerato sufficiente un’unica certificazione del curante
che attesti la necessità di trattamenti ricorrenti
comportanti incapacità lavorativa e che li qualifichi l’uno
ricaduta dell’altro. Gli interessati devono inviare la
certificazione prima dell’inizio della terapia, fornendo
anche l’indicazione dei giorni previsti per l’esecuzione.
A
tale certificazione dovranno far seguito, sempre a cura
degli interessati, periodiche dichiarazioni della struttura
sanitaria riportanti il calendario delle prestazioni
effettivamente eseguite, le sole che danno titolo
all’indennità.
Non vi è, invece, alcun diritto di chiedere la
trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo
parziale se la malattia colpisce il coniuge, i figli o i
genitori del lavoratore o della lavoratrice e questi abbiano
necessità di assistenza continua.
L’articolo 8, comma 4, del Dlgs 81/2015 stabilisce, infatti, che il lavoratore dipendente
ha semplicemente la priorità nella trasformazione del
contratto, da tempo pieno a tempo parziale, in caso di
patologie oncologiche o gravi patologie cronico-degenerative
ingravescenti riguardanti il coniuge, i figli o i genitori
del lavoratore o della lavoratrice. Tale priorità può essere
fatta valere anche se il lavoratore o la lavoratrice assiste
una persona convivente con totale e permanente inabilità
lavorativa definita grave ai sensi dell’articolo 3, comma 3,
della Legge 104/1992 e che abbia, quindi, necessità di
assistenza continua.
Priorità nella trasformazione del contratto di lavoro è
riconosciuta anche al lavoratore o alla lavoratrice, con
figlio convivente di età non superiore a 13 anni o con
figlio convivente portatore di handicap ai sensi
dell’articolo 3 della Legge 104/1992 (articolo Il Sole 24 Ore del
26.05.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
La classificazione sismica degli edifici ha nuovi
canoni.
In arrivo le linee guida per la classificazione sismica
degli edifici. Sei le classi di appartenenza, dalla A alla
F, che indicheranno il rischio cui sarà sottoposto
l'edificio e il modo in cui dovrà risponde ad un evento
sismico. Tutto questo consentirà di misurare il
miglioramento antisismico generato da un intervento di messa
in sicurezza non solo dal punto di vista strutturale, ma
anche da quello economico.
Questa la risposta del sottosegretario al Ministero delle
Infrastrutture e dei Trasporti, Umberto Del Basso De Caro,
in Commissione Ambiente della Camera a un'interrogazione
(INTERROGAZIONE
A RISPOSTA IMMEDIATA IN COMMISSIONE 5/08720) posta dall'onorevole del Movimento cinque stelle, Claudia
Mannino in merito ai tempi di emanazione delle linee guida
per la classificazione sismica degli edifici.
Le linee guida
per la classificazione sismica degli edifici sono state
redatte dall'Ingegneria sismica italiana (Isi) con la
finalità di fotografare un quadro degli investimenti
necessari per la messa in sicurezza del patrimonio edilizio.
L'onorevole Claudia Mannino ha sottolineato nel corso
dell'intervento che un'inadeguata progettazione, una
scadente qualità dei materiali e delle modalità di
costruzione e una scarsa manutenzione aggravano le
conseguenze degli eventi sismici.
L'adeguamento antisismico deve quindi essere visto come una
strategia preventiva diretta a ridurre la perdite di vite
umane, i danni alle cose e gli impatti sociali, economici e
finanziari. Il rischio sismico di una singola costruzione,
ha risposto il sottosegretario Del Basso De Caro, dipende da
tre fondamentali fattori, la pericolosità del sito, la
vulnerabilità della costruzione e l'esposizione delle
attività, dei beni e delle persone presenti nella
costruzione.
Le linee guida hanno l'obiettivo di arrivare ad una
classificazione riferita al rischio sismico dipendente non
solo dalla vulnerabilità, ma anche dalla pericolosità del
sito e dall'esposizione
(articolo ItaliaOggi del
26.05.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Il Sistri imbocca la strada della semplificazione. Le linee
guida che dovranno essere seguite dal futuro gestore.
Rifiuti. Decreto in Gazzetta Ufficiale: nuove regole in
vigore a partire dall’8 giugno.
Il Sistri
(Sistema elettronico di tracciabilità dei rifiuti) si
accinge a cambiare pelle e prova a diventare un sistema
quasi normale, suscettibile di essere utilmente usato.
Infatti, è apparso sulla Gazzetta Ufficiale di ieri il nuovo
“Testo unico” Sistri che manda in soffitta il precedente
decreto ministeriale 52/2011.
Il nuovo testo si identifica
con il decreto ministeriale 30.03.2016, n. 78 e ha la
sostanza di regolamento; pertanto, entra in vigore il
prossimo 8 giugno. Il decreto può essere idealmente
suddiviso in tre sezioni:
-
la prima fa ordine e conferma sostanzialmente quanto fatto
finora, fino a nuovo ordine;
-
la seconda chiarisce una serie di importanti problematiche
emerse nel tempo;
-
la terza è la più importante poiché recepisce, finalmente,
le doglianze operative espresse per anni dalle imprese e
culminate nel documento del giugno 2014 di Confindustria.
Infatti, l'articolo 23 traccia il regime transitorio
fornendo speranze per un futuro più equo ed accessibile,
anche sotto il profilo dei costi. Lo fa vincolando il futuro
gestore in uno stretto perimetro all'interno del quale
costui dovrà agire senza possibilità alcuna di esercitare i
fantasiosi esercizi di stile ai quali le imprese erano state
tristemente abituate. Infatti, le procedure di affidamento
del Sistri “assicurano”:
-
razionalizzazione e semplificazione del sistema, con
l'abbandono dei dispositivi Usb per i trasportatori e delle
black box e l'individuazione di strumenti idonei per la
tracciabilità dei rifiuti;
-
tenuta in formato elettronico dei registri di carico e
scarico e dei formulari con compilazione in modalità
off-line e trasmissione asincrona dei dati, nonché la
generazione automatica del Mud (Modello unico di
dichiarazione ambientale);
-
interazione e coordinamento con banche dati in uso alla P.a.
garantendo, per quanto possibile, l'acquisizione automatica
delle informazioni disponibili;
-
garanzia di interoperabilità con i sistemi gestionali in uso
a imprese e associazioni di categoria e specifici sistemi
per le imprese che non hanno sistemi gestionali;
-
sostenibilità dei costi e la messa a disposizione di adeguati
strumenti di assistenza e formazione per le imprese.
Il decreto conferma integralmente il Sistri per i rifiuti
pericolosi, fa ordine sui soggetti obbligati all'iscrizione
e conferma i contributi precedenti ma dispone che con futuro
decreto saranno modificati (anche per chi aderisce al Sistri
volontariamente). Inoltre, detta minuziose procedure
operative di accesso e gestione che ricalcano buona parte di
quanto finora esistente ma detta anche disposizioni
specifiche che chiariscono una serie di dubbi intervenuti
nel tempo. Rimette ad altri futuri decreti le procedure
operative necessarie per l'accesso al Sistri l'inserimento e
la trasmissione dei dati, nonché quelle da applicare nei
casi in cui si richiedano disposizioni differenziate o
specifiche.
Il decreto dispone che “la società concessionaria del
servizio di gestione del Sistri predispone ed aggiorna la
modulistica descrittiva, i manuali e le guide sintetiche a
supporto degli operatori e ne cura la pubblicazione sul
portale informativo Sistri (www.sistri.it)”. Tuttavia, a
differenza del pregresso, tale futuro gestore non avrà mano
libera; infatti, sarà necessario il “previo visto di
approvazione del Ministero dell'ambiente” (articolo Il Sole 24 Ore del
25.05.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Sistri snellito e con meno oneri per gli
operatori. Il dm ambiente in g.u.,
ma si dovranno attendere i decreti attuativi.
Snellimento della tempistica per la comunicazione telematica
dei dati, riduzione dei contributi per le imprese che pur
non avendone l'obbligo aderiscono volontariamente al Sistri
e riduzione degli oneri di dotazione informatica per i
trasportatori di rifiuti.
Queste le principali novità del decreto Minambiente 30.03.2016, n. 78, pubblicato sulla G.U. n. 120 di ieri e in
vigore dall'8 giugno prossimo, recante «disposizioni
relative al funzionamento e ottimizzazione del sistema di
tracciabilità dei rifiuti in attuazione dell'articolo
188-bis, comma 4-bis, del decreto legislativo 03.04.2006,
n. 152».
Il provvedimento, che sostituisce il cosiddetto
«Testo unico» Sistri (dm 52/2011), presenta molte
innovazioni che non saranno però immediatamente esecutive,
ma agganciate all'adozione di ulteriori decreti ministeriali
e alla individuazione del nuovo gestore del servizio di
tracciamento telematico dei rifiuti (si veda ItaliaOggi del
14 maggio e ItaliaOggi Sette del 16 maggio scorso).
Circa i
soggetti obbligati all'iscrizione, a differenza dell'uscente
«T.u. Sistri», il nuovo decreto non ne riprodurrà il novero,
ma si limiterà a effettuare un secco rinvio ai soggetti
individuati dall'articolo 188-ter del dlgs 152/2006
(confermando dunque anche la validità delle deroghe sancite
con dm 24/04/2014 per alcune imprese).
Utile precisazione
recata dal dm 78 è quella relativa a imprese ed enti che
provvedono a raccolta e trasporto dei propri rifiuti
(iscritti nella categoria 2-bis dell'Albo gestori
ambientali) laddove appare essere chiarito che l'obbligo di
adesione al Sistri è unicamente quello discendente dalla
loro posizione di produttori di rifiuti. Il dm ripropone
termini, modalità ed entità del contributo dovuto all'atto
dell'iscrizione e poi con cadenza annuale.
Tuttavia, con
ulteriore dm Minambiente se ne prevede una riduzione per i
soggetti che, pur non essendo obbligati, aderiscono
volontariamente al Sistri. Fino all'adozione degli ulteriori
regolamenti di dettaglio, il dm impone dalla data della sua
entrata in vigore, per quanto da esso non direttamente
disciplinato, di continuare a fare riferimento alle
procedure indicate nei manuali e nelle linee guida
disponibili sul sito sistri.it.
La vera e propria semplificazione del sistema con la
riduzione, come sancito a livello programmatico dallo stesso
decreto, degli oneri anche informatici a carico degli
operatori (tra cui la compilazione off-line delle schede, la
trasmissione asincrona dei dati, la garanzia di
interoperatività con i software di terze parti) arriverà
dunque solo in un secondo momento
(articolo ItaliaOggi del
25.05.2016). |
VARI:
Non paghi le rate? Perdi casa. In caso di
inadempimento il bene passa alla banca.
In Gazzetta il decreto 72/2016 sui contratti di
mutuo secondo il patto marciano.
Al via dal 01.07.2016 i contratti di mutui con il «patto
marciano»: se non si pagano le rate si può dare la casa. Ma
affinché la disposizione entri pienamente in vigore
bisognerà attendere i provvedimenti attuativi, per cui
l'operatività scatterà plausibilmente solo dal prossimo
anno.
È l'effetto della pubblicazione, sulla Gazzetta Ufficiale n.
117 del 20.05.2016, del decreto legislativo n. 72/2016,
che riforma la disciplina dei contratti di credito ai
consumatori relativi a immobili residenziali.
Mutui ipotecari. La riforma interviene su più punti, sia
nella fase precontrattuale sia nella fase critica
dell'inadempimento. La parte più innovativa è una clausola
con la quale l'istituto di credito e il consumatore possono
pattuire una speciale modalità di definizione della pendenza
in caso di mancato pagamento delle rate da parte del
cliente.
Il debitore che non può restituire le somme dovute
può liberarsi trasferendo il bene alla banca. Somiglia a un
patto commissorio (articolo 2744 del codice civile), ma se
ne distingue per la distribuzione del corrispettivo e per
l'effetto di esdebitazione. Quindi il contratto non può
prevedere che la casa ipotecata passi in proprietà della
banca se il debitore è inadempiente. In particolare il
consumatore e la banca pattuiscono che al momento
dell'inadempimento, il trasferimento dell'immobile o il
ricavato dalla vendita comporta l'estinzione dell'intero
debito, anche se il valore del bene o il prezzo incassato è
inferiore al valore del debito residuo. Se, invece, capita
che il valore o il prezzo ricavato sono più alti del debito,
il debitore ha diritto all'eccedenza.
La norma prevede un
obbligo di correttezza a carico della banca, che deve
cercare di spuntare il miglior prezzo possibile. Inoltre la
banca non può subordinare la concessione del mutuo alla
sottoscrizione della clausola, e il consumatore ha diritto
all'assistenza gratuita di un consulente per valutare la
convenienza. Quest'ultima disposizione non brilla per
chiarezza, perché non si comprende come attivare questo
intervento di assistenza, se sia gratuito o se sia a
pagamento e a carico di chi. Il presupposto che rende
operativo il patto marciano è l'inadempimento del
consumatore.
La nozione di inadempimento non è lasciata alla
determinazione contrattuale, ma è fissata dalla legge. Il
decreto legislativo 72/2016 fissa una soglia e precisa che
l'inadempimento si verifica in caso di mancato pagamento di
18 rate mensili. Deve trattarsi di mancati pagamenti e non
di semplici ritardi. Anche per la vendita il procedimento
prevede garanzie a favore del debitore: il valore del bene
deve essere stimato da un perito imparziale, nominato, se
non c'è accordo delle parti, dal presidente del tribunale.
La clausola in questione può essere pattuita in sede di
conclusione del contratto, mentre non può essere
sottoscritta in caso di surrogazione del mutuo. Il
meccanismo non è retroattivo. Lo spiegano le disposizioni
transitorie. La clausola non si applica alla rinegoziazione
dei contatto di mutuo sottoscritto anteriormente all'entrata
in vigore del decreto in commento.
Inoltre per i nuovi
contratti la decorrenza è differita al decorso di 60 giorni
dalla entrata in vigore di disposizioni di attuazione (ci
vuole un decreto ministeriale, sentita la Banca d'Italia) da
adottarsi entro 180 giorni dall'entrata in vigore del
decreto legislativo. Nel caso in cui la banca non faccia
ricorso alla clausola e chieda le vendita all'asta secondo
il codice di procedura civile, se avanza un debito residuo,
il debitore godrà di una moratoria di sei mesi dal termine
della procedura esecutiva.
Mutui in valuta. Il decreto legislativo 72/2016 prevede il
diritto del consumatore a convertire il mutuo in valuta o
nella valuta del suo reddito o del suo paese di residenza.
Se nel corso del rapporto il debito residuo varia di oltre
un quinto rispetto a quello che risulterebbe applicando il
tasso di cambio tra la valuta del mutuo e l'euro, la banca
lo deve segnalare al debitore. Questo per consentire al
consumatore di prendere l'eventuale decisione di convertire
la valuta del finanziamenti. La norma si applica a partire
dal 01.07.2016 e per i contratti sottoscritti
successivamente a tale data.
Stima dell'immobile. Il decreto 72/2016 formula criteri
generali per la stima del bene immobile da finanziare,
demandando alla Banca d'Italia i dettagli attuativi. La
norma si applicherà dal 01.11.2016 e le disposizioni
di attuazione dovranno arrivare entro il 30.09.2016
(articolo ItaliaOggi del
24.05.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Uffici pubblici, la lunga marcia della
trasparenza. Dal
diritto a conoscere i documenti di interesse al nuovo «Foia»
che apre tutti i cassetti della burocrazia.
Trasparenza atto
terzo. Il primo si è aperto alla fine del 1990, quando è
arrivata la legge 241 sull’accesso agli atti amministrativi.
Il secondo ha compiuto tre anni di vita giusto lo scorso 20
aprile: si tratta del decreto 33 del 2013, ribattezzato
anti-corruzione. L’ultimo arrivato è il Foia (il Freedom
of information act), che prende le mosse dalle norme del
2013 per introdurre anche in Italia ciò che in Gran Bretagna
esiste dal Duemila, ovvero la possibilità per il cittadino
di chiedere alla pubblica amministrazione tutti gli atti che
quest’ultima possiede.
Un cammino lungo 26 anni, dunque, contrassegnato da
pervicaci resistenze della burocrazia a mettersi in mostra.
Il diritto di accesso del ’90 era (ed è) limitato, nel senso
che il cittadino deve dimostrare di avere un interesse
rispetto ai documenti che chiede alla Pa. Per esempio, posso
vedere gli atti di un concorso pubblico se vi ho
partecipato. Questi vincoli sono stati amplificati dalle
prese di posizione degli uffici, maldisposti ad aprire i
cassetti, che dal ’96 in poi hanno anche utilizzato come
sponda le esigenze della privacy.
«Questi dati non possono
essere forniti perché c’è la tutela dei dati personali», è
stata spesso la risposta dietro cui la Pa si è trincerata.
Sono state le sentenze dei Tar e del Consiglio di Stato a
convincere le amministrazioni a cambiare idea e convertirsi,
pian piano, alla trasparenza. E anche il Garante della
privacy ha più volte richiamato gli uffici all’ordine,
invitandoli a non utilizzare la riservatezza come alibi.
Nel 2013 il salto di qualità: la trasparenza diventa a
portata di click e si fa più penetrante. Le amministrazioni
devono pubblicare sui propri siti una lunga serie di dati:
gli stipendi dei politici,le liste d’attesa delle strutture
sanitarie, le consulenze, i dati sul personale, i bandi di
concorso, i beneficiari di sovvenzioni e sussidi e così via.
Dati di semplice consultazione, forniti in formato aperto e
a cui i cittadini devono poter accedere online senza costi.
Il monitoraggio
Come hanno reagito le amministrazioni? Di certo c’è che ogni
realtà pubblica -dal ministero al piccolo comune- ormai ha
sul proprio sito istituzionale la sezione apposita
denominata “Amministrazione trasparente”. Il problema è che
dietro quell’etichetta ipertestuale si schiude un mondo
difficile da monitorare. Ci ha provato il ministero della
Pubblica amministrazione con lo strumento della Bussola
della trasparenza, che però non è in grado di rilevare la
tipologia e la qualità dei dati inseriti online. Secondo la
Bussola, quindi sarebbero in regola con le norme sulla
trasparenza oltre l’85% delle amministrazioni.
Ma tra i “segreti” meglio custoditi delle Pa ci sono la
mappa delle società partecipate (si vedano le schede a
fianco), i dati aggregati sugli appalti (praticamente
introvabili in rete informazioni sui tempi di attuazione e
sulle varianti)e l’elenco dei controlli gravanti sulle
imprese.
All’appuntamento con la trasparenza, poi, gli enti arrivano
in ordine tecnologico sparso: qualcuno riesce a pubblicare
in formato aperto e rielaborabile, i più si affidano
all’immutabile Pdf.
La riforma
Il decreto approvato la scorsa settimana interviene anche
sugli obblighi informativi (si vedano le schede a fianco)
con due obiettivi: in alcuni casi il perimetro si allarga
(ad esempio le informazioni su redditi e patrimoni si
estendono dai politici ai dirigenti pubblici); dall’altro si
scommette su un alleggerimento degli oneri. Molti degli
obblighi di trasparenza, infatti, saranno assolti con
l’invio delle notizie ad alcune banche dati pubbliche a cui
basterà rinviare con un link. Sarà così, ad esempio, per i
rendiconti dei gruppi politici regionali e provinciali (da
spedire alla Corte dei conti), per le informazioni sui bandi
di gara, le aggiudicazioni e i costi dei lavori pubblici (ad
Anac e Infrastrutture), per quelle sulle società partecipate
(al Siquel).
Il decreto Foia non chiarisce come queste banche dati -per
ora non accessibili- restituiranno queste informazioni. E
per capirlo bisognerà aspettare un anno: questo è il lasso
di tempo concesso a tutte le amministrazioni per
riorganizzare l’invio alle banche dati.
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Ora la risposta è sempre dovuta:
l’attesa oscilla tra 30 e 60 giorni. Freedom of information
act. Si possono chiedere anche gli atti non pubblicati
online.
La grande novità
della riforma della trasparenza ha un nome d’importazione:
Foia, ovvero Freedom of information act. In altre
parole, il cittadino può avere accesso a tutti gli atti e i
documenti custoditi dalla Pa. Anche quelli non pubblicati
sui siti istituzionali degli enti.
Lo scarto rispetto alla riforma del 2013 sta proprio qui.
Tre anni fa il decreto 33 allargò di molto il perimetro
della trasparenza pubblica, ma segnò comunque un limite: il
cittadino aveva il diritto di conoscere tutta una serie di
documenti, indicati dallo stesso decreto, che le
amministrazioni avrebbero dovuto pubblicare online (si veda
anche l’articolo sopra). In caso di inadempienza, il
cittadino poteva azionare l’accesso civico, ossia chiedere
gratuitamente che gli si mettesse a disposizione il
documento che avrebbe dovuto trovare online.
Con il Foia si compie un passo ulteriore. Il cittadino,
infatti, può -sempre gratuitamente (salvo il rimborso del
costo per la riproduzione dell’atto) e senza far valere
particolari interessi- chiedere alla Pa di conoscere anche
i documenti non pubblicati online. Ovvero, quegli atti non
ricompresi nell’elenco stilato dal decreto 33. Con alcune
eccezioni: per esempio, le informazioni relative alla
sicurezza nazionale, quelle militari o quelle legate a
segreti commerciali.
La procedura è semplice: si trasmette all’amministrazione
interessata, anche via mail, una richiesta in cui si
specificano i documenti ai quali si vuole accedere.
L’amministrazione deve rispondere entro 30 giorni, a meno
che non individui dei controinteressati, cioè persone che
potrebbero avere un pregiudizio dall’accesso. In tal caso li
informa e questi devono dire entro dieci giorni se sono
favorevoli o contrari alla richiesta di accesso. Nel
frattempo, il termine di 30 giorni concesso all’ufficio si
interrompe, per riprendere a correre una volta ricevuta la
risposta dei controinteressati.
Una volta acquisito l’eventuale responso dei
controinteressati, la Pa comunica al cittadino la propria
decisione, la quale -se è contraria alla richiesta di
accesso- può essere sottoposta “in appello” al responsabile
anticorruzione dell’ente.
Se anche quest’ultimo conferma il “no”, il cittadino può
ricorrere al difensore civico e, in ultima istanza, al Tar (articolo Il Sole 24 Ore del
23.05.2016 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Personale,
vincoli ormai ingestibili per i Comuni.
La disciplina dei vincoli finanziari al reclutamento e alla
gestione del personale comunale ha raggiunto un livello di
complessità e stratificazione non più sostenibile. Lo spazio
di azione dei Comuni è reso ancora più caotico dalla
discontinuità e contraddittorietà delle interpretazioni ,
che non contribuiscono a disorientare.
Un caso emblematico è rappresentato dai recenti sviluppi
interpretativi della disciplina sul contenimento delle spese
di personale.
La materia è stata semplificata nel 2014 con due misure di
forte impatto: eliminazione del parametro del 50%
dell’incidenza della spesa di personale su quella corrente
quale presupposto per procedere a nuove assunzioni, e la
previsione di un criterio fisso (media della spesa sostenuta
nel triennio 2011-2013) da rispettare in ciascun esercizio
successivo. Bene.
La Sezione delle Autonomie della Corte dei Conti, con due
recenti deliberazioni, ha di fatto introdotto, attraverso
un’interpretazione evolutiva di una disposizione della legge
finanziaria del 2007, una lettura del principio
dell’incidenza della spesa di personale sul complesso delle
spese correnti, che di fatto preclude la possibilità di
assumere personale a tutti quegli enti che hanno registrato
dal 2013 una contrazione della spesa corrente in una
proporzione superiore a quella di personale, caratterizzata
da una maggiore rigidità strutturale. L’effetto è
indubbiamente paradossale.
Infatti, per gli enti che hanno attuato le più efficaci
politiche di contenimento della spesa corrente le
conseguenze sono drammatiche: i Comuni di minori dimensioni
demografiche sono impossibilitati a procedere al
reclutamento di figure professionali indispensabili, come il
ragioniere o il tecnico comunale, i Comuni caratterizzati da
flussi turistici non potranno procedere all’assunzione del
personale stagionale, i Comuni più grandi non potranno
garantire, neanche attraverso il ricorso a forme di lavoro
flessibile o di esternalizzazione, l’erogazione di servizi
(educativi, socio-assistenziali, eccetera) alla
cittadinanza.
La Corte dei Conti ha inoltre affermato, mutando il proprio
indirizzo, che gli incarichi dirigenziali a contratto vanno
computati nel tetto di spesa per il lavoro flessibile. Anche
in questo caso il nuovo orientamento interpretativo
determina conseguenze in corso d’anno quali l’impossibilità
di procedere ad assunzioni a tempo determinato per esigenze
temporanee o eccezionali o di attivare misure
particolarmente significative per le fasce più deboli della
popolazione quali i cantieri lavoro o i lavori di pubblica
utilità.
Mentre si parla di semplificazione, assistiamo alla
stratificazione di regole spesso inapplicabili in un
cortocircuito che non tiene conto dei processi reali e della
vita vera delle istituzioni (articolo Il Sole 24 Ore del
23.05.2016). |
APPALTI: Codice
appalti. Soccorso istruttorio con sanzione «leggera».
Gli operatori economici possono sanare mancanze e
irregolarità formali delle dichiarazioni e dei documenti
presentati per partecipare a una gara, ma se vogliono
restare in corsa nella procedura devono pagare una sanzione
al momento della regolarizzazione.
Il nuovo Codice dei contratti pubblici ridisegna la
disciplina del soccorso istruttorio, configurando un
percorso nel quale sono state recepite anche alcune
previsioni sperimentate nel quadro normativo previgente in
base alle interpretazioni dell’Anac.
In base alla nuova regolamentazione dell’istituto, contenuta
nell’articolo 83, comma 9, del Dlgs 50/2016, quando la
stazione appaltante rileva la mancanza, l’incompletezza o
l’irregolarità formale di una dichiarazione o di un
documento essenziale connesso alla domanda di partecipazione
e indispensabile per lo svolgimento della gara, consente
all’operatore economico che non ha prodotto o ha prodotto in
modo incompleto o irregolare l’elemento dichiarativo o
documentale di regolarizzarlo.
La prima rilevante novità introdotta dal nuovo Codice è
nella specificazione della possibilità di utilizzo del
soccorso istruttorio con riferimento al solo complesso di
elementi necessari per la partecipazione alla gara e, in
particolare, al documento di gara unico europeo (Dgue) il
cui utilizzo è previsto dall’articolo 85 del Dlgs 50/2016,
mentre restano esclusi dalla sanatoria gli elementi
dell’offerta tecnica ed economica.
L’amministrazione deve specificare nella richiesta formulata
al concorrente cosa manca e chi deve rendere le
dichiarazioni, assegnando un termine massimo di dieci giorni
entro il quale va presentata la dichiarazione o il documento
mancante o incompleto, oppure va sanata l’irregolarità
formale (ad esempio la mancanza della fotocopia del
documento di identità necessaria per la corretta formazione
delle dichiarazioni sostitutive relative ai requisiti di
partecipazione).
Il termine massimo è perentorio, quindi il suo mancato
rispetto determina l’esclusione dalla procedura. Il
concorrente che non ha prodotto dichiarazioni o documenti
deve pagare anche una sanzione, stabilita dalla stazione
appaltante nel bando di gara, in un range compreso tra l’uno
per mille e l’uno per cento del valore della gara. La
disposizione del Dlgs 50/2016 fissa alla sanzione un tetto
di 5mila euro, quindi in termini dieci volte inferiori a
quelli in precedenza stabiliti dal vecchio Codice dei
contratti.
La seconda novità è determinata dall’obbligo dell’operatore
economico di presentare entro lo stesso termine della
regolarizzazione il documento che prova il pagamento della
sanzione: se ciò non avviene, il concorrente è escluso dalla
gara e l’effetto è rafforzato dall’assenza di soluzioni
alternative (in passato era possibile per la stazione
appaltante escutere la sanzione dalla cauzione provvisoria,
mentre ora questa possibilità non è più prevista).
A favore degli operatori economici l’articolo 83, comma 9,
prevede tuttavia che la sanzione è dovuta solo in caso di
regolarizzazione, determinando la possibilità per i
concorrenti interessati dal soccorso istruttorio di non
effettuarla e, quindi, di porsi volontariamente fuori dalla
gara.
La disposizione del Dlgs 50/2016 prevede inoltre che il
soccorso istruttorio sia effettuato senza applicazione della
sanzione in caso di mancanza, incompletezza o irregolarità
formali di dichiarazioni o di documenti non essenziali (come
ad esempio nel caso di mancata presentazione del «Passoe») (articolo Il Sole 24 Ore del
23.05.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
La Pa mette sul piatto i dati Accesso e
riutilizzo sono liberi. Pro e contro delle misure del dlgs,
cosiddetto Foia, sulla trasparenza amministrativa.
Inizia l'era dell'open data per le pubbliche
amministrazioni.
Il decreto legislativo, approvato definitivamente dal
governo il 16.05.2016, correttivo del precedente decreto
legislativo 33/2013, rivoluziona la trasparenza
amministrativa.
Gli enti pubblici sono tenuti, infatti, a fornire dati e
documenti a chiunque e senza bisogno di motivazione.
Negli obiettivi del governo c'è la traduzione in italiano
del Foia, Freedom of information act, ma tra i
possibili risultati c'è la possibile minimizzazione del
diritto alla riservatezza.
È il nuovo accesso civico, che sale sul ring per
confrontarsi con il diritto alla riservatezza dei cittadini.
E dove c'è accesso civico c'è possibilità di riutilizzo dei
dati.
Si entra nella fase dei «dati aperti», anche se non mancano
voci critiche che richiamano a maggiore attenzione alla
privacy. Ovviamente i dati aperti sono un'esigenza
dell'economia e dell'impresa, ma l'asticella dei diritti
individuali è oggettivamente in bilico.
Ma vediamo che cosa cambia con le nuove regole.
Accessibilità totale.
Innanzi tutto cambia la filosofia di fondo. Lo scopo della
trasparenza non è più solo quello del controllo diffuso
sulle p.a. (e cioè controllare come sono spesi i soldi dei
contribuenti), ma anche, e soprattutto, di mettere a
disposizione dei privati il patrimonio conoscitivo detenuto
dagli enti pubblici.
L'immensa mole di dati acquisiti, censiti, conservati ed
elaborati diventano un patrimonio non più riservato
all'interesse pubblico.
Il decreto correttivo, modificando l'articolo 2 del decreto
33/2013, afferma che la trasparenza amministrativa va intesa
come accessibilità totale dei dati e dei documenti detenuti
dalle pubbliche amministrazioni allo scopo di tutelare i
diritti dei cittadini e promuovere la partecipazione degli
interessati all'attività amministrativa. Se la
partecipazione ai procedimenti è un'esigenza della p.a., la
tutela dei diritti dei cittadini è una prerogativa che non
riguarda necessariamente i rapporti tra cittadino ed ente
pubblico, ma implica un'attenzione all'esercizio dei diritti
sociali ed economici dei privati.
Non a caso si estende il catalogo delle informazioni che
possono essere ottenute dall'ente pubblico ed estende la
possibilità di riutilizzo.
Accesso civico.
Il nocciolo duro del decreto correttivo è l'accesso civico e
cioè l'istituto attraverso il quale si rendono disponibili
atti e informazioni.
Se prima, mediante l'accesso civico (istituito dalle norme
sulla trasparenza) si poteva solo fare un sollecito per
vedere pubblicato un atto o un documento che comunque la
p.a. aveva l'obbligo di pubblicare, ora, con il decreto
correttivo, l'accesso civico riguarda tutti i dati e
documenti detenuti, pur se con alcuni limiti.
Si badi al fatto che si possono chiedere dati e documenti.
Il doppio oggetto dell'accesso civico (dati e documenti) ha
un preciso significato.
Un dato non necessariamente è stato usato in un atto o in un
provvedimento. Se si possono chiedere anche solo i dati,
allora diventa disponibile l'informazione in sé.
Questo significa apertura dei data base dell'amministrazione
ad uso dei privati.
Il problema è se questo nuovo diritto di accesso potrà
essere utilizzato per scopi di natura imprenditoriale. A
questo proposito da un lato il decreto afferma che l'accesso
è finalizzato alla generica tutela dei cittadini e
dall'altro che non è richiesta nessuna motivazione. A questo
si deve aggiungere che sempre il decreto correttivo prevede
che non bisogna essere titolari di alcuna particolare
legittimazione attiva: chiunque può chiedere l'accesso
civico.
Sono tutti indici, questi, che abilitano a un uso legittimo,
anche economico, del patrimonio conoscitivo delle pubbliche
amministrazioni.
D'altra parte la tutela del cittadino significa anche
possibilità per il cittadino di tutelare il proprio diritto
d'impresa o al lavoro, ad esempio professionale.
Si pensi alla quantità di analisi statistiche in campo
ambientale, di governo del territorio, di rete commerciale,
di composizione della popolazione e così via.
Naturalmente questo pone un problema di protezione dei dati
personali.
Rapporto con la privacy.
Il problema della riservatezza viene risolto, almeno sulla
carta, a posteriori.
Le preoccupazioni formulate dal Garante della privacy sono
state formulate in un parere (del 3 marzo 2016 n. 92) con
molte richieste di modifiche, solo poche accolte.
Eppure la disciplina della tutela è rimasta basata
sull'attivazione del singolo. Se il singolo prenderà
l'iniziativa di opporre la sua riservatezza, ci sarà da
discutere sull'accoglibilità della richiesta di accesso
civico.
Il procedimento di questo tipo di accesso prevede, infatti,
che per dati e documenti (diversi da quelli a pubblicazione
obbligatoria), il controinteressato possa dire la sua per
tentare di tenere sotto chiave le informazioni che lo
riguardano. Ma si tratta, comunque, di una tutela a
posteriori e non di una restrizione a monte.
Nella
precedente versione del decreto 33/2013, infatti, non era
previsto un regime di conoscenza generalizzato di tutti gli
atti. E anche rispetto al testo modificato il Garante della
privacy aveva proposto un bilanciamento di interessi, nel
senso di consentire l'accesso solo in caso di dimostrazione
della prevalenza dell'interesse perseguito da chi chiede i
dati. Rimane il fatto che la tutela della privacy è affidata
all'iniziativa del singolo e alla valutazione (magari
discordante da ente a ente) delle varie p.a. destinatarie
della richiesta di accesso civico.
Un rischio, questo, solo attenuato dal fatto che il decreto
correttivo assegna all'Anac, autorità anticorruzione,
d'intesa con il Garante della privacy, il compito di
elaborare linee guida per aiutare a discernere in quali casi
la protezione dei dati personali possa sbarrare la strada
all'accesso civico.
---------------
Una disciplina per ogni diritto.
La babele delle leggi sulla trasparenza dimostra che di
trasparenza ce n'è poca.
C'è l'accesso all'interno del procedimento e quello slegato
da un procedimento determinato. C'è poi quello specifico per
le gare di appalto a favore dei concorrenti e quello in
materia ambientale.
L'avvocato, che conduce indagini difensive, ha una
particolare modalità per chiedere atti e documenti e
l'interessato avrebbe la possibilità di esercitare l'acceso
in base al codice della privacy. Se, poi, sono un
consigliere di un ente locale, posso avvalermi di una corsia
preferenziale per avere documenti e informazioni per
svolgere il mio mandato.
E tutte queste forme di accesso hanno modalità e disciplina
particolari.
Alcune forme sono riservate a soggetti con particolare
qualifica (avvocato/consigliere); alcune sono a disposizione
di tutti (accesso ambientale) o riservate solo
all'interessato, senza poter conoscere dati di terzi
(accesso privacy). Alcuni tipi di accesso hanno a oggetto
documenti preesistenti (accesso ai documenti
amministrativi), altri anche semplici informazioni (accesso
ambientale e del consigliere). Per alcune forme di accesso
il richiedente deve spiegare la motivazione della richiesta
(accesso ai documenti) e per altre no (accesso del
consigliere o accesso privacy).
Per alcuni tipi di accesso, se non si rimane soddisfatti si
dovrà ricorrere al giudice amministrativo (accesso ai
documenti, del consigliere), per altri bisogna andare al
giudice ordinario (accesso privacy, ma in alternativa a un
ricorso al Garante) e per altri le formalità di tutela sono
del tutto diverse e peculiari (accesso dell'avvocato nelle
indagini difensive).
Su tutto questo non calerà il sipario,
nemmeno con l'accesso civico nella versione rivisitata dal
decreto correttivo del dlgs 33/2013: l'articolato della
novella fa salvi gli altri tipi di accesso. Quindi chi fa
una richiesta di accesso alla p.a. potrebbe individuare la
forma più conveniente e meno burocratica (articolo ItaliaOggi Sette del
23.05.2016 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it). |
TRIBUTI:
La natura pertinenziale si fonda sul dato di
fatto.
La natura pertinenziale dell'immobile si fonda sul criterio
fattuale ossia sulla destinazione effettiva della cosa al
servizio o ornamento dell'altra.
Il principio è contenuto nella sentenza n. 146/2016
della Ctp di Rieti da cui emerge che la sola classificazione
catastale non è sufficiente a determinare la natura di
pertinenza in quanto il bene deve presentare la destinazione
al servizio od ornamento dell'abitazione principale.
In fatto il ricorrente ha impugnato l'avviso di accertamento
notificatogli dal comune che contestava il mancato pagamento
dell'Ici per l'immobile ritenuto pertinenza dell'abitazione
principale.
La definizione di pertinenza dell'abitazione
principale, è stata rivista con l'art. 13, comma 2, del dl
n. 201 del 2011 (cfr. anche dlgs n. 23/2011 istitutivo dell'Imu),
il quale stabilisce che «per pertinenze dell'abitazione
principale si intendono esclusivamente quelle classificate
nelle categorie catastali C/2, C/6 e C/7, nella misura
massima di un'unità pertinenziale per ciascuna delle
categorie catastali indicate, anche se iscritte in catasto
unitamente all'unità ad uso abitativo».
Secondo tale norma
possono intendersi quali pertinenze soltanto le unità
immobiliari accatastate nelle categorie: C/2: magazzini e
locali di deposito; cantine e soffitte se non unite
all'unità immobiliare abitativa; C/6: stalle, scuderie,
rimesse, autorimesse; C/7: tettoie (cfr. circ n. 3/DF/2012
del Mef).
La Ctp ha ritenuto che il ricorrente non ha
fornito idoneo riscontro probatorio al fine di dimostrare
l'invocata natura pertinenziale dell'immobile, non essendo
sufficiente la sola classificazione catastale, atteso che il
bene deve presentare necessariamente la destinazione al
servizio od ornamento dell'abitazione principale (cfr. art.
817 c.c.).
In tema di imposta comunale sugli immobili, la
Suprema corte ha affermato che l'art. 2 dlgs n. 504/1992,
che esclude l'autonoma tassabilità delle aree pertinenziali,
fonda l'attribuzione della qualità di pertinenza sul
criterio fattuale ossia «sulla effettiva e concreta della
cosa al servizio o ornamento dell'altra, senza che rilevi
l'intervenuto frazionamento dell'area posta al servizio di
un edificio, avente esclusivo rilievo formale (cfr. Cass. nn.
26077/2015 e 22129/2015)».
Per i motivi sopraesposti, la Ctp non ha accolto il ricorso
stabilendo, quindi, come dovuto il pagamento richiesto ai
fini Ici
(articolo ItaliaOggi Sette del
23.05.2016). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI: Nelle
gare pubbliche di appalto per la cui aggiudicazione è stato
prescelto il criterio dell'offerta economicamente più
vantaggiosa, “competenza esclusiva della commissione è
l'attività valutativa, mentre ben possono essere svolte dal
responsabile unico del procedimento quelle attività che non
implicano l'esercizio di poteri valutativi, tanto in ragione
delle previsione generale contenuta nell'art. 10, comma 2,
d.lgs. 12.04.2006 n. 163, che affida al responsabile unico
del procedimento lo svolgimento di tutti i compiti relativi
alle procedure di affidamento, non specificamente attribuiti
ad altri organi o soggetti".
----------------
Considerato che l'esercizio della discrezionalità tecnica è
concentrato sull'atto della valutazione delle offerte
tecniche, ne deriva che quel che compete inderogabilmente
alla Commissione di cui all'art. 84, d.lgs. n. 163 del 2006
è il giudizio dell'offerta tecnica, pur potendo accadere che
alla Commissione giudicatrice venga anche affidato il
compito di controllare la documentazione amministrativa,
ovvero quella di attribuire il punteggio dell'offerta
economica, ma non viceversa.
---------------
L’aver modificato il punteggio attribuito all’offerta
tecnica dopo aver conosciuto il contenuto di quella
economica contravviene al fondamentale principio che, a
tutela della trasparenza e imparzialità
dell’amministrazione, impone di tenere separate le due
componenti dell’offerta stessa.
Invero, il principio della segretezza comporta che, fino a
quando non si sia conclusa la valutazione delle offerte
tecniche, le offerte economiche devono restare segrete,
dovendo essere interdetta al seggio di gara la conoscenza
degli elementi economici e, in particolare, delle
percentuali di ribasso, proprio per evitare ogni influenza
sulla valutazione dell'offerta tecnica; il principio di
segretezza dell'offerta economica si pone infatti a presidio
dell'attuazione della regola costituzionale di imparzialità
e buon andamento dell'azione amministrativa, sub specie
della trasparenza e della par condicio tra i concorrenti,
dovendosi così necessariamente garantire la libera
valutazione dell'offerta tecnica; ed invero, la sola
possibilità di conoscere gli elementi attinenti l'offerta
economica consente di modulare il giudizio sull'offerta
tecnica sì da poterne sortire un effetto potenzialmente
premiante nei confronti di una delle offerte
complessivamente considerate e tale possibilità, anche solo
eventuale, va ad inficiare la regolarità della procedura.
---------------
La tesi non appare persuasiva.
L’art. 10, co. 2, del Codice dei contratti pubblici nel
disciplinare i poteri del RUP stabilisce che “Il
responsabile del procedimento svolge tutti i compiti
relativi alle procedure di affidamento previste dal presente
codice, ivi compresi gli affidamenti in economia, e alla
vigilanza sulla corretta esecuzione dei contratti, che non
siano specificamente attribuiti ad altri organi o soggetti”.
Per contro, l’art. 84, co. 1, del medesimo Codice stabilisce
che “Quando la scelta della migliore offerta avviene con
il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, la
valutazione è demandata ad una commissione giudicatrice, che
opera secondo le norme stabilite dal regolamento”.
Dal combinato disposto delle due norme si evince che nelle
gare pubbliche di appalto per la cui aggiudicazione è stato
prescelto il criterio dell'offerta economicamente più
vantaggiosa, “competenza esclusiva della commissione è
l'attività valutativa, mentre ben possono essere svolte dal
responsabile unico del procedimento quelle attività che non
implicano l'esercizio di poteri valutativi, tanto in ragione
delle previsione generale contenuta nell'art. 10, comma 2,
d.lgs. 12.04.2006 n. 163, che affida al responsabile unico
del procedimento lo svolgimento di tutti i compiti relativi
alle procedure di affidamento, non specificamente attribuiti
ad altri organi o soggetti” (Cons. Stato, sez. V,
21.11.2014 n. 5760; id., sez. III, 15.07.2011, n. 4331; TAR
Sardegna, sez. I, n. 196 del 2014).
Nel caso di specie, perciò, il RUP appare avere esorbitato
dalle competenze attribuitegli dalla legge dal momento che
quello contestato alla ricorrente come mancante non era né
un requisito di partecipazione, né un titolo abilitativo
richiesto per l’esecuzione del contratto, bensì un elemento
dell’offerta tecnica soggetto a valutazione della
commissione. Né vale in contrario sostenere che si trattava
semplicemente di riscontrare un dato numerico che la
commissione avrebbe omesso di apprezzare (cioè l’aver svolto
servizi per strutture museali caratterizzate dal possesso di
collezioni con oltre un milione di reperti) atteso che
l’art. 4 del capitolato richiedeva anche una valutazione “sotto
un profilo storico-scientifico”.
E dunque, considerato che l'esercizio della discrezionalità
tecnica è concentrato sull'atto della valutazione delle
offerte tecniche, ne deriva che quel che compete
inderogabilmente alla Commissione di cui all'art. 84, d.lgs.
n. 163 del 2006 è il giudizio dell'offerta tecnica, pur
potendo accadere che alla Commissione giudicatrice venga
anche affidato il compito di controllare la documentazione
amministrativa, ovvero quella di attribuire il punteggio
dell'offerta economica, ma non viceversa (TAR Trieste,
07.11.2014 n. 537).
E ciò restando impregiudicata la bontà della tesi sostenuta
dall’amministrazione in ordine all’effettiva titolarità in
capo a Le Ma.Ce. del requisito di cui trattasi.
Ma la condotta della stazione appaltante è censurabile anche
sotto un altro profilo.
Invero, l’aver modificato il punteggio attribuito
all’offerta tecnica dopo aver conosciuto il contenuto di
quella economica contravviene al fondamentale principio che,
a tutela della trasparenza e imparzialità
dell’amministrazione, impone di tenere separate le due
componenti dell’offerta stessa.
Come condivisibilmente rilevato da concorde giurisprudenza,
il principio della segretezza comporta che, fino a quando
non si sia conclusa la valutazione delle offerte tecniche,
le offerte economiche devono restare segrete, dovendo essere
interdetta al seggio di gara la conoscenza degli elementi
economici e, in particolare, delle percentuali di ribasso,
proprio per evitare ogni influenza sulla valutazione
dell'offerta tecnica; il principio di segretezza
dell'offerta economica si pone infatti a presidio
dell'attuazione della regola costituzionale di imparzialità
e buon andamento dell'azione amministrativa, sub specie
della trasparenza e della par condicio tra i concorrenti,
dovendosi così necessariamente garantire la libera
valutazione dell'offerta tecnica; ed invero, la sola
possibilità di conoscere gli elementi attinenti l'offerta
economica consente di modulare il giudizio sull'offerta
tecnica sì da poterne sortire un effetto potenzialmente
premiante nei confronti di una delle offerte
complessivamente considerate e tale possibilità, anche solo
eventuale, va ad inficiare la regolarità della procedura (ex
multis, Cons. Stato, sez. IV, 29.02.2016 n. 824; TAR
Bari, sez. I, 10.02.2016 n. 147, TAR Bologna, sez. II,
02.12.2015 n. 1057)
(TAR Toscana, Sez. I,
sentenza 08.06.2016 n. 968 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: In
tema di peculato, l’appropriazione si realizza con
l’inversione del titolo del possesso da parte del pubblico
agente, che si comporta, oggettivamente e soggettivamente
uti dominus nei confronti della cosa posseduta in ragione
dell’ufficio, che conseguentemente viene estromessa
totalmente dal patrimonio dell’avente diritto.
----------------
1. Il ricorso va accolto in ragione della diversa
qualificazione giuridica del fatto e della sopravvenuta
estinzione del reato per prescrizione.
Premesso che in tema di peculato
l'appropriazione si realizza con l'inversione del titolo del
possesso da parte del pubblico agente, che si comporta,
oggettivamente e soggettivamente uti dominus nei
confronti della cosa posseduta in ragione dell'ufficio, che
conseguentemente viene estromessa totalmente dal patrimonio
dell'avente diritto,
nel caso in esame non è ravvisabile il peculato, mancando la
definitiva perdita del bene da parte della pubblica
amministrazione, in quanto sia sul piano oggettivo che
soggettivo è emerso che l'imputato ha solo fatto un uso
indebito del fax dell'ufficio, distogliendolo
temporaneamente dalla sua destinazione originaria per fini
personali.
Nella sentenza n. 19054/2013 le Sezioni Unite hanno chiarito
che in caso di utilizzo del telefono
d'ufficio non sono oggetto di appropriazione definitiva né
il bene materiale né l'energia elettrica, necessaria ad
attivare le onde elettromagnetiche, che viene in rilievo
quale entità di consumo inscindibilmente legata al
funzionamento dell'apparecchio e, pertanto, non può
costituire l'oggetto diretto, specifico ed autonomo della
condotta dell'agente, né il costo che la pubblica
amministrazione sopporta per l'utilizzo indebito del bene,
trattandosi di una conseguenza della condotta dell'agente
infedele, il quale non ha il previo possesso delle somme
corrispondenti all'onere economico che la pubblica
amministrazione sostiene per effetto della sua condotta.
Chiarito, altresì, che nel caso in esame l'imputato
utilizzava in modo programmaticamente momentaneo il fax
dell'ufficio per scopi privati e che l'abuso del possesso
del bene della pubblica amministrazione non si è tradotto
nella stabile inversione in dominio, in quanto, dopo l'uso
arbitrario, il bene è stato restituito alla sua destinazione
pubblicistica originaria, nella fattispecie
non solo va esclusa la configurabilità del peculato
ma anche del peculato d'uso per mancanza di concreta
offensività del fatto.
Per la rilevanza penale del fatto occorre sempre che l'uso
indebito produca un apprezzabile danno al patrimonio della
p.a. o di terzi o una concreta lesione della funzionalità
dell'ufficio, non ravvisabili nella fattispecie in ragione
della minima entità del danno cagionato, neppure
quantificato.
Tuttavia, diversamente da quanto prospettato dal ricorrente,
la condotta non è penalmente irrilevante, residuando
l'abuso d'ufficio quale cornice legale nella quale
sussumerla.
Infatti, come già precisato da questa Corte,
mentre nel delitto di peculato la condotta
consiste nell'appropriazione di danaro o altra cosa mobile
altrui, di cui il responsabile abbia il possesso o la
disponibilità per ragioni del suo ufficio -onde la
violazione dei doveri di ufficio costituisce esclusivamente
la modalità della condotta, cioè dell'appropriazione-, nell'abuso
di ufficio -di carattere sussidiario- la condotta si
identifica con l'abuso funzionale, cioè con l'esercizio
delle potestà e con l'uso dei mezzi inerenti ad una funzione
pubblica per finalità differenti da quelle per le quali
l'esercizio del potere è concesso, e finalizzate, mediante
attività di rilevanza giuridica o comportamenti materiali, a
procurare un vantaggio patrimoniale per sé o per altri
ovvero ad arrecare ad altri un ingiusto danno
(Sez. 6, sentenza n. 20094 del 04/05/2011, Rv. 250071,
relativa proprio all'indebito utilizzo del fax dell'ufficio
per ottenere informazioni all'Aci su autovetture
immatricolate a Trieste al fine di favorire la moglie,
procacciatrice di affari per conto di un'agenzia di
assicurazioni).
Si è, altresì, affermato che "Integra il
delitto di abuso d'ufficio la condotta del pubblico
dipendente di indebito uso del bene che non comporti la
perdita dello stesso e la conseguente lesione patrimoniale a
danno dell'avente diritto"
(Sez. 6, n. 14978 del 13/03/2009, Rv. 243311; Sez. 6,
02.04.1992 n. 10896, Bronte, Rv. 192873; Sez. 6, 12.12.2000
n. 381, Genchi, Rv. 219086; Sez. 6, 09.04.2008 n. 31688,
Cannalire, Rv. 240692) ed è indubbio, per come accertato dai
giudici di merito, che il Ma. abbia reiteratamente
utilizzato e per un discreto arco temporale il fax
dell'ufficio per ricevere e trasmettere documenti ed atti,
consegnatigli dai clienti proprio all'interno dell'ufficio,
alla società con la quale collaborava per curare pratiche
infortunistiche, destinando l'ufficio a succursale della
stessa.
Oggettivo è,
quindi, il reiterato indebito utilizzo del
fax dell'ufficio, di norma destinato alla ricezione di
comunicazioni ed atti urgenti presso il posto di polizia
dell'ospedale pubblico, per scopi meramente privati in
consapevole violazione dei doveri di lealtà e correttezza
imposti ad un pubblico ufficiale: in sostanza, l'imputato ha
coscientemente e volontariamente realizzato le condotte
contestate, strumentalizzando ed abusando dell'ufficio e dei
mezzi a sua disposizione per procurarsi l'ingiusto vantaggio
di velocizzare pratiche infortunistiche, favorendo i clienti
ai quali evitava il disagio di recarsi presso la sede della
società e curando, parallelamente, in orario di lavoro, la
propria attività privata.
L'infondatezza del ricorso ne imporrebbe il rigetto,
tuttavia, sullo stesso prevale, in assenza di altri elementi
suscettibili di determinare un'assoluzione nel merito del
ricorrente, l'applicazione della causa sopravvenuta di
estinzione del reato ai sensi dell'art. 129, comma 1, cod.
proc. pen. in quanto il reato di cui all'art. 323 cod. pen.,
così riqualificato il fatto, è estinto per prescrizione,
essendo maturato il termine massimo di anni sette e mesi sei
dalla data di consumazione (da settembre 2007 a giugno 2008)
e non risultando rinvii. Conseguentemente, la sentenza
impugnata va annullata senza rinvio
(Corte di Cassazione, Sez. VI penale,
sentenza 30.05.2016 n. 22800). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Appello, chi perde paga. Legittimo il raddoppio
del contributo unificato. Per la Consulta non c'è disparità
di trattamento con l'art. 181 cpc.
Il raddoppio del contributo unificato in caso di
inammissibilità, improcedibilità o rigetto integrale
dell'appello, è legittimo. Non sussiste nessuna
ingiustificata disparità di trattamento tra la norma
impugnata (art. 13, comma 1-quater del dpr 115/2002, Testo
unico delle disposizioni in materia di spese di giustizia),
che sanziona con il raddoppio del contributo l'ipotesi di
improcedibilità dell'appello quando l'appellante, costituito
in giudizio, non compaia alla prima udienza e a quella
successiva ritualmente comunicata, e l'art. 181 del codice
di procedura civile che, nell'ipotesi di mancata
comparizione di nessuna delle parti alla prima e seconda
udienza, prevede la cancellazione della causa dal ruolo e
l'estinzione del processo senza però il raddoppio del
contributo.
Si tratta infatti di «fattispecie non equiparabili», perché
mettono a confronto «situazioni non omogenee».
Così ha deciso la Corte Costituzionale nella
sentenza 30.05.2016 n.
120.
La Consulta ha ritenuto non fondata la questione di
legittimità sollevata dalla Corte d'appello di Firenze sulla
norma del T.U. sulle spese di giustizia.
I giudici delle leggi hanno osservato come, nonostante
l'elemento in comune della mancata comparizione, cui si
correla sia l'improcedibilità di cui all'art. 348 cpc sia la
cancellazione della causa dal ruolo e l'estinzione del
processo ai sensi degli artt. 181 e 309 cpc, le due
fattispecie siano molto diverse.
«Il regime del raddoppio del contributo unificato»,
sottolinea la Corte, «accomuna tutti i casi di esito
negativo dell'appello, essendo previsto per le ipotesi del
rigetto integrale o della definizione in rito sfavorevole
all'appellante. In tale categoria rientra l'improcedibilità
comminata dall'art. 348, secondo comma cpc, ma non l'ipotesi
di cancellazione della causa dal ruolo ed estinzione del
processo».
In secondo luogo, prosegue la sentenza redatta dal giudice
Aldo Carosi, «la norma censurata risponde alla ratio di
scoraggiare le impugnazioni dilatorie o pretestuose. Tale
ratio non è ravvisabile nella fattispecie di cui all'art.
181 cod. proc. civ., la quale prescinde dalla unilaterale
utilizzazione impropria del gravame, ma riguarda soltanto
l'omologa condotta omissiva delle parti, con la conseguenza
che la funzione deterrente riconosciuta alla norma censurata
non avrebbe modo di esprimersi».
Infatti, la mancata comparizione di tutte le parti alla
prima udienza e a quella successiva costituisce «una tipica
manifestazione di disinteresse alla prosecuzione del
processo». Disinteresse che, nota la Consulta, «emergendo
dopo la costituzione delle parti in secondo grado, quando le
stesse hanno già disvelato le rispettive tesi difensive e
dopo l'eventuale adozione dei provvedimenti sull'esecuzione
provvisoria della sentenza impugnata, e accomunandole nella
condotta processuale, è verosimile espressione della comune
decisione di non comparire e, non di rado, di coordinamento
o accordo tra le parti stesse».
«Tali peculiarità rispetto alla fattispecie della mancata
comparizione del solo appellante alla prima udienza»,
conclude la Corte, «impediscono di considerare alla stessa
stregua la contemporanea mancata comparizione di tutte le
parti del giudizio di appello, epilogo presumibilmente
indice di una composizione stragiudiziale della
controversia»
(articolo ItaliaOggi del
31.05.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Promosso
il raddoppio del contributo unificato. Non c’è disparità tra
cancellazione e appello improcedibile. Corte costituzionale.
In caso di impugnazione dilatoria o pretestuosa.
Passa l’esame di costituzionalità il raddoppio del
contributo unificato in caso di impugnazione respinta,
inammissibile o improcedibile.
La Corte
Costituzionale, con la
sentenza 30.05.2016 n.
120,
scritta da Aldo Carosi, ha infatti giudicato in parte
inammissibili e in parte infondate le questioni sollevate
dalla Corte d’appello di Firenze.
In particolare, quest’ultima sosteneva che la norma,
applicabile anche quando l’appello è dichiarato
improcedibile sulla base dell’articolo 348, comma 2, del
Codice di procedura civile per mancata comparizione
dell’appellante alla prima udienza e a quella successiva di
cui gli è stata data comunicazione, realizzerebbe
un’ingiustificata disparità di trattamento, in violazione
dell’articolo 3 della Costituzione, rispetto all’ipotesi di
cancellazione della causa dal ruolo con conseguente
estinzione del processo (articoli 181 e 309 del Codice di
procedura).
Per la Consulta però le situazioni messe a confronto non
sono omogenee e non si possono pertanto paragonare,
nonostante il dato comune della mancata comparizione.
Anzitutto, sottolinea la sentenza , va sottolineato come il
regime del raddoppio del contributo unificato accomuna tutti
i casi di esito negativo dell’appello, essendo previsto per
le ipotesi del rigetto integrale o della definizione
sfavorevole all’appellante. In questa categoria rientra
l’improcedibilità inflitta dall’articolo 348, comma 2, ma
non l’ipotesi di cancellazione della causa dal ruolo ed
estinzione del processo.
Inoltre, come ricordato dalla Cassazione, la norma censurata
risponde all’opportunità di scoraggiare le impugnazioni
dilatorie o pretestuose. Una ratio che invece non si
può individuare nella fattispecie dell’articolo 181, che
prescinde dalla utilizzazione impropria dell’impugnazione, «ma
riguarda soltanto l’omologa condotta omissiva delle parti
–alla luce dell’orientamento assolutamente prevalente nella
giurisprudenza di legittimità, secondo cui la mancata
presenza alla prima udienza ed alla successiva
dell’appellante e dell’appellato costituito determina la
cancellazione della causa dal ruolo e l’estinzione del
processo (anziché l’improcedibilità dell’appello)– con la
conseguenza che la funzione deterrente riconosciuta alla
norma censurata non avrebbe modo di esprimersi».
Se, sempre in base alla giurisprudenza della Cassazione, poi
il raddoppio del contributo unificato è previsto per il
rimborso dei costi del vano funzionamento dell’apparato
giudiziario o dell’inutile erogazione delle limitate risorse
a sua disposizione, va sottolineato come questo dispendio di
energie processuali non caratterizza gli articoli 181 e 309.
Si tratta infatti di fattispecie nelle quali le parti
coinvolte dimostrano, spesso di comune accordo, il loro
disinteresse alla prosecuzione del giudizio (articolo Il Sole 24 Ore del
31.05.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nozione di dehor.
Si intendono per «dehor» gli spazi esterni ad un pubblico
esercizio attrezzati con arredi aventi lo scopo di
delimitarlo ed assicurare la sicurezza e l'incolumità delle
persone e come tali non possono considerarsi strutture che,
per dimensioni e caratteristiche costruttive, risultino
destinate a non contingenti esigenze di esercizio
dell'attività determinando un incremento volumetrico o,
comunque, una trasformazione del territorio.
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1. Il ricorso è infondato.
Va preliminarmente rilevato che dal provvedimento impugnato
e dal ricorso,
unici atti ai quali questa Corte ha accesso, non è dato
rilevare compiutamente
quali siano esattamente i reati oggetto di provvisoria
incolpazione, non avendo
ritenuto il Tribunale di indicarli ed avendo il ricorrente
fatto generico riferimento
all'articolo 44 del d.P.R. 380/2001, senza ulteriori
indicazioni ed agli articoli 633,
639-bis cod. pen., che menziona, invece, nella memoria.
Dal complesso di tali limitate indicazioni, dal tenore
dell'ordinanza e del
ricorso, nonché dalla descrizione delle opere riportata dal
Tribunale, si ricava che,
attraverso la realizzazione della struttura descritta in
premessa, qualificata dal
ricorrente come «dehor», destinata ad accogliere i tavoli di
un ristorante gestito
dall'indagato, questi abbia anche arbitrariamente invaso il
suolo pubblico,
occupandolo senza titolo.
Obietta tuttavia il ricorrente, come pure specificato in
premessa, che dette
opere non sarebbero soggette al preventivo rilascio del
permesso di costruire,
non determinando alcuna trasformazione urbanistica
permanente e che il reato
contravvenzionale sarebbe ormai prescritto, mentre la
mancanza di
autorizzazione amministrativa all'occupazione del suolo
pubblico non
consentirebbe di ritenere configurato il delitto, restando
confinata nell'ambito
della mera irregolarità amministrativa.
Nel formulare tali osservazioni il ricorrente, tuttavia, pur
denunciando la
violazione di legge, si limita, sostanzialmente a censure
concernenti la
motivazione del provvedimento impugnato, suffragando
peraltro le proprie
affermazioni attraverso ripetuti richiami ad atti e
documenti la cui consultazione,
come si è già detto, è preclusa al giudice di legittimità,
nonché con riferimenti a
dati fattuali che pure non possono avere ingresso in questa
sede.
2. Date tali premesse, per ciò che riguarda la
contravvenzione edilizia, va
rilevato che opere aventi consistenza e caratteristiche
costruttive quali quelle
realizzate dal ricorrente devono senz'altro ritenersi
soggette al permesso di
costruire.
Si tratta, invero, di una struttura destinata, per
dimensioni e caratteristiche
costruttive, a non contingenti esigenze di esercizio
dell'attività di ristorazione che
determina, indubbiamente, un incremento volumetrico.
La struttura, che, come chiarito nella descrizione riportata
dal Tribunale, è
costituita, oltre che da una pedana delimitata da parapetti
in ferro, anche da una chiusura laterale mediante
pannellatura modulare e da una copertura sorretta da
travatura orizzontale e verticale, ha, evidentemente,
caratteristiche di gran lunga
differenti rispetto a quelle richieste per delimitare lo
spazio esterno di un locale
ed assicurare la sicurezza e l'incolumità delle persone,
costituendo, in buona
sostanza, non un dehor, come lo definisce il ricorrente e,
cioè, uno spazio esterno
ad un pubblico esercizio attrezzato con arredi, bensì una
nuova volumetria
suscettibile di autonoma utilizzazione.
Un intervento di tale consistenza non potrebbe neppure
definirsi precario,
atteso che, secondo quanto ripetutamente stabilito dalla
giurisprudenza di
questa Corte, la precarietà non può essere desunta dalla
temporaneità della
destinazione soggettivamente data all'opera
dall'utilizzatore, sono irrilevanti le
caratteristiche costruttive i materiali impiegati e
l'agevole rimovibilità, l'opera
deve avere una intrinseca destinazione materiale ad un uso
realmente precario
per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo e deve,
inoltre, essere destinata
ad una sollecita eliminazione alla cessazione dell'uso (v.
da ultimo, Sez. 3, n. 966
del 26/11/2014 (dep. 2015), Manfredini, Rv. 261636).
4. Va inoltre osservato, per ciò che concerne la dedotta
prescrizione, che la
stessa non può essere in alcun modo rilevata in questa sede
in assenza di
obiettivi elementi di valutazione circa la data di
ultimazione dell'intervento e che,
in ogni caso, anche l'eventuale estinzione del reato
contravvenzionale non
sottrarrebbe rilievo al fatto che la misura reale resterebbe
applicabile per il
residuo delitto.
5. Riguardo a tale ulteriore contestazione, deve
considerarsi che, proprio con
la decisione richiamata dal ricorrente (Sez. 2, n. 31811 del
08/05/2012, Sardo e
altro, Rv. 254330) si è precisato che il delitto in
questione si configura attraverso
la turbativa del possesso che realizzi un apprezzabile
depauperamento delle
facoltà di godimento del terreno o dell'edificio da parte
del titolare dello "ius
excludendi", secondo quella che è la destinazione
economico-sociale del bene o
quella specifica ad essa impressa dal "dominus" e che esso
non si pone in
rapporto di specialità con l'illecito amministrativo
previsto dall'art. 20 del d.lgs.
30.04.1992 n. 285 (occupazione della sede stradale),
essendo diversa
l'obbiettività giuridica delle due norme, la prima in quanto
posta a tutela del
patrimonio, l'altra della sicurezza della circolazione
stradale (tale ultimo principio
è stato ribadito da Sez. 2, n. 17892 del 15/04/2015, Ganci, Rv. 263766).
Inoltre, quanto all'elemento soggettivo, nella medesima
pronuncia si è
affermato che la coscienza e volontà di invadere
arbitrariamente terreni od edifici
altrui, pubblici o privati, alternativamente "al fine di
occuparli" oppure "al fine di trarne altrimenti profitto",
deve ricomprendere anche la coscienza e volontà di
porre in essere una turbativa del possesso che realizzi un
apprezzabile
depauperamento delle facoltà di godimento del bene da parte
del suo titolare,
per una delle indicate finalità soggettive.
Nel caso di specie, rileva il Tribunale che l'immobile
realizzato occupa una
superficie della carreggiata stradale destinata alla sosta,
circostanza, questa che
rende evidente la piena consapevolezza della illegittimità
dell'invasione ed il fine
specifico di utilizzare a proprio vantaggio il suolo
pubblico avente diversa
destinazione (tratto da www.lexambiente -
Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 26.05.2016 n. 21988). |
APPALTI:
Durc nelle gare, l'accertamento della regolarità rientra
nella giurisdizione del giudice amministrativo.
Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato: l’ambito di
applicazione dell’art. 31 d.l. n. 69 del 2013 è limitato ai
rapporti fra ente previdenziale ed operatore privato
richiedente il rilascio del Durc.
“Rientra nella giurisdizione del giudice
amministrativo, adito per la definizione di una controversia
avente ad oggetto l’affidamento di pubblici lavori, servizi
e forniture, l’accertamento inerente alla regolarità del
documento unico di regolarità contributiva, quale atto
interno della fase procedimentale di verifica dei requisiti
di ammissione dichiarati dal partecipante ad una gara. Tale
accertamento viene effettuato, nei limiti del giudizio
relativo all’affidamento del contratto pubblico, in via
incidentale, cioè con accertamento privo di efficacia di
giudicato nel rapporto previdenziale”.
Questo il principio di diritto affermato dall'Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato nella
sentenza 25.05.2016 n. 10, in risposta alla prima
delle due questioni sollevate dalla Quinta Sezione del
Consiglio di Stato con l'ordinanza 21.10.2015 n. 4799.
Il secondo quesito proposto dalla Sezione rimettente
concerne invece la corretta interpretazione del requisito
della definitività dell’accertamento delle violazioni in
materia di contributi previdenziali ed assistenziali,
previsto dall’art. 38, comma 1, d.lgs. n. 163 del 2006, come
causa di esclusione dalle procedure di affidamento delle
concessioni e degli appalti pubblici di lavori, servizi e
forniture.
In proposito, l'Adunanza Plenaria ricorda in via preliminare
che “in seguito all’entrata in vigore dell’art. 31, comma
8, d.l. n. 69 del 2013 (che riproduce sostanzialmente, la
procedura già prevista dall’art. 7 D.M. 24.10.2007) è stata
introdotta una procedura di flesibilizzazione (c.d.
“preavviso di d.u.r.c. negativo”) che consente all’impresa
richiedente il rilascio della certificazione contributiva,
di sanare la propria posizione, prima della definitiva
certificazione negativa: in virtù di tale procedura, l’ente
previdenziale, qualora riscontri delle irregolarità, deve
invitare l’operatore richiedente a sanare la propria
posizione entro il termine di quindici giorni. Soltanto
qualora l’operatore non effettui la regolarizzazione della
propria posizione, entro il termine anzidetto, l’ente
previdenziale potrà adottare un d.u.r.c. negativo.
L’introduzione, o meglio la “legificazione” del preavviso di
d.u.r.c. negativo, ha posto il problema di individuare
esattamente il momento a partire dal quale la violazione
della legislazione in materia di contributi previdenziali ed
assistenziali, possa ritenersi definitiva, ai fini
dell’applicazione dell’art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006”.
Secondo l'Adunanza Plenaria “il secondo quesito
sottoposto dalla Sezione rimettente deve essere risolto, in
conformità al principio di diritto espresso nelle sentenze
di questa Adunanza Plenaria nn. 5 e 6 del 29.02.2016, nel
senso di ritenere l’ambito di applicazione dell’art. 31 d.l.
n. 69 del 2013 limitato ai rapporti fra ente previdenziale
ed operatore privato richiedente il rilascio del d.u.r.c..
Di conseguenza, va escluso che detta disposizione abbia
determinato una implicita modifica all’art. 38 d.lgs. n. 163
del 2006” (commento tratto da www.casaeclima.com).
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MASSIMA
Le problematiche sorgono in virtù dell’apparente
inconciliabilità fra la natura del d.u.r.c. ed il criterio
di riparto della giurisdizione fra giudice amministrativo ed
ordinario, che si basa sul criterio della causa petendi
ed, in definitiva, sulla situazione giuridica fatta valere.
Le criticità si paleserebbero nel corso dei giudizi aventi
ad oggetto procedure di affidamento di contratti pubblici
ed, in particolare, con riguardo all’accertamento della
regolarità del d.u.r.c..
Come è noto, ai sensi dell’art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006,
“Sono esclusi dalla partecipazione alle procedure di
affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori,
forniture e servizi, né possono essere affidatari di
subappalti, e non possono stipulare i relativi contratti i
soggetti: [...] i) che hanno commesso violazioni gravi,
definitivamente accertate, alle norme in materia di
contributi previdenziali e assistenziali, secondo la
legislazione italiana o dello Stato in cui sono stabiliti”.
Nel caso in cui sorgano delle controversie inerenti ad un
riscontro negativo in tema di regolarità contributiva, come
risultante dal d.u.r.c., si pone la problematica del riparto
di giurisdizione in quanto, per un verso, la certificazione
prodotta dall’ente previdenziale assume il carattere di
dichiarazioni di scienza, assistita da pubblica fede ai
sensi dell’art. 2700 c.c. e facente prova fino a querela di
falso; per altro verso, tale accertamento si inserisce
nell’ambito di una procedura di evidenza pubblica, rispetto
alla quale sussiste, ai sensi dell’art. 133 c.p.a., la
giurisdizione esclusiva del Giudice Amministrativo.
Ad avviso di una parte della giurisprudenza, le
contestazioni in merito agli errori contenuti nel d.u.r.c.
non potrebbero essere esaminate dal giudice amministrativo,
sia perché incidono su situazioni di diritto soggettivo, sia
perché disvelano un sottostante rapporto obbligatorio, di
tipo non pubblicistico.
Il Collegio ritiene, tuttavia, di dover risolvere la
questione nel senso di devolvere alla cognizione del giudice
amministrativo, adito per la definizione di una controversia
avente ad oggetto l’aggiudicazione di un appalto pubblico,
l’accertamento circa la regolarità del d.u.r.c., quale atto
interno della fase procedimentale di verifica dei requisiti
di ammissione dichiarati dal partecipante ad una gara.
Nelle controversie in materia di contratti pubblici, in
effetti, il d.u.r.c. viene in rilievo non in via principale,
ma in qualità di presupposto di legittimità di un
provvedimento amministrativo adottato dalla stazione
appaltante.
Al riguardo, il Collegio evidenzia che non è revocabile in
dubbio la natura di dichiarazione di scienza attribuibile al
d.u.r.c., che si colloca fra gli atti di certificazione o di
attestazione facenti prova fino a querela di falso. Questo
elemento non risulta, tuttavia, ostativo all’esame, da parte
del giudice amministrativo, della regolarità delle
risultanze della documentazione prodotta dall’ente
previdenziale in un giudizio avente ad oggetto l’affidamento
di un contratto pubblico di lavori, servizi o forniture.
A ben vedere, l’operatore privato può impugnare le
determinazioni cui è giunta la stazione appaltante,
all’esito dell’accertamento sulla regolarità contributiva,
sollevando profili di eccesso di potere per erroneità dei
presupposti, qualora contesti le determinazioni derivanti
dall’esito dell’attività valutativa. Questa conclusione,
affermata da una recente giurisprudenza di questo Consiglio
di Stato (sentenza, Sez. V, 16.02.2015, n. 781), è
giustificata dalla possibilità, per il giudice
amministrativo, di compiere un accertamento puramente
incidentale, ai sensi dell’art. 8 c.p.a., sulla regolarità
del rapporto previdenziale: ciò implica che le statuizioni,
adottate sul punto, hanno efficacia esclusivamente in
relazione alla controversia concernente gli atti di gara e
non esplicano i loro effetti nei rapporti fra l’ente
previdenziale e l’operatore coinvolto.
L’ambito della cognizione del Giudice Amministrativo, in
effetti, concerne l’attività provvedimentale successiva e
consequenziale alla produzione del d.u.r.c. da parte
dell’ente previdenziale: l’operatore privato, nel giudizio
instaurato dinanzi all’autorità giudiziaria amministrativa,
non censura direttamente l’erroneità del contenuto del
d.u.r.c., ma le statuizioni successive della stazione
appaltante, derivanti dalla supposta erroneità del d.u.r.c..
Per tale ragione ed in un’ottica di effettività della
tutela, risulta doverosa la concentrazione della verifica
circa la regolarità della documentazione contributiva,
ancorché effettuata in via incidentale, in capo ad un’unica
autorità giudiziaria: il diritto di difesa verrebbe, in
effetti, leso se si costringesse il privato a contestare,
dinanzi al giudice ordinario, la regolarità del d.u.r.c. e,
successivamente, dopo aver ottenuto l’accertamento
dell’errore compiuto dall’ente previdenziale, la
illegittimità delle determinazioni della stazione appaltante
dinanzi al giudice amministrativo. Un iter processuale di
tal genere risulterebbe eccessivamente gravoso per il
privato ed incompatibile con la celerità che il legislatore
ha imposto per il rito degli appalti nel c.p.a.: l’attesa di
una decisione sulla regolarità della posizione
previdenziale, non permetterebbe di impugnare entro i
termini di cui agli artt. 120 e ss. c.p.a., i provvedimenti
adottati dalla stazione appaltante in relazione alla
procedura di evidenza pubblica di riferimento.
Ciò non impedisce all’operatore privato di impugnare
autonomamente il d.u.r.c. con gli ordinari strumenti
predisposti dall’ordinamento: in tal caso, tuttavia, ci si
troverebbe al di fuori della cognizione del Giudice
Amministrativo, per il dirimente motivo che una tale
controversia concernerebbe il rapporto obbligatorio che lega
l’operatore privato all’ente previdenziale e non le
decisioni della stazione appaltante.
Come è risaputo, con riferimento all’affidamento di lavori,
servizi o forniture, il giudice amministrativo è titolare di
giurisdizione esclusiva (art. 244, primo comma, d.lgs.
163/2006, già art. 6, primo comma, della l. 2005/2000) e può
pertanto compiere, a prescindere dalla consistenza della
corrispondente posizione soggettiva, ogni accertamento che
gli sia domandato dalla parte per verificare il rispetto dei
principi comunitari in materia di concorrenza (tra i quali
la regolarità contributiva delle imprese partecipanti).
Sostenere, in tale contesto, che pur dovendo stabilire della
legittimità degli appalti pubblici (e quindi della
conformità di questi anche alle regole di derivazione
comunitaria), il giudice amministrativo, ancorché domandato
dalla parte, non possa spingersi ad accertare la sussistenza
o meno di un requisito di partecipazione sol perché questo è
attestato dal provvedimento di un’amministrazione (come
avviene per il d.u.r.c.), significherebbe limitare
irragionevolmente l’ambito della tutela accordata
dall’ordinamento anche in violazione dei principi comunitari
di efficacia e rapidità dei mezzi di ricorso.
Allorché sia a ciò chiamato dalla parte nell’ambito di una
procedura pubblica volta all’affidamento di lavori, servizi
o forniture, il giudice amministrativo (come del resto
potrebbe fare alla stregua dell’art. 8 del c.p.a. -già art.
8 della l. n. 1034/1971- se nella materia considerata non
gli fosse riconosciuta giurisdizione esclusiva) ben può
incidentalmente valutare la sussistenza dei requisiti di
partecipazione siano essi o meno attestati da atti della
p.a.
Conforme risulta, d’altronde, l’orientamento della Corte
regolatrice, la quale, proprio riferendosi alla
certificazione INPS e ad una procedura concorsuale soggetta
alla disciplina comunitaria, ha già avuto modo di stabilire
che appartiene alla cognizione del giudice amministrativo
“verificare la regolarità di una certificazione costituente
specifico requisito per la partecipazione alla gara" (Cass.
civ., Sez. Un., 11.12.2007, ord. 25818).
Come, dunque, chiarito anche dalla Sezione rimettente, sul
punto, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la
ordinanza n. 25818 dell’11.12.2007 (confermata dalla
successiva ordinanza n. 3169 del 09.02.2011), hanno
avuto modo di chiarire che la giurisdizione, in controversie
relative a procedure di affidamento di lavori, servizi o
forniture, appartiene al giudice amministrativo quando venga
in rilievo la certificazione attestante la regolarità
contributiva, sulla cui base l’Amministrazione abbia
successivamente adottato un provvedimento. Al riguardo, la
Suprema Corte ha chiarito che la certificazione sulla
regolarità contributiva dell’impresa partecipante ad una
gara d’appalto costituisce uno dei requisiti posti dalla
normativa in materia di appalti pubblici ai fini
dell’ammissione alla gara. Dunque, la giurisdizione
appartiene al giudice amministrativo perché è costui
competente a sindacare la decisione della stazione
appaltante inerente alla sussistenza o meno di un requisito
utile a partecipare ad una procedura di affidamento di un
contratto.
Ciò che consente di affermare la giurisdizione
amministrativa è, in definitiva, la diversità del tipo di
sindacato compiuto dal giudice amministrativo rispetto a
quello effettuato dal giudice ordinario sulla documentazione
attestante la regolarità contributiva.
In effetti, il combinato disposto degli artt. 442, comma 1, e
444, comma 3, c.p.c. devolve alla giurisdizione ordinaria le
controversie in materia di assistenza e previdenza
obbligatorie: ciò implica che il giudice ordinario sarà
chiamato ad accertare la sussistenza di un diritto del
prestatore di lavoro. Diversamente, l’art. 133 c.p.a.,
attribuisce alla giurisdizione amministrativa le
controversie aventi ad oggetto le procedure relative
all’affidamento di lavori, servizi e forniture: in
quest’ambito, dunque, il giudice deve verificare la
regolarità dei requisiti che, ad esempio, un’impresa esclusa
dalla relativa procedura ha prodotto in sede di offerta, al
fine di dichiarare illegittima detta esclusione.
In altri termini, la certificazione relativa alla regolarità
contributiva dinanzi al giudice amministrativo viene in
rilievo alla stregua di requisito di partecipazione alla
gara e, pertanto, il regime relativo alla valutazione circa
la sua regolarità non può essere differente da quello
previsto per gli altri requisiti. Ad ulteriore conferma di
questo assunto, il Collegio ritiene di poter utilmente
richiamare l’esempio delle certificazioni antimafia che la
Sezione rimettente ha descritto nell’ordinanza di
rimessione. Anche in questa ipotesi, infatti, si è in
presenza di un provvedimento che, a seconda dei casi, può
costituire l’oggetto principale di una controversia oppure
venire in rilievo come requisito propedeutico alla
partecipazione ad una procedura di gara, nel qual caso ne
viene esaminato il contenuto da parte del giudice
amministrativo.
Alla luce delle pregresse considerazioni, il quesito
sottoposto a questa Adunanza Plenaria può essere risolto
enunciando il seguente principio di diritto:
“Rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo,
adito per la definizione di una controversia avente ad
oggetto l’affidamento di pubblici lavori, servizi e
forniture, l’accertamento inerente alla regolarità del
documento unico di regolarità contributiva, quale atto
interno della fase procedimentale di verifica dei requisiti
di ammissione dichiarati dal partecipante ad una gara. Tale
accertamento viene effettuato, nei limiti del giudizio
relativo all’affidamento del contratto pubblico, in via
incidentale, cioè con accertamento privo di efficacia di
giudicato nel rapporto previdenziale”.
Risolta la prima questione relativa alla giurisdizione nei
termini anzidetti, viene in rilievo, in modo consequenziale,
il secondo quesito proposto dalla Sezione rimettente. Esso
concerne la corretta interpretazione del requisito della
definitività dell’accertamento delle violazioni in materia
di contributi previdenziali ed assistenziali, previsto
dall’art. 38, comma 1, d.lgs. n. 163 del 2006, come causa di
esclusione dalle procedure di affidamento delle concessioni
e degli appalti pubblici di lavori, servizi e forniture.
In seguito all’entrata in vigore dell’art. 31, comma 8, d.l.
n. 69 del 2013 (che riproduce sostanzialmente, la procedura
già prevista dall’art. 7 D.M. 24.10.2007) è stata
introdotta una procedura di flesibilizzazione (c.d.
“preavviso di d.u.r.c. negativo”) che consente all’impresa
richiedente il rilascio della certificazione contributiva,
di sanare la propria posizione, prima della definitiva
certificazione negativa: in virtù di tale procedura, l’ente
previdenziale, qualora riscontri delle irregolarità, deve
invitare l’operatore richiedente a sanare la propria
posizione entro il termine di quindici giorni. Soltanto
qualora l’operatore non effettui la regolarizzazione della
propria posizione, entro il termine anzidetto, l’ente
previdenziale potrà adottare un d.u.r.c. negativo.
L’introduzione, o meglio la “legificazione” del preavviso di d.u.r.c. negativo, ha posto il problema di individuare
esattamente il momento a partire dal quale la violazione
della legislazione in materia di contributi previdenziali ed
assistenziali, possa ritenersi definitiva, ai fini
dell’applicazione dell’art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006.
Sul punto, come evidenziato nell’ordinanza di rimessione, è
sorto un contrasto giurisprudenziale.
Il Collegio ritiene che il quesito possa essere risolto
rinviando al principio di diritto espresso da questa
Adunanza Plenaria nelle sentenze nn. 5 e 6 del 29.02.2016.
In quella sede, l’Adunanza Plenaria di questo
Consiglio di Stato si è espressa nel senso di ritenere che
“Anche dopo l’entrata in vigore dell’art. 31, comma 8, del
decreto legge 21.06.2013 n. 69, (Disposizioni urgenti
per il rilancio dell'economia), convertito con modificazioni
dalla legge 09.08.2013, n. 98, non sono consentite
regolarizzazioni postume della posizione previdenziale,
dovendo l’impresa essere in regola con l'assolvimento degli
obblighi previdenziali ed assistenziali fin dalla
presentazione dell'offerta e conservare tale stato per tutta
la durata della procedura di aggiudicazione e del rapporto
con la stazione appaltante, restando dunque irrilevante, un
eventuale adempimento tardivo dell'obbligazione
contributiva. L’istituto dell’invito alla regolarizzazione
(il c.d. preavviso di DURC negativo), già previsto dall’art.
7, comma 3, del decreto ministeriale 24.10.2007 e ora
recepito a livello legislativo dall’art. 31, comma 8, del
decreto legge 21.06.2013 n. 69, può operare solo nei
rapporti tra impresa ed Ente previdenziale, ossia con
riferimento al DURC chiesto dall’impresa e non anche al DURC
richiesto dalla stazione appaltante per la verifica della
veridicità dell’autodichiarazione resa ai sensi dell’art.
38, comma 1, lettera i), ai fini della partecipazione alla
gara d’appalto”.
In tal modo è stato chiarito che l’art. 31 d.l. n. 69 del
2013 non ha modificato la disciplina dettata dall’art. 38
d.lgs. n. 163 del 2006: la regola del preavviso di d.u.r.c.
negativo, dunque, non trova applicazione nel caso di
certificazione richiesta dalla stazione appaltante, ai fini
della verifica delle dichiarazioni rese dell’impresa
partecipante. Il meccanismo, di cui al citato art. 31, comma
8, si applica solo nei rapporti fra ente previdenziale ed
operatore economico richiedente, senza venire in rilievo nel
caso in cui sia la stazione appaltante a richiedere il d.u.r.c. ai fini della verifica circa la regolarità
dell’autodichiarazione.
Questa Adunanza Plenaria ha giustificato le predette
conclusioni con una serie di argomentazioni, di carattere
letterale, storico e sistematico, che, seppur brevemente, il
Collegio ritiene opportuno richiamare.
In primo luogo, l’inapplicabilità alle procedure di evidenza
pubblica del meccanismo di cui al comma 8 è desumibile dalla
lettura complessiva dell’articolo 31 d.l. n. 69 del 2013. In
effetti, i commi dal 2 al 7 di tale norma contengono un
preliminare ed espresso riferimento ai contratti di pubblici
lavori, servizi o forniture o, comunque, un rinvio al d.lgs.
n. 163 del 2006. Diversamente, il comma 8 non contiene un
riferimento di tal genere, né sarebbe possibile desumerlo,
in maniera implicita, dal testo della disposizione.
Inoltre, la modifica al testo dell’art. 38 d.lgs. n. 163 del
2006 non può essere sostenuta argomentando in merito ad una
presunta incompatibilità fra le due disposizioni: in questo
senso osta l’art. 255 d.lgs. n. 163 del 2006 a tenore del
quale “[o]gni intervento normativo incidente sul codice, o
sulle materie dallo stesso disciplinate, va attuato mediante
esplicita modifica, integrazione, deroga o sospensione delle
specifiche disposizioni in esso contenute”. Il d.l. n. 69
del 2013 contiene, all’art. 31 comma 2, le disposizioni del
d.lgs. n. 163 del 2006 che sono state modificate, in
conformità alla clausola di abrogazione esplicita di cui
all’art. 255: tuttavia, in tale elenco non rientra l’art. 38
d.lgs. n. 163 del 2006.
Ad ulteriore conferma della conclusione cui è giunta, questa
Adunanza Plenaria ha evidenziato l’assenza, nei commi da 3 a
7 dell’art. 31, di qualsivoglia riferimento ad una possibile
regolarizzazione postuma dell’inadempienza contributiva
imputabile all’operatore che abbia partecipato alla gara o
che stia eseguendo il contratto: nelle norme richiamate è la
stazione appaltante a richiedere all’ente previdenziale il
rilascio del d.u.r.c., ai fini della verifica della
veridicità della autodichiarazione presentata dall’operatore
privato. Diversamente, il comma 8, nel disciplinare la
procedura di preavviso di d.u.r.c. negativo, si riferisce
alle sole ipotesi in cui sia l’operatore privato a
richiedere all’ente previdenziale il rilascio della
certificazione.
Sotto il profilo sistematico, questa Adunanza Plenaria
afferma il parziale parallelismo strutturale che sussiste
fra il meccanismo di cui all’art. 31 comma 8 ed il preavviso
di rigetto disciplinato dall’art. 10-bis l. n. 214 del 1990.
Al riguardo viene premesso, per un verso, che il preavviso
di rigetto -previsto in via generale per i procedimenti
iniziati ad istanza di parte- non opera, per espressa
scelta legislativa, in relazione ai procedimenti in materia
previdenziale. Per altro verso, il meccanismo di cui
all’art. 31, comma 8, prevede un procedimento in cui rileva la
materia previdenziale ed al contempo strutturato come
procedimento ad istanza di parte.
Pertanto, l’art. 31, comma
8, costituendo una “deroga alla deroga”, non può applicarsi
al di fuori delle ipotesi espressamente descritte dal
legislatore e, cioè, quelle in cui l’operatore privato
richieda all’ente previdenziale il rilascio del d.u.r.c..
Quando, invece, è la stazione appaltante a richiedere la
certificazione all’ente previdenziale, ci si pone al di
fuori dell’ambito applicativo della fattispecie ex art. 31,
comma 8, d.l. n. 69 del 2013.
Sempre sotto il profilo sistematico, si afferma anche che
“l’esclusione del c.d. preavviso di DURC negativo
nell’ambito del procedimento d’ufficio per la verifica della
veridicità delle dichiarazioni sostitutive rese in sede ai
fini della partecipazione alla gara, si pone in linea con
alcuni principi fondamentali che governano appunto le
procedure di gara” e cioè quello di parità di trattamento e
di auto-responsabilità, nonché il principio di continuità nel
possesso dei requisiti di partecipazione alla gara.
Risulta evidente, in effetti, che, consentire la
partecipazione ad una gara ad operatori che non possiedono,
in materia di contributi previdenziali, i requisiti
necessari a prendere parte alla procedura comparativa, ma ne
auto-dichiarano il possesso, comporta due conseguenze
evidenti: da un lato, l’operatore potrebbe integrare un
requisito indispensabile alla partecipazione solo dopo aver
preso parte alla gara ed in seguito al suo esito favorevole,
a differenza degli altri concorrenti; dall’altro lato,
l’autodichiarazione resa in sede di presentazione
dell’offerta sarebbe viziata da una intrinseca falsità, di
per sé idonea a giustificare l’esclusione dalla procedura.
Inoltre, consentire una regolarizzazione postuma dei
requisiti di partecipazione alla gara urterebbe con la
impossibilità, affermata anche dalla sentenza di questa
Adunanza Plenaria n. 8 del 20.07.2014, di perdere i
requisiti neanche temporaneamente nel corso della procedura.
Infine, da un punto di vista storico-normativo, questa
Adunanza Plenaria ha richiamato il D.M. 24.10.2007, il
cui art. 7, comma 3, prevedeva un procedimento strutturalmente
simile a quello previsto dall’art. 31, comma 8:
“[n]ell’interpretazione di questa norma non si è mai
dubitato che la regola del previo invito alla
regolarizzazione non trovasse applicazione nel caso di
richiesta della certificazione preordinata alle verifiche
effettuate dalla stazione appaltante ai fini della
partecipazione alle gare d’appalto”.
Alla luce delle precedenti considerazioni, il secondo
quesito sottoposto dalla Sezione rimettente deve essere
risolto, in conformità al principio di diritto espresso
nelle sentenze di questa Adunanza Plenaria nn. 5 e 6 del 29.02.2016,
nel senso di ritenere l’ambito di
applicazione dell’art. 31 d.l. n. 69 del 2013 limitato ai
rapporti fra ente previdenziale ed operatore privato
richiedente il rilascio del d.u.r.c.. Di conseguenza, va
escluso che detta disposizione abbia determinato una
implicita modifica all’art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006. |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Avvocati inadempienti, il danno va provato.
Il cliente può ottenere il risarcimento del danno per
inadempimento dell'avvocato solo se il pregiudizio subito
dall'assistito viene provato ed è direttamente ricollegabile
a una condotta illecita del legale.
A stabilirlo, la Corte di Cassazione che, con la
sentenza 24.05.2016 n. 10698,
ha respinto il ricorso presentato dal cliente di un legale
nei confronti del quale era stata presentata domanda
risarcitoria a seguito di una serie di problemi riscontrati
dall'assistito nello svolgimento dell'attività
imprenditoriale, sfociati nell'esclusione dalla compagine
sociale.
In particolare l'assistito, nei primi due gradi di giudizio,
aveva lamentato la sussistenza della responsabilità
professionale dell'avvocato adducendo una serie di mancanze
relative a documenti non presentati ed a scadenze non
rispettate nel corso del giudizio avente ad oggetto
l'impugnativa delle delibere assembleari. Il cliente, però,
così come sottolineato dai giudici di primo grado, non aveva
in alcun caso dimostrato il nesso diretto tra le
inadempienze del legale e il danno subito. Ragion per cui il
risarcimento gli era stato negato.
Decisione che ha trovato il favore anche della Cassazione
che ha avuto modo di sottolineare come «la responsabilità
dell'avvocato non può affermarsi per il solo fatto del suo
non corretto adempimento dell'attività professionale,
occorrendo verificare se l'evento produttivo del pregiudizio
lamentato dal cliente sia riconducibile alla condotta del
legale e se un danno vi sia stato effettivamente»
(articolo ItaliaOggi del
25.05.2016).
----------------
MASSIMA
8. - Il quinto motivo non può trovare accoglimento.
Le censure della ricorrente si infrangono contro il
principio -consolidato e nel cui solco si inscrive la
decisione della Corte territoriale (e che, invece, lo stesso
ricorrente sembra disconoscere)- secondo il quale la
responsabilità dell'avvocato non può affermarsi per il solo
fatto del suo non corretto adempimento dell'attività
professionale, occorrendo verificare se l'evento produttivo
del pregiudizio lamentato dal cliente sia riconducibile alla
condotta del primo, se un danno vi sia stato effettivamente
e, infine, se, ove questi avesse tenuto il comportamento
dovuto, il suo assistito, alla stregua di criteri
probabilistici, avrebbe conseguito il riconoscimento delle
proprie ragioni, difettando, altrimenti, la prova del
necessario nesso eziologico tra la condotta del legale,
commissiva od omissiva (anche per violazione del dovere di
informazione), ed il risultato derivatone (tra le altre,
Cass., 07.08.2002, n. 11901; Cass., 05.02.2013, n. 2638).
La Corte capitolina ha, dunque, escluso -al pari del primo
giudice- che il Ma. avesse fornito allegazioni e prova in
ordine alla sussistenza del nesso eziologico tra la condotta
del professionista ed il pregiudizio derivato al cliente,
non potendo il danno risarcibile coincidere con la condotta
negligente del professionista. |
APPALTI:
Scioglimento del RTI in corso di gara: ammessa la
sostituzione con la singola impresa rimasta.
Corte di giustizia Ue: il subentro di una delle società
costituenti è compatibile con il diritto europeo ma a due
condizioni.
La Corte di giustizia europea, con la
sentenza 24.05.2016 - causa C-396/14 ha
affrontato la questione relativa alla compatibilità con il
diritto europeo del subentro di una delle società
costituenti un originario raggruppamento temporaneo, in caso
di scioglimento del raggruppamento stesso per fallimento
dell’altra società.
Secondo la Corte Ue un ente aggiudicatore
non viola il principio di parità di trattamento degli
operatori economici (di cui all’art. 10 della direttiva
2004/17/CE), “se autorizza uno dei due operatori
economici che facevano parte di un raggruppamento di imprese
invitato, in quanto tale, da siffatto ente a presentare
un’offerta, a subentrare a tale raggruppamento in seguito
allo scioglimento del medesimo e a partecipare, in nome
proprio, a una procedura negoziata di aggiudicazione di un
appalto pubblico, purché sia dimostrato, da un lato, che
tale operatore economico soddisfa da solo i requisiti
definiti dall’ente di cui trattasi e, dall’altro, che la
continuazione della sua partecipazione a tale procedura non
comporta un deterioramento della situazione degli altri
offerenti sotto il profilo della concorrenza”.
DUE CONDIZIONI.
Dunque, è necessario che l’impresa rimanente sia in possesso
–da sola- dei requisiti necessari per l’ammissione alla
procedura di gara in questione; inoltre, occorre che la
continuazione della sua partecipazione a tale procedura non
comporti un deterioramento della situazione degli altri
offerenti sotto il profilo della concorrenza.
“Sotto questo secondo versante”, commenta il sito
ufficiale della giustizia amministrativa italiana, “la
sentenza in esame non fornisce indicazioni esemplificative,
fermo restando che tale presupposto appare di per sé di non
facile ed immediata verifica concreta. Peraltro, la
soluzione indicata viene basata espressamente, dalla Corte,
sul principio della massima apertura al mercato: in tale
ottica, secondo la sentenza, la formale identità giuridica e
sostanziale tra gli operatori economici preselezionati e
quelli che presentano le offerte può essere attenuata al
fine di garantire, in una procedura negoziata, un’adeguata
concorrenza”.
LA
GIURISPRUDENZA NAZIONALE.
Il sito web della giustizia amministrativa ricorda che
“nella giurisprudenza nazionale è possibile individuare
indicazioni di maggiore rigore in materia, quantomeno nella
fase anteriore all’esecuzione.
E' stato sul punto affermato che “Nelle gare pubbliche il
divieto di modificare la composizione dei partecipanti
raggruppamenti temporanei d'imprese riguarda l'intero arco
della procedura di evidenza pubblica, mentre le eccezioni
contemplate dall'art. 37, commi 18 e 19, d.lgs. 12.04.2006,
n. 163 e concernenti il fallimento del mandante e del
mandatario, la morte, l'interdizione o inabilitazione
dell'imprenditore individuale, nonché le ipotesi previste
dalla normativa antimafia, riguardano evenienze relative
alla successiva fase dell'esecuzione del contratto” (Cons.
St., sez. V, 20.01.2015, n. 169); “nelle gare pubbliche ogni
eccezione al principio di immodificabilità dell'offerta e
della composizione dei partecipanti dopo l'offerta non può
che essere applicata restrittivamente alle sole ipotesi
espressamente disciplinate dal legislatore, tra le quali non
rientra il caso del fallimento della mandataria di una ATI
intervenuto in corso di gara” (Tar Piemonte, sez. I,
15.05.2015, n. 818)” (commento
tratto da www.casaeclima.com).
---------------
MASSIMA
Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara:
Il principio di parità di trattamento degli
operatori economici, di cui all’articolo 10 della direttiva
2004/17/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del
31.03.2004, che coordina le procedure di appalto degli enti
erogatori di acqua e di energia, degli enti che forniscono
servizi di trasporto e servizi postali, in combinato
disposto con l’articolo 51 della medesima, deve essere
interpretato nel senso che un ente aggiudicatore non viola
tale principio se autorizza uno dei due operatori economici
che facevano parte di un raggruppamento di imprese invitato,
in quanto tale, da siffatto ente a presentare un’offerta, a
subentrare a tale raggruppamento in seguito allo
scioglimento del medesimo e a partecipare, in nome proprio,
a una procedura negoziata di aggiudicazione di un appalto
pubblico, purché sia dimostrato, da un lato, che tale
operatore economico soddisfa da solo i requisiti definiti
dall’ente di cui trattasi e, dall’altro, che la
continuazione della sua partecipazione a tale procedura non
comporta un deterioramento della situazione degli altri
offerenti sotto il profilo della concorrenza. |
URBANISTICA:
Beni Ambientali. Nulla osta previsto dall’art. 13, l.
06.12.1991 n. 394 e procedimento di approvazione di uno
strumento urbanistico attuativo.
La Plenaria ha formulato il principio di cui in massima
precisando che:
a) se il parere all’ente parco, pur non
obbligatorio, venga comunque richiesto nel corso del
procedimento di approvazione di uno strumento urbanistico,
non può trovare ingresso l’istituto del silenzio-assenso
previsto dall’art. 13, comma 1, l. n. 394 del 1991;
b) quand’anche il parere sia stato favorevolmente reso per
spirito di collaborazione dall’ente parco, in ogni caso il
parere deve essere nuovamente acquisito in occasione della
presentazione di una domanda di permesso di costruire,
perché solo in questo momento è possibile definire con
precisione l’impatto dell’intervento edilizio sull’ambiente.
Conseguentemente, respinti i motivi di appello che
presupponevano l’applicabilità dell’art. 13, comma 1, cit.
al caso di specie, la sentenza ha restituito gli atti alla
Sezione, ex art. 99, commi 1 e 4, c.p.a., senza pronunciarsi
sul quesito rimessole, consistente nello stabilire se l’art.
20, l. n. 241 del 1990 –novellato nel 2005- abbia comportato
l’abrogazione dell’art. 13, comma 1, l. n. 394 del 1991,
attesa la specialità di quest’ultima disposizione, ovvero se
debba escludersi la sopravvivenza di norme aventi a oggetto
ipotesi di silenzio-assenso anteriori alla novella dell’art.
20 sulla base di una rigorosa applicazione del criterio
cronologico della successione delle leggi nel tempo e della
tendenza complessiva dell’ordinamento a ricusare tale modulo
procedimentale in settori “sensibili” quali sono
quelli della tutela del paesaggio, dell’ambiente, della
salute, e dei beni culturali.
Analoga questione è stata rimessa all’Adunanza plenaria
dalla III Sezione del Consiglio di Stato con ordinanza n.
642 del 17.02.2016; la questione sarà affrontata dalla
Plenaria all’udienza del prossimo 08.06.2016 (massima tratta
da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria,
sentenza 24.05.2016 n. 9 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Cassazione:
la canna fumaria non è una costruzione ma un semplice
accessorio di un impianto.
Non trova applicazione la disciplina di cui all'art. 907 del
Codice civile sulle distanze.
“Come già affermato dalla giurisprudenza
di questa Corte, la canna fumaria non è una costruzione, ma
un semplice accessorio di un impianto e quindi non trova
applicazione la disciplina di cui all'art. 907” del Codice
civile.
Lo ha riaffermato la Corte di Cassazione, Sez. II civile,
con la
sentenza 23.05.2016 n. 10618.
La suprema Corte ha deciso di dare continuità al suddetto
orientamento giurisprudenziale considerando le
caratteristiche dei manufatti in questione, e cioè semplici
tubi in materiale metallico.
Per quanto riguarda il tema delle immissioni di cui all'art.
844 cc, la Cassazione ricorda che “la valutazione della
tollerabilità, ove adeguatamente motivata, nell'ambito dei
criteri direttivi indicati dal citato art. 844 cod. civ.,
con particolare riguardo a quello del contemperamento delle
esigenze della proprietà privata con quelle della
produzione, costituisce accertamento di merito insindacabile
in sede di legittimità”.
----------------
Per il resto la censura si rivela infondata.
Dal contenuto della citazione introduttiva (come riassunto a
pag. 2 del ricorso) risulta dedotta "la sussistenza di
due canne fumarle davanti alle finestre al primo plano della
proprietà attorea a distanza inferiore a quella di legge",
il che induce senz'altro a ritenere che la doglianza sia
stata formulata con riferimento alla violazione degli artt.
907 cc (distanza delle costruzioni dalle vedute) e 890 cc
(distanze per fabbriche e depositi nocivi o pericolosi).
Ciò chiarito, come già affermato dalla giurisprudenza di
questa Corte, la canna fumaria non è una
costruzione, ma un semplice accessorio di un impianto e
quindi non trova applicazione la disciplina di cui all'art.
907 (Sez. 2,
Sentenza n. 2741 del 23/02/2012 Rv. 621675). Il Collegio
ritiene di dare continuità a tale orientamento considerando
le caratteristiche dei manufatti di cui si discute (si
tratta in sostanza di semplici tubi in materiale metallico).
Perde così consistenza ogni disquisizione sulla natura di
luci o vedute.
Quanto al tema delle immissioni di cui
all'art. 844 cc. la valutazione della tollerabilità, ove
adeguatamente motivata, nell'ambito dei criteri direttivi
indicati dal citato art. 844 cod. civ., con particolare
riguardo a quello del contemperamento delle esigenze della
proprietà privata con quelle della produzione, costituisce
accertamento di merito insindacabile in sede di legittimità
(Sez. 2, Sentenza n. 17281 del 25/0812005 Rv. 584408).
Nel caso che ci occupa la Corte genovese, sulla scorta degli
accertamenti peritali, ha rilevato il rispetto del dettato
del piano regolatore della città di Carrara sotto il profilo
della dispersione dei fumi e ha escluso, per effetto
dell'allungamento, il rischio di danni all'abitazione
adiacente (v. pag. 6).
Trattasi, come si vede, di un percorso argomentativo
succinto ma adeguato e, come tale, incensurabile (commento
tratto da www.casaeclima.com). |
APPALTI:
In caso d'appalto annullato il danno subito va
provato.
Ai fini del risarcimento del danno derivante
dall'annullamento dell'aggiudicazione di un appalto non è
necessario provare la colpa della stazione appaltante; non è
automatica la quantificazione del danno per equivalente
nella misura del 10% del valore dell'appalto, che invece va
provato in concreto.
È quanto ha affermato il Consiglio di Stato con la
sentenza
del 23.05.2015 n. 2111, della IV Sez. che prende
in esame la richiesta di risarcimento del danno formulata a
seguito dell'avvenuta impugnazione, con ricorso
straordinario, dell'aggiudicazione di un appalto.
Il
Consiglio di stato ha ricostruito gli elementi chiave per la
definizione del danno derivante da responsabilità
extracontrattuale della stazione appaltante ritenendo che la
struttura dell'illecito dell'amministrazione non diverga dal
modello generale delineato dall'articolo 2043 del codice
civile (elemento soggettivo, dolo o colpa, nesso di
causalità, danno e ingiustizia del danno).
La sentenza ha precisato che, ai fini del risarcimento, non
è necessario l'accertamento dell'elemento soggettivo «poiché
il rimedio risarcitorio risponde al principio di effettività
della tutela previsto dalla normativa comunitaria».
Pertanto, ha detto il Consiglio di stato, si può prescindere
dalla prova della colpa (o del dolo) della stazione
appaltante. Invece, il danneggiato deve offrire la prova
dell'an e del quantum del danno che assume di aver sofferto
e offrire la prova dell'utile che in concreto avrebbe
conseguito, qualora fosse risultato aggiudicatario
dell'appalto.
Per quel che concerne la valutazione del danno, la sentenza
ha chiarito che la valutazione equitativa (ai sensi
dell'articolo 1226 cod. civ.), «è ammessa soltanto in
presenza di situazione di impossibilità, o di estrema
difficoltà, di una precisa prova sull'ammontare del danno».
Detto ciò, «va esclusa la pretesa di ottenere
l'equivalente del 10% dell'importo a base d'asta, sia perché
detto criterio esula storicamente dalla materia
risarcitoria, sia perché non può essere oggetto di
applicazione automatica ed indifferenziata».
Per i giudici, infatti, non si può presumere che il danno da
lucro cessante del danneggiato sia commisurabile al 10% del
detto importo; quindi è necessaria la prova concreta del
danno subito
(articolo ItaliaOggi del
27.05.2016).
---------------
MASSIMA
18. Senza riprendere dal fondo l’esame di temi
ampiamente discussi e approfonditi, il Collegio ritiene che
la struttura dell’illecito extracontrattuale della P.A. non
diverga dal modello generale delineato dall’art. 2043 c.c.
Ne sono dunque elementi costitutivi: quello soggettivo (dolo
o colpa), il nesso di causalità, il danno, l’ingiustizia del
danno medesimo.
19. Peraltro,
ai fini del risarcimento, non è necessario l'accertamento
dell'elemento soggettivo là dove, come nella specie, il
risarcimento funga da strumento necessariamente sostitutivo
della non più possibile tutela in forma specifica, poiché il
rimedio risarcitorio risponde al principio di effettività
della tutela previsto dalla normativa comunitaria, sulla
base degli autonomi principi sviluppati nel tempo dalla
Corte di giustizia UE
(cfr. Cons. Stato, sez. V, 28.12.2011, n. 6919; sez. IV,
31.01.2012, n. 482; sez. V, 31.12.2014, n. 6450; tutte con
riferimento anche alla giurisprudenza comunitaria). Si può
dunque prescindere dalla prova della colpa della stazione
appaltante.
20. Quanto agli altri presupposti dell’obbligazione
risarcitoria,
il Collegio -alla stregua di consolidati e risalenti
principi elaborati dalla giurisprudenza di questo Consiglio,
in tema di determinazione del danno da mancata
aggiudicazione di gara d'appalto
(cfr. ex plurimis Cons. Stato, sez. V, 31.12.2014, n.
6450 e n. 6453; sez. V, 21.07.2015, n. 3605; sez. IV,
21.03.2016, n. 1130; Ad. plen., 23.03.2011, n. 3),
dai quali non intende discostarsi- rammenta che:
a)
ai sensi degli artt. 30, 40 e 124, comma 1, c.p.a., il
danneggiato deve offrire la prova dell'an e del
quantum del danno che assume di aver sofferto;
b)
spetta all'impresa danneggiata offrire la prova dell'utile
che in concreto avrebbe conseguito, qualora fosse risultata
aggiudicataria dell'appalto, poiché nell'azione di
responsabilità per danni il principio dispositivo opera con
pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio
dell'azione di annullamento (ex art. 64, commi 1 e 3, c.p.a.);
quest'ultimo, infatti, in tanto si giustifica in quanto
sussista la necessità di equilibrare l'asimmetria
informativa tra Amministrazione e privato la quale
contraddistingue l'esercizio del pubblico potere ed il
correlato rimedio dell'azione di impugnazione, mentre non si
riscontra in quella consequenziale di risarcimento dei
danni, in relazione alla quale il criterio della c.d.
vicinanza della prova determina il riespandersi del predetto
principio dispositivo sancito in generale dall'art. 2697,
primo comma, c.c.;
c)
la valutazione equitativa, ai sensi dell'art. 1226 cod.
civ., è ammessa soltanto in presenza di situazione di
impossibilità -o di estrema difficoltà- di una precisa prova
sull'ammontare del danno;
d)
le parti non possono sottrarsi all'onere probatorio e
rimettere l'accertamento dei propri diritti all'attività del
consulente tecnico d'ufficio neppure nel caso di consulenza
cosiddetta "percipiente", che può costituire essa
stessa fonte oggettiva di prova, demandandosi al consulente
l'accertamento di determinate situazioni di fatto, giacché,
anche in siffatta ipotesi, è necessario che le parti stesse
deducano quantomeno i fatti e gli elementi specifici posti a
fondamento di tali diritti;
e)
la prova in ordine alla quantificazione del danno può essere
raggiunta anche mediante presunzioni; per la configurazione
di una presunzione giuridicamente rilevante non occorre che
l'esistenza del fatto ignoto rappresenti l'unica conseguenza
possibile di quello noto, secondo un legame di necessarietà
assoluta ed esclusiva (sulla base della regola della «inferenza
necessaria»), ma è sufficiente che dal fatto noto sia
desumibile univocamente quello ignoto, alla stregua di un
giudizio di probabilità basato sull'«id quod plerumque
accidit» (in virtù della regola della «inferenza
probabilistica»), sicché il giudice può trarre il suo
libero convincimento dall'apprezzamento discrezionale degli
elementi indiziari prescelti, purché dotati dei requisiti
legali della gravità, precisione e concordanza, mentre non
può attribuirsi valore probatorio ad una presunzione fondata
su dati meramente ipotetici;
f)
va esclusa la pretesa di ottenere l'equivalente del 10%
dell'importo a base d'asta, sia perché detto criterio esula
storicamente dalla materia risarcitoria, sia perché non può
essere oggetto di applicazione automatica ed indifferenziata
(non potendo formularsi un giudizio di probabilità fondato
sull'id quod plerumque accidit secondo il quale,
allegato l'importo a base d'asta, può presumersi che il
danno da lucro cessante del danneggiato sia commisurabile al
10% del detto importo);
g)
anche per il c.d. danno curricolare il creditore deve
offrire una prova puntuale del nocumento che asserisce di
aver subito (il mancato arricchimento del proprio
curriculum professionale), quantificandolo in una misura
percentuale specifica applicata sulla somme liquidata a
titolo di lucro cessante.
21. Facendo applicazione dei su esposti principi al caso di
specie, risulta evidente l'inaccoglibilità delle domande
proposte dalla Za.Co., la quale:
a) si è limitata a chiedere l’esecuzione in forma specifica del
decreto decisorio o, in subordine, il risarcimento del danno
per equivalente, ma non ha provato che, una volta annullata
l’aggiudicazione in favore dell’impresa prima classificata,
sarebbe risultata prima in graduatoria e quindi
aggiudicataria, dovendosi tenere conto dell’esito del
ricalcolo delle offerte e dell’accertamento di possibili
mancanze dei necessari requisiti soggettivi (a norma,
rispettivamente, degli artt. 86 e 38 del decreto legislativo
12.04.2006, n. 163);
b) non può fondatamente chiedere che, in mancanza di proprie
specifiche allegazioni probatorie, la liquidazione possa
basarsi su una c.t.u., il cui apporto concreto è risultato
meramente verbale e non ha fornito la prova della
percentuale di utile effettivo che l’impresa avrebbe
conseguito se fosse risultata aggiudicataria dell'appalto,
con riferimento all'offerta economica presentata al seggio
di gara (si veda invece la fattispecie decisa da Cons.
Stato, sez. IV, 14.03.2016, n. 992, ove la consulenza ha
offerto la prova rigorosa del danno subito), ovvero su un
giudizio di equità (c.d. correttiva e integrativa), al di
fuori dei presupposti sanciti dall'art. 1226 c.c.;
c) ha domandato il risarcimento del danno patito avuto riguardo
alle spese generali fisse dell’impresa, relative al
funzionamento della struttura organizzativa della sede
aziendale, mentre
-conformemente a un consolidato orientamento del giudice
amministrativo- non è ristorabile il danno per spese e costi
di partecipazione alla gara, per le spese generali e legali
e spese di progettazione, perché che la partecipazione alle
gare d'appalto comporta per i partecipanti dei costi che
ordinariamente restano a carico delle imprese medesime, sia
in caso di aggiudicazione che in caso di mancata
aggiudicazione
(cfr. per tutte Cons. Stato, sez. IV, 17.02.2014, n. 744;
sez. III, 10.04.2015, n. 1839);
d)
il danno curriculare, a sua volta, ferma restando la sua
puntuale allegazione, può essere equitativamente liquidato
in una percentuale del mancato utile effettivamente provato,
che qui è del tutto mancata, perché l’impresa ricorrente non
ha fornito la prova dell'entità della sorte capitale dovuta
a titolo di mancato utile effettivo.
22. A tanto consegue, in conclusione, il rigetto della
domanda formulata in via principale, come pure di quella
subordinata.
23. Le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda
sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli
aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c., in aderenza
al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e
pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante:
fra le tante, per le affermazioni più risalenti, Cass. civ.,
sez. II, 22.03.1995, n. 3260, e, per quelle più recenti,
Cass. civ., sez. V, 16.05.2012, n. 7663).
24. Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati
sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della
decisione e comunque inidonei a condurre a una conclusione
di segno diverso. |
EDILIZIA PRIVATA:
Autorizzazione paesaggistica, il no della Soprintendenza è
nullo in difetto di motivazione.
Tar Friuli: l'interesse
all’approvvigionamento energetico da fonti rinnovabili è non
meno rilevante dell'interesse pubblico alla preservazione
del paesaggio.
Con la
sentenza 23.05.2016 n. 187,
il TAR Friuli Venezia Giulia ha accolto il ricorso
presentato da un cittadino per l'annullamento del parere
negativo della Soprintendenza per i beni architettonici e
paesaggistici, inerente la richiesta di installazione di un
impianto fotovoltaico su un fabbricato di civile abitazione,
situato in zona urbanistica B3 “area urbanistica di
espansione residenziale recente sita ai piedi del versante
collinare” sulla quale insiste un vincolo paesaggistico
ex art. 157, comma 1, lett. c), del d.lgs. 22.01.2004, n.
42.
Il Tar ha annullato il parere negativo della Soprintendenza
e anche il provvedimento di diniego di autorizzazione
paesaggistica del Responsabile del Servizio Pianificazione
Territoriale del Comune interessato.
DIFETTO DI MOTIVAZIONE E TARDIVITÀ.
I giudici amministrativi hanno rilevato “il difetto di
motivazione che affligge il parere della Soprintendenza e,
di conseguenza, il diniego comunale, viepiù aggravato dalla
circostanza che, essendosi la Soprintendenza espressa sotto
il profilo paesaggistico quando oramai era decorso il
termine di legge per farlo, il parere dalla medesima
espresso non poteva più considerarsi assistito dal carattere
di vincolatività e avrebbe dovuto, quindi, essere
autonomamente e motivatamente valutato dal Comune procedente
in relazione a tutte le circostanze rilevanti del caso
(...), nel cui ambito avrebbero potuto trovare adeguata
valorizzazione anche il parere favorevole della Commissione
Locale per il Paesaggio e la proposta di accoglimento da
parte del responsabile del procedimento”.
Infatti, osserva il Tar, il parere negativo di compatibilità
paesaggistica “è motivato unicamente con riferimento al
mancato rispetto di quanto disposto nelle circolari n.
5450/2010 e n. 7166/2011 della Soprintendenza per i beni
architettonici e paesaggistici della Regione F.V.G., senza
null’altro rappresentare al ricorrente “circa le specifiche
ed obiettive ragioni per le quali il progetto di impianto
fotovoltaico da questo proposto, non risulti conforme alle
esigenze paesaggistiche della zona scelta per il
collocamento dello stesso” e, anzi, finanche trascurando di
prendere in considerazione le effettive risultanze
progettuali”.
Quindi, la motivazione posta a sostegno “non consente al
predetto né di ricostruire l’iter logico-giuridico posto a
fondamento di tale decisione, né di poter eventualmente
superare le eventuali e non conosciute criticità connesse
alla realizzazione di detto impianto, apportando, se
possibile, tutte le necessarie modifiche al fine di renderlo
compatibile con le esigenze di tutela del paesaggio, solo
genericamente ed aprioristicamente addotte da parte della
stessa Soprintendenza”.
Inoltre, “non paiono essere state svolte, neppure in sede
di istruttoria procedimentale, le necessarie considerazioni
circa lo stato dei luoghi ove detto impianto dovrebbe essere
realizzato, anche al fine di stabilire se, conformemente
quanto disposto nelle circolari citate nella determina
impugnata, l’opera in questione possa eventualmente
risultare compatibile, ed in quale misura, con i valori
paesaggistici di riferimento, tenuto peraltro conto
dell’attuale stato di urbanizzazione del territorio in
questione”.
Da ultimo, “non risulta che sia stata svolta alcuna
valutazione comparatistica tra l’interesse pubblico alla
preservazione del paesaggio e quello non meno rilevante
concernente l’approvvigionamento energetico da fonti
rinnovabili e non inquinanti, il cui esame congiunto appare
imprescindibile al fine di eliminare eventuali sproporzioni
tra le azioni volte a tutela dei vincoli paesaggistici e la
sempre maggiore domanda di consumo di energia elettrica”
(commento tratto da www.casaeclima.com).
---------------
MASSIMA
Il ricorso è fondato e va accolto.
Il Collegio ritiene, invero, che possono essere mutuate le
motivazioni poste a sostegno della decisione di questo
Tribunale n. 383 in data 13.08.2015, atteso che la
situazione giuridico/fattuale che viene in rilievo nel
presente giudizio è analoga a quella già oggetto di
disamina.
Anche in tal caso assume, infatti,
preponderante rilevanza il difetto di motivazione che
affligge il parere della Soprintendenza e, di conseguenza,
il diniego comunale, viepiù aggravato dalla circostanza che,
essendosi la Soprintendenza espressa sotto il profilo
paesaggistico quando oramai era decorso il termine di legge
per farlo, il parere dalla medesima espresso non poteva più
considerarsi assistito dal carattere di vincolatività e
avrebbe dovuto, quindi, essere autonomamente e motivatamente
valutato dal Comune procedente in relazione a tutte le
circostanze rilevanti del caso
(in termini C.d.S., VI, 27.04.2015, n. 2136; TAR Puglia,
Lecce, I, 12.07.2013, n. 1681; id. n. 1739/2013 e n.
321/2014; Tar Veneto, II, n. 583/2014), nel
cui ambito avrebbero potuto trovare adeguata valorizzazione
anche il parere favorevole della Commissione Locale per il
Paesaggio e la proposta di accoglimento da parte del
responsabile del procedimento.
Il parere negativo di compatibilità paesaggistica è
motivato, infatti, unicamente con riferimento al mancato
rispetto di quanto disposto nelle circolari n. 5450/2010 e
n. 7166/2011 della Soprintendenza per i beni architettonici
e paesaggistici della Regione F.V.G., senza null’altro
rappresentare al ricorrente “circa le
specifiche ed obiettive ragioni per le quali il progetto di
impianto fotovoltaico da questo proposto, non risulti
conforme alle esigenze paesaggistiche della zona scelta per
il collocamento dello stesso”
e, anzi, finanche trascurando di prendere in considerazione
le effettive risultanze progettuali.
La motivazione posta a sostegno non
consente, dunque, al predetto né di ricostruire l’iter
logico-giuridico posto a fondamento di tale decisione, né di
poter eventualmente superare le eventuali e non conosciute
criticità connesse alla realizzazione di detto impianto,
apportando, se possibile, tutte le necessarie modifiche al
fine di renderlo compatibile con le esigenze di tutela del
paesaggio, solo genericamente ed aprioristicamente addotte
da parte della stessa Soprintendenza.
Anche nel caso ora in esame non paiono,
inoltre, essere state svolte, neppure in sede di istruttoria
procedimentale, le necessarie considerazioni circa lo stato
dei luoghi ove detto impianto dovrebbe essere realizzato,
anche al fine di stabilire se, conformemente quanto disposto
nelle circolari citate nella determina impugnata, l’opera in
questione possa eventualmente risultare compatibile, ed in
quale misura, con i valori paesaggistici di riferimento,
tenuto peraltro conto dell’attuale stato di urbanizzazione
del territorio in questione.
Da ultimo, non risulta che sia stata svolta
alcuna valutazione comparatistica tra l’interesse pubblico
alla preservazione del paesaggio e quello non meno rilevante
concernente l’approvvigionamento energetico da fonti
rinnovabili e non inquinanti, il cui esame congiunto appare
imprescindibile al fine di eliminare eventuali sproporzioni
tra le azioni volte a tutela dei vincoli paesaggistici e la
sempre maggiore domanda di consumo di energia elettrica.
In accoglimento delle censure svolte dal ricorrente col I,
II e IV motivo di ricorso e assorbite tutte le ulteriori
dedotte, il ricorso va, in definitiva, accolto e, per
l’effetto, annullati il parere negativo della Soprintendenza
per i beni architettonici e paesaggistici del Friuli Venezia
Giulia in data 23.09.2014, prot. n. 12477, e il
provvedimento di diniego di autorizzazione paesaggistica del
Responsabile del Servizio Pianificazione Territoriale del
Comune di San Daniele del Friuli in data 30.09.2014, prot.
n. 1704 . |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Api fastidiose Via le arnie.
Se le api infastidiscono i vicini, è comunque illegittima
l'ordinanza del Sindaco che ordina la rimozione delle arnie
in mancanza delle specifiche condizioni imposte dall'art. 54
del Tuel, ovvero il pericolo per l'incolumità pubblica.
Lo ha stabilito il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza
19.05.2016 n. 2090.
In sostanza, ha
affermato il Collegio, se è vero che l'articolo 896-bis cc
il quale regolamenta il posizionamento degli apiari,
rappresenta il punto di equilibrio fra le esigenze
dell'apicoltore e quelle dei proprietari confinanti, è
altresì vero che il rispetto delle prescrizioni codicistiche
per l'esercizio della attività non esaurisce e non elide la
possibilità che l'apicultura, pur legittima, possa rilevare
ai fini dell'attivazione dei poteri di ordinanza extra ordinem consentiti dall'articolo 54 del suddetto Tuel.
Ma, a tale proposito, la giurisprudenza ha già chiarito che
il potere del Sindaco può essere attivato solamente quando
si tratti di affrontare situazioni di carattere eccezionale
e impreviste, costituenti concreta minaccia per la pubblica
incolumità, per le quali sia impossibile utilizzare i
normali mezzi apprestati dall'ordinamento. E in tal senso,
non possono certamente essere considerati sufficienti i «numerosi
esposti da parte dei residenti confinanti, nei quali vengono
lamentati inconvenienti igienico-sanitari e vengono
evidenziati disagi sia ai beni di proprietà che alle persone».
In sostanza, la sentenza ha affermato che «uno stato di
fatto, per quanto foriero di indubbi fastidi e disappunti,
non legittima l'attivazione di un potere dichiaratamente
eccezionale e il cui esercizio non può essere plasmato al
fine di dirimere questioni che possono, e debbono, essere
affrontate con strumenti giuridici di carattere ordinario»
(articolo ItaliaOggi del
24.05.2016).
---------------
MASSIMA
1. Giunge alla decisione del Collegio il ricorso in
appello proposto dal signor Ci. (che esercita l’attività di
allevamento di apis mellifera presso la sua abitazione nella
frazione di Vaste di Poggiardo) avverso la sentenza del TAR
della Puglia – Sezione staccata di Lecce con cui è stato
respinto il ricorso avverso il provvedimento sindacale
(adottato ai sensi dell’articolo 54 del TUEL) con il quale è
stata ingiunta la rimozione degli apiari esistenti in loco.
2. L’appello è fondato nei termini che seguono.
2.1. Va premesso che
non può essere condivisa la tesi dell’appellante secondo cui
il rispetto da parte del proprietario apicoltore delle
previsioni di cui all’articolo 896-bis cod. civ. (per come
introdotto ad opera dell’articolo 8 della l. 24.12.2004, n.
313) impedirebbe di fatto l’esercizio da parte del Sindaco
dei poteri di ordinanza di cui al comma 4 dell’articolo 54
del TUEL al ricorrere dei relativi presupposti.
Si può convenire con l’appellante che l’esercizio
dell’apicoltura secondo le modalità, le prescrizioni e le
cautele contemplate dal richiamato articolo 896-bis
rappresenti una facoltà rientrante nel contenuto naturale
del suo diritto di proprietà.
Si può altresì convenire con l’appellante che la richiamata
disposizione codicistica risulti tributaria di un
orientamento legislativo volto a riguardare l’apicoltura
come attività di interesse nazionale e a consentirne quindi
generaliter l’esercizio previa l’adozione di alcune
(peraltro poche) cautele.
Non può invece essere condiviso l’argomento secondo cui il
rispetto delle richiamate cautele rappresenterebbe ex
se la condizione ad un tempo necessaria e sufficiente per
consentire in modo incondizionato l’esercizio dell’attività
di apicoltura, pure al ricorrere delle eccezionali
condizioni che legittimano l’esercizio del potere sindacale
di ordinanza di cui al più volte richiamato articolo 54 del
TUEL.
Al contrario, se è vero che l’articolo 896-bis rappresenta
il punto di equilibrio in ambito civilistico fra le esigenze
del proprietario apicoltore e quelle dei proprietari
confinanti, è altresì vero che il rispetto delle
prescrizioni codicistiche per l’esercizio della richiamata
attività non esaurisce e non elide la possibilità che
l’esercizio di tale attività (pur legittimo de iure civili)
possa rilevare nondimeno ai fini dell’attivazione dei poteri
di ordinanza extra ordinem di cui al più volte
richiamato articolo 54.
Sotto tale aspetto il ricorso in appello non può quindi
essere condiviso.
2.2. Al contrario, il ricorso in epigrafe è meritevole di
accoglimento per la parte in cui il dottor Ci. ha rilevato
la mancata allegazione da parte del Comune delle specifiche
ed eccezionali circostanze che, sole, possono legittimare
l’esercizio del più volte richiamato potere di ordinanza.
Come è noto, il comma 5 dell’articolo 54 del TUEL stabilisce
che “il sindaco, quale ufficiale del Governo, adotta con
atto motivato provvedimenti, [anche] contingibili e urgenti
nel rispetto dei princìpi generali dell'ordinamento, al fine
di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano
l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana (…)”.
2.2.1. La giurisprudenza di questo Consiglio ha solitamente
interpretato in modo piuttosto restrittivo i presupposti e
le condizioni che legittimano l’esercizio del richiamato
potere di ordinanza, avente carattere sostanzialmente
extra ordinem.
E’ stato affermato al riguardo che
il richiamato potere può essere attivato solamente quando si
tratti di affrontare situazioni di carattere eccezionale e
impreviste, costituenti concreta minaccia per la pubblica
incolumità, per le quali sia impossibile utilizzare i
normali mezzi apprestati dall'ordinamento giuridico: tali
requisiti non ricorrono di conseguenza, quando le pubbliche
amministrazioni possono adottare i rimedi di carattere
ordinario
(in tal senso: Cons. Stato, VI, 13.06.2012, n. 3490).
E’ stato altresì chiarito che
il carattere eccezionale del richiamato potere comporta che
il suo esercizio resti relegato alle sole ipotesi in cui
risulta impossibile utilizzare i normali mezzi apprestati
dall'ordinamento giuridico: si tratta di un’ipotesi che non
ricorre , di conseguenza, quando le pubbliche
amministrazioni possono fronteggiare le medesime situazioni
adottando i rimedi di carattere ordinario
(in tal senso: Cons. Stato, V, 20.02.2012, n. 904).
2.2.2. Ebbene, riconducendo i principi appena richiamati
alle peculiarità del caso in esame, risulta che il Comune
appellato non abbia dimostrato nel caso in esame il
ricorrere dei presupposti che legittimano il ricorso al
potere di ordinanza di cui al comma 4 dell’articolo 54 del
TUEL.
Si osserva al riguardo:
- che l’esercizio del richiamato potere non risulta
giustificato dalla sola presentazione di “numerosi
esposti da parte dei residenti confinanti, nei quali vengono
lamentati inconvenienti igienico-sanitari e vengono
evidenziati disagi sia ai beni di proprietà che alle persone”
(in tal senso il secondo ‘Visto’ del provvedimento impugnato
in primo grado);
- che, allo stesso modo, dai verbali di sopralluogo del
servizio veterinario della ASL e del locale Comando di
Polizia Municipale (parimenti richiamati nell’ambito del
provvedimento in data 21.05.2015) non emerge la presenza dei
“gravi pericoli che minacciano l'incolumità pubblica e la
sicurezza urbana (…)” di cui al richiamato articolo 54;
- che le richiamate, eccezionali condizioni legittimanti
neppure possono dirsi sussistenti sulla base della
segnalazione in data 19.07.2014 (con la quale si lamentava
la presenza di uno sciame d’api nel giardino dell’abitazione
di una vicina, distante circa 15 metri dall’allevamento in
questione e che avrebbe provocato “grave disagio ai
residenti in quanto impediva effettivamente l’utilizzo
dell’area esterna all’abitazione”). Si tratta di uno
stato di fatto che, per quanto foriero di indubbi fastidi e
disappunti, non legittima l’attivazione di un potere
dichiaratamente eccezionale e il cui esercizio non può
essere plasmato al fine di dirimere questioni che possono –e
debbono- essere affrontate con strumenti giuridici di
carattere ordinario;
- che, infine, non può legittimare l’attivazione di un
potere sostanzialmente extra ordinem il contenuto
della relazione del Servizio veterinario, da cui emerge che
“le api soprattutto nel periodo estivo attratte
dall’acqua stazionano in gran numero nei giardini dei vicini
per abbeverarsi”.
2.2.3. Si tratta di un complesso di circostanze che, pur
complessivamente intese, non palesa l’esistenza di una
situazione contingibile, tale da giustificare l’adozione di
un intervento d’urgenza, né la sussistenza di un grave e
imminente pericolo per la pubblica incolumità, tale da
giustificare l’adozione dei più volte richiamati poteri, di
carattere eccezionale e derogatorio.
3. Per le ragioni dinanzi esposte l’appello in epigrafe deve
essere accolto e conseguentemente, in riforma della sentenza
impugnata, deve essere disposto l’annullamento del
provvedimento impugnato in primo grado, fatti salvi gli
ulteriori provvedimenti dell’amministrazione appellata. |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
Il regolamento detta legge sul «decoro architettonico».
Opere vietate anche se conformi alle norme urbanistiche.
Regole comuni. Può essere imposto il rispetto delle linee
estetiche dell’edificio.
Il regolamento di
condominio «contrattuale» (predisposto dal costruttore o
dall’originario unico proprietario e allegato ai singoli
atti di acquisto), al pari di quello adottato in assemblea
con il voto favorevole di tutti partecipanti al condominio,
può anche derogare alla disciplina imposta per legge, sia
con riferimento ai beni comuni che alla proprietà privata
dei singoli condòmini.
Quindi, secondo la Cassazione, un regolamento di condominio
ben può dare una interpretazione più restrittiva del
concetto di decoro architettonico, per come delineato
dall’ultimo comma dell’articolo 1120 del Codice civile, per
cui «sono vietate le innovazioni che possano recare
pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato,
che ne alterino il decoro architettonico o che rendano
talune parti comuni dell’edificio inservibili all’uso o al
godimento anche di un solo condomino».
Pertanto, risulta
legittima la clausola del regolamento contrattuale di
condominio che imponga il mantenimento delle linee estetiche
e della regolarità dell’immobile, per come originariamente
edificato.
La vicenda
Tanto ha stabilito la II Sez. civile della Corte di
Cassazione, nella
sentenza 18.05.2016
n. 10272, in una controversia che vedeva contrapposto
un condòmino il quale chiedeva la rimozione di un piccolo
vano realizzato dal proprio dirimpettaio, all’interno della
sua proprietà, data la contrarietà dell’opera al vigente
regolamento condominiale.
Sia la Corte d’Appello di Napoli che la Suprema Corte, con
la citata sentenza, confermavano la decisione con la quale
era stato disposto il rispristino dello stato dei luoghi,
con la rimozione dell’opera realizzata in violazione alle
norme regolamentari.
La pronuncia
Ma la Cassazione ha rilevato come: «il regolamento del
condominio abbia inteso limitare le innovazioni anche oltre
la previsione di cui all’articolo 1120 del Codice civile
avendo subordinato all’autorizzazione dell’assemblea ogni
lavoro che interessasse “comunque” la stabilità, l’estetica
e l’uniformità esteriore dei singoli fabbricati. La clausola
in questione, che prescinde da una vera e propria
alterazione del decoro architettonico, vieta ai condòmini,
in assenza di autorizzazione assembleare, qualsiasi lavoro
che interessi “comunque”, oltre all’estetica, anche
l’uniformità esteriore dei singoli fabbricati».
Peraltro, sottolinea la Corte di Cassazione, bene ha fatto
il giudice di merito ad esprimere in sentenza il proprio
dissenso rispetto alle conclusioni a cui era pervenuto il
consulente tecnico nominato da Tribunale, al quale peraltro
è fatto divieto di esprimere valutazioni riservate al
Giudice (articolo Il Sole 24 Ore del
24.05.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
SEGRETARI COMUNALI:
Diritti di rogito a segretari assimilati a
dirigenti. Se preposti a sedi di
comuni privi di dirigenza. Lo dice il Tribunale di Milano.
Ai segretari comunali assimilati ai dirigenti spettano i
diritti di rogito se siano preposti a sedi di segreteria di
comuni privi di dirigenti.
La
sentenza 18.05.2016 n. 1539
del TRIBUNALE di Milano, in sede di giudice del lavoro,
interpreta in maniera assolutamente tranciante la questione
connessa alla percezione dei diritti di rogito, ponendosi in
contrasto apertissimo con le indicazioni della Corte dei
conti.
La sentenza del tribunale non dà spazio a dubbi.
L'articolo 10, comma 2-bis, del dl 90/2014, convertito in
legge 114/2014 dispone che: «Negli enti locali privi di
dipendenti con qualifica dirigenziale, e comunque a tutti i
segretari comunali che non hanno qualifica dirigenziale, una
quota del provento annuale spettante al comune ai sensi
dell'art. 30, secondo comma, della legge 15.11.1973,
n. 734, come sostituito dal comma 2 del presente articolo,
per gli atti di cui ai numeri 1, 2, 3, 4 e 5 della tabella D
allegata alla legge 08.06.1962, n. 604, e successive
modificazioni, è attribuita al segretario comunale rogante,
un quinto dello stipendio in godimento».
La disposizione, a parere del tribunale «sembra chiara
nell'individuare, quali destinatari del beneficio di cui
all'art. 30 legge n. 734/1973, due categorie di segretari
comunali, ovvero: quelli che operano presso enti locali
privi di dirigenti con qualifica dirigenziale e quelli che
non hanno qualifica dirigenziale».
Secondo la sentenza vi è
una razionale scelta alla base della chiave di lettura
proposta, fondata su due elementi. Il primo discende dal
fine della norma, la quale riconosce i diritti di rogito ai
segretari di fascia C (non assimilabili ai dirigenti) per
sopperire «una situazione stipendiale che, rispetto ai
colleghi appartenenti alle altre due categorie, è meno
favorevole e garantista»; ma riconosce la percezione dei
diritti di rogito anche ai segretari delle fasce B e A
quando «i medesimi operano all'interno di un ente in cui non
vi sono dipendenti con funzioni dirigenziali».
In secondo
luogo, il tribunale, sulla base della propria connotazione
di giudice del lavoro, non può fare a meno di constatare
che, inoltre, l'articolo 10, comma 2-bis, del dl 90/2014
«risulta perfettamente aderente al disposto dell'art. 37 Ccnl dei segretari comunali che, nel novero inserisce anche
i diritti di segreteria». Osservazione, questa, che da sola
potrebbe considerarsi dirimente, anche alla luce
dell'articolo 36 della Costituzione.
Il contenuto più rilevante e, al contempo, delicato della
pronuncia del tribunale, però, sta nella critica molto forte
alle opposte interpretazioni fornite, in particolare dalla
Corte dei conti, Sezione Autonomie, col parere 24.06.2015, n. 21.
Secondo tale delibera, il diritto di rogito
competa esclusivamente ai segretari di comuni di piccole
dimensioni collocati in fascia C, ma non spetta ai segretari
che godono di equiparazione alla dirigenza, sia essa
assicurata dalla appartenenza alle fasce A e B o un effetto
del galleggiamento in ipotesi di titolarità di enti locali
privi di dipendenti con qualifica dirigenziale, anche perché
l'articolo 10-bis è da considerare come norma posta alla
salvaguardia della finanza pubblica e volta a ridurre i casi
di deroga al principio di onnicomprensività della
retribuzione dei dipendenti pubblici.
Il tribunale di Milano rigetta totalmente la visione
proposta dalla magistratura contabile, perché se da un lato
è vero che la norma ha lo scopo di meglio amministrare la
spesa pubblica, tuttavia l'interpretazione data dalla
Sezione Autonomie «nell'intento di salvaguardare beni pur
meritevoli di tutela, finisce per restringere il campo di
applicazione della norma compiendo un'operazione di
chirurgia giuridica non consentito nemmeno in nome della res
pubblica».
Sicché, il tribunale conclude: «La letterale
applicazione della norma che, nella sua chiarezza non
necessita di alcuna interpretazione», tanto da portarlo a
decidere per la spettanza dei diritti di rogito al
segretario di fascia A o B che operi in sedi privi di
dirigenti. La sentenza mette infine in ulteriore luce un
problema di sistema: l'influenza dei pareri della Corte dei
conti (ma anche di soggetti come Aran, Ispettorato del Mef e
Dipartimenti dei ministeri in sede di pareri interpretativi)
nell'ambito della gestione del personale
(articolo ItaliaOggi del
24.05.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI: L’interesse pubblico alla notizia «vince» sulla privacy.
Cedu. La libertà di stampa prevale.
Il diritto alla reputazione cede il passo alla libertà di
stampa se la notizia pubblicata è vera e di interesse
generale. E questo anche quando l’articolo ha al centro lo
stato di salute di una persona, dipendente pubblico che ha
meno tutele in materia di privacy rispetto a un privato
cittadino.
È la Corte europea
dei diritti dell’uomo a stabilirlo, con la sentenza 17.05.2016 nel caso Fürst-Pfeifer contro
Austria (ricorsi n. 33677/2010 e n. 52340/2010) con la quale
Strasburgo ha dato ragione ai giornalisti, rigettando il
ricorso di una donna che contestava all’Austria di non aver
salvaguardato il suo diritto al rispetto della vita privata
assicurato dall’articolo 8 della Convenzione europea.
La donna, che era una psichiatra impegnata in diversi
procedimenti per la custodia di minori e nominata
dall’autorità giudiziaria come esperto in casi relativi a
maltrattamenti di bambini, era stata al centro di un
articolo pubblicato su un giornale online e su una
newsletter cartacea edita da una società austriaca.
Nell’articolo si richiamava l’attenzione sulla circostanza
che la donna aveva sofferto di attacchi di panico, sbalzi di
umore, allucinazioni e pensieri suicidi.
La donna aveva agito contro l’editore che, in primo grado,
era stato condannato a pagare 5mila euro. Un verdetto
ribaltato in appello. I giudici nazionali, anche della
cassazione, infatti, avevano considerato preminente la
circostanza che l’articolo conteneva fatti veri ed era ben
bilanciato perché si dava atto che la donna non aveva mai
ricevuto contestazioni nell’esercizio della sua attività
professionale.
Una conclusione condivisa da Strasburgo, che ha bocciato il
ricorso della donna. È vero –osserva la Corte– che il
diritto alla reputazione è un diritto indipendente garantito
dall’articolo 8 della Convenzione e che la salute è un
elemento essenziale della vita privata, ma questi diritti
devono essere bilanciati con quello della collettività a
ricevere informazioni di interesse generale.
Nel valutare il comportamento dell’editore, la Corte non ha
dubbi sul fatto che l’articolo riguardava una questione di
interesse per la collettività e non serviva certo ad
appagare la curiosità del pubblico. È evidente –osservano i
giudici internazionali– che è interesse di tutti sapere se
un esperto ha i requisiti psicologici per essere chiamato a
svolgere una consulenza, nominato dai tribunali interni.
È vero, poi, che non si trattava di un politico, nei
confronti dei quali il perimetro di tutela della privacy è
molto limitato. Ma, se un funzionario pubblico agisce nella
sua qualità professionale, in quest’ambito può essere
sottoposto a uno scrutinio più ampio rispetto a quello
ordinariamente applicabile a un normale cittadino. Giusto,
quindi, negare il risarcimento alla donna e privilegiare la
libertà di stampa (articolo Il Sole 24 Ore del
25.05.2016). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO - SICUREZZA LAVORO: Donna
muore cadendo da Forte Belvedere: omicidio colposo per il
Sindaco.
Pronunciandosi su un ricorso contro una sentenza con cui la
Corte d’appello aveva confermato la condanna nei confronti
di un Sindaco e di un dirigente comunale ritenuti
responsabili della morte di una ragazza per essere precipita
nel vuoto da un monumento pubblico non adeguatamente
protetto dai rischi di caduta dall’altro, la Corte di
Cassazione -nel respingere la tesi difensiva secondo cui il
sindaco non avrebbe un onere di verifica e controllo degli
organi tecnici e di gestione, se non quando gli vengano
indicate situazioni di concreto e specifico pericolo per
l'incolumità pubblica- ha invece affermato il principio
secondo cui la distinzione operata dall'art. 107 del Testo
unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali fra i
poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo,
demandati agli organi di governo, e i compiti di gestione
attribuiti ai dirigenti, non esclude il dovere di
attivazione del sindaco allorché gli siano note situazioni,
non derivanti da contingenti ed occasionali emergenze
tecnico-operative, che pongano in pericolo la sicurezza
delle persone (pre-massima tratta dalla newsletter
02.06.2016 Studio Legale News).
La distinzione operata dall’art. 107 del
Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali
fra i poteri di indirizzo e di controllo
politico-amministrativo, demandati agli organi di governo, e
i compiti di gestione attribuiti ai dirigenti, non esclude
il dovere di attivazione del sindaco allorché gli siano note
situazioni, non derivanti da contingenti ed occasionali
emergenze tecnico-operative, che pongano in pericolo la
sicurezza delle persone.
---------------
6. Ciò premesso, è necessario verificare se la sentenza
impugnata ha colto nel segno laddove ha riconosciuto in capo
agli imputati la sussistenza di una posizione di garanzia e,
quindi, di un obbligo di gestione del rischio.
Infondate sul punto sono le censure proposte.
Con riferimento al Sindaco Do., la norma di
riferimento è l'art. 50 del Testo Unico degli Enti Locali
che definisce il primo cittadino come organo responsabile
dell'amministrazione del Comune.
Sebbene la disposizione faccia esplicito riferimento alla
delimitazione dei poteri del sindaco con quanto previsto
dall'articolo 107 (Funzioni e responsabilità dei dirigenti)
e quindi ad una distinzione tra poteri di indirizzo e poteri
di concreta gestione, ciò non esclude che il primo cittadino
debba svolgere un ruolo di controllo sull'operato dei suoi
dirigenti.
Di ciò vi è riscontro nello Statuto del Comune di Firenze,
ove all'art. 34, lett. h), è previsto che il Sindaco possa
chiedere al Segretario generale "....qualora ritenga che
atti di competenza dei dirigenti siano illegittimi, o al
Direttore generale qualora ritenga che siano in contrasto
con gli obiettivi e gli indirizzi degli organi elettivi e
comunque non corrispondenti agli interessi del Comune, di
provvedere alla sospensione, all'annullamento o alla revoca
degli atti medesimi. In questi casi, quando occorra, i
relativi procedimenti sono evocati dal Segretario generale o
dal Direttore generale, o da loro rimessi ad altri dirigenti
con specifiche istruzioni".
Tale disposizione codifica un potere di controllo e
sostitutivo del Sindaco che ratifica in suo capo la presenza
di un obbligo di vigilanza sugli organi di concreta
gestione.
Peraltro tale potere-dovere trova riconoscimento nella
giurisprudenza di questa Suprema Corte, laddove è stato
affermato, sebbene in tema di reati ambientali, che "La
distinzione operata dall'art. 107 del Testo unico delle
leggi sull'ordinamento degli enti locali fra i poteri di
indirizzo e di controllo politico-amministrativo, demandati
agli organi di governo, e i compiti di gestione attribuiti
ai dirigenti, non esclude, in materia di rifiuti, il dovere
di attivazione del sindaco allorché gli siano note
situazioni, non derivanti da contingenti ed occasionali
emergenze tecnico-operative, che pongano in pericolo la
salute delle persone o l'integrità dell'ambiente"
(Sez. 3, n. 37544 del 27/06/2013, Rv. 256638).
Consegue da quanto detto che, correttamente, la corte di
merito ha ritenuto la presenza di una posizione di garanzia
in capo al Sindaco, in quanto nonostante questi fosse
consapevole della pericolosità del Forte (di ciò si
discorrerà diffusamente in prosieguo), aveva omesso di
attivarsi, esercitando i suoi poteri di vigilanza e
sostitutivi, per la eliminazione dei pericoli ed anzi aveva
firmato la delibera che consentiva l'utilizzo degli spazi
esterni del Forte.
Con riferimento all'imputato Gh., dirigente della sezione
Cultura del Comune, va anche per tale imputato rammentata la
giurisprudenza di questa Corte secondo cui
i dirigenti comunali possono essere titolari di posizioni di
garanzia nello svolgimento dei compiti di gestione
amministrativa a loro devoluti, ferma restando in capo al
Sindaco poteri di sorveglianza e controllo
(Sez. 4, n. 22341 del 21/04/2011, Rv. 250720).
La corte di merito, riformando sul punto la sentenza di
primo grado, che aveva assolto il Gh., ha riconosciuto in
suo capo una posizione di garanzia in quanto, benché
consapevole della pericolosità strutturale del Forte, aveva
firmato le convenzioni per l'utilizzo della struttura con la
Cooperativa "Ar..." (il 02.07.2008) e con la ditta "Gi.Ar.Mo.
e Mu." (il 09.07.2008).
Trova in tale affermazione risposta la doglianza difensiva,
laddove viene censurata la genericità del capo di
imputazione che non indica chiaramente se la condotta del Gh.
sia stata omissiva o commissiva. Infatti ciò che gli viene
addebitato è un comportamento positivo (la firma delle
convenzioni allegate alla delibera), connotato da profili di
colpa omissiva laddove prima di dar via libera all'utilizzo
del Forte non aveva controllato, violando regole di
diligenza, la sicurezza della struttura.
La correttezza della contestazione e l'assenza di violazione
del principio di correlazione, trova riscontro nella
giurisprudenza di questa Corte, laddove è stato affermato
che in tema di reati colposi, quando
l'agente non viola un comando, omettendo cioè di attivarsi
quando il suo intervento era necessario, bensì trasgredisce
ad un divieto, agendo quindi in maniera difforme dal
comportamento impostogli dalla regola cautelare, la condotta
assume natura commissiva e non omissiva
(cfr. Sez. 4, n. 26020 del 29/04/2009, Cipiccia, Rv.
243931).
In particolare, come rilevato dal giudice di merito, nella
convenzione con la "Ar.Mo. e Mu." il Gh., nella sua qualità,
impone in convenzione al concessionario, tra l'altro, di
svolgere un controllo sui visitatori per salvaguardare la
loro sicurezza. Con ciò ha manifestato la consapevolezza del
rischio ed il suo intendimento di prenderlo in carico e di
gestirlo.
Pertanto la omissione dei dovuti controlli sulla sicurezza
del Forte integra la violazione dei regole cautelari che
hanno connotato di negligenza la firma delle convenzioni.
Con riferimento all'imputata Bi., responsabile della
Cooperativa "Ar..." beneficiaria della convenzione del
02.07.2008 che le consentiva di organizzare eventi nell'area
del Forte, essa è il soggetto con maggiore prossimità al
rischio connesso all'accesso del pubblico e quindi
certamente titolare di una posizione di garanzia tesa ad
evitare il concretizzarsi di eventi di danno.
Nella convenzione, come ricordato dal giudice di merito, vi
è l'obbligo della verifica congiunta (Comune e Cooperativa)
della agibilità al pubblico della struttura. Inoltre la
Cooperativa aveva esplicitamente assunto l'obbligo del
rispetto delle norme sulla incolumità pubblica e di tutela
della sicurezza dei partecipanti agli eventi (Corte di
Cassazione, Sez. IV,
sentenza
13.05.2016 n. 20050). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Dal legale consiglio ponderato. Responsabile chi
suggerisce azioni inutilmente gravose.
Sentenza della Corte di cassazione ricostruisce il
perimetro del dovere di dissuasione.
Responsabilità professionale dell'avvocato per violazione
del dovere di dissuasione: il professionista, oltre ai
doveri di probità, dignità e decoro; di lealtà e
correttezza; di diligenza, ha anche l'obbligo di non
consigliare azioni inutilmente gravose e di informare il
cliente sulle caratteristiche e sulle possibili soluzioni
della controversia. Non può, quindi, promuovere una causa
totalmente priva di fondamento a meno che non dimostri
un'irremovibile iniziativa del proprio assistito.
Lo ha ricordato la Corte di Cassazione (Sez. VI civile -
sentenza 12.05.2016 n. n. 9695), intervenendo sul
ricorso di un legale che, nei tre motivi di censura, aveva
lamentato soprattutto la mancata ammissione da parte del
collegio giudicante di merito delle prove testimoniali,
volte a dimostrare, a suo avviso, che la scelta di
promuovere la causa era stata la conseguenza di un «consenso
consapevole».
Di diverso avviso sono stati gli Ermellini, i quali, nel
richiamarsi ad alcuni precedenti giurisprudenziali conformi
sul punto (come Cass. nn. 24544/2009 e 6782/2015), hanno
affermato che «anche a voler ammettere che l'avvocato possa
patrocinare una “causa persa” a fronte di una “irremovibile
iniziativa del cliente”, era palese come nel caso di specie
non vi fosse stata alcuna iniziativa “per la proposizione
della domanda completamente priva di fondamento”»: il
legale, in realtà, non aveva tenuto conto del fatto che la
corte aveva ritenuto necessaria una prova «ben diversa» da
quella dallo stesso prodotta, dal momento che avrebbe dovuto
dimostrare «di aver adempiuto il proprio dovere di
dissuasione e che la causa era stata introdotta a seguito
della “irremovibile iniziativa”» della propria cliente.
Le
censure mosse dal ricorrente risultavano dunque del tutto «inconferenti»
rispetto alla ratio della decisione: doveva ritenersi
«“completamente implausibile”» che la causa patrocinata
fosse stata introdotta su sollecitazione e nella
consapevolezza, da parte dell'assistita, della sua
infondatezza.
I giudici della VI-3 sezione civile della
Suprema corte hanno quindi rigettato il ricorso e condannato
la parte ricorrente a rifondere le spese di lite, oltre al
rimborso di spese e accessori come per legge
(articolo ItaliaOggi Sette del
23.05.2016). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Il Comune di Asti dice no alla gdo. E il Tar da
l'ok.
Il Comune di Asti dice basta alla grande distribuzione ed il
Tar Piemonte gli dà ragione, respingendo la tesi della
società che ha ritenuto la decisione dell'ente locale lesiva
dei principi di liberalizzazione.
Relativamente alla questione posta il TAR - Sez. II, con la
sentenza
06.05.2016 n. 612, ha affermato che la tutela della
concorrenza, alla luce dell'evoluzione normativa statale e
regionale, non è più un valore assoluto, ma deve essere
perseguita assicurando nel contempo l'equilibrato sviluppo
sul territorio delle diverse tipologie di commercio, in modo
da migliorare l'efficienza del sistema e la qualità del
servizio complessivo reso al consumatore.
E, pertanto, in questo contesto, è legittima la decisione
del Comune di Asti di contenere lo sviluppo delle grandi
strutture di vendita, nella misura in cui l'obiettivo del
sostegno al piccolo commercio viene direttamente correlato
all'esigenza di rivitalizzare il centro storico cittadino e
la sua rete commerciale, entrambi penalizzati sia dalla
crisi economica sia dalla concorrenza della grande
distribuzione.
In sostanza, assicurando la presenza dei piccoli esercizi «nelle
vie e nelle piazze della città, riconvertendo gli immobili
dismessi, senza con ciò tuttavia trascurare la grande
distribuzione, ma cercando di sviluppare forme di commercio
innovative che non cannibalizzino l'offerta esistente ma
siano a questa complementari, fungendo da attrattori di
clientela non solo locale, attraverso un rilancio
dell'immagine cittadina»
(articolo ItaliaOggi del
24.05.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Le ferie non godute sono perse in caso di
dimissioni Sì alla monetizzazione invece per cause di
servizio o malattia. La sentenza
della consulta mette fine alle diverse interpretazioni dei
tribunali di merito.
I docenti e il personale educativo, amministrativo, tecnico
ed ausiliario sono obbligati a fruire del periodo di ferie,
compatibilmente con le esigenze di servizio, nel corso
dell'anno scolastico e nei tempi e con le modalità stabiliti
dal contratto scuola sottoscritto il 29.11.2007. La
non fruizione delle ferie nel corso dell'anno scolastico in
corso, o eccezionalmente in quello successivo, non darà
luogo alla corresponsione di trattamenti economici
sostitutivi solo se dovuta alla cessazione del rapporto di
lavoro per mobilità, per dimissioni, per risoluzione
volontaria o di autorità del rapporto di lavoro, a
pensionamento e raggiungimento dei limiti di età. Diverso
invece il caso del mancato godimento per malattia o per
altra causa non imputabile al personale (ad esempio:
esigenze di servizio o maternità): le ferie non fatte vanno
pagate.
È quanto si deduce dall'esame di una recentissima
sentenza
06.05.2016 n. 95 dei giudici della Corte Costituzionale, presidente Giorgio Lattanzi, sentenza con
la quale i giudici della Consulta hanno dichiarata non
fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art.
5, comma 8, del decreto legge 95/2012 sollevata dal
tribunale ordinario di Roma in funzione di giudice del
lavoro.
Il predetto comma 8 dispone tra l'altro che «le ferie, i
riposi ed i permessi spettanti al personale delle
amministrazioni pubbliche (ivi compreso quello scolastico,
che è il più corposo della pa, ndr), sono obbligatoriamente
fruiti secondo quanto previsto dai rispettivi ordinamenti e
non danno luogo in nessun caso alla corresponsione di
trattamenti economici sostitutivi. La presente disposizione
si applica anche in caso di cessazione del rapporto di
lavoro per mobilità, dimissioni, risoluzione, pensionamento
e raggiungimento dei limiti di età».
Nel sollevare la questione di legittimità costituzionale il
tribunale di Roma aveva ravvisato nelle disposizioni
contenute nel comma 8 una lesione del diritto irrinunciabile
alle ferie, diritto che impone, per un verso, di retribuire
il lavoro prestato in misura superiore a quanto stabilito
dal contratto e, per altro verso, di compensare il mancato
godimento delle ferie per causa non imputabile al
lavoratore.
Manifestamente irragionevole e comunque in
contrasto con la direttiva n. 2003/88/CE sarebbe inoltre, ad
avviso di quel tribunale, l'assetto delineato dalla norma
impugnata, nella misura in cui precluderebbe ogni
valutazione circa l'imputabilità del mancato godimento delle
ferie e ciò anche quando il mancato godimento non sia
riconducibile alla volontà del lavoratore.
I giudici della Consulta non hanno invece condiviso le tesi
sostenute dal tribunale di Roma. Non hanno condiviso, in
particolare, il presupposto interpretativo secondo cui il
divieto di corrispondere trattamenti economici sostitutivi
delle ferie non godute si applichi anche quando il
lavoratore non abbia potuto godere delle ferie per malattia
o per altra causa non imputabile. Un presupposto
interpretativo erroneo stante il dato letterale della norma
e la ratio che ha ispirato l'intervento riformatore.
Quanto al dato letterale, si legge tra l'altro nella
sentenza, non è senza significato che il legislatore abbia
correlato il divieto di corrispondere trattamenti
sostitutivi a fattispecie in cui la cessazione del rapporto
di lavoro sia riconducibile a una scelta o a un
comportamento del lavoratore. Anche il dato testuale, se
legga ancora nella sentenza, è coerente con le finalità
della disciplina restrittiva che si prefigge di reprimere il
ricorso incontrollato alla «monetizzazione» delle ferie non
godute.
Effetto immediato derivante dalla dichiarazione di
infondatezza della questione di legittimità costituzionale
dell'art. 5, comma 8, del decreto legge 06.07.2012, n. 95 è
certamente quello di spazzare via tutte quelle sentenze
emesse dei giudici ordinari –ultima in ordine di tempo a
nostra conoscenza, quella del tribunale di Reggio Calabria
del 14.01.2016– che in sostanza riconoscevano la possibilità
di monetizzare in ogni caso i periodi di ferie non goduti
(articolo ItaliaOggi del
31.05.2016). |
APPALTI:
Autotutela anche dopo annullamento.
Sentenza Cds.
L'annullamento dell'aggiudicazione di un'opera strategica
non preclude alla Stazione appaltante di intervenire in
autotutela anche sul contratto già stipulato.
Lo ha deciso il Consiglio di Stato -Sez. IV- con la
sentenza 05.05.2016 n. 1798.
I giudici d'appello hanno preso di petto l'art. 125, comma 3,
del codice del processo amministrativo, che incarna lo snodo
interpretativo dell'intera vicenda. La disposizione
disciplina i poteri del giudice amministrativo con
riferimento alle controversie delle infrastrutture
strategiche.
Nel caso di intervenuta stipulazione del
contratto, la norma, che è speciale, preclude all'organo
giudicante ogni declaratoria giudiziale d'inefficacia e ogni
eventuale subentro nel contratto, e con la limitazione delle
relative statuizioni alla sola condanna al risarcimento del
danno in forma equivalente. Il Consesso amministrativo
puntualizza che ciò però non riguarda la Pubblica
amministrazione.
Infatti, secondo il ragionamento esposto
nella decisione, «la disposizione processuale è posta a
tutela della stessa Amministrazione e del suo interesse alla
più sollecita esecuzione delle infrastrutture strategiche»,
e quindi non può privare quest'ultima della disponibilità
dei suoi poteri amministrativi, dei quali una delle
possibili forme è appunto l'autotutela.
Palazzo Spada
conclude affermando che l'annullamento in via di autotutela
del provvedimento di aggiudicazione (il quale presuppone una
compiuta comparazione degli interessi pubblici sottesi) non
integra alcuna ipotesi di risoluzione unilaterale e autoritativa, bensì la caducazione
automatica del contratto per carenza di un presupposto
essenziale, quale appunto l'aggiudicazione, ponendosi come
effetto del tutto diretto e consequenziale che non integra
una incisione unilaterale del rapporto negoziale per vicende
a esso attinenti da assoggettare al sindacato del giudice
ordinario
(articolo ItaliaOggi Sette del
30.05.2016). |
ESPROPRIAZIONE: Esproprio nullo? Danni dalla Pa. L’ok al piano di
lottizzazione non incide sul diritto di proprietà.
Tribunale di Roma. La dichiarazione di pubblica utilità non
basta per perfezionare la procedura.
Costituisce illecito di diritto comune la trasformazione
di un fondo quando il decreto di espropriazione non è stato
emesso o è stato annullato. In questi casi, la Pubblica
amministrazione non diventa proprietaria del bene ed è
tenuta a risarcire i danni causati al proprietario.
Lo afferma il
TRIBUNALE di Roma (giudice Carmen Bifano) nella sentenza
05.05.2016.
I fatti risalgono al 2009, quando il Comune convenuto aveva
trasformato in parcheggio una parte di terreno dell’attrice.
Quest’ultima ha domandato il risarcimento dei danni, stimati
in 47mila euro. Dal canto suo, l’ente locale ha chiesto il
rigetto dell’istanza, dichiarandosi estraneo ai fatti di
causa.
Nell’accogliere la domanda, il Tribunale afferma,
innanzitutto, che l’attrice ha dimostrato che l’area in
questione è stata trasformata in parcheggio aperto al
pubblico. Così come ha provato che le opere sono
«riconducibili alla condotta materiale del Comune»
convenuto: l’ente, infatti, aveva pagato le fatture emesse
dall’impresa esecutrice dei lavori e non aveva allegato un
provvedimento che legittimasse il proprio operato.
Il
Tribunale ricorda quindi che, in mancanza di un decreto di
esproprio, la creazione del parcheggio non aveva trasformato
il diritto soggettivo della proprietaria in interesse
legittimo. Infatti, prosegue la motivazione, richiamando la
sentenza 21579/2011 della Corte suprema, la sola
approvazione del piano di lottizzazione (che equivale a
dichiarazione di pubblica utilità) non determina la perdita
del diritto di proprietà e dunque non comporta
l’affievolimento del diritto soggettivo del privato.
Il giudice capitolino cita quindi la sentenza 735/2015 delle
Sezioni unite della Cassazione, chiamate a pronunciarsi
sulle «implicazioni applicative delle molteplici pronunce
della Cedu»; pronunce che hanno affermato l’incompatibilità
dell’istituto dell’occupazione appropriativa (creato dalla
giurisprudenza) con il sistema giuridico europeo, e in
particolare con la tutela del diritto di proprietà e il
principio di legalità riconosciuti da quell'ordinamento.
Secondo il giudice di legittimità, quando il decreto di
espropriazione non è stato emesso o è stato annullato,
«l'occupazione e la manipolazione del bene immobile di un
privato da parte dell’amministrazione si configurano,
indipendentemente dalla sussistenza o meno di una
dichiarazione di pubblica utilità, come un illecito di
diritto comune»; illecito che comporta non il trasferimento
della proprietà alla Pubblica amministrazione, ma la
responsabilità della stessa per i danni.
In questi casi,
l’amministrazione realizza un illecito permanente, che cessa
solo per restituzione, transazione o usucapione
dell’occupante che ha effettuato la trasformazione del
fondo; oppure per rinuncia del proprietario al suo diritto,
«implicita nella richiesta di risarcimento dei danni per
equivalente». E «tale rinuncia ha carattere abdicativo e non
traslativo», sicché da essa «non consegue, quale effetto
automatico, l'acquisto della proprietà del fondo da parte
dell'amministrazione».
Così il Tribunale liquida in 37mila euro il danno
patrimoniale subìto dall’attrice per la trasformazione del
suo fondo; riconosce quindi il risarcimento di tremila euro
per l’ingiusta lesione dell’interesse della proprietaria «a
un'esistenza pacifica e libera da indebite aggressioni» (articolo Il Sole 24 Ore del
26.05.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
L'avviso in fotocopia non prova la notifica.
In tema di notificazione della cartella di pagamento per
mezzo del servizio postale, soltanto l'avviso di ricevimento
prodotto in originale è documento idoneo a comprovare
l'avvenuta notifica, quando il contribuente abbia
espressamente contestato la conformità del documento
prodotto in fotocopia e la eventuale sottoscrizione apposta.
Lo afferma la Corte di Cassazione, Sez. V civile, nella
sentenza 04.05.2016 n. 8861, con cui è stata
cassata una sentenza della Ctr di Venezia e accolto il
ricorso introduttivo proposto dal contribuente. La vertenza
nasce dall'impugnazione di cinque cartelle di pagamento,
conosciute attraverso la successiva iscrizione ipotecaria:
il contribuente, infatti, lamentava di non aver mai ricevuto
la notifica delle cartelle pregresse.
La resistente Equitalia depositava in giudizio copie
fotostatiche degli avvisi di ricevimento, comprovanti la
notifica a mezzo posta delle cartelle in questione. Dette
copie venivano contestate dalla ricorrente, che ne metteva
in dubbio la conformità e l'effettiva rispondenza agli
originali dei documenti rappresentati. Il primo grado
annullava le cartelle. La Ctr di Venezia, invece, con la
sentenza poi oggetto del ricorso per cassazione, accoglieva
l'appello di Equitalia, ritenendo che la notificazione delle
cartelle dovesse ritenersi provata sulla base delle copie
degli avvisi di ricevimento depositati nel fascicolo
processuale.
La Cassazione ha ribaltato l'esito del giudizio e, non
ritenendo necessari ulteriori accertamenti di merito, ha
disposto l'accoglimento del ricorso introduttivo, con
conseguente annullamento delle impugnate cartelle
esattoriali. Nella fattispecie, spiega Piazza Cavour,
«risulta accertato dalla Ctr che il piego era stato
notificato e che la notifica risultava effettuata
regolarmente, tuttavia sulla base di prova documentale in
fotocopia la cui conformità all'originale era stata
disconosciuta».
L'onere di provare la notifica, infatti, può
ritenersi adempiuto col deposito degli avvisi di ricevimento
prodotti in copia, soltanto se il contribuente non abbia
contestato la conformità di dette copie agli originali: in
tal caso, spetta all'esattore reperire ed esibire i
documenti in originale, senza i quali la notifica non può
ritenersi validamente provata.
All'accoglimento del ricorso del contribuente, la Cassazione
ha fatto seguire la condanna alle spese per
l'amministrazione, limitatamente a quelle relative al grado
di legittimità, disponendo al contempo l'integrale
compensazione delle spese dei gradi di merito, stante
l'evolversi alterno della vicenda processuale.
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] Il ricorso è fondato e deve essere accolto in
ordine ai primi due motivi assorbito il terzo. Infatti,
secondo questa Corte (sez. 5, ordinanza n. 13439 del
27/07/2012), «la produzione dell'avviso di ricevimento del
piego raccomandato contenente la copia dell'atto processuale
spedita per la notificazione a mezzo del servizio postale,
ai sensi dell'art. 149 cod. proc. civ., richiesta dalla
legge in funzione della prova dell'avvenuto può avvenire
anche mediante l'allegazione di fotocopie non autenticate,
ove manchi contestazione in proposito, poiché la regola
posta dall'art. 2719 cod. civ., per la quale le copie
fotografiche o fotostatiche hanno la stessa efficacia di
quelle autentiche, non solo se la loro conformità
all'originale è attestata dal pubblico ufficiale competente,
ma anche qualora detta conformità non sia disconosciuta
dalla controparte, con divieto per il giudice di sostituirsi
nell'attività di disconoscimento alla parte interessata,
pure se contumace - trova applicazione generalizzata per
tutti i documenti».
Nella fattispecie risulta accertato
dalla Ctr che il piego era stato notificato e che la
notifica risultava effettuata regolarmente tuttavia sulla
base di prova documentale in fotocopia la cui conformità
all'originale era stata disconosciuta.
Per quanto sopra il ricorso deve essere accolto in relazione
ai primi due motivi, assorbito il terzo. La sentenza deve
essere cassata senza rinvio e la causa può essere decisa nel
merito ex art. 384 cpc non richiedendo ulteriori
accertamenti in punto di fatto, con accoglimento del ricorso
introduttivo. Ricorrono giusti motivi per compensare fra le
parti le spese dei gradi del giudizio di merito, stante
l'evolversi della vicenda processuale, mentre le spese del
giudizio di legittimità vanno poste a carico dei contro
ricorrenti stante la soccombenza.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso in ordine ai primi due motivi,
assorbito il terzo, cassa la sentenza impugnata e decidendo
nel merito accoglie il ricorso introduttivo. Compensa le
spese dei gradi di merito e condanna la Equitalia Polis spa
e l'Agenzia delle entrate in solido al pagamento delle spese
del giudizio di legittimità in favore di ... che si
liquidano in 2.500,00 complessivamente
(articolo ItaliaOggi Sette del
23.05.2016). |
VARI: Immobili inutilizzabili, niente affitto.
Locazione. Per i giudici si applica l’articolo 1460 del
Codice civile: nulla è dovuto a chi è inadempiente
Il
conduttore non paga il canone di locazione se esso riguarda
un immobile inutilizzabile. Nell’ipotesi di mancato totale
godimento dell’immobile è lecita la sospensione del
pagamento. Anche se il motivo non attiene alle funzioni
sostanziali dell’abitare, ma alla sicurezza elettrica.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, III Sez. civile,
nella
sentenza 03.05.2016 n. 8637.
Il principio affermato dalla Cassazione è che, se il
principale obbligo del conduttore è senz’altro il versamento
del canone, di contro il locatore è tenuto a consegnare il
bene in condizioni tali da permetterne l’uso. Quando manca
totalmente la prestazione promessa (cioè l’effettiva
possibilità di utilizzare l’immobile), si verifica l’ipotesi
d’inadempimento dettata dall’articolo 1460 del Codice
civile.
La norma stabilisce che «nei contratti con
prestazioni corrispettive, ciascuno dei contraenti può
rifiutarsi di adempiere la sua obbligazione, se l’altro non
adempie o non offre di adempiere contemporaneamente la
propria, salvo che termini diversi per l’adempimento siano
stati stabiliti dalle parti o risultino dalla natura del
contratto».
La vicenda giudiziaria vedeva il proprietario di un
appartamento convenire in giudizio il proprio inquilino, a
suo dire moroso, chiedendo la risoluzione del contratto per
grave inadempimento del conduttore e la sua condanna a
pagare i canoni non corrisposti. Ma il conduttore eccepiva
l’inadempimento del locatore, per non aver potuto utilizzare
l’immobile a causa della scoperta di alcuni cavi elettrici a
profondità inferiore a quella regolamentare di almeno 50
centimetri e privi di protezione. Inoltre, l’inquilino
sosteneva, sulla scorta dell’assoluta inutilizzabilità
dell’immobile, che fosse legittima la sospensione del
pagamento, peraltro dopo varie missive al proprietario per
cercare di risolvere la problematica, rimaste senza
riscontro.
Sia il Tribunale sia la Corte d’appello di Roma accoglievano
le richieste del locatore, con la risoluzione del contratto
e la condanna del conduttore. Questi presentava ricorso per
la cassazione della sentenza, eccependo tra l’altro la
violazione e falsa applicazione dell’articolo 1460.
La Cassazione rilevava che «nel corso dell’esecuzione delle
opere, veniva scoperto il problema elettrico, la cui gravità
era tale da indurre il direttore dei lavori alla loro
immediata sospensione, attesa la grave situazione di
pericolo che si era accertata, come risultante dal relativo
verbale, ove si evidenziava il “grave pericolo con rischio
di folgorazione”, che si era creato, precisandosi poi che la
ripresa dei lavori stessi sarebbe potuta avvenire solo a
seguito di un intervento dell’Acea (l’azienda dell’energia
elettrica, ndr) volto alla rimozione dei cavidotti,
eliminando la situazione di grave pericolo in essere e
futuro».
Ciò posto, la Cassazione riteneva le ragioni del ricorrente
pienamente fondate, sulla scorta del principio più volte
affermato per cui «la sospensione del canone è pienamente
legittima in tutte le ipotesi di impossibilità totale del
godimento del bene». I giudici hanno ritenuto che «la
sospensione del pagamento del canone... deve ritenersi
legittima qualora sia conseguenza del grave inadempimento
del locatore nella consegna della cosa locata, in quanto
affetta da un vizio talmente grave da renderne impossibile
l’uso»
(articolo Il Sole 24 Ore del
24.05.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Sul rumore fa fede il regolamento anche se
restrittivo. Immissioni moleste. Tribunale di Milano.
Il rumore dovuto al disturbo dei
vicini in condominio deve cessare e comporta il risarcimento
dei danni per insonorizzazione, e anche per l’ammontare dei
canoni e degli oneri accessori che il proprietario della
casa affittata avrebbe incassato se il rapporto fosse
proseguito per la normale durata e non si fosse interrotto a
causa del disturbo.
Questo il principio
espresso dal TRIBUNALE di Milano con la
sentenza 03.05.2016 n. 5465.
La condòmina-locatrice dava atto che, nel corso del rapporto
di locazione, il conduttore al quale aveva locato
l’appartamento lamentava «diversi episodi di
intollerabile disturbo della quiete diurna e soprattutto
notturna». Venivano fatte richieste scritte ed orali di
cessazione dei rumori, anche per il tramite
dell’amministratore del condominio, senza peraltro sortire
alcun effetto concreto. Per questo il conduttore,
preannunciava alla locatrice che, in caso di ulteriore
prosecuzione delle emissioni sonore, avrebbe esercitato il
recesso dal contratto.
La proprietà aveva perciò fatto eseguire opere di
insonorizzazione sostenendone interamente i costi. Ma il
conduttore aveva esercitato lo stesso il recesso anticipato
dal rapporto, motivato col fatto che «la rumorosità dei
vicini rende intollerabile la permanenza nell’abitazione».
I vicini si difendevano sostenendo che in casa c’era una
persona con problemi di udito e deducendo «l’assoluta
mancanza di prove circa l’intollerabilità», non essendo
stato svolto alcun accertamento tecnico.
Il Tribunale di Milano osservava però che il regolamento di
condominio faceva «assoluto divieto di recare disturbo ai
vicini con rumori di qualsiasi natura e, segnatamente, dalle
ore 20,00 alle ore 8,00». Tale prescrizione, nel vietare
semplici “rumori” che rechino “disturbo”, era
ben più restrittiva di quella posta dall’articolo 844 del
Codice civile, che richiedeva la dimostrazione che le
emissioni rumorose superassero la soglia della
tollerabilità. Le risultanze processuali consentivano quindi
di ritenere senz’altro integrata la violazione della norma
regolamentare.
E in ogni caso «non vi è la necessità di ricorrere ad una
perizia fonometrica allorché il giudice, basandosi su altri
elementi probatori acquisiti agli atti, si sia formato il
convincimento (...) che vi sia stato il superamento dei
limiti di tollerabilità» (Cassazione, sentenza
3000/1997) (articolo Il Sole 24 Ore del
31.05.2016).
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MASSIMA
Tanto premesso, il regolamento fa “assoluto divieto”
ai condomini “di recare disturbo ai vicini con rumori di
qualsiasi natura e, segnatamente, dalle ore 20,00 alle ore
8,00” (art. 13: doc. 5), come allegato dall’attrice a
fondamento delle domande.
Tale prescrizione, nel vietare semplici “rumori” che
rechino “disturbo”, è ben più restrittiva di quella
posta dall’art. 844 c.c., che richiede la dimostrazione che
le emissioni rumorose superino la soglia della
tollerabilità, che è concetto ben diverso dal semplice “disturbo”.
Nel caso in esame le risultanze processuali consentono di
ritenere senz’altro integrata la violazione della norma
regolamentare: le lamentele rivolte dal conduttore
direttamente ai vicini di casa (riconosciute dai convenuti),
le corrispondenza intercorsa tra locatrice ed inquilino, il
recesso “minacciato” dal conduttore dopo pochi mesi
dall’inizio del rapporto, a causa di tali rumori, seguito
dall’effettivo esercizio del medesimo e poi dal rilascio
dell’immobile, i lavori di insonorizzazione della parete in
comune realizzati tra i due appartamenti (tutte circostanze
documentalmente provate) sono elementi che, unitariamente
valutati, depongono univocamente e concordemente nel senso
di un sicuro disturbo arrecato al conduttore dell’immobile
adiacente dai rumori prodotti dai convenuti e dai loro
familiari.
Che poi l’idoneità dei rumori a recare disturbo non
dipendesse da una “sensibilità” soggettiva del Br.,
ma fosse oggettiva è confermato dal fatto che, il nuovo
conduttore del medesimo immobile, subentrato al precedente
dal 22.12.2013, abbia indirizzato, in data 05.02.2014, una
comunicazione alla locatrice nella quale, tra l’altro, ha
lamentato del fatto che i vicini di casa avevano organizzato
una festa, il sabato precedente, dopo le ore 23,00, nel
corso della quale avevano suonato tamburi ed altri strumenti
musicali e che egli, avendo provato invano a contattarli per
chiedere di smettere, aveva dovuto chiamare la polizia.
Nella stessa missiva costui ha aggiunto che anche quella
stessa mattina del 05.02.2014, alle ore 4,00, i vicini
avevano gridato e fatto altri rumori e che, sebbene ciò
fosse durato pochi minuti, era stato tuttavia sufficiente
per svegliarli; ha chiesto che costoro fossero resi edotti
delle sue doglianze e comunque messi a conoscenza del fatto
che il muro divisorio tra i due appartamenti non era stato
realizzato con mattoni (doc. 10 dell’attrice).
Il fatto poi che il precedente conduttore abbia
successivamente locato altro immobile nel medesimo complesso
residenziale dimostra che il contesto abitativo era a lui
gradito e che non avrebbe cambiato alloggio se non perché
effettivamente costretto.
La giurisprudenza di legittimità ha sancito il principio
secondo cui, “quando l'attività posta in
essere da uno dei condomini di un edificio è idonea a
determinare il turbamento del bene della tranquillità degli
altri partecipi, tutelato espressamente da disposizioni
contrattuali del regolamento condominiale, non occorre
accertare, al fine di ritenere l'attività stessa
illegittima, se questa costituisca o meno immissione vietata
ex art. 844 c.c., in quanto le norme regolamentari di natura
contrattuale possono imporre limitazioni al godimento della
proprietà esclusiva anche maggiori di quelle stabilite
dall'indicata norma generale sulla proprietà fondiaria. Ne
consegue che, quando si invoca, a sostegno dell'obbligazione
di non fare, il rispetto di una clausola del regolamento
contrattuale che restringa poteri e facoltà dei singoli
condomini sui piani o sulle porzioni di piano in proprietà
esclusiva, il giudice è chiamato a valutare la legittimità o
meno dell'immissione, non sotto la lente dell'art. 844 c.c.,
ma esclusivamente in base al tenore delle previsioni
negoziali di quel regolamento, costitutive di un vincolo di
natura reale assimilabile ad una servitù reciproca”
(Cass. n. 1064/2011).
Vero è che, nel caso in esame, non risulta documentalmente
dimostrato che il regolamento condominiale fosse
contrattuale (l’attrice si è limitata ad allegare un
estratto del regolamento). Tuttavia Im.Ve. srl ha spiegato
le proprie difese richiamando il suddetto principio, il che
presuppone che il detto regolamento sia contrattuale. Il
comportamento dei convenuti, che non hanno preso alcuna
posizione in merito a tali fatti (disturbo arrecato ai
vicini con emissioni rumorose, in violazione dell’art. 13
del regolamento condominiale, supposto contrattuale) in
alcuna delle memorie difensive depositate in atti, consente
di ritenere che la natura contrattuale del regolamento sia
pacifica, in mancanza di specifica contestazione.
In ogni caso, l’intollerabilità delle emissioni, ai sensi
dell’art. 844 c.c., emerge dalle esposte risultanze
documentali. Secondo il consolidato orientamento
giurisprudenziale, “non vi è la
necessità di ricorrere ad una perizia fonometrica allorché
il giudice, basandosi su altri elementi probatori acquisiti
agli atti, si sia formato il convincimento, esplicitato con
motivazione indenne da vizi logici, che vi sia stato il
superamento dei limiti di tollerabilità”
(Cass. pen. Sez. I, 28.03.1997, n. 3000). Inoltre “la
durata del rumore o dello schiamazzo non ha alcuna rilevanza
ben potendo il riposo essere disturbato anche da un rumore
breve ed improvviso, quando esso sia molto elevato”
(Cass. pen. Sez. I, 08.07.1987, n. 8252).
Il limite di tollerabilità è relativo e deve essere
accertato con riferimento alle concrete circostanze del
caso, variando da luogo a luogo (Cass. n. 3438/2010). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Palla ai giudici ordinari. Sul conferimento degli
incarichi nella p.a.. Il Consiglio
di stato interviene su un caso riguardante la sanità.
Tenuto conto della vigente legislazione che qualifica come
atto emesso con i poteri del datore di lavoro privato la
scelta affidata alla discrezionalità ed alla responsabilità
del direttore generale, non può che affermarsi la
sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario in
materia di conferimento di incarichi nella p.a.
Lo hanno affermato i giudici della III Sez. del Consiglio di
stato con la
sentenza 28.04.2016 n. 1631.
I supremi giudici amministrativi hanno altresì osservato che
però nel caso in cui l'attività preparatoria si sia tradotta
in una valutazione di titoli con attribuzione di punteggi e
formazione di una graduatoria o, comunque, in una effettiva
comparazione del merito, sarà possibile ravvisare la
caratterizzazione tipica della procedura selettiva sia sul
piano procedimentale che su quello della valutazione dei
candidati, sotto il profilo della maggiore o minore idoneità
all'esercizio delle funzioni da assegnare, e pertanto, in
questo caso, anche in ossequio a un ormai consolidato
indirizzo dettato dalla giurisprudenza, sussisterà la
giurisdizione residua del giudice amministrativo prevista
dall'art. 63 comma 4, del dlgs 165/2001 (si vedano Consiglio
di stato: sez. III, n. 4658/2014, n. 3403/2014, n.
3578/2013; n. 301/2013).
Il caso del S.S.N.: per gli atti di macro-organizzazione.
Nel caso specifico posto all'attenzione del Cds, i giudici
hanno osservato che se, di regola, la cognizione degli atti
di macro-organizzazione delle pubbliche amministrazioni
rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo
diversa è la disciplina dell'attività organizzativa del
S.S.N.
Ai sensi dell'art. 3, del dlgs 502/1992, come modificato dal
dlgs 229/1999, le Usl (cui sono succedute con analoga
disciplina le aziende sanitarie) si costituiscono in aziende
con personalità giuridica pubblica e «autonomia
imprenditoriale».
Per una scelta legislativa che il giudice amministrativo non
può sindacare, la loro organizzazione e il loro
funzionamento sono disciplinati non con provvedimenti aventi
natura pubblicistica (come dovrebbe essere sulla base dei
principi sottesi all'art. 97 Cost.), ma con «atti aziendali
di diritto privato»: le aziende agiscono mediante atti che
il legislatore ha consapevolmente qualificato come «di
diritto privato».
Pertanto, osservano i giudici del Cds che: «Diversamente
da quanto avviene per le amministrazioni pubbliche in
genere, gli atti di macro-organizzazione delle aziende
sanitarie sono adottati con atti che il legislatore ha
inteso qualificare «di diritto privato», con una disciplina
che ha inteso prendere innanzitutto in considerazione il
loro carattere «imprenditoriale strumentale» (pur se si
tratta di attività nelle quali non rileva lo scopo di lucro
e nel quale sono coinvolti valori costituzionali, inerenti
allo svolgimento di un servizio pubblico, che la
Costituzione considera indefettibile)»
(articolo ItaliaOggi Sette del
30.05.2016).
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MASSIMA
6. Ritiene la Sezione che l’appello è infondato e deve
pertanto essere respinto, in quanto la controversia rientra
nella giurisdizione del giudice ordinario.
6.1. Il Collegio condivide, in linea di principio, le
conclusioni cui è giunto il TAR, che corrispondono
all’orientamento prevalente della giurisprudenza di questo
Consiglio.
6.2. Va precisato che la contestazione riguarda lo
spostamento dell’appellante dalla direzione della struttura
di Savigliano a quella della struttura di Saluzzo, vale a
dire l’effetto di un atto che l’attuale legislazione
(ritenuta conforme ai principi costituzionali dalla Corte
Costituzionale) impone di qualificare come atto di gestione
del rapporto individuale di lavoro, che certamente rientra
nella giurisdizione generale ex art. 63, comma 1, del d.lgs.
165/2001, ed esula dalla riserva di giurisdizione del
giudice amministrativo, relativa da un lato alle procedure
concorsuali finalizzate all’assunzione, dall’altro agli atti
di organizzazione.
Infatti, l’interessato:
- col ricorso introduttivo, ha impugnato le deliberazioni
della ASL Cn 1 n. 162/2015, di conferimento dell’incarico a
Saluzzo (comportante la vacanza di quello di Savigliano), e
n. 224/2015, di indizione dell’avviso pubblico, la
determinazione regionale n. 535/2015, di autorizzazione al
conferimento del relativo incarico, ed il conseguente avviso
pubblico sul B.U.R.P.;
- ha lamentato che la riconduzione della modifica del
proprio incarico (conferimento dell’incarico a Saluzzo, al
posto di quello di Savigliano) di cui alla deliberazione n.
162/2015, impugnata, all’art. 28, comma 2, del c.c.n.l. del
03.11.2005, sia errata e volta a precostituire una
situazione di fatto tale da integrare il presupposto della
vacanza del posto necessario ad ottenere l’autorizzazione
regionale alla nuova procedura selettiva, ai sensi della d.G.R. n. 36-1483 in data 25.05.2015;
- inoltre, sostenendo che il presidio di Saluzzo è meno
importante e che la sua attività istituzionale è più
precaria di quella di Savigliano, ha lamentato che dagli
atti impugnati risulta uno sviamento di potere, a scapito
della valorizzazione di professionalità già presenti nella
sua organizzazione, in contraddizione con gli obiettivi del
SSR (che non autorizza l’ampliamento delle piante organiche
almeno fino all’adozione degli atti aziendali) ed in
contrasto con la d.G.R. n. 36-1483/2015 e con l’art. 15,
comma 13, lettera c), del d.l. 95/2012 che inibiscono il
conferimento di incarichi.
Dunque, secondo tale prospettazione, l’indizione della
selezione pubblica per il conferimento dell’incarico di
Savigliano sarebbe la finalità cui è preordinato il
trasferimento dell’appellante.
Gli atti conclusivi di tale selezione non sono stati
impugnati per vizi attinenti ai criteri di valutazione degli
aspiranti o alla loro applicazione, ma solo in quanto (in
ragione della prospettata illegittimità del trasferimento)
non ne sussisterebbe il necessario presupposto, costituito
dalla vacanza del posto.
6.3. La tematica riguardante la distinzione tra procedure
idoneative finalizzate al conferimento dell’incarico, e
procedure concorsuali espletate allo stesso fine, richiamata
nell’appello, risulta dunque estranea alla controversia.
Inoltre, per un orientamento di questa Sezione,
ai fini
della giurisdizione, occorre aver riguardo anche al concreto
atteggiarsi della procedura di conferimento.
Pertanto,
tenuto conto della vigente legislazione che
qualifica come atto emesso con i poteri del datore di lavoro
privato la scelta affidata alla discrezionalità ed alla
responsabilità del direttore generale (ancorché si sia
avvalso di indicazioni istruttorie circa i requisiti e gli
incarichi svolti dagli aspiranti), non può che affermarsi la
sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario in
materia di conferimento di incarichi.
Viceversa,
qualora l’attività preparatoria si sia tradotta
in una valutazione di titoli con attribuzione di punteggi e
formazione di una graduatoria o, comunque, in una effettiva
comparazione del merito (ciò che peraltro non è oggetto
della controversia proposta in primo grado), è ravvisabile
la caratterizzazione tipica della procedura selettiva sia
sul piano procedimentale che su quello della valutazione dei
candidati, sotto il profilo della maggiore o minore idoneità
all'esercizio delle funzioni da assegnare, e pertanto
sussiste la giurisdizione residua del giudice amministrativo
prevista dall’art. 63, comma 4, del d.lgs. 165/2001
(cfr.
Sez. III, n. 4658/2014, n. 3403/2014, n. 3578/2013; n.
301/2013).
6.4. Anche l’assetto organizzativo delle strutture complesse
di chirurgia generale della ASL rimane sullo sfondo,
costituendo le relative scelte il (principale) motivo, ma
non l’oggetto dell’impugnazione.
In ogni caso, se anche l’assetto organizzativo della ASL
facesse parte dell’oggetto diretto dell’impugnazione, non ne
discenderebbe la giurisdizione del giudice amministrativo.
Infatti, se, di regola, la cognizione degli atti di
macro-organizzazione delle Pubbliche Amministrazioni rientra
nella giurisdizione del giudice amministrativo (in quanto
nell’emanazione di atti organizzativi di carattere generale
viene esercitato un potere di natura autoritativa e non
gestionale, cosicché non trova applicazione la riserva di
giurisdizione del giudice ordinario di cui all’art. 68, del
d.lgs. 29/1993, poi trasfuso nell'art. 63, del d.lgs.
165/2001), diversa è la disciplina dell’attività
organizzativa del S.S.N.
Ai sensi dell’art. 3, del d.lgs. 502/1992, come modificato
dal d.lgs. 229/1999, le USL (cui sono succedute con analoga
disciplina le aziende sanitarie) si costituiscono in aziende
con personalità giuridica pubblica e «autonomia
imprenditoriale».
Per una scelta legislativa che il giudice amministrativo non
può sindacare, la loro organizzazione e il loro
funzionamento sono disciplinati non con provvedimenti aventi
natura pubblicistica (come dovrebbe essere sulla base dei
principi sottesi all’art. 97 Cost.), ma con «atti aziendali
di diritto privato»: le aziende agiscono mediante atti che
il legislatore ha consapevolmente qualificato come «di
diritto privato» (proprio –tra l’altro– per escludere la
sussistenza di posizioni tutelabili di interesse legittimo e
della giurisdizione amministrativa).
In base all’attuale sistema, il direttore generale emana
l’atto aziendale di organizzazione, è responsabile della
gestione complessiva e nomina i responsabili delle strutture
operative dell'azienda.
Pertanto, diversamente da quanto avviene per le
amministrazioni pubbliche in genere, gli atti di
macro-organizzazione delle aziende sanitarie sono adottati
con atti che il legislatore ha inteso qualificare «di
diritto privato», con una disciplina che ha inteso prendere
innanzitutto in considerazione il loro carattere
«imprenditoriale strumentale» (pur se si tratta di attività
nelle quali non rileva lo scopo di lucro e nel quale sono
coinvolti valori costituzionali, inerenti allo svolgimento
di un servizio pubblico, che la Costituzione considera
indefettibile).
La Sezione –anche al fine di non differire la definizione
delle censure formulate in primo grado- non può che
prendere atto dei principi enunciati in materia dalla Corte
regolatrice della giurisdizione e non può che affermare la
sussistenza del giudice civile (cfr. Cass. civ., SS.UU., n.
2031/2008; n. 17461/2006; n. 15304/2014; di recente
richiamate da Cons. Stato, Sez. III, n. 3815/2015).
6.5. Infine, anche il precedente invocato dall’appellante, a
supporto del secondo ordine di censure nei confronti della
pronuncia del TAR, non risulta attinente alla presente
controversia.
Infatti, esso riguarda una vicenda nella quale è stata
ritenuta illegittima la decisione di indire una nuova
procedura per il conferimento dell’incarico dirigenziale, in
quanto non rispettosa delle regole legislative
sull’utilizzazione di una graduatoria, ovvero dei risultati
di un giudizio idoneativo relativo alla medesima esigenza di
copertura del posto (cfr. Sez. III, n. 2751/2012, cit.).
La Corte regolatrice ha sottolineato al riguardo che «si
controverte non già direttamente sulla pretesa (…) ad essere
preposto alla struttura complessa (…), bensì sull'evidente
difetto di motivazione e di presupposti in ordine
all'ineluttabilità d’una nuova procedura idoneativa per la
copertura di tale posto» (cfr. Cass. civ., SS.UU., n.
2290/2014, cit.).
Viceversa, nel caso in esame, non viene contestato che,
qualora il posto di Savigliano risultasse legittimamente
vacante, vi sarebbe il presupposto per una selezione
pubblica; ma soltanto, come rilevato, che gli atti che hanno
determinato la vacanza del posto sarebbero illegittimi.
7. Per le ragioni che precedono, l’appello va respinto. |
APPALTI:
Una referenza bancaria non basta nell'appalto.
La presentazione di una sola referenza bancaria, rispetto
alle due richieste dal bando, comporta l'esclusione dalla
gara d'appalto.
Lo ha stabilito il TAR Lazio-Latina nella recente
sentenza 26.04.2016 n. 269.
La vicenda ha preso le mosse dall'affidamento del servizio
di refezione scolastica promosso da un Comune, che
richiedeva appunto due referenze bancarie. La ditta ne aveva
presentata una sola. La seconda attestazione, trasmessa alla
Stazione appaltante solo a seguito dell'attivazione del
soccorso istruttorio, era stata giudicata insufficiente.
Per
questo motivo la concorrente era stata estromessa dalla
procedura. In primo luogo il Collegio ha ricordato che «le
referenze bancarie assolvono alla funzione di determinare in
concreto la capacità economica e finanziaria delle imprese
concorrenti». Inoltre, l'organo giudicante ha fatto leva sul
principio (Cons. stato, 17.07.2014 n. 3821 e sentenze
precedenti) secondo cui nel fissare i requisiti di
partecipazione, la discrezionalità dell'Amministrazione non
incontra limiti.
I giudici laziali hanno poi sottolineato
che «la presentazione di una sola attestazione bancaria
viene, in generale, a determinare la carenza di un requisito
essenziale espressamente previsto dal legislatore». Quindi
la stazione appaltante non aveva altra scelta se non quella
di escludere la concorrente, senza dover neppure attivare il
meccanismo del soccorso (come invece ha fatto).
Va
puntualizzato peraltro che l'orientamento del Tar Latina non
è univoco in giurisprudenza. Senza ambizione di completezza
si può richiamare ad esempio il Tar Veneto 23.03.2015 n.
331 il quale ha affermato che la presentazione di due
referenze bancarie non può considerarsi un requisito rigido,
in quanto è ben possibile che l'operatore economico
intrattenga rapporti professionali con un solo Istituto
bancario.
Il Tar Basilicata 11.10.2014 n. 734 prosegue il ragionamento
nel senso che la capacità economica e finanziaria può essere
dimostrata anche in altri modi (ad esempio col fatturato
globale) e che le attestazioni bancarie risultano generiche
e non impegnative per le banche che le rilasciano: perciò
due referenze anziché una non garantirebbero maggiormente
l'Amministrazione
(articolo ItaliaOggi Sette del
30.05.2016).
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MASSIMA
Il ricorso è infondato e va respinto.
Osserva, anzitutto, il Collegio che,
nelle gare pubbliche,
le referenze bancarie chieste dalla stazione appaltante alle
imprese partecipanti, con i contenuti fissati dalla lex
specialis rivestono, come precisato dalla recente
giurisprudenza
(Consiglio di Stato sez. V 07.07.2015 n.
3346),
una sicura efficacia probatoria dei requisiti
economico-finanziari necessari per l'aggiudicazione di
contratti pubblici: e ciò in base al fatto notorio che il
sistema bancario eroga credito a soggetti affidabili sotto
tali profili, per cui è ragionevole che un'Amministrazione
aggiudicatrice, nell'esercizio della propria discrezionalità
in sede di fissazione della legge di gara, ne richieda la
produzione in tale sede.
In realtà,
le referenze bancarie assolvono alla funzione di
determinare in concreto la capacità economica e finanziaria
delle imprese concorrenti, essendo infatti del tutto
assodato il non limitato potere discrezionale delle
Pubbliche amministrazioni nel fissare i requisiti di
partecipazione a una gara per l'aggiudicazione di lavori,
servizi o forniture.
La questione controversa oggetto del presente esame concerne
la legittimità del provvedimento di esclusione disposto
dall’ente comunale intimato nei confronti della società
Vi.–s.p.a. la quale, ai fini della dimostrazione della
capacità economica e finanziaria, ha presentato, in prima
battuta, una sola referenza bancaria, anziché due, come
richiesto, contravvenendo così a quanto prescritto dal punto
6 del bando di gara .
D’altro canto tale requisito non è stato colmato nemmeno a
seguito del soccorso istruttorio, tenuto conto che, come
accennato, la successiva dichiarazione prodotta dalla
ricorrente è risultata –tra l’altro- del tutto generica e
priva del contenuto minimo per ritenere assolta la predetta
finalità .
La presentazione di una sola attestazione bancaria viene, in
generale, a determinare la carenza di un requisito
essenziale espressamente previsto dal legislatore. La lex
specialis in esame, in conformità normativa primaria, ha
prescritto che i concorrenti dovessero presentare
“Dichiarazioni… rese da almeno due istituti di credito".
La stazione appaltante, quindi, a fronte dell’evidente
contrasto tra quanto prescritto nel disciplinare di gara e
quanto prodotto dal concorrente, ha proceduto al’esclusione
di quest’ultimo.
Ancora, lo stesso Consiglio di Stato (sez. V, 31.01.2012, n.
467) in un caso analogo a quello di specie, ha chiarito che
la mancata –od inidonea- presentazione della dichiarazione
della seconda banca attestante la capacità economica e la
solvibilità della concorrente, non consente alla
Amministrazione di far ricorso all’istituto della
integrazione documentale.
Aggiungasi che
la possibilità di integrazione della
documentazione incompleta depositata nei termini assegnati
nel bando di gara non poteva in ogni caso essere esercitata
nel caso che occupa perché volta ad integrare documenti che
avrebbero dovuto essere prodotti a pena di esclusione in
quanto attinenti a requisiti essenziali per la
partecipazione
(Consiglio di Stato, sez. V, 02.08.2010,
n. 5084).
In conclusione, il ricorso deve essere respinto. |
LAVORI PUBBLICI:
Il ruolo del geologo progettista: nuova sentenza del
Consiglio di Stato.
È necessario prevedere la relazione
geologica negli appalti di progettazione anche in difetto
della previsione del bando. Inoltre, va disposta
l’esclusione dalla gara nel caso di mancata indicazione del
geologo, non essendo applicabile in tal caso il soccorso
istruttorio.
In base al comma 1 dell’articolo 35 del d.P.R. 207/2010, la
relazione del geologo va necessariamente posta a corredo del
progetto esecutivo, ai sensi della disposizione secondo cui
“il progetto esecutivo prevede almeno le medesime
relazioni specialistiche contenute nel progetto definitivo,
che illustrino puntualmente le eventuali indagini
integrative, le soluzioni adottate e le modifiche rispetto
al progetto definitivo”.
Inoltre, la previsione di cui all’articolo 35 citato deve
essere letta in combinato disposto con quella di cui al
precedente articolo 26, comma 1, lettera a), secondo cui il
progetto esecutivo deve necessariamente comprendere –inter
alia – la relazione geologica, e ciò anche a prescindere
dall’espresso richiamo che di tale obbligo sia stato fatto
nell’ambito della lex specialis di gara.
Lo ha confermato il Consiglio di Stato (Sez. V) con la
sentenza 21.04.2016 n. 1595.
La necessità della relazione geologica anche in sede di
progettazione esecutiva resta ferma anche nelle ipotesi in
cui non sussistano differenze di notevole rilievo fra la
progettazione definitiva posta a base di gara e quella di
livello esecutivo oggetto dell’offerta tecnica.
Il comma 1 dell’articolo 35 del d.P.R. 207 del 2010
chiarisce che le relazioni specialistiche costituiscono una
parte coessenziale del progetto esecutivo, sì da qualificare
come progettisti in senso proprio –e non come meri
collaboratori– i professionisti che le hanno redatte. E, una
volta qualificato come progettista il professionista in
parola, è evidente che trovi applicazione il divieto di
subappalto relativo agli incarichi di progettazione di cui
al comma 3 dell’articolo 91 del Codice dei contratti (commento
tratto da www.casaeclima.com).
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MASSIMA
3. Il secondo motivo (con cui il CSM ha chiesto la
riforma della sentenza per la parte in cui, in accoglimento
del ricorso incidentale di primo grado della Bu., è
stato stabilito che lo stesso CSM avrebbe dovuto essere
escluso dalla procedura) è infondato.
3.1. Va premesso al riguardo che la sentenza in epigrafe è
meritevole di conferma laddove ha statuito che, ai sensi del
comma 1 dell’articolo 35 del d.P.R. 207 del 2010, la
relazione del geologo avrebbe dovuto necessariamente essere
posta a corredo del progetto esecutivo (ai sensi della
disposizione da ultimo richiamata, “il progetto esecutivo
prevede almeno le medesime relazioni specialistiche
contenute nel progetto definitivo, che illustrino
puntualmente le eventuali indagini integrative, le soluzioni
adottate e le modifiche rispetto al progetto definitivo”).
E’ stato rilevato –in modo parimenti condivisibile– che
la
previsione di cui all’articolo 35 deve essere letta in
combinato disposto con quella di cui al precedente articolo
26, comma 1, lettera a), secondo cui il progetto esecutivo
deve necessariamente comprendere –inter alia– la relazione
geologica (e ciò, anche a prescindere dall’espresso richiamo
che di tale obbligo sia stato fatto nell’ambito della lex
specialis di gara).
La sentenza in epigrafe è altresì meritevole di conferma per
la parte in cui i primi Giudici hanno osservato che
la
necessità della relazione geologica anche in sede di
progettazione esecutiva resta ferma anche nelle ipotesi in
cui –come nel caso in esame– non sussistano differenze di
notevole rilievo fra la progettazione definitiva posta a
base di gara e quella di livello esecutivo oggetto
dell’offerta tecnica.
3.2. Per quanto riguarda, poi, la questione relativa
all’obbligo di individuare già in sede di offerta il
nominativo del geologo, l’appello non può trovare
accoglimento.
La tesi dell’appellante si fonda sull’argomento secondo cui,
nell’ambito della gara per cui è causa, il geologo non fosse
qualificabile come progettista (bensì come mero esecutore),
ragione per cui l’indicazione ab initio del suo nominativo
non rappresenterebbe un elemento costitutivo dell’offerta,
ben potendo essere integrato in un momento successivo.
La tesi non può essere condivisa alla luce della previsione
del comma 1 dell’articolo 35 del d.P.R. 207 del 2010, il
quale chiarisce che le relazioni specialistiche
costituiscono una parte coessenziale del progetto esecutivo,
sì da qualificare come progettisti in senso proprio –e non
come meri collaboratori– i professionisti che le hanno
redatte.
E, una volta qualificato come progettista il professionista
in parola, è evidente che trovi applicazione il divieto di
subappalto relativo agli incarichi di progettazione di cui
al comma 3 dell’articolo 91 del ‘Codice del contratti’.
3.3. Allo stesso modo la sentenza in epigrafe deve essere
confermata per la parte in cui i primi Giudici hanno
ritenuto che non potesse trovare applicazione nel caso in
esame l’istituto del c.d. ‘soccorso istruttorio’ (articolo
38, comma 2-bis, e articolo 46, comma 1, del decreto
legislativo n. 163 del 2006).
Al riguardo ci si limita qui ad osservare che
la mancata
indicazione del nominativo del geologo non rappresentasse
una mera irregolarità (pur se essenziale) della domanda di
partecipazione, ma concretasse piuttosto il difetto di un
elemento essenziale dell’offerta il quale, ai sensi del
comma 1-bis dell’articolo 46 del ‘Codice’, non poteva che
comportare l’esclusione dell’appellante CSM dalla gara.
4. Il terzo motivo di appello (con cui si è lamentato il
mancato accoglimento del secondo dei motivi di ricorso di
primo grado, relativo alle varianti proposte dalla Bu.
rispetto all’impostazione generale del progetto a base di
gara) è infondato.
4.1. E’ evidente al riguardo che il fulcro del thema
decidendum consista nello stabilire se le modalità
progettuali proposte dall’aggiudicataria Bu. si
attestassero (il che era del tutto consentito) nell’ambito
delle varianti migliorative ai sensi dell’articolo 76 del
‘Codice’, ovvero se tali modifiche si ponessero in contrasto
con il contenuto minimo essenziale del progetto definitivo
posto a base di gara, determinando un’impostazione
progettuale incompatibile con quel progetto.
Al riguardo deve essere richiamato il consolidato –e qui
condiviso– orientamento secondo cui costituiscono
‘varianti’ ai sensi dell’articolo 76 del Codice dei
contratti pubblici le vere e proprie modifiche progettuali e
non già le soluzioni tecniche migliorative consentite
proprio sulla base del progetto predisposto dalla stazione
appaltante e che non comportino uno stravolgimento
dell'ideazione sottesa a quest'ultimo (in tal senso –ex multis-: Cons. Stato, V,
07.07.2014, n. 3435).
Ebbene, questi essendo i generali termini concettuali della
questione, il Collegio ritiene che debba essere confermata
la decisione dei primi Giudici secondo cui il sistema
depurativo proposto dalla Bu. (basato comunque sul
sistema di ultrafiltrazione MBR, ma con tipologia di fibra
cava invece che a fibra piana) non comportasse uno
stravolgimento del progetto posto a base di gara.
Non si tratta qui di negare (come in più punti sottolinea
l’appellante) che l’utilizzo del reattore MBR costituisse
l’impostazione generale del progetto posto a base di gara
(in tal senso la Sezione VII – Punto 2.1. del disciplinare).
Ma il punto è che l’aggiudicataria Bu. aveva bensì
previsto l’utilizzo del sistema MBR, ma prevedendo
l’utilizzo di una diversa membrana (da cava a piana).
Il che non sembra comportare il lamentato stravolgimento del
progetto posto a base di gara, né palesa profili di
abnormità ed irragionevolezza in relazione alle
determinazioni del RUP il quale aveva –appunto– escluso
che tale diversa modalità realizzativa fosse idonea ad
alterare in modo significativo l’impostazione generale del
progetto.
4.2. Anche il terzo motivo deve quindi essere respinto. |
EDILIZIA PRIVATA:
Tar: la trasformazione di un balcone o di un terrazzino in
veranda richiede il permesso di costruire
L'intervento non costituisce realizzazione di una pertinenza
né una manutenzione straordinaria e di restauro.
“Secondo l’indirizzo prevalente della
giurisprudenza amministrativa, dal quale il Collegio non
ritiene di doversi discostare, la trasformazione di un
balcone o di un terrazzino circondato da muri perimetrali in
veranda, mediante chiusura a mezzo di installazione di
pannelli su intelaiatura metallica, non costituisce
realizzazione di una pertinenza, né intervento di
manutenzione straordinaria e di restauro, ma è opera
soggetta a permesso di costruire, determinando l'aumento
della superficie utile di un appartamento e la modifica
della sagoma dell'edificio, con conseguente assoggettamento
alla sanzione di tipo demolitorio”.
Lo ha ribadito il TAR Toscana, Sez. III, nella
sentenza 20.04.2016 n. 662.
I giudici amministrativi di Firenze hanno respinto il
ricorso contro l’ordinanza con cui il comune di Grosseto ha
ingiunto la demolizione dei lavori volti alla chiusura,
mediante installazione di infissi in metallo e vetro, di una
terrazza nell’appartamento di proprietà del ricorrente.
Secondo il ricorrente il provvedimento impugnato non sarebbe
sorretto da sufficiente motivazione, sarebbe mancato
l’avviso di avvio del procedimento e l’opera realizzata
sarebbe passibile di sanzione meramente pecuniaria.
Di differente avviso il Tar Toscana, secondo il quale il
provvedimento impugnato “contiene una puntuale
descrizione dell’abuso, delle sue conseguenze in termini
edilizi ed urbanistici (aumento volumetrico) e della
normativa nazionale e regionale che prevede il trattamento
sanzionatorio per gli interventi assoggettati a permesso
oneroso di costruire in quanto comportanti aumento di carico
urbanistico”.
Inoltre, la mancata comunicazione dell’avviso di avvio del
procedimento “non può, ai sensi dell’art. 21-octies della
L. 241/1990, comportare l’annullamento del provvedimento
impugnato il cui dispositivo, attesa la sua natura
vincolata, non avrebbe potuto essere diverso nella
fattispecie concreta a cui esso si riferisce” (commento
tratto da www.casaeclima.com).
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MASSIMA
Il ricorso è infondato.
Il provvedimento impugnato contiene, infatti, una puntuale
descrizione dell’abuso, delle sue conseguenze in termini
edilizi ed urbanistici (aumento volumetrico) e della
normativa nazionale e regionale che prevede il trattamento
sanzionatorio per gli interventi assoggettati a permesso
oneroso di costruire in quanto comportanti aumento di carico
urbanistico.
La mancata comunicazione dell’avviso di
avvio del procedimento non può, ai sensi dell’art. 21-octies
della L. 241/1990, comportare l’annullamento del
provvedimento impugnato il cui dispositivo, attesa la sua
natura vincolata, non avrebbe potuto essere diverso nella
fattispecie concreta a cui esso si riferisce.
Anche la terza censura è infondata.
Secondo l’indirizzo prevalente della giurisprudenza
amministrativa, dal quale il Collegio non ritiene di doversi
discostare, la trasformazione di un balcone
o di un terrazzino circondato da muri perimetrali in
veranda, mediante chiusura a mezzo di installazione di
pannelli su intelaiatura metallica, non costituisce
realizzazione di una pertinenza, né intervento di
manutenzione straordinaria e di restauro, ma è opera
soggetta a permesso di costruire, determinando l'aumento
della superficie utile di un appartamento e la modifica
della sagoma dell'edificio, con conseguente assoggettamento
alla sanzione di tipo demolitorio
(TAR Napoli, sez. VIII, 19/01/2016, n. 243; TAR Salerno,
(Campania), sez. I, 01/10/2012, n. 1743). |
COMPETENZE PROGETTUALI: Aggiornamento
catastale, agrotecnici esclusi.
Agrotecnici esclusi dalla redazione e sottoscrizione degli
atti di aggiornamento catastale.
Il Consiglio di Stato - Sez. IV, con
la
sentenza 13.04.2016 n. 1458, ha infatti accolto il ricorso del
Consiglio nazionale dei geometri sulle competenze degli
agrotecnici in materia di catasto.
La pronuncia di Palazzo Spada ha fatto seguito alla sentenza
della Corte costituzionale (n. 154 depositata il 15.07.2015) che aveva dichiarato illegittima la disposizione di
legge che amplia le competenze degli agrotecnici in materia
catastale ed estimativa nel settore immobiliare, prevista
dall'art. 26, comma 7-ter del dl n. 248/2007 (si veda ItaliaOggi del 30.07.2015).
Di conseguenza, sono state
impugnate la risoluzione n. 10/df del 03.04.2008 del
ministero dell'economia e delle finanze e la circolare
dell'Agenzia del territorio n. 3 del 14.04.2016,
entrambe annullate dal Consiglio di stato. Il Consiglio
nazionale dei geometri e dei geometri laureati aveva fatto
ricorso a Palazzo spada contro la sentenza di primo grado
del Tar Lazio, che aveva dichiarato invece l'inammissibilità
per carenza di interesse dei ricorsi introduttivi del
giudizio.
Il Cngegl ha però richiamato a sua volta la
sentenza della Corte costituzionale, che aveva dichiarato
l'illegittimità della normativa perché inserita all'interno
di un «Milleproroghe» in assenza dei requisiti di
straordinarietà e urgenza, affermando quindi l'evidenza sia
dell'interesse al ricorso introduttivo del giudizio, sia
della completa illegittimità dell'azione
dell'amministrazione.
Secondo i giudici di Palazzo Spada,
nel dettaglio, «si deve ritenere che la pronuncia di
illegittimità costituzionale di una norma di legge determina
la cessazione automatica della sua efficacia erga omnes ed
impedisce, dopo la pubblicazione della sentenza, che essa
possa esser applicata ai rapporti, in relazione ai quali la
norma dichiarata incostituzionale risulti anche rilevante,
stante l'effetto retroattivo dell'annullamento escluso solo
per i cd. rapporti esauriti».
Di conseguenza, sia la
risoluzione del Mef, sia la circolare del Territorio
impugnate «devono ritenersi viziate da una invalidità
derivata: detti atti, infatti, costituiscono integrazione e
non mera interpretazione, della disposizione dichiarata
incostituzionale e, il venir meno del presupposto normativo,
determina, in ultima analisi, la loro invalidità e
inidoneità a produrre effetti».
Il Cngegl ha provveduto a informare gli ordini territoriali
e la Cassa di categoria tramite circolare
(articolo ItaliaOggi del
31.05.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - VARI: La
Pec va tenuta sempre attiva. Altrimenti bisogna comunicare
alla Cdc la nuova mail. Arriva la
prima sentenza di revoca da parte del giudice del Registro
imprese di Milano.
Arriva il primo provvedimento di revoca e/o cessazione degli
indirizzi Pec inattivi delle imprese da parte di un giudice
del Registro delle imprese. Le imprese costituite in forma
societaria e individuale sono tenute obbligatoriamente ad
indicare nella domanda di iscrizione al registro delle
imprese il loro indirizzo Pec.
La casella di Posta elettronica certificata deve essere
mantenuta attiva nel tempo. In caso contrario l'impresa ha
l'obbligo di comunicare all'ufficio del registro delle
imprese un nuovo indirizzo Pec dell'impresa valido e attivo.
Pena la revoca o cessazione della casella di posta
elettronica.
È il con
decreto 12.04.2016, registro
generale n. 3790/2016, che il giudice del registro
delle imprese presso il TRIBUNALE di Milano ha disposto (in
conformità di un provvedimento amministrativo adottato dal
conservatore del registro delle imprese della Cciaa di
Milano del 05.02.2016) che si procedesse all'iscrizione
d'ufficio (articolo 2190 codice civile) della
revoca/cessazione degli indirizzi Pec relativi a 20.559
imprese e società, in ragione della intervenuta revoca o
cessazione degli stessi.
Nel decreto il giudice ha anche
disposto che la notifica avvenga mediante pubblicazione del
provvedimento nell'albo camerale on-line della camera di
commercio di Milano, per sette giorni consecutivi, dalla cui
scadenza decorrerebbero poi i 15 giorni per l'eventuale
presentazione del ricorso al Tribunale ai sensi dell'art.
2192 codice civile.
Ricordiamo che con la direttiva 2608 del
27.04.2015 (in vigore dal 13.07.2015), emanata dal
ministero dello sviluppo economico, d'intesa con il
ministero della giustizia (si veda ItaliaOggi del
27.07.2015), l'ufficio del registro delle imprese ha
l'obbligo di verificare, con modalità automatizzate e con
periodicità almeno bimestrale, se le caselle di Posta
elettronica certificata (Pec) relative agli indirizzi
iscritti nel registro stesso risultino attive. In caso
negativo, l'ufficio dovrà invitare l'impresa interessata a
presentare domanda di iscrizione di un nuovo indirizzo di
Posta elettronica certificata entro un termine non superiore
a dieci giorni, decorso il quale l'ufficio dovrà procedere,
ai sensi dell'articolo 2191 del codice civile, alla
cancellazione dell'indirizzo in questione.
L'iscrizione al registro delle imprese dell'indirizzo di
Posta elettronica certificata di un'impresa è legittimamente
effettuata solo se detto indirizzo è nella titolarità
esclusiva della medesima, perché ciò costituisce il
requisito indispensabile per garantire la validità delle
comunicazioni e delle notificazioni effettuate con modalità
telematiche.
Prima di procedere all'iscrizione di un indirizzo di Posta
elettronica certificata, l'ufficio verifica, attraverso la
consultazione degli appositi elenchi che questo non risulti
già assegnato ad altra impresa. In tal caso invita il
richiedente ad indicare un nuovo indirizzo di Posta
elettronica certificata entro un congruo termine, pena il
rigetto della domanda d'iscrizione
(articolo ItaliaOggi del
24.05.2016). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - CONDOMINIO: Accesso
agli atti, ci vuole una delibera. Tar. Attribuzioni.
L’amministratore di condominio che non dimostra di essere
stato autorizzato dall’assemblea condominiale non può
proporre l’azione di accesso ai documenti amministrativi di
interesse condominiale, né l’esercizio di tale azione può
farsi rientrare in una delle attribuzioni proprie
dell’amministratore.
È questo il principio affermato dal TRGA Trentino Alto
Adige-Bolzano nella
sentenza
12.04.2016 n. 133.
Nel caso di specie
l’amministratore di un condominio, per tutelare il
condominio dal crescente inquinamento prodotto da un vicino
distributore di carburanti, decideva di richiedere, con nota
trasmessa via pec alla Provincia, al Comune e alla questura,
l’accesso alla documentazione necessaria per accertare le
autorizzazioni necessarie per svolgere quelle attività.
L’istanza di accesso, però, veniva ignorata; di conseguenza
il condominio «in persona dell’amministratore e legale
rappresentante pro tempore» richiedeva al Tar che fosse
dichiarato il diritto dei condòmini ad accedere agli atti
sopra descritti, con espresso ordine alle amministrazioni
interpellate di esibire la documentazione richiesta.
Il
ricorso, però, è stato considerato inammissibile dal Tar:
secondo i giudici amministrativi, infatti, se
l’amministratore non viene autorizzato dall’assemblea
condominiale con apposita delibera non può proporre l’azione
di accesso agli atti amministrativi, né l’esercizio di tale
azione può farsi rientrare nell’ambito delle sue
attribuzioni perché tutela posizioni giuridiche soggettive
dei singoli condòmini (articolo Il Sole 24 Ore del
24.05.2016).
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MASSIMA
Il ricorso è inammissibile.
E’ fondata l’eccezione di difetto di legittimazione
processuale, sollevata dalle difese dell’Amministrazione
provinciale e del Comune di Bolzano.
Il ricorso in esame è stato presentato dal Condominio
Rosengarten 8, “in persona dell’Amministratore e legale
rappresentante pt, Rag. St.Ki.”, il quale dichiara di
agire in giudizio in nome e per conto del Condominio, senza
però fornire alcuna prova in ordine al proprio potere di
rappresentanza in giudizio nel caso specifico.
L’art. 1130 c.c. stabilisce quali poteri spettano
all’amministratore del condominio: “L'amministratore,
oltre a quanto previsto dall'articolo 1129 e dalle vigenti
disposizioni di legge, deve:
1) eseguire le deliberazioni dell'assemblea, convocarla
annualmente per l'approvazione del rendiconto condominiale
di cui all'articolo 1130-bis e curare l'osservanza del
regolamento di condominio;
2) disciplinare l'uso delle cose comuni e la fruizione dei
servizi nell'interesse comune, in modo che ne sia assicurato
il miglior godimento a ciascuno dei condomini;
3) riscuotere i contributi ed erogare le spese occorrenti
per la manutenzione ordinaria delle parti comuni
dell'edificio e per l'esercizio dei servizi comuni;
4) compiere gli atti conservativi relativi alle parti comuni
dell'edificio;
5) eseguire gli adempimenti fiscali;
6) curare la tenuta del registro di anagrafe condominiale…
7) curare la tenuta del registro dei verbali delle
assemblee, del registro di nomina e revoca
dell'amministratore e del registro di contabilità…
8) conservare tutta la documentazione inerente alla propria
gestione riferibile sia al rapporto con i condomini sia allo
stato tecnico-amministrativo dell'edificio e del condominio;
9) fornire al condomino che ne faccia richiesta attestazione
relativa allo stato dei pagamenti degli oneri condominiali e
delle eventuali liti in corso;
10) redigere il rendiconto condominiale annuale della
gestione e convocare l'assemblea per la relativa
approvazione entro centottanta giorni”.
Il potere di rappresentanza
dell’amministratore condominiale è limitato alle
attribuzioni di cui alla citata disposizione, salvo il caso
in cui il regolamento condominiale o l’assemblea, con
propria deliberazione, gli attribuiscano poteri maggiori,
così come previsto dall’art. 1131 c.c., il quale così
recita: “Nei limiti delle attribuzioni stabilite
dall'articolo 1130 o dei maggiori poteri conferitigli dal
regolamento di condominio o dall'assemblea, l'amministratore
ha la rappresentanza dei partecipanti e può agire in
giudizio sia contro i condomini sia contro i terzi. Può
essere convenuto in giudizio per qualunque azione
concernente le parti comuni dell'edificio; a lui sono
notificati i provvedimenti dell'autorità amministrativa che
si riferiscono allo stesso oggetto. Qualora la citazione o
il provvedimento abbia un contenuto che esorbita dalle
attribuzioni dell'amministratore, questi è tenuto a darne
senza indugio notizia all'assemblea dei condomini”.
Secondo un costante orientamento giurisprudenziale, “nel
condominio, in materia di azioni processuali, il potere
decisionale spetta solo ed esclusivamente all’assemblea, la
quale deve deliberare se agire in giudizio, se resistere e
se impugnare i provvedimenti in cui il condominio risulta
soccombente. Un tale potere decisionale non può competere in
via autonoma all’amministratore che, per sua natura, non è
un organo decisionale, ma meramente esecutivo del condominio”
(cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 08.10.2013, n. 4944;
nello stesso senso, Sez. VI, 08.10.2013, n. 4944; TAR
Campania, Napoli, Sez. VI, 08.05.2014, n. 2511 e Cassaz.
Sez. Un., 06.08.2010, n. 18331).
Nel caso di specie l’Amministratore non ha dimostrato in
giudizio di essere stato autorizzato dall’assemblea
condominiale a proporre l’azione di accesso di cui all’art.
116 c.p.a., né l’esercizio di tale azione può farsi
rientrare in una delle attribuzioni proprie
dell’amministratore, tassativamente elencate nel citato art.
1130 c.c..
Il ricorso deve, pertanto considerarsi inammissibile, per
difetto di legittimazione processuale dell’Amministratore
del Condominio ricorrente.
Ad abundantiam, va aggiunto che è fondata anche
l’eccezione subordinata di inammissibilità, sollevata dalla
difesa provinciale sul rilievo che, da un lato, la richiesta
di accesso agli atti, inviata tramite posta elettronica
certificata (PEC) il 22.11.2015, proviene dalla casella PEC
della ditta Pl. Sas (di cui non si conoscono i legami con il
Condominio) e non da una casella PEC riconducibile al
Condominio “Rosengarten 8” e al suo Amministratore e,
dall’altro lato, che la richiesta inviata mediante PEC è
priva della firma digitale, cosicché non risulta avvenuto,
né provato, alcun ricevimento da parte del destinatario.
Osserva a tal riguardo il Collegio che la firma digitale,
nella PEC, costituisce l'equivalente informatico della
tradizionale firma autografa apposta su carta e serve a
garantire l’identità del sottoscrittore, ad assicurare che
il documento non sia stato modificato dopo la sua
sottoscrizione e ad attribuire piena validità legale al
documento.
Nel caso di specie, mancando la firma digitale, non è
possibile attestare l’integrità e l’autenticità della
sottoscrizione dell’Amministratore del Condominio
ricorrente, né la validità della manifestazione di volontà
contenuta nella richiesta di accesso, considerato che essa
proviene da una casella PEC intestata ad una società (Pl.
Sas) che, in assenza di prova contraria, non ha alcun
collegamento con il Condominio “Rosengarten 8” o con
il suo Amministratore.
Per tutte le ragioni espresse, assorbita ogni altra
eccezione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. |
TRIBUTI:
Esenzione prima casa per più unità catastali.
Ai fini Ici, le agevolazioni riconosciute sull'abitazione
principale spettano anche in relazione a più unità
catastali, ancorché le stesse costituiscano, nella sostanza,
una sola unità abitativa. Il contribuente può validamente
supportare la propria posizione attraverso la produzione di
una perizia giurata da un tecnico, che attesti l'unicità
delle singole particelle catastali e l'idoneità delle stesse
a rappresentare un'abitazione che possa fruire del
beneficio.
È quanto si apprende dalla lettura della
sentenza 07.04.2016 n. 4030/09/16 della Ctp di
Catania.
I giudici di Piazza Bellini hanno così annullato un avviso
di accertamento emesso dal comune di Catania, con condanna
alle spese per la parte soccombente. L'ufficio tecnico del
comune aveva disconosciuto l'esenzione d'imposta Ici
prevista per l'abitazione principale con riferimento a
immobile di proprietà del ricorrente la quale era stata
unita con una scala interna ad altro immobile, sempre di
proprietà, posto al piano inferiore.
I due immobili venivano
utilizzati dal ricorrente come unica abitazione principale.
L'unione delle due unità immobiliari, separatamente distinte
in catasto, veniva comprovata in giudizio dal ricorrente
mediante la produzione di una relazione tecnica. La Ctp di
Catania con la sentenza in questione, richiamando
l'orientamento sul punto della Corte di cassazione in
materia ha annullato l'atto impugnato.
Secondo il pensiero
degli ermellini (ripreso dal collegio siciliano nella
pronuncia in commento, in tema di imposta comunale sugli
immobili (Ici), il contemporaneo utilizzo di più unità
catastali non costituisce ostacolo all'applicazione, per
tutte, dell'aliquota agevolata prevista per l'abitazione
principale, sempre che il derivato complesso abitativo
utilizzato non trascenda la categoria catastale delle unità
che lo compongono, assumendo rilievo a tal fine non il
numero delle unità catastali, ma l'effettiva utilizzazione
ad abitazione principale dell'immobile complessivamente
considerato. Da precisare, poi, che tale principio non pare
applicabile all'Imu.
La definizione di abitazione principale
nel testo Ici, infatti, non faceva riferimento al numero
delle unità immobiliari ma unicamente alla destinazione
delle stesse a dimora abituale del contribuente e dei suoi
familiari. La nuova definizione utilizzata per l'Imu,
invece, dispone che l'abitazione principale è costituita
dall'unica unità immobiliare iscritta o iscrivibile in
catasto come tale, in cui il contribuente risiede e dimora.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] Privo di fondamento è il primo motivo posto che
nel caso de quo il comune di Catania ha proceduto alla
notifica diretta dell'avviso di accertamento mediante
raccomandata A/r nell'esercizio della facoltà a tal fine
concessogli dall'art. 1, comma 161, della legge 296 del
2006: le norme invocate dal ricorrente non trovano pertanto,
applicazione in quanto previste dal codice di procedura
civile per le notificazioni a cura dell'Ufficiale
giudiziario.
Parimenti infondato è il secondo motivo atteso
che la firma autografa, prevista dalle norme che
disciplinano i tributi regionali e locali sugli atti di
liquidazione e di accertamento, può essere sostituita
dall'indicazione a stampa del nominativo del soggetto
responsabile, nel caso che gli atti medesimi siano prodotti
da sistemi informativi automatizzati (art. 1, punto 87,
legge 28/12/1995 n. 549) il che è avvenuto nel caso de quo.
È invece, fondato il terzo motivo, posto che il ricorrente
ha provato la unitarietà delle due unità immobiliari, aventi
autonomia catastale, producendo una perizia tecnica
corredata di documentazione fotografica e che, per uniforme
giurisprudenza della Suprema corte, «in tema di imposta
comunale sugli immobili (Ici), il contemporaneo utilizzo di
più unità catastali non costituisce ostacolo
dall'applicazione, per tutte, dell'aliquota agevolata
prevista per l'abitazione principale (agevolazione
trasformatasi in totale esenzione, ex art. 1, dl 27.05.2008 n. 93, a decorrere dal 2008), sempre che il derivato
complesso abitativo utilizzato non trascenda la categoria
catastale delle unità che lo compongono, assumendo rilievo,
a tal fine, non il numero delle unità catastali ma
l'effettiva utilizzazione ad abitazione principale
dell'immobile complessivamente considerato, ferma restando
la spettanza della detrazione prevista dal comma 2,
dell'art. 8, dlgs n. 504 del 1992 una sola volta per tutte
le unità» (Cass. 03.07.2014 n. 1598: 12269/2010;
25902/2008). Il ricorso pertanto deve essere accolto.
PQM
Accoglie il ricorso e annulla l'atto impugnato. Condanna
il comune di Catania al pagamento delle spese processuali in
favore del ricorrente, che liquida in 300,00 di cui 50 per
rimborsi e il resto per compensi, oltre al rimborso spese
generali, Cpa e Iva. Così deciso nella Camera di consiglio
della Commissione tributaria provinciale di Catania, sez. 9,
del 17.03.2016
(articolo ItaliaOggi Sette del
23.05.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Certificato agibilità, ok al rilascio solo se il manufatto
non è abusivo.
Tar Campania: il meccanismo del silenzio
assenso non può essere invocato qualora manchi il
presupposto per il rilascio del certificato di agibilità.
Il TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, con la
sentenza 07.04.2016 n. 1767,
aderisce alla “pacifica giurisprudenza amministrativa”
secondo la quale “la conformità dei manufatti alle norme
urbanistico-edilizie costituisce il presupposto
indispensabile per il legittimo rilascio del certificato di
agibilità, come si evince dagli art. 24, comma 3, del D.P.R.
n. 380/2001, e 35, comma 20, l. n. 47/1985, in quanto, ancor
prima della logica giuridica, è la ragionevolezza ad
escludere che possa essere utilizzato, per qualsiasi
destinazione, un fabbricato non conforme alla normativa
urbanistico-edilizia, e, come tale, in potenziale contrasto
con la tutela del fascio di interessi collettivi alla cui
protezione quella disciplina è preordinata”.
Di conseguenza, “il meccanismo del silenzio assenso non
può essere invocato allorché manchi il presupposto stesso
per il rilascio del certificato di agibilità, costituito dal
carattere non abusivo del fabbricato in relazione al quale
sia stata presentata l'istanza tesa ad ottenere il
certificato menzionato; invero, se in linea generale il
tacito accoglimento di una domanda si differenzia dalla
decisione esplicita solo per l'aspetto formale, è necessario
tuttavia che sussistano tutti gli elementi soggettivi e
oggettivi che rappresentano gli elementi costitutivi della
fattispecie di cui si invoca il perfezionamento”.
NON È NECESSARIO L'INVIO DELLA
COMUNICAZIONE DI AVVIO DEL PROCEDIMENTO.
I giudici amministrativi campani ricordano, inoltre, che “secondo
il costante indirizzo giurisprudenziale dal quale il
Collegio non ha ragione di discostarsi, l'esercizio del
potere repressivo degli abusi edilizi costituisce
manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la
conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l'ordinanza
di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui
adozione non è necessario l'invio della comunicazione di
avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti
partecipativi del destinatario dell'atto”.
NON OCCORRE UNA PARTICOLARE MOTIVAZIONE.
Il Tar Campania osserva anche che “secondo la
condivisibile giurisprudenza amministrativa prevalente,
l'ordinanza di demolizione, in quanto atto dovuto e
rigorosamente vincolato, non necessita di particolare
motivazione, potendosi ritenersi adeguata e autosufficiente
la motivazione quando già solo sia rinvenibile la compiuta
descrizione delle opere abusive, la constatazione della loro
esecuzione in assenza del necessario titolo abilitativo
edilizio e l'individuazione della norma applicata, come
ravvisabile nel caso di specie, ogni altra indicazione
esulando dal contenuto tipico del provvedimento”.
Inoltre, “il potere della P.A. in tema di vigilanza
sull'assetto del territorio non è suscettibile di decadenza”.
L’ordinanza di demolizione, per la sua natura di atto dovuto
e rigorosamente vincolato, va ritenuta sorretta da adeguata
istruttoria ed autosufficiente motivazione, qualora sia
rinvenibile la compiuta descrizione degli interventi abusivi
contestati, l’individuazione delle violazioni accertate e
della normativa applicata (commento
tratto da www.casaeclima.com).
----------------
MASSIMA
Con il quarto motivo di ricorso, parte ricorrente ha dedotto
le seguenti censure: violazione e falsa applicazione degli
artt. 24 e 25 del D.P.R. n. 380 del 2001, eccesso di potere
per illogicità e contraddittorietà, difetto di presupposti e
difetto di motivazione, ingiustizia manifesta, in quanto si
sarebbe formato il silenzio-assenso sull’istanza di rilascio
del certificato di agibilità presentata in data 20.11.2006 ed assunta al protocollo del Comune di Sessa Aurunca n.
24716.
Il motivo è infondato.
La pacifica giurisprudenza amministrativa, condivisa dal
Collegio, ritiene che la conformità dei manufatti alle norme urbanistico-edilizie costituisce il presupposto
indispensabile per il legittimo rilascio del certificato di
agibilità, come si evince dagli art. 24, comma 3, del D.P.R.
n. 380/2001, e 35, comma 20, l. n. 47/1985, in quanto, ancor
prima della logica giuridica, è la ragionevolezza ad
escludere che possa essere utilizzato, per qualsiasi
destinazione, un fabbricato non conforme alla normativa urbanistico-edilizia, e, come tale, in potenziale contrasto
con la tutela del fascio di interessi collettivi alla cui
protezione quella disciplina è preordinata.
Conseguentemente, il meccanismo del silenzio assenso non può
essere invocato allorché manchi il presupposto stesso per il
rilascio del certificato di agibilità, costituito dal
carattere non abusivo del fabbricato in relazione al quale
sia stata presentata l'istanza tesa ad ottenere il
certificato menzionato; invero, se in linea generale il
tacito accoglimento di una domanda si differenzia dalla
decisione esplicita solo per l'aspetto formale, è necessario
tuttavia che sussistano tutti gli elementi soggettivi e
oggettivi che rappresentano gli elementi costitutivi della
fattispecie di cui si invoca il perfezionamento (cfr. TAR
Napoli, sez. III, 17.04.2014, n. 2191, sez. II, 21.02.2013, n.969, TAR Salerno, sez., 13.06.2013,
n. 1325).
Alla luce di quanto sopra deve, allora, escludersi che nella
fattispecie oggetto di gravame possa ritenersi formato il
silenzio-assenso sulla richiesta di certificato di
agibilità, alla luce della riscontrata difformità delle
opere di cui all’ordinanza di demolizione rispetto al
permesso di costruire n. 110/2000. |
EDILIZIA PRIVATA:
Il potere di sospensione dei lavori
edili in corso, attribuito all'Autorità comunale dall'art.
27, comma 3, D.P.R. n. 380 del 2001 -T.U. Edilizia-, è di
tipo cautelare, in quanto destinato ad evitare che la
prosecuzione dei lavori determini un aggravarsi del danno
urbanistico; e alla descritta natura interinale del potere
segue che il provvedimento emanato nel suo esercizio ha la
caratteristica della provvisorietà, fino all'adozione dei
provvedimenti definitivi.
Ne discende che, a seguito dello spirare del termine di 45
giorni, ove l'Amministrazione non abbia emanato alcun
provvedimento sanzionatorio definitivo, l'ordine in
questione perde ogni efficacia, mentre, nell'ipotesi di
emanazione del definitivo provvedimento sanzionatorio, è in
virtù di quest'ultimo che viene a determinarsi la lesione
della sfera giuridica del destinatario, con conseguente
assorbimento dell'ordine di sospensione dei lavori.
---------------
L'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi
costituisce manifestazione di attività amministrativa
doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti,
quali l'ordinanza di demolizione, costituiscono atti
vincolati per la cui adozione non è necessario l'invio della
comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi
spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto.
---------------
L'ordinanza di demolizione, in quanto atto dovuto e
rigorosamente vincolato, non necessita di particolare
motivazione, potendosi ritenersi adeguata e autosufficiente
la motivazione quando già solo sia rinvenibile la compiuta
descrizione delle opere abusive, la constatazione della loro
esecuzione in assenza del necessario titolo abilitativo
edilizio e l'individuazione della norma applicata, come
ravvisabile nel caso di specie, ogni altra indicazione
esulando dal contenuto tipico del provvedimento.
Va altresì evidenziato che il potere della P.A. in tema di
vigilanza sull'assetto del territorio non è suscettibile di
decadenza.
---------------
L’ordinanza di demolizione, per la sua natura di atto dovuto
e rigorosamente vincolato, è da ritenersi sorretta da
adeguata istruttoria ed autosufficiente motivazione,
allorquando sia rinvenibile la compiuta descrizione degli
interventi abusivi contestati (come sopra precisato),
l’individuazione delle violazioni accertate (opere eseguite
in totale difformità dal permesso di costruire n. 110/2000,
rilasciato per “ristrutturazione edilizia ed adeguamento
igienico funzionale di capannoni ad uso agricolo sul terreno
riportato in catasto al foglio 125 particella 5017”, nonché
in assenza di permesso di costruire) e della normativa
applicata (art. 31, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001).
---------------
Né può riconoscersi rilevanza, onde qualificare come
illegittima l’ordinanza di demolizione, ai provvedimenti
relativi al diverso procedimento di autorizzazione
dell’attività, in quanto essi non possono in alcun modo aver
sanato gli abusi edilizi accertati, anche perché, come si
avrà modo di precisare in seguito, la conformità
urbanistico-edilizia dei locali in cui l'attività produttiva
o commerciale si va a svolgere, costituisce un presupposto
per il rilascio dell’autorizzazione stessa, e deve
sussistere sia in sede di rilascio del relativo titolo
autorizzatorio, sia per l’intera durata del suo svolgimento.
---------------
Il Collegio deve innanzitutto dichiarare
l’inammissibilità del ricorso introduttivo, questione
rilevata d’ufficio e indicata in udienza ai sensi dell’art.
73, comma 3, c.p.a., in riferimento alla domanda di
annullamento dell’ordinanza di sospensione dei lavori n. 214
del 30.10.2009, adottata dal Comune di Sessa Aurunca
nei confronti della Cl. s.r.l. e del sig. Fr.Be..
Ed invero la costante giurisprudenza amministrativa,
condivisa dal Collegio, ha sempre interpretato in termini
categorici la disposizione di cui all'art. 27, comma 3, del
D.P.R. n. 380 del 2001, pervenendo al convincimento per cui
(cfr. TAR Calabria-Catanzaro Sez. I, 27.07.2012, n. 840) il potere di sospensione dei lavori edili in corso,
attribuito all'Autorità comunale dall'art. 27, comma 3,
D.P.R. n. 380 del 2001 -T.U. Edilizia-, è di tipo cautelare,
in quanto destinato ad evitare che la prosecuzione dei
lavori determini un aggravarsi del danno urbanistico; e alla
descritta natura interinale del potere segue che il
provvedimento emanato nel suo esercizio ha la caratteristica
della provvisorietà, fino all'adozione dei provvedimenti
definitivi. Ne discende che, a seguito dello spirare del
termine di 45 giorni, ove l'Amministrazione non abbia
emanato alcun provvedimento sanzionatorio definitivo,
l'ordine in questione perde ogni efficacia, mentre,
nell'ipotesi di emanazione del definitivo provvedimento
sanzionatorio, è in virtù di quest'ultimo che viene a
determinarsi la lesione della sfera giuridica del
destinatario, con conseguente assorbimento dell'ordine di
sospensione dei lavori (cfr. Consiglio di
Stato, Sez. IV,
19.06.2014, n. 3115, TAR Milano, Sez. II, 20.01.2015, n. 218).
Nel caso di specie il Comune di Sessa Aurunca in data 28.01.2010 ha adottato l’ordinanza di demolizione n. 16
nei confronti dei ricorrenti, impugnata anch’essa con il
presente ricorso introduttivo, e, pertanto, il ricorso
stesso deve essere dichiarato inammissibile relativamente
alla domanda demolitoria della citata ordinanza di
sospensione dei lavori.
Il ricorso introduttivo proposto avverso la suddetta
ordinanza di demolizione è, invece, in parte fondato,
limitatamente ad una delle censure di cui al quinto motivo
di ricorso, e deve, pertanto, essere accolto per quanto di
ragione.
Con il primo motivo di ricorso parte ricorrente ha dedotto
le seguenti censure: 1. violazione e falsa applicazione
degli artt. 7, 8, 10 e 10-bis della legge n. 241 del 1990,
così come modificata dalla legge n. 15 del 2005, eccesso di
potere per mancata comunicazione dell'avvio del
procedimento, carenza del contraddittorio, illogicità,
difetto di istruttoria e di motivazione, in quanto il Comune
resistente avrebbe omesso di inviare la comunicazione di
avvio del procedimento.
Il motivo è infondato.
Al riguardo va rilevato che, secondo il costante indirizzo
giurisprudenziale dal quale il Collegio non ha ragione di
discostarsi, l'esercizio del potere repressivo degli abusi
edilizi costituisce manifestazione di attività
amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi
provvedimenti, quali l'ordinanza di demolizione,
costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è
necessario l'invio della comunicazione di avvio del
procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi
del destinatario dell'atto (cfr.,
ex multis, TAR Napoli,
Sez. VIII, 28.01.2016, n. 538, 07.01.2015 n. 44;
Consiglio di Stato, VI Sezione 29.11.2012 n. 6071;
Consiglio di Stato, IV Sezione, 18.09.2012; Consiglio
di Stato, IV Sezione 10.08.2011, n. 4764; Consiglio di
Stato, IV Sezione, 20.07.2011, n. 4403; Consiglio di
Stato, VI Sezione, 24.09.2010, n. 7129).
Con il secondo motivo di ricorso i ricorrenti hanno dedotto
le seguenti censure: 2. violazione e falsa applicazione
dell'art. 3 della legge 241 del 1990, eccesso di potere per
difetto di istruttoria e difetto di motivazione.
Parte
ricorrente lamenta che il provvedimento impugnato non
indicherebbe i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche
poste alla base del provvedimento stesso, in quanto
l’amministrazione avrebbe omesso la valutazione in ordine
alla effettiva data di realizzazione delle opere oggetto dei
provvedimenti repressivi adottati dal Comune, nonché
all’attuale destinazione già assentita con riferimento
all’attività di produzione di saponi detergenti industriali,
tenuto conto di tutte le autorizzazioni possedute ed
elencate in fatto.
Il motivo è infondato.
Il Collegio osserva che, secondo la condivisibile
giurisprudenza amministrativa prevalente, l'ordinanza di
demolizione, in quanto atto dovuto e rigorosamente
vincolato, non necessita di particolare motivazione,
potendosi ritenersi adeguata e autosufficiente la
motivazione quando già solo sia rinvenibile la compiuta
descrizione delle opere abusive, la constatazione della loro
esecuzione in assenza del necessario titolo abilitativo
edilizio e l'individuazione della norma applicata, come
ravvisabile nel caso di specie, ogni altra indicazione
esulando dal contenuto tipico del provvedimento (cfr. ex multis TAR Napoli, Sez. VIII, 28.01.2016, n. 538
cit., TAR Napoli, Sez. VI, n. 315 del 23.01.2012).
Va altresì evidenziato che il potere della P.A. in tema di
vigilanza sull'assetto del territorio non è suscettibile di
decadenza (cfr. ex multis TAR Campania, Napoli, Sezione VIII,
05.03.2015 n. 1398).
...
Passando ad esaminare le ulteriori censure di cui al terzo
motivo di ricorso, esse devono ritenersi infondate.
L’ordinanza di demolizione oggetto di impugnazione risulta
adottata a seguito di quanto emerso dal sopralluogo
effettuato dal Comando di Polizia Municipale e risultante
dal P.V. n. 24/09, allegato alla nota prot. n. 4298 del 19.10.2009, e cioè alla medesima nota menzionata
nell’ordinanza di sospensione dei lavori; processo verbale
che ai fini dell’individuazione delle opere oggetto di
contestazione richiama la descrizione delle opere stesse di
cui alla relazione tecnica di sopralluogo prot. n. 148/SAT/ST
del 13.10.2009 formante parte integrante del verbale
stesso ed espressamente richiamata alla lettera a)
dell’ordinanza di demolizione impugnata, atti tutti
depositati in giudizio dal Comune resistente.
Ora, siccome le opere elencate nell’ordinanza di demolizione
sono le stesse di cui ai suddetti verbali e dell’ordinanza
di sospensione di lavori, ritiene il Collegio che non
sussista alcun dubbio sulla identificazione delle stesse
come quelle contestate, dovendo ritenersi un mero errore
materiale il riferimento al diverso verbale richiamato nel
dispositivo dell’ordinanza stessa.
Deve, pertanto, concludersi che l’ordinanza di demolizione è
stata legittimamente adottata ai sensi dell’articolo 31 del
d.p.r. n. 380 del 2001, nell'esercizio del potere vincolato
di repressione dell'abusiva attività edilizia.
Ed invero, l’ordinanza di demolizione, per la sua natura di
atto dovuto e rigorosamente vincolato, è da ritenersi
sorretta da adeguata istruttoria ed autosufficiente
motivazione, allorquando –come, appunto, nella specie, e a
dispetto di quanto asserito da parte ricorrente– sia
rinvenibile la compiuta descrizione degli interventi abusivi
contestati, come sopra precisato, l’individuazione delle
violazioni accertate (opere eseguite in totale difformità
dal permesso di costruire n. 110/2000, rilasciato per
“ristrutturazione edilizia ed adeguamento igienico
funzionale di capannoni ad uso agricolo sul terreno
riportato in catasto al foglio 125 particella 5017”, nonché
in assenza di permesso di costruire) e della normativa
applicata (art. 31, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001) (cfr.
ex multis TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 04.09.2015,
n. 4305 e la giurisprudenza ivi richiamata).
In proposito, parte ricorrente si limita a rappresentare che
il capannone industriale e gli accessori pertinenziali
sarebbero stati edificati in data antecedente al 01.09.1967 e che sarebbero stati oggetto di opere di
ristrutturazione e adeguamento igienico funzionale in virtù
di regolare concessione edilizia n. 110 rilasciata dal
Comune di Sessa Aurunca in data 13.10.2000, ma nulla
dice relativamente alla contestata difformità rispetto al
suddetto titolo edilizio che, si ripete, è stato rilasciato
per ristrutturazione edilizia ed adeguamento igienico
funzionale di capannoni “ad uso agricolo” sul terreno
riportato in catasto al foglio 125 particella 5017,
difformità posta a fondamento del provvedimento di
demolizione.
Né può riconoscersi rilevanza, onde qualificare come
illegittima l’ordinanza di demolizione, ai provvedimenti
relativi al diverso procedimento di autorizzazione
dell’attività, in quanto essi non possono in alcun modo aver
sanato gli abusi edilizi accertati, anche perché, come si
avrà modo di precisare in seguito, la conformità
urbanistico-edilizia dei locali in cui l'attività produttiva
o commerciale si va a svolgere, costituisce un presupposto
per il rilascio dell’autorizzazione stessa, e deve
sussistere sia in sede di rilascio del relativo titolo
autorizzatorio, sia per l’intera durata del suo svolgimento
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, con la
sentenza 07.04.2016 n. 1767). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il legittimo esercizio di un’attività
commerciale, industriale e produttiva deve essere ancorato,
sia in sede di rilascio del relativo titolo autorizzatorio,
sia per l’intera durata del suo svolgimento, alla
disponibilità giuridica e alla regolarità
urbanistico-edilizia dei locali in cui essa viene posta in
essere.
---------------
Si passa ad analizzare il ricorso per motivi aggiunti con il
quale i ricorrenti hanno impugnato la disposizione
dirigenziale n. 58 del 15.09.2015 con cui il Capo
Settore Assetto del Territorio del Comune di Sessa Aurunca
ha disposto la cessazione dell’attività nei locali privi di
titolo edilizio della Cl. s.r.l. ubicati in Sessa
Aurunca, Via ..., località ....
Avverso questo successivo provvedimento, i ricorrenti hanno
riproposto le censure già dedotte con il ricorso
introduttivo, e con ulteriori quattro motivi di ricorso
hanno dedotto vizi di illegittimità propria.
Il Collegio deve innanzitutto rilevare che vanno disattese
le censure articolate in via derivata in riferimento al
ricorso introduttivo, ritenuto infondato, proposto avverso
l’ordinanza di demolizione; ad eccezione dell’unica censura
accolta, riguardante l’illegittimità della suddetta
ordinanza nei confronti del sig. Fr.Be., che
inficia per illegittimità derivata il provvedimento
impugnato con il ricorso per i motivi aggiunti, invece
legittimamente adottato nei confronti della Cl. s.r.l..
Con ulteriori quattro motivi di ricorso, che si ritiene di
poter affrontare in via unitaria, sono state dedotte le
seguenti censure: 1 (2) violazione e falsa applicazione,
sotto altro profilo, degli artt. 7, 8, 10 e 10-bis della
legge n. 241 del 1990 e successive modifiche, eccesso di
potere per mancata comunicazione dell'avvio del
procedimento, carenza di contraddittorio, illogicità,
difetto di istruttoria e di motivazione; 2 (3) eccesso di
potere per illogicità, difetto di presupposti, difetto di
istruttoria e difetto di motivazione, ingiustizia manifesta;
3 (4) eccesso di potere per illogicità e contraddittorietà,
difetto di presupposti, difetto di istruttoria e di
motivazione; 4 (5) eccesso di potere per illogicità e
contraddittorietà, difetto di presupposti, difetto di
istruttoria e difetto di motivazione, sviamento di potere.
Parte ricorrente lamenta, in sintesi, la mancata
comunicazione dell’avvio del procedimento; il difetto di
motivazione, in quanto non sarebbe sufficiente
l’affermazione secondo la quale “l’esercizio dell’attività
avviene in area non avente valida destinazione urbanistica e
utilizzando strutture ed immobili realizzate in assenza del
titolo abilitativo”; la contraddittorietà rispetto al
precedente provvedimento, con il quale il Comune aveva
diffidato essa società ad eseguire, dopo l’incendio, i
lavori di messa in sicurezza con massima sollecitudine;
lamenta infine che la cessazione dell’attività sarebbe stata
disposta come se tutte le strutture nelle quali essa società
esercita la propria attività fossero stati realizzate in
assenza di titolo abilitativo, mentre il Comune resistente
avrebbe dovuto limitare la sanzione alla sola parte dei
locali non autorizzati sotto il profilo edilizio.
I motivi sono infondati.
Va osservato preliminarmente che, secondo il costante
orientamento della giurisprudenza anche di questo Tribunale,
dalla quale il Collegio non ha motivo di discostarsi, il
legittimo esercizio di un’attività commerciale, industriale
e produttiva, deve essere ancorato, sia in sede di rilascio
del relativo titolo autorizzatorio, sia per l’intera durata
del suo svolgimento, alla disponibilità giuridica e alla
regolarità urbanistico-edilizia dei locali in cui essa viene
posta in essere (cfr. TAR Campania Napoli, Sez. III, 21.12.2012, n. 5326, sez. III,
09.09.2008, n. 10058;
Id., 09.08.2007, n. 7435; Id., 27.01.2003, n. 423;
Id., 22.11.2001, n.5007, Cons. Stato, sez. V, 05.11.2012 n. 5590); giurisprudenza espressamente
richiamata nel provvedimento impugnato.
Alla luce di quanto sopra, considerato che la conformità
urbanistico-edilizia dei locali in cui si svolge l'attività
produttiva o commerciale costituisce un presupposto per il
rilascio dell’autorizzazione stessa, che deve sussistere sia
in sede di rilascio del relativo titolo autorizzatorio, sia
per l’intera durata del suo svolgimento, il provvedimento
oggetto di impugnazione deve ritenersi legittimamente
adottato.
Esso è infatti fondato su rappresentate e
accertate ragioni di abusività e non regolarità delle opere
edilizie in questione con le prescrizioni urbanistiche del
Comune di Sessa Aurunca (Consiglio di Stato, sez. V, 05.11.2012, n. 5590, Sez. IV, 14.10.2011, n. 5537);
e, peraltro, nello stesso è anche espressamente richiamata
l’ordinanza di demolizione impugnata con il ricorso
introduttivo (però, come si è visto, infondato), con la
quale, si ripete, il Comune resistente ha contestato la
difformità delle opere ivi indicate, rispetto al permesso di
costruire n. 110 rilasciato dal Comune di Sessa Aurunca in
data 13.10.2000 per “ristrutturazione edilizia ed
adeguamento igienico funzionale di capannoni ad uso agricolo
sul terreno riportato in catasto al foglio 125 particella
5017”.
Il provvedimento oggetto di impugnazione, in definitiva,
contrariamente a quanto sostenuto da parte ricorrente, deve
ritenersi adeguatamente motivato, essendovi indicati i
presupposti di fatto e le ragioni giuridiche determinative
della scelta dell'amministrazione, effettuata in base alle
risultanze dell'istruttoria e in conformità a quanto
disposto dall’art. 3, comma 1, della legge n. 241 del 1990,.
Deve altresì ritenersi infondata la censura con la quale
parte ricorrente lamenta la contraddittorietà con il
precedente provvedimento con il quale il Comune aveva
diffidato essa società ad eseguire, dopo l’incendio, i
lavori di messa in sicurezza con massima sollecitudine,
trattandosi di provvedimenti adottati nell’ambito di
procedimenti aventi diversi presupposti.
Quanto alla censura con la quale parte ricorrente lamenta
che il Comune resistente avrebbe dovuto limitare la sanzione
alla sola parte dei locali non autorizzati sotto il profilo
edilizio, anch’essa deve ritenersi infondata per la
risolutiva circostanza che, nel provvedimento impugnato, si
dà atto che l’ordinanza n. 111 dell’11.08.2015, emessa a
seguito dell’incendio avvenuto in data 24.07.2015
sull’immobile adibito ad attività produttive per cui è
causa, a tutela della pubblica e privata incolumità e per la
salvaguardia delle matrici ambientali, conteneva una
dichiarazione di inagibilità dell’area. Ed infatti,
l’ordinanza n. 111 dell’11.08.2015, provvedimento non
impugnato da parte ricorrente, espressamente dichiara “la
inagibilità dell’area interessata dall’incendio fino al
completo ripristino di normali condizioni di sicurezza per
la pubblica e privata incolumità, da formalizzarsi con
apposito provvedimento di questo Ente”.
In riferimento, infine, alla prima censura di natura
procedimentale, relativa alla mancata comunicazione di avvio
del procedimento, essa non trova alcun fondamento giuridico
alla luce del presupposto di fatto da cui ha avuto origine
il procedimento: la natura abusiva (mancanza di conformità
urbanistico-edilizia) dei locali in cui la società
ricorrente svolge la propria attività. Ed invero,
costituisce allora un punto incontroverso e decisivo quello
che la presupposta abusività del compendio immobiliare
imponeva all’Amministrazione l’adozione di provvedimenti
sanzionatori/repressivi di natura vincolata. Di talché la
questione procedimentale afferente l’omessa comunicazione di
avvio del procedimento deve comunque deve intendersi
superata ai sensi dell’art. 21-octies della legge n. 241 del
1990.
Conclusivamente, per i suesposti motivi, il ricorso
introduttivo deve essere dichiarato in parte inammissibile,
relativamente alla domanda di annullamento dell’ordinanza di
sospensione dei lavori n. 214 del 30.10.2009, adottata
dal Comune di Sessa Aurunca, e in parte va accolto, in
riferimento dell’ordinanza di demolizione n. 16 del 28.01.2010, limitatamente alla prima censura del terzo
motivo di ricorso relativa ai destinatari dell’ordinanza
stessa, e, pertanto, soltanto nei confronti del sig.
Fr.Be..
Parimenti, il ricorso per motivi
aggiunti, proposto avverso la disposizione dirigenziale n.
58 del 15.09.2015 con cui il Capo Settore Assetto del
Territorio del Comune di Sessa Aurunca ha disposto la
cessazione dell’attività nei confronti della Cl. s.r.l.
e del sig. Fr.Be., deve essere accolto in parte,
per illegittimità derivata dall’accoglimento della suddetta
censura relativa ai destinatari dell’ordinanza di
demolizione, in quanto atto presupposto, limitatamente nei
confronti del sig. Fr.Be. (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, con la
sentenza 07.04.2016 n. 1767). |
CONDOMINIO:
Gestione condomini in chiaro. Nulla la nomina
dell'amministratore poco trasparente. Il Tribunale di
Milano: va presentato un preventivo dettagliato relativo al
compenso.
È nulla la delibera che abbia confermato nella sua carica
l'amministratore che non abbia presentato all'assemblea uno
specifico e dettagliato preventivo relativo al proprio
compenso, limitandosi a richiamare l'importo già percepito
per la precedente gestione.
Lo ha stabilito il TRIBUNALE di Milano con la recente
sentenza 05.04.2016 n. 4294, pronunciandosi in merito
all'applicazione del nuovo disposto di cui all'art. 1129,
terzultimo comma, c.c. in tema di trasparenza della gestione
condominiale.
La disposizione in questione, infatti, dispone che
l'amministratore, all'atto dell'accettazione della nomina e
del suo rinnovo, debba specificare analiticamente, a pena di
nullità della nomina stessa, l'importo dovuto a titolo di
compenso per l'attività svolta.
Il caso concreto.
Nella specie i condomini riuniti in assemblea avevano messo
ai voti la nomina di un amministratore diverso rispetto a
quello in carica, ma non erano riusciti a raggiungere il
necessario quorum previsto dall'art. 1136 c.c. (maggioranza
degli intervenuti che rappresenti almeno la metà del valore
dell'edificio). La relativa delibera aveva quindi statuito
la conferma del precedente amministratore «alle medesime
condizioni economiche esposte per il passato».
Quest'ultima,
esperito il tentativo obbligatorio di mediazione, era stata
però impugnata da alcuni condomini dinanzi all'autorità
giudiziaria per violazione del disposto del quattordicesimo
comma dell'art. 1129 c.c., ritenendo gli stessi che l'omessa
specifica indicazione della misura del compenso richiesto
dall'amministratore confermato nella sua carica ne
comportasse la nullità.
Il condominio convenuto, nel
costituirsi in giudizio, aveva invece sostenuto la piena
legittimità della delibera in questione, sia perché si
trattava di una mera conferma dell'amministratore in carica
(e non di una nuova nomina) sia perché nel verbale
assembleare era stato comunque fatto riferimento alla misura
del compenso riconosciuto all'amministratore nella
precedente gestione, per tale motivo facilmente
ricostruibile, almeno nel suo importo totale, dal relativo
consuntivo. Il Tribunale di Milano, esaminata la questione,
ha quindi provveduto a dichiarare la nullità della delibera
impugnata, con conseguente condanna del condominio al
pagamento delle spese di lite.
La trasparenza della gestione condominiale e l'indicazione
specifica e dettagliata della misura del compenso
dell'amministratore.
La riforma del condominio di cui alla legge n. 220/2012 ha
introdotto numerose disposizioni atte a garantire una
maggiore trasparenza nella gestione condominiale,
dall'obbligo di rendere conoscibili ai condomini e ai terzi
le generalità dell'amministratore a quello di consentire
l'accesso alla documentazione, dall'anagrafe condominiale
all'apertura del conto corrente, fino ai criteri di
redazione e tenuta della contabilità condominiale. L'obbligo
dell'amministratore di dettagliare ai condomini l'ammontare
del proprio compenso si inserisce quindi in questo contesto
di maggiore trasparenza e verificabilità delle gestioni
condominiali.
Quanto sia importante questo adempimento agli occhi del
legislatore (sono infatti frequenti le contestazioni dei
compensi degli amministratori che sfociano in vere e proprie
cause) lo testimonia la sanzione espressamente prevista dal
quattordicesimo comma dell'art. 1129 c.c. che, come
anticipato, è quella della nullità.
Per comprendere appieno detta affermazione occorre
considerare come la conseguenza più frequente
dell'invalidità di una deliberazione assembleare sia quella
dell'annullabilità (che comporta il venir meno degli effetti
dell'atto soltanto a far data dalla pronuncia giudiziale di
annullamento), laddove invece la nullità, soprattutto a
seguito del famoso intervento delle sezioni unite della
Cassazione del 2005, si configura soltanto nei casi più
gravi delineati dalla giurisprudenza o, appunto,
espressamente individuati dal legislatore.
Molto gravi sono infatti le conseguenze della declaratoria
della nullità di una delibera condominiale. In questi casi
gli effetti che ne derivano sono per così dire azzerati,
poiché la delibera perde efficacia a partire fin dalla sua
adozione.
Questo vuol dire che l'amministratore nominato
dall'assemblea, una volta dichiarata nulla la sottostante
deliberazione, non può più essere considerato tale a
decorrere fin dal primo giorno del suo incarico, con
evidenti e gravi ricadute applicative dal punto di vista
dell'efficacia e del valore giuridico degli atti posti in
essere in qualità di legale rappresentante della compagine
condominiale.
Anche dal punto del diritto al compenso sorgono notevoli
difficoltà, perché, a ben vedere, alla dichiarazione
giudiziale della nullità della delibera di nomina dovrebbe
conseguire la nullità del contratto di mandato e, quindi, la
mancanza di causa per il pagamento dell'emolumento, del
quale potrebbe anche essere pretesa la restituzione da parte
dei condomini (salva, forse, la possibilità per
l'amministratore di trattenerne una parte a titolo di
indennità per l'effettiva attività comunque svolta
nell'interesse del condominio).
La pronuncia del Tribunale di Milano.
Il Tribunale di Milano, come detto, accogliendo la domanda
dei condomini diretta alla dichiarazione della nullità della
delibera di conferma dell'amministratore, ha quindi
evidenziato come l'organo gestorio del condominio, in base
al nuovo disposto di cui all'art. 1129 c.c., sia obbligato,
a pena di nullità della nomina, a specificare analiticamente
l'importo dovuto a titolo di compenso per l'attività svolta
sia in caso di nomina di un nuovo amministratore sia in caso
di conferma di quello uscente.
Differenti interpretazioni di questo fondamentale diritto
dei condomini a poter scegliere in maniera informata e
trasparente il proprio amministratore, anche sulla base
della misura del compenso da questi richiesto in via
preventiva, finirebbero infatti per svuotare di significato
l'apprezzabile contenuto della disposizione in questione e
continuerebbero a lasciare i condomini in balia di
amministratori poco diligenti, mantenendo elevato il rischio
di contenzioso giudiziale.
Occorre infatti evidenziare come la menzionata novella di
cui all'art. 1129 c.c. vada a cadere in un contesto nel
quale gli amministratori, salvo rare eccezioni, non hanno
quasi mai specificato in maniera analitica ai condomini il
preventivo del proprio compenso (con particolare riguardo
alle c.d. spese vive).
A questo proposito è utile ricordare come la specificazione
analitica del compenso non riguardi ovviamente soltanto
l'ammontare del medesimo ma, piuttosto, l'elencazione delle
attività che si intendono comprese nel medesimo e le
condizioni economiche delle stesse (se, tanto per fare degli
esempi, siano o meno comprese nella misura del compenso
proposta ai condomini l'attività di convocazione delle
assemblee ordinaria e straordinarie e la presenza
dell'amministratore alle stesse, la gestione retributiva e
contributiva dei dipendenti del condominio, la redazione di
lettere e diffide ecc.)
(articolo ItaliaOggi Sette del
23.05.2016). |
URBANISTICA: Aree
urbanizzate da cedere.
L'azienda che subentra nella lottizzazione deve cedere
gratis al comune le aree urbanizzate come prevedeva la
convenzione rimasta inadempiuta dal dante causa. Il
contratto di compravendita del complesso residenziale indica
in modo esplicito la necessità di cedere i posti auto
all'amministrazione locale: la sottoscrizione dell'atto
interrompe il decorso del termine di prescrizione ed
equivale al riconoscimento del diritto dell'ente.
È quanto emerge dalla
sentenza 04.04.2016 n. 352, pubblicata dal TAR
Veneto, Sez. II.
Accolto il ricorso del Comune: scatta il trasferimento senza
oneri degli oltre cinquanta posti auto previsti
dall'originari convenzione firmata nel lontano 1982 e tenuta
in vita dalla compravendita sottoscritta nel 2002
dall'azienda.
L'acquirente rinuncia in modo tacito alla prescrizione nel
momento in cui ha prende carico l'obbligo relativo alle
opere di urbanizzazione previsto dalla lottizzazione. Il
riconoscimento del diritto non ha natura negoziale ma è un
atto giuridico in senso stretto di carattere non recettizio.
E anche la rinuncia alla prescrizione rappresenta un negozio non
recettizio: la validità prescinde dalla conoscenze che ne ha
l'interessato, mentre risulta sufficiente che la volontà
risulti espressa in modo inequivocabile
(articolo ItaliaOggi Sette del
30.05.2016).
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MASSIMA
1. Preliminarmente, deve essere respinta l’eccezione
d’inammissibilità del ricorso, non risultando alcuna
contraddittorietà tra le domande proposte dal Comune in via
alternativa, essendo queste, almeno nella prospettazione del
ricorrente, entrambe volte ad ottenere l’esecuzione della
convenzione di lottizzazione del 1982, e ciò, o attraverso
la cessione delle aree destinate ad opere di urbanizzazione,
ovvero, nel caso di riconosciuta impossibilità materiale o
giuridica di cessione, attraverso la monetizzazione delle
stesse, e dunque attraverso il pagamento del loro
controvalore pecuniario.
2. Nel merito, deve essere innanzitutto respinta l’eccezione
di intervenuta prescrizione del diritto fatto valere, in
quanto questo, se pure trae origine dalla convenzione del 05.03.1982 come modificata dalla convenzione del 16.03.1990, rimasta in tale parte inadempiuta, è stato confermato
nella sua persistenza dalla odierna resistente nell’atto di
compravendita dell’11.05.2002, dove si era dichiarato:
“la parte acquirente si impegna a cedere al Comune di Eraclea, come stabilito nelle sopracitate convenzioni i
mappali 1068, 1067, 1054, 1055, 1104 e 1105, nonché a cedere
gratuitamente numero 54 posti auto e le strade di accesso
che dovranno, sia gli uni che le altre, essere realizzate a
cura e spesa della parte acquirente come già più sopra
stabilito”.
E’ dunque evidente che con tale atto la In.Aq.,
ammettendo l’esistenza del diritto dell’amministrazione alla
cessione dei mappali in questione, ha interrotto il decorso
della prescrizione, ai sensi dell’art. 2944 c.c., ovvero,
ove questa fosse già nel frattempo maturata, ha tacitamente
rinunciato a farla valere ai sensi dell’art. 2937 c.c..
Né è di ostacolo alla configurazione del riconoscimento del
diritto di cui all’art. 2944 c.c. o della rinuncia alla
prescrizione di cui all’art. 2937 c.c., il fatto che
l’impegno ad adempiere sia stato manifestato nell’ambito di
un contratto al quale è rimasta estranea la P.A. creditrice;
in quanto, il riconoscimento del diritto contemplato
dall’art. 2944 c.c. non coincide necessariamente con quello
previsto dall’art. 1988 c.c. potendo estrinsecarsi in
qualunque fatto che implichi comunque l’ammissione
dell’esistenza del diritto, e non avendo natura negoziale,
ma costituendo un atto giuridico in senso stretto di
carattere non recettizio
(cfr. Cass. n. 5324/2005).
Analogamente, con riferimento alla seconda ipotesi, la
Cassazione (n. 13870/2009) ha affermato che “La rinuncia
alla prescrizione -espressamente prevista dall'art. 2937
cod. civ.- è un negozio unilaterale non recettizio, la cui
validità ed efficacia prescinde dalla conoscenza che ne
abbia il soggetto interessato, essendo necessario soltanto
che la volontà del rinunciante risulti in modo
inequivocabile”.
Inoltre, con la delibera della Giunta Comunale n. 157 del 01.08.2007 si dà fra l’altro atto della disponibilità
manifestata da parte di In.Aq. ad assolvere ai
propri obblighi convenzionali mediante la cessione delle
aree in questione.
In ogni caso, poi, con la nota del 17.04.2008 (doc. 13
Comune) la In.Aq. ha nuovamente riconosciuto la
persistenza del proprio obbligo di cedere le aree
urbanizzate, sia pure opponendo la pretesa a vedersi
rimborsate le spese di realizzazione del parcheggio e della
viabilità.
Pertanto, il comportamento della odierna resistente è stato
sempre inequivoco nell’ammissione dell’esistenza del diritto
del Comune ad ottenere la cessione delle aree in forza della
convenzione di lottizzazione (in questo accompagnato o meno
da una controprestazione), e ciò con effetti interruttivi
del decorso della prescrizione.
3.1. Venendo al merito delle domande proposte dal Comune di
Eraclea, si osserva che dagli atti depositati in giudizio,
ed in particolare dalla determinazione del 17.05.2012,
con la quale il primo aveva invitato la In.Aq.
a provvedere al pagamento della somma di € 206.400,00, si
ricava come l’Ufficio comunale di Edilizia Privata avesse
accertato che la dotazione minima dei posti auto ad uso
dell’immobile realizzato dalla dante causa di In.Aq. comprendeva anche i 54 parcheggi soggetti a
cessione, per cui tali posti non potevano essere ceduti al
Comune, in quanto sarebbe “venuto meno il numero minimo di
posti auto previsti dalla legge in relazione alla volumetria
edilizia realizzata da Im.Ve./In.Aq. s.r.l.”.
Di qui, secondo l’amministrazione, i presupposti per la
monetizzazione imposta a partire dalla detta nota del 17.05.2012.
3.2. Ora ritiene il Collegio che tale accertamento, peraltro
contestato dalla resistente che oppone la non necessità di
utilizzare a propri fini le aree soggette a cessione, non
contenga elementi effettivamente ostativi alla cessione
dell’area destinata a parcheggio, come richiesta in via
principale dal Comune con il presente ricorso; non essendovi
alcuna impossibilità giuridica in tal senso.
Ed infatti,
i
posti auto in questione, prima ancora che essere destinati
ad integrare la dotazione minima di posti auto prevista
dalla legge in relazione alla volumetria edilizia realizzata In.Aq. s.r.l., debbono essere messi a
diposizione della collettività al fine di soddisfare gli
standard costruttivi previsti dal piano di lottizzazione
approvato. Non essendo possibile privare un’area della sua
dotazione minima di standard senza una contestuale,
effettiva e funzionale indicazione di altre aree di
parcheggio idonee a salvaguardare il requisito minimo ex lege. E dunque, proprio l’indisponibilità del bene, dovuta
al fatto che questo è essenziale per garantire la
legittimità dell’insediamento realizzato, renderebbe semmai
illegittima la commutazione dell’area in prestazione
patrimoniale, che lascerebbe la prima nella disponibilità
del privato, con sottoposizione della stessa ad un regime
privatistico
(cfr. Cons. St. sent. n. 4183/2014).
3.3. Al riguardo
pare utile ricordare il differente regime
cui sono sottoposti i parcheggi pubblici di standard e i
parcheggi privati di pertinenza delle singole unità
immobiliari ex L. 122 del 1989.
Ed infatti, come
efficacemente sintetizzato dal Consiglio di Stato (sent. n.
4183/2014),
i parcheggi destinati al completamento degli
standard sono previsti dall’art. 41-quinquies della L. n.
1150 del 1942, insieme agli spazi pubblici e al verde
pubblico, e regolati dal D.M. 02.04.1968 n. 1444. La loro
funzione è quella di consentire un ordinato sviluppo del
territorio ed alleviare il carico urbanistico, come dimostra
il modo di computo degli standard pubblico relativo ai
parcheggi in quanto opere di urbanizzazione primaria, in
aggiunta alle superfici a parcheggio previste dall'art. 18
L. n. 765 del 1967 (che ha introdotto l’art. 41-sexies nella
L. n. 1150 del 1942).
Al contrario,
i parcheggi privati disciplinati dal citato
art. 41-sexies e dall’articolo 9 della L. 122 del 1989, sono
di proprietà privata, riservati agli abitanti delle unità
residenziali e sono asserviti all’immobile con vincolo di
pertinenzialità. La funzione è certamente simile (il
decongestionamento della viabilità pubblica tramite
l’agevolazione della costruzione di spazi di parcheggio
degli autoveicoli dei proprietari dei beni immobili) ma la
disciplina è notevolmente diversa, sia in relazione al
computo degli spazi che in merito al regime proprietario,
stante il vincolo pertinenziale che si instaura con l’unità
immobiliare principale.
3.4. Alla luce di tali premesse, la pretesa del Comune,
fatta valere prima con la diffida del 22.05.2013 e poi
con il presente ricorso, di ottenere, innanzitutto, la
cessione delle aree, appare perfettamente legittima in
quanto coerente con la funzione stessa degli standard
urbanistici e con gli interessi pubblici di cui è portatrice
l’amministrazione.
3.5. Viceversa, la questione dell’eventuale insufficienza di
parcheggi pertinenziali all’edificio di proprietà della
resistente, potrà trovare altre soluzioni, anche in
eventuali accordi tra quest’ultima e il Comune.
4. Va poi giudicata infondata la pretesa della società
resistente di ottenere il rimborso delle spese per la
realizzazione delle opere di urbanizzazione in questione, in
quanto queste, in base alla convenzione del 05.03.1982, e
come confermato nella clausola dell’atto di compravendita
dell’11.05.2002 sopra richiamata, dovevano essere
realizzate a cura e spese delle ditte lottizzanti; e non
essendo le opere di urbanizzazione primaria in oggetto
incluse fra quelle soggette a concessione trentennale.
5. In conclusione,
il ricorso deve essere accolto disponendo
il trasferimento, ai sensi dell’art. 2932 c.c., in favore
del Comune di Eraclea della proprietà dei mappali 1068,
1067, 1054, 1055, 1104 e 1105 del F. 58, aventi una
superficie di complessivi mq. 1376, ed ordinando al
competente Conservatore dei registri immobiliari di
procedere alle relative trascrizioni. |
EDILIZIA PRIVATA: Abusivo
l'ingresso indipendente. Il comune ordina la demolizione. Ma
non con la sanzione. Sentenza del
Tar Basilicata: mai assimilabile a portafinestra l'accesso
all'abitazione.
Viola il Testo unico dell'edilizia il singolo condomino che
realizza un ingresso indipendente a casa sua non previsto
dall'originario progetto del fabbricato, mentre tutti gli
altri proprietari esclusivi continuano a usare le scale per
rincasare.
Altro che «porta-finestra»; deve essere esclusa
ogni assimilazione per l'opera che costituisce l'accesso
principale all'unità immobiliare. Il tutto mentre l'apertura
del varco costituisce invece una «variazione essenziale» che
risulta illecita sulla base dell'articolo 32, n. 1, lettera
d) del dpr 380/2001. Il comune, tuttavia, non può
contemporaneamente disporre la riduzione in pristino nel
fabbricato e infliggere la sanzione pecuniaria al
responsabile dell'abuso.
È quanto emerge dalla
sentenza 26.03.2016 n. 297, pubblicata dalla I
Sez. TAR Basilicata.
Caratteristiche modificate.
Il ricorso del proprietario è accolto ma soltanto perché il
provvedimento dell'amministrazione locale cade in
un'«insanabile contraddizione» laddove applica due sanzioni
incompatibili. Nessun dubbio che sussista l'inosservanza
delle norme di legge: l'ingresso autonomo fortemente voluto
dal singolo condomino altera il prospetto dell'edificio
rispetto a ciò che risulta dal titolo edilizio e incide
anche sulla consistenza fisica dell'immobile; insomma:
cambiano, e di molto, le caratteristiche rispetto
all'intervento edilizio assentito.
Sopralluogo decisivo.
L'abuso è scoperto durante un sopralluogo di vigili urbani e
tecnici del comune realizzato qualche mese fa: dalla
verifica emerge che lo stato dei luoghi è difforme dalla
licenza edilizia rilasciata quasi quarant'anni or sono. Il
punto è che anche per l'appartamento incriminato l'ingresso
dovrebbe trovarsi lungo le scale condominiali in modo del
tutto analogo agli altri, come emerge dalla concessione:
invece il punto d'accesso all'unità immobiliare è
localizzato altrove, su un altro lato dell'edificio, in
corrispondenza di quello che sarebbe dovuto essere un bagno
con finestra, almeno stando al progetto presentato, che il
comune puntualmente deposita agli atti del processo.
Atto vincolato.
È lo stesso titolo edilizio che risale al 1967 a imporre ai
destinatari di attenersi al progetto presentato. E contro
l'ordine di demolizione non c'è affidamento incolpevole che
tenga: non conta che l'attuale proprietario dell'immobile
non sia stato committente né esecutore dell'opera contro
legge e anzi abbia acquistato l'appartamento nello stato di
fatto e diritto in cui si trova oggi.
In realtà l'ordine di
abbattere l'abuso edilizio come tutti i provvedimenti
sanzionatori in materia edilizia costituisce un atto
vincolato: non c'è dunque bisogno di una specifica
valutazione delle ragioni di interesse pubblico né di una
comparazione rispetto agli interessi privati coinvolti e
sacrificati.
Affidamento escluso.
Risulta escluso che possa esservi un affidamento tutelabile
alla conservazione di una situazione di fatto abusiva: il
manufatto contro legge non può essere sanato per il mero
decorso del tempo e il proprietario non può lamentarsi
perché l'amministrazione non ha provveduto prima a ordinare
di buttarlo giù.
Insomma: l'ordinanza di demolizione ben può
essere emanata nei confronti dell'attuale proprietario
dell'immobile anche se egli non è responsabile dell'abuso
perché il provvedimento ha carattere ripristinatorio non si
risolve nell'accertare il dolo o la colpa del soggetto cui
la trasgressione è imputata.
Notifica non dovuta.
Non giova al proprietario prendersela con il Comune che non
avrebbe contestato irregolarità agli altri condomini: gli
appartamenti dei piani superiori non hanno una porta di
ingresso identica per misura e posizione a quella
dell'immobile incriminato.
Inutile dunque sostenere che l'ordinanza impugnata doveva
essere notificata anche a tutti gli altri condomini, visto
che l'apertura del varco su di un altro prospetto
dell'edificio riguarda soltanto il ricorrente. L'ente
locale, tuttavia, non poteva imporre sia la demolizione sia
la sanzione pecuniaria
(articolo ItaliaOggi Sette del
30.05.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
---------------
MASSIMA
6. Col secondo motivo, si è sostenuto che l'ordinanza di
demolizione n. 13/2015 sarebbe illegittima per carenza di
motivazione e per violazione dei principi di diritto, primo
tra tutti quello dell’affidamento incolpevole del
ricorrente, in quanto:
- le opere contestate come abusive
risulterebbero essere state edificate da notevole lasso di
tempo;
- l’Amministrazione resistente non avrebbe mai
contestato e/o eccepito alcuna irregolarità per il passato;
- il sig. Gi.An.Do., al momento della
realizzazione delle opere, non sarebbe stato né
proprietario, né esecutore e né committente dei lavori,
avendo acquistato l’appartamento in questione nello stato di
fatto e di diritto in cui oggi si trova.
6.1. La doglianza va disattesa.
In senso contrario, va
richiamato il condivisibile orientamento, secondo cui
l’ordine di demolizione di opere abusive, come tutti i
provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto
vincolato e non richiede una specifica valutazione delle
ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di questo
con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione; non vi è un
affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione
di fatto abusiva, che il mero decorso del tempo non sana, e
l’interessato non può dolersi del fatto che
l’Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i
dovuti atti repressivi
(cfr., ex multis, TAR Lazio - sez.
I, 27.11.2015, n. 13449; TAR Basilicata, 10.03.2015, n. 164; id. 29.11.2014, n. 813; C.d.S., sez. IV,
11.01.2011, n. 79).
Peraltro,
l’ordinanza di
demolizione di una costruzione abusiva può legittimamente
essere emanata nei confronti del proprietario attuale, anche
se non responsabile dell’abuso, atteso che l’abuso edilizio
costituisce illecito permanente e l’ordinanza stessa ha
carattere ripristinatorio e non prevede l’accertamento del
dolo o della colpa del soggetto cui si imputa la
trasgressione; l’ordine di demolizione e gli altri
provvedimenti repressivi, quindi, devono considerarsi
legittimamente rivolti nei confronti di chi abbia la
disponibilità materiale dell’opera, indipendentemente dal
fatto che l'abbia concretamente realizzata
(cfr. TAR
Lazio, sez. I, 14.08.2015, n. 10829). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’ordine di demolizione di opere abusive, come tutti i
provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto
vincolato e non richiede una specifica valutazione delle
ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di questo
con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione; non vi è un
affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione
di fatto abusiva, che il mero decorso del tempo non sana, e
l’interessato non può dolersi del fatto che
l’Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i
dovuti atti repressivi.
Peraltro,
l’ordinanza di
demolizione di una costruzione abusiva può legittimamente
essere emanata nei confronti del proprietario attuale, anche
se non responsabile dell’abuso, atteso che l’abuso edilizio
costituisce illecito permanente e l’ordinanza stessa ha
carattere ripristinatorio e non prevede l’accertamento del
dolo o della colpa del soggetto cui si imputa la
trasgressione; l’ordine di demolizione e gli altri
provvedimenti repressivi, quindi, devono considerarsi
legittimamente rivolti nei confronti di chi abbia la
disponibilità materiale dell’opera, indipendentemente dal
fatto che l'abbia concretamente realizzata.
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6. Col secondo motivo, si è sostenuto che l'ordinanza di
demolizione n. 13/2015 sarebbe illegittima per carenza di
motivazione e per violazione dei principi di diritto, primo
tra tutti quello dell’affidamento incolpevole del
ricorrente, in quanto:
- le opere contestate come abusive
risulterebbero essere state edificate da notevole lasso di
tempo;
- l’Amministrazione resistente non avrebbe mai
contestato e/o eccepito alcuna irregolarità per il passato;
- il sig. Gi.An.Do., al momento della
realizzazione delle opere, non sarebbe stato né
proprietario, né esecutore e né committente dei lavori,
avendo acquistato l’appartamento in questione nello stato di
fatto e di diritto in cui oggi si trova.
6.1. La doglianza va disattesa.
In senso contrario, va richiamato il condivisibile
orientamento, secondo cui l’ordine di demolizione di opere abusive, come tutti i
provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto
vincolato e non richiede una specifica valutazione delle
ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di questo
con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione; non vi è un
affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione
di fatto abusiva, che il mero decorso del tempo non sana, e
l’interessato non può dolersi del fatto che
l’Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i
dovuti atti repressivi (cfr., ex multis, TAR Lazio - sez.
I, 27.11.2015, n. 13449; TAR Basilicata, 10.03.2015, n. 164; id. 29.11.2014, n. 813; C.d.S., sez. IV,
11.01.2011, n. 79).
Peraltro, l’ordinanza di
demolizione di una costruzione abusiva può legittimamente
essere emanata nei confronti del proprietario attuale, anche
se non responsabile dell’abuso, atteso che l’abuso edilizio
costituisce illecito permanente e l’ordinanza stessa ha
carattere ripristinatorio e non prevede l’accertamento del
dolo o della colpa del soggetto cui si imputa la
trasgressione; l’ordine di demolizione e gli altri
provvedimenti repressivi, quindi, devono considerarsi
legittimamente rivolti nei confronti di chi abbia la
disponibilità materiale dell’opera, indipendentemente dal
fatto che l'abbia concretamente realizzata (cfr. TAR
Lazio, sez. I, 14.08.2015, n. 10829) (TAR Basilicata,
sentenza 26.03.2016 n. 297). |
EDILIZIA PRIVATA: Senza
strumento esecutivo commerciante fermo.
Niente permesso di costruire al commerciante che vuole
ingrandirsi. Parlano chiaro le norme tecniche di attuazione
del piano regolatore generale: in zona si potrà edificare
solo quando saranno approvati i piani attuativi, mentre per
ora possono essere autorizzati in convenzione gli impianti
più grandi, in grado di creare parecchi posti di lavoro.
Addio titolo edilizio fino a quando lo strumento urbanistico
esecutivo non risulterà pronto. Nel frattempo tanto basta
per rispondere picche all'istanza dell'imprenditore: la
partecipazione del privato al procedimento non impone al
Comune di spiegare in modo puntuale perché si disattendono
le osservazioni della controparte.
È quanto emerge dalla
sentenza 24.03.2016 n. 1580, pubblicata dal TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII.
Prima del via libera al piano d'insediamento produttivo
nell'area possono sorgere soltanto impianti con superficie
superiore a 30 mila metri quadrati. E non giova
all'imprenditore sostenere che il suo fondo sarebbe
intercluso, in quanto circondato per intero da costruzioni e
già servito dalle opere urbanistiche necessarie.
Il
commerciante avrebbe titolo a costruire senza piani
attuativi unicamente se ingrandisse il suo showroom su di un
fondo confinante: invece il terreno dove vuole edificare è
soltanto vicino all'impianto preesistente
(articolo ItaliaOggi Sette del
30.05.2016).
---------------
MASSIMA
1) Il ricorso si palesa infondato.
2) Il provvedimento di diniego fa riferimento per relationem
alle motivazioni indicate nella proposta non favorevole del
Responsabile del procedimento del 16.05.2013, prot. 201/U.T.C.,
che a sua volta richiama la nota prot. 4172 del 18.04.2013 di
comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento della
richiesta.
Quest’ultima indica come l’istanza non poteva essere accolta
in quanto la richiesta di permesso di costruire si presenta
contraria all’art. 28, comma 2, lett. c), delle N.T.A..
Le disposizioni delle N.T.A. dispongono, in generale, per la
zona in questione, l’impossibilità di edificare in assenza
di piani attuativi.
In particolare, la norma specificamente richiamata indica
che, nelle more di approvazione dei piani attuativi (P.P.E.
o P.I.P.), previa autorizzazione ed approvazione del
Consiglio Comunale dello specifico schema di convenzione,
possono essere assentiti con Concessione Edilizia
Convenzionata, insediamenti produttivi che abbiano
particolare valenza occupazionale, realizzati mediante
interventi unitari estesi ad ambiti aventi una superficie
non inferiore a 30.000 mq., nel rispetto dei parametri di
zona ed a condizione che nell’ambito venga assicurato il
rispetto degli standards.
In sostanza, quindi, il provvedimento gravato rigetta
l’istanza di rilascio di permesso di costruire per l’assenza
di un piano attuativo, indicando come la fattispecie in
questione non rientri nell’ipotesi derogatoria a tale regime
prevista nella norma richiamata.
3) Nei primi due motivi di ricorso, parte ricorrente lamenta
il difetto di motivazione sotto il duplice profilo che il
provvedimento gravato non sarebbe stato sufficientemente
motivato e non avrebbe dato conto delle ragioni del mancato
accoglimento delle osservazioni formulate dal medesimo
ricorrente ai sensi dell’art. 10 bis, legge n. 241/1990.
Entrambi i profili sono privi di pregio.
Il primo in quanto il provvedimento in questione è motivato
per relationem agli atti istruttori e, in particolare,
all’atto di comunicazione dei motivi ostativi
all’accoglimento della richiesta, già ricevuto da parte
ricorrente.
In tale contesto la motivazione del provvedimento, facendo
riferimento agli effetti ostativi di una specifica
disposizione delle N.T.A., appare sufficiente a rendere
palesi le ragioni del diniego. Prova ne sia che parte
ricorrente ha formulato articolate osservazioni in sede
procedimentale avverso il preavviso di rigetto, così
mostrando di aver ben compreso le ragioni che non
consentivano l’accoglimento.
Quanto al profilo della mancata valutazione delle
osservazioni del ricorrente, il Collegio rileva come la
partecipazione procedimentale non obbliga l'Amministrazione
a dare puntuale motivazione del perché disattende le
osservazioni dei privati.
Non sussiste alcun obbligo di specifica disamina e
confutazione, in capo all'Amministrazione procedente, delle
singole osservazioni e controdeduzioni rassegnate dalla
parte nell'ambito della partecipazione procedimentale,
bastando che sia dimostrata, tramite la motivazione del
provvedimento, l'intervenuta acquisizione, cognizione e
valutazione di tali apporti partecipativi
(TAR Molise
Campobasso, sez. I, 10.12.2010, n. 1543).
Nel caso di specie l’Amministrazione ha dato specificamente
conto, nello stesso provvedimento gravato, di aver
considerato le osservazione della parte ricorrente e di non
averle trovate idonee a orientare il provvedimento finale in
senso diverso.
Il Collegio rileva, infine, come,
per i motivi indicati nei
punti che seguono, in ogni caso sussistono i presupposti per
fare applicazione dell’art. 21-octies, comma 2, della legge
n. 241/1990, trattandosi di ambito provvedimentale a carattere
vincolato e risultando che il provvedimento non avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto adottato,
considerata altresì l’applicabilità di quest’ultima norma
anche alle violazioni dell’art. dall’art. 10-bis legge
n. 241/1990
(TAR Sicilia Palermo, sez. I, 23.03.2011, n.
541; Consiglio Stato , sez. VI, 18.03.2011, n. 1673;
TAR Puglia Lecce, sez. II, 12.09.2006, n. 4412;
TAR Piemonte, sez. I, 14.06.2006, n. 2487; TAR
Emilia Romagna Bologna, sez. II, 06.11.2006, n.
2875).
4) Nel terzo motivo di ricorso, parte ricorrente ha fatto
valere un duplice profilo.
Il primo è che l’intervento in questione non ricadrebbe
nell’ambito di disciplina della lett. c), comma 2, dell’art.
28, delle N.T.A. richiamato negli atti cui il provvedimento
rimanda per relationem, bensì sarebbe applicabile la
fattispecie prevista dalla lett. b) del medesimo comma 2,
dell’art. 28, delle N.T.A.
Ai sensi di quest’ultima disposizione, in zona D2 è
consentito, in deroga alla necessità di previa adozione di
un P.P.E. o P.I.P., il rilascio del permesso di costruire
diretto “nel caso di ristrutturazione o ampliamento di
impianto esistente, per motivate esigenze di sviluppo
dell’azienda, anche in presenza di acquisizione di nuova
area confinante”, nel rispetto dei parametri di intervento
delle aree destinate a standards urbanistici e delle
attrezzature pubbliche.
La ricorrente ha, quindi, dedotto che il lotto in questione
ha superficie di circa 19.000 mq. (superiore ai 4.000 mq. di
superficie minima fondiaria per operare l’intervento
diretto) e sarebbe confinante con altro lotto di sua
proprietà, ponendosi quale ampliamento dell’attività
commerciale esistente su quest’ultimo.
A tale riguardo, nelle osservazioni presentate ex art. 10-bis legge n. 241/1990, parte ricorrente aveva, infatti,
specificato come l’edificio che si intende costruire sarebbe
stato da essa stessa utilizzato per l’ampliamento
dell’attività commerciale di esercizio di vicinato di
vendita cucine e mobili, presente sull’altro lotto di sua
proprietà.
In secondo luogo, la medesima ricorrente ha dedotto che la
concreta fattispecie in esame configurerebbe una ipotesi di
cosiddetto “lotto intercluso”, per essere l’area circostante
interamente edificata e servita da tutte le necessarie opere
di urbanizzazione; circostanza che farebbe venir meno la
necessità del previo piano attuativo per l’esercizio dello
ius edificandi.
Il motivo è privo di pregio sotto entrambi i profili.
4.1) Non può ricorrere l’ipotesi contemplata dalla lett. b)
del comma 2, dell’art. 28, delle N.T.A., per la circostanza,
già essa da sola dirimente, che i lotti in questione non
sono confinanti.
Come risulta dai documenti allegati in atti, i lotti in
questione sono relativamente vicini ma non confinano uno con
l’altro, come invece richiede la norma invocata.
Ciò è perfettamente conforme alla ratio della disposizione,
che è quella di consentire di ampliare un impianto
espandendo la medesima struttura anche, eventualmente, sul
fondo confinante appositamente acquisito, e non quella di
consentire, come nel caso in questione, la realizzazione di
nuovi impianti o strutture fisicamente staccati da quello
originario, e posti in aree diverse (ancorché relativamente
vicine), quali nuove e distinte strutture solo eventualmente
funzionalmente collegate a quella originaria.
A nulla vale in senso contrario il richiamo operato dal
ricorrente a quella giurisprudenza riguardante cessione di
cubatura, che interpreta il necessario requisito della
contiguità dei fondi non nel senso di mera adiacenza,
trattandosi di situazioni del tutto diverse e non
comparabili (in particolare, è evidente che l’incidenza
urbanistica di una volumetria da realizzare deve essere
valutata in riferimento ad una intera zona omogenea,
complessivamente considerata: di qui la possibilità di
utilizzare cubature di aree non fisicamente poste in
adiacenza. L’utilizzo del medesimo modus operandi, invece,
non possibile nel caso in esame, in cui la norma dà
rilevanza al sito di svolgimento di una certa attività
economica, consentendone il solo ampliamento, ma non la
delocalizzazione, ancorché nei pressi).
4.2) Infondato risulta anche il profilo relativo
all’asserita sussistenza di una fattispecie di fondo
intercluso.
Si deve in questa sede ribadire il
principio di piena vincolatività delle previsioni degli strumenti urbanistici
che prevedono piani attuativi, e che a quest’ultimo è
possibile derogare solo in presenza della fattispecie di
origine giurisprudenziale comunemente indicata come “lotto
intercluso”.
In materia di governo del territorio, infatti, costituisce
regola generale e imperativa il rispetto delle previsioni
del p.r.g. che impongono, per una determinata zona, la
pianificazione di dettaglio.
Tali prescrizioni, di solito contenute nelle n.t.a., sono
vincolanti e idonee ad inibire l'intervento diretto
costruttivo
(Cons. St., sez. IV, 30.12.2008, n. 6625).
Da questo principio derivano i seguenti corollari:
-
quando lo strumento urbanistico generale prevede che la
sua attuazione debba aver luogo mediante un piano di livello
inferiore, il rilascio del titolo edilizio può essere
legittimamente disposto solo dopo che lo strumento esecutivo
sia divenuto perfetto ed efficace, ovvero quando sia
concluso il relativo procedimento
(Cons. St., sez. V, 01.04.1997, n. 300);
-
in presenza di una normativa urbanistica generale che
preveda, per il rilascio del titolo edilizio in una
determinata zona, l'esistenza di un piano attuativo, non è
consentito superare tale prescrizione facendo leva sulla
situazione di sufficiente urbanizzazione della zona stessa
(Cons. St., sez. IV, 03.11.2008, n. 5471);
-
l'assenza del piano attuativo non è surrogabile con
l'imposizione di opere di urbanizzazione all'atto del
rilascio del titolo edilizio; l'obbligo dell'interessato di
realizzare direttamente le opere di urbanizzazione è idoneo,
infatti, a sopperire solo alla mancanza fisica e materiale
di tali opere ma non è in grado di colmare l'assenza dello
strumento esecutivo
(TAR Campania Napoli, sez. VIII, 02.07.2015, n. 3483; Cons. St., sez. IV, 26.01.1998,
n. 67; Cass. pen., sez. III, 26.01.1998, n. 302; Cons.
St., sez. V, 15.01.1997, n. 39);
-
non sono configurabili equipollenti al piano attuativo, il
che impedisce che in sede amministrativa o giurisdizionale
possano essere effettuate indagini volte a verificare se sia
tecnicamente possibile edificare, vanificando la funzione
propria del piano attuativo, la cui indefettibile
approvazione, se ritarda, può essere stimolata
dall'interessato con gli strumenti consentiti dal sistema
(Cons. St., sez. IV, 30.12.2008, n. 6625);
-
lo strumento attuativo è necessario anche in presenza di
zone parzialmente urbanizzate che sono comunque esposte al
rischio di compromissione dei valori urbanistici e nelle
quali la pianificazione di dettaglio può conseguire
l'effetto di correggere e compensare il disordine edificativo in atto
(Cass. pen., sez. III, 19.09.2008, n. 35880).
A fronte di tale rigoroso quadro interpretativo,
è stata
individuata in sede giurisprudenziale un’unica eccezione
alla regola della necessaria presenza di strumenti
urbanistici per la disciplina del territorio, comunemente
indicata come “lotto intercluso”.
Quest’ultima ipotesi si realizza quando l'area edificabile:
a) sia l'unica a non essere stata ancora edificata;
b) si trovi in una zona integralmente già interessata da
costruzioni;
c) sia dotata di tutte le opere di urbanizzazione (primarie
e secondarie), previste dagli strumenti urbanistici;
d) sia valorizzata da un progetto edilizio del tutto
conforme al p.r.g.
Si consente, in sostanza, l’intervento costruttivo diretto
purché si accerti la sussistenza di una situazione di fatto
perfettamente corrispondente a quella derivante
dall'attuazione del piano esecutivo, allo scopo di evitare
defatiganti attese per il privato ed inutili dispendi di
attività procedimentale per l'ente pubblico
(Cons. St., sez. IV, 29.01.2008, n. 268; sez. V, 03.03.2004, n. 1013;
sez. IV, Sent., 10.06.2010, n. 3699).
Solo in questi casi, quindi, lo strumento urbanistico può
considerarsi superfluo, in quanto è stata ormai raggiunta la
piena edificazione e urbanizzazione della zona interessata,
raggiungendo in tal modo la scopo e i risultati perseguiti
dai piani esecutivi (i.e. piano attuativo)
(Consiglio di
Stato, Sez. IV, 07.12.2014 n. 5488).
Una concessione edilizia può essere, quindi, rilasciata
anche in assenza del piano attuativo richiesto dalle norme
di piano regolatore, solo quando venga accertato che il
lotto del richiedente sia l'unico a non essere stato ancora
edificato; vi sia già stata una pressoché completa
edificazione dell'area (come nell'ipotesi del lotto
residuale ed intercluso); si trovi in una zona che, oltre
che integralmente interessata da costruzioni, sia anche
dotata delle necessarie opere di urbanizzazione.
Si può quindi prescindere dalla lottizzazione convenzionata
prescritta dalle norme di piano solo nei casi eccezionali in
cui nel comprensorio interessato sussista una situazione di
fatto corrispondente a quella che deriverebbe
dall'attuazione della lottizzazione stessa, ovvero in
presenza di opere di urbanizzazione primaria e secondaria
pari agli standard urbanistici minimi prescritti
(Consiglio
di Stato, Sez. V, 31/10/2013, n. 5251; C.d.S., V, 05.12.2012, n. 6229;
05.10.2011, n. 5450; IV, 01.08.2007,
n. 4276; 21.12.2006, n. 7769).
Peraltro,
la mera esistenza di infrastrutture (strade, spazi
di sosta, fognature, reti di distribuzione del gas,
dell'acqua e dell'energia elettrica) all'interno, e, vieppiù,
all'esterno, del comparto attinto dall'attività edificatoria
assentita senza previa approvazione dello strumento
attuativo, non implica anche quell'adeguatezza e quella
proporzionalità delle opere in parola rispetto all'aggregato
urbano formatosi, la quale soltanto sarebbe idonea a
soddisfare le esigenze della collettività, pari agli
standards urbanistici minimi prescritti, ed esimerebbe,
quindi, da ulteriori interventi per far fronte all'ulteriore
aggravio derivante da nuove costruzioni.
Ed invero,
non è sufficiente un qualsiasi stadio di
urbanizzazione di fatto per eludere il principio
fondamentale della pianificazione e per eventualmente
aumentare i guasti urbanistici già verificatisi, essendo la
pianificazione dell'urbanizzazione doverosa fino a quando
essa conservi una qualche utile funzione anche in aree già
compromesse o edificate
(TAR Puglia, Lecce, sez. III, 18.01.2005, n. 164).
Nel caso di specie parte ricorrente non ha assolutamente
dimostrato ricorra tale situazione limitandosi, sia in sede
di ricorso che di osservazioni ex art. 10-bis legge n.
241/1990, ad affermazioni generiche, relative alla circostanza
che l’area risulterebbe lottizzata di fatto per la presenza
di costruzione e urbanizzazione, del tutto insufficienti a
dimostrare, come era onere della medesima parte ricorrente
fare, il ricorrere delle condizioni necessarie a comprovare
l’esistenza dell’invocata fattispecie.
Non è stata infatti fornita alcuna specifica indicazione sul
grado di urbanizzazione dell’intera area e sulle specifiche
opere di urbanizzazione ivi esistenti, né tantomeno viene
dato conto dell’adeguatezza di tali opere.
5) Infondato è anche il quarto motivo di ricorso incentrato
sul difetto di istruttoria e motivazione per non aver
l’amministrazione procedente verificato e motivato
l’inesistenza di una situazione corrispondente a quella
suindicata di fondo intercluso, prendendo atto del reale
stato di urbanizzazione dell’area mediante specifici e
documentati atti istruttori.
Al riguardo,
ponendosi la necessità del piano attuativo
quale regola generale e la presenza delle condizioni di
fondo intercluso quale eccezione, l’amministrazione non ha
l’obbligo di effettuare dettagliati accertamenti sul punto e
assolvere specifici obblighi di motivazione prima di
rigettare l’istanza di permesso di costruire, salvo che la
parte richiedente alleghi circostanziati e oggettivi
elementi comprovanti l’esistenza della situazione
eccezionale.
6) Per quanto indicato il ricorso deve essere rigettato. |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Avvocato non responsabile se la causa è difficile.
Caso giudiziario complesso: l’avvocato
risponde solo per colpa e dolo, salvo che la difesa del
cliente sia particolarmente complessa.
Non si può pretendere che l’avvocato sia responsabile, e
risarcisca il danno al cliente, nel caso in cui il mandato
affidatogli abbia implicato la soluzione di problemi tecnici
particolarmente complessi.
È quanto chiarito dalla recente
sentenza 16.02.2016 n. 2954 della Corte di
Cassazione, Sez. II civile.
La responsabilità dell’avvocato per dolo o
colpa lieve
L’avvocato non è responsabile per tutti gli errori commessi
nel corso della causa, ma solo di quelli che, se evitati,
avrebbero portato a un esito diverso del giudizio. In
pratica è necessario dimostrare che, senza quella
determinata condotta colpevole o dolosa del legale, la
sentenza avrebbe avuto un contenuto più favorevole per il
cliente.
Questo significa che egli non è tenuto a garantire, al
proprio cliente, la vittoria della causa, ma una prestazione
comunque esente da dolo o da colpa anche lieve.
Le cause e gli incarichi difficili
Un’eccezione a tale regola è costituita dal caso in cui la
prestazione richiesta all’avvocato comporti la soluzione di
problemi di particolare complessità: in tale ipotesi, la
responsabilità del professionista è attenuata in quanto
scatta solo per dolo o colpa grave.
Il codice civile (art. 2236 cod. civ.), a riguardo,
stabilisce che se la prestazione (professionale) implica la
soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, la
responsabilità del prestatore dell’opera può aversi solo per
colpa grave o dolo, e non più invece nel caso di colpa
lieve.
La sentenza in commento prende le mosse proprio da tale
norma e ribadisce che l’avvocato può essere “assolto”
dal giudizio di responsabilità professionale, anche se ha
commesso un errore, quando sia chiamato ad affrontare una
questione complicata, che coinvolga magari tesi o norme
nuove o di non facile interpretazione. Si pensi al caso il
legale deve dare soluzione a un problema tecnico
particolarmente complesso: in questa ipotesi egli risponde
solo per dolo o colpa grave e non per una condotta errata
dovuta alla complessità del caso.
Ma chi stabilisce se la prestazione implichi o meno la
soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà? Il
criterio standard è quello del cosiddetto “professionista
medio”: in pratica, la colpa scatta tutte le volte in
cui un avvocato, di media bravura, sarebbe riuscito a fare
diversamente.
Pertanto, per comprendere se la bravura richiesta dal
mandato ecceda o meno i limiti della preparazione e
dell’abilità professionale del “professionista medio”
bisogna necessariamente fare una valutazione “caso per
caso” e di tipo probabilistico. Sarà ovviamente il
giudice a interpretare tali criteri
(commento tratto da www.laleggepertutti.it).
---------------
MASSIMA
Come è noto, le obbligazioni inerenti
all'esercizio di un'attività professionale sono, di regola,
obbligazioni di mezzi e non di risultato, in quanto il
professionista, assumendo l'incarico, si impegna a prestare
la propria opera per raggiungere il risultato desiderato ma
non a conseguirlo.
In particolare, nell'esercizio della sua
attività di prestazione d'opera professionale, l'avvocato
assume, in genere, verso il cliente un'obbligazione di mezzi
e non di risultato: cioè egli si fa carico non già
dell'obbligo di realizzare il risultato (peraltro incerto e
aleatorio) che questi desidera, bensì dell'obbligo di
esercitare diligentemente la propria professione, che a quel
risultato deve pur sempre essere finalizzata.
Pertanto, trattandosi dell'attività
dell'avvocato, l'affermazione della responsabilità per colpa
professionale implica una valutazione prognostica positiva
circa il probabile esito favorevole dell'azione giudiziale
che avrebbe dovuto essere proposta e diligentemente seguita.
In altri termini, l'inadempimento del
professionista (avvocato) non può essere desunto senz'altro
dal mancato raggiungimento del risultato utile avuto di mira
dal cliente, ma deve essere valutato alla stregua della
violazione dei doveri inerenti lo svolgimento dell'attività
professionale e, in particolare, al dovere di diligenza.
Quest'ultimo,
peraltro -trovando applicazione in subiecta materia
il parametro della diligenza professionale fissato dall'art.
1176, secondo comma, c.c., in luogo del criterio generale
della diligenza del buon padre di famiglia-
deve essere commisurato alla natura dell'attività
esercitata, sicché la diligenza che il professionista deve
impiegare nello svolgimento dell'attività professionale in
favore del cliente è quella media, cioè la diligenza posta
nell'esercizio della propria attività dal professionista di
preparazione professionale e di attenzione media
(Cass. 03.03.1995 n. 2466; Cass. 18.05.1988 n. 3463).
Perciò, la responsabilità del
professionista, di regola, è disciplinata dai principi
comuni sulla responsabilità contrattuale e può trovare
fondamento in una gamma di atteggiamenti subiettivi, che
vanno dalla semplice colpa lieve al dolo. A meno che la
prestazione professionale da eseguire in concreto involga la
soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà: in
tal caso la responsabilità del professionista è attenuata,
configurandosi, secondo l'espresso disposto dell'art. 2236
c.c., solo nel caso di dolo o colpa grave, con conseguente
esclusione nell'ipotesi in cui nella sua condotta si
riscontrino soltanto gli estremi della colpa lieve
(Cass. 11.04.1995 n. 4152; Cass. 18.10.1994 n. 8470).
L'accertamento se la prestazione
professionale in concreto eseguita implichi o meno la
soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà
(cioè se la perizia richiesta trascenda o non i limiti della
preparazione e dell'abilità professionale del professionista
medio), giudizio da compiere sulla base di una valutazione
necessariamente probabilistica, comportando di regola
l'apprezzamento di elementi di fatto e l'applicazione di
nozioni tecniche, è rimesso al giudice del
merito e il relativo giudizio è incensurabile in sede di
legittimità, sempre che sia sorretto da motivazione congrua
ed esente da vizi logici ed errori di diritto
(così, fra le altre, Cass. 09.06.2004 n. 10966; Cass.
27.03.2006 n. 6967; Cass. 26.04.2010 n. 9917; Cass.
05.02.2013 n. 2638).
Occorre soltanto aggiungere, in proposito, che
nelle cause di responsabilità professionale nei
confronti degli avvocati, la motivazione del giudice di
merito in ordine alla valutazione prognostica circa il
probabile esito dell'azione giudiziale che è stata malamente
intrapresa o proseguita è una valutazione in diritto,
fondata su di una previsione probabilistica di contenuto
tecnico giuridico. Ma nel giudizio di cassazione tale
valutazione, ancorché in diritto, assume i connotati di un
giudizio di merito, il che esclude che questa Corte possa
essere chiamata a controllarne l'esattezza in termini
giuridici. |
INCARICHI PROFESSIONALI: Cliente informato se il processo è difficile.
Tribunale di Verona. Spetta all’avvocato fornire la prova di
aver spiegato all’assistito la complessità del caso.
Spetta all’avvocato che reclama il pagamento della
parcella, provare, ove il cliente lamenti di non essere
stato informato sulla strategia e sui rischi processuali, di
averlo, invece, messo al corrente della complessità del
processo.
Lo afferma il
TRIBUNALE di Verona con la sentenza 26.01.2016.
Apre la vicenda, la decisione di un legale di citare in
giudizio una sua cliente, per ottenere il compenso dovutogli
per una serie di serie di attività di assistenza difensiva
giudiziale, svolte in suo favore nell’arco di circa tre
anni. La donna, però, si oppone: l’avvocato, precisa, non
aveva tenuto conto degli acconti ricevuti in contanti e,
comunque, era responsabile per gli esiti negativi con cui si
erano conclusi diversi giudizi. Non solo. Egli non l’aveva
mai informata (né all’atto del conferimento dell’incarico,
né durante il suo svolgimento) delle scelte processuali e
degli ostacoli da affrontare.
Il Tribunale concorda: non c’ era prova che l’avvocato
avesse informato la signora delle tattiche seguite nei
diversi giudizi, o delle loro criticità.
Nel sostenerlo, il giudice si sofferma sulla rilevanza e sul
contenuto dell’obbligo imposto al legale, tornando a
ribadire (come con sentenza 1347/2013) come l’esigenza
informativa nella fase precontrattuale del rapporto col
cliente, sia tesa a conseguirne un consenso realmente
informato, in adesione ai principi di correttezza e
diligenza (articoli 1175 e 1176 del Codice civile).
Si annoti, poi, quanto previsto dall’articolo 9 comma 4, del
Decreto legge 1/2012, per il quale il professionista, prima di
assumere l’incarico, deve «rendere noto al cliente il grado
di complessità dell’incarico, fornendo tutte le informazioni
utili circa gli oneri ipotizzabili dal momento del
conferimento fino alla conclusione dell’incarico».
Del resto, la valutazione sulla sua inadempienza, è
consequenziale all’indagine sulla violazione del dovere di
diligenza, comprensivo dei doveri di informazione,
sollecitazione e dissuasione che il legale deve osservare,
anche “sconsigliandolo”, se occorre, dall’intraprendere o
proseguire la lite ove appaia improbabile una soluzione
positiva o probabile un esito sfavorevole o dannoso
(Cassazione 16023/2002).
Avvocato responsabile, anche ove –puntualizza il Tribunale
di Verona (04/07/2014)– non abbia individuato tutti gli aspetti
utili per una corretta ed esauriente consulenza, informando
il patrocinato con espressioni tecniche per lui
incomprensibili, così inducendolo a strategie dannose.
Tuttavia, nella vicenda esaminata, la dinamica dei fatti non
si era potuta neanche accertare, non avendo l'avvocato
provato in alcun modo l’adempimento ai propri doveri
informativi.
Negato, per questo motivo, anche il diritto al compenso per
gli incarichi svolti senza previa informativa al cliente (articolo Il Sole 24 Ore del
26.05.2016). |
URBANISTICA - VARI:
Rettifica sull’area, va contato il parcheggio.
Compravendite. Nullo l’avviso che non tiene conto della
destinazione a zona di sosta di una parte del terreno
edificabile ceduto.
È nullo l’avviso di rettifica di
maggior valore che non tiene conto, tra l’altro, del fatto
che parte dell’area oggetto di compravendita è destinata a
parcheggio con previsione, come da convenzione di
lottizzazione, di cessione gratuita a favore del Comune.
Ad affermarlo è la
sentenza 08.01.2016 n. 1/2/2016
della Commissione tributaria di secondo grado di Trento
(presidente e relatore Biasi).
La vicenda scaturisce dal ricorso presentato dalla società
acquirente un’area edificabile contro l’avviso di rettifica
dell’area stessa emesso dall’agenzia delle Entrate ai fini
delle imposte di registro e ipotecarie.
L’amministrazione finanziaria ha ritenuto che il prezzo di
cessione del terreno fosse superiore a quello dichiarato
dalle parti e, conseguentemente, lo ha elevato da 2.050.000
a 2.540.000 euro con il recupero delle relative maggiori
imposte, sanzioni e interessi.
La società acquirente propone ricorso innanzi ai giudici di
primo grado evidenziando, tra l’altro, che l’ufficio non ha
tenuto conto del fatto che una parte del terreno ceduto era
destinata a un parcheggio offerto e ceduto gratuitamente al
Comune.
Il fisco si costituisce in giudizio sostenendo che la
valutazione effettuata dall’agenzia del Territorio contiene
elementi certi ed esaurienti che conducono ad un valore
effettivamente più alto rispetto a quello dichiarato dalle
parti.
La commissione tributaria di primo grado accoglie le ragioni
della società ricorrente sul presupposto che l’ufficio non
ha tenuto conto che l’immobile compravenduto comprendeva
anche un’area con diversa destinazione urbanistica.
L’amministrazione finanziaria, allora, propone appello
contestando la scarsa motivazione della sentenza dei primi
giudici. La commissione tributaria di secondo grado lo
respinge e condanna l’ufficio anche al pagamento delle spese
processuali.
L’organo giudicante conferma in pieno la sentenza dei primi
giudici la quale, anche se con una motivazione succinta, ha
ritenuto più aderente alla realtà dei fatti la valutazione
operata dalle parti rispetto a quella effettuata
dall’ufficio.
Secondo la commissione il fisco, nel suo procedimento
valutativo, ha offerto elementi più scarni e meno
approfonditi rispetto a quelli dedotti dalle parti.
Di fronte ai diversi elementi valutativi offerti dai
ricorrenti l’ufficio, proseguono i giudici, non ha fornito
osservazioni o deduzioni idonee a pervenire a conclusioni a
suo favore.
In modo particolare la commissione sottolinea che la perizia
dell’ufficio non ha tenuto conto del fatto che una parte,
ancorché ridotta, dell’area era costituita da un terreno
destinato a parcheggi, offerto e ceduto gratuitamente a
favore del Comune, come da relativa convenzione di
lottizzazione.
Relativamente alla zona di ubicazione dell’area, l’organo
giudicante sottolinea inoltre che l’ufficio non ha
considerato, in senso negativo, la vicinanza dei terreni
venduti alla stazione ferroviaria.
Infine, per quanto riguarda la comparazione con atti di
compravendita di terreni similari, il collegio osserva che
le compravendite portate a paragone e a supporto
dall’amministrazione finanziaria hanno ad oggetto terreni
edificabili di dimensioni ridotte rispetto a quello oggetto
di contestazione e ubicati in posizioni più centrali e
meglio servite e, di conseguenza, non raffrontabili (articolo Il Sole 24 Ore del
23.05.2016). |
TRIBUTI:
Giudizio ordinario in materia di Cosap.
Lo hanno ribadito le s.u. della Cassazione.
Sul canone per l'occupazione di spazi e aree pubbliche
decide il giudice ordinario.
Lo hanno ribadito i giudici delle Sezz. unite civili della
Corte di Cassazione con l'ordinanza
07.01.2016 n. 61.
Secondo quanto affermato dalla giurisprudenza della stessa
Cassazione (Cass. del 1998 n. 6666, 21215 del 2004, 3872 del
2010) la Cosap, ha natura di imposta e trova la sua
giustificazione nell'espressione di capacità contributiva
rappresentata dal godimento di tipo esclusivo di spazi e
aree altrimenti compresi nel sistema della viabilità
pubblica.
Secondo gli Ermellini, tale canone per l'occupazione di aree
pubbliche, Cosap, può essere letto come un quid
ontologicamente diverso, sotto il profilo strettamente
giuridico, dal tributo per la medesima occupazione (Tosap),
in quanto configurato come corrispettivo di una concessione,
reale o presunta (nel caso di occupazione abusiva), dell'uso
esclusivo o speciale di beni pubblici, e non già dovuto per
la sottrazione al sistema della viabilità di un'area o
spazio pubblico, era stato statuito (si vedano: s.u.
ordinanze n. 12167 del 2003 e n. 14864 del 2006 n. 14864,
sentenza n. 1239 del 2005) che la giurisdizione sulle
relative controversie spettasse rispettivamente al giudice
ordinario e al giudice tributario, stante la possibile
coesistenza dei due obblighi per effetto dell'art. 31, comma
20, della legge n. 448 del 1998 che, nel modificare il comma
1 dell'art. 63 del dlgs n. 446 del 1997, stabilì che «i
comuni possono», adottando appositi regolamenti, «escludere
l'applicazione nel proprio territorio della Tosap», e, in
alternativa all'applicazione di tale tributo, «prevedere che
l'occupazione, sia permanente che temporanea, degli spazi e
delle aree», elencati nella norma sostituita, sia
assoggettata a un canone di concessione (Cosap) determinato
in base a tariffa.
Un volta evidenziata la differenza fra Tosap e Cosap derivante dalla diversità del titolo che ne
legittima l'applicazione (da individuarsi, rispettivamente,
per la prima nel fatto materiale dell'occupazione del suolo
pubblico, e per il secondo in un provvedimento
amministrativo, effettivamente adottato o fittiziamente
ritenuto sussistente, di concessione dell'uso esclusivo o
speciale di detto suolo), i giudici di piazza Cavour hanno
escluso la natura di tributo del Cosap assoggettava alla
giurisdizione delle commissioni tributarie le controversie
concernenti i tributi comunali e locali e pertanto la
competenza giurisdizionale era del giudice ordinario (articolo ItaliaOggi Sette del
23.05.2016). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
L’obbligo di (corretta e veritiera) informazione al cliente.
L’art. 40 CDF (ora, 27 ncdf), nel
disciplinare gli obblighi di informazione, impone in ogni
caso una corretta e veritiera informazione a prescindere
dalla innocuità reale o virtuale delle comunicazioni non
corrispondenti al vero. Un rapporto fiduciario quale quello
che lega l’avvocato al cliente non può certamente tollerare
un comportamento che violi un aspetto essenziale del
“rapporto fiduciario” proprio consistente nella completezza,
compiutezza e verità delle informazioni destinate
all’assistito.
Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Perfetti, rel.
Piacci),
sentenza del 24.09.2015 n. 147/2015.
NOTA:
In senso conforme, tra le altre, C.N.F. 17.09.2012, n. 117
(link a www.codicedeontologico-cnf.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
La
violazione dell’obbligo di informare il cliente sullo stato
della causa.
Pone in essere un comportamento
deontologicamente rilevante il professionista che ometta di
informare il cliente sullo stato della causa e, di
conseguenza, sull’esito della stessa, così venendo meno ai
doveri di dignità, correttezza e decoro della professione
forense in violazione degli artt. 38, 40 e 42 c.d. (ora,
rispettivamente, 26, 27 e 33 ncdf).
Deve infatti ritenersi che un rapporto fiduciario, quale è
quello che lega l’avvocato al suo cliente, (art. 35 Cod.
Deont. Forense, ora 11 ncdf) non può tollerare alcun
comportamento che violi un aspetto essenziale della
“fiducia”, consistente nella completezza e verità delle
informazioni destinate all’assistito (Nel caso di specie, in
applicazione del principio di cui in massima, il CNF ha
ritenuto congrua la sanzione disciplinare della censura).
Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Perfetti, rel.
Piacci),
sentenza del 24.09.2015 n. 147/2015.
NOTA:
In senso conforme, tra le altre, CNF 30/12/2013 n. 223 (link
a www.codicedeontologico-cnf.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
L’obbligo di comunicare tempestivamente all’assistito
l’avvenuta emissione della sentenza.
Il dovere di correttezza e di diligenza,
di cui il dovere di informazione esplicitamente previsto
dall’art. 40 c.d. (ora, 27 ncdf) è espressione, impone,
anche al difensore d’ufficio, di comunicare tempestivamente
all’assistito l’avvenuta emissione di una sentenza, tanto
più se di condanna, mettendolo così in condizione di
valutare l’opportunità e la convenienza di interporre
appello, altrimenti preclusagli in radice, a prescindere
dalla inesistenza delle condizioni per proporre un’utile
impugnazione, circostanza questa che può rilevare sul
diverso piano della responsabilità professionale al fine di
escluderla, ma non fa venire meno il dovere deontologico di
informazione al cui adempimento il professionista è in ogni
caso tenuto (nel caso di specie, in applicazione del
principio di cui in massima, il CNF ha ritenuto congrua la
sanzione disciplinare della censura).
Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Perfetti, rel.
Piacci),
sentenza del 24.09.2015 n. 147/2015.
NOTA:
In senso conforme, tra le altre, CNF 19/10/2010 n. 85 (link
a www.codicedeontologico-cnf.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
La
(potenziale) rilevanza deontologica della vita privata del
professionista.
Deve ritenersi disciplinarmente
responsabile l’avvocato per le condotte che, pur non
riguardando strictu sensu l’esercizio della professione,
ledano comunque gli elementari doveri di probità, dignità
e decoro e, riflettendosi negativamente sull’attività
professionale, compromettono l’immagine dell’avvocatura
quale entità astratta con contestuale perdita di
credibilità della categoria.
La violazione deontologica, peraltro, sussiste anche a
prescindere dalla notorietà dei fatti, poiché in ogni caso
l’immagine dell’avvocato risulta compromessa agli occhi dei
creditori e degli operatori del diritto.
Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Perfetti, rel.
Florio),
sentenza del 24.09.2015 n. 145/2015.
NOTA:
In senso conforme, tra le altre, Consiglio Nazionale Forense
(pres. f.f. Perfetti, rel. De Giorgi), sentenza del
24.09.2015, n. 141, Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f.
Tacchini, rel. De Giorgi), sentenza del 14.03.2015, n. 59,
Consiglio Nazionale Forense (pres. Alpa, rel. Ferina),
sentenza del 24.07.2014, n. 102, Consiglio Nazionale Forense
(pres. f.f. Salazar, rel. Broccardo), sentenza del
17.07.2014, n. 94 (link
a www.codicedeontologico-cnf.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
L'avvocato espone il prezzo? Il Cnf vieta la
pubblicità.
È vietata la pubblicità dell'avvocato che mette in primo
piano il prezzo. Per di più se la tariffa è «infima» o «a
forfait».
Il Consiglio nazionale forense ritorna ancora una
volta sulle liberalizzazioni introdotte dal decreto Bersani
del 2006 in materia di tariffe e pubblicità ponendo due
paletti agli iscritti all'albo: che la pubblicità
informativa non sia «indiscriminata» e che i servizi
professionali non siano offerti «a costi molto bassi ovvero
determinati forfettariamente senza alcuna proporzione
rispetto all'attività svolta».
È il principio contenuto nella
sentenza
24.09.2015 n. 142/2015 del Cnf pubblicata sul portale dedicato alla
deontologia del Consiglio nazionale.
In particolare,
l'iscritto aveva pubblicato un box pubblicitario in un
quotidiano con evidenza riservata in via quasi esclusiva e
«palesemente suggestiva» al costo della prestazione offerta,
violando così, secondo il Cnf, i generali principi di
probità e decoro e lo specifico divieto di accaparramento
della clientela con mezzi non idonei a fornire ogni adeguata
informazione a soggetti che non sono necessariamente
consapevoli rispetto alla natura e al valore della
prestazione offerta.
Quanto alla tariffa applicata, secondo
la sentenza l'avvocato ha l'obbligo di informare il cliente
anche in ordine ai costi delle prestazioni ed è tenuto a
rispettare il principio di proporzionalità tra attività
svolta e compensi pretesi. I costi predeterminati, quindi,
non possono essere «molto bassi, dovendo parametrarsi
l'adeguatezza del compenso al valore e all'importanza della
singola pratica trattata e non già determinarsi
forfettariamente senza alcuna proporzione all'attività
svolta».
Infine, la sentenza stabilisce che la pubblicità mediante la
quale il professionista, per condizionare la scelta dei
potenziali clienti, e senza adeguati requisiti informativi,
offra prestazioni professionali, viola le prescrizioni
normative nel momento in cui il messaggio viene formulato
con modalità attrattive della clientela e con mezzi
suggestivi e incompatibili con la dignità e con il decoro
del professionista
(articolo ItaliaOggi del
24.05.2016).
---------------
Pubblicità informativa: vietato offrire prestazioni
professionali verso compensi infimi o a forfait.
Pur a seguito dell’entrata in vigore della normativa nota
come “Bersani”, la pubblicità informativa dell’avvocato
deve essere svolta con modalità che non siano lesive della
dignità e del decoro, sicché è da ritenersi
deontologicamente vietata una pubblicità indiscriminata (ed
in particolare quella comparativa ed elogiativa) così come
una proposta commerciale che offra servizi professionali a
costi molto bassi ovvero determinati forfettariamente senza
alcuna proporzione all’attività svolta, a prescindere dalla
corrispondenza o meno alle indicazioni tariffarie.
Infatti, la peculiarità e la specificità della professione
forense, in virtù della sua funzione sociale, impongono,
conformemente alla normativa comunitaria e alla costante sua
interpretazione da parte della Corte di Giustizia, le
predette limitazioni connesse alla dignità ed al decoro
della professione, la cui verifica è dall’ordinamento
affidata al potere-dovere del giudice disciplinare (nel caso
di specie trattavasi di box pubblicitario in un quotidiano,
con evidenza riservata in via pressoché esclusiva e
palesemente suggestiva al costo della prestazione offerta).
Consiglio Nazionale Forense (pres. f.f. Perfetti, rel.
Ferina),
sentenza
24.09.2015 n. 142/2015.
NOTA:
In senso conforme, tra le altre, Consiglio Nazionale Forense
(pres. Alpa, rel. Damascelli), sentenza del 11.03.2015, n.
26, Consiglio Nazionale Forense (Pres. f.f. Salazar, Rel.
Sica), sentenza del 13.03.2013, n. 37 Consiglio Nazionale
Forense (Pres. f.f. Vermiglio, Rel. Tacchini), sentenza del
28.12.2012, n. 204 (link a www.codicedeontologico-cnf.it). |
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