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AGGIORNAMENTO AL 27.05.2016 |
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IN EVIDENZA |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Ordinanze contingibili e urgenti.
Non ricorre la contravvenzione
di cui all'art. 650 c.p. nella ipotesi in cui il
provvedimento amministrativo violato, in questo caso
l'ordinanza sindacale di cui alla contestazione,
difettando dei requisiti di legittimità, in quanto
emesso da autorità amministrativa privo di
legittimazione a farlo (per vizio della competenza)
debba essere incidentalmente disapplicato in sede
penale.
---------------
Nel caso in esame ricorre l'ipotesi di condotta
caratterizzata dalla l'inosservanza di ordinanza
della pubblica amministrazione nello specifico
sanzionata in via amministrativa, in particolare ai
sensi dell'art. 7-bis, commi 1 ed 1-bis, d.lgs.
18.08.2000, n. 267, cit., di guisa che, anche per
tale ragione, non è ravvisabile nella concreta
fattispecie in scrutinio la contravvenzione prevista
dall'art. 650 cod. pen., figura di reato
quest'ultima applicabile ove vengano in
considerazione provvedimenti adottati in relazione a
situazioni non prefigurate da alcuna specifica
ipotesi normativa.
---------------
1. Il Tribunale di Cuneo, in composizione
monocratica, con sentenza pronunciata il 07.06.2013,
condannava alla pena di duecento euro di ammenda
ciascuno Bo.Fa.Gi., Bo.Di. e Bo.Vi., accusati del
reato di cui all'art. 650 c.p. perché, quali
amministratori delle aziende agricole meglio
indicate in atti, non ottemperavamo all'ordinanza
con la quale il Sindaco di Monterosso Grana, per
ragioni di igiene e sanità pubblica, in data
29.12.2009, aveva imposto di contenere il numero dei
bovini all'interno della loro stalla nel numero di
85; fatti accertati il 15.04.2011.
...
3.1 L'ordinanza sindacale che si assume violata da
parte del giudice di merito si appalesa all'evidenza
illegittima, giacché adottata dal sindaco e non dal
funzionario amministrativo, figura apicale del
settore municipale competente, come previsto ed
imposto dal d.lgs. 18.08.2000, n. 267, recante T.U.
delle leggi sull'ordinamento degli enti locali delle
leggi comunali e provinciali, art. 107, co. 3, lett.
f) co. 5., disciplina, quella appena richiamata, che
consente al Sindaco l'adozione di ordinanze
esclusivamente di natura contingibile ed urgente,
ipotesi non ricorrente nel caso di specie.
Su questa premessa poggia quindi la conclusione del
sillogismo decisionale secondo cui
non ricorre la contravvenzione di cui all'art. 650
c.p. nella ipotesi in cui il provvedimento
amministrativo violato, in questo caso l'ordinanza
sindacale di cui alla contestazione, difettando dei
requisiti di legittimità, in quanto emesso da
autorità amministrativa privo di legittimazione a
farlo (per vizio della competenza) debba essere
incidentalmente disapplicato in sede penale
(Cass., Sez. 1, Sentenza n. 11448 del 07/02/2012, Rv.
252916).
3.2 Ritiene il Collegio inoltre, per completezza
motivazionale, di rilevare altresì, essendogli
consentito di ufficio la valutazione circa la
sussistenza o meno del reato comunque contestato
difensivamente, che nel caso in
esame ricorre l'ipotesi di condotta caratterizzata
dalla l'inosservanza di ordinanza della pubblica
amministrazione nello specifico sanzionata in via
amministrativa, in particolare ai sensi dell'art.
7-bis, commi 1 ed 1-bis, d.lgs. 18.08.2000, n. 267,
cit., di guisa che, anche per tale ragione, non è
ravvisabile nella concreta fattispecie in scrutinio
la contravvenzione prevista dall'art. 650 cod. pen.,
figura di reato quest'ultima applicabile ove vengano
in considerazione provvedimenti adottati in
relazione a situazioni non prefigurate da alcuna
specifica ipotesi normativa.
Resta invece estranea alla sfera di
applicazione di tale norma penale l'inottemperanza
ad ordinanze municipali, ancorché concernenti la
materia dell'igiene pubblica, se volte le stesse a
dare applicazione, come nel caso in esame, a leggi o
regolamenti che prevedono per detta violazione
specifica sanzione amministrativa
(Cass., Sez. 1, n. 1200 del 15/11/2012, Rv. 254247;
Cass., 7883/2007) e questo in
applicazione del principio di specialità di cui
all'art. 9 l. 24.11.1981, n. 689
(cfr. Cass., sez. I, 14.10.2015, ric. Abagnale)
(Corte di
Cassazione, Sez. I penale,
sentenza 19.04.2016 n. 15993). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U.
24.05.2016 n. 120 "Regolamento recante disposizioni
relative al funzionamento e ottimizzazione del sistema di
tracciabilità dei rifiuti in attuazione dell’articolo 188
-bis , comma 4 -bis , del decreto legislativo 03.04.2006, n.
152" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del
Territorio e del Mare,
decreto
30.03.2016 n. 78). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
G.U.U.E. 04.05.2016 n. L 119 "REGOLAMENTO
(UE) 2016/679 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del
27.04.2016 relativo alla protezione delle
persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati
personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e
che abroga la direttiva 95/46/CE (regolamento generale sulla
protezione dei dati)". |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 21 del 25.05.2016 "Modulistica
per l’attività agrituristica e la fattoria didattica ai
sensi della lr. 31/2008 e del relativo regolamento di
attuazione" (decreto
D.S. 20.05.2016 n. 4503). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 21 del 23.05.2016 "Approvazione
delle «Linee ed azioni regionali di educazione ambientale»"
(deliberazione
G.R. 16.05.2016 n. 5177). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 21 del 23.05.2016 "Terzo
aggiornamento 2016 dell’elenco degli enti locali idonei
all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005,
art. 80)" (deliberazione
G.R. 18.05.2016 n. 4360). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 20 del 20.05.2016, "Aggiornamento
Albo delle imprese boschive (l.r. 31/2008 – art. 57)" (decreto
D.S. 13.05.2016 n. 4207). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 20 del 19.05.2016 "Disposizioni
in merito al nuovo sistema informativo integrato per la
gestione informatica delle pratiche sismiche di cui all’art.
3, comma 2, legge regionale 33 del 12.10.2015 «Disposizioni
in materia di opere o di costruzioni e relativa vigilanza in
zone sismiche»" (decreto
D.U.O. 03.05.2016 n. 3809). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO:
Oggetto: Normativa nazionale - conto termico (Decreto
16.02.2016): promemoria circa la prossima entrata in vigore
del provvedimento (ANCE di Bergamo,
circolare 20.05.2016 n. 117). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Oggetto: art. 9, D.Lgs. n. 124/2004 – coincidenza delle
ferie programmate con permessi per assistenza al congiunto
disabile
(Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali,
interpello 20.05.2016 n. 20/2016). |
SICUREZZA LAVORO:
Oggetto: art. 12, d.lgs. n. 81/2008 e successive
modifiche ed integrazioni – risposta al quesito relativo
all’ambito di applicazione della normativa in tema di
gestione dell’amianto negli edifici, con riferimento alla
Legge 27.03.1992 n. 257 ed al DM 06.09.1994 (Commissione
per gli Interpelli,
interpello 12.05.2016 n. 10/2016).
---------------
... Tutto ciò premesso la Commissione fornisce le
seguenti indicazioni.
La legge n. 257/1992 e le relative precisazioni
amministrative, ivi compreso il riferimento agli “impianti
tecnici in opera all’interno che all’esterno” è diretta ai
soli edifici, ed è da intendersi riservata ai soli impianti
posti a servizio dell’edificio (ad es. impianti termici,
idrici, elettrici).
Pertanto, atteso che in ogni caso si vuole garantire la
salubrità dell’ambiente e la salute dei lavoratori, la
Commissione ritiene che eventuali materiali contenenti
amianto debbano essere gestiti:
●
mediante l’applicazione delle disposizioni del DM 06.09.1994
da parte del proprietario/conduttore e del d.lgs. n. 81/2008
da parte del datore di lavoro che opera nell’immobile, nel
caso di materiali contenenti amianto presenti in impianti
funzionali all’immobile;
●
attraverso le previsioni normative del d.lgs. n. 81/2008 a
cura del Datore di Lavoro, nel caso di materiali contenenti
amianto presenti in impianti produttivi strettamente
correlati all’attività imprenditoriale e per questo non
funzionali all’esercizio dell’immobile. |
INCARICHI PROGETTUALI:
OGGETTO: Aggiornamento indice nazionale degli indirizzi
di posta elettronica certificata (INI-PEC) - nota del
Ministero dello Sviluppo Economico del 29/04/2016 -
sollecito urgente (Consiglio Nazionale degli Ingegneri,
circolare 11.05.2016 n. 728).
---------------
Professionisti senza Pec, il Mise richiama gli
ordini.
L'omessa pubblicazione dell'elenco in cui sono registrati
gli indirizzi di posta elettronica dei professionisti,
ovvero il rifiuto reiterato di comunicarlo alle pubbliche
amministrazioni, costituiscono motivo di scioglimento e di
commissariamento del collegio o dell'ordine inadempiente.
Con queste parole si apre la lettera che il ministero dello
sviluppo economico ha deciso di inviare nella giornata di
ieri a tutti gli ordini professionali italiani.
Infatti a quasi quattro anni dall'istituzione dell'indice
nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata (Ini-Pec),
si riscontrano ancora gravi irregolarità, da parte di
professionisti iscritti ad alcuni ordini o collegi,
riguardante l'obbligo di dotarsi di una casella di posta
elettronica certificata (Pec).
Questa, infatti, dal 29.11.2009 deve essere
necessariamente comunicata al proprio Ordine di appartenenza
il quale deve provvedere a renderla pubblica grazie alla
registrazione nella banca dati dell'Ini–Pec. L'obiettivo è
quello di dare l'opportunità, a chi ne ha necessità, di
contattare un professionista o un'impresa operante sul
territorio italiano attraverso la semplice consultazione di
una banca dati pubblica e gestita dallo stato.
Secondo il Mise, però, molti ordini e collegi sia nazionali
sia territoriali continuano a non volersi adeguare alle non
più recenti direttive poiché: non provvedono da molto tempo
a effettuare l'invio degli aggiornamenti all'Ini-Pec, non
confermano l'assenza di aggiornamenti degli indirizzi pec di
propria competenza e alcuni dei loro professionisti iscritti
nell'Ini-Pec per una determinata categoria professionale,
risultano facenti parte di ordini o collegi territoriali
diversi.
Da qui la decisione di intimare il commissariamento o lo
scioglimento di quegli ordini o collegi che non si
aggiorneranno in tempi rapidi l'indice Ini-Pec il quale,
secondo decreto ministeriale, doveva essere fatto con
cadenza prima mensile e poi quotidiana
(articolo ItaliaOggi del 13.05.2016). |
APPALTI:
Nuovi modelli di acquisto dei Comuni, anche a seguito
dell’entrata in vigore del nuovo Codice degli Appalti
(decreto legislativo n. 50/2016 pubblicato in Gazzetta
Ufficiale il 19.04.2016) (ANCI,
nota informativa maggio 2016). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Oggetto: Nota interpretativa sulla quantificazione del
fondo risorse decentrate e sull’impatto contabile dei
rinnovi contrattuali (ANCI Piemonte,
nota 21.04.2016 n. 55/2016 di prot.). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
Oggetto: nota di commento alla sentenza n. 460/2016 della
Corte d'Appello di Torino - conferma del divieto per le
società di ingegneria di operare nel settore privato (Consiglio
Nazionale degli Ingegneri,
circolare 15.04.2016 n. 716). |
SINDACATI & ARAN |
PUBBLICO IMPIEGO:
Part-time verticale, assenze vincolate ai giorni
lavorati. Aran. Calcoli su ferie, festività e malattie.
Il tetto delle assenze deve essere
riproporzionato per il personale in part-time verticale in
relazione alla durata della attività lavorativa. Per questi
dipendenti le giornate non lavorative comprese tra periodi
di assenza vanno conteggiate: questi principi si applicano
ai dipendenti pubblici dei vari comparti, in quanto
discendono direttamente dalle regole dettate in modo analogo
dai contratti collettivi nazionali di lavoro.
In questa direzione si è di recente espressa l’Aran.
Occorre ricordare che il vincolo del riproporzionamento non
si applica ai dipendenti in part-time orizzontale, in quanto
essi svolgono la prestazione per tutte le giornate
lavorative. Lo si deve ritenere invece estensibile anche ai
dipendenti in part-time misto (quelli che prestano la loro
attività contemporaneamente non in tutte le giornate
lavorative e per una quantità ridotta di ore).
Il vincolo del riproporzionamento si applica a tutte le
forme di assenza previste dai contratti, quindi sia alle
ferie e alle connesse festività soppresse, sia alla malattia
e al connesso calcolo del periodo di comporto. Si deve
aggiungere che questo principio va applicato anche per i
permessi.
Con riferimento all’istituto del comporto (cioè al periodo
di conservazione del posto di lavoro in caso di assenze per
malattia), l’Aran sottolinea che l’applicazione di questo
principio produce conseguenze su tutti e tre i suoi aspetti
costitutivi: la durata, il triennio di riferimento e i
periodi di retribuzione intera e ridotta.
Nel comparto
regioni ed enti locali la durata del comporto è di 18 mesi,
che possono su richiesta del lavoratore e in casi
particolarmente gravi prolungarsi per un periodo massimo di
altri 18 mesi. Viene ridotto anche il triennio entro cui
calcolare le giornate di assenza per malattia. Vengono
ridotti infine anche i periodi in cui spetta la retribuzione
intera e quelli in cui la stessa viene ridotta.
Nel comparto regioni ed enti locali la retribuzione fissa
mensile (ad esclusione del salario accessorio) spetta
interamente per i primi nove mesi; viene ridotta al 90% per
i successivi tre mesi; è ridotta al 50% per gli altri sei
mesi e non viene corrisposta per i periodi di eventuale
prolungamento oltre i 18 mesi.
L’Aran detta infine due importanti principi sul calcolo dei
periodi di assenza. In primo luogo, viene chiarito che ai
fini del «superamento del periodo di comporto, vengono presi
in considerazione esclusivamente i giorni di malattia
coincidenti con quelli in cui il dipendente avrebbe dovuto
rendere la prestazione lavorativa». L’altro principio è che
ai giorni non lavorativi e a quelli festivi compresi tra
giornate di assenza per malattia «si ritiene applicabile la
medesima presunzione di continuità, alla quale si ricorre
per calcolare il periodo di comporto del personale con
rapporto di lavoro a tempo pieno».
Conclusione a cui si deve
pervenire sulla base delle indicazioni consolidate della
giurisprudenza lavoristica (articolo Il Sole 24 Ore del
09.05.2016). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI: G.
Veltri,
Il contenzioso nel nuovo codice dei contratti pubblici:
alcune riflessioni critiche
(26.05.2016 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA - APPALTI:
Appalti - Scheda di tracciamento delle attività (art. 9,
comma 2, dpr 62/2013; articolo 99, comma 4, d.lgs. 50/2016) (25.05.2016
- link a http://luigioliveri.blogspot.it). |
SEGRETARI COMUNALI:
Dove si fermano i confini dei pareri (della Corte dei Conti)
e della soft law (24.05.2016
- link a http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
Modello di ordine di esecuzione (forniture/servizi) (24.05.2016
- link a http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
Modello lettera-contratto per affidamento diretto di
fornitura/servizio inferiore ai 40.000 euro (24.05.2016
- link a http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI:
Tipologie di contratti (22.05.2016
- link a http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI:
Appalti, attenzione alla trappola del frazionamento degli
importi (21.05.2016
- link a http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI:
Appalti: scadenzario fasi procedura informale => 40.000 <
soglie comunitarie per forniture/servizi (15.05.2016
- link a http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI:
Appalti: il rinnovo di diritto interno non è ammesso
(15.05.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
Quel pasticciaccio brutto degli incentivi alla progettazione
(14.05.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
Incarico al direttore dell'esecuzione di forniture-servizi
(12.05.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Modello
determina di incarico ad Avvocati e ipotesi di modulo di
negoziazione
(12.05.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it). |
SEGRETARI COMUNALI:
Diritti di rogito: paradosso dei parerifici (11.05.2016
- link a http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
Modello di lettera di invito a procedure informali (articolo
36, comma 2, lettere a e b, del d.lgs. 50/2016) (09.05.2016
- link a http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Modello
di atto formale di incarico al Rup (per servizi e forniture)
(04.05.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
Modello di Invito a manifestazione di interesse per
procedure negoziate ex art. 36, comma 2, lettera b)
(03.05.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Modello
di verbale/proposta di aggiudicazione a seguito di gara
informale ex art. 36, comma 2 lettere a) e b)
(02.05.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI: Quando
può dirsi perfezionata giuridicamente l’obbligazione ai fini
dell’impegno di spesa?
(02.05.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI: Quella
soft law “soft” con le lobby, hard con la PA
(02.05.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI:
M. Alesio,
Nuovo codice contratti pubblici - Prospetto sintetico delle
principali novità (02.05.2016 -
tratto da www.upel.va.it). |
LAVORI PUBBLICI:
M. Alesio,
La lettera di invito nelle procedure negoziate alla luce del
nuovo codice dei contratti pubblici - Appalti di lavori (Il
modello di lettera di invito, oggetto di redazione, riguarda
l'ipotesi di un appalto di lavori, di importo sino ad €
1.000.000,00, da aggiudicare con il criterio del prezzo più
basso)
(02.05.2016 - tratto da www.upel.va.it). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il
mostro giuridico dell’articolo 1, comma 557, della legge
311/2004
(01.05.2016 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it).
---------------
Tra le tante mostruosità di un ordinamento giuridico
sempre più vulnerato da norme mal concepite ed
interpretazioni di esse troppo volte alla creazione di
diritto, piuttosto che al chiarimento applicativo, spicca la
fattispecie aberrante del cosiddetto “scavalco di
eccedenza”.
Inutile provare a cercare in un qualsiasi database di leggi
questo istituto. Esso non esiste, se non nella fervida
(troppo fervida) fantasia di alcune sezioni regionali di
controllo della Corte dei conti, che l’hanno desunto
nell’interpretare la previsione contenuta nell’articolo 1,
comma 557, della legge 311/2004.
Il testo della norma è il seguente: “I comuni con
popolazione inferiore ai 5.000 abitanti, i consorzi tra enti
locali gerenti servizi a rilevanza non industriale, le
comunità montane e le unioni di comuni possono servirsi
dell'attività lavorativa di dipendenti a tempo pieno di
altre amministrazioni locali purché autorizzati
dall'amministrazione di provenienza”. (...continua). |
APPALTI: Eliminato
lo scorporo della spesa di personale dalle offerte al
ribasso
(01.05.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI: Determinazione
a contrattare per forniture/servizi => 40.000 euro e
inferiore alla soglia comunitaria
(01.05.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Codice
dei contratti: ipotesi di lettera-contratto per
forniture/servizi di importo inferiore ai 40.000 euro
(29.04.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI: Codice
appalti: dichiarazioni ai fini della salvaguardia dal
conflitto di interessi
(28.04.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Codice
dei contratti: determina di approvazione della proposta di
aggiudicazione in appalto di importo inferiore ai 40.000
euro
(28.04.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI: L’anomalia
del sistema di individuazione dell’offerta anomala
(27.04.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Codice
dei contratti; modello di determina di acquisizione di beni
o servizi di importo inferiore a 40.000 euro. Non chiamatela
semplificazione
(27.04.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI: Codice
contratti. Schema della caotica griglia di classificazione
delle stazioni appaltanti
(24.04.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI: Nuovo
codice dei contratti: criteri di gara. In particolare: il
massimo ribasso
(18.04.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it). |
CORTE DEI CONTI |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Fondo decentrato senza ritardi. Va costituito subito per
vincolare le risorse variabili. Corte conti Veneto: in sua assenza solo la parte stabile va
in avanzo vincolato.
In caso di mancata costituzione del fondo per la
contrattazione decentrata entro la fine dell'esercizio, nel
risultato di amministrazione vincolato confluisce la sola
quota obbligatoriamente dalla contrattazione collettiva
nazionale, ovvero la parte stabile, mentre tutte le risorse
di natura variabile ivi incluse quelle da «riportare a
nuovo» vanno a costituire vere e proprie economie di spesa.
Lo ha chiarito la Corte dei conti –sezione regionale di
controllo per il Veneto– con il
parere
04.05.2016 n. 263.
La pronuncia fornisce molti utili spunti in ordine al
raccordo (tutt'altro che semplice) tra la disciplina dei
fondi e le nuove regole dell'armonizzazione contabile.
Essa richiama le tre casistiche contemplate dai nuovi
principi.
In quella che dovrebbe rappresentare l'ipotesi fisiologica,
ovvero allorché entro il termine dell'esercizio di
competenza sia stato costituito il fondo e sia anche
sottoscritto il contratto collettivo decentrato, le risorse
esigibili nell'esercizio successivo (in particolare, quelle
legate alla performance) confluiscono nel fondo pluriennale
vincolato.
Laddove il fondo sia costituito entro il termine
dell'esercizio, ma il contratto venga sottoscritto
successivamente, le risorse confluiscono nella quota
vincolata del risultato di amministrazione, immediatamente
applicabile anche in caso di esercizio provvisorio.
Se, infine, entro la fine dell'esercizio non è neppure stato
costituito il fondo, come detto, va in avanzo vincolato solo
la parte stabile, mentre quella variabile genera un'economia
«libera».
Si conferma, quindi, la necessità di procedere
tempestivamente, all'inizio dell'esercizio, alla formale di
costituzione del fondo, che assume rilievo quale atto
costitutivo per attribuire il vincolo contabile alle risorse
e prodromico alla procedura di sottoscrizione del contratto.
La relativa competenza, chiarisce il parere in commento, è
prettamente dirigenziale.
La firma del contratto deve possibilmente avvenire entro la
fine dell'anno, sia per evitare problemi legati alla
disciplina del pareggio di bilancio (che peraltro si
porranno comunque, se il fondo pluriennale vincolato non
verrà stabilmente inserito nel saldo), sia, soprattutto,
perché i giudici contabili censurano la prassi della c.d.
contrattazione tardiva
(articolo ItaliaOggi del
20.05.2016). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Personale, deroga ai mini-enti. Non devono ridurre
l'incidenza dei costi sulle spese correnti.
La sezione autonomie ha confermato il regime speciale per
gli enti non soggetti al Patto.
Ai comuni fino a 1.000 abitanti, alle unioni di comuni e in
generale agli enti che fino al 2015 non erano soggetti al
Patto di stabilità interno non si applicano gli obblighi
relativi alla riduzione dell'incidenza della spesa di
personale rispetto alle spese correnti.
Lo ha chiarito in
modo definitivo la sezione delle autonomie della Corte dei
conti con la
deliberazione
04.05.2016 n. 16 (si veda
anche ItaliaOggi del 07/05/2016), confermando quanto già
sostenuto dalla Sezione regionale di controllo per l'Abruzzo
(deliberazione n. 57/2016/Par).
Come noto, ai fini
dell'individuazione dei limiti alla spesa di personale, si
distingue da tempo fra enti soggetti e non soggetti al
Patto. Ai primi si applica la disciplina dei commi 557 e
seguenti della legge 296/2006, su cui si è concentrata nella
più recente pronuncia la sezione autonomie, riaffermando la
piena cogenza dell'obbligo non solo di ridurre le uscite per
stipendi rispetto alla media del triennio 2011-2013, ma
anche la loro incidenza rispetto al coacervo della spesa
corrente.
Per gli enti non soggetti al Patto, invece, si
applica il comma 562 della stessa legge 296, che prevede
come limite di spesa di personale il corrispondente
ammontare dell'anno 2008, al lordo degli oneri riflessi a
carico delle amministrazioni e dell'Irap, e non fa alcun
cenno alla necessità di agire anche sul rapporto spesa di
personale/spesa corrente.
Questo doppio binario è stato confermato anche dal comma 762
della legge 208/2015 che, malgrado il superamento del Patto
(sostituito dal pareggio di bilancio), ha confermato la
piena vigenza del comma 562 e delle altre disposizioni in
materia di spesa di personale riferite agli enti che
nell'anno 2015 non erano sottoposti alla relativa
disciplina. Si tratta, come detto, dei comuni fino a 1.000
abitanti, delle unioni di comuni e delle comunità montane ed
isolane, ma anche, ad esempio, dei comuni istituti mediante
fusione dal 2012.
Ovviamente, la distinzione fra enti soggetti e non soggetti
al Patto vale, oltre che per i limiti alla spesa, anche per
quelli al turnover: nel primo caso, esso è limitato al 25%
della spesa dei cessati dell'anno precedente (oltre agli
eventuali resti), mentre nel secondo segue la regola «per
teste».
Per le unioni di comuni, peraltro, il comma 229 della stessa
legge 208 ha previsto anche la possibilità di procedere a
nuove assunzioni nella misura del 100 per cento della spesa
relativa al personale di ruolo cessato dal servizio
nell'anno precedente, per cui in tal caso è possibile
scegliere il regime più favorevole. Se questo è il quadro,
pare sempre più urgente un sua drastica razionalizzazione e
semplificazione, visto che esso sembra ormai avere perso
qualsiasi organicità
(articolo ItaliaOggi del 13.05.2016). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Spesa di personale senza correttivi.
Corte dei conti. I calcoli per il rispetto dei tetti di
spesa non possono essere depurati dalle somme relative a
fatti «straordinari».
Gli enti
locali devono contenere la spesa di personale nel limite di
quella media del triennio 2011-2013 e devono considerare
immediatamente precettivo anche l'obbligo di ridurre ogni
anno l’incidenza percentuale delle spese di personale
rispetto alle spese correnti (articolo 1, comma 557, lettera
a della legge 296/2006), che quindi non può essere ritenuto
un principio programmatorio.
Nel calcolo del rapporto il
parametro da prendere a riferimento è il triennio 2011-2013,
da intendersi in senso statico. Il denominatore del rapporto
non può essere depurato delle spese di natura eccezionale o,
comunque, non ricorrenti che siano dovute a scelte
discrezionali degli enti. L’accantonamento al fondo crediti
di dubbia esigibilità non è oggetto di impegno, per cui non
assume rilevanza nel computo della spesa corrente.
Sono i
criteri operativi da rispettare per l’applicazione delle
disposizioni in materia di contenimento della spesa di
personale dettati dalla Sezione Autonomie della Corte dei
conti (deliberazione
04.05.2016 n. 16, su cui si veda anche Il
Sole 24 Ore di venerdì).
In particolare, è stato chiesto ai magistrati se sia
possibile riconoscere natura programmatoria e non
immediatamente precettiva al comma 557, lettere a), b) e c)
della legge 296/2006, con la conseguenza di ritenere
possibile assumere nell’ipotesi di aver conseguito una
riduzione della spesa di personale, con riferimento al
valore medio del triennio 2011-2013 (comma 557-quater), non
accompagnata da una riduzione del rapporto tra questa spesa
e quella corrente, sempre con riferimento al valore di
questo rapporto nel triennio 2011-2013.
In caso di risposta
negativa, le sezioni remittenti chiedono se sia ipotizzabile
considerare il riferimento contenuto nel comma 557-quater in
senso dinamico e non statico e se sia possibile
neutralizzare gli effetti derivanti dall’applicazione dei
diversi criteri di contabilizzazione dei fatti gestionali.
All’attenzione della Corte è poi stata posta la questione
relativa all’esclusione dai conteggi dell’accantonamento a
fondo crediti dubbia esigibilità.
Dopo aver affermato che sussiste l’obbligo di riduzione
della spesa previsto dal comma 557, secondo il parametro
individuato dal comma 557-quater, i giudici sostengono che
l’attuale assetto normativo non consente di sterilizzare dal
rapporto determinate poste di spesa corrente (di natura
eccezionale e non ricorrente). Si fa riferimento, in
particolare, alle ipotesi di riduzione della spesa corrente
in misura maggiore alla contrazione della spesa di
personale, all’affidamento all’esterno del servizio idrico
prima gestito in economia, all’affidamento a terzi di una
farmacia comunale e del servizio di refezione scolastica.
Al
riguardo, i magistrati ricordano le disposizioni recate
dall’articolo 6-bis del Dlgs 165/2001, che impone alle
amministrazioni, al momento di assumere la decisione di
esternalizzare un servizio, di adottare le conseguenti
misure di riduzione e rideterminazione della dotazione
organica. Ne deriva che l’esternalizzazione di un servizio
deve essere attuata dall’ente nel quadro di misure di
programmazione e organizzazione in grado di assicurare,
nell’ambito della generale riduzione della spesa corrente,
anche la riduzione delle spese di personale. In assenza di
esplicito intervento normativo, non è pertanto possibile
depurare il denominatore del rapporto spesa di
personale/spesa corrente dalle spese di natura eccezionale
o, comunque, non ricorrenti che siano dovute a scelte
discrezionali degli enti.
Il rispetto dell’intero precetto normativo porta a
concludere che permane, a carico degli enti territoriali,
l’obbligo di riduzione della spesa di personale secondo il
parametro individuato dal comma 557-quater, da intendere in
senso statico, con riferimento al triennio 2011-2013.
L’accantonamento al fondo crediti di dubbia esigibilità,
infine, non è oggetto di impegno e genera un’economia di
bilancio che confluisce nel risultato di amministrazione
come quota accantonata e conseguentemente non assume
rilevanza nella determinazione del denominatore del rapporto
spesa del personale/spesa corrente (articolo Il Sole 24 Ore del
09.05.2016). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Niente sconti sulla spesa per il personale degli
enti.
Niente sconti sulla spesa di personale agli enti
territoriali, che devono ridurre il peso degli stipendi
sulla spesa corrente complessiva senza poter scorporare dal
parametro le uscite una tantum e senza tenere conto delle
somme accantonate a fondo crediti di dubbia esigibilità.
È questo il chiarimento più importante fornito dalla Corte
dei conti - sezione autonomie, che nella
deliberazione
04.05.2016 n. 16
ha fornito, in risposta alle questioni
di massima sollevate da diverse Sezioni regionali di
controllo, alcuni rilevanti indirizzi interpretativi delle
vigenti disposizioni vincolistiche in materia di spesa del
personale (si veda anche ItaliaOggi di ieri). La pronuncia
conferma che il parametro per verificare il rispetto
dell'obbligo di riduzione del rapporto spesa di
personale/spesa corrente è rappresentato «in modo statico»
dalla media registrata nel triennio 2011-2013.
È stato
quindi respinta l'opzione favorevole a interpretare lo
stesso parametro in modo dinamico, per tenere conto del
fatto che la spesa corrente si è fisiologicamente ridotta
nel corso degli ultimi anni a causa dei ripetuti cicli di spending review e tagli. Tale lettura rischia di penalizzare
ingiustamente molte amministrazioni virtuose. Per capirlo,
basta fare un semplice esempio numerico.
Ipotizziamo che un
ente abbia registrato nel periodo 2011-2013 una spesa
corrente media di 100 e una spesa di personale media di 50,
con un rapporto pari al 50%. Se oggi la sua spesa corrente
si è ridotta a 80 ma le uscite per stipendi sono calate solo
a 45, il suo rapporto è oggi superiore al parametro,
assestandosi al 56,25%. Ma possiamo considerare questo ente
non virtuoso, visto che ha ridotto entrambe le voci di costo
e che di norma la spesa di personale è la voce più rigida
degli oneri di funzionamento?
La lettura dei giudici contabili, inoltre, pone altre
rilevanti criticità: se negli anni benchmark si sono
sostenute spese di natura eccezionale o non ricorrente e poi
le uscite sono tornate al loro livello fisiologico,
rispettare l'obiettivo può essere complicato. E la stessa
cosa accade se un ente decide (magari per migliorare
efficacia ed efficienza) di esternalizzare un servizio prima
svolto in forma diretta.
Comune a tutte le amministrazioni è invece il problema (nato
con l'armonizzazione contabile) del fondo crediti di dubbia
esigibilità: esso non è oggetto di impegno e genera
un'economia di bilancio che confluisce nel risultato di
amministrazione come quota accantonata e conseguentemente
non assume rilevanza nella determinazione del denominatore
del rapporto spesa del personale/spesa corrente.
La delibera della sezione autonomie ammette tali distonie,
ma evidenzia che per correggerle occorre un intervento del
legislatore, che a questo punto pare sempre più urgente
(articolo ItaliaOggi del 07.05.2016). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Assunzioni bloccate se il Comune non taglia le spese di
personale.
Corte dei conti. La sezione delle Autonomie.
L’addio al Patto di stabilità e l’armonizzazione
contabile non cambiano i limiti alla spesa del personale di
Regioni ed enti locali, che deve continuare a ridurre la
propria incidenza sulle uscite correnti rispetto alla media
del 2011-2013.
Questo
principio, fissato dalla
deliberazione
04.05.2016 n. 16 dalla
sezione Autonomie della Corte dei conti, rischia di mettere
in crisi parecchie amministrazioni, che in caso di mancato
rispetto incappano del blocco delle assunzioni a qualsiasi
titolo (compresi i rinnovi dei contratti a tempo
determinato).
A certificare l’importanza della questione è la pioggia di
quesiti arrivati alla sezione Autonomie dalle diverse corti
dei conti regionali. Tutte, in pratica, ruotano intorno ai
problemi generati dall’armonizzazione contabile, che
imponendo di accantonare nel fondo crediti di dubbia
esigibilità una somma proporzionale alle mancate riscossioni
riduce la spesa corrente “impegnabile” dall’amministrazione
locale.
Se il vincolo alla spesa di personale è misurato nel
rapporto con le uscite correnti, quando queste ultime si
riducono il cerchio si stringe e quindi impone di
alleggerire in modo ancora più drastico il peso degli
stipendi. Siccome questo effetto dipende dalla riforma della
contabilità e non dalla dinamica effettiva delle uscite per
il personale, molti enti hanno premuto per correggere il
limite, oppure per considerarlo implicitamente superato, e i
magistrati contabili impegnati nelle regioni hanno riportato
la questione alla sezione delle Autonomie.
La risposta arrivata da Roma chiude su tutta la linea. Il
parametro che chiede la riduzione progressiva del peso degli
stipendi sul complesso delle uscite correnti, scritto nella
Finanziaria per il 2007 (commi 557 e seguenti della legge
296/2006), è perfettamente in vigore. Come sempre accade
quando si trova a esaminare limiti di spesa, la Corte punta
quindi a una lettura “rigida”, tanto più dopo che la Corte
costituzionale (nella sentenza 218/2015) ha ribadito
l’importanza strategica del freno alla spesa di personale.
La conseguenza di queste premesse è nei cinque principi di
diritto fissati dalla nuova delibera: la riduzione del
rapporto fra spese di personale e spese correnti è
obbligatoria, il riferimento è fisso al 2011-13, la riforma
contabile non permette di “sterilizzare” alcuna voce perché
servirebbe una norma, la spesa di personale va
contabilizzata come prevede l’armonizzazione (principio
contabile allegato 4/2 al Dlgs 118/2011) e il fondo crediti
non è un impegno di spesa e quindi non va calcolato al
denominatore.
Dopo la botta arrivata mercoledì sull’obbligo di
dimezzamento delle spese per i contratti a termine calcolato
anche sui dirigenti a tempo (si veda Il Sole 24 Ore di
ieri), su cui già ieri i sindaci hanno sollecitato «chiarimenti»
in Conferenza Unificata, è da scommettere che anche questa
delibera accenderà il confronto con gli enti (articolo Il Sole 24 Ore del
06.05.2016). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Personale, taglio costi costante. Obbligatorio ridurre
l'incidenza sulla spesa corrente. La sezione autonomie della Corte conti: si tratta di norme
cogenti, non di principio.
Obbligatorio ridurre il rapporto della spesa di personale
rispetto alla spesa corrente anno per anno, in applicazione
dell'articolo 1, comma 557, lettera a), della legge
296/2006, che va considerato norma avente natura cogente.
La
Corte dei conti, sezione autonomie, con la
deliberazione
04.05.2016 n. 16, ritiene sostanzialmente ininfluente
l'abolizione dell'articolo 76, comma 7, del dl 112/2008,
convertito in legge 133/2008, operato dall'articolo 3, comma
5, del dl 90/2014, convertito in legge 114/2014, il quale
disponeva il divieto agli enti nei quali l'incidenza delle
spese di personale fosse pari o superiore al 50% delle spese
correnti di procedere ad assunzioni di personale a qualsiasi
titolo e con qualsivoglia tipologia contrattuale.
La gran parte degli interpreti aveva inteso l'abolizione di
questa previsione come il segnale dell'eliminazione
dall'ordinamento giuridico della necessità di assicurare una
riduzione costante del rapporto spesa di personale/spesa
corrente, considerando che esso sarebbe risultato inutile ai
fini di un divieto alle possibilità assunzionali.
Del resto, sempre l'articolo 3, comma 5-bis, del dl 90/2014
aveva introdotto nell'articolo 1 della legge 296/2006 il
seguente comma 557-quater: «Ai fini dell'applicazione del
comma 557, a decorrere dall'anno 2014 gli enti assicurano,
nell'ambito della programmazione triennale dei fabbisogni di
personale, il contenimento delle spese di personale con
riferimento al valore medio del triennio precedente alla
data di entrata in vigore della presente disposizione».
In
molti, quindi, avevano tratto la conclusione che l'unico
riferimento posto ad assicurare un processo virtuoso di
gestione della spesa del personale fosse il tetto della
spesa media incontrata nel triennio 2011-2013. Non così
parte della magistratura contabile, secondo la quale il dl
90/2014 avrebbe, al contrario, ridato vita all'articolo 1,
comma 557, lettera a), della legge 296/2006.
Tale norma
dispone che gli enti soggetti al rispetto degli obiettivi di
finanza pubblica debbono ridurre il complesso della spesa
del personale «con azioni da modulare nell'ambito della
propria autonomia e rivolte, in termini di principio» ad
alcuni ambiti prioritari di intervento e, segnatamente, la
«riduzione dell'incidenza percentuale delle spese di
personale rispetto al complesso delle spese correnti,
attraverso parziale reintegrazione dei cessati e
contenimento della spesa per il lavoro flessibile».
Secondo alcune sezioni regionali di controllo tale norma,
però, sarebbe stata da considerare solo un principio non
cogente. La sezione autonomie ha ritenuto, invece, di
aderire alla testi più restrittiva: dunque, oltre
all'obbligo di contenere la spesa nel tetto di quella media
del triennio 2011-2013, gli enti locali debbono anche
ridurre annualmente il rapporto della spesa di personale su
quella corrente, anche se non esiste più un rapporto
superato il quale scatti la sanzione del divieto di compiere
assunzioni.
Le indicazioni della sezione autonomie sono autorevoli e
porteranno gli enti ad orientare l'azione verso una gestione
molto rigorosa della spesa del personale, ma non appaiono
convincenti. Con la deliberazione 14/2016 a proposito della
ricomprensione della spesa per i dirigenti a contratto nel
tetto della spesa del personale flessibile, la magistratura
contabile ha dimostrato di essere capace di modificare
precedenti interpretazioni, anche alla luce di letture
«costituzionalmente orientate», che pare non aver posto in
essere nel caso della delibera 16/2016.
Non si deve
dimenticare, allora, la sentenza della Corte costituzionale
417/2004, la quale dichiarò incostituzionali norme
contenenti «vincoli che, riguardando singole voci di spesa,
non costituiscono princìpi fondamentali di coordinamento
della finanza pubblica, ma comportano una inammissibile
ingerenza nell'autonomia degli enti quanto alla gestione
della spesa», ledendo la specifica tutela costituzionale
assicurata agli enti locali.
L'articolo 1, comma 557, della legge 296/2006 venne a suo
tempo approvato proprio per superare i vincoli puntuali alla
spesa del personale posti dalla legge 266/2005: ecco perché
detto articolo 1, comma 557, stabilisce esplicitamente di
regolare solo «in termini di principio» gli ambiti di
intervento posti a ridurre la spesa di personale.
La lettura fornita dalla Sezione autonomie con la delibera
16/2016, pertanto, per quanto rigorosa, appare non fondata
proprio perché finisce per contrastare con le indicazioni
della Corte costituzionale
(articolo ItaliaOggi del 06.05.2016).
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MASSIMA
La Sezione delle autonomie della Corte dei conti, sulle
questioni di massima rimesse dalle Sezioni regionali di
controllo per la Lombardia e per il Veneto con le
deliberazioni n. 78/2016/QMIG, n. 82/2016/QMIG, n. 97/2016/QMIG,
n. 101/2016/QMIG e n. 246/2016/QMIG, pronuncia i seguenti
principi di diritto:
“1. Alla luce della normativa introdotta
dalla legge di stabilità 2016 e del nuovo sistema di
armonizzazione contabile, deve confermarsi la vigenza e la
cogenza delle disposizioni dettate dall’art. 1, comma 557 e
ss., l. n. 296/2006, in materia di riduzione delle spese di
personale.
2. Secondo la vigente disciplina in materia di contenimento
della spesa del personale permane, a carico degli enti
territoriali, l’obbligo di riduzione di cui all’art. 1,
comma 557, l. n. 296/2006, secondo il parametro individuato
dal comma 557-quater, da intendere in senso statico, con
riferimento al triennio 2011-2013.
3. Con riferimento al parametro dell’art. 1, comma 557,
lett. a), l. n. 296/2006, non è possibile, in mancanza di
norme espresse, depurare il denominatore del rapporto spesa
di personale/spesa corrente dalle spese di natura
eccezionale o, comunque, non ricorrenti che siano dovute a
scelte discrezionali degli enti.
4. Il principio contabile di cui all’allegato n. 4/2 al
d.lgs. n. 118/2011, punto 5.2, disciplina compiutamente la
corretta imputazione degli impegni per la spesa del
personale per effetto del passaggio al nuovo sistema di
armonizzazione contabile.
5. L'accantonamento al fondo crediti di dubbia esigibilità
non è oggetto di impegno e genera un'economia di bilancio
che confluisce nel risultato di amministrazione come quota
accantonata e conseguentemente non assume rilevanza nella
determinazione del denominatore del rapporto spesa del
personale/spesa corrente.” |
ENTI LOCALI:
Autovelox, incassi da dividere al netto delle
spese.
Anche se manca il decreto richiesto dalla legge i comuni
possono già dividere a metà gli accertamenti autovelox con
l'ente proprietario della strada. Tolte però tutte le spese
di accertamento e di incasso.
Lo ha evidenziato la Corte dei conti dell'Emilia-Romagna,
con il
parere 03.05.2016 n. 44.
La questione
della ripartizione a metà delle multe autovelox e della
rendicontazione periodica sull'impiego del denaro incassato
vede la luce con la legge n. 120/2010 che ha previsto, tra
l'altro, che per tutte le violazioni dei limiti di velocità
i proventi devono essere ripartiti in misura uguale fra
l'ente dal quale dipende l'organo accertatore e l'ente
proprietario della strada.
Le nuove disposizioni impongono
inoltre agli enti locali di trasmettere in via informatica a
Roma, entro il 31 maggio, una composita relazione in cui
devono essere indicati, con riferimento all'anno precedente,
l'ammontare complessivo dei proventi con la specificazione
degli oneri sostenuti per ciascun intervento. Ma in assenza
del sistema informatico ad hoc e di regole chiare su quanto
e come dividere i proventi si naviga a vista e si procede
con grande approssimazione.
Per questo motivo l'Associazione
dei comuni è intervenuta nuovamente, il 28.02.2016,
specificando che resta in vigore il comma 3 dell'art. 25
della legge 120/2010 il quale dispone l'applicabilità della
novella a far data dall'esercizio successivo a quello di
emanazione del decreto fantasma. In buona sostanza anche per
il 2016 l'Anci raccomanda la massima attenzione circa
l'obbligo di destinazione dei proventi, in conformità alle
indicazioni diramate dalla Corte dei conti
dell'Emilia-Romagna (si veda ItaliaOggi del 13/02/2016).
Che però con quest'ultima deliberazione sembra disporre
concretamente per il via libera alla materiale ripartizione
degli importi incamerati in questi anni dai comuni.
Specificano infatti i giudici contabili che la ripartizione
dovrà essere fatta al netto delle spese per il noleggio
dell'autovelox, per la notifica delle multe e la loro
gestione informatica. Ma anche degli importi necessari per
procedere materialmente alla riscossione coattiva della
sanzione
(articolo ItaliaOggi del
20.05.2016). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: I dirigenti «pesano» sulla spesa.
Personale Pa. La Corte dei conti include gli incarichi
dirigenziali a tempo determinato nei limiti sui dipendenti.
Anche gli
incarichi dirigenziali a tempo determinato entrano nei
limiti complessivi della spesa di personale, in base ai
quali ai contratti a termine non può essere destinata una
somma superiore al 50% di quella sostenuta allo stesso
titolo nel 2009.
L’indicazione arriva dalla sezione Autonomie della Corte dei
conti, che con la
deliberazione
03.05.2016 n. 14 cambia rotta rispetto
alle istruzioni date sulla stessa norma quattro anni fa,
nella delibera 12/2012.
Più che di un cambio, si tratta in
realtà di un’inversione di rotta, dal momento che la
delibera del 2012 aveva decretato l’esclusione di queste
spese dai vincoli generali, e costringe quindi le
amministrazioni locali a rifare i calcoli, con il rischio di
trovarsi improvvisamente ad aver sforato i limiti e quindi
ad essere costrette a rientrare. La novità, però, nasce
dall’evoluzione del quadro delle regole di riferimento, che
in questi mesi aveva alimentato un doppio filone nelle
sezioni regionali ora risolto dalle Autonomie.
A motivare l’esclusione, nel 2012, era il fatto che gli
incarichi dirigenziali degli enti locali erano disciplinati
da un limite “su misura”, scritto nel testo unico del
pubblico impiego (articolo 19, comma 6-quater, del Dlgs
165/2001), che agli occhi della Corte giustificava il
mancato inserimento di questa voce nel limite complessivo.
Ora però, dopo il decreto Madia del 2014, quella norma si
applica solo agli enti di ricerca.
Una norma su misura per gli incarichi in Comuni, Province e
Città metropolitane c’è ancora, ed è migrata nel Testo unico
degli enti locali dove si fissa un limite più alto rispetto
al passato: le amministrazioni locali non possono coprire
con incarichi a tempo determinato più del 30% dei posti
previsti in dotazione organica.
Questo limite, però, non basta secondo il nuovo orientamento
della Corte dei conti a superare il vincolo generale,
rafforzato anche dal fatto che un successivo intervento
della Corte costituzionale, con la sentenza 173/2012, ha
ribadito che il tetto complessivo scritto nel 2010 ha «l’obiettivo
generale di contenimento della spesa relativa ad un vasto
settore del personale». Di qui l’impossibilità di
sottrarre al vincolo gli incarichi dirigenziali negli enti
locali (articolo Il Sole 24 Ore del
05.05.2016).
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MASSIMA
La Sezione delle autonomie della Corte dei conti sulla
questione di massima rimessa dalla Sezione regionale di
controllo per la Lombardia con deliberazione n. 41/2016/QMIG,
pronuncia il seguente principio di diritto:
“Le spese riferite agli incarichi
dirigenziali conferiti ex art. 110, primo comma, del decreto
legislativo n. 267 del 2000 devono essere computate ai fini
del rispetto del limite di cui all’art. 9, comma 28, del
decreto legge n. 78 del 2010, convertito con modificazioni
dalla legge n. 122 del 2010”. |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: P.a., retromarcia sui dirigenti. La spesa nel tetto per i
contratti a tempo e flessibili. CORTE DEI CONTI/ Deliberazione sulle assunzioni ex art. 110
del dlgs 267/2000.
Va computata nel tetto della spesa per i contratti a tempo
determinato e flessibili la spesa connessa alle assunzioni
di dirigenti a tempo determinato «a contratto», in
applicazione dell'articolo 110, comma 1, del dlgs 267/2000.
La Corte dei Conti, Sezione autonomie, con la
deliberazione
03.05.2016, n. 14, modifica il proprio precedente
orientamento e aderisce alla tesi secondo la quale
l'articolo 9, comma 28, del d.l. 78/2010, convertito in
legge 122/2010, vale anche per gli incarichi dirigenziali a
contratto e risolve alcuni contrasti interpretativi insorti
in merito tra diverse sezioni regionali della magistratura
contabile.
Come detto sopra, in effetti, la Sezione autonomie corregge
anche se stessa: infatti, con la deliberazione 12/2012/Inpr
aveva enunciato il principio di diritto opposto, secondo il
quale gli incarichi a contratto di cui all'articolo 110,
comma 1, del Tuel dovevano considerarsi sottratti ai vincoli
di spesa imposti dal citato articolo 9, comma 28.
In sintesi, tale precedente ricostruzione della Sezione
autonomie si basava sulla considerazione che sarebbe stato
incongruo ritenere imposti alle assunzioni dei dirigenti a
contratto degli enti locali sia il tetto di spesa previsto
dall'articolo 9, comma 28, sia anche i limiti numerici alle
assunzioni molto restrittivi, previsti dall'articolo 19,
comma 6-quater, nel testo precedente alla riforma apportata
dall'articolo 11, comma 2, del d.l. 90/2014.
Oggettivamente, l'interpretazione fornita nel 2012 dalla
Sezione autonomie non appariva del tutto soddisfacente:
nulla impediva, a ben vedere, al legislatore di disporre
stringenti limiti, sia numerici, sia finanziari, ad
assunzioni extra ordinem, come quelle disciplinate
dall'articolo 110, comma 1, del Tue.
Lealmente, la delibera
14/2016 riconosce che il precedente orientamento della
Sezione autonomie era implicitamente in contrasto con la
chiave di lettura dell'articolo 9, comma 28, del d.l.
78/2010 fornita dalla Corte costituzionale con la sentenza
173/2012, la quale precisa che il tetto alla spesa del
personale flessibile «pone un obiettivo generale di
contenimento della spesa relativa a un vasto settore del
personale e, precisamente, a quello costituito da quanti
collaborano con le pubbliche amministrazioni in virtù di
contratti diversi dal rapporto di impiego a tempo
indeterminato».
Dunque, una lettura costituzionalmente orientata
dell'articolo 9, comma 28, avrebbe dovuto indurre da sempre
a considerare gli incarichi a contratto ricompresi nel tetto
di spesa per lavoro flessibile. Sta di fatto che il
revirement della Sezione autonomie è molto netto.
Secondo la
delibera 14/2016 non vi è ragione di ritenere che la
disciplina speciale della dirigenza a contratto contenuta
nell'articolo 110, comma 1, per ciò solo consenta di
derogare ai principi generali. Di particolare pregio è la
distinzione che la delibera propone tra il concetto di
specialità e quello di deroga. La specialità consente ad una
specifica disciplina di interagire con aspetti particolari
«in funzione della realizzazione di una disciplina
compiuta».
Tuttavia, una norma speciale non è di per sé derogatrice,
specie se la deroga non è espressamente disposta dal
legislatore e finisca per incidere negativamente su
obiettivi generali, come il risparmio delle risorse
pubbliche relative al personale.
Poiché il legislatore, che ben avrebbe potuto derogare
espressamente alle previsioni dell'articolo 9, comma 28, in
tema di incarichi a contratto, se ne è astenuto, per la
Sezione autonomie resta unicamente la conclusione che la
spesa per gli incarichi a contratto va computata ai fini del
relativo tetto disposto appunto dal citato articolo 9, comma
28
(articolo ItaliaOggi del 05.05.2016).
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MASSIMA
La Sezione delle autonomie della Corte dei conti sulla
questione di massima rimessa dalla Sezione regionale di
controllo per la Lombardia con deliberazione n. 41/2016/QMIG,
pronuncia il seguente principio di diritto:
“Le spese riferite agli incarichi
dirigenziali conferiti ex art. 110, primo comma, del decreto
legislativo n. 267 del 2000 devono essere computate ai fini
del rispetto del limite di cui all’art. 9, comma 28, del
decreto legge n. 78 del 2010, convertito con modificazioni
dalla legge n. 122 del 2010”. |
A.N.AC. (già
AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI) |
APPALTI: Codice appalti non retroattivo. 20 aprile spartiacque:
vecchie regole per rinnovi contrattuali.
Le indicazioni dell'Anticorruzione alle stazioni appaltanti.
Settori speciali senza Avcpass.
Il nuovo Codice degli appalti pubblici si applica ai bandi
pubblicati dal 20.04.2016 in poi e non ai bandi
trasmessi alla Gazzetta Ufficiale prima di questa data.
Seguono le regole del vecchio codice i rinnovi contrattuali,
i servizi complementari, le modifiche contrattuali e le
proroghe tecniche concernenti procedure affidate prima del
20 aprile, oltre alle procedure negoziate affidate dopo il
20 aprile se conseguenti a gare affidate prima ma andate
deserte. Il sistema Avcpass (per la comprova online dei
requisiti di partecipazione richiesti agli operatori
economici, ndr) non applicabile ai settori speciali.
Sono
queste le principali indicazioni operative che l'Autorità
nazionale anticorruzione (Anac) ha dato alle stazioni
appaltanti con due comunicati siglati dal presidente
Raffaele Cantone.
Nel primo
comunicato del Presidente del 11.05.2016,
emesso in relazione a «numerose richieste di chiarimenti» si
affronta il tema del periodo transitorio relativo al
passaggio dal vecchio al nuovo Codice.
Si conferma che il
codice De Lise (e il dpr 207/2010) si applica a tutti gli
avvisi pubblicati entro il 19.04.2016 nella Gazzetta
Ufficiale dell'Ue, nella Gazzetta italiana o, laddove
previsto, nell'Albo pretorio o sul profilo del committente;
con ciò si esclude che i bandi inviati alla Gazzetta prima
dell'entrata in vigore del codice (sulla base del decreto
del 2006) ma usciti sulla Gazzetta dopo il 19 aprile possano
essere ritenuti validi (e quindi andranno riavviate le
procedure con le nuove norme del decreto 50).
L'Anac ha chiarito che «le disposizioni previgenti» si
continuano ad applicare agli affidamenti aggiudicati prima
della data di entrata in vigore del nuovo Codice, per i
quali la stazione appaltante ha proceduto al «rinnovo del
contratto o a modifiche contrattuali derivanti da rinnovi
già previsti nei bandi di gara, a consegne, lavori e servizi
complementari, a ripetizione di servizi analoghi, a proroghe
tecniche, purché limitate al tempo strettamente necessario
per l'aggiudicazione della nuova gara, a varianti per le
quali non sia prevista l'indizione di una nuova gara».
In
questo casi, ha chiarito l'Anac, non è importante che sia
stato richiesto un nuovo Cig (codice identificativo gara).
Vengono salvate anche le procedure negoziate indette, a
partire dal 20.04.2016, ma conseguenti a precedenti gare
bandite con il vecchio codice e andate deserte o senza
offerte regolari. In questi casi occorre che «la procedura
negoziata sia tempestivamente avviata».
Stesso regime per le
procedure negoziate che conseguono ad avvisi esplorativi
(indagini di mercato) avviate (o con bandi pubblicati) prima
del 20 aprile; si richiede però «certezza della data di
pubblicazione dell'avviso». Stesso discorso per gli
affidamenti diretti o per le procedure negoziate in
attuazione di accordi quadro aggiudicati prima del 20 aprile
e per adesioni a convenzioni stipulate prima della stessa
data.
Marcia indietro sul divieto di rilascio dei Cig (Codice
identificativo gara) ai comuni: rettificando i comunicati
Anac del 10.11.2015 e dell'08.01.2016, si potrà
rilasciare il Cig a tutti i comuni per servizi e forniture
di importo inferiore a 40 mila euro e per lavori di importo
inferiore a 150 mila.
Nel secondo
comunicato del Presidente 04.05.2016,
messo in linea ieri sul sito dell'Autorità, si chiarisce
invece un profilo relativo al sistema di verifica dei
requisiti (Avcpass), trasferito con il nuovo codice al
ministero delle infrastrutture.
In particolare, si precisa
che, nonostante l'art. 133 del nuovo Codice richiami l'art.
81 (verifica tramite Avcpass) tra le norme applicabili ai
settori speciali, trattandosi di norma «programmatica del
nuovo sistema», si può sostenere «l'estensione ai settori
speciali riguardi il nuovo sistema di verifica dei requisiti
di partecipazione alle gare d'appalto ma non anche l'attuale
sistema Avcpass»
(articolo ItaliaOggi del 13.05.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Via al controllo incrociato su forniture e servizi p.a..
Le procedure per la vigilanza collaborativa Anac-Consip.
Al via la vigilanza collaborativa fra Anac e Consip;
verranno controllati da Anac cinque rilevanti procedure di
appalto; al vaglio dei tecnici di Cantone tutti gli atti di
gara compresa la nomina dei commissari e l'aggiudicazione
degli appalti.
È quanto si prevede nel
protocollo di
vigilanza collaborativa siglato il 05.05.2016 dal
presidente dell'Anac, Raffaele Cantone, e
dall'amministratore delegato di Consip, Luigi Marroni.
Si
tratta di un protocollo che riguarda alcune iniziative di
particolare complessità che Consip porrà in essere e che
richiedono una particolare attenzione sia per la rilevanza
tecnica ed economica, sia per la peculiare impostazione
giuridica, oltre che per il loro impatto su particolari aree
del territorio nazionale a rischio di infiltrazione.
La vigilanza collaborativa di Anac avrà ad oggetto cinque
interventi, di rilevante importo economico, anche relativi a
procedure negoziate e a procedure relative a merceologie
rientranti nell'ambito del Dpcm 24.12.2015, e
concernenti settori a particolare rischio di corruzione.
Gli
interventi oggetto del protocollo individuati di comune
accordo sono quelli riguardanti la procedura per la
fornitura di servizi per la gestione delle apparecchiature
elettromedicali (Sigae), la procedura per la fornitura di
servizi integrati per la gestione e la manutenzione da
eseguirsi negli immobili, adibiti prevalentemente ad uso
ufficio (fm uffici), la procedura per la fornitura di
servizi di pulizia per le scuole e due procedure negoziate
per la fornitura di licenze sw. Per queste procedure Anac
effettuerà la verifica preventiva tutti gli atti della
procedura di affidamento, ivi inclusi gli schemi
contrattuali (quali schema di convenzione e accordo quadro).
In particolare, si comincerà con l'analisi della determina a
contrarre (o atto equivalente), per poi passare ai bandi di
gara o alle lettere di invito o inviti a presentare offerta
nel caso di procedura negoziata; ai disciplinari di gara; ai
capitolati, agli schemi di contratto e convenzione, ai
provvedimenti di nomina dei commissari e di costituzione
della commissione giudicatrice (per i quali la Consip potrà
utilizzare gli elenchi speciali previsti dal decreto
50/2016), ai verbali del subprocedimento di verifica e di
esclusione delle offerte anormalmente basse; e infine ai
provvedimenti di aggiudicazione, provvisoria e definitiva.
Il procedimento di verifica prevede che Consip trasmetta gli
atti all'Autorità preventivamente alla loro formale
adozione; a quel punto l'Autorità esprimerà un parere, anche
formulando eventuali osservazioni.
Se dovessero essere individuate irregolarità o non
conformità alle vigenti disposizioni normative, o alle
pronunce dell'Autorità, l'Anac formulerà un rilievo motivato
e lo trasmetterà a Consip. In tale ipotesi, Consip avrà due
opzioni: se riterrà fondato il rilievo, si adeguerà,
modificando o sostituendo l'atto in conformità al rilievo e
mandando all'Anac copia del documento rettificato; se,
invece, non dovesse ritenere fondato il rilievo, presenterà
le proprie controdeduzioni all'Autorità e assumerà gli atti
di propria competenza.
In ogni caso, Consip potrà sempre segnalare all'Autorità
particolari o ricorrenti criticità tali da determinare un
possibile avvio di attività di vigilanza speciale o
ordinaria
(articolo ItaliaOggi del 13.05.2016). |
APPALTI: Appalti, altre deroghe al nuovo codice. Nella fase
transitoria proroghe e alcune varianti riescono a «evitare»
la riforma.
Contratti pubblici. Ulteriori istruzioni Anac
sull’applicazione ai bandi pubblicati a ridosso del 18
aprile.
Ultimi colpi
di coda del vecchio Codice. Risolta la questione più
rilevante, relativa al momento esatto di entrata in vigore
del Dlgs 50 del 2016, l’Anac ritorna sul tema della fase
transitoria, con il
comunicato del Presidente del 11.05.2016, licenziato ieri dal Consiglio
dell’Autorità.
Vengono, così, regolati i casi speciali nei
quali possono ancora sopravvivere le regole del Dlgs 163 del
2006. Accadrà per i rinnovi dei contratti, per le proroghe
tecniche, per alcune varianti. Ma anche per le procedure
negoziate andate deserte a causa di offerte irregolari o per
gli accordi quadro avviati in pendenza del vecchio sistema.
In questo modo, l’Authority risponde alle «numerose
richieste di chiarimenti in relazione alla normativa da
applicare», giunte in questi giorni da diverse pubbliche
amministrazioni italiane. E non sarà l’ultima volta, come
spiega il consigliere Anac, Michele Corradino: «Penso ci
saranno altri comunicati simili in futuro. Laddove si
presentino richieste degli operatori, cercheremo di trarne
indicazioni utili a tutto il mercato».
Il comunicato conferma che le disposizioni del vecchio
Codice si applicano a tutti gli avvisi pubblicati entro il
19 aprile, con una delle forme obbligatorie, come la
Gazzetta ufficiale italiana o quella europea. Si tratta di
un passaggio rilevantissimo, perché da più parti era
arrivata all’Authority la richiesta di far valere la data di
invio dei bandi alla Gazzetta europea per la pubblicazione.
Un’interpretazione che, tra le altre cose, avrebbe fatto
salvi diversi bandi pubblicati dalle centrali di committenza
regionali oltre i termini. Nulla da fare: gli aggregatori
dovranno rifare tutto da capo.
Ci sono, invece, una serie di casi particolari nei quali l’Anac
ha aperto a interpretazioni più morbide. In queste
situazioni, secondo il comunicato, potranno essere
utilizzate ancora le vecchie regole. Si tratta, ad esempio,
degli affidamenti aggiudicati prima della data di entrata in
vigore del nuovo Codice, per i quali venga disposto il
rinnovo del contratto. E, ancora, della ripetizione di
servizi analoghi, delle proroghe tecniche, delle varianti
per le quali non sia necessario indire una nuova gara. A
nulla rileva, in tutte queste ipotesi, il fatto che si debba
acquisire un nuovo codice identificativo di gara per avviare
la procedura.
Stesso discorso per le procedure negoziate indette in base
al vecchio Codice, ma andate deserte a causa di offerte
irregolari o inammissibili: le nuove convocazioni restano
nel perimetro delle vecchie regole. Il Dlgs 163 del 2006
potrà essere applicato anche per i contratti sotto la soglia
comunitaria, per i quali la stazione appaltante abbia
pubblicato un avviso esplorativo, finalizzato a reperire
operatori interessati, in vigenza del vecchio Codice.
Ancora, il vecchio sistema dovrà essere usato anche per gli
affidamenti diretti e le procedure negoziate in attuazione
di accordi quadro aggiudicati prima dell’entrata in vigore
del Dlgs 50 del 2016 e per le adesioni a convenzioni
stipulate prima del 20 aprile.
Due precisazioni importanti riguardano, invece, aspetti più
tecnici. La prima è relativa alle regole da applicare ai
Comuni: tutti quelli che bandiscono lavori sotto i 150mila
euro e servizi e forniture sotto i 40mila euro potranno
farlo in autonomia, senza passare da una centrale di
committenza. Con il vecchio sistema esisteva una soglia
unica a 40mila euro.
Indicazioni arrivano anche sulle
comunicazioni obbligatorie all’Osservatorio dei contratti
pubblici. Tutti gli atti avviati in vigenza del vecchio
sistema continuano a seguire le vecchie regole
(articolo Il Sole 24 Ore del
12.05.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Linee guida Anac, ultime limature. In arrivo i prontuari sui
rating di impresa e le cause di esclusione.
Appalti. Lunedì si conclude la consultazione - Osservazioni
su procedure negoziate e progettazione.
Regole più
dettagliate sugli inviti e i sorteggi, per evitare abusi
nelle procedure negoziate. Una disciplina specifica per
alcune materie, come la contabilizzazione dei lavori.
Qualche limatura sul tema dei requisiti nella progettazione.
E interventi di aggiustamenti sulle commissioni giudicatrici
e i concorsi.
Sono solo alcuni dei passaggi delle
linee
guida di attuazione del Codice appalti sui quali
associazioni di imprese, stazioni appaltanti e
professionisti si preparano a inviare all’Anac le loro
richieste. Avranno tempo fino al 16 maggio per farlo ma, a
pochi giorni dalla scadenza del termine, ormai i temi sul
piatto sono chiari.
Una volta completato il quadro delle osservazioni, i tempi
di lavorazione dell’Anac saranno stretti: «Contiamo -spiega
il consigliere dell’Autorità, Michele Corradino- di
pubblicare tutto entro fine mese». Intanto, sono già in
rampa di lancio altre tre linee guida. Affronteranno
passaggi molto importanti: rating di impresa, partenariato
pubblico privato e cause di esclusione degli operatori.
Per l’Ance, come spiega il vicepresidente con delega alle
Opere pubbliche, Edoardo Bianchi «è in primo luogo positivo
che queste linee guida siano uscite in tempi così stretti».
Sarebbe, però, necessaria qualche integrazione sulle
procedure negoziate, sotto il milione: «L’Anac dovrebbe
dettagliare -dice Bianchi- i criteri per il sorteggio
delle ditte e le regole per le rotazioni degli inviti». Un
invito per una gara da 100mila euro e per una da mezzo
milione non possono, ad esempio, essere messi sullo stesso
piano. Ma l’intervento più sostanzioso servirebbe per
rivedere i documenti su Rup e direttore lavori.
Prosegue
Bianchi: «Alcune questioni, come le regole per
contabilizzare i lavori o i verbali di consegna e
sospensione lavori, andrebbero disciplinate a parte, con
linee guida specifiche, per ridurre la discrezionalità e
rendere chiara la situazione per tutti».
Spostando l’attenzione sulla progettazione, il giudizio
generale è positivo, anche se non mancano le richieste di
integrazioni. Per Andrea Mascolini, direttore generale dell’Oice,
l’associazione che riunisce le società di ingegneria, esiste
una questione di fondo legata all’inquadramento delle linee
guida: «Tra i nostri iscritti c’è il timore che con
l’abrogazione del vecchio regolamento siano dati troppi
poteri discrezionali alle Pa. In questo senso, non è chiaro
quanto le linee guida saranno cogenti. Sul punto
bisognerebbe dare qualche spiegazione».
Qualche chiarimento
servirebbe anche sulla materia dei requisiti: i fatturati
non dovrebbero essere calcolati su base triennale e
l’organico medio annuo andrebbe chiesto non solo alle
società, ma anche ai professionisti.
Architetti e ingegneri vedono la questione in modo diverso.
Per il presidente del Cni, Armando Zambrano «i documenti
individuano soluzioni che avevamo discusso e che sono
positive». Il capitolo sui requisiti non va modificato, se
non distinguendo meglio le caratteristiche da dimostrare per
gli affidamenti sopra i 100mila euro e sopra i 209mila:
adesso le linee guida mettono tutto insieme.
Un’aggiunta
importante potrebbe, invece, arrivare in materia di polizze:
«Chiederemo -spiega il consigliere tesoriere del Cni,
Michele Lapenna- che il requisito del fatturato possa
essere sostituito dal possesso di una copertura
assicurativa». Il vicepresidente del Consiglio nazionale
degli architetti, Rino La Mendola chiede, invece,
un’integrazione sui concorsi: «Presenteremo un documento
specifico che solleciterà maggiori indicazioni in tema di
concorsi, puntando molto sulle procedure elettroniche».
Inoltre, sull’offerta economicamente più vantaggiosa,
«chiederemo una griglia di riferimento più restrittiva».
Mentre le Regioni, attraverso il tavolo costituito presso
Itaca, presenteranno rilievi su tutti i documenti. Con un’attenzione
particolare su due passaggi. Il primo riguarda le
commissioni giudicatrici: non piace la scelta di coinvolgere
in modo così massiccio ordini professionali e università
nella gestione degli elenchi. Il secondo è relativo agli
affidamenti diretti: il dubbio è che l’Anac abbia irrigidito
troppo una procedura che dovrebbe restare leggera (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.05.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Contratti, pronte le linee guida. La verifica dei requisiti
affidata a ordini e università. Bozza dell'Anac su commissari di gara e gestione dell'albo,
in consultazione fino al 16 maggio.
Verifica dei requisiti dei commissari di gara affidata agli
ordini professionali e alle università; settori speciali
esclusi dall'obbligo di scelta tramite l'albo Anac; nomina
dei commissari interni da limitare ai casi al di sotto del
milione di euro e da evitare se vi siano stati fenomeni
degenerativi per precedenti aggiudicazioni.
Sono questi
alcuni degli elementi di maggiore rilievo contenuti nella
bozza di linea guida Anac (in consultazione pubblica fino al
16 maggio) sulla scelta dei commissari di gara e sulla
gestione dell'albo che il nuovo codice dei contratti
pubblici prevede in capo all'Autorità nazionale
anticorruzione.
Il nuovo codice subordina l'entrata in vigore del nuovo
sistema delineato all'articolo 78 all'adozione delle linee
guida. Fino a quando non saranno emesse le stazioni
appaltanti potranno continuare a scegliere i commissari
interni. La nuova disciplina non si applicherà ai cosiddetti
settori speciali (acqua, energia e trasporti) e alle gare
gestire da Consip, Invitalia e dai soggetti aggregatori
della domanda (centrali di committenza); in questi casi è
prevista una sezione speciale dell'albo Anac cui questi
soggetti potranno attingere per scegliere i commissari
quando non abbiano le professionalità interne.
Sull'obbligo di nominare i commissari esterni va detto che
se da un lato il codice prevede l'obbligo per le gare oltre
la soglia europea (ad esempio 5,2 milioni per i lavori) e
per quelle gestite con procedure telematiche. L'Anac però
sottolinea l'opportunità che la nomina dei commissari
interni sia limitata ad alcuni ridotti casi «ad esempio al
di sopra del milione di euro, limite oltre il quale si
applicano le procedure ordinarie (e, per i lavori, si deve
aggiudicare con il criterio dell'offerta economicamente più
vantaggiosa). Nelle linee guida si invita inoltre ad evitare
la nomina di commissari interni quando vi siano stati
fenomeni degenerativi quali tentativi di corruzione, gravi
errori accertati da parte della commissione giudicatrice, e
altro».
Dopo avere precisato che i commissari devono occuparsi
soltanto della valutazione delle offerte tecniche ed
economiche (e quindi gli altri adempimenti spettano al
responsabile unico del procedimento), l'Anac conferma il
principio della assoluta autonomia della commissione
rispetto alla stazione appaltante.
Dal punto di vista dei requisiti l'Anac rinvia ai commi 4 e
5 dell'art. 77 (le incompatibilità vanno dichiarate in
relazione a situazioni specifiche al momento della scelta
dei commissari da parte dell'Autorità anticorruzione,
comunicata alla stazione appaltante.
Le linee guida allargano anche le fattispecie di reato che
incidono sulla onorabilità (esempio, anche truffa,
estorsione, associazione a delinquere), accomunando alle
sentenze di condanna anche i patteggiamenti. Per
l'esperienza nella specifica materia si richiama la
classificazione Cpv (vocabolario comune degli appalti
pubblici) indicata nei documenti di gara.
Potranno essere iscritti all'albo i professionisti con
almeno cinque anni di iscrizione all'albo con esperienza
comprovata nel settore documentata dal numero di incarichi
ricevuti o dalla costanza di svolgimento dell'attività;
docenti universitari di ruolo con cinque anni di esperienza
e pubblici dipendenti laureati iscritti a un ordine o
abilitati. Questi soggetti dovranno presentare la
candidatura all'ordine di appartenenza o all'università
dichiarando il possesso dei requisiti e su questo saranno
verificati. Gli ordini e le università comunicano poi all'Anac
l'elenco e effettuate le verifiche formali l'Autorità
inserisce i nominativi nell'albo.
La materiale nomina dei
commissari deve avvenire dopo la scadenza della
presentazione delle offerte e l'Anac avrà cinque giorni per
comunicare la lista; la stazione appaltante sorteggia i
commissari e subito dopo i sorteggiati dovranno accettare
l'incarico o dichiarare l'incompatibilità
(articolo ItaliaOggi del 06.05.2016). |
APPALTI: Salvi i bandi di gara pubblicati fino al 19 aprile.
Comunicato dell'anac sul nuovo codice dei contratti pubblici.
Salvi i bandi di gara pubblicati fino a tutto il 19.04.2016 con le norme del decreto 163/2016; il nuovo codice dei
contratti pubblici applicabile dopo il 20 aprile, compreso.
Lo ha precisato l'Anac (l'Authority anticorruzione) con il
comunicato
03.05.2016, correggendo quanto già detto
con il precedente avviso emesso unitamente al ministero
delle infrastrutture e dei trasporti il 22.04.2016.
Nel
comunicato di dieci giorni fa ministero e Autorità avevano
precisato che la nuova disciplina in materia di contratti
pubblici contenuta nel decreto 50/2016 dovesse applicarsi
alle procedure e ai contratti per i quali i bandi e gli
avvisi con cui si indice la procedura di scelta del
contraente fossero stati pubblicati a decorrere dal 19.04.2016, data di entrata in vigore del nuovo Codice dei
contratti pubblici.
Analoga sorte era stata prevista, nei
casi di contratti senza pubblicazione di bandi o avvisi, per
le procedure di selezione in relazione alle quali occorreva
però fare riferimento alla data di invio degli inviti a
presentare offerta (anche in questo caso era stato stabilito
che facesse fede la data del 19.04.2016). Il comunicato
del 22 aprile chiudeva stabilendo che gli eventuali atti di
gara già adottati dalle amministrazioni dovevano essere
«riformulati in conformità al nuovo assetto normativo recato
dal decreto legislativo n. 50 del 2016».
Adesso arriva però il nuovo comunicato, emesso questa volta
soltanto dall'Autorità, a precisare meglio la portata del
regime transitorio del nuovo codice dei contratti pubblici
(articoli 216, comma 1, e 220). La precisazione dettata il 3
maggio risponde alle diverse segnalazioni inviate da
stazioni appaltanti che hanno fatto rilevare come il nuovo
codice «fosse stato pubblicato, nella versione on line della
Gazzetta Ufficiale (n. 91) del 19.04.2016, dopo le 22 e,
quindi, solo da quel momento reso pubblicamente
conoscibile».
Alla luce delle segnalazioni pervenute,
l'Autorità, dopo avere sentito l'Avvocatura generale dello
Stato, ha considerato che «tale accertata evenienza imponga,
in base al principio generale di cui all'art. 11 delle preleggi al codice civile e all'esigenza di tutela della
buona fede delle stazioni appaltanti, una diversa soluzione
equitativa con riferimento ai soli bandi o avvisi pubblicati
nella giornata del 19 aprile». Pertanto l'Anac ha precisato
che per i bandi pubblicati il 19 aprile «continua a operare
il pregresso regime giuridico, mentre le disposizioni del dlgs 50/2016 riguarderanno i bandi e gli avvisi pubblicati a
decorrere dal 20.04.2016».
Non pochi sono stati i bandi
pubblicati in limine dell'entrata in vigore del nuovo
codice, proprio il 19 aprile. Senza questa precisazione i
bandi pubblicati già nella giornata del 19 aprile stesso,
contenenti previsioni in contrasto con le norme introdotte
dal dlgs 50/2016, dovevano essere revocati e ripubblicati
dopo averli resi coerenti con le nuove norme del decreto 50.
Adesso, con la precisazione del comunicato, si salvano
almeno quelli emessi il 19 aprile. Non quelli, e ce ne sono
stati, usciti in Gazzetta dopo il 20 anche se spediti alla
Gazzetta Ufficiale ben prima
(articolo ItaliaOggi del 05.05.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Codice appalti, l’Anac «salva» gare per cento milioni.
Regole. Scudo per i bandi del 19 aprile.
Si sposta in
avanti di 24 ore la data di applicazione delle regole del
nuovo codice appalti ai bandi per l’assegnazione di nuove
opere o incarichi di progettazione.
Con un nuovo comunicato
l’Anticorruzione fa slittare dal 19 al 20 aprile la
data-spartiacque per l’applicazione del Dlgs 50/2016 che ha
mandato in pensione il codice del 2006. La soluzione
(anticipata su questo giornale il 30 aprile) fa salvi i
bandi pubblicati in Gazzetta il 19 aprile, stendendo una
rete di sicurezza su gare che -tra lavori e progettazioni-
valgono poco più di 100 milioni.
Il
comunicato
03.05.2016 corregge la rotta scelta con
il precedente intervento interpretativo sull’entrata in
vigore del codice, contenuta nel comunicato congiunto Anac-Mit del 22 aprile, che faceva scattare la tagliola del
nuovo codice il 19 aprile, cioè lo stesso giorno della
pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.
Una scelta che rendeva
in qualche modo retroattiva l’applicazione delle nuove
regole, visto che la pubblicazione nell’edizione on-line
della Gazzetta Italiana è arrivata soltanto nella tarda
serata (dopo le 22.00) del 19 aprile. Lo slittamento è stato
avallato anche dall’Avvocatura dello Stato, cui l’Anac ha
chiesto un parere. E si basa sul principio
dell'irretroattività della legge, sancito, come ricorda il
comunicato, dall’articolo 11 delle preleggi del codice
civile.
Va detto peraltro che la «soluzione equitativa» non
incide sulla data di entrata in vigore del codice -che
resta fissata al 19 aprile come specificato dall’articolo
220 del Dlgs 50/2016- ma prende atto della pubblicazione
“tardiva” in Gazzetta, chiarendo che le nuove «disposizioni
del d.lgs. 50/2016 riguarderanno i bandi e gli avvisi
pubblicati a decorrere dal 20.04.2016».
Tutto nasce dalla corsa scatenata da molte stazioni
appaltanti alla pubblicazione di bandi prima che il nuovo
codice modificasse istituti chiave come l’appalto integrato
di progetto e lavori (radicalmente ridimensionato), la
possibilità di assegnare le gare al massimo ribasso (ora
consentite solo per gli interventi sotto al milione) e il
subappalto (tetto al 30% esteso a tutto il contratto).
Lo slittamento getta una ciambella di salvataggio ad almeno
nove gare di lavori pubblicate sulla Guce del 19 aprile per
un controvalore di 92,3 milioni. Tra queste un appalto
integrato da 29 milioni delle Ferrovie Sud Est per un
deposito a Bari, e due gare per progettare e realizzare
edifici a servizio delle università di Napoli e Roma da 12,5
e 14,7 milioni. Salve anche diverse gare di progettazione
con riferimenti quantomeno da aggiornare.
Restano in fuori gioco tutte le gare con gli stessi “vizi”
pubblicate dopo il 19 aprile. E si tratta di appalti
rilevanti, per un controvalore di circa 465 milioni (senza
contare le gare per beni e servizi dei soggetti
aggregatori). Ora non resta che il ritiro in autotutela e la
riformulazione delle gare. A meno di non voler rischiare un
ricorso e lasciare l’ultima parola al giudice di turno (articolo Il Sole 24 Ore del
04.05.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
QUESITI & PARERI |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
La clausola di revisione prezzi.
DOMANDA:
L'art. 115 del D.Lgs. 163/2006, oggi abrogato, prevedeva
l'inserimento obbligatorio nei contratti della clausola di
revisione periodica dei prezzi. Di contro, l'art. 106,
lettera a), del D.Lgs. n. 50/2016 sembrerebbe configurare la
clausola di revisione -da inserirsi già negli atti di gara,
e poi nel contratto- come una facoltà, e non un obbligo.
Nel chiedere conferma di questa interpretazione, si domanda
altresì se sia opportuno inserire tale clausola nelle
procedure di gara di prossima emanazione.
RISPOSTA:
L'art. 106, lettera a), del D.Lgs. 50/2016 prevede che i
contratti di appalto nei settori ordinari e nei settori
speciali possono essere modificati senza una nuova procedura
di affidamento (…) “se le modifiche, a prescindere dal
loro valore monetario, sono state previste nei documenti di
gara iniziali in clausole chiare, precise e inequivocabili,
che possono comprendere clausole di revisione dei prezzi”.
L’apposizione della clausola, da parte dell’amministrazione,
è facoltativa, in linea con l’orientamento espresso dalla
giurisprudenza amministrativa secondo cui l’istituto della
revisione è preordinato, nell’attuale disciplina (si faceva
riferimento all'art. 115 del D.Lgs. 163/2006, oggi
abrogato), alla tutela dell’esigenza, propria
dell’Amministrazione, di evitare che il corrispettivo del
contratto di durata subisca aumenti incontrollati, nel corso
del tempo, tali da sconvolgere il quadro finanziario sulla
cui base è avvenuta la stipulazione del contratto (Cons.
St., sez. V, 23.04.2014, n. 2052).
Solo in via mediata l’istituto in esame tutela l’interesse
dell’impresa a non subire l’alterazione dell’equilibrio
contrattuale conseguente alle modifiche dei costi che si
verifichino durante l’arco del rapporto e che potrebbero
indurla ad una surrettizia riduzione degli standards
qualitativi delle prestazioni (Consiglio di Stato (sez. III
01/04/2016 n. 1309).
Si ricorda inoltre che la norma fa salve le disposizioni di
cui all'articolo 1, comma 511, della legge 208/2015 (Legge
stabilità 2016), che prevede la facoltà per l’appaltatore o
il committente di chiedere una revisione nel caso di
contratti di servizi e forniture ad esecuzione continuata o
periodica che prevedono una clausola di revisione dei prezzi
indicizzata al valore di beni indifferenziati, quando tale
indicizzazione abbia determinato un aumento o una
diminuzione del prezzo indicato al momento dell’offerta
superiore al 10% e tale da alterare significativamente
l'originario equilibrio contrattuale; in alternativa sono
possibili la risoluzione del contratto o il recesso, senza
che sia dovuto alcun indennizzo.
La revisione contrattuale:
– deve essere operata sulla base di una istruttoria condotta
dai dirigenti responsabili dell’acquisizione di beni e
servizi;
– deve essere basata sui c.d. costi standard e parti possono
chiedere all’ANAC che provvede all'accertamento di fornire
le indicazioni utili per il ripristino dell'equilibrio
contrattuale o, in caso di mancato accordo, per la
definizione di modalità attuative della risoluzione
contrattuale finalizzate a evitare disservizi.
A tutt'oggi i costi standard non sono ancora stati
determinati. Nelle more di tale determinazione, il comma 7
dell’articolo 9 del d.l. 66/2014 ha incaricato l’ANAC di
fornire, a partire dal 01.10.2014, attraverso la banca dati
nazionale dei contratti pubblici, un’elaborazione dei prezzi
di riferimento alle condizioni di maggiore efficienza di
beni e servizi, tra quelli di maggiore impatto in termini di
costo a carico della pubblica amministrazione, nonché di
pubblicare sul proprio sito web i prezzi unitari corrisposti
dalle pubbliche amministrazioni per gli acquisti di tali
beni e servizi.
L’apposizione di una clausola di revisione dei prezzi può
essere opportuna per evitare il rischio che il corrispettivo
del contratto di durata subisca aumenti incontrollati nel
corso del tempo tali da sconvolgere il quadro finanziario su
cui è avvenuta la stipula del contratto e il rischio per
l’impresa di subire l’alterazione dell’equilibrio
contrattuale conseguente alle modifiche dei costi che si
verifichino nell'arco dell’esecuzione, che potrebbero
indurla ad una surrettizia riduzione degli standard
qualitativi delle prestazioni (link
a www.ancirisponde.ancitel.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Osservatorio
Viminale/ Il vicesindaco è necessario e va nominato
tempestivamente.
In un comune si può omettere di procedere alla nomina del
vicesindaco, nonostante sia trascorso quasi un anno dalla
data di revoca del precedente vicesindaco?
L'art. 46 del decreto legislativo n. 267/2000, al comma 2
prevede che il sindaco nomina i componenti della giunta, tra
cui un vicesindaco e ne dà comunicazione al consiglio nella
prima seduta successiva all'elezione, mentre il successivo
art. 53 stabilisce che il sindaco sia sostituito, nei casi
ivi indicati, tra cui l'assenza o l'impedimento temporaneo,
dal solo vicesindaco.
Pertanto, sebbene l'ordinamento non contenga riferimenti
espressi a un termine entro il quale l'organo di vertice
deve procedere alla sostituzione del vicesindaco
dimissionario, deve reputarsi insita nel sistema la
necessità che l'adempimento sia effettuato tempestivamente,
trattandosi di una figura necessaria, che assicura
l'esercizio delle funzioni del sindaco nei casi in cui
quest'ultimo venga meno, ricorrendo taluna delle ipotesi
previste dal citato art. 53, commi 1 e 2. La necessità della
nomina del vicesindaco è stata ribadita, peraltro, anche con
la circolare ministeriale n. 2379 del 16/02/2012, proprio per
l'esercizio delle indefettibili funzioni sostitutive del
sindaco impedito o assente.
In merito, il Consiglio di stato, sez. I, con parere n.
501/2001, ha evidenziato che «l'esigenza di continuità
nell'azione amministrativa dell'ente locale postula che in
ogni momento vi sia un soggetto giuridicamente legittimato
ad adottare tutti i provvedimenti oggettivamente necessari
nell'interesse pubblico».
Pertanto, resta ferma l'assoluta necessità di ottemperare al
disposto normativo che richiede l'esplicita designazione del
vicesindaco da parte del sindaco
(articolo ItaliaOggi del
20.05.2016). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Incompatibilità di un consigliere comunale.
Non può ricoprire la carica di
consigliere comunale colui che riveste la carica di
Presidente di una associazione locale che ha ottenuto
dall'amministrazione comunale un contributo finanziario per
lo svolgimento di una propria manifestazione qualora la
sovvenzione concessa dal Comune abbia, cumulativamente:
- i caratteri della continuità (nel senso che l'erogazione
non deve essere saltuaria od occasionale);
- della facoltatività, in tutto o in parte, (nel senso che
l'intervento finanziario dell'ente deve rientrare nella sua
discrezionalità);
- della notevole consistenza (nel senso che l'apporto della
sovvenzione deve essere, per la parte facoltativa, superiore
al dieci per cento del totale delle entrate annuali
dell'ente sovvenzionato).
Il Comune chiede un parere in merito all'esistenza di una
causa di incompatibilità per un consigliere comunale che
riveste la carica di Presidente di una associazione locale
che ha fatto richiesta all'amministrazione comunale sia di
patrocinio sia di ottenimento di un contributo finanziario
di carattere straordinario per lo svolgimento di una propria
manifestazione.
In relazione alla fattispecie prospettata, ed alla luce
delle indicazioni fornite dal Comune, potrebbe venire in
rilievo la norma di cui all'articolo 63, comma 1, numero 1),
seconda parte, del TUEL, laddove prevede che non possa
ricoprire la carica di consigliere comunale l'amministratore
di ente, istituto o azienda che riceva dal comune, in via
continuativa, una sovvenzione in tutto o in parte
facoltativa, quando la parte facoltativa superi nell'anno il
dieci per cento del totale delle entrate dell'ente.
Innanzitutto si osserva come, secondo autorevole dottrina,
[1] il
termine 'ente' deve essere inteso in senso lato e,
pertanto, vi rientrano anche gli organismi privi di
personalità giuridica. In questo senso si è pronunciata
anche la Corte di Cassazione [2]
che ha inteso comprendere nella nozione di ente
sovvenzionato le persone giuridiche pubbliche, private e le
associazioni non riconosciute che, pur non dotate di
personalità giuridica, abbiano autonomia amministrativa e
patrimoniale.
Per quanto riguarda la specificazione del concetto di
sovvenzione, essa deve consistere in un'erogazione
continuativa a titolo gratuito, avente, cumulativamente, i
seguenti tre caratteri:
- continuità, nel senso che la sua erogazione non deve
essere saltuaria od occasionale;
- facoltatività (in tutto o in parte): l'intervento
finanziario dell'ente non deve cioè derivare da un obbligo,
ovvero può essere in parte obbligatorio e in parte
facoltativo;
- notevole consistenza: l'apporto della sovvenzione deve
essere, per la parte facoltativa, superiore al dieci per
cento del totale delle entrate annuali dell'ente
sovvenzionato.
In particolare, mentre non paiono sussistere dubbi circa la
ricorrenza del requisito della facoltatività
[3], né
pare creare problemi interpretativi quello della 'notevole
consistenza', che l'Ente dovrà valutare se sia esistente
o meno, si ritiene di fornire alcune precisazioni circa
l'ulteriore presupposto richiesto dalla norma per
l'insorgenza dell'indicata causa di incompatibilità e
consistente nella 'continuità' della contribuzione
corrisposta.
Secondo la dottrina, per rivestire il carattere della
continuità l'erogazione deve essere effettuata almeno per
due o più anni. [4]
Al contempo, tuttavia, la medesima dottrina precisa che non
rilevano, ai fini dell'insorgenza dell'indicata causa di
incompatibilità, le erogazioni aventi carattere
straordinario, qualificabili propriamente non quali
sovvenzioni ma, piuttosto, come contributi di natura
complementare (cum tribuere). Significativa, al
riguardo, risulta essere anche una sentenza della Cassazione
civile [5]
la quale ha affermato che: «Difetta anzitutto, per la
'pro loco' di [...] la natura di ente sovvenzionato, in
quanto detto ente ha solo ricevuto dal comune (che non aveva
alcun obbligo in proposito) la somma di L. 2.000.000
nell'anno 1980 e altre L. 2.000.000.= nell'anno 1982; le
quali somme, pur rappresentando nei bilanci consuntivi
dell'ente per quelle annate oltre il 10% delle entrate,
all'evidenza difettavano del carattere della continuità (di
modo che l'ente potesse programmare la sua attività, facendo
sicuro affidamento sul denaro che andrebbe a ricevere a
titolo di 'sovvenzione'), e altra dignità non potevano avere
che quello di mere, occasionali contribuzioni per far fronte
alle spese di una contingente e specifica, determinata
attività (ad es. le prime L. 2.000.000 furono date dal
Comune a copertura delle spese sostenute dalla pro Loco per
l'organizzazione delle 'ferie di mezza estate')».
Benché nel caso affrontato dalla sentenza in oggetto le
somme risultino essere state corrisposte con l'intervallo di
un anno tra l'una e l'altra, pur tuttavia, risulta
interessante sottolineare la motivazione addotta dal Supremo
giudice civile che non rimarca tale scansione temporale
[6] bensì
il fatto che si trattava di sovvenzioni occasionali
necessarie per fare fronte a 'spese di una contingente e
specifica, determinata attività'. Tale ricostruzione,
parrebbe, inoltre, coerente con quanto sostenuto da altra
giurisprudenza che ha affermato costituire sovvenzione
rilevante ai fini di cui all'articolo 63, comma 1, num. 1),
TUEL, 'l'erogazione continuativa a titolo gratuito di
somme di denaro rivolta a consentire all'Ente sovvenzionato
di raggiungere, con l'integrazione del proprio bilancio, le
finalità in vista delle quali è stato costituto'
[7]:
finalità, questa, che è propria delle contribuzioni
ordinarie eventualmente richieste all'amministrazione
comunale. [8]
Tutto ciò premesso, valuti l'Ente se sussistono tutti i
presupposti richiesti dall'articolo 63, comma 1, num. 1),
TUEL per l'insorgenza della causa di incompatibilità in
riferimento. A tale riguardo si ricorda che è compito del
consiglio comunale la valutazione della sussistenza delle
cause di ineleggibilità o di incompatibilità dei
consiglieri. È, infatti, principio di carattere generale del
nostro ordinamento che gli organi collegiali elettivi
debbano esaminare i titoli di ammissione dei propri
componenti.
---------------
[1] Cfr. P.Virga, Diritto amministrativo, Amministrazione
locale, 3, ed. Giuffrè, II ed. 1994, pag. 78 e segg.; R.O.
di Stilo - E. Maggiora, Ineleggibilità e incompatibilità
alle cariche elettive, ed. Maggioli, 1985, pag. 73; E.
Maggiora, ineleggibilità, incompatibilità, incandidabilità
nell'ente locale, 2000, pagg. 136-137.
[2] Corte di Cassazione, sentenza del 22.06.1972, n. 2068.
[3] Non paiono sorgere dubbi sul fatto che la concessione
del contributo rientri nel concetto di facoltatività atteso
che la sua attribuzione è rimessa alla valutazione
discrezionale della giunta comunale. In tal senso depone il
regolamento comunale per la concessione di finanziamenti,
contributi e benefici economici ad enti, associazioni e
soggetti privati che, all'articolo 8 recita: 'Entro 30
giorni dalla richiesta, previa istruttoria a cura
dell'ufficio competente, la giunta comunale, compatibilmente
con le disponibilità di bilancio, può concedere un
contributo/sovvenzione, nel rispetto del presente
regolamento, a fronte di attività o singole manifestazioni
da svolgersi nell'ambito del territorio comunale. [...]'.
[4] Cfr. E. Maggiora, op.cit., pag. 141 e seg.; R.O. Di
Stilo, Gli organi regionali, comunali e circoscrizionali,
1982, pag. 139 e segg. Nello stesso senso V. Italia, E.
Maggiora, 'Manuale del consigliere', Gruppo 24ore, 2011,
pag. 28.
[5] Cassazione civile, sez. I, sentenza del 27.06.1986, n.
4260.
[6] Si sarebbe potuto affermare che la continuità in senso
stretto mancava stante l'interruzione di un anno tra una
elargizione e l'altra.
[7] Cassazione civile, sentenza del 16.05.1972, n. 1479.
[8] A sostegno di un tanto depone l'articolo 5 del
regolamento comunale per la concessione di finanziamenti,
contributi e benefici economici ad enti, associazioni e
soggetti privati il quale, al comma 1, recita: 'Le domande
intese ad ottenere l'assegnazione di contribuzioni o
sovvenzioni ai sensi del presente Regolamento, possono
essere di carattere straordinario o ordinario, a seconda che
le stesse siano destinate al finanziamento di specifiche
iniziative, attività o manifestazioni non ricorrenti o ad
assicurare l'ordinaria attività che l'associazione, comitato
o soggetto richiedente espleta nel corso di un intero anno'
(11.05.2016 -
link a
www.regione.fvg.it). |
APPALTI:
D.Lgs. 14.03.2013, n. 33, art. 37. Obblighi di pubblicazione
concernenti i contratti pubblici di lavori, servizi e
forniture.
L'art. 37, comma 1, del D.Lgs. 33/2013
stabilisce che le pubbliche amministrazioni sono tenute alla
pubblicazione di una serie di dati ed informazioni relativi
alle procedure di affidamento ed esecuzione di opere e
lavori pubblici, servizi e forniture.
Come chiarito dall'ANAC, la pubblicazione dei dati e delle
informazioni nella sezione Amministrazione trasparente del
profilo internet dell'ente riguarda tutte le procedure di
affidamento, indipendentemente dal valore dell'appalto.
Per l'individuazione degli atti oggetto di pubblicazione e
per le tempistiche è utile fare ricorso alla tabella che
costituisce l'allegato 1 alla delibera ANAC n. 50/2013 ove,
per ciascuna sotto-sezione di Amministrazione trasparente,
vengono indicati la denominazione del singolo obbligo, i
suoi contenuti, il livello di aggiornamento ed il
riferimento normativo.
Il Comune chiede un parere con riferimento agli obblighi di
cui all'articolo 37, comma 1, del decreto legislativo
14.03.2013, n. 33, 'Riordino della disciplina riguardante
gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di
informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni'.
In particolare, chiede di sapere:
- se gli obblighi di pubblicazione indicati dalla norma
riguardano tutte le procedure di appalto relative ai lavori,
servizi e forniture, indipendentemente dal valore
dell'appalto;
- entro quanto tempo si devono pubblicare i dati, vista la
natura informativa degli stessi, posto che la pubblicità
legale è garantita dalla pubblicazione all'Albo pretorio
degli avvisi;
- se per 'informazioni relative alle procedure per
l'affidamento e l'esecuzione di opere e lavori pubblici,
servizi e forniture' sono da intendersi i bandi e gli
inviti completi di tutti gli allegati, e se per l'esito di
gara si deve pubblicare il verbale o se è sufficiente una
scheda riassuntiva di appalto aggiudicato.
Come noto, il D.Lgs. 33/2013 è stato adottato in attuazione
della delega contenuta nella legge 06.11.2012, n. 190,
recante 'Disposizioni per la prevenzione e la repressione
della corruzione e dell'illegalità nella pubblica
amministrazione'.
Al fine di rendere pubblici tutti i dati concernenti
l'organizzazione e l'attività delle pubbliche
amministrazioni, ciascun ente si è dotato, sul proprio sito
internet istituzionale, di una sezione denominata
Amministrazione trasparente, in cui vengono raccolti, tra
gli altri, i dati relativi all'organizzazione, al personale,
agli enti controllati, ai procedimenti ed all'attività
contrattuale dell'amministrazione.
Con una serie di provvedimenti successivi, sono state
fornite dettagliate istruzioni in merito ai dati soggetti a
pubblicazione e alle modalità di compilazione per ciascuna
sotto-sezione. La CiVIT [1],
con deliberazione n. 50 del 04.07.2013, ha emanato le 'Linee
guida per l'aggiornamento del Programma triennale per la
trasparenza e l'integrità 2014-2016'.
Altre indicazioni utili, in particolare per l'ambito dei
contratti, si possono poi rinvenire nella Deliberazione AVCP
n. 26 del 22.05.2013, contenente le 'Prime indicazioni
sull'assolvimento degli obblighi di trasmissione delle
informazioni all'Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici di lavori, servizi e forniture, ai sensi dell'art.
14, comma 32, della legge n. 190/2012', nelle FAQ 'Art.
1 L. 190/2012 adempimenti nei confronti AVCP'
(aggiornate a gennaio 2015) e nelle 'FAQ in materia di
trasparenza sull'applicazione del D.Lgs. n. 33/2013',
tutte disponibili sul sito internet dell'Autorità Nazionale
Anticorruzione (ANAC) cui ora competono, tra le altre, la
vigilanza e il controllo dell'effettiva applicazione e del
rispetto delle regole sulla trasparenza dell'attività
amministrativa.
Per quanto qui di interesse, l'art. 37, comma 1, del D.Lgs.
33/2013, recita: 'Fermi restando gli altri obblighi di
pubblicità legale e, in particolare, quelli previsti
dall'articolo 1, comma 32, della legge 06.11.2012, n. 190,
ciascuna amministrazione pubblica, secondo quanto previsto
dal decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, e, in
particolare, dagli articoli 63, 65, 66, 122, 124, 206 e 223,
le informazioni relative alle procedure per l'affidamento e
l'esecuzione di opere e lavori pubblici, servizi e forniture.'
L'art. 1, comma 32, della L. 190/2012 stabilisce che 'Con
riferimento ai procedimenti di cui al comma 16, lettera b),
del presente articolo, le stazioni appaltanti sono in ogni
caso tenute a pubblicare nei propri siti web istituzionali:
la struttura proponente; l'oggetto del bando; l'elenco degli
operatori invitati a presentare offerte; l'aggiudicatario;
l'importo di aggiudicazione; i tempi di completamento
dell'opera, servizio o fornitura; l'importo delle somme
liquidate. (...) Entro il 31 gennaio di ogni anno, tali
informazioni, relativamente all'anno precedente, sono
pubblicate in tabelle riassuntive rese liberamente
scaricabili in un formato digitale standard aperto che
consenta di analizzare e rielaborare, anche a fini
statistici, i dati informatici (...).'
Ne deriva che gli obblighi di pubblicità relativi
all'attività contrattuale delle pubbliche amministrazioni
sottostanno sia all'art. 37, comma 1, del D.Lgs. 33/2013,
sia all'art. 1, comma 32, della legge 190/2010, oltre alle
altre norme di settore (ad esempio il Codice degli appalti).
Con specifico riguardo alle domande poste dall'Ente
instante, che si riferiscono alle informazioni oggetto di
pubblicazione nella sezione Amministrazione trasparente del
proprio sito internet, alla luce dei chiarimenti forniti nei
sopracitati documenti dall'ANAC, la quale ha l'esclusiva
competenza a dare indicazioni in materia, si esprimono in
via meramente collaborativa le seguenti considerazioni.
Con riferimento al primo quesito del Comune, si osserva che
secondo l'Autorità sono soggetti a pubblicazione anche i
dati relativi ad affidamenti diretti o espletati in modo
informale, inclusi quelli con importi di spesa minimi, 'non
risultando allo stato la presenza di soglie normative per la
pubblicazione' [2].
In considerazione dell'esplicito riferimento alla mancanza
di soglie ai fini della pubblicazione, ne dovrebbe
conseguire che questa riguardi tutte le procedure di
affidamento di lavori, servizi e forniture,
indipendentemente dal valore dell'appalto.
Per quanto attiene, invece, alle altre questioni poste
dall'Ente, pare utile rinviare alla tabella che costituisce
l'allegato 1 alla delibera ANAC n. 50/2013. Il prospetto
infatti indica, per ciascuna sotto-sezione di
Amministrazione trasparente, la denominazione del singolo
obbligo, i suoi contenuti, il livello di aggiornamento ed il
riferimento normativo.
Nel dettaglio, per la sotto-sezione 'Bandi di gara e
contratti' si distingue fra gli adempimenti ex D.Lgs.
33/2013, art. 37, commi 1 e 2, che sono quelli specificati
dal Codice degli appalti, e quelli di cui all'art. 1, comma
32, della Legge 190/2012. In ottemperanza agli obblighi di
cui all'art. 37, commi 1 e 2, è necessario pubblicare
l'avviso di preinformazione, la delibera a contrarre
[3], tutti
gli avvisi, i bandi e gli inviti, gli avvisi sui risultati
della procedura di affidamento e gli avvisi relativi al
sistema di qualificazione per i bandi nei settori speciali.
Per la diffusione di queste informazioni occorre fare
riferimento alle modalità e alle specifiche indicate nel
D.Lgs. 163/2006 [4].
Come specificato dall'ANAC la pubblicazione di questi dati
deve essere tempestiva.
Per quanto attiene agli obblighi di pubblicazione previsti
dall'art. 1, comma 32, della L. 190/2012, si rinvia
all'articolo 3 della citata deliberazione 26/2013 dell'AVCP.
In questo caso si ricorda che la pubblicazione ha cadenza
annuale e deve essere effettuata entro il 31 gennaio di ogni
anno.
Con particolare riguardo all'obbligo di pubblicare anche i
vari documenti allegati, non si rinvengono indicazioni
precise da parte dell'ANAC, che si limita a menzionare,
genericamente, 'avvisi, bandi e inviti'
[5].
Pertanto, qualsiasi chiarimento in merito non potrà che
venire dall'Autorità, a cui si consiglia di rivolgersi per
ulteriori delucidazioni.
Invece, con riferimento all'esito della gara, è la stessa
tabella allegata alla delibera 50/2013 ad indicare che
risultati della procedura di affidamento vanno resi noti
attraverso un avviso, conformemente a quanto disposto dagli
articoli 65 e 66 del D.Lgs. 163/2006.
---------------
[1] La legge 190/2012 ha stabilito, all'art. 1, comma 2,
che la CiVIT (Commissione per la valutazione, la trasparenza
e l'integrità delle amministrazioni pubbliche) opera quale
Autorità nazionale anticorruzione. Successivamente, dal
31.10.2013 (con l'entrata in vigore della legge n. 125 del
2013, di conversione del decreto legge del 31.08.2013, n.
101), la CiVIT ha assunto la denominazione di "Autorità
Nazionale Anticorruzione e per la valutazione e la
trasparenza delle amministrazioni pubbliche" (ANAC).
[2] FAQ n. 17.1 in materia di trasparenza sull'applicazione
del D.Lgs. 33/2013
[3] Quando l'amministrazione affidi lavori, servizi o
forniture in assenza di gara pubblica: in questi casi,
infatti, la delibera a contrarre sostituisce il bando di
gara.
[4] In particolare gli articoli 63, 65, 66, 122, 124, 206,
223, per le rispettive tipologie di bandi. Si ricorda,
tuttavia, che dal 19 aprile scorso è entrato in vigore il
decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, 'Attuazione delle
direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE
sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli
appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti
erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei
trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino
della disciplina vigente in materia di contratti pubblici
relativi a lavori, servizi e forniture.' I richiamati
articoli del D.Lgs. 163/2006 trovano corrispondenza negli
articoli 70 e seguenti del nuovo Codice, alle cui
disposizioni bisognerà attenersi per le procedure future. Si
segnala, inoltre, l'art. 29, relativo alle modalità di
applicazione dei principi di trasparenza.
[5] In realtà, nell'allegato 1.1, che costituisce la nota
esplicativa dell'allegato 1 già citato, si afferma che
'laddove ritenuta opportuna, è proposta la pubblicazione dei
dati in tabelle (...)' utilizzando 'formati di tipo aperto
(...) e nel caso in cui nelle tabelle occorra inserire atti
o documenti, è possibile riportare direttamente i documenti
o, in alternativa, i link agli stessi' (09.05.2016
-
link a
www.regione.fvg.it). |
NEWS |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
Il permesso della 104 sospende le ferie.
Assistenza. L’indicazione del ministero.
La necessità
di assistenza al disabile congiunto, da parte del
lavoratore, sospende la fruizione delle ferie programmate.
Il ministero del Lavoro risponde con l'interpello
20.05.2016 n. 20/2016 a un quesito posto da una
organizzazione sindacale teso a conoscere l'esatta
interpretazione dell’articolo 33, comma 3, della legge
104/1992, nella parte in cui prevede il diritto, da parte
del lavoratore, di fruire tre giorni di permesso mensile
retribuito per assistere il familiare in disabilità con
handicap grave.
In particolare viene chiesto se il datore di lavoro possa
negare l'utilizzo dei permessi nel periodo di ferie
programmate anche nel caso di chiusura dello stabilimento,
nel rispetto delle disposizioni contrattuali in materia.
La risposta del ministero parte dalle diverse finalità dei
due istituti. I permessi ai lavoratori che assistono propri
familiari portatori di handicap nonché gli stessi lavoratori
con disabilità hanno il fine di tutelare i diritti
fondamentali della persona diversamente abile, bisognosa di
una adeguata assistenza morale e materiale.
Diversamente, l'istituto delle ferie, garantito
direttamente dall'articolo 36 della Costituzione, ha la
finalità di garantire al lavoratore di recuperare le energie
psico-fisiche impiegate nello svolgimento dell'attività
lavorativa corrispondendo altresì, come riconosciuto dalla
giurisprudenza,ad esigenze di carattere ricreativo,
personali e familiari. Proprio come norma di tutela si tratta
di un diritto irrinunciabile.
Stabilita la norma di principio, la legge (Dlgs 66/2003) e
la stessa contrattazione collettiva, fissata la durata delle
ferie, danno la possibilità al datore di lavoro che, per
garantire le esigenze produttive, possa prevedere una
programmazione della fruizione delle ferie dei propri
dipendenti, nonché la chiusura dello stabilimento durante un
periodo predeterminato (ferie collettive), mediante la
sospensione totale o parziale dell'attività produttiva.
Attese le diverse finalità dei due istituti e, tuttavia,
dovendo applicare il principio della prevalenza delle
improcrastinabili esigenze di assistenza e di tutela del
diritto del disabile, rispetto alle esigenze aziendali, ne
consegue la necessità di collocare le ferie non godute dal
lavoratore in un diverso periodo, previo accordo tra
lavoratore e datore di lavoro (articolo Il Sole 24 Ore del
21.05.2016). |
APPALTI SERVIZI:
Gas, canone anche nel periodo transitorio.
Servizi. Gli obblighi del concessionario.
Il
concessionario del servizio del gas deve corrispondere
all’ente locale il canone di distribuzione anche nel periodo
fra la scadenza del vecchio affidamento e l’avvio del nuovo,
periodo transitorio durante il quale è proprio il gestore
«uscente» a proseguire il servizio.
Il chiarimento arriva dall’Autorità per l’energia elettrica,
il gas e il sistema idrico (comunicato
19.05.2016 - Chiarimenti in relazione alla
sussistenza dell’obbligo di pagamento del canone per il
servizio di distribuzione del gas naturale da parte del
concessionario del servizio nel periodo di prosecuzione del
servizio - ai sensi dell’articolo 14, comma 7, del decreto
legislativo 23.05.2000, n. 164), condiviso con il ministero dello
Sviluppo economico, a conferma di quanto segnalato da Anci.
L’Authority parte dall’articolo 14, comma 7, del decreto
legislativo 164/2000 secondo cui «il gestore uscente resta
comunque obbligato a proseguire la gestione del servizio,
limitatamente all’ordinaria amministrazione, fino alla data
di decorrenza del nuovo affidamento».
La norma si limita,
dunque, a stabilire l’obbligo di prosecuzione del servizio
in capo al distributore uscente. L’assenza di previsioni
specifiche sul canone basta all’Autorità per affermare che
la gestione del servizio continua come prima e quindi
secondo le previsioni della concessione scaduta,
«rispettando l’equilibrio giuridico-economico ivi
stabilito».
L’Authority richiama anche l’articolo 46-bis del Dl 159/2007
che disciplina le gare per il nuovo affidamento. Se la norma
consente un aumento del canone in questa fase, si può
ritenere che il pagamento possa essere previsto anche nel
tempo necessario all’espletamento della gara d’ambito, senza
escludere il periodo di prosecuzione
(articolo Il Sole 24 Ore del
21.05.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO: Dirigenti, patrimoni a nudo.
Di difficile comprensione la novità del decreto foia.
Obbligo di pubblicare la situazione patrimoniale nella
sezione trasparenza dei siti delle amministrazioni di
appartenenza esteso anche ai dirigenti pubblici.
A
stabilirlo (l'obbligo è già vigente per i pubblici
amministratori) il
nuovo decreto sulla trasparenza, il
cosiddetto Freedom of information act (Foia) all'italiana,
approvato dal consiglio dei ministri in via definitiva. Va
ricordato che già oggi i dirigenti pubblici depositano
presso le rispettive amministrazioni, aggiornandole
annualmente, se cambiate, le loro situazioni patrimoniali
che però non sono pubblicate.
Diverso è per gli amministratori eletti perché diverso è il
loro status in quanto quello della classe politica è un
«patto» con i cittadini elettori compatibile con l'esigenza
di questi ultimi anche di conoscere la situazione
patrimoniale dei candidati alle cariche pubbliche, sia eligendi che eletti. Completamente diverso è il caso dei
dirigenti pubblici i cui compensi, erogati dalla
amministrazione di appartenenza (ma vale anche per i
compensi derivanti da rapporti professionali autorizzati e
occasionali con altri soggetti) sono già pubblici e presenti
nella sezione trasparenza dei siti delle relative
amministrazioni.
I dirigenti pubblici non hanno «patti» con gli elettori ma
contratti individuali di diritto privato stipulati con le
relative amministrazioni dopo il superamento di concorsi
pubblici (art. 97, c. 3, Cost.) ed entro la cornice dei
rispettivi Ccnl (art. 2, c. 2, dlgs 165/2001). Non risulta che
normalmente nei Ccnl o nei contratti individuali sia stato
previsto che l'amministrazione datore di lavoro possa
imporre, invadendo la sfera della vita privata del
lavoratore, che questi pubblichi la propria situazione
patrimoniale sul sito internet del datore di lavoro
medesimo.
È il caso di ricordare che l'art. 8 dello Statuto dei
lavoratori vieta al datore di lavoro, sia ai fini
dell'assunzione che nel corso dello svolgimento del
rapporto, di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi, su
fatti non rilevanti ai fini della valutazione
dell'attitudine professionale del lavoratore. A maggior
ragione se si pretende di acquisire e divulgare tali fatti o
condizioni tramite il sito internet dell'amministrazione
datore di lavoro.
È infatti pacifico che nulla ha a che fare con la natura
della prestazione professionale del dirigente pubblico la
sua situazione patrimoniale personale. Non si comprende
quale attinenza possa esservi infatti fra l'esercizio della
funzione dirigenziale e le eventuali proprietà immobiliari o
mobiliari del medesimo. Ma soprattutto, mentre si comprende
benissimo che i titolari di cariche elettive possano e
debbano essere sottoposti ad un «controllo sociale» anche
molto penetrante nascente dal «patto» con gli elettori
stipulato preventivamente, non si comprende invece a quale
controllo sociale debba esser sottoposto il dirigente
pubblico che il «patto», attraverso il contratto di lavoro,
lo ha stipulato con la persona giuridica
dell'amministrazione da cui è dipendente.
Quale il fine di questa disciplina, visto che il dirigente
pubblico non è né deve essere sottoposto a giudizio
elettorale ma solo professionale da parte degli organi di
valutazione a tal fine deputati e già ben presenti
nell'ordinamento? Probabilmente, vellicare curiosità e
voyeurismi. E forse qualche consenso per la classe politica
che l'ha partorita
(articolo ItaliaOggi del
21.05.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Scia unificata, ma in due tempi. Prima la riforma normativa,
poi nuovi moduli e scadenze. Dopo la bocciatura del dlgs da parte del Consiglio di stato
arriverà un nuovo decreto.
La Scia unificata si farà, ma in due tempi. Tenendo conto
della mole di lavoro in corso con le regioni e le autonomie
locali, la riforma della Scia unificata si attuerà in due
step. Il primo step servirà a coordinare le regole della
nuova Scia con la normativa vigente, il secondo step servirà
a introdurre un termine per l'assolvimento degli obblighi di
pubblicazione dei moduli sui siti istituzionali.
Operativamente, i due step saranno definiti da un nuovo
decreto legislativo, a cui seguiranno provvedimenti
attuativi.
Lo ha deciso la commissione per la
semplificazione della Camera con il
parere adottato il 17.05.2016.
Il governo è già al lavoro sul decreto [Atto
del Governo n. 291 - Schema di decreto
legislativo recante attuazione della delega in materia di
segnalazione certificata di inizio attività (SCIA)] per
individuare in modo preciso i procedimenti soggetti a
segnalazione certificata di inizio attività, i casi di
silenzio assenso o in cui è invece necessaria una
autorizzazione espressa e i casi in cui è richiesta una
comunicazione preventiva.
Per la definizione di questi temi
la commissione ha invitato il Governo ad un attento
coordinamento con la legge n. 241/1990 e all'indicazione dei
termini entro cui le amministrazioni devono pubblicare sui
propri siti i modelli unificati. Questo per evitare che, una
volta definite le regole omogenee sul territorio nazionale,
l'inerzia di alcune amministrazioni possa compromettere il
processo di semplificazione e ritardare l'avvio delle
attività edilizie.
Ricordiamo che il consiglio di stato con
parere del 15.03.2016 aveva espresso parere negativo
sullo schema di dlgs relativo alla Scia approvato lo scorso
20.01.2015 dal Consiglio dei ministri (si veda ItaliaOggi del
02.04.2016). Da qui la necessità del
governo di elaborare un nuovo articolato per la Scia
unificata.
Principio cardine del nuovo decreto Scia. La Scia non è un
mero modulo di semplificazione procedimentale che consente
al privato di conseguire un titolo abilitativo di matrice provvedimentale, ma rappresenta, uno strumento di
liberalizzazione imperniato sulla diretta abilitazione
legale all'immediato esercizio di attività affrancate dal
regime autorizzatorio.
La principale caratteristica
dell'istituto risiede, infatti, nella sostituzione dei
tradizionali modelli provvedimentali autorizzatori «a
regime vincolato» con un nuovo schema, ispirato alla
liberalizzazione delle attività economiche private,
consentite «direttamente dalla legge» in presenza dei
presupposti normativamente stabiliti.
L'attività dichiarata può, quindi, essere intrapresa senza
il bisogno di un consenso «a monte»
dell'amministrazione, poiché esso è surrogato
dall'assunzione di auto-responsabilità del privato, insita
nella segnalazione certificata, costituente, a sua volta,
atto soggettivamente e oggettivamente privato.
La liberalizzazione dei settori economici interessati dalla
segnalazione certificata, con il relativo principio di
auto-responsabilità, si accompagna alla persistenza del
potere amministrativo di verifica dei presupposti richiesti
dalla legge per lo svolgimento dell'attività segnalata,
potere destinato ad esaurirsi con la mancata adozione di
atti inibitori, repressivi o conformativi entro un certo
termine.
Le attività interessate dalla segnalazione non sono,
infatti, caratterizzate da una libertà incondizionata di
iniziativa economica, ma sono pur sempre subordinate dalla
legge al possesso di «requisiti e presupposti», la
cui sussistenza garantisce, di per sé, la tutela
dell'interesse pubblico e l'armonizzazione della situazione
soggettiva del denunciante con gli interessi potenzialmente
configgenti
(articolo ItaliaOggi del
21.05.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Moduli standard al Suap La ditta paga tutto online.
L'intesa Anci-Unioncamere per favorire il rapporto con le
Cdc.
Rafforzata l'alleanza tra comuni italiani e camere di
commercio per un maggiore utilizzo dello sportello unico per
le attività produttive da parte delle Pmi. Le imprese o i
loro intermediari possono compilare e inviare le pratiche al
Suap di riferimento utilizzando la modulistica
standardizzata adottata da tutti i comuni. L'azienda può
assolvere on-line al pagamento di tutti gli oneri connessi
alla pratica collegandosi al nodo PagoPa.
È questa la
finalità del protocollo d'intesa siglato il 27.04.2016
aprile dall'Anci e dal presidente di Infocamere e dal
presidente di Unioncamere con la finalità di divulgare tra
comuni e cciaa l'utilizzo omogeneo dello sportello unico
attività produttive (si veda ItaliaOggi del 28/04/2016).
La
piattaforma «impresainungiorno» deve essere utilizzata dal
maggior numero di comuni italiani, affinché gli adempimenti
svolti dagli imprenditori per l'avvio e l'esercizio della
propria attività siano non solo interamente digitali ma
anche omogenei e standardizzati. La piattaforma digitale
www.impresainungiorno.gov.it costituisce il punto unico di
contatto a livello nazionale per consentire all'utenza di
accedere ai servizi degli sportelli unici per le attività
produttive.
Il Suap telematico, che tra l'altro offre anche
informazioni e assistenza diretta all'utenza, ha ottenuto in
5 anni di operatività ottimi risultati e rappresenta un
esempio di buona pratica amministrativa: 250 mila visitatori
al mese, 600 mila i procedimenti digitali completati dai
3.390 Comuni (il 40% del totale) che, sulla base di un
rapporto di delega o di convenzione con le Camere di
commercio, hanno adottato la piattaforma digitale.
Il
protocollo prevede quindi un impegno di Anci, di Infocamere
e di Unioncamere per promuovere l'utilizzo dei servizi di «impresainungiorno»
da parte di quei comuni che finora hanno adottato differenti
soluzioni digitali affinché considerino l'opzione di
adesione al portale nazionale per uniformare il servizio
offerto agli imprenditori del territorio.
Il portale impresa
in un giorno ha un'utenza oramai fidelizzata, ha raggiunto
una media mensile di un milione di visualizzazioni di pagina
circa, per oltre 200 mila visitatori unici. Il 57% di questi
è composto da visitatori abituali.
Infocamere provvede alla
gestione e manutenzione del portale per conto di
Unioncamere. Nei territori in cui i comuni cooperano con le
camere di commercio sono stati raggiunti risultati
importanti in ottica di standardizzazione dell'operatività
per le imprese da un lato e di contenimento dei costi per i
Suap dall'altro
(articolo ItaliaOggi del
21.05.2016). |
APPALTI: Codice alla prova dell’attuazione. Le imprese critiche su
subappalto, procedure negoziate, opere di urbanizzazione.
Appalti. Al convegno di Confindustria sotto esame il nuovo
codice e la fase transitoria - Prime risposte interpretative
da Cantone.
Procedura
negoziata, subappalto, offerta economicamente più
vantaggiosa. Senza dimenticare le opere di urbanizzazione a
scomputo. E, soprattutto, la grande incognita della fase di
attuazione, entrata nel vivo con le prime linee guida dell’Anac
ormai a un passo dalla pubblicazione.
A un mese esatto
dall’entrata in vigore del Codice degli appalti (Dlgs n. 50
del 2016), ieri i diversi segmenti del mondo produttivo
coinvolto nella filiera dei contratti pubblici hanno
ragionato, nel corso di un convegno organizzato da
Confindustria, sull’impatto che le nuove norme hanno
iniziato a produrre sul mercato. Evidenziando queste cinque
grandi aree problematiche sulle quali intervenire, sia con
le linee guida dell’Anticorruzione che con il decreto
correttivo che sarà pubblicato entro un anno.
La prima questione è legata alla fase di attuazione. Della
sua importanza ha parlato Marcella Panucci, direttore
generale di Confindustria: «Molto dipenderà da come gli
uomini e le donne impegnati sul mercato faranno funzionare
le nuove regole. Siamo convinti che la “messa a terra” delle
norme potrà determinare il loro successo». Sul punto, il
presidente dell’Anac, Raffaele Cantone, ha sottolineato
quanto sia importante, in questi mesi, lavorare con spirito
positivo: «Sono molto preoccupato di come sta avvenendo nei
fatti l’attuazione. Io credo che il Dlgs n. 50/2016 sia come
un ospite: se lo accogliamo con la “faccia storta”, il
fallimento è sicuro».
Perché nel merito ci sono diversi punti nei quali le imprese
hanno seri dubbi sulle soluzioni individuate dal testo. Ne
ha parlato, anzitutto, il presidente del Comitato tecnico
Infrastrutture, logistica e mobilità di Confindustria,
Vittorio Di Paola, sollevando la questione della trattativa
privata: «Le procedure negoziate saranno ammesse fino al
milione. Vuol dire che l’80% dei lavori non avrà una vera
gara. Noi avremmo preferito una soglia inferiore, magari a
500mila euro».
Ma il punto sul quale sono arrivati gli affondi più duri è
il subappalto. Ancora Di Paola: «Per usare un eufemismo,
possiamo dire che la nuova disciplina è molto restrittiva.
Mi riferisco al tetto massimo, che sarà pari al 30%
dell’importo totale dei lavori, mentre prima si parlava
della sola categoria prevalente, ma anche all’obbligo di
indicare una terna di subappaltatori».
Su questo passaggio
l’affondo più duro è, però, arrivato dal presidente
dell’Ance, Claudio De Albertis: «Mi chiedo in quale Paese al
mondo il legislatore dice alle imprese come governare i
fattori della produzione. È inaccettabile». E non è il solo
elemento critico per il presidente dei costruttori: «Tra le
criticità inseriamo anche le regole sulle opere di
urbanizzazione a scomputo e l’offerta economicamente più
vantaggiosa, che noi vorremmo fosse seriamente governabile».
Il timore è che con la soglia attuale, per la quale si usa
questa procedura sempre sopra il milione, il sistema non
regga. Bisognerebbe elevare il limite. Ancora, Maria
Antonietta Portaluri, direttore generale di Anie, spiega che
nel quadro del Codice «è mancato e non è più rinviabile un
confronto per rivedere le declaratorie della attuali
categorie di lavorazioni».
Su queste osservazioni sono arrivate le risposte di Cantone.
Sulle procedure negoziate «abbiamo provato a introdurre
delle limitazioni con le linee guida, regolando gli albi
fornitori e le indagini di mercato». Sul subappalto le cose
sono più difficili, «perché ci sono indicazioni normative
precise». Mentre sulle offerte economicamente più
vantaggiose, «con le linee guida confermiamo le nostre
scelte e puntiamo a utilizzare le commissioni esterne sempre
sopra il milione di euro» (articolo Il Sole 24 Ore del
20.05.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Trasparenza al via ma l’accesso civico parte dopo sei mesi.
Riforma Madia. Il testo definitivo del decreto «Foia».
I nuovi
obblighi di trasparenza introdotti dal primo decreto
attuativo della riforma Madia arrivato al traguardo
dell’approvazione definitiva si applicano anche alle società
controllate dalla pubblica amministrazione e alle
partecipate, in questo caso solo per le attività di pubblico
interesse. La riforma interessa poi, oltre agli enti
pubblici economici e agli ordini professionali, le
associazioni, fondazioni e più in generale gli enti di
diritto privato che abbiano un bilancio superiore a 500mila
euro, un’attività finanziata per la maggior parte da fondi
pubblici e tutti i componenti degli organi di
amministrazione o di indirizzo designati dalle pubbliche
amministrazioni.
A indicare la platea, ampia, investita dai nuovi obblighi di
trasparenza è il
testo definitivo del Freedom of Information
Act («Foia»), che ha terminato a Palazzo Chigi il lavoro di
coordinamento formale e ora attende la «bollinatura» della
Ragioneria generale prima della pubblicazione in Gazzetta
Ufficiale.
Le novità più significative del testo finale riguardano la
definizione della platea di soggetti interessati
direttamente dal «Foia». Per quanto riguarda le società
partecipate, che entrano nel raggio di applicazione delle
nuove regole di trasparenza solo in relazione «ai dati e ai
documenti inerenti all’attività di pubblico interesse», il
decreto ospita la definizione più ampia, che rimanda al
nuovo testo unico delle partecipate in corso di approvazione
sempre nell’ambito della delega sulla Pa, e non prevede
l’esclusione esplicita delle aziende per le quali sia già
stata deliberata l’alienazione della quota pubblica. La
delibera, insomma, non basterà da sola a uscire dal Foia,
che di conseguenza escluderà solo le società diventate
private a tutti gli effetti.
Su associazioni, fondazioni ed
enti di diritto privato in genere, invece, la scelta di
stringere il campo si spiega con l’obiettivo di non caricare
di obblighi soggetti troppo piccoli. Per questa ragione le
nuove regole scatteranno solo quando il bilancio supera i
500mila euro, e quando si verificheranno entrambe le
condizioni considerate alternative dalle prime ipotesi: il
finanziamento pubblico «maggioritario» (per due esercizi
consecutivi negli ultimi tre) e la designazione totalitaria
da parte della pa dei titolari o dei componenti degli organi
di amministrazione o di indirizzo.
Per il resto, rimangono confermate tutte le scelte di fondo
annunciate dal consiglio dei ministri, a partire dallo stop
al silenzio-rifiuto e dalla «gratuità» delle risposte
fornite dagli uffici pubblici con la sola eccezione del
«effettivamente sostenuto e documentato dall’amministrazione
per la riproduzione su supporti materiali».
Con l’arrivo del «Foia» in Gazzetta Ufficiale partirà la
fase transitoria, non breve, riconosciuta alle Pubbliche
amministrazioni per riorganizzarsi. In pratica, la
trasparenza anglosassone approderà da noi in tre fasi. Da
subito, i cittadini potranno “costringere” gli uffici
pubblici a pubblicare i dati (per esempio le indennità dei
politici) già imposti dai decreti Severino quando sono
trascurati dagli enti pubblici.
L’«accesso civico», cioè la
possibilità di chiedere dati e informazioni ulteriori,
debutterà invece sei mesi dopo. Bisognerà invece aspettare
un anno per la pubblicazione integrale delle banche dati
tenute dalle varie amministrazioni: si tratta, per esempio,
dei database sugli incarichi pubblici tenuti dalla
Presidenza del Consiglio, di quello sui dipendenti gestito
dalla Ragioneria generale, e della nuova banca dati sui
bilanci delle amministrazioni pubbliche che sta decollando
con la riforma della contabilità di regioni ed enti locali (articolo Il Sole 24 Ore del
20.05.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Foia, accesso civico a ostacoli. Fino a 8 passaggi per
conoscere gli atti della p.a..
Nonostante l'eliminazione del silenzio-rifiuto, il dlgs
disegna una procedura molto complessa.
Accesso civico non più depotenziato dal silenzio rigetto, ma
l'iter necessario affinché un cittadino acquisisca i dati e
le informazioni è piuttosto complesso e articolato. E
saranno alte le probabilità che l'accoglimento della domanda
di accesso civico sia adottato ben oltre i 30 giorni,
previsti solo in linea tendenziale.
La riscrittura dell'articolo 5 del dlgs 33/2013, nel testo
novellato dal decreto legislativo attuativo della riforma
Madia
approvato in consiglio dei ministri lo scorso 16
maggio, innesca una procedura molto complessa, a ben vedere
poco compatibile con i principi di linearità e trasparenza
che pur dovrebbero conformare la normativa.
Senza considerare i ricorsi, il procedimento, se si
verificano tutte le eventualità (peraltro piuttosto
probabili) previste, richiederà fino a otto passaggi.
Vediamoli.
1. Istanza. Ovviamente, si tratta di un procedimento a
iniziativa del cittadino, che dovrà presentare la domanda di
accesso civico, dalla ricezione della quale inizierà a
decorrere il termine teorico di 30 giorni per decidere.
2. Istruttoria e valutazione dell'esistenza di
controinteressati. A seguito dell'istanza, i soggetti
competenti dovranno valutare il merito della richiesta e
soffermarsi in particolare sulla valutazione se vi siano o
meno controinteressati. Si tratta esclusivamente di coloro
che (ai sensi del nuovo articolo 5-bis, comma 2, del dlgs
33/2013) potrebbero subire pregiudizio concreto alla
protezione dei dati personali, in conformità con la
disciplina legislativa in materia, oppure alla libertà e
alla segretezza della corrispondenza o, infine, agli
interessi economici e commerciali di una persona fisica o
giuridica, ivi compresi la proprietà intellettuale, il
diritto d'autore e i segreti commerciali.
3. Comunicazione ai controinteressati. Se il soggetto
competente rinvenga controinteressati, deve comunicare loro
l'istanza di accesso mediante raccomanda a/r o per via
telematica per coloro che abbiano acconsentito (non si sa
con quali modi e forme) a tale sistema. La comunicazione
sospende il termine di 30 giorni entro il quale accogliere o
denegare l'accesso civico.
4. Decisione dei controinteressati. I controinteressati
entro 10 giorni dalla ricezione della comunicazione di cui
sopra possono tacere o acconsentire all'accesso. In questo
caso, il procedimento riprende dal giorno in cui si era
fermato senza problemi. Oppure, possono opporsi e di ciò
occorrerà ovviamente tenere conto nella decisione finale,
che, comunque, resta responsabilità esclusiva dell'organo
competente. Il termine di 10 giorni a disposizione dei
controinteressati dovrebbe considerarsi perentorio.
5. Decisione finale. Entro i 30 giorni, tenendo conto
dell'eventuale sospensione di cui ai precedenti punti, il
soggetto competente adotta il provvedimento di accoglimento
o rigetto dell'istanza di accesso civico.
6. Comunicazione. Il provvedimento di accoglimento o rigetto
deve essere comunicato al richiedente e agli eventuali controinteressati. Ai sensi dell'articolo 21-bis della legge
241/1990 il provvedimento di diniego potrebbe essere
considerato atto recettizio, che diviene efficace solo con
la comunicazione al richiedente.
7. Trasmissione documenti, dati o informazioni.
L'amministrazione deve trasmettere i dati al richiedente (o
se da pubblicare obbligatoriamente, inserirli nel sito)
«tempestivamente». Non si sa cosa si intende per
trasmissione tempestiva. Di certo, laddove il provvedimento
accolga l'istanza di accesso nonostante l'opposizione di uno
o più controinteressati i documenti, dati o informazioni non
possono essere trasmessi al richiedente prima che siano
trascorsi 15 giorni dalla ricezione di questi soggetti della
comunicazione di cui al precedente punto.
8. Richiesta di riesame. Il richiedente l'accesso civico può
presentare richiesta di riesame nel caso di diniego
all'accesso o superamento del termine di 30 giorni (tenendo
conto delle eventuali sospensioni) al responsabile della
prevenzione della corruzione, che deve decidere entro i
successivi 20 giorni, a loro volta soggetti a eventuali
sospensioni: di 15 giorni, se richiede pareri all'Anac; di
10 giorni, se richieda il parere obbligatorio al garante
della privacy, nell'ipotesi che il diniego riguardi
questioni sul diritto alla riservatezza (non è chiaro se
superati i detti termini di sospensione si formi il
silenzio-assenso per Anac e garante).
Ma la richiesta di
riesame può essere presentata anche dal controinteressato
che si sia opposto al provvedimento di accoglimento.
Tuttavia, non è specificato entro quali termini debba essere
richiesto il riesame. Per chi abbia chiesto l'accesso non è
dato cogliere nessun termine decadenziale: si deve ritenere,
tuttavia, che la richiesta di riesame debba pervenire entro
i 30 giorni utili per presentare ricorso al Tar.
Per i controinteressati che si siano opposti
all'accoglimento potrebbe affermarsi che debbano chiedere il
riesame entro il termine dei 15 giorni prima del decorso dei
quali le amministrazioni non possono trasmettere al
richiedente l'accesso i dati, i documenti o le informazioni
richieste. Tuttavia, non essendo prevista una decadenza
espressa, si potrebbe ritenere che anche per i
controinteressati il riesame va presentato prima che scada
il termine per la presentazione del ricorso al Tar
(articolo ItaliaOggi del
20.05.2016). |
SEGRETARI COMUNALI: Aumenta
la confusione sui diritti di rogito.
Aumenta ancora la confusione sui diritti di rogito dei
segretari comunali. Un recente parere della Ragioneria
generale dello stato, infatti, conferma la tesi della Corte
dei conti, ribadendo che l'emolumento spetta solo agli
appartenenti alla fascia C.
Rimane quindi isolata la tesi sostenuta dalla Corte
costituzionale, la quale ne ha invece affermato la spettanza
a tutti coloro che operano in enti privi di dirigenza,
indipendentemente dalla fascia professionale.
Dubbi che si riflettono anche sul tema collegato del
riconoscimento dei diritti di rogito ai vicesegretari, su
cui vi sono opinioni contrastanti fra il Mef e la stessa
magistratura contabile.
Come noto (si veda ItaliaOggi del 22.04.2016), la
questione nasce dall'art. 10, comma 2-bis, del dl 90/2014:
esso dispone che i diritti di rogito spettano «negli enti
locali privi di dipendenti con qualifica dirigenziale, e
comunque a tutti i segretari comunali che non hanno la
qualifica dirigenziale», in misura comunque non superiore a
un quinto dello stipendio in godimento
Tale norma ha dato luogo a due interpretazioni diverse: da
un lato, si è affermato che l'emolumento competerebbe
esclusivamente ai segretari di enti di piccole dimensioni
collocati in fascia C, dall'altro lato si è argomentato che
negli enti privi di personale con qualifica dirigenziale i
diritti spettano a prescindere dalla fascia professionale in
cui è inquadrato il segretario.
Mentre la sezione delle autonomie, con la deliberazione n.
21/2015, ha condiviso la prima e più restrittiva lettura, la
Corte costituzionale, nella recente sentenza n. 75/2016, ha
sposato la seconda.
Sull'argomento è intervenuta da ultimo la Ragioneria
generale dello stato, che nel parere (nota
25.03.2016 n. 26297 di prot.)
rilasciato in risposta al quesito posto da un comune, ha
richiamato solo la pronuncia delle autonomie, configurandola
alla stregua di «diritto vivente».
Ciò sembra confermare l'irrilevanza erga omnes della presa
di posizione della Consulta, in quanto contenuta in una
sentenza di rigetto, che tipicamente ha effetto solo inter
partes. Per di più, tale pronuncia riguarda un regione a
statuto speciale (il Trentino-Alto Adige) e l'inciso in cui
è contenuta la precisazione è un mero «obiter dictum», privo
di qualsiasi forza vincolante, e quindi non avente valore di
«precedente».
Tali incertezze, che stanno generando comportamenti difformi
e anche spiacevoli contenziosi fra segretari e responsabili
del servizio finanziario, si riflettono, come accennato,
anche sul riconoscimento dei diritti di rogito ai
vicesegretari.
Sul punto, la Corte dei conti, sezione
regionale di controllo per le Marche, con la deliberazione
n. 90/2016/Par, ha affermato che le somme sono ancora dovute
anche nei comuni ove presta servizio un segretario di fascia
A o B. Ciò in quanto la debenza dei diritti di rogito ai
segretari e ai loro vice trova il proprio fondamento in
fonti normative tra loro differenti (rispettivamente, art.
41, comma 4, della legge 312/1980 e art. 30, comma 2, della
legge 734/1973 per i primi, art. 11 Ccnl del 09.05.2006,
per i secondi).
Di avviso diverso la Rgs, la quale, nel citato parere,
sostiene che l'emolumento spetta al sostituto solo se il
sostituito ne ha diritto. Il che, come abbiamo già
evidenziato, per i tecnici ministeriali accade solo se il
secondo è in fascia C. Insomma, un vero caos che a questo
punto può essere risolto solo dal legislatore
(articolo ItaliaOggi del
20.05.2016). |
LAVORI PUBBLICI: Soa, la sede legale potrà essere anche all'estero.
Ok del senato alla norma che mette l'Italia in regola con la
Ue.
Eliminato l'obbligo per le società organismo di attestazione
(Soa) di avere la sede legale in Italia; una Soa con sede
legale all'estero potrà operare in Italia.
È quanto prevede l'articolo 6 della legge di delegazione
europea per il 2015 approvata in prima lettura dal Senato (Atto
Senato n. 2228).
La norma del governo consentirà di sanare gli effetti della
procedura di infrazione 2013/4212 avviata dalla Commissione
europea nei confronti dell'Italia e giunta allo stato di
messa in mora ex art. 258 Tfue.
La vicenda prende le mosse dal ricorso al Tar presentato da
Rina services spa che aveva contestato la norma del dpr n.
207/2010 che impone che la sede legale della società
organismo di attestazione (Soa) debba essere nel territorio
italiano. Il Tar del Lazio aveva accolto il ricorso
affermando che il dpr n. 207/2010 (il regolamento del codice
dei contratti pubblici), nella parte in cui impone che la
sede legale delle Soa debba essere nel territorio italiano,
introduce una prescrizione ingiustificata, gravosa e in
contrasto con i preminenti interessi della tutela della
concorrenza.
I giudici romani avevano precisato anche che la
disposizione regolamentare integra un'ipotesi di requisito
discriminatorio ai fini dell'applicazione dei principi di
stabilimento e libera prestazione dei servizi, in violazione
della direttiva 2006/123/Ce.
Su richiesta di pronuncia pregiudiziale del Consiglio di
stato, il giudice europeo (causa pregiudiziale C-593/13) con
pronuncia del 16.06.2015 stabilì che l'obbligo di sede
legale sul territorio di uno stato membro contrasta con i
principi del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea
relativi alla libertà di stabilimento (articolo 49 Trattato
Ue) e alla libera prestazione di servizi (articolo 56
Trattato Ue).
In particolare, la Corte affermò che non è possibile
applicare alle Soa l'articolo 51, primo comma, Trattato Ue
il quale esclude dalle norme sulla libertà di stabilimento
le attività in cui si faccia esercizio di pubblici poteri, e
che l'articolo 14 della direttiva 2006/123/Ce, relativa ai
servizi nel mercato interno, deve essere interpretato nel
senso che «esso osta ad una normativa di uno stato membro in
forza della quale è imposto alle società aventi la qualità
di organismi di attestazione di avere la loro sede legale
nel territorio nazionale».
La disposizione approvata dal senato risolve la questione
modificando l'articolo 64, comma 1, del decreto del
presidente della repubblica 05.10.2010, n. 207, al fine
di prevedere per le Soa l'obbligo di avere in Italia una
sede (qualsiasi), anche solo operativa, senza l'obbligo che
sia quella legale.
Le Soa dovranno quindi sempre essere costituite nella forma
delle società per azioni e la loro denominazione sociale
deve espressamente comprendere la locuzione «organismi di
attestazione»; ma la sede legale potrà essere anche
all'estero.
Nonostante il dpr 207/2010 sia stato abrogato, questa norma
risulta però ancora applicabile in base all'articolo 216,
comma 14, del nuovo Codice (decreto 50/2016) che prevede la
salvezza di questa norma finché non saranno emanate le linee
guida Anac in materia di revisione della disciplina Soa
(articolo ItaliaOggi del
20.05.2016). |
ENTI LOCALI: Sindaci in pressing sui revisori. Sulle cause di
inconferibilità i comuni sono troppo rigidi.
Le norme sulla trasparenza tagliano fuori anche i condannati
in via non definitiva. Il Tuel no.
Sempre più comuni chiedono ai revisori dei conti, al momento
del conferimento dell'incarico, unitamente all'accettazione
della carica e all'attestazione di rispetto del limite di
affidamenti, la dichiarazione di cui all'articolo 20 del
dlgs 08.04.2013 n. 39, sull'insussistenza di cause d'inconferibilità
e il suo aggiornamento annuale.
La dichiarazione viene, poi, pubblicata sul sito della
pubblica amministrazione conferente. In particolare, i
revisori dei conti sono chiamati ad attestare di non aver
subito una condanna (anche non definitiva o a seguito di
patteggiamento) per uno dei reati contro la pubblica
amministrazione, non aver svolto incarichi o ricoperto
cariche nei due anni precedenti in enti di diritto privato
regolati o finanziati dal comune; non aver esercitato nei
due anni precedenti attività professionale in proprio
(lavoro autonomo), regolata, finanziata o retribuita dal
comune.
La dichiarazione è condizione per l'acquisizione di
efficacia dell'incarico e il revisore si dichiara
consapevole che, in caso di conferimento in violazione del
dlgs n. 39/2013, l'incarico è nullo. In effetti, la
normativa richiamata attiene agli incarichi di
responsabilità amministrativa di vertice, sia elettivi sia
di nomina, conferiti dalle pubbliche amministrazioni e non
parla di componenti dell'organo di revisione contabile né di
altri organi di controllo o di collaboratori (ad esempio:
componenti dell'organo indipendente o del nucleo di
valutazione).
Il Tuel si limita a negare la possibilità di
svolgere le funzioni di revisore a chi sia stato condannato
a una pena che importa l'interdizione, anche temporanea, dai
pubblici uffici o l'incapacità ad esercitare uffici
direttivi. Il dlgs n. 39/2013, invece, sancisce l'inconferibilità
dell'incarico a chi è stato condannato, anche con sentenza
non definitiva, per uno dei reati contro la pubblica
amministrazione.
Si tratta, evidentemente, di due fattispecie differenti. Il
problema riguarda la legittimità di un'eventuale
deliberazione consiliare di decadenza di un revisore
condannato in primo grado, con sentenza non definitiva, per
uno dei reati contro la pubblica amministrazione, con la
sospensione della pena accessoria prevista dall'art. 28 del
codice penale.
Il presupposto oggettivo per determinare l'applicabilità del
dlgs n. 39/2013 è che l'incarico, di nomina o elettivo, sia
conferito dalla pubblica amministrazione, al proprio interno
o in organismi pubblicisti strumentali privi di autonoma
personalità giuridica.
In effetti, la dichiarazione prevista dall'art. 20 del dlgs
n. 39/2013 è stata richiesta anche dai ministeri
dell'interno e della giustizia, per i componenti degli
organismi indipendenti di valutazione.
La dichiarazione sull'insussistenza di cause di
inconferibilità è vista come attuazione del principio
costituzionale di adempiere agli incarichi pubblici con
disciplina e onore (art. 54 Cost.) ed è per questo che molti
comuni fanno rientrare anche l'incarico di revisore nelle
fattispecie sottoposte alle disposizioni del dlgs n.
39/2013.
Sicuramente i revisori dei conti sono ricompresi tra i
soggetti per i quali devono essere pubblicati i dati
relativi all'art. 15 del dlgs n. 33 del 14.03.2013. La
norma sulla trasparenza, però, riguarda gli obblighi di
pubblicazione concernente sia i dirigenti sia,
espressamente, i collaboratori e consulenti.
Le amministrazioni pubblicano e aggiornano le informazioni
relative ai titolari d'incarichi amministrativi di vertice e
d'incarichi dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti,
nonché di collaborazione o consulenza, relativamente agli
estremi dell'atto di conferimento, al curriculum vitae, ai
dati relativi allo svolgimento d'incarichi o la titolarità
di cariche in enti di diritto privato regolati o finanziati
dalla pubblica amministrazione o lo svolgimento di attività
professionali, i compensi, comunque denominati, relativi al
rapporto di lavoro, di consulenza o di collaborazione.
Le amministrazioni pubblicano e mantengono aggiornati sui
rispettivi siti istituzionali gli elenchi dei propri
consulenti indicando l'oggetto, la durata e il compenso
dell'incarico.
Gli incarichi di revisione contabile rientrano sicuramente
nell'obbligo di trasparenza, mentre rimangono dubbi
sull'applicazione del dlgs n. 39/2013.
Giova ricordare che con la sottoscrizione della
dichiarazione di cui all'art. 20 del dlgs n. 39/2013, fermo
restando ogni altra responsabilità anche di natura penale,
la mendacità di quanto affermato, se accertata dalla stessa
amministrazione conferente, comporta l'inconferibilità di
qualsiasi incarico previsto dal dlgs n. 39/2013, per un
periodo di cinque anni.
All'incaricato responsabile di avere prodotto una
dichiarazione mendace deve essere garantito il diritto di
difesa e di contraddittorio
(articolo ItaliaOggi del
20.05.2016). |
TRIBUTI:
Riscossione fai-da-te, vantaggi per gli enti.
Sempre più comuni internalizzano il processo.
Stiamo in questi anni assistendo a una inarrestabile
inversione di tendenza dell'Ufficio tributi, che vuole
sempre più gestire in proprio i tributi di loro competenza.
A gettare le basi per questa rivoluzione sono state le nuove
modalità di pagamento con i modelli F24, riscossi unicamente
dall'Agenzia delle entrate. Questo primo passaggio ha reso
sostenibile per i comuni la gestione in proprio dell'intero
ciclo di gestione dei tributi locali.
Oggi l'Ufficio tributi deve gestire le proprie entrate in
una situazione di grande complessità, ma la nostra personale
esperienza, di persone 'in trincea' a fianco degli uffici
comunali, è quella di un Ufficio tributi che ha pienamente
raccolto questa sfida. Oggi l'Ufficio tributi interviene, in
prima persona, in molte fasi del processo: dalla stesura dei
regolamenti alla definizione delle tariffe, dal tempestivo
sollecito dei mancati pagamenti alla costante richiesta di
migliori e sempre più raffinati strumenti di indagine
destinati all'emersione delle aree di evasione.
In questo, il contributo di partner che possano supportare
la crescita dell'ente con una serie di servizi e soluzioni
software, in sinergia con gli Uffici tributi dell'ente,
risulta spesso determinante nel raggiungimento
dell'incremento del gettito, attraverso la lotta
all'evasione e all'elusione.
Occorre, inoltre, sottolineare come il nuovo ruolo che gli
operatori degli uffici tributi stanno ritagliandosi nella
gestione diretta del servizio restituisce dati molto
positivi.
Primo fra tutti, gli elevati risparmi dei costi del
servizio, rispetto all'affidamento totalmente esternalizzato
a soggetti esterni, e il miglioramento del rapporto con il
cittadino/contribuente; due aspetti fondamentali anche alla
luce della valutazione complessiva dell'azione
amministrativa.
Non da meno, anche il costante monitoraggio del territorio e
delle politiche fiscali ad esso legate, l'immediatezza
dell'efficacia delle istanze del contribuente per il quale
tutto inizia e finisce in comune (parole come suppletivo e
discarico sembrano appartenere a un secolo fa), la puntuale
e immediata rendicontazione senza l'applicazione dell'aggio,
la maggior efficacia delle attività di recupero derivante
dalla conoscenza del territorio, rappresentano elementi
distintivi di un rapporto non più vessatorio, ma capace di
intercettare e contemperare rigore e servizio al cittadino
(articolo ItaliaOggi del
20.05.2016). |
APPALTI: Affidamenti diretti da motivare. Vanno giustificate la
procedura e la scelta del contraente.
Il nuovo Codice degli appalti impone una duplice motivazione
per i contratti sotto soglia.
Doppia motivazione per gli affidamenti diretti di contratti
di importo inferiore alle soglie comunitarie e alle soglie
che permettono le procedure semplificate.
L'articolo 36 del dlgs 50/2016 nell'introdurre un sistema semplificato,
rispetto alle procedure ordinarie di selezione del
contraente (procedure aperte o ristrette), affida in
particolare alla motivazione del provvedimento il compito di
attuare i principi indicati dall'articolo 30 e
specificamente quelli di libera concorrenza, non
discriminazione, trasparenza e pubblicità.
La motivazione,
dunque, serve a dimostrare che non si sta ponendo in essere
un affidamento discriminatorio, rivolto «per via fiduciaria»
ad un solo operatore economico, ma che la scelta ha comunque
tenuto conto della presenza di altri operatori nel mercato
ed è stata svolta in modo trasparente e verificabile nelle
ragioni e nella procedura. L'articolo 36 del codice, però,
impone due motivazioni.
Prima ancora di specificare le
ragioni che portano alla selezione dello specifico
contraente, il provvedimento a contrattare che avvia la
procedura deve spiegare per quale ragione si utilizza il
sistema semplificato e non quello ordinario. Infatti, ai
sensi del comma 2 dell'articolo 36, la modalità semplificata
prevista dalla successiva lettera a) del medesimo comma 2 è
attivabile «salva la possibilità di ricorrere alle procedure
ordinarie». Tale precisazione indica che per le
amministrazioni le procedure semplificate disciplinate
dall'articolo 36 non sono né obbligatorie, né automatiche.
Dunque, è il provvedimento a contrattare che deve dare conto
della scelta di avvalersi effettivamente della procedura
semplificata invece di quella ordinaria. Non si tratta di
una questione meramente formale. Si deve tenere presente che
le acquisizioni sotto i 40 mila euro di forniture e servizi
e sotto i 100 mila euro di lavori pubblici non sono oggetto
di programmazione.
In particolare per i contratti di
forniture e servizi questo può essere un rischio
amministrativo: occorre, infatti, considerare che il tetto
dei 40 mila euro è valido per l'ente nel suo complesso. Per
essere più chiari, immaginando che un ente di una certa
dimensione debba acquisire nuovi arredi sia nell'ambito del
settore contabile, sia in quello del settore amministrativo,
per importi massimi, nell'uno e nell'altro settore, di 25
mila euro.
Apparentemente, i dirigenti o responsabili di
servizio di entrambi i settori potrebbero avvalersi della
procedura di affidamento diretto motivato prevista
dall'articolo 36, comma 2, lettera a). Ma, la somma delle
due identiche procedure di acquisto per arredi supererebbe i
40 mila euro. Il che richiederebbe la ricomprensione
dell'appalto nella programmazione biennale e l'utilizzo
quanto meno della procedura negoziata di cui all'articolo
36, comma 2, lettera b), del codice.
Laddove quell'amministrazione non si sia avveduta che due o
più propri settori stessero programmando acquisizioni entro
una medesima categoria merceologica per importi superiori,
nell'ambito dell'ente, ai 40 mila euro, si determinerebbe di
fatto un illegittimo frazionamento della base di gara di un
appalto, sì da sottrarlo alle regole della programmazione o
a specifiche procedure di acquisto (per gli enti locali, si
pensi anche agli effetti sulla necessità di avvalersi delle
centrali di committenza).
Con la motivazione obbligatoria sulla scelta della procedura
semplificata piuttosto che di quella ordinaria, si inducono
i dirigenti o responsabili di servizio a dover dare conto e
dimostrare, tra l'altro, che si rispetta la soglia dei 40
mila euro come tetto complessivo che riguarda
l'amministrazione nel suo complesso e non come limite solo
settoriale, insufficiente a garantire il rispetto del
divieto artificioso di frazionamento dei contratti.
Dunque, la motivazione anche sulla scelta della procedura
semplificata, invece che ordinaria, è uno strumento
fondamentale non solo per rispettare formalmente le
indicazioni dell'articolo 36, comma 2, del codice, ma anche
e forse soprattutto per mettersi al riparo da problemi di
legittimità scaturenti da imprecisa o insufficiente
programmazione degli acquisti e dalla violazione del divieto
di frazionare gli appalti, allo scopo di abusare delle
procedure semplificate o anche sotto soglia
(articolo ItaliaOggi del
20.05.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: Firma elettronica, sul valore continua a decidere il giudice.
Riforma Pa. Cambia il decreto sul Codice
dell’amministrazione digitale.
Dal nuovo
Codice dell’amministrazione digitale dovrebbe uscire il
valore giuridico automatico della firma elettronica, la cui
valutazione sarebbe quindi lasciata caso per caso al giudice
come accade oggi; in via di modifica è anche la soglia di
capitale (5 milioni di euro) imposta ai «gestori
dell’identità digitale» aderenti allo Spid, che potrebbe
essere graduata in base «al livello di sicurezza offerto dal
gestore», mentre l’obbligo di anonimizzare tutte le sentenze
prima della loro pubblicazione potrebbe semplicemente
scomparire.
Dopo il confronto innescato dal “parere interlocutorio” con
cui il Consiglio di Stato l’aveva di fatto bocciato in una
serie di passaggi, il governo ha aperto a una serie di
modifiche sul decreto attuativo della riforma Madia che
rinnova il Codice dell’amministrazione digitale.
Il botta e
risposta fra governo e giudici amministrativi sfocia nel
parere
17.05.2016 n. 1204 diffuso ieri (Schema di
decreto legislativo recante “modifiche e integrazioni al
Codice dell’Amministrazione Digitale di cui al decreto
legislativo 07.03.2005, n. 82, ai sensi dell’articolo 1
della legge 07.08.2015, n. 124, in materia di
riorganizzazione delle Amministrazione pubbliche”), con il quale il Consiglio di
Stato dà il via libera con osservazioni al nuovo testo e
chiude il lavoro sul primo pacchetto di decreti attuativi
della riforma Madia. Con l’eccezione del provvedimento sulla
trasparenza, approvato in via definitiva lunedì, ora i
provvedimenti sono tutti in parlamento per l’esame delle
commissioni prima del via libera finale in consiglio dei
ministri.
Sul piano delle regole che dovranno guidare
l’amministrazione digitale, la novità più è in realtà una
conferma della situazione presente. Il decreto approvato in
prima lettura assegnava infatti in automatico un valore
giuridico ai documenti sottoscritti con «firma digitale
semplice», ma i giudici avevano obiettato che nel quadro
attuale la «firma digitale» indica tante cose diverse, con
differenti gradi di sicurezza sull’identità di chi la mette,
e che di conseguenza la previsione avrebbe potuto avere
effetti collaterali importanti.
Per questa ragione, dopo le
audizioni con una serie di esperti, il governo sta ora
valutando di cancellare la novità, mantenendo quindi la
situazione attuale.
Stesso orientamento riguarda l’obbligo di anonimizzare le
sentenze prima della loro pubblicazione (altrettanto
obbligatoria). Oggi i nomi vengono tolti quando a chiederlo
è una delle parti, oppure quando la sentenza affronta temi
“sensibili” come la salute, i rapporti famigliari o
l’identità dei minori, mentre in base al provvedimento
approvato in prima lettura a gennaio l’anonimizzazione
sarebbe stata sempre necessaria.
Per il Consiglio di Stato
il rischio di questo intervento, peraltro sganciato dalle
previsioni della delega, sarebbe quello di ingolfare le
cancellerie di un lavoro sostanzialmente inutile, con la
conseguenza di abbassare ulteriormente i ritmi della
macchina della giustizia, e il governo si dice disponibile a
togliere la novità.
Sulle soglie di capitale per i gestori dell’identità
digitale che aderiscono allo Spid, il «sistema pubblico di
identità digitale», le posizioni restano invece distanti.
Un’apertura dalla Funzione pubblica, come accennato, è
arrivata, e prospetta soglie graduali per i diversi
operatori, superando il limite unico di 5 milioni di euro.
I
giudici amministrativi, però, ricordano che il Tar Lazio,
nella sentenza 9951/2015, era stato tranchant nel giudicare
«sproporzionato» il limite minimo di capitale, preso di peso
da quello imposto da Bankitalia nella circolare 285/2013
alle banche di credito cooperativo.
Anche se graduali,
limiti troppo alti rischierebbero di accendere nuove
battaglie di carta bollata con gli operatori: tocca ora a
parlamento e governo risolvere il problema (articolo Il Sole 24 Ore del
19.05.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Abusi, demolizioni accelerate. I comuni possono
avvalersi pure di privati o dell'esercito.
EDILIZIA/ Dalla Camera il via libera al ddl sugli
abbattimenti. che torna al Senato.
Acceleratore premuto per la demolizione degli abusi edilizi.
Da censire in una banca dati nazionale. La spinta propulsiva
riguarda sia le demolizioni da eseguire a cura della procura
della repubblica (se l'ordine è contenuto in una sentenza)
sia quelle di competenza amministrativa.
I comuni possono avvalersi anche di imprese private e
dell'esercito. E vengono messi a disposizione 50 milioni
(finanziamenti da restituire in dieci anni) per passare
all'opera.
È quanto prevede il disegno di legge (Atto
Camera n. 1994) sulle priorità nelle demolizioni
di manufatti abusivi, che ha superato l'esame della camera e
ora passa al senato.
Il provvedimento sembra ormai essere destinato al rush
finale, dopo un percorso parlamentare molto lento: è stato
approvato dal senato, in prima lettura nel gennaio 2014, e
ora, licenziato con modifiche dalla camera, torna a palazzo
Madama per il prevedibile varo finale. Ma vediamo che cosa
dispone il provvedimento in itinere.
Doppio binario.
L'ordinamento italiano prevede il sistema a
doppio binario. Se c'è una condanna definitiva del giudice
per reati di abusivismo edilizio, se l'immobile è ancora in
piedi, il compito di demolire spetta alla procura della
repubblica.
Fuori da questa ipotesi, sono le autorità amministrative
(Comuni, Regioni e Prefetture) a dare corso alla procedura,
secondo quanto previsto dal testo Unico per l'edilizia.
Compiti delle procure. Il disegno di legge assegna al
procuratore il compito di determinare i criteri di priorità
per l'esecuzione degli ordini di demolizione delle opere
abusive.
Come avvisa però la scheda dei lavori parlamentari,
l'individuazione di alcuni criteri di priorità costituisce
una prassi operativa già in uso presso alcune procure della
repubblica.
In ogni caso bisogna considerare se c'è un rilevante impatto
ambientale o su area demaniale o su area vincolata; bisogna
tenere conto dell'eventuale pericolo per la pubblica o
privata incolumità. Altro criterio di priorità riguarda gli
immobili nella disponibilità di soggetti condannati per
reati di associazione mafiosa o di soggetti colpiti da
misure prevenzione.
Ci sono, poi, criteri di priorità interni alle singole
ipotesi. Bisogna dare la precedenza agli immobili in corso
di costruzione o comunque non ancora ultimati e agli
immobili on stabilmente abitati.
Demolizioni amministrative.
Per le demolizioni di competenza
di regioni, comuni e prefetture, la procedura in corso di
revisione è la seguente.
Entro il dicembre di ogni anno il responsabile dell'ufficio
comunale deve trasmettere al prefetto, ma anche alle altre
amministrazioni statali e regionali preposte alla eventuale
tutela di vincoli, l'elenco delle opere non sanabili e
ancora non demolite spontaneamente. La norma aggiunge che
deve essere anche scaduto il termine di 270 giorni, entro il
quale il comune è tenuto a concludere la demolizione. Si
conferma la competenza del prefetto per le demolizioni e si
estende al comune la possibilità di avvalersi di avvalersi
di imprese private o di strutture operative del ministero
della difesa.
Fondi.
Per le demolizioni da parte dei comuni vengono
stanziati 50 milioni di euro, da erogare a titolo di
finanziamenti, da restituire in 10 anni.
Data base.
Il disegno di legge costituisce presso il
Ministero delle infrastrutture la Banca dati nazionale
sull'abusivismo edilizio.
Tutte le autorità e gli uffici competenti dovranno
condividere e trasmettere le informazioni sugli illeciti
alla banca dati.
Il tardivo inserimento dei dati nella banca dati comporta
una sanzione pecuniaria di mille euro per il dirigente o
funzionario inadempiente
(articolo ItaliaOggi del
19.05.2016). |
APPALTI: Codice degli appalti, è il momento dell'errata corrige.
Lo ha annunciato il capo legislativo di palazzo chigi al
convegno ance sul decreto 50/2016.
In arrivo un copioso errata corrige sul nuovo codice degli
appalti pubblici; servirà invece più tempo per il primo
correttivo perché seguirà ad una attenta verifica
sull'impatto delle nuove regole; l'Ance paventa il blocco
degli appalti pubblici.
È quanto emerso nel seminario
organizzato ieri dall'Ance, l'associazione dei costruttori
edili, su «Il nuovo codice degli appalti: applicazioni ed
effetti sul mercato dei lavori pubblici», cui ha partecipato
il capo ufficio legislativo della presidenza del Consiglio
dei ministri, Antonella Manzione, che ha annunciato che «è
ormai pronto un errata corrige, che uscirà nei prossimi
giorni con il quale abbiamo sistemato alcuni errori e
richiami non corretti contenuti nel nuovo codice dei
contratti pubblici».
L'intervento toccherà numerose norme
del decreto 50/2016, ivi compreso l'articolo 216 sulla
disciplina transitoria, espressamente citato da Antonella Manzione come norma «dove c'è un errore di richiamo».
Invece, alle richieste di intervento nel merito del testo
del codice, il capo ufficio legislativo di Palazzo Chigi ha
per adesso risposto negativamente precisando che «il governo
ha due anni di tempo per correggere e il Consiglio di stato
ci ha detto di prenderci tutto questo tempo; vedremo quali
effetti pratici avrà la riforma e poi interverremo, ma non a
seguito di consultazioni con gli stakeholder, bensì in base
ad una seria e attenta verifica di impatto delle norme. Solo
allora potremo anche deciderci di muoverci in senso
diametralmente opposto rispetto a quanto deciso con il
codice».
Richieste di inversione di rotta non sono certo mancate,
visto che l'Ance, sia con la relazione di apertura del
presidente Claudio De Albertis sia con quella del
vicepresidente Edoardo Bianchi, ha sottolineato più punti
critici da modificare anche per evitare il blocco delle
gare, la cui causa è da ricercarsi anche nella «brusca»
disciplina transitoria prevista dal decreto 50 e
dall'elevato livello di discrezionalità affidato alle
stazioni appaltanti.
L'Ance ha chiesto modifiche alla
disciplina delle procedure negoziate e ha sottolineato, fra
le altre cose, come sia oggettivamente difficile aggiudicare
appalti con l'offerta economicamente più vantaggiosa sun un
progetto esecutivo e improprio prevedere tale criterio per
un appalto semplice da poco più di un milione di euro. A
fronte di queste critiche Manzione ha però difeso le scelte
operate con il decreto delegato, a partire dall'attribuzione
di una maggiore discrezionalità alle stazioni appaltanti
perché «si punta su una loro maggiore responsabilizzazione e
qualificazione», per arrivare alla disciplina dell'appalto
integrato: «Non siamo andati oltre la delega della legge 11
perché con l'articolo 59 abbiamo previsto che di regola si
appalta sul progetto esecutivo ma che ci sono casi in cui
ciò può non avvenire; sull'offerta economicamente più
vantaggiosa la scelta è stata quella di valorizzare la
progettazione».
In precedenza Alessandro Botto, ex
consigliere dell'Avcp, l'authority di vigilanza sui
contratti pubblici, aveva messo l'accento sulla collocazione
delle linee guida Anac (Autorità nazionale anti-corruzione)
nell'ambito delle fonti di diritto e efficacia vincolante
(articolo ItaliaOggi del
19.05.2016). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Ddl consumo del suolo, correzioni migliorative.
Apprezzamento di Confindustria per le modifiche apportate.
Dopo il sì della Camera. Limature su definizioni di suolo
agricolo e fase transitoria.
Non sarà un
percorso facile quello del Ddl sul consumo di suolo (Atto
Camera n. 2039). Dopo il
via libera di Montecitorio, la legge approda in Senato, dove
la seconda lettura si annuncia ad alto rischio.
Il passaggio
in Aula alla Camera, in realtà, ha portato correzioni che
hanno allargato il consenso su un provvedimento
contestassimo fin dalla prima ora per il suo impianto
fortemente vincolistico. Soprattutto due limature, volute
dai relatori Chiara Braga e Massimo Fiorio, sono destinate
ad ammorbidire i vincoli del testo: la revisione della
definizione di suolo agricolo e la correzione della fase
transitoria, con la possibilità di fare salvi gli interventi
per i quali sia stata semplicemente presentata un’istanza.
Correzioni su cui anche Confindustria, che pure è stata da
sempre critica, esprime apprezzamento, sottolineando il
lavoro e il confronto degli ultimi mesi. E ieri un
apprezzamento per la correzione di rotta è arrivato anche
dal presidente dell’Ance, Claudio De Albertis: «Un Ddl
equilibrato che siamo pronti a sostenere».
Un primo miglioramento è arrivato sul fronte delle
esclusioni. In sostanza, nell’economia del Ddl è
fondamentale la definizione di suolo agricolo: le aree che
ricadono nei limiti indicati dall’articolo 2 sono sottoposte
ai vincoli della legge. Durante i lavori parlamentari, però,
sono state previste alcune eccezioni che fanno salve, tra le
altre, le «aree funzionali all’ampliamento delle attività
produttive esistenti» e «i lotti interclusi e le aree
ricadenti nelle zone di completamento».
Questa doppia
correzione, da un lato, riduce il rischio di veti nella
localizzazione e nell’ampliamento degli impianti produttivi
e delle infrastrutture. Dall’altro permette di valorizzare,
in chiave di rigenerazione, le aree libere con funzioni di
“ricucitura”.
Il secondo aggiustamento è intervenuto sull’articolo 11. Qui
si prevede una fase transitoria di tre anni, durante la
quale si applicherà un regime speciale per limitare il
consumo di suolo. Con due emendamenti sono stati fatti salvi
gli interventi e i programmi di trasformazione, previsti nei
piani attuativi, «per i quali i soggetti interessati abbiano
presentato istanza per l’approvazione prima della data di
entrata in vigore della legge, nonché le varianti» che non
comportino modifiche di dimensionamento dei piani attuativi
e il cui procedimento sia attivato prima della partenza
della legge.
Questa misura rivede l’assetto originario, che
faceva salvi solo gli interventi e i programmi di
trasformazione inseriti nei piani attuativi adottati. In
questo modo, si tutelano gli interessi maturati da chi ha
effettuato investimenti in aree trasformabili. Alla stessa
maniera, le opere pubbliche saranno consentite, previa
valutazione delle alternative di localizzazione che evitino
il consumo di suolo.
Sul tavolo resta, però, ancora qualche problema. La Camera,
infatti, in diversi passaggi dove sono previste eccezioni
alle regole generali ha sostituito il riferimento agli
insediamenti e alle infrastrutture strategiche e di
preminente interesse nazionale con quello alle
infrastrutture e agli insediamenti prioritari di cui alla
parte V del nuovo Codice appalti. Un coordinamento formale
con effetti sostanziali.
Il Dlgs 50/2016, infatti, individua
un ambito più circoscritto rispetto alla vecchia
definizione. Di fatto alcune infrastrutture potrebbero
restare escluse. E non è il solo problema. L’altro obiettivo
chiave sarà il potenziamento degli incentivi alle operazioni
di rigenerazione (articolo Il Sole 24 Ore del
18.05.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Appalti, pubblicazioni a pioggia.
Più oneri di trasparenza per i siti delle amministrazioni.
Le previsioni del decreto Madia appena varato si incrociano
con il codice dei contratti.
Diluvio di pubblicazioni per gli appalti in applicazione
della normativa sulla trasparenza. La combinazione tra le
previsioni del dlgs 50/2016, nuovo codice dei contratti, e
la riforma del dlgs 33/2013 (approvata in via definitiva dal
governo il 16 maggio, si veda ItaliaOggi di ieri) amplia a
dismisura gli oneri di pubblicità a carico delle stazioni
appaltanti.
Se la riforma della normativa sulla trasparenza poteva
essere l'occasione per coordinarne le regole di pubblicità
con quelle fissate dalla normativa sugli appalti, occorre
prendere atto che non si è colto l'obiettivo.
Il testo finale dell'articolo 37 del dlgs 33/2013, così come
riformato dal decreto di attuazione della riforma Madia,
apre, infatti, la stura per una valanga di atti da
pubblicare nella sezione «Amministrazione trasparente», che
ogni amministrazione appaltante deve gestire sul proprio
sito istituzionale.
Il nuovo comma 1 dell'articolo 37 del dlgs 33/2013 novellato
dispone che «Fermo restando quanto previsto dall'articolo
9-bis e fermi restando gli obblighi di pubblicità legale, le
pubbliche amministrazioni e le stazioni appaltanti
pubblicano: a) i dati previsti dall'articolo 1, comma 32,
della legge 06.11.2012, n. 190; b) gli atti e le
informazioni indicati nel decreto legislativo 18.04.2016, n. 50».
Dunque, da un lato si conferma l'elenco dei
sette elementi conoscitivi che la legge anticorruzione
richiede già dal 2012. Dall'altro, però, in termini molto
generici la lettera b) del nuovo testo dell'articolo 37 si
limita a rinviare alla necessità di pubblicare le
informazioni previste dal nuovo codice dei contratti.
Tale rinvio in sostanza crea oneri di pubblicità davvero
enormi. Infatti, occorrerà fare riferimento alle previsioni
dell'articolo 29 del codice dei contratti, il cui comma 1
dispone che devono essere pubblicati e aggiornati sul
profilo del committente, nella sezione «Amministrazione
trasparente»: «Tutti gli atti delle amministrazioni
aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori relativi alla
programmazione di lavori, opere, servizi e forniture, nonché
alle procedure per l'affidamento di appalti pubblici di
servizi, forniture, lavori e opere, di concorsi pubblici di
progettazione, di concorsi di idee e di concessioni».
La
norma si riferisce, come visto, a «tutti» gli atti, senza
elencarli. Né a questo compito ha assolto la riforma della
normativa sulla trasparenza. La conseguenza è che le
amministrazioni appaltanti dovranno redigere un elenco molto
accurato degli atti tipici delle procedure, come quello che
si propone nella tabella in pagina, ed assicurarsi che le
varie pubblicazioni siano effettuate.
Il testo dell'articolo 37 del dlgs 33/2013 riformato
inizialmente varato dal governo indicava in modo più
specifico gli atti da pubblicare e comprendeva anche
l'obbligo di pubblicare le varianti ai contratti ed
eventuali transazioni o accordi bonari. Seguendo alla
lettere la combinazione tra il testo definitivo
dell'articolo 37 del «decreto trasparenza» e l'articolo 29
del codice dei contratti, tali pubblicazioni non dovrebbero
considerarsi necessarie, perché gli obblighi paiono
riferirsi solo alle procedure di programmazione e di
individuazione dell'appaltatore e non all'esecuzione del
contratto.
Ma, probabilmente le linee guida dell'Anac evidenzieranno
oneri di pubblicità anche per le fasi di gestione dei
rapporti contrattuali
(articolo ItaliaOggi del
18.05.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Cittadini e Pa, gratis gli atti pubblici telematici. Ok definitivo al primo decreto della riforma Madia sul
Freedom of information act - Cancellato il silenzio-rifiuto.
Con il
via
libera ottenuto ieri in consiglio dei ministri dal decreto
sul «Foia», il Freedom of Information Act che supera il
nostro vecchio diritto di accesso agli atti pubblici in nome
della trasparenza a tutto tondo sul modello anglosassone,
arriva la prima approvazione definitiva per un decreto
attuativo della riforma della Pubblica amministrazione.
«La Pa diventa una casa di vetro», rilancia il
sottosegretario alla Pubblica amministrazione e innovazione
Angelo Rughetti, ma oltre che sul piano politico, la riforma
arrivata ieri al traguardo promette di avere un forte
impatto pratico, sulla base di un cambio di modello: al
diritto di accesso tradizionale, che permette a cittadini e
imprese di conoscere gli atti pubblici su cui hanno un «un
interesse diretto, concreto e attuale», si affianca la nuova
trasparenza, in cui il diritto a conoscere atti e
informazioni diventa la regola e la mancata diffusione dei
provvedimenti è l’eccezione motivata dalla tutela di
interessi precisi, dal segreto di Stato alla privacy
passando per le tutele commerciali.
Tradotto in pratica, per
conoscere le procedure di valutazione utilizzate in un
appalto o in un concorso non sarà necessario essere nella
platea dei concorrenti, e i cittadini avranno diritto a
conoscere i finanziamenti concessi dal Comune, lo stato
effettivo di attuazione dei provvedimenti sui servizi
pubblici, dalla sanità ai trasporti, i tempi reali per lo
smaltimento delle pratiche e così via.
Ma non sempre ci sarà
bisogno di chiedere, perché il nuovo provvedimento prova a
rilanciare gli obblighi “automatici” di pubblicazione finora
sparsi in tante normative: le Pa dovranno mettere online
tutti i pagamenti effettuati, in forma puntuale e aggregata,
per permettere di tenere davvero sotto controllo il fenomeno
dei debiti commerciali nei confronti dei fornitori, e Stato,
regioni ed enti locali dovranno pubblicare anche per i
titolari di incarichi dirigenziali a qualsiasi titolo i dati
che oggi devono fornire per i politici, dalle indennità alla
situazione patrimoniale. Pubblici, inoltre, dovranno essere
i criteri con cui si formano le liste di attesa nella
sanità.
Passare dalle intenzioni alle realizzazioni non è semplice,
come dimostra lo stesso cammino che il decreto attuativo di
questo capitolo della delega Madia ha compiuto dalla prima
approvazione al via libera finale. Quello licenziato ieri
dal consiglio dei ministri è un testo diverso in molti punti
rispetto a quello iniziale, e accoglie tante correzioni
sollecitate dal Parlamento, dal Consiglio di Stato e da
Foia4Italy, il “cartello” delle associazioni che aveva
promosso lo sbarco anche in Italia di una regola sulla
trasparenza totale, già presente in 90 paesi, e aveva
manifestato la propria delusione per il primo testo.
I correttivi decisi ieri sono sostanziali. Prima di tutto,
vengono abbattute le barriere indirette alle iniziative dei
cittadini. Come regola generale, si prevede che le Pubbliche
amministrazioni rilascino i documenti in forma gratuita,
soprattutto quando l’invio è telematico, e possano chiedere
ai richiedenti solo il rimborso del costo «effettivamente
sostenuto e documentato» per la riproduzione del documento
«su supporti materiali».
Insieme alla barriera del costo,
viene cancellata anche quella del silenzio-rifiuto,
paradossalmente spuntata nella versione originale del
decreto sulla trasparenza totale: la Pa dovrà rispondere
sempre entro 30 giorni e, se vorrà negare le informazioni
richieste, dovrà farlo con «provvedimento espresso e
motivato». Contro l’eventuale «no» dell’ufficio pubblico,
chi fa la richiesta potrà appellarsi al responsabile
anti-corruzione o, negli enti locali, al difensore civico,
evitando così la via più costosa del ricorso al Tar, unica
strada prospettata dal primo testo del decreto.
Per negare i dati e i documenti richiesti, quindi, la
pubblica amministrazione dovrà dimostrare che la risposta
pregiudicherebbe in modo «concreto» (altra precisazione del
nuovo testo) gli interessi da tutelare, divisi in due
gruppi: gli interessi dello Stato, dalla sicurezza nazionale
alle questioni militari, dallo svolgimento delle indagini
alla «stabilità finanziaria ed economica», e quelli dei
privati, cioè i dati personali, la segretezza della
corrispondenza e gli interessi economici e commerciali.
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Ma la salvaguardia della privacy può allungare i tempi di
risposta.
Il meccanismo. Niente ricorso al Tar: contro il no appello a
difensore civico o responsabile anticorruzione.
Una volta in
Gazzetta Ufficiale, il decreto sulla trasparenza creerà per
i cittadini un “nuovo” diritto con possibili implicazioni a
tutto campo. Ma come si farà a esercitarlo?
Per le informazioni che la Pubblica amministrazione non è
obbligata a diffondere in modo automatico, dalle indennità
dei politici agli stipendi dei dirigenti (in larga parte già
obbligatori per i decreti anticorruzione del 2013) il primo
passo è naturalmente la domanda.
Chi vuole conoscere
un’informazione ha tre uffici a cui rivolgersi: quello che
ha materialmente i documenti, se lo conosce, oppure
l’ufficio per le relazioni con il pubblico oppure una terza
struttura, che però va indicata su Internet dall’ente
interessato. Se invece vuole conoscere dati che non sono
pubblici nonostante gli obblighi fissati dai decreti
Severino, come spesso accade, può fare richiesta al
responsabile anti-corruzione. La domanda deve contenere le
informazioni o i documenti richiesti, e ovviamente non ha
bisogno di motivazione.
L’arrivo dell’istanza fa scattare i 30 giorni entro i quali
l’ufficio pubblico interpellato deve rispondere, fornendo i
dati richiesti oppure motivando la decisione di tenerseli
per sé. Attenzione, però, perché i tempi possono allungarsi
e il cronometro potrà fermarsi parecchie volte.
Il meccanismo scritto nell’ultimo testo, in queste ore
sottoposto al coordinamento finale sotto la guida del
sottosegretario di Palazzo Chigi Claudio De Vincenti,
cancella infatti il silenzio-rifiuto, che avrebbe fatto
decadere la richiesta dopo 30 giorni di silenzio da parte
della Pa, ma al suo posto introduce un meccanismo piuttosto
complicato per tutelare i «controinteressati».
Ricevuta la domanda, l’ufficio pubblico può individuare i
titolari di dati personali o commerciali che potrebbero
essere danneggiati dalla pubblicazione. In questo caso, la
Pa avvisa questi «controinteressati», che hanno tempo 10
giorni per opporsi alla pubblicazione e la clessidra dei 30
giorni si blocca. Non è detto, però, che le obiezioni alla
diffusione dei dati da parte dei soggetti “avvisati” della
richiesta siano accolte dall’ufficio, che rimane il
responsabile ultimo della decisione: se sceglie di
rispondere nonostante l’opposizione degli altri interessati,
deve comunicarlo a questi ultimi, e può effettuare la
pubblicazione dopo 15 giorni dalla comunicazione. I tempi
effettivi, in pratica, possono raddoppiare.
È lo stesso decreto, comunque, a fissare i criteri guida per
decidere se rispondere o meno, perché le obiezioni dei «controinteressati»
hanno chance di successo solo se la risposta determina un
pregiudizio «concreto» alla privacy oppure a segreti
commerciali, diritto d’autore e così via.
Su questi parametri andranno fondate anche le decisioni in
caso di contenzioso. Il cittadino che chiede un’informazione
al Comune, alla Regione o a un’altra Pa e si vede negare il
dato ha infatti diverse strade da percorrere per ritentare
il successo. Nella versione licenziata in prima lettura,
l’unica alternativa era il Tar, con i costi e i tempi che
comporta il ricorso alla giustizia amministrativa, per cui
il provvedimento finale amplia parecchio il ventaglio delle
opzioni.
La prima porta a cui bussare è quella del
responsabile anti-corruzione, che deve essere presente in
ogni pubblica amministrazione, mentre nel caso di Regioni,
Province, Città metropolitane e Comuni il ricorso va
presentato al difensore civico (articolo Il Sole 24 Ore del
17.05.2016). |
SICUREZZA LAVORO: Regole differenziate per la protezione dal rischio amianto.
Salute e sicurezza. Per gli edifici o gli impianti.
La protezione
dal rischio dell’esposizione all’amianto segue due strade:
una se è diretta alla protezione civile, cioè della
collettività in quanto il materiale è già presente negli
edifici, l’altra se riguarda i lavoratori in quanto operanti
su impianti tecnici con presenza di amianto.
Lo precisa la
Commissione ministeriale per gli interpelli sulla sicurezza
(interpello
12.05.2016 n. 10/2016) istituita presso il
Ministero del Lavoro.
Il quesito formulato da Confindustria è stato posto per
chiarire il campo di applicazione della legge 257/1992 -relativa alle disposizioni riguardanti la cessazione
dell’amianto– con il relativo Dm del 06.09.1994,
riguardante le metodologie tecniche di applicazione
dell’articolo 6 della legge, rispetto alla circolare 7/1995
del ministero della Salute nella parte in cui precisa che la
normativa contenuta nel Dm si applica anche agli «impianti
tecnici sia in opera all’interno di edifici che
all’esterno», nei quali siano presenti componenti contenenti
amianto.
È comunque lo stesso decreto a prevedere che tale normativa
si applica a strutture edilizie a uso civile, commerciale o
industriale aperte al pubblico o comunque di utilizzazione
collettiva in cui sono in opera manufatti e/o materiali
contenenti amianto dai quali può derivare un’esposizione a
fibre disperse nell’aria.
Con l’interpello
12.05.2016 n. 10/2016
la Commissione, nel formulare la risposta al quesito,
allarga il campo di osservazione chiamando in causa anche il
Dlgs 81/2008 (testo unico sulla salute e sicurezza sui
luoghi di lavoro).
Quest’ultima disposizione, fermo restando quanto previsto
dalla legge 257/1992, individua il proprio campo di
applicazione per tutte le altre attività lavorative che
possono comportare un’esposizione ad amianto, quali
manutenzione, rimozione dello stesso o dei materiali che lo
contengono, smaltimento e trattamento dei relativi rifiuti,
nonché bonifica delle aree interessate.
Tenendo pertanto conto delle due disposizioni, l’una
destinata all’ambiente (protezione civile), l’altra alla
sicurezza sul lavoro, la Commissione ha ritenuto che
eventuali materiali contenenti amianto debbano essere
gestiti:
-
mediante l’applicazione delle disposizioni del Dm 06.09.1994 da parte del proprietario/conduttore
dell’edificio e dal Dlgs 81/2008 da parte del datore di
lavoro che opera nell’immobile, nel caso di manutenzione di
materiali contenenti amianto presenti in impianti funzionali
all’immobile (termici, idrici, elettrici, per esempio);
-
mediante la previsione normativa delle citate disposizioni
del Dlgs 81/2008, a cura del datore di lavoro, nel caso di
materiali contenenti amianto presenti in impianti produttivi
strettamente correlati all’attività imprenditoriale e per
questo non funzionali all’esercizio dell’immobile (articolo Il Sole 24 Ore del
17.05.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Una guida per gli impianti elettrici.
Lo strumento. Pubblicata la nuova edizione Cei (la
precedente è del 2007) per amministratori, condòmini e
tecnici.
La nuova
edizione 2016-03 della Guida Tecnica Cei (Comitato
elettrotecnico italiano) 64-50 «Edilizia ad uso residenziale
e terziario –Guida per l’integrazione degli impianti
elettrici utilizzatori e per la predisposizione delle
infrastrutture per gli impianti di comunicazioni e impianti
elettronici negli edifici– Criteri generali» sostituisce
completamente la precedente edizione del 2007 ed è
aggiornata agli ultimi sviluppi legislativi, normativi e
tecnologici.
Rispetto alla precedente edizione, la nuova guida ha
l’obiettivo di fornire all’utilizzatore, al progettista e
all’amministratore di condominio un supporto pratico utile
alla sua professione. Essa offre le informazioni di
carattere generale per la realizzazione degli impianti
elettrici utilizzatori, per la predisposizione edile ed
impiantistica degli impianti di comunicazione elettronica,
elettronici (telefoni, trasmissione dati, tv, citofoni,
bus), negli edifici destinati ad uso residenziale e
terziario, con particolare riferimento alla loro
integrazione nella struttura edile e alla loro coesistenza
con gli altri impianti tecnologici.
Fornisce le indicazioni per la compilazione della
documentazione tecnica necessaria per determinare le
caratteristiche e la consistenza degli impianti, con
l’obiettivo di offrire le indicazioni utili a realizzare
impianti elettrici ed elettronici che assicurino agli utenti
un servizio sicuro e confortevole.
Gli impianti progettati e costruiti in accordo con le
prescrizioni della legislazione tecnica e delle Norme Cei
sono considerati realizzati a regola d’arte. La guida
riporta un allegato in cui sono elencate le principali leggi
e i principali decreti e circolari ministeriali in vigore
riguardanti gli impianti elettrici e di comunicazioni, e gli
impianti elettronici negli edifici per uso residenziale e
per uso terziario, indicazioni indispensabili per
l’amministratore condominiale.
La Guida si applica agli «edifici ad uso residenziale»,
intendendo per essi quegli edifici destinati ad abitazione
civile e che contengano anche locali destinati ad altri usi
(uffici, studi professionali, negozi eccetera) e agli
“edifici per uso terziario”, ovvero gli edifici destinati ad
una specifica funzione o attività, come uffici, attività
commerciali, scuole, alberghi, depositi, impianti sportivi
ed in genere a finalità di pubblica utilità.
La nuova Guida fornisce infine gli elementi utili per
garantire la «predisposizione delle infrastrutture per gli
impianti di comunicazioni elettroniche e gli impianti
elettronici» intendendo per essa l’insieme –a partire dai
rispettivi punti di ingresso nell’edificio o nel locale–
delle tubazioni, scatole e cassette.
La guida è disponibile
presso tutti i punti vendita Cei e su Cei webstore per
l’acquisto online, sia in formato cartaceo che elettronico,
al prezzo di 96 euro (per i soci 77 euro) (articolo Il Sole 24 Ore del
17.05.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: P.a., sapere ora è un diritto.
Accesso gratuito ai dati anche senza un interesse diretto.
Approvato il primo dei dlgs Madia. Controllo diffuso sulla
pubblica amministrazione.
Sapere come agisce la p.a. sarà un diritto per i cittadini.
Ciascuno potrà richiedere gratuitamente alla pubblica
amministrazione dati e documenti a prescindere da un
interesse diretto. Il diritto di accesso, già riconosciuto
dalla legge, ma legato all'esistenza di una situazione
giuridica tutelabile (diritto soggettivo o interesse
legittimo), si amplia al punto da essere sempre attivabile,
realizzando così un controllo sociale diffuso, «il controllo
di 60 milioni di cittadini».
È il «Freedom of information
act», ossia il sistema generale di pubblicità e trasparenza,
già radicato nei paesi anglosassoni, e introdotto nel nostro
ordinamento dal
decreto legislativo approvato ieri in via
definitiva dal consiglio dei ministri.
Si tratta del primo
degli 11 dlgs attuativi della riforma Madia (legge
n. 124/2015), varati in blocco dal governo a gennaio, a
diventare legge. E forse non è un caso, visto che si tratta
di un provvedimento dall'alto valore simbolico che fa della
trasparenza non più un adempimento burocratico, o peggio
ancora, una concessione ai cittadini, ma una «grande
politica pubblica che serve a combattere la zona grigia che
va dall'illecito allo spreco», come si legge nel parere
licenziato da Montecitorio il 19 aprile scorso (si veda ItaliaOggi del 20/04/2016).
La camera, nell'accendere il semaforo verde sul testo, aveva
però posto una serie di condizioni che sono state
integralmente accolte nella versione varata dal cdm. A
cominciare dall'eliminazione del meccanismo del
silenzio-rifiuto, previsto nel testo originario del dlgs,
che avrebbe comportato il rigetto dell'istanza decorsi
inutilmente 30 giorni dalla presentazione della stessa. Come
osservato dalla commissione affari costituzionali della
camera, questo meccanismo avrebbe comportato effetti
«paradossali» rischiando di vanificare la ratio stessa del
decreto.
E così nel testo definitivo si stabilisce che il
rigetto da parte della p.a. debba essere sempre espresso e
motivato. Contro il diniego (parziale o totale) da parte
della pubblica amministrazione, o in caso di mancata
risposta, il rimedio non sarà più il ricorso al Tar (che
avrebbe comportato dispendiose spese legali in grado di
rappresentare un freno a ricorrere per gli interessati). Il
richiedente potrà presentare richiesta di riesame al
responsabile della prevenzione della corruzione e della
trasparenza che deciderà con provvedimento motivato, entro
il termine di venti giorni, prorogabile di quindici giorni
se il responsabile chiede il parere dell'Autorità nazionale
Anticorruzione.
Se l'accesso è stato negato o differito per
ragioni di tutela della riservatezza (pubblica o privata) o
di segreto di stato, il responsabile della prevenzione della
corruzione provvederà sentito il Garante privacy che si
pronuncerà entro 10 giorni dalla richiesta. Qualora si
tratti di atti delle amministrazioni delle regioni o degli
enti locali, il richiedente potrà presentare ricorso al
difensore civico competente per territorio.
L'Anac elaborerà apposite linee guida per disciplinare in
modo certo tutte le fattispecie derogatorie al diritto
generalizzato di accesso. E individuerà i casi in cui la
pubblicazione integrale dei dati è sostituita dalla
pubblicazione di informazioni riassuntive «elaborate per
aggregazione». Spetterà sempre all'Authority anticorruzione
individuare modalità semplificate di pubblicazione dei dati
per i comuni sotto i 15 mila abitanti, gli ordini e i
collegi professionali.
Tra le altre condizioni poste nel parere dei deputati c'era
l'eliminazione dell'obbligo di definire «chiaramente»
nell'istanza di accesso i dati, le informazioni o i
documenti richiesti. Anche in questo caso i deputati sono
stati accontentati in quanto la norma originaria sarebbe
stata «facilmente interpretabile quale obbligo per il
cittadino richiedente di identificare con precisione
assoluta i dati o i documenti richiesti».
La domanda potrà essere inviata alternativamente a uno dei
seguenti uffici:
• all'Ufficio relazioni con il pubblico;
• ad altro ufficio indicato dall'amministrazione nella
sezione «Amministrazione trasparente» del sito
istituzionale;
• al responsabile della prevenzione della corruzione e della
trasparenza, ove l'istanza abbia a oggetto dati,
informazioni o documenti oggetto di pubblicazione
obbligatoria.
Il diritto di accesso, come detto, sarà gratuito. Il
cittadino non dovrà pagare nulla per il rilascio di dati o
documenti in formato elettronico o cartaceo, salvo il
rimborso del costo effettivamente sostenuto e documentato
dall'amministrazione per la riproduzione su supporti
materiali.
Il diritto di accesso sarà escluso tutte le volte in cui sia
necessario evitare un pregiudizio concreto alla tutela di
uno degli interessi pubblici inerenti a:
• sicurezza pubblica;
• sicurezza nazionale;
• difesa e questioni militari;
• relazioni internazionali;
• politica e stabilità finanziaria ed economica dello Stato;
• conduzione di indagini sui reati;
• regolare svolgimento di attività ispettive.
L'accesso sarà altresì rifiutato se il diniego è necessario
per evitare un pregiudizio concreto alla tutela di uno dei
seguenti interessi privati:
• protezione dei dati personali;
• libertà e segretezza della corrispondenza;
• interessi economici e commerciali di una persona fisica o
giuridica, compresi la proprietà intellettuale, il diritto
d'autore e i segreti commerciali.
Il decreto si applica anche alle autorità portuali, alle
autorità amministrative indipendenti e, ove compatibile,
alle società partecipate (non a quelle quotate), agli enti
pubblici economici, agli ordini professionali.
Gli altri provvedimenti approvati in cdm. Il cdm ha
approvato un dlgs di attuazione dello statuto speciale per
la regione Sardegna in materia di determinazione e
attribuzione delle quote di gettito delle entrate erariali.
Si stabilisce la devoluzione alla regione della raccolta di
tutti i giochi con vincita in denaro sia di natura
tributaria sia di natura non tributaria in quanto costituite
da utile erariale. Il nuovo regime di compartecipazione al
gettito erariale decorre dal 01.01.2010. Alla luce
dell'accordo, il saldo per il maggior gettito spettante alla
regione per gli anni 2010-2015, in conseguenza del nuovo
regime tributario, sarà erogato in quattro annualità
costanti a decorrere dal 2016.
In via preliminare palazzo Chigi ha approvato un dlgs che
reca la disciplina dei consigli giudiziari per i magistrati
onorari e disposizioni per la conferma nell'incarico dei
giudici di pace, dei giudici onorari di tribunale e dei vice
procuratori onorari in servizio. Si tratta del primo decreto
legislativo di attuazione della legge 28.04.2016 n. 57 di
delega al Governo per la riforma organica della magistratura
onoraria
(articolo ItaliaOggi del
17.05.2016). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Più facile licenziare i furbetti del cartellino pubblico Il
senato accelera sulle nuove procedure disciplinari.
Decreto all'esame di palazzo madama. pesano i rilievi del
consiglio di stato: eccesso di delega.
È iniziato nella giornata di martedì 03.05.2016, nelle
commissioni riunite del Senato I (Affari costituzionali,
della Presidenza del Consiglio e interni) e XI (Lavoro
pubblico e privato), l'esame dello schema del decreto
legislativo recante proposte di modifiche all'art. 55-quater
del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, nel testo
aggiunto dall'art. 69, comma 1, del decreto legislativo 27.10.2009, n. 150
(Atto
del Governo n. 292 - Schema di decreto
legislativo recante modifiche all'articolo 55-quater del
decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, sul licenziamento
disciplinare).
L'art. 55-quater enuclea i casi nei quali si applica
comunque la sanzione disciplinare del licenziamento nei
confronti dei dipendenti pubblici:tra gli altri, la falsa
attestazione della presenza in servizio, mediante
l'alterazione dei sistemi di rilevamento; la giustificazione
dell'assenza dal servizio mediante certificazione medica
falsa; l'assenza dal lavoro priva di valida giustificazione,
la mancata ripresa del servizio, in caso di assenza
ingiustificata, entro il termine fissato
dall'amministrazione; le falsità documentali o dichiarative
connesse ai fini o in occasione dell'instaurazione del
rapporto di lavoro; la reiterazione nell'ambiente di lavoro
di gravi condotte aggressive o minacciose o ingiuriose o
comunque lesive dell'onore e della dignità personale altrui.
Lo schema di decreto legislativo in esame allarga
notevolmente le fattispecie di comportamenti sanzionabili,
un allargamento chiaramente giustificato, se non addirittura
imposto, dalle sempre più frequenti notizie sulla scoperta
di dipendenti che vengono pizzicati a porre in essere
comportamenti fraudolenti o comunque contrari alle norme di
legge e a quelle contrattuali.
Dispone infatti che costituisce falsa attestazione della
presenza in servizio, oltre all'alterazione dei sistemi di
rilevamento della presenza, «qualunque modalità fraudolenta
posta in essere, anche avvalendosi di terzi», per far
risultare il dipendente in servizio o trarre in inganno
l'amministrazione presso la quale il dipendente presta
servizio circa il rispetto dell'orario di lavoro dello
stesso. Della violazione dovrà rispondere anche chi abbia
agevolato con la propria condotta attiva o omissiva la
condotta fraudolenta.
La falsa attestazione della presenza, se accertata in
flagranza ovvero mediante strumenti di sorveglianza o di
registrazione degli accessi o delle presenze, determina
l'immediata sospensione cautelare senza stipendio del
dipendente e senza obbligo di preventiva audizione
dell'interessato.
Tra le altre modifiche all'art. 55-quater indicate nello
schema di decreto del governo meritano di essere
sottolineate: una decisa accelerazione del procedimento
disciplinare; il pagamento di un risarcimento
all'amministrazione di un danno di immagine il cui ammontare
è stabilito dalla procura regionale della Corte dei Conti;
l'omessa attivazione da parte del dirigente del procedimento
disciplinare e l'omessa adozione del provvedimento di
sospensione cautelare costituiscono fattispecie
disciplinare, oltre che omissione di atti di ufficio,
punibile con il licenziamento.
Le proposte di modifica potranno diventare operative dopo il
parere favorevole delle due commissioni, atteso per l'11
giugno, e dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Nella
circostanza il condizionale appare tuttavia d'obbligo tenuto
conto che dovranno essere prima superate le perplessità
sollevate dal Consiglio di Stato.
I giudici amministrativi sostengono infatti che la
previsione del danno di immagine e l'estensione dei reato di
omissione di atti d'ufficio nei confronti dei dirigenti
pubblici che non sanzionano i dipendenti pizzicati a porre
in essere comportamenti fraudolenti eccedano i limiti della
legge delega 07.08.2015, n. 124.
Ritengono anche che i termini iniziali del procedimento
disciplinare (immediatamente dopo la conoscenza dei fatti
contestabili) e finali (entro 30 giorni) potrebbero
comprimere i termini di difesa del dipendente, con la
conseguenza che l'eventuale sanzione comminata possa essere
annullata da un giudice
(articolo ItaliaOggi del
17.05.2016). |
SEGRETARI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Vicesegretari, è caos sui diritti di rogito.
Compensi. La Ragioneria generale blocca i
compensi - Corte conti in ordine sparso.
Per la Ragioneria
generale dello Stato, nel
parere
25.03.2016 n. 26297 di prot., i vicesegretari
titolari di posizione organizzativa che sostituiscono
segretari di fascia A e B assenti non possono percepire i
diritti di rogito.
In questo modo viene radicalmente
smentita la tesi sostenuta dalla sezione regionale di
controllo della Corte dei Conti delle Marche (parere
90/2016) per la quale i vice segretari titolari di posizione
organizzativa possono percepire questi compensi
indipendentemente dalla fascia di inquadramento dei
segretari. Che dire? A pochi giorni di distanza si
registrano letture diametralmente opposte provenienti da
soggetti che sono istituzionalmente abilitati a supportare
le amministrazioni locali nella soluzione dei problemi
interpretativi posti dalle nuove disposizioni di legge. È
evidente che in questo modo si determina una condizione di
marcata incertezza nell’applicazione delle norme.
Va ricordato peraltro che sulla stessa possibilità per i
segretari inquadrati nelle fasce A e B, cioè quelli che sono
assimilati ai dirigenti e che svolgono la loro attività in
Comuni privi di dirigenti, di percepire i compensi per i
rogiti effettuatati ci sono tesi molto diverse.
La sezione
Autonomie della Corte dei Conti, con la deliberazione
21/2015, sciogliendo i contrasti interpretativi nati in
particolare tra le sezioni di controllo della Lombardia e
del Lazio si è pronunciata in senso negativo. Mentre la
Corte Costituzionale, nella sentenza 75/2016, interpretando
la disposizione nazionale contenuta nel Dl 90/2014, ha
ritenuto che la percezione dei diritti di rogito da parte
dei segretari sia da considerare esclusa solo nei Comuni in
cui vi sono i dirigenti, a prescindere dalla loro fascia di
inquadramento. Occorre inoltre ricordare che sulla materia
si attendono a breve le prime sentenze della magistratura
del lavoro.
Per la Ragioneria generale dello Stato i vicesegretari
titolari di posizione organizzativa che rogano atti in
sostituzione dei segretari di fascia A e B non hanno diritto
a percepire i diritti perché una volta che, sulla base della
delibera della sezione autonomie della Corte dei Conti, è
«venuto meno il riconoscimento dei diritti di rogito per il
segretario di fascia A e B, deve ritenersi che viene a
mancare il presupposto per potere continuare a riconoscere
tali diritti» al vicesegretario che lo sostituisce.
Si
aggiunge, a corollario, che «in via generale, se a un
soggetto non è più riconosciuto un emolumento per una
specifica prestazione resa anche al suo sostituto,
corrispondentemente non potrà essere più riconosciuto alcun
emolumento per lo svolgimento della medesima prestazione».
Un ragionamento che sembra lineare con riferimento a
principi di carattere generale.
Per la sezione di controllo della Corte dei Conti delle
Marche, invece, «i diritti di rogito dovuti ai vicesegretari
continuano a essere dovuti in forza di specifiche norme
contrattuali mai abrogate e tutt’ora vigenti che continuano
ad esplicare i propri effetti in favore del personale che è
destinatario, in base all’ordinamento interno di ciascun
ente, dell’incarico di vice segretario».
Una tesi che, se
pure appare per molti aspetti basata su un presupposto acclarato, conduce a conseguenze paradossali, per cui il
sostituto percepisce il compenso e il sostituito, che è
titolare in via ordinaria dell’attività, non riceve alcun
compenso a questo titolo (articolo Il Sole 24 Ore del
16.05.2016). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Per gli incarichi agli avvocati serve la
«mini-gara» pubblica. Codice appalti. L’effetto sugli
affidamenti nei servizi legali.
L’affidamento della gestione del
contenzioso giudiziale e stragiudiziale deve avvenire nel
rispetto dei principi dell’ordinamento comunitario e impone
alle amministrazioni la revisione delle procedure fino ad
oggi adottate.
Il nuovo Codice dei contratti pubblici, con l’articolo 17,
inserisce nel novero dei contratti esclusi in tutto o in
parte dalla sua applicazione le attività di rappresentanza
legale di un cliente da parte di un avvocato negli arbitrati
o nelle conciliazioni, e nei procedimenti giudiziari dinanzi
a organi giurisdizionali o autorità pubbliche.
A questi servizi si associano quelli di consulenza legale
forniti in preparazione del contenzioso stragiudiziale o se
c’è un indizio concreto e una probabilità elevata che la
questione su cui verte la consulenza divenga oggetto del
procedimento. Il nuovo Codice impone lo svolgimento di
queste attività da parte di un avvocato, esplicitando il
riferimento all’articolo 1 della legge 31/1982, che regola
la prestazione di attività forensi in Italia da parte degli
avvocati di Paesi Ue.
Prima della riforma, in ambito nazionale l’affidamento di
attività di gestione del contenzioso urgente era stato
configurato come una particolare forma di incarico dal
Consiglio di Stato, che (sentenza 270/2012) ne aveva
stabilito una procedura di affidamento semplificata.
Da questa attività veniva distinta quella di gestione
complessiva e programmata del contenzioso nell’ambito dei
servizi legali, anche allora compresi tra i servizi esclusi
in base alla loro catalogazione nell’allegato IIB e, per
questo, assoggettati all’affidamento nel rispetto dei
principi comunitari (in base all’articolo 27 del Dlgs
163/2006). L’attività di consulenza specifica, tradotta in
studi e in pareri pro veritate, era invece annoverata
nell’ambito delle attività di consulenza pura, peraltro
assoggettata ai limiti previsti dall’articolo 6, comma 7,
della legge 122/2010.
La nuova disposizione propone una formulazione molto più
specifica delle prestazioni riportate fra i servizi esclusi,
identificandola chiaramente come attività di gestione del
contenzioso, indipendentemente dalla contestualizzazione
(urgenza o gestione programmata) entro la quale si è
generato, portando quindi al superamento della
differenziazione presente nel previgente quadro normativo.
Peraltro, gli altri servizi legali riferibili alle
prestazioni di un avvocato e non connessi al contenzioso
sono inclusi nell’allegato IX, per il quale il nuovo Codice
prevede l’affidamento con l’applicazione integrale delle
regole del Dlgs 50/2016, salvo una limitata facilitazione
nella fase di pubblicità preventiva.
L’affidamento dei servizi legali di gestione del
contenzioso, quindi, va effettuata nel rispetto dei principi
dell’ordinamento comunitario, secondo l’espressa previsione
contenuta nell’articolo 4 del codice, che vale per tutti i
contratti esclusi. Le amministrazioni sono quindi tenute a
definire una procedura che consenta il rispetto dei principi
di economicità, efficacia, imparzialità, parità di
trattamento, trasparenza, proporzionalità e pubblicità.
Gli enti possono organizzare la scelta degli avvocati
prestatori di servizi legali mediante la costituzione di
elenchi, l’iscrizione ai quali deve essere pubblicizzata con
avviso. Le modalità di affidamento devono essere ricondotte
a procedure selettive adeguabili all’eventuale urgenza della
costituzione in giudizio e possono essere sviluppate con
criteri valutativi volti a sollecitare la dimostrazione
della capacità di gestione del contenzioso specifico da
parte del professionista (articolo Il Sole 24 Ore del
16.05.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Sistri, prove di semplificazione.
Upload più rapidi. Sconti per le adesioni volontarie.
In via di definizione il decreto ministeriale sul
tracciamento telematico dei rifiuti.
Snellimento della tempistica per la comunicazione telematica
dei dati, riduzione dei contributi per le imprese che pur
non avendone l'obbligo aderiscono volontariamente al Sistri
e riduzione degli oneri di dotazione informatica per i
trasportatori di rifiuti.
Appaiono essere queste le
principali novità promesse dal decreto Minambiente in corso
di definizione che mira a sostituire il c.d. «Testo unico»
Sistri (dm 52/2011).
In base alla bozza del regolamento all'esame delle
competenti istituzioni dallo scorso aprile 2016 molte delle
innovazioni non saranno però immediatamente esecutive, ma
agganciate all'adozione di ulteriori decreti ministeriali ed
alla individuazione (ad oggi ancora in corso) del nuovo
gestore del servizio di tracciamento telematico dei rifiuti.
Procedure operative per accesso, inserimento e trasmissione
dati. Diversamente dal dm 52/2011, il nuovo «regolamento
recante disposizioni relative al funzionamento e
all'ottimizzazione» del Sistri non le disciplinerà nel
dettaglio, ma ne affiderà la definizione ad ulteriori
decreti Minambiente.
Pedissequamente all'attuale disciplina,
le specifiche istruzioni tecniche continueranno invece a
essere predisposte dal concessionario del servizio e
pubblicate, previo visto di approvazione del dicastero,
sotto forma di manuali e guide sul già noto portale sistri.it.
Soggetti obbligati all'iscrizione. A differenza dell'uscente
«T.u. Sistri», il nuovo decreto non ne riprodurrà il novero,
ma si limiterà ad effettuare un secco rinvio ai soggetti
individuati dall'articolo 188-ter del dlgs 152/2006
(confermando dunque anche la validità delle deroghe sancite
con dm 24/4/2014 per alcune imprese).
Utile precisazione
recata dal dm in itinere è quella relativa ad imprese ed
enti che provvedono a raccolta e trasporto dei propri
rifiuti (iscritti nella categoria 2-bis dell'Albo gestori
ambientali) laddove appare essere chiarito che l'obbligo di
adesione al Sistri è unicamente quello discendente dalla
loro posizione di produttori di rifiuti.
Contributo Sistri. Il dm in corso di definizione ripropone
termini, modalità ed entità del contributo dovuto all'atto
dell'iscrizione e poi con cadenza annuale. Tuttavia, con
ulteriore dm Minambiente se ne prevede una riduzione per i
soggetti che, pur non essendo obbligati, aderiscono
volontariamente al Sistri.
Dispositivi elettronici. Pur confermando a monte l'attuale
sistema che impone agli operatori l'utilizzo di «chiavette
Usb» e «black box» (rispettivamente, per accedere al sistema
e monitorare i percorsi dei mezzi di trasporto dei rifiuti)
si promette un alleggerimento della dotazione quantomeno per
i trasportatori.
Tramite futuro dm Ambiente arriverà infatti
la sospensione degli obblighi di installazione e utilizzo
dei suddetti strumenti di monitoraggio dei mezzi di
trasporto rifiuti ed eventualmente (ove sostenibile dal
punto di vista tecnico-economico) anche dei connessi
dispositivi Usb.
Trasmissione informazioni al Sistri. Il flusso informativo
disegnato dal nuovo dm ricalcherà il regime «ordinario»
previsto dall'uscente dm 52/2011. Questo introducendo però
uno snellimento sulla micro-tempistica, laddove non verrà
più imposto a produttori e trasportatori di rifiuti
pericolosi (fermo restando il termine massimo generale)
l'invio dei dati al Sistri entro (rispettivamente) le 4 e 2
ore precedenti alla movimentazione, essendo sufficiente che
l'inoltro delle informazioni di rito avvenga prima di
procedere alla stessa.
Con futuri e altri regolamenti del
dicastero arriveranno invece nuove regole di dettaglio su
modalità operative, così come per attività di microraccolta
e gestione di particolari categorie di rifiuti (tra cui i
Raee, rifiuti di apparecchiature elettriche ed
elettroniche), attestazione dell'assolvimento degli obblighi
da parte dei produttori di rifiuti non obbligati al Sistri.
La transizione. Fino all'adozione degli ulteriori e citati
regolamenti di dettaglio dettati dallo stesso dicastero, il
dm in itinere imporrà dalla data della sua entrata in
vigore, per quanto da esso non direttamente disciplinato, di
continuare a far riferimento alle procedure indicate nei
manuali e nelle linee guida disponibili sul sito sistri.it.
La vera e propria semplificazione del sistema con la
riduzione, come sancito a livello programmatico dallo stesso
decreto in itinere, degli oneri anche informatici a carico
degli operatori (tra cui la compilazione off-line delle
schede, la trasmissione asincrona dei dati, la garanzia di
interoperatività con i software di terze parti) arriverà
dunque solo in un secondo momento
(articolo ItaliaOggi Sette del 16.05.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Il Sistri resta sui rifiuti pericolosi. Stop all'obbligo di
installare e utilizzare token e black box.
Arriva il nuovo Testo unico. Il contributo 2016 va pagato.
Esonero con meno di 10 dipendenti.
Le imprese della filiera dei rifiuti pericolosi saranno
ancora tenute a pagare il contributo annuale Sistri. In
futuro si procederà a una revisione dell'entità dei
contributi ma la copertura degli oneri derivanti dalla
costruzione e dal funzionamento del Sistri sarà ancora a
carico degli operatori mediante il pagamento del contributo
annuale.
Al Sistri continueranno a essere assoggettate le sole
imprese e i soli enti, entrambi definiti come «produttori
iniziali di rifiuti pericolosi», che hanno più di 10
dipendenti e operano in uno più settori tra industria,
artigianato, commercio e servizi.
Queste alcune delle novità
contenute in una bozza di Dm di cui ItaliaOggi anticipa i
contenuti contenente il regolamento del ministero
dell'ambiente che apre il percorso di semplificazione del
Sistri per tutti gli operatori interessati.
Le imprese e gli
enti che producono rifiuti speciali pericolosi e hanno meno
di dieci dipendenti continueranno a non doversi iscrivere al
Sistri, ne dovranno rispettarne gli obblighi. All'articolo
23, comma 3, della bozza di regolamento si legge della
soppressione degli obblighi di installazione e dell'utilizzo
di token e black box in attuazione delle semplificazioni
previste quali obiettivo del bando Consip (articolo 11,
comma 9-bis, della legge n. 101/2013).
Comunicazione quantità rifiuti. Gli operatori iscritti al
Sistri comunicano le quantità e le caratteristiche
qualitative dei rifiuti oggetto della loro attività mediante
la scheda Sistri – area registro cronologico. I produttori
di rifiuti iscritti inseriscono le relative informazioni
entro dieci giorni lavorativi dalla produzione dei rifiuti
stessi e comunque prima della movimentazione degli stessi.
Le informazioni relative allo scarico effettuato a seguito
della presa in carico dei rifiuti stessi da parte del
trasportatore , sono compilate e firmate elettronicamente
entro dieci lavorativi dal completamento del trasporto. I
commercianti , gli intermediari e i consorzi inseriscono le
informazioni relative alle transazioni effettuate entro
dieci giorni lavorativi dalla conclusione della transazione
stessa.
L'inserimento delle informazioni nel sistema non è
obbligatorio nel periodo di attesa della consegna dei
dispositivi in fase di iscrizione e nei sette giorni
successivi alla consegna dei dispositivi stessi. Nel caso di
rifiuti prodotti in cantiere, la cui attività lavorativa
non si protragga oltre i sei mesi e che non disponga di
tecnologie adeguate di tecnologie adeguate per l'accesso al
sistema Sistri, le schede Sistri sono compilate dal delegato
della sede legale o dell'unità locale dell'impresa.
Nel caso
di cantiere complessi comportanti l'intervento di diversi
soggetti, l'attività del cantiere è calcolata per ciascuno
di essi con riferimento al contratto del quale è titolare.
Compiti trasportatore rifiuti pericolosi. Il trasportatore
che aderisce al Sistri deve accedere al sistema e inserire i
propri dati relativi al trasporto prima dell'operazione di
movimentazione , salvo giustificati motivi di emergenza da
indicare nella parte della scheda da compilare disponibile
per le annotazioni.
Durante il trasporto i rifiuti sono
accompagnati dalla copia cartacea della scheda Sistri – area
movimentazione relativa ai rifiuti movimentati, stampata dal
produttore nel momento della presa in carica dei rifiuti da
parte del conducente dell'impresa di trasporto.
I soggetti
produttori e trasportatori, che aderiscono al Sistri, cui
spetta la responsabilità delle informazioni inserite nel
sistema, possono adempiere agli obblighi previste dal nuovo
regolamento, tramite le rispettive associazioni
rappresentative imprenditoriali sul piano nazionale o
società di servizi di diretta emanazione delle stesse. A tal
fine i soggetti aderenti al Sistri, dopo la loro iscrizione
possono delegare o incaricare le suddette associazioni o
società di servizi, che sono tenute a iscriversi per la
specifica categoria di appartenenza.
I soggetti che
producono rifiuti in quantità non superiore a duecento
chilogrammi o litri, sono tenuti alla compilazione
trimestrale della scheda Sistri – area registro cronologico,
che deve essere comunque compilata prima della
movimentazione dei rifiuti prodotti
(articolo ItaliaOggi del 14.05.2016). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
In parlamento.
La Camera approva le norme per limitare il consumo del suolo.
La Camera ha
licenziato ieri in prima lettura il disegno di legge per il
contenimento del consumo del suolo.
Il Ddl
(Atto
Camera n. 2039)
definisce per la
prima volta nel nostro ordinamento il concetto di consumo
del suolo, cioè la sua copertura e impermeabilizzazione, e
punta a ridurre la cementificazione del territorio e a
salvaguardare paesaggio e attività agricole, con l’obiettivo
di azzerare entro il 2050 il consumo del suolo. Il Ddl passa
ora al Senato.
In Italia dagli anni 50 sono stati
impermeabilizzati 1,5 milioni di ettari, una superficie pari
all’intera Calabria. Il principio base della nuova norma è
che il consumo del suolo è consentito solo quando non ci
sono alternative di riuso. Il Ddl impone una moratoria di
tre anni per tutte le trasformazioni che comportino nuovo
consumo di suolo, salvo quelle già inserite nei piani
urbanistici.
In questi tre anni, il ministero delle
Politiche agricole, assieme a quelli dell’Ambiente, dei Beni
culturali e delle Infrastrutture, dovrà emanare un decreto
che indichi come ridurre progressivamente il consumo del
suolo, fino a eliminarlo del tutto nel 2050, come prevede la
Ue. Spetterà alle Regioni fissare i criteri attuativi per i
Comuni. Questi ultimi dovranno censire edifici ed aree
dismesse, per verificare se le nuove costruzioni possono
essere realizzate riqualificando aree degradate
(articolo Il Sole 24 Ore del
13.05.2016 -
tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Consumo suolo, enti vincolati. Costruire sarà l'eccezione.
Censimento degli immobili sfitti.
Alla camera primo sì al ddl. Oneri di urbanizzazione
inutilizzabili per la spesa corrente.
Costruire sarà l'eccezione. I comuni, nelle scelte di
pianificazione, dovranno motivare le ragioni per cui
autorizzano nuovo consumo del suolo che sarà consentito solo
in assenza di alternative di riuso e rigenerazione delle
aree già urbanizzate. Gli enti dovranno censire gli edifici
sfitti, inutilizzati o abbandonati per verificare se la
costruzione di nuovi immobili, che comportino ulteriore
consumo del suolo, sia davvero essenziale.
E ogni anno dovranno inviare una comunicazione al prefetto
segnalando le proprietà fondiarie in stato di abbandono e
suscettibili, per questo, di arrecare danni al paesaggio o
alle attività produttive. Fino a quando le regioni non
avranno legiferato in materia e comunque non oltre il
termine di 3 anni, non sarà consentito consumo di suolo
fatta eccezione per i lavori e le opere inseriti negli
strumenti di programmazione delle amministrazioni
aggiudicatrici, ossia nei programmi triennali dei lavori
pubblici, e per quelli per i quali sia stata presentata
istanza prima dell'entrata in vigore della legge.
Con 256
voti a favore, 140 contrari e 4 astenuti il ddl sul consumo
del suolo e il riuso del suolo inedificato
(Atto
Camera n. 2039) ha tagliato alla
camera dei deputati il traguardo della prima approvazione.
Non senza polemiche, vista la protesta dei deputati del M5S
al momento del voto.
Secondo i Pentastellati il
provvedimento sarebbe un'occasione persa che, prevedendo una
lunga serie di deroghe al divieto di consumo del suolo,
rappresenta l'ennesimo favore alle lobby. Di diverso avviso
il Pd secondo cui l'approvazione del ddl segna una «giornata
importante per chi vuole bene all'Italia, al suo paesaggio,
al suo ambiente», come ha dichiarato Chiara Braga,
responsabile ambiente del Partito democratico e relatrice
del ddl.
«L'obiettivo è azzerare entro il 2050 il consumo di
suolo, così come ci invita a fare l'Europa, e al stesso
tempo dare un forte impulso agli interventi di recupero del
patrimonio edilizio esistente, pur senza paralizzare
l'attività di pianificazione dei comuni e gli interventi già
in corso», ha proseguito.
Soddisfatto anche il ministro per le politiche agricole,
Maurizio Martina al cui ministero il ddl assegna (di
concerto con i dicasteri dell'ambiente, dei beni culturali e
turismo e delle infrastrutture e trasporti) il compito di
indicare con un apposito decreto la riduzione progressiva
vincolante di consumo del suolo a livello nazionale.
«L'Italia ha bisogno di questa legge», ha affermato Martina,
«anche per colmare un gap rispetto ad altri Paesi, tutelando
la nostra agricoltura, conservando il paesaggio e stimolando
anche l'edilizia di riuso e la rigenerazione urbana con il
recupero di aree già occupate e strutture già esistenti».
Le associazioni ambientaliste, tuttavia, non si lasciano
contagiare dall'entusiasmo e chiedono già correttivi per il
passaggio del testo al senato. «Il provvedimento contiene
norme innovative, ma ancora molti punti contraddittori e
pericolosi», affermano in una nota congiunta Fai - Fondo
ambiente italiano, Legambiente, Slow Food, Touring Club
italiano e WWF Italia. Per questo, dicono, il ddl «deve
essere modificato al senato perché sia fatto un vero passo
in avanti per chiudere definitivamente nel nostro Paese
l'epoca dei piani urbanistici sovradimensionati, degli abusi
edilizi e dei successivi condoni e della sub-urbanizzazione
che fa scempio del territorio».
Le associazioni
ambientaliste apprezzano il divieto di utilizzo degli oneri
di urbanizzazione per finanziare la spesa corrente e il
divieto di mutamento di destinazione d'uso per le superfici
agricole che hanno beneficiato di aiuti dall'Unione europea.
Ma tra gli aspetti critici denunciano la presenza di «troppi
spazi e deroghe che rischiano di rendere meno incisiva la
tutela della risorsa suolo».
A cominciare dall'emendamento
alle norme transitorie (art. 11), approvato in aula, con cui
vengono fatti salvi i piani urbanistici attuativi per i
quali i soggetti interessati abbiano anche solo presentato
istanza prima dell'entrata in vigore della legge. «Dotare il
Paese di una norma innovativa ed efficace sul consumo di
suolo è indispensabile», ribadiscono le associazioni, «che
si ripromettono, dopo l'approvazione alla camera, di
incalzare i senatori perché questo accada».
I dati degli ultimi 40 anni del resto parlano chiaro. Dagli
anni 70 la superficie coltivata in Italia è diminuita del
28%. Si tratta di 5 milioni di ettari di superficie agricola
persa, pari a oltre 80 campi da calcio al giorno. Una
superficie equivalente a Lombardia, Liguria ed
Emilia-Romagna messe insieme. Un incremento del consumo del
suolo che, in verità, non sembra giustificato dalla crescita
demografica visto che dal 1950 ad oggi la popolazione
italiana è aumentata del 28%, ma la cementificazione del
166%. Al primo posto nella classifica delle regioni più
«consumate», secondo i dati 2015 dell'Istituto superiore per
la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), ci sono
Lombardia e Veneto con il 10%. Mentre alcuni comuni delle
province di Napoli, Caserta, Milano e Torino oltrepassano il
50%, raggiungendo anche il 60%.
«L'ultima generazione è responsabile della perdita in
Italia del 28% della terra coltivata per colpa della
cementificazione e dell'abbandono», osserva la
Coldiretti. «Su un territorio meno ricco e più fragile
per il consumo di suolo si abbattono i cambiamenti climatici
con le precipitazioni sempre più intense e frequenti che il
terreno non riesce ad assorbire. Il risultato è che sono
saliti a 7.145 i comuni italiani, ovvero l'88,3% del totale,
che sono a rischio frane e/o alluvioni»
(articolo ItaliaOggi del 13.05.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO: Vigili, braccio di ferro tra stato e sindaci.
La riforma della polizia locale non può più attendere.
La nuova legge sulla sicurezza urbana dovrà identificare
meglio anche il ruolo e le funzioni della polizia locale,
sempre più impegnata su nuovi fronti di prevenzione e
controllo del territorio senza peraltro esserne all'altezza.
Per questo scopo servono strumenti e risorse, ma anche un
nuovo ordinamento, in modo tale da consentire alla polizia
municipale di lavorare in piena sicurezza.
Lo ha evidenziato
il sindaco di Pisa Marco Filippeschi, intervenuto ieri nella
sua città a un evento organizzato dall'Anci e dedicato alla
legge di riforma della sicurezza urbana.
Dal 5 maggio la
commissione affari costituzionali della Camera ha iniziato
l'esame congiunto di alcune proposte di legge che hanno per
oggetto il coordinamento delle politiche integrate della
sicurezza e la riforma della disciplina della polizia locale
(C. 1825 Naccarato, C. 1895 Polverini, C. 1935 Sandra
Savino, C. 2020 Guidesi, C. 2406 Lombardi e C. 3164 Cirielli),
oppure soltanto la disciplina dei corpi di polizia locale
(C. 1529 Rampelli) o la delega al governo per
l'equiparazione tra i corpi di polizia locale e le forze di
polizia dello Stato (C. 3396 Greco).
Gli argomenti contenuti nelle diverse proposte di legge sono
strettamente connessi. Da una parte i sindaci reclamano
maggiori poteri di gestione dell'ordine e della sicurezza
pubblica. E la polizia municipale rappresenta il braccio
forte dei primi cittadini per gestire sul territorio queste
politiche. A monte però lo Stato non ha nessuna intenzione
di perdere la centralità della gestione dell'ordine e della
sicurezza pubblica.
Questo braccio di ferro che dura ormai da parecchi anni
risulta però superato dai numerosi accordi che le prefetture
sono costrette a siglare sul territorio con gli enti locali.
Ma anche dalla determinazione ostinata dei sindaci e delle
polizie locali, che nonostante la mancanza di un ordinamento
adeguato continuano a svolgere attività proprie di organi di
polizia veri e propri, pur non avendone i requisiti.
E neppure i riconoscimenti e le tutele necessarie. Se da una
parte non è più rinviabile una riforma della sicurezza
urbana dall'altra, senza un accordo ben definito sui ruoli
dei sindaci e della polizia locale in previsione di una
sicurezza sempre più partecipata, il rischio è quello di una
riforma peggiorativa. Ovvero del trasferimento in capo ai
vigili e ai comuni di ulteriori delicate incombenze senza
una sostanziale modifica dei ruoli.
Per fare attività «vera» di polizia locale occorre
sciogliere il dubbio principale, cioè se i vigili urbani
siano semplici impiegati oppure agenti utilizzati dal
sindaco in attività di polizia. L'Anci dal canto suo ha già
da tempo avviato un tavolo tecnico sulla sicurezza urbana
individuando un testo finale composto di 21 articoli. E
contemporaneamente ha evidenziato la necessità di riformare
la legge quadro 65/1986 che compie trent'anni.
Nel frattempo
proprio oggi a Roma, l'Ospol ha organizzato uno sciopero
generale della polizia municipale. Sono attese migliaia di
operatori da tutta Italia, per sollecitare una riforma che
ormai non può più attendere
(articolo ItaliaOggi del 13.05.2016). |
APPALTI: Appalti anche a causa mista. Le gare riservate si aprono ai
lavoratori svantaggiati. La previsione è contenuta nella riforma (dlgs 50/2016) per
favorire l'inserimento.
Gli appalti riservati si aprono anche ai lavoratori
svantaggiati. L'art. 112 del dlgs 50/2016 introduce
importanti novità in merito alla possibilità di attivare
appalti a «causa mista», il cui scopo, cioè, non sia solo
l'acquisizione della prestazione del bene, servizio o
lavoro, ma anche la possibilità di favorire l'inserimento
socio-lavorativo delle persone.
Fino ad oggi, gli scopi di inserimento socio-lavorativo sono
stati perseguiti fondamentalmente attraverso l'opera della
cooperazione sociale, applicando le disposizioni degli
articolo 4 e 5 della legge 381/1991, ai sensi delle quali
sono possibili affidamenti aventi valore inferiore alla
soglia comunitaria a cooperative sociali di tipo B, aventi
scopo di inserimento lavorativo, mediante procedure
semplificate, in tutto compatibili con quelle disciplinate,
oggi, dall'articolo 36, del nuovo codice degli appalti.
L'art. 112 del codice si premura di confermare
esplicitamente l'applicabilità di questa normativa speciale
rivolta alle cooperative sociali: è, dunque, da concludere
che il dlgs 50/2016 non ha comportato l'abolizione delle
previsioni della legge 381/1991. Restano, quindi, in piedi
le possibilità degli affidamenti a cooperative sociali, per
altro recente oggetto delle linee guida espresse dall'Anac
con la determinazione 32/2016.
In aggiunta a questa
disciplina, l'art. 112 contiene un'altra importante
precisazione: lascia operante anche la disciplina dei
cosiddetti «appalti riservati», cioè gare per l'affidamento
soprattutto di servizi, che le stazioni appaltanti possono
riservare alla partecipazione o all'esecuzione solo di
operatori economici, e ovviamente anche cooperative sociali
e loro consorzi, a condizione che il loro scopo principale
sia l'integrazione sociale e professionale delle persone con
disabilità o svantaggiate.
L'articolo consente a che la
riserva dell'esecuzione ai medesimi soggetti nel contesto di
«programmi di lavoro protetti», se almeno il 30% dei
lavoratori dei suddetti operatori economici sia composto da
lavoratori con disabilità o da lavoratori svantaggiati.
L'importante novità consiste nell'estensione dell'elenco dei
lavoratori in condizione di svantaggio. Fino al dlgs 50/2016
si consideravano esclusivamente i soggetti elencati
dall'articolo 4 della legge 381/1991. L'art. 112 però,
parlando esplicitamente di «lavoratori svantaggiati» e
«persone svantaggiate» si riferisce indirettamente in modo
chiaro a quella categoria di lavoratori caratterizzati da
particolari condizioni soggettive tali da limitarne
fortemente l'accesso al mercato del lavoro, elencati, oggi,
dal Regolamento (Ue) n. 651/2014 della Commissione del 17.06.2014.
Dunque, gli appalti riservati potranno prendere
in considerazione anche chi non abbia un impiego
regolarmente retribuito da almeno sei mesi, o i disoccupati
di età compresa tra i 15 e i 24 anni, o chi non possieda un
diploma di scuola media superiore o professionale (livello Isced 3); o, ancora chi abbia completato la formazione a
tempo pieno da non più di due anni e non abbia ancora
ottenuto il primo impiego regolarmente, nonché i disoccupati
over 50, gli adulti che vivono da soli con una o più persone
a carico, gli occupati in professioni o settori
caratterizzati da un elevato tasso di disparità uomo-donna,
gli appartenenti a minoranze etniche degli stati membri
della Ue che necessitino di migliorare la propria formazione
linguistica e professionale o la propria esperienza
lavorativa per aumentare le prospettive di accesso a
un'occupazione stabile.
Per le p.a. e i comuni in
particolare, quindi, gli appalti riservati alla cooperazione
sociale e agli operatori economici ispirati alla tutela
delle esigenze sociale possono diventare una leva molto
importante, allo scopo di creare un «quasi mercato», nel
quale agevolare vere e proprie esperienze lavorative dei
lavoratori svantaggiati.
Con l'evidente beneficio di
attivare le persone verso un lavoro concreto e di sostituire
all'intervento assistenziale puro e semplice un progetto di
autonomia lavorativa che favorisca un ingresso il più
possibile forte nel mercato del lavoro per persone che
altrimenti resterebbero escluse e dipendenti dalla sola
assistenza
(articolo ItaliaOggi del 12.05.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
TRIBUTI: Google maps per le verifiche. Accesso all'applicazione per i
controlli immobiliari. L'indicazione per l'utilizzo dello strumento informatico
arriva dalla circolare dell'Agenzia.
Accertamenti immobiliari anche con Google Maps. Al posto del
sopralluogo diretto, i funzionari dell'Agenzia delle entrate
potranno acquisire informazioni sull'immobile oggetto di
verifica utilizzando gli strumenti informatici disponibili
in ufficio e accedendo a Internet. Ovviamente, al preciso
fine di «rafforzare» la motivazione di un tale accertamento
sarà opportuno procedere ad allegare all'avviso di rettifica
l'immagine dell'immobile appositamente stampata attraverso
la funzione di «street view» dell'applicativo.
È quanto si legge nella recente
circolare
28.04.2016 n. 16/E (si veda ItaliaOggi del 04/05/2016)
relativamente alle attività di controllo finalizzate ad
accertare eventuali occultamenti nei corrispettivi degli
atti di trasferimento immobiliari, soprattutto in tema di
imposte sui trasferimenti (registro, ipotecaria e
catastale).
In effetti, testualmente, la circolare in
commento evidenza che, per quanto concerne i controlli
relativi ai valori dichiarati, particolare attenzione deve
essere prestata alla fase di selezione degli atti da
sottoporre a controllo, concentrando le «risorse
disponibili» (addetti) sulle fattispecie più significative e
con più elevati profili di rischio evasione e/o elusione,
anche mediante costituzione di «gruppi di lavoro» che
facilitino l'interscambio di dati e/o informazioni.
L'uso delle recenti tecnologie informatiche per le attività
di accertamento non è certo una novità (si veda ItaliaOggi
del 12/02/2016); colpisce però che il ricorso a una tale
metodologia grezza di accertamento sia contenuta in una
circolare nella quale la stessa Agenzia delle entrate
raccomanda alle sue strutture periferiche un corretto
utilizzo delle presunzioni di legge e, più in generale, dei
poteri istruttori, onde evitare il risalto mediatico che
accertamenti basati esclusivamente su presunzioni, tipico
caso quello dei valori immobiliari, hanno recentemente
scatenato.
L'Agenzia, subito dopo aver evidenziato la necessità, prima
dell'emissione dell'avviso di rettifica, di sviluppare
sempre un contraddittorio con il contribuente, al fine di
valutare situazioni peculiari, ma anche con l'obiettivo di
rafforzare la maggiore quantificazione della pretesa
tributaria, concede ai suoi funzionari una via intermedia,
estremamente semplificata di accertamento virtuale del
valore dell'immobile.
In alternativa all'esecuzione di sopralluoghi, di rilievi
sul posto, di foto dell'immobile e della zona ove lo stesso
è ubicato, al fine di rendersi davvero conto della realtà
dei luoghi, per i verificatori è possibile lasciarsi tentare
dall'utilizzo della famigerata applicazione del più
conosciuto motore di ricerca al mondo, soprattutto quando
per l'immobile in questione è attivabile la funzione «street
view».
Così facendo con pochi e semplici click del mouse e partendo
dall'inserimento dell'indirizzo ove l'immobile è ubicato, il
funzionario preposto alla verifica dei valori indicati
nell'atto di trasferimento dalle parti si troverà a video la
rappresentazione «virtuale» dell'immobile e della zona ove
lo stesso è situato.
Il funzionario, inoltre, potrà spostarsi, sempre
virtualmente, avanti e indietro o aggirare l'immobile
esplorando lo stesso da tutti i lati visibili censiti nel
data base di Google.
Dopo avere effettuato questa visita virtuale, stando alle
prescrizioni contenute nella circolare, che detta gli
indirizzi operativi per le attività di contrasto
all'evasione per l'anno 2016, il funzionario in questione
potrà esprimere un giudizio sul valore dell'immobile in
oggetto e passare alla contestazione di quanto dichiarato in
atto dalle parti, allegando, a sostegno della propria
valutazione le immagini riprodotte dal sistema.
Che un tale modus operandi sia estremamente più semplice e
veloce è inconfutabile e permette ai verificatori di
risparmiare energie, sviluppando ulteriori e consueti
accertamenti «a tavolino».
Peccato, però, che nell'applicazione in esame, o nelle altre
analoghe, la realtà dei luoghi che viene a evidenza è una
realtà virtuale che spesso risale a due o tre anni addietro
rispetto al momento dell'accesso.
Potrebbe pertanto accadere che sia l'immobile oggetto di
ispezione virtuale sia l'intero contesto nel quale esso
viene visualizzato sia in realtà profondamente diverso dalla
realtà.
L'utilizzo delle applicazioni virtuali dovrebbe essere
utilizzato, in alternativa al sopralluogo diretto, anche per
«evidenziare meglio le analogie e le differenze tra
l'immobile da valutare e quelli presi come riferimento,
sulla base delle principali caratteristiche che influenzano
i prezzi di mercato della tipologia di immobile in esame».
Se davvero dovessero essere queste le future attività
istruttorie, propedeutiche all'emissione degli avvisi di
rettifica dei prezzi di trasferimento degli immobili da
parte dei funzionari del fisco, è difficile, anche soltanto
ipotizzare, che su questo fronte si avranno accertamenti più
equi, con un sicuro aumento dei contenziosi con i
contribuenti
(articolo ItaliaOggi del 10.05.2016). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Ora costruire sarà l'eccezione. Obbligatorio verificare
alternative al consumo del suolo. Le novità del ddl al voto della camera. Nei comuni
censimento degli immobili sfitti.
I comuni dovranno censire gli edifici sfitti, inutilizzati o
abbandonati per verificare se ci sono alternative alla
costruzione di nuovi immobili che comportino ulteriore
consumo del suolo inedificato. E ogni anno dovranno inviare
una comunicazione al prefetto segnalando le proprietà
fondiarie in stato di abbandono e suscettibili, per questo,
di arrecare danni al paesaggio o alle attività produttive.
I municipi, che adegueranno i propri strumenti urbanistici
alle norme regionali di riduzione del consumo di suolo,
verranno iscritti in un apposito registro tenuto dal
ministero delle politiche agricole. L'iscrizione all'elenco
darà diritto alla priorità nella concessione dei
finanziamenti, statali e regionali, finalizzati a realizzare
interventi di rigenerazione urbana, bonifiche dei siti
contaminati, ripristino delle colture nei terreni agricoli
incolti, abbandonati o inutilizzati.
Sono alcune delle principali novità per le amministrazioni
locali contenute nel disegno di legge sul consumo del suolo
(Atto
Camera n. 2039) che giovedì dovrebbe andare al voto dell'aula della camera.
Un testo dalla lunga gestazione parlamentare, iniziata più
di due anni fa con una serie di proposte di legge a cui è
stato abbinato un ddl governativo per iniziativa dell'ex
ministro delle politiche agricole Nunzia De Girolamo.
Dopo
un lungo periodo di stand by, i lavori sul provvedimento
sono ripresi con l'adozione di un nuovo testo base approvato
con emendamenti dalle commissioni riunite ambiente e
agricoltura di Montecitorio.
L'obiettivo del ddl (che ha come relatori Chiara Braga e
Massimo Fiorio, entrambi del Pd) è chiaro e condivisibile:
promuovere e tutelare l'attività agricola, il paesaggio e
l'ambiente contenendo il consumo del suolo anche allo scopo
di prevenire il dissesto idrogeologico e mitigare gli
effetti dei cambiamenti climatici. Per questo viene
stabilito che il consumo del suolo (da intendersi come
l'incremento della superficie agricola soggetta a interventi
di impermeabilizzazione) è consentito solo quando non è
possibile riutilizzare aree già urbanizzate. E va motivato
in modo specifico e puntuale da parte dei comuni.
Tutti nobili principi che però, come talvolta accade, si
scontrano con la vita quotidiana dei comuni, soprattutto
quelli più piccoli, che non fanno salti di gioia per
l'imminente approvazione del provvedimento.
A preoccupare i sindaci è soprattutto l'art. 11 del ddl
(quello sulle norme transitorie) secondo cui, a decorrere
dalla data di entrata in vigore della legge, e fino
all'adozione dei provvedimenti volti alla riduzione del
consumo del suolo, e comunque non oltre il termine di tre
anni, «non è consentito il consumo di suolo tranne che per i
lavori e le opere inseriti negli strumenti di programmazione
delle amministrazioni aggiudicatrici». Una norma che i
comuni giudicano troppo restrittiva, oltre che pericolosa,
perché aprirebbe la strada a possibili ricorsi da parte
degli operatori che hanno già acquisito aree.
Per questo nei
mesi scorsi (si veda ItaliaOggi del 27/02/2016) Anci e Anpci
avevano scritto ai ministri competenti (Gian Luca Galletti,
Maurizio Martina, Graziano Delrio ed Enrico Costa) chiedendo
correttivi. A cominciare dall'eliminazione dei limiti
all'utilizzo dei proventi dei titoli edilizi per la
manutenzione ordinaria e straordinaria delle opere di
urbanizzazione già realizzate.
Secondo i sindaci, inoltre,
il divieto triennale di consumo di suolo rischia di essere
troppo penalizzante, soprattutto per i piccoli comuni,
perché renderebbe illegittima la rivendicazione dell'Imu su
diritti edificatori previsti, ma non più attivabili.
Prospettiva questa «dalle conseguenze economiche
insostenibili soprattutto per i mini-enti che si vedrebbero
coinvolti in contenziosi fiscali infiniti, destinati a
produrre mancate entrate per cifre esorbitanti».
Per
scongiurare questo scenario, in occasione del voto finale
sul testo, verrà approvato un emendamento che fa salvi gli
interventi per i quali «i soggetti interessati abbiano
presentato istanza per l'approvazione prima della data di
entrata in vigore» della legge.
A chiedere modifiche, in prospettiva del passaggio del testo
al senato, è anche l'Uncem in rappresentanza degli enti
montani, i veri assenti del disegno di legge. «In nessuna
parte del testo si fa riferimento alla montagna, dove il
problema non è certo il consumo bensì l'abbandono del
suolo», lamenta l'Unione degli enti montani in una nota.
«Bisogna privilegiare chi crea aziende, artigianali,
turistiche, agricole e genera nuovi posti di lavoro in
montagna», scrive l'Uncem.
«Costoro devono poter costruire e ampliare immobili
esistenti. Bloccare in montagna come in pianura tutti i
nuovi interventi non ha senso, in particolare per comuni ad
alta vocazione turistica dove vi possono essere investimenti
strategici capaci di portare nuovi posti di lavoro»
(articolo ItaliaOggi del 10.05.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Gli acquisti in autonomia inciampano sulle soglie.
Appalti. Le nuove regole del Codice non hanno abrogato le
vecchie.
Il nuovo
Codice degli appalti consente ai Comuni di affidare
autonomamente i lavori entro il valore di 150mila euro, ma
in sede di acquisizione del Codice identificativo gara (Cig)
gli enti scontano il dilemma della confliggenza con la
disposizione che limita la loro operatività a 40mila euro.
Il problema nasce dalla stratificazione normativa che si era
prodotta rispetto al precedente sistema di centralizzazione
degli acquisti per i Comuni non capoluogo, nell’ambito della
quale l’articolo 23-ter della legge 114/2014 ha previsto al
comma 3 che i Comuni possono procedere autonomamente per gli
acquisti di beni, servizi e lavori di valore inferiore a
40mila euro.
Questo limite determinava che, per valori superiori, gli
stessi enti dovessero utilizzare uno tra i modelli
aggregativi previsti dall’articolo 33, comma 3-bis, del Dlgs
163/2006 (tra cui le centrali di committenza organizzate su
base convenzionale): diversamente, non era possibile
acquisire il Cig presso il sistema gestito dall’Anac.
Proprio il divieto espressamente previsto dalla normativa ha
portato l’autorità a predisporre un passaggio dichiarativo,
nell’ambito del quale il Comune richiedente è tenuto a
specificare se intende procedere all’acquisizione con il
modello aggregativo (e in tal caso la stazione appaltante
deve essere uno dei soggetti indicati dall’articolo 33,
comma 3-bis del vecchio Codice) oppure nell’ambito del
limite dei 40mila euro previsto dall’articolo 23-ter della
legge 114/2014.
Con l’entrata in vigore del Dlgs 50/2016, il vecchio sistema
dei modelli aggregativi è stato sostituito dalle previsioni
dell’articolo 37, comma 4, ma soprattutto la disciplina
delle acquisizioni in forma aggregata ha chiarito (commi 1 e
4 dello stesso articolo 37) che i singoli Comuni possono
procedere autonomamente, per l’acquisizione di lavori, fino
a 150mila euro, dovendo effettuare nella fascia tra 40mila e
150mila la mini-gara con invito ad almeno cinque operatori.
Tutto nasce dalla mancata abrogazione dell’articolo 23-ter,
comma 3, della legge 114/2014, in quanto l’articolo 217 del Dlgs 50/2016, alla lettera qq) abroga del 23-ter solo i
commi 1 e 2, lasciando in vigore il terzo.
Nell’acquisire il Cig per lavori di valore superiore a
40mila euro e entro i 150mila (con procedure che possono
essere gestite autonomamente dai Comuni non capoluogo in
base alla combinazione tra l’articolo 36 e l’articolo 37,
comma 1, del nuovo Codice dei contratti) le amministrazioni
si trovano in difficoltà, poiché la “schermata” del sistema
dell’Anac prevede ancora la vecchia disciplina, che tuttavia
faceva riferimento al solo limite dei 40mila euro.
Il potenziale conflitto tra il limite dei 40mila euro per i
lavori, scritto all’articolo articolo 23-ter, comma 3, della
legge 114/2014 e la nuova disciplina dei modelli aggregativi
dell’articolo 37 del Dlgs 50/2016 è facilmente risolvibile
nell’interpretazione combinata: la soglia dei 40mila euro è
ora esplicitamente collegata all’utilizzo dell’affidamento
diretto, in base all’articolo 36, comma 2, lettera a) del
Codice, mentre i commi 1 e 4 dell’articolo 37 ampliano la
possibilità dei Comuni non capoluogo di acquisire
autonomamente i lavori (e solo questi) fino a 150mila euro.
Ne consegue la necessità di un adeguamento della schermata
del sistema Anac per l’acquisizione del Cig, considerando
peraltro che la scelta dell’opzione da parte dei Comuni non
capoluogo deve essere effettuata come dichiarazione
sostitutiva di atto di notorietà (articolo Il Sole 24 Ore del
09.05.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Albo gestori con il bollino blu.
In arrivo nuove regole per la verifica della formazione.
Razionalizzati i requisiti per i responsabili tecnici di
imprese di commercio rifiuti.
Semplificazione dei titoli professionali d'ingresso per i
responsabili tecnici di alcune imprese che gestiscono
rifiuti, con la prospettiva di dover però sottostare a un
severo regime di verifiche periodiche dell'Albo gestori
ambientali sulla propria formazione, una volta a regime la
nuova disciplina prevista dal dm Ambiente 120/2014.
La razionalizzazione dei titoli. Con
deliberazione 20.04.2016 n. 2, il Comitato nazionale dell'Albo nazionale gestori
ambientali ha stabilito, intervenendo sul precedente omonimo
provvedimento del 15.12.2010 (n. 2), che per
l'assunzione dell'incarico di responsabile tecnico nelle
imprese di intermediazione e commercio dei rifiuti è ora
sufficiente un qualsiasi diploma di scuola secondaria di
secondo grado, e questo in luogo degli specifici titoli
alternativi prima richiesti di geometra e perito,
industriale o chimico.
La novità, finalizzata ad armonizzare
gli attuali requisiti previsti per le diverse tipologie di
imprese, arriva (come ricordato dalla stessa delibera) nelle
more dell'adozione da parte del Comitato nazionale dei
provvedimenti attuativi del dm Ambiente 120/2014, decreto
che prevede un'ampia riforma su requisiti professionali e
formazione della peculiare figura che le imprese di gestione
rifiuti hanno l'onere di nominare per poter adempiere
all'obbligo di iscriversi all'Albo in base al dlgs 152/2006.
Requisiti professionali e formazione, il regime transitorio.
Fino all'emanazione delle nuove disposizioni attuative degli
articoli 12 e 13 del dm 120/2014 (il nuovo regolamento
dell'Albo gestori ambientali in vigore dal 07/09/2014)
continuano, infatti, in base all'articolo 26 dello stesso
decreto, ad applicarsi le regole dell'uscente dm 406/1998 (e
relative delibere attuative) su titoli professionali e
formazione del soggetto responsabile delle azioni dirette ad
assicurare corretta organizzazione nella gestione dei
rifiuti e vigilanza sul rispetto delle sottese norme.
Ai
sensi dell'articolo 11, comma 1, lettera a), del dm 406/1998
i requisiti di idoneità del responsabile tecnico, lo
ricordiamo, devono attualmente essere dimostrati mediante
apposite certificazioni e consistono (tra le altre) nella
«qualificazione professionale» risultante da idoneo titolo
di studio (come declinato, per le imprese di
commercio/intermediazione rifiuti, dalla citata delibera
2/2010, iscritte nella categoria 8 dell'Albo) e
dall'esperienza maturata in settori di attività afferenti o
conseguita tramite appositi corsi di formazione.
E proprio
in relazione a tali corsi con circolare 14.03.2016 n. 227
il Comitato nazionale ha confermato la validità e gli
effetti degli eventi formativi svolti in ossequio alla
delibera 16.07.1999, ma solo fino (appunto) all'adozione
dei nuovi provvedimenti dell'Albo che, in attuazione del
citato dm 120/2014, daranno il via a nuovi percorsi di
qualifica professionale.
Formazione, le nuove regole in arrivo. Il dm Ambiente
120/2014 prevede, infatti, a monte una riformulazione delle
norme sulla formazione professionale del responsabile
tecnico, riformulazione che acquisterà efficacia dalla data
di emanazione da parte dell'Albo gestori delle relative
delibere che ne disegneranno i dettagli.
Una volta a regime
la riforma, in base all'articolo 13 del dm Ambiente
120/2014, l'idoneità dovrà essere dimostrata direttamente
all'Albo con il superamento di verifiche sulla competenza
professionale sia in fase iniziale che in itinere, sulla
base di materie, contenuti, criteri e modalità di
svolgimento degli esami decisi dallo stesso Comitato
nazionale.
Dispensati da tali verifiche, secondo il tenore
dello stesso dm 120/2014, saranno solo i responsabili
tecnici coincidenti con i legali rappresentanti delle
imprese aventi provata esperienza nei settore di attività
oggetto d'iscrizione, secondo criteri comunque stabiliti
dall'Albo.
Esonerati invece, in base allo stesso dm
120/2014, dalla sola verifica iniziale saranno
esclusivamente i soggetti che già svolgono il ruolo di
responsabile tecnico alla data di entrata in vigore della
futura nuova disciplina definita dall'Albo (e non dunque
quelli che, alla stessa data, risulteranno essere solo
titolari di attestati di partecipazione a corsi svoltisi in
base alla pregressa normativa).
Gli altri requisiti (già) esigibili.
Nuove regole su formazione e titoli professionali a parte
(legati dunque alle specifiche e future delibere dell'Albo),
ai sensi dell'articolo 10, comma 4, del dm 120/2014 i
responsabili tecnici (anche se soggetti esterni) di Enti e
imprese che si iscrivono all'Albo dal 07/09/2014 devono
comunque avere i requisiti dettati dal comma 2, lettere c),
d), f) e i) dello stesso articolo, relativi sostanzialmente
al loro status civile e penale.
Tali requisiti, in parziale riforma di quelli previsti dalla
pregressa disciplina ex dm 406/1998, coincidono con
l'assenza di: interdizioni o inabilitazioni; condanne penali
passate in giudicato (anche per patteggiamento o con estinti
effetti o condonato, ma senza considerare quelle risalenti a
oltre dieci anni o oggetto di estinzione del reato) a pene
detentive per reati in materia di ambiente, salute,
edilizia, urbanistica o alla reclusione superiore a un anno
per delitti non colposi; misure preventive antimafia;
falsificazioni nei confronti dell'Albo
(articolo ItaliaOggi Sette del 09.05.2016). |
ENTI LOCALI:
Incidenti rilevati dai vigili pure se avvengono di notte.
Spetta alla polizia municipale organizzare le pattuglie di
infortunistica stradale nell'arco dell'intera giornata. In
particolare nei fine settimana è necessario garantire anche
il turno serale e notturno.
Lo ha chiarito il
Capo della
Polizia con la
circolare
26.01.2016 n. 300/A/485/16/124/62 di prot. indirizzata ai prefetti.
L'accertamento e i rilievi dei sinistri stradali
rappresentano da tempo una competenza tipica della polizia
municipale che nelle città accerta praticamente la totalità
degli incidenti. Ma non basta assicurare questo importante
servizio nelle fasce orarie ordinarie.
Per permettere alle forze di polizia dello stato di
occuparsi tempestivamente delle questioni prioritarie in
materia di ordine e sicurezza occorre che il servizio di
infortunistica comunale sia assicurato anche in orario
serale e notturno, specifica il ministero dell'interno.
Almeno durante i fine settimana.
Per questo motivo i rappresentanti governativi «avranno
cura di promuovere ogni utile iniziativa, anche di carattere
negoziale, affinché le polizie locali garantiscano, con
un'ulteriore presenza sul territorio urbano nell'arco
dell'intera giornata e in particolare in coincidenza dei
fine settimana, il proprio intervento in caso di sinistro».
Ora la palla passa ai sindaci che dovranno reperire le
risorse per finanziare questo nuovo impegno. E non sarà
facile visto che di assunzioni non se ne parla e lo
straordinario è bloccato da anni. E gli 80 euro non spettano
alla polizia locale
(articolo ItaliaOggi Sette del 09.05.2016). |
INCARICHI PROFESSIONALI: La difesa in giudizio è appalto. La singola attività di
rappresentanza legale è un servizio.
Il dlgs 50 interviene a fare chiarezza su una questione
interpretativa di lunga data.
La difesa in giudizio è un appalto di servizi. Il dlgs
50/2016 interviene su una questione interpretativa di
lunghissima data, togliendo qualsiasi ulteriore incertezza.
L'articolo 17, comma 1, lettera d), del nuovo codice dei
contratti include tra i servizi esclusi dal proprio campo
applicativo i servizi legali.
E qui non vi sarebbe alcuna novità rispetto al passato,
visto che anche ai sensi del dlgs 163/2006 e del suo
allegato IIB i servizi legali erano annoverati tra gli
«appalti esclusi».
Il nuovo codice dei contratti cambia passo, quando specifica
esattamente cosa si intenda per «servizi legali», elencando
una serie di specificazioni, tra le quali spicca quella
secondo la quale è appalto di servizi la «rappresentanza
legale di un cliente da parte di un avvocato ai sensi
dell'articolo 1 della legge 09.02.1982, n. 31, e
successive modificazioni», sia in un arbitrato, sia «in
procedimenti giudiziari dinanzi a organi giurisdizionali o
autorità pubbliche di uno stato membro dell'Unione europea o
un paese terzo o dinanzi a organi giurisdizionali o
istituzioni internazionali».
Viene, dunque, a cadere la, per altro discutibile,
interpretazione fornita da parte della giurisprudenza e, in
particolare, dal Consiglio di stato, sezione V, con la
sentenza 11.05.2012, n. 2730, secondo la quale
potrebbero essere considerati appalti di servizi solo in
presenza di un servizio strutturato in una serie di attività
legali, che non si esaurisca in un'isolata prestazione di
difesa in giudizio. Secondo tale teoria, l'isolata funzione
di difesa in giudizio sarebbe, per altro, una mera
prestazione di lavoro autonomo, che fuoriuscirebbe dalla
sfera di regolazione degli appalti.
Tale assunto del Consiglio di stato era in chiaro contrasto
con la normativa europea, che non distingue i servizi tra
prestazioni d'opera intellettuali e appalti, né si pone il
problema di qualificare l'appaltatore come tale solo se
qualificabile come «imprenditore», nozione utile solo nel
diritto interno; infatti, ai sensi della normativa europea,
è operatore economico o appaltatore anche una persona
fisica, purché essa offra servizi nel mercato aperto.
Definizione, questa, presente tanto nell'articolo 3, comma
1, lettera p), del dlgs 50/2016, quanto nell'articolo 3,
comma 1, n. 19, del dlgs 163/2006.
D'altra parte, il Consiglio di stato aveva anche ritenuto
che «l'attività di selezione del difensore dell'ente
pubblico, pur non soggiacendo all'obbligo di espletamento di
una procedura comparativa di stampo concorsuale, è soggetta
ai principi generali dell'azione amministrativa in materia
di imparzialità, trasparenza e adeguata motivazione onde
rendere possibile la decifrazione della congruità della
scelta fiduciaria posta in atto rispetto al bisogno di
difesa da appagare».
Affermazione, questa, del tutto
contraddittoria: se un affidamento è fiduciario, ovviamente
non può darsi conto della circostanza che essa derivi da una
procedura trasparente e adeguatamente motivata, perché
l'incarico fiduciario si assegna solo in ragione della
fiducia nella persona. Il che si contrappone a qualsiasi
processo motivazionale razionale, che non sia meramente accertativo appunto della fiducia riposta nella persona e
nel curriculum di questa.
Col dlgs 50/2016, comunque, questo filone interpretativo
cade del tutto, perché si stabilisce in maniera
evidentissima che anche la singola attività di
rappresentanza legale è un servizio (per quanto ciò dovesse
risultare chiaro da sempre).
A nulla vale osservare, come pure in molti sostengono, che è
possibile continuare con gli incarichi intuitu personae,
visto che si tratta di servizi esclusi dall'applicazione del
codice. Intanto, occorre evidenziare che il dlgs 50/2016
qualifica espressamente come appalto la difesa in giudizio.
Si tratta di un appalto escluso, certo; ma non nel senso che
allora si procede come si trattasse di una negoziazione tra
privati, bensì nel senso che non si devono rispettare
pedissequamente le norme di dettaglio del codice, bensì, ai
fini della gara, i principi generali indicati dall'articolo
4; in particolare economicità, efficacia, imparzialità,
parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità,
pubblicità; inconciliabili con l'affidamento fiduciario.
Esattamente come avviene per tutti gli altri contratti
esclusi, elencati dal nuovo allegato IX, che sostituisce
l'allegato IIB al dlgs 163/2006.
Nel caso in cui gli enti dovessero ricevere atti di precetto
o dovessero costituirsi in giudizio rispettando emergenze e
ristrettezze di termini processuali, un affidamento diretto
potrebbe essere ammesso, semplicemente applicando l'articolo
63, comma 2, lettera c), del codice, che lo consente quando
«per ragioni di estrema urgenza derivante da eventi
imprevedibili dall'amministrazione aggiudicatrice, i termini
per le procedure aperte o per le procedure ristrette o per
le procedure competitive con negoziazione non possono essere
rispettati»
(articolo ItaliaOggi del 06.05.2016). |
APPALTI: Alle
stazioni appaltanti ampia discrezionalità nell'imporre i
nuovi obblighi assicurativi.
Alla stazione appaltante ampia discrezionalità nell'imporre
i nuovi obblighi assicurativi. Con l'emanazione del decreto
legislativo 50/2016 si apre un nuovo ciclo anche per quanto
riguarda gli obblighi assicurativi negli appalti pubblici.
Questo per due ragioni. Cambiano le modalità di
presentazione sia di alcune garanzie fideiussorie (quella
per la risoluzione di cui all'articolo 104 è proprio una new
entry) sia della polizza per i progettisti interni (scompare
infatti l'obbligo per i verificatori).
La seconda novità non è meno importante: pur resistendo il
principio della tassatività delle cause di esclusione
(introdotto all'ultimo minuto su indispensabile spinta del
Consiglio di stato) si afferma la massima discrezionalità
della stazione appaltante per quanto concerne le garanzie
fideiussorie.
Si tratta:
• della determinazione dell'importo della garanzia
provvisoria che può variare dell'1% del prezzo base al 4%;
• della possibilità di escussione della garanzia
provvisoria, prevista solo per dolo o colpa grave;
• della verifica dei requisiti dei fideiussori sia per la
garanzia provvisoria che per quella definitiva ma anche per
la nuova di cui all'articolo 104;
• dell'integrazione dei bandi nel caso in cui il concorrente
preferisca presentare la garanzia definitiva come cauzione
(senza quindi rivolgersi a un terzo garante);
• dell'applicazione del nuovo soccorso istruttorio
sanzionato (vedi articolo 83, comma 9) in caso di mancanza o
irregolarità nella presentazione della garanzia provvisoria
(si ricorda che non è stata riportata la disposizione di cui
al vecchio comma 1-ter dell'articolo 46 del codice del
2006).
Si prevede, inoltre, che è facoltà dell'amministrazione non
richiedere una garanzia per gli appalti da eseguirsi da
operatori economici di comprovata solidità nonché per le
forniture di beni che per la loro natura, o per l'uso
speciale cui sono destinati, debbano essere acquistati nel
luogo di produzione o forniti direttamente dai produttori o
di prodotti d'arte, macchinari, strumenti e lavori di
precisione, l'esecuzione dei quali deve essere affidata a
operatori specializzati.
L'esonero dalla prestazione della garanzia deve essere
adeguatamente motivato ed è subordinato ad un miglioramento
del prezzo di aggiudicazione (articolo 103, comma 11).
Per il contraente generale si prevede che egli presti «una
volta istituita, la garanzia per la risoluzione di cui
all'articolo 104, che deve comprendere la possibilità per il
garante, in caso di fallimento o inadempienza del contraente
generale, di far subentrare nel rapporto altro soggetto
idoneo in possesso dei requisiti di contraente generale,
scelto direttamente dal garante stesso» (articolo 194, comma
18).
Altre polizze. Per quanto riguarda le altre polizze,
scomparendo l'obbligo di seguire gli schemi tipo per la
polizza dei progettisti (articolo 24, comma 4), sono a
carico delle stazioni appaltanti le polizze assicurative per
la copertura dei rischi di natura professionale a favore dei
dipendenti incaricati della progettazione. Nel caso di
affidamento della progettazione a soggetti esterni, le
polizze sono a carico dei soggetti stessi.
Se ben consigliate, le stazioni appaltanti potrebbero
includere questa copertura nelle proprie polizze già in
essere, con un notevole risparmio di denaro pubblico e di
tempo dei propri collaboratori (fermo restando che comunque
la copertura per i danni erariali, anche delle altre figure
tecniche, deve essere pagata dalla singola persona
assicurata, mai dall'ente di appartenenza).
Per quanto concerne i comuni, anche l'istituto del baratto
amministrativo (articolo 190) deve portare ad una
riflessione sulle responsabilità e quindi sulla copertura
delle persone che aderiscono.
Questo solo per dare un'idea della complessità di
interpretazione della nuova normativa, anche in campo
assicurativo
(articolo ItaliaOggi del 06.05.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
INCARICHI PROGETTUALI: Ingegneri, formazione continua rivista.
Aumentano le opzioni per il riconoscimento crediti.
Nuove regole per la formazione continua degli ingegneri. Per
ottenere l'esonero per paternità o maternità, malattia
grave, o per lavoro all'estero, le istanze devono essere
presentate entro il 31 gennaio dell'anno solare successivo a
quello di inizio del periodo di esonero. Sono riconosciuti,
poi, ai fini del conferimento di crediti formativi, i
master, i brevetti, gli stage e i tirocini.
Anche in questo caso, le istanze di riconoscimento devono
essere inviate al proprio ordine di appartenenza entro il 31
gennaio dell'anno successivo a quello in cui il corso è
terminato.
Lo ha stabilito il Consiglio nazionale degli
ingegneri con le linee di indirizzo n. 4 trasmesse agli
ordini territoriali tramite la
circolare
29.04.2016 n. 722.
Esoneri. In generale, il periodo di esonero dalla formazione
deve consistere in un numero intero di mesi ed esclude il
giorno di fine periodo. Nel caso di esoneri che si intendono
su due annualità consecutive, i 2,5 crediti previsti per
singolo mese saranno attribuiti solo per i mesi con un
numero di giorni di esonero superiore a 15. Non è possibile,
inoltre, chiedere la revoca di un esonero già concesso.
L'esonero per paternità/maternità può essere richiesto una
sola volta per singolo figlio e deve essere inferiore a 12
mesi, non è frazionabile in più periodi salvo in caso di
entrambi i genitori iscritti all'albo. L'esonero per
malattia cronica grave o assistenza a persone malate, è
concesso senza una scadenza e si intende automaticamente
rinnovato all'inizio di ogni anno fino a richiesta di revoca
da parte del professionista.
Crediti.
Sono riconosciuti i master di primo e secondo livello
universitario svolti in Italia e all'estero e per tutti i
master sono attribuiti 30 crediti alla data di superamento
dell'esame finale. Inoltre, sono concessi crediti per
brevetti sia al titolare che all'inventore, purché sia
indicato nel brevetto.
Al termine dello svolgimento di stage formativi attinenti
all'ingegneria di durata minima di tre mesi e frequenza di
almeno 20 ore settimanali, possono essere riconosciuti
cinque crediti per stage; massimo uno stage per anno solare;
nel caso di stage svolti all'estero è possibile assegnare
cinque crediti per stage di durata minima di due mesi.
Ai fini del riconoscimento dei crediti per stage e tirocini,
occorre inviare, entro il 31 gennaio dell'anno successivo in
cui si è terminato lo stage, una richiesta all'ordine con:
descrizione del tirocinio; lettera di attestazione a firma
del legale rappresentante dell'azienda che ha ospitato il
professionista; relazione del tutor assegnato
(articolo ItaliaOggi del 06.05.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI:
Il parlamento ci riprova: accordo per una legge
sui piccoli comuni.
Semplificazione amministrativa, snellimento delle procedure,
salvaguardia dei servizi postali e delle attività
scolastiche, banda ultralarga, riqualificazione dei centri
storici. E ancora, recupero di case cantoniere Anas e
stazioni ferroviarie dismesse, contrasto all'abbandono di
terreni e fabbricati. E un fondo di 100 milioni di euro per
finanziare progetti e interventi per lo sviluppo
strutturale, economico e sociale delle aree montane.
È un ricco pacchetto di interventi quello contenuto nel
progetto di legge sui piccoli comuni e la montagna (Atto
Camera n. 65) che ha
l'arduo compito di riuscire là dove nelle precedenti
legislature tutti hanno fallito, ossia dare delle norme ad
hoc alle zone più svantaggiate del paese in modo da
favorirne la sopravvivenza e la ripresa.
«Siamo a una
svolta. Dopo tre anni di lavoro, siamo finalmente giunti a
un testo base condiviso anche con il governo», ha commentato
Enrico Borghi (Pd), presidente dell'Uncem e dell'Intergruppo
parlamentare per lo sviluppo della montagna, che è anche
co-relatore del progetto di legge alla camera assieme ai
deputati Tino Iannuzzi e Antonio Misiani.
Dopo aver ottenuto l'assenso del governo, l'obiettivo dei
deputati proponenti è arrivare a una rapida approvazione del
testo. L'ok in commissione potrebbe arrivare entro la fine
di maggio e il sì di Montecitorio entro l'estate.
«Ci sono due elementi chiave sui quali abbiamo lavorato»,
spiega Borghi. «Il primo è il tema dello sviluppo: se non
creiamo le condizioni per la crescita e l'impiego delle
risorse di questi territori, non ci possono essere
prospettive di insediamento per il futuro ed è concreto il
rischio dell'assorbimento da parte delle aree metropolitane,
che offrono lavoro, cultura, servizi e innovazione in
maggiore quantità. Il secondo è il tema dei servizi: senza
assicurare certezze nel campo dei servizi di base (scuole,
servizi postali, trasporti, sanità) vengono meno i diritti
di cittadinanza» (articolo ItaliaOggi del 06.05.2016). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Contratti, incognita rinnovi. Gli enti devono accantonare
risorse ma non sanno come. Anci Piemonte suggerisce un metodo empirico: stanziare il
70% del costo dell'Ivc.
Incognita rinnovi contrattuali per gli enti locali. Al
momento mancano parametri certi per quantificare l'impatto
finanziario dei nuovi contratti, che per la prima volta dal
2010 dovrebbero tornare ad aumentare (sia pure di poco) gli
stipendi dei dipendenti. Un aiuto arriva, però, da una
recente nota dell'Anci Piemonte (nota 21.04.2016 n. 55/2016 di prot. - Oggetto. Nota
interpretativa sulla quantificazione del fondo risorse
decentrate e sull’impatto contabile dei rinnovi contrattuali).
Come noto, a seguito sentenza della Corte costituzionale n.
178/2015, la legge 208/2015 ha definito il periodo di
vigenza al triennio 2016-2018 ed ha fissato l'entità massima
dell'onere a carico dello Stato in 300 milioni annui (di cui
219 per il personale contrattualizzato). Ai sensi dell'art.
48, comma 2, del dlgs 165/2001, per gli enti locali l'onere
relativo al rinnovo è a carico dei rispettivi bilanci (comma
469). La definizione dei criteri per la determinazione del
costo a carico delle amministrazioni locali è demandato ad
un dpcm che avrebbe dovuto essere emanato entro il 31.01.2016, ma che finora non è stato emanato.
In base alle nuove regole contabili, peraltro, non è
possibile impegnare nessuna somma fino alla sottoscrizione
dei contratti, perché solo in quel momento si concretizza il
requisito dell'obbligazione giuridicamente perfezionata.
Nelle more, è però possibile (e anche opportuno) accantonare
già quest'anno le risorse necessarie, in modo da ripartirne
l'onere sui diversi esercizi. Ma come quantificarlo? In
mancanza di indicazioni ufficiali, può essere utilizzato il
metodo suggerito da una recente nota dell'Anci Piemonte.
Quest'ultima confronta lo stanziamento di 219 milioni per il
rinnovo 2016-2018 del personale statale contrattualizzato
con lo stanziamento per l'indennità di vacanza contrattuale
(Ivc) attualmente erogata allo stesso personale (art. 9,
comma, 18 lett. a), del dl 78/2010), che è pari a 313
milioni. Dunque, per lo stato il rapporto percentuale tra il
costo preventivato per il nuovo contratto e il costo
sostenuto per l'Ivc è pari al 70%.
Lo stesso rapporto
percentuale si può ritenere che, grosso modo, valga anche
per gli enti locali che per il rinnovo contrattuale
sosterranno un costo coerente con quanto stabilito per lo
Stato ed erogano ai propri dipendenti l'Ivc nella stessa
misura fissata nel 2010 per i dipendenti statali, applicando
le tabelle di conversione elaborate dal Mef. In sostanza,
secondo Anci Piemonte, si può ritenere con buona
approssimazione che per ciascun ente lo stanziamento annuo
necessario per finanziare il rinnovo sia pari a circa il 70%
del costo (certo e conosciuto) che l'ente stesso sostiene
per erogare ai suoi dipendenti l'Ivc.
La stessa nota evidenzia, peraltro, due ulteriori problemi.
In primo luogo, se si dovesse consolidare la tesi già
sostenuta dalle sentenze di alcuni tribunali del lavoro
(Reggio Emilia n. 51/2016 e Parma n. 114/2016) che hanno
riconosciuto ai dipendenti pubblici il diritto al rinnovo
contrattuale dal 30.07.2015, occorrerà reperire
ulteriori risorse necessarie per coprire il periodo in
questione.
In secondo luogo, il nuovo modo di contabilizzare gli oneri
per i rinnovi farà registrare nell'anno del rinnovo un
incremento delle spese di personale impegnate, creando
difficoltà nel rispetto il pareggio di bilancio e di alcuni
parametri di virtuosità imposti alla spesa di personale
(articolo ItaliaOggi del 06.05.2016). |
APPALTI SERVIZI:
Spl, in house e gestione diretta vanno
considerati l'ultima spiaggia.
Prevedere l'affidamento in house o la gestione diretta dei
servizi pubblici locali come «ultima spiaggia», da
utilizzare nei soli casi in cui non sia possibile il ricorso
al mercato.
È quanto il Consiglio di Stato, Commissione speciale, suggerisce al governo nel
parere
03.05.2016 n. 1075, (Schema di decreto
legislativo recante: “Testo unico sui servizi pubblici
locali di interesse economico generale”), con il quale i giudici di palazzo Spada
hanno elencato i punti sui quali lo schema di decreto
legislativo di riforma della materia in attuazione della
legge Madia necessita di una messa a punto.
In base al testo
predisposto dall'esecutivo, le p.a. possono utilizzare
quattro differenti forme di gestione:
1) affidamento mediante procedura di evidenza pubblica
secondo le disposizioni in materia di contratti pubblici;
2) affidamento a società mista il cui socio sia scelto con
procedura di evidenza pubblica in ossequio alla disciplina
comunitaria e a quella contenuta nel decreto delegato sulle
società partecipate di cui all'art. 18, legge 124/2015;
3) affidamento in house nel rispetto della disciplina
comunitaria e di quella in materia di contratti pubblici e
di società partecipate;
4) nel caso di servizi diversi da quelli a rete, gestione in
economia o mediante azienda speciale.
La scelta deve indicare le motivazioni che fanno propendere
per una delle tipologie sopra specificate. Ebbene, il Cds
propone di prevedere che il provvedimento debba motivare
progressivamente in ordine all'impossibilità di utilizzare
lo strumento dell'affidamento mediante procedura di evidenza
pubblica, ovvero quello di affidamento a società mista o
ancora quello di affidamento in house, secondo una logica di
preferenza via via decrescente, che metta in luce le ragioni
che conducono ad un'eventuale limitazione del ricorso al
mercato.
Qualora l'amministrazione scelga di non ricorrere
al mercato ovvero di utilizzare il modello dell'affidamento
in house, o quello della gestione diretta, questa dovrà
indicare le ragioni per le quali il ricorso al mercato
comparativamente non sia vantaggioso. L'impossibilità di
ricorso al mercato deve essere valutata anche alla luce di
suddividere in lotti il servizio, in modo tale da consentire
l'attività di più imprese. In caso di mancato ricorso al
mercato, inoltre, il provvedimento dovrà essere sottoposto
alle valutazioni dell'Antitrust, dinanzi alla quale può
aprirsi un contraddittorio.
Al riguardo, il Cds sollecita
un'ulteriore modifica per ribadire che il contraddittorio
con l'Antitrust non esclude che quest'ultima possa
utilizzare il potere normato dall'art. 21-bis, legge
287/1990, in modo da non dare adito a dubbi in ordine al
fatto che l'intervento dell'Autorità possa verificarsi anche
a valle del provvedimento adottato dall'amministrazione
(articolo ItaliaOggi del 06.05.2016). |
APPALTI:
Acquisti centralizzati, dall'Anci le linee guida
per i municipi.
Dal 9 agosto i comuni dovranno obbligatoriamente fare
ricorso alle procedure di acquisto centralizzato tramite
soggetti aggregatori (Consip, città metropolitane, regioni)
se il fabbisogno annuo per le categorie merceologiche di
interesse è superiore alle soglie previste dal dpcm 24.12.2015 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 9
febbraio e in vigore appunto dal 09.08.2016).
Per i
servizi di vigilanza e guardiania, ad esempio, si dovrà far
ricorso agli acquisti centralizzati se il fabbisogno annuo
supera i 40 mila euro. Mentre per la pulizia e manutenzione
di immobili e la manutenzione degli impianti non si dovrà
superare la soglia comunitaria (209 mila euro).
A richiamare l'attenzione delle amministrazioni sulle nuove
modalità d'acquisto centralizzato, anche a seguito
dell'entrata in vigore del nuovo Codice appalti (dlgs
n. 50/2016) è l'Anci che ha messo a punto una
nota informativa (maggio 2016)
per fare chiarezza sul groviglio di regole in
materia. A cominciare proprio dal citato dpcm, attuativo del
dl 66/2014, che chiamerà gli enti a una ricognizione dei
fabbisogni annui di beni e servizi per verificare che non
superino le soglie indicate nel provvedimento.
Per energia elettrica, gas, carburanti, combustibili per
riscaldamento e telefonia, valgono invece regole diverse.
Per queste categorie merceologiche, ricorda l'Anci, vi è
l'obbligo di approvvigionarsi attraverso convenzioni o
accordi quadro, ma è fatta salva la possibilità di far
ricorso agli affidamenti a condizione che si realizzino
risparmi di almeno il 10% per la telefonia fissa e mobile e
del 3% per le altre categorie, rispetto ai prezzi praticati
da Consip e dalle centrali di committenza regionali.
Per i
beni e i servizi informatici si potrà derogare alle centrali
di committenza su autorizzazione del segretario/direttore
generale dell'ente e solo per «casi di necessità ed urgenza
funzionali ad assicurare la continuità della gestione
amministrativa»
(articolo ItaliaOggi del 06.05.2016). |
TRIBUTI: Terreni incolti con esonero Imu. Niente prelievo in montagna
- In pianura beneficio solo per coltivatori diretti e Iap.
Tributi locali. La risposta del Mef in commissione Finanze
alla Camera: per aree non coltivate e orti valgono le regole
generali.
I terreni
incolti e gli orti rientrano nel novero dei « terreni
agricoli», e quindi seguono le stesse regole dell’esenzione Imu, riscritte per l’ennesima volta dall’ultima legge di
Stabilità (comma 13 della legge 208/2015).
Suonano così le
indicazioni fornite ieri dal viceministro all’Economia
Enrico Zanetti nel corso del question-time in commissione
Finanze alla Camera (INTERROGAZIONE
A RISPOSTA IMMEDIATA IN COMMISSIONE 5/08570), in
risposta a Gian Mario Fragomeli (Pd) che chiedeva lumi sul
destino fiscale dei «terreni non condotti da imprenditori
agricoli, come quelli incolti e gli orti». Quando si parla
di Imu agricola, però, l’intreccio delle regole è ormai
inestricabile, e anche le indicazioni arrivate dall’Economia
si muovono con cautela tra le tante variabili e hanno
bisogno del solito sforzo interpretativo.
Per capire i termini del problema non si può evitare di
addentrarsi nello slalom fra le norme. L’ultima manovra, nel
tentativo di rimediare al pasticcio creato nel 2014 e ancora
sotto esame alla Corte costituzionale dopo un dibattito
infinito al Tar del Lazio, ha riesumato la circolare del
1993 per distinguere i Comuni montani da quelli
«parzialmente montani» e dai pianeggianti, assicurando
l’esenzione Imu a tutti i terreni montani e, in pianura, a
quelli «posseduti e condotti dai coltivatori diretti e dagli
imprenditori agricoli professionali».
Il panorama fiscale,
quindi, prevede in sintesi queste tre situazioni: nei Comuni
montani sono esenti tutti i terreni, nei Comuni
«parzialmente montani» l’esenzione è riservata ai terreni
inclusi sempre nella circolare del 1993, e in pianura l’Imu
evita tutti i terreni posseduti e condotti da coltivatori
diretti e imprenditori agricoli professionali.
Su queste basi, l’interrogazione ha chiesto di capire il
trattamento fiscale previsto per i «terreni non condotti da
imprenditori agricoli, come quelli incolti e gli orti», ma
la risposta ministeriale si è avventurata in una
ricostruzione più ampia. Accanto alla legge di Stabilità, il
punto di partenza richiamato da Zanetti è una sentenza di
Cassazione (la 7369/2012, riferita all’Ici ma ritenuta dal
ministero applicabile anche all’Imu), in cui si dice in
pratica che per essere definito «agricolo» è sufficiente che
il terreno sia «suscettibile di essere destinato a tale
utilizzo», mentre non è indispensabile «l’effettivo
esercizio» dell’attività agricola. Di conseguenza, chiude la
risposta ministeriale, terreni incolti e gli orti «devono
essere considerati nel novero dei terreni agricoli, e sono
esclusi dall’applicazione dell’Imu nei termini declinati dal
comma 13» dell’ultima manovra.
Se questa è la situazione, il caleidoscopio dell’Imu sui
terreni muta ancora, e contempla un’altra esenzione: nei
Comuni montani, l’Imu evita tutti gli orti e i terreni
incolti, nei Comuni di pianura invece l’esenzione è limitata
ai terreni dei coltivatori diretti e degli imprenditori
agricoli professionali. Ergo: i terreni incolti e gli orti
di proprietari che non hanno la qualifica di coltivatore
diretto o di Iap continuano a pagare. In questo senso,
infatti, andrebbe intesa la precisazione finale secondo cui
anche negli orti e nei terreni incolti l’esenzione funziona
«nei termini declinati dal comma 13» dell’ultima legge di
Stabilità.
Le indicazioni dell’Economia non fanno piacere ai Comuni,
che sull’Imu dei terreni incolti hanno da tempo ingaggiato
una battaglia interpretativa con l’amministrazione
finanziaria. L’Ifel, in particolare, nel 2012 aveva
sostenuto l’imponibilità di tutti i terreni incolti, anche
in montagna, sulla base di un orientamento opposto rispetto
a quello poi indicato dalla Cassazione richiamata ora dal
Governo: in quello stesso 2012, con la circolare 3 del
dipartimento Finanze, il ministero aveva escluso
dall’imposta i terreni incolti collinari e montani, e con la
risposta di ieri il beneficio scende in pianura, ma solo per
una parte dei proprietari.
Questa moltiplicazione delle
“fonti” e la scarsa fondatezza logica di alcune di queste
distinzioni mostrano che servirebbe una regola chiara e
definitiva (articolo Il Sole 24 Ore del
05.05.2016). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Ddl consumo suolo, si cerca deroga salva-costruzioni.
Ambiente. Verso il via libera in prima lettura alla Camera:
in arrivo un emendamento per ampliare le eccezioni alla
nuova disciplina.
Sarà
sufficiente, per mettersi al riparo, avere presentato
un’istanza per l’approvazione del proprio intervento di
costruzione prima dell’entrata in vigore della legge.
È con
questa deroga, al voto con ogni probabilità giovedì
prossimo, che la maggioranza prova a chiudere la polemica
con i Comuni e a mandare in porto il Ddl sul consumo di
suolo
(Atto
Camera n. 2039), in prima lettura alla Camera. L’aula di Montecitorio,
nel corso di una mattinata di discussione, ieri ha
completato il voto su dieci degli undici articoli del testo.
Anche se tra gli operatori, Comuni in testa, restano forti
dubbi sui troppi vincoli posti dalle nuove norme.
Insomma, siamo alle battute decisive. Così, il ministro
dell’Ambiente, Gian Luca Galletti auspica: «Mi auguro si
possa tagliare al più presto alla Camera e poi rapidamente
nella lettura al Senato un traguardo straordinariamente
importante per il nostro Paese». All’appello adesso mancano
solo le correzioni sull’articolo 11, relativo alla fase
transitoria, il tassello più contestato del provvedimento.
Qui i relatori (Chiara Braga e Massimo Fiorio, entrambi del
Pd) hanno in programma di inserire solo una modifica.
Saranno, così, fatti salvi gli interventi per i quali «i
soggetti interessati abbiano presentato istanza per
l’approvazione prima della data di entrata in vigore» della
legge.
In questo modo, secondo quanto spiega proprio la
responsabile Ambiente del Pd, Chiara Braga, «abbiamo
risposto alle osservazioni che ci erano arrivate dall’Anci
sul rischio di ricorsi e contenziosi con operatori che
avevano già acquisito delle aree. La riformulazione fa salvi
gli interventi su cui è stata già presentata un’istanza». Ma
non solo. Si stabilisce anche che tutte le opere pubbliche o
di pubblica utilità sono consentite, «previa obbligatoria
valutazione» delle alternative di localizzazione che non
determinino consumo di suolo. Insomma, arrivano forti
aperture. «Mi sembra –spiega Fiorio- che siano state
appianate le divergenze delle scorse settimane, andando
incontro alle richieste che ci erano arrivate. Non si può
certo dire che questa legge blocca l’edificazione».
Stefano Lo Russo, assessore all’Urbanistica di Torino e
presidente della commissione Urbanistica dell’Anci è
d’accordo: «Siamo contenti che siano state recepite le
nostre richieste, la vecchia impostazione avrebbe prodotto
un blocco e un contenzioso a cascata». Anche se tiene a
precisare che «noi avremmo preferito un’impostazione
diversa, nella quale dare maggiore peso al tema della
rigenerazione, partendo dal basso e dalla necessità di
semplificazioni amministrative, premialità e incentivi
fiscali». Insomma, il testo che uscirà dalla Camera potrebbe
creare troppi vincoli.
Tornando alle modifiche votate ieri, quella principale è
arrivata in seguito a una proposta della maggioranza Pd.
Stabilisce che «allo scopo di favorire la sicurezza e
l’efficienza energetica del patrimonio edilizio esistente,
per gli edifici residenziali in classe energetica E, F o G,
o inadeguati dal punto di vista sismico o del rischio
idrogeologico», sono consentiti interventi di
demolizione con ricostruzione, all’interno della stessa
proprietà. Questi interventi, che dovranno portare a una
prestazione energetica di classe A o superiore, potranno
beneficiare di uno sconto sugli oneri da versare per il
permesso di costruire. Saranno le Regioni a dover
quantificare questo bonus. Un emendamento che fa il paio con
un’altra modifica, che istituisce uno sconto anche per gli
interventi di recupero.
In caso di ristrutturazioni, «i Comuni provvedono a
modulare la determinazione dei costi di costruzione in modo
da garantire un regime di favore». Insomma, gli sconti
sui costi di costruzione potranno essere applicati anche
alle ristrutturazioni (articolo Il Sole 24 Ore del
05.05.2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Privacy con regole europee.
Provvedimento in guue, ora due anni di tempo.
L'Ue ha il suo regolamento per la privacy, unico per tutti
gli stati dell'Unione.
È stato pubblicato sulla Gazzetta
Ufficiale dell'Unione Europea del 04.05.2016 il
Regolamento (Ue) 2016/679 del parlamento europeo e del
consiglio del 27.04.2016.
Tra le novità: l'obbligo di nomina del responsabile della
protezione dei dati (data protection officer), nuove misure
di sicurezza (valutazione di impatto privacy) e nuovi
diritti per le persone (oblio, portabilità dei dati).
Il provvedimento entra formalmente in vigore il ventesimo
giorno dalla pubblicazione, ma si apre ora una finestra di
due anni per prepararsi all'applicazione. L'articolo 99 del
provvedimento prevede, infatti, l'inizio della decorrenza
effettiva a partire dal 25.05.2018. Sembra un termine
molto lungo, ma in realtà c'è molto da fare, soprattutto per
le imprese, le pubbliche amministrazioni e professionisti,
per il legislatore e il garante.
In questo biennio bisogna
verificare lo stato della nostra legislazione e dei
provvedimenti del garante, per verificare quali
continueranno e in che misura a rimanere in piedi in un
contesto totalmente cambiato. I due anni di vacatio
serviranno a testare il grado di uniformità della
legislazione e della normativa italiana ai parametri del
regolamento e, soprattutto, per il garante per dare
indirizzi su come comportarsi. Quanto a aziende, enti
pubblici e professionisti il tempo a disposizione deve
essere messo a disposizione per misurare il grado di
conformità agli standard, ormai, europei.
Il regolamento
impone, infatti, nuovi adempimenti, da conoscere e attuare.
Si pensi alla nomina del responsabile della protezione dei
dati, obbligatoria per enti pubblici e soggetti privati che
trattano dati su larga scala, e alla analisi dei rischi e
valutazione di impatto privacy (nuovi adempimenti in materia
di sicurezza). Altri adempimenti portati dal regolamento
riguardano la tenuta dei registri del trattamento e l'uso di
applicazioni e sistemi che hanno la tutela della privacy
come impostazione predefinita (privacy by default).
Il regolamento rafforza, poi, la protezione dei dati delle
persone fisiche, codificando ed estendendo il diritto
all'oblio e alla portabilità dei dati e alla opposizione e
alla tutela dei minori in rete. Insieme al regolamento è
stato pubblicata anche la direttiva che regola i trattamenti
di dati personali nei settori di prevenzione, contrasto e
repressione dei crimini. La direttiva è vigente da oggi,
05.05.2016, gli stati membri hanno tempo due anni per
recepire le disposizioni nel diritto nazionale.
Secondo Antonello Soro, presidente del garante «il
regolamento porta grandi novità sul piano della tutela dei
diritti e degli strumenti previsti per responsabilizzare
maggiormente le imprese stabilendo, al contempo,
significative semplificazioni»
(articolo ItaliaOggi del 05.05.2016). |
TRIBUTI: Terreni incolti senza Imu. Anche orti e orticelli non pagano
l'imposta. Il chiarimento dell'Economia fornito al question-time alla
Camera.
Terreni incolti, orti e orticelli esenti da Imu, alla stessa
stregua di quelli posseduti e condotti da coltivatori
diretti e imprenditori agricoli professionali (Iap). Non
conta, infatti, l'effettivo esercizio delle attività
agricole su di essi, ma la potenzialità agricola degli
stessi.
Questa la risposta fornita, nell'ambito della VI Commissione
finanze della camera, dal sottosegretario all'Economia Pier
Paolo Baretta al quesito proposto da Fragomeli e altri (INTERROGAZIONE
A RISPOSTA IMMEDIATA IN COMMISSIONE 5/08570), sul
tema dell'esenzione dall'applicazione dell'imposta
municipale, dopo l'intervento del legislatore avvenuto con
il comma 13, dell'art. 1, legge 208/2015 (Stabilità 2016),
stante il rischio che la stessa non potesse essere applicata
ai terreni posseduti da contribuenti «non» imprenditori
agricoli.
Dal 1° gennaio scorso, infatti, grazie alle disposizioni
appena richiamate, sono esenti dall'imposta municipale
propria (Imu), i terreni agricoli posseduti e condotti dai
coltivatori diretti e dagli imprenditori agricoli
professionali, se iscritti nella relativa previdenza
agricola, i terreni ubicati nei comuni delle isole minori
(all. «A», legge 448/2001) e i terreni a immutabile
destinazione agro-silvo-pastorale a proprietà collettiva
indivisibile e inusucapibile.
In effetti, l'esenzione appena indicata, di cui alla lettera
h), comma 1, art. 7, dlgs 504/1992, come richiamato dalla
disciplina dell'imposta municipale propria (Imu), a
decorrere dal 2016 si applica sulla base dei principi
indicati nella circolare 14/06/1993 n. 9 del ministero delle
finanze.
L'esenzione appena citata opera per tutti i terreni agricoli
posseduti da coltivatori diretti e Iap, ovunque ubicati,
mentre, sino al 2015, l'esenzione era limitata ai terreni
ubicati nelle zone montane e parzialmente montane, con la
conseguente abrogazione della misura ridotta del
moltiplicatore (75) e della franchigia (comma 8-bis, art.
13, dl 201/2011).
Sul tema è stata posta la questione se, in conformità a
quanto previsto dalla legge di Stabilità 2016, a decorrere
dal 2016, dovessero restare esclusi dal tributo anche i
terreni «non» propriamente agricoli (o meglio non utilizzati
per le dette attività), come quelli incolti e gli orti,
posseduti anche da soggetti diversi, rispetto ai tipici
imprenditori agricoli.
L'amministrazione finanziaria, ricordando i contenuti appena
esplicitati delle disposizioni introdotte dalla legge
208/2015 e, soprattutto, richiamando una recente
affermazione dei giudici supremi (Cassazione, sentenza n.
7369/2012), ancorché riferibile all'imposta comunale sugli
immobili (Ici), ha precisato che i terreni incolti e gli
orti debbano essere considerati nel novero dei terreni
agricoli, con l'estensione agli stessi dell'esenzione
prescritta, in ossequio a quanto indicato dal citato comma
13, dell'art. 1, legge di Stabilità 2016.
Infatti, ancorché la citata sentenza sia riferibile ad altro
tributo locale (Ici) e non all'imposta municipale propria (Imu),
è evidente che le definizioni utilizzate per il previgente
tributo locale siano ancora valide per il nuovo tributo
locale, tenuto conto che il presupposto per l'applicazione è
il mero possesso di immobili sul territorio nazionale.
La Cassazione, nella sentenza richiamata, aveva affermato
che, per terreno agricolo, si dovesse intendere quello
«adibito all'esercizio delle attività indicate nell'art.
2135 del codice civile» e che detta indicazione, in
conformità alle disposizioni contenute negli articoli 3 e 53
della carta costituzionale, debba essere intesa anche con
riferimento a tutti i terreni suscettibili di essere
destinati a detto utilizzo (agricolo) e non soltanto in
dipendenza dell'effettivo esercizio delle citate attività
agricole su detti fondi
(articolo ItaliaOggi del 05.05.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Senza Durc stop ai lavori edili.
Regolarità contributiva. Il ministero del Lavoro risponde a
un interpello del Consiglio nazionale ingegneri.
Se non c’è il Durc si fermano i lavori edili nel condominio.
Questa, in sintesi,
la risposta all'interpello
21.03.2016 n. 1/2016 in materia di
sicurezza sul lavoro fornito dalla commissione istituita
presso il ministero del Lavoro.
Il Consiglio nazionale degli ingegneri ha chiesto di
conoscere la corretta interpretazione dell’articolo 90,
commi 9 e 10, del decreto legislativo 81/2008, anche alla
luce delle novità in materia di documento unico di
regolarità contributiva contenute nel Dm del 30.01.2015
(il Durc on-line). La norma stabilisce tra l’altro gli
obblighi in capo al committente o al responsabile dei
lavori, nel caso di lavori privati in edilizia, quali ad
esempio una ristrutturazione condominiale.
I chiarimenti forniti dalla Commissione consentono di
tracciare una guida chiara per gli amministratori che
appaltino dei lavori edili nel condominio. Vediamo gli
obblighi e le eventuali sanzioni. Per prima cosa
l’amministratore del condominio verifica l’idoneità
tecnico-professionale delle imprese affidatarie, delle
imprese esecutrici e dei lavoratori autonomi acquisendo:
-
certificato di iscrizione alla Camera di commercio;
-
Durc;
-
autocertificazione in ordine al possesso dei requisiti
indicati nell’allegato XVII al Testo unico.
Attualmente, l’amministrazione acquisisce direttamente il
Durc e pertanto non è compito del committente inviarlo
unitamente alla Dia. È assolutamente necessario, tuttavia,
che la regolarità delle imprese che eseguono i lavori edili
sia preventivamente verificata. Soprattutto perché, nel caso
in cui l’impresa o il lavoratore autonomo che realizzano i
lavori non posseggano il Durc (o meglio, non siano regolari
nei confronti di Inps, Inail e Cassa edile, perché di per sé
il Durc non può essere emesso nel caso di irregolarità), l’efficacia del titolo abilitativo viene sospesa.
Gli uffici comunali, acquisito direttamente il documento,
ove non vi sia la regolarità contributiva, imporranno lo
stop ai lavori. E lo stesso effetto potrebbe verificarsi nel
caso di sopralluogo degli organi di vigilanza (si pensi per
esempio alle verifiche degli ispettori del lavoro o a un
accertamento congiunto Inail-Inps-Direzione provinciale
lavoro e servizi ispettivi delle Asl).
La Commissione ricorda che lo stop ai lavori può far seguito
anche a un accertamento ispettivo nel corso del quale emerga
l’assenza della regolarità contributiva per un’impresa
presente in cantiere: in tal caso, infatti, è obbligo
dell’organo vigilante comunicare agli uffici comunali quanto
riscontrato al fine della sospensione del titolo
abilitativo.
Anche in questo caso, evidentemente, è necessario che
l’amministratore presti la necessaria attenzione al fine di
evitare sgradite sorprese: in particolare, ovviamente,
dovranno accedere al cantiere soltanto le imprese segnalate
al Comune e di cui si è preventivamente accertata la
regolarità contributiva (articolo Il Sole 24 Ore del
03.05.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Archiviazione.
Catasto interamente digitale.
Addio alla carta e spazio al digitale. Da ieri l'Agenzia
delle entrate interrompe l'archiviazione cartacea degli atti
di aggiornamento catastale a favore di quella informatica
nell'ambito del Sistema di Conservazione dei Documenti
digitali SCD.
Una novità che attua quanto previsto dal nuovo
Codice dell'amministrazione digitale e che porterà vantaggi
sia per l'Agenzia sia per le categorie professionali e i
cittadini, in un'ottica di trasparenza, efficienza e spending review.
Dal 01.06.2015, la trasmissione
telematica degli atti di aggiornamento catastale Pregeo e
Docfa è stata resa obbligatoria per i tecnici
professionisti.
Da ieri, per il catasto terreni, sono
conservati digitalmente gli atti di aggiornamento redatti
con la procedura Pregeo, insieme all'eventuale
documentazione integrativa, nonché gli attestati di
approvazione e di annullamento degli stessi, firmati
digitalmente.
Per gli atti del catasto fabbricati, redatti
con la procedura Docfa, la conservazione digitale viene,
invece, effettuata direttamente dalle applicazioni
informatiche
(articolo ItaliaOggi del 03.05.2016). |
ENTI
LOCALI: Partecipate, tagli più soft. Anci: soglia minima di
fatturato a 500 mila. Molte le proposte di modifica al dlgs pronto per l'esame del
senato.
Abbassare da 1 milione a 500 mila euro la soglia di
fatturato minimo dell'ultimo triennio al di sotto della
quale scatta la procedura obbligatoria di razionalizzazione
delle partecipate pubbliche. In modo da tutelare le società
operanti in territori svantaggiati, come quelli dei piccoli
comuni, dove, pur avendo il bilancio in attivo, è difficile
realizzare fatturati a sette cifre.
Niente invio preventivo alla Corte conti delle delibere con
cui l'ente pubblico decide di costituire una società o di
mantenere una partecipazione. Si tratterebbe infatti di un
ripristino dei controlli preventivi di legittimità sugli
atti da parte di un organo esterno, spazzati via dalla
riforma del Titolo V. E ancora, sarebbe necessario
introdurre una clausola di salvaguardia che tuteli i
privati, soci degli enti pubblici in società miste, vista
l'impossibilità di modificare unilateralmente le condizioni
contrattuali già sottoscritte. Infine, il dpcm che definirà
il numero dei componenti dei cda dovrà prima passare dalla
Conferenza unificata per il necessario parere.
Sono alcuni dei rilievi mossi dall'Anci sullo schema di
decreto legislativo che introduce il Testo unico sulle
partecipate pubbliche in attuazione della legge delega Madia
(n. 124/2015).
Il provvedimento, dopo il via libera (pur tra innumerevoli
richieste di modifica) del Consiglio di stato, arrivato il
21 aprile scorso, è stato subito trasmesso a palazzo Madama
per l'esame in commissione. Che si annuncia complesso, vista
la lunga lista di correzioni richieste da più parti. Anche
l'Anci ha dato il suo contributo con un documento e un
pacchetto di emendamenti. Al cui accoglimento l'Associazione
dei comuni subordina il parere favorevole al testo.
Tra le modifiche ritenute irrinunciabili c'è soprattutto
quella relativa al ruolo di controllo della Corte conti.
All'Anci, come detto, non piace l'obbligo di inviare la
delibera di costituzione (o del mantenimento di una
partecipazione) di una società pubblica alla sezione
regionale della magistratura contabile per gli opportuni
rilievi su cui i giudici dovranno esprimersi in 30 giorni.
Per l'Associazione guidata da Piero Fassino tale procedura,
«oltre a reintrodurre un controllo preventivo di legittimità
sugli atti da parte di un organo esterno, non risulta
coerente con gli obiettivi di semplificazione del decreto».
L'Anci chiede correttivi anche sulla disposizione che
esclude dal campo di applicazione del T.u. le partecipate
dalle società quotate, a meno che le stesse non siano anche
controllate o partecipate da amministrazioni pubbliche. Un
distinguo che secondo l'Anci «non appare condivisibile» e
«genera perplessità».
In materia di personale, infine, là dove si prevede una
corsia preferenziale per i dipendenti delle partecipate nel
fare ritorno negli enti titolari della partecipazione, i
sindaci chiedono che tali processi di reinternalizzazione
siano compatibili con la programmazione del fabbisogno di
ciascuna amministrazione. Inoltre, dovranno essere
individuate modalità non onerose per il ricongiungimento
delle posizioni previdenziali del personale interessato dai
processi di reinternalizzazione
(articolo ItaliaOggi del 03.05.2016). |
GIURISPRUDENZA |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Oscurato sul sito web il nome dell’invalido.
Privacy. Sentenza in un ufficio giudiziario.
Viola la
privacy la pubblicazione sul sito web di un ufficio
giudiziario della sentenza con i dati sulla salute del
ricorrente.
La Corte di Cassazione (Sez. I civile, sentenza 20.05.2016 n. 10510) accoglie il ricorso di
un pensionato che contestava l’illegittima divulgazione
delle notizie sensibili, contenute in una sentenza relativa
ad un ricorso in materia pensionistica, pubblicata sulla
banca dati, nel sito web della Corte dei conti.
La Suprema
corte ricorda che l’articolo 52 del Dlgs 196/2003 che
disciplina la diffusione delle sentenze o dei provvedimenti
giurisdizionali, finalizzata all’informazione giuridica,
prevede la possibilità per l’interessato di depositare una
domanda in cancelleria con la quale chiede, per motivi
legittimi, di non indicare le generalità riportate nel
provvedimento. Nel settore civile poi vanno omessi in
automatico, a prescindere da specifiche richieste, tutti i
dati che consentono di identificare, anche attraverso
informazioni sui terzi, i minori o le parti nei procedimenti
in materia di famiglia e stato di persone.
C’è poi l’articolo 22 del Codice Privacy che afferma un
principio generale: i dati sensibilissimi, e soprattutto
quelli relativi alla salute, non vanno diffusi.
Un’indicazione che non sembra ammettere eccezioni e supera
il punto di equilibrio dell’articolo 52 tra gli interessi
della persona alla privacy, di sicura rilevanza
costituzionale e quelli altrettanto importanti all’integrale
pubblicazione dei provvedimenti giurisdizionali a scopo
informativo.
La Suprema corte cita l’autorizzazione n.7/2008 al
trattamento dei dati a carattere giudiziario da parte dei
soggetti pubblici del Garante della Privacy nella quale si
mette in evidenza la necessità di favorire l’attività di
documentazione, studio e ricerca in campo giuridico, ma
anche quella di ridurre al minimo i rischi che tali
trattamenti potrebbero comportare per i diritti, le libertà
fondamentali e la dignità della persona. Per questo ai fini
giuridici devono essere trattati solo i dati essenziali.
L’Authority è tornata sul tema con le linee guida (2010)
precisando che esiste, anche per i soggetti pubblici, un
divieto di diffondere i dati che possono rivelare lo stato
di salute. Una salvaguardia dei diritti che deve essere
garantita attraverso un oscuramento delle generalità.
Operazione che non pregiudica la finalità dell’informazione
giuridica ed è necessaria per bilanciare i diversi interessi
in gioco, assicurando anche la riservatezza dei soggetti
coinvolti (articolo Il Sole 24 Ore del
21.05.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Distanze tra edifici, la «prevenzione» vince il regolamento
edilizio.
Sezioni unite. Bocciata l’incompatibilità.
Non vi è alcun
motivo di negare a chi costruisce per primo, anche in
presenza di norme dei regolamenti edilizi che fissino
distanze tra le costruzioni diverse da quelle stabilite dal
Codice civile, la possibilità di avvalersi delle facoltà
connesse al principio della “prevenzione”. Cioè di decidere
se costruire sul confine o a distanza dal confine stesso.
Questo, anche se i regolamenti locali prevedano solo una
distanza tra costruzioni maggiore da quella stabilità dal
Codice civile senza però stabilire espressamente anche una
distanza minima dal confine.
Questo il principio fissato dalle Sezioni Unite civili della
Corte di Cassazione con la
sentenza
19.05.2016 n. 10318 per porre fine al contrasto
esistente tra varie sentenze in merito alla incompatibilità,
o meno, del principio della prevenzione con la disciplina
delle distanze.
La rilevanza del caso consiste nel fatto che chi costruisce
per primo, ovviamente, potendo decidere dove costruire (sul
confine o no) finisce per condizionare le possibilità di
costruire del vicino, il quale a seconda della scelta
operata dal “primo arrivato” si troverà costretto a decidere
tra: costruire in aderenza (articolo 877 del Codice civile),
chiedere la comunione forzosa del muro sul confine (articolo
874) oppure costruire arretrando il suo edificio in misura
pari all’intero «distacco legale».
Il caso esaminato della Sezioni Unite nasceva dalla domanda
di arretramento proposta da un proprietario nei confronti
del fabbricato del confinante in quanto non rispettoso dei
limiti di distanza tra edifici fissati dalla legge 765/1967.
La sentenza del Tribunale di Nola stabiliva che si debba
applicare non il termine sulla distanza indicato dalla legge
765/1967 ma quello di otto metri previsto viceversa dal
regolamento edilizio del Comune (in questo caso quello di
Ottaviano).
La Corte d’appello di Napoli riteneva invece che a dover
essere arretrato fosse l’edificio del proprietario che aveva
avviato la causa in quanto, come era risultato dalla
istruttoria del procedimento, era stato costruito “per
secondo”. Ma la vicenda andava avanti (ormai sono passati 26
anni!) sino in Cassazione, per poi ritornarvi in quanto il
ricorrente sosteneva, appunto, l’inapplicabilità del
principio della prevenzione in presenza di norme
regolamentari che imponevano distanze differenti da quelle
previste dal Codice civile. Così la vicenda veniva
affrontata per la seconda volta dalla Cassazione, dove la
Sezione II investiva della faccenda le Sezioni unite,
ravvisando un contrasto interno alla stessa Sezione
Le Sezioni Unite hanno così chiarito come non vi sia alcuna
incompatibilità del principio di prevenzione con la
disciplina delle distanze di cui alla legge 765/1967
(articolo Il Sole 24 Ore del
20.05.2016).
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MASSIMA
1) Con il primo motivo i ricorrenti denunciano la
violazione e
falsa applicazione degli arti. 873 e 875 cod. civ., nonché
dell'art.
26 del regolamento edilizio del comune di Ottaviano.
Deducono
che la Corte di Appello, dopo aver correttamente ritenuto
l'applicabilità della norma di cui all'art. 26 del
regolamento
edilizio del Comune di Ottaviano, che impone un distacco di
metri
otto tra le costruzioni, ha erroneamente ritenuto
applicabile alla
fattispecie il criterio della prevenzione previsto dagli
artt. 873 e
875 cod. civ., e supposto la priorità nel tempo della
costruzione
Del Giudice rispetto a quella del Guerriero.
Sostengono che,
in
materia di distanze fra fabbricati o di questi dal confine,
stabilite
dai regolamenti locali in misura maggiore di quella prevista
dal
codice civile, il principio della prevenzione trova
applicazione
solo ove lo strumento urbanistico consenta anche le
costruzioni in
appoggio o in aderenza, e colui che fabbrica per primo
costruisca
sul confine o a distanza regolamentare da questo.
Deducono
che,
al contrario, tale criterio non può mai trovare
applicazione,
consenta o meno lo strumento urbanistico le costruzioni in
appoggio o in aderenza, allorché colui che fabbrica per
primo
costruisca a distanza dal confine inferiore a quella
stabilita dal
regolamento, avendo la norma locale che consente costruzioni
sul
confine la funzione di ripartire in maniera paritetica tra i
costruttori confinanti la distanza dal confine, ovvero di
eliminarla, ma sempre in modo paritetico, cioè con
costruzioni in
aderenza od in appoggio erette sulla linea di confine.
Rilevano,
pertanto, che, poiché la Del Giudice ha eretto la sua
costruzione a
meno di quattro metri dal confine (distanza pari alla metà
di
quella minima prescritta fra edifici), nella specie,
indipendentemente dal fatto che il regolamento locale
preveda o
meno la costruzione sul confine, è da escludere
l'applicabilità del
criterio della prevenzione.
Con il secondo motivo i ricorrenti lamentano l'omessa
o
insufficiente motivazione su fatti controversi e decisivi,
per avere
la Corte di Appello ritenuto applicabile il criterio della
prevenzione senza indagare se lo strumento urbanistico
locale
preveda o meno la facoltà per i proprietari confinanti di
costruire
in aderenza o in appoggio, e senza rilevare che la Del
Gi.,
come accertato dal C.T.U., ha eretto il suo fabbricato a
distanza
dal confine inferiore a quella di metri quattro prescritta a
suo
carico dall'art. 26 del regolamento edilizio comunale.
...
2) Queste Sezioni Unite sono state chiamate a comporre
il
contrasto registratosi nella giurisprudenza di legittimità
sulla
questione -oggetto dei primi due motivi di ricorso-
dell'applicabilità
o meno del principio di prevenzione nell'ipotesi
in cui le disposizioni di un regolamento edilizio locale
prevedano
esclusivamente una distanza tra fabbricati maggiore di
quella
codicistica, senza imporre altresì il rispetto di una
distanza
minima delle costruzioni dal confine.
L'ordinanza interlocutoria del 23.01.2009 della Seconda
Sezione Civile della Corte di Cassazione ha preso le mosse
dal
principio di diritto enunciato da Cass. n. 13338/2006 nella
precedente fase di legittimità, secondo cui le limitazioni
previste
dall'art. 41-quinquies della l. n. 1150 del 1942, introdotto
dalla l. n. 765 del 1967, art. 17, riguardanti la distanza
tra edifici vicini
nei Comuni sprovvisti di piano regolatore o di programma di
fabbricazione, si estendono anche ai Comuni dotati di
regolamento edilizio, se questo è privo di norme
disciplinanti i
distacchi tra costruzioni; laddove, qualora il regolamento
edilizio
contenga tali norme e sia stato approvato anteriormente
all'entrata
in vigore della legge n. 765 del 1967, prevalgono le norme
locali.
Tale è il caso del Comune di Ottaviano, munito di un
regolamento
edilizio approvato in epoca anteriore all'entrata in vigore
della
c.d. "legge ponte", il quale all'art. 26 contiene una
regolamentazione specifica nella suddetta materia, ponendo
un
divieto di spazi vuoti inferiori a otto metri "tra casa e
casa".
La Seconda Sezione ha rilevato che il giudice del rinvio,
nel
riesaminare —alla luce del principio di diritto affermato
nella
sentenza di cassazione- la controversia alla stregua delle
previsioni del regolamento edilizio locale, ha disposto
l'arretramento del fabbricato del Guerriero a otto metri
(invece
che a quella di dodici metri stabilita nella sentenza
cassata sulla
base del disposto del citato art. 17 della c.d. legge ponte)
da
quello dell'attrice, affermando che, contrariamente a quanto
sostenuto dagli appellanti, la documentazione in atti
comprovava
che era stata la Del Giudice a costruire per prima e a dover
essere
considerata, pertanto, "preveniente" rispetto al convenuto.
Ha, quindi, osservato che, avendo i ricorrenti censurato
l'accertamento della prevenzione, occorreva soffermarsi sul
relativo presupposto.
2.1) Nell'ordinanza di rimessione è stato dato atto del
concorde orientamento della giurisprudenza di legittimità
circa
l'inoperatività del criterio della prevenzione allorquando
la
disciplina regolamentare imponga il rispetto di una distanza
inderogabile delle costruzioni dai confini (cfr. Cass. n.
23693/2014,
18728/2005, 627/2003, 12561/2002, 4895/2002, 4366/2001, 10600/1999,
4438/1997, 3737/1994, 7747/1990 e 4737/1987, tutte precedute
dall'incipit
di S.U. n. 2846/1967).
La Seconda Sezione, al contrario, ha rilevato un contrasto interno alla stessa Sezione per l'ipotesi in cui le
disposizioni
locali prevedano solo una distanza minima tra costruzioni
maggiore di quella codicistica, senza nulla disporre
espressamente
riguardo alla distanza delle costruzioni dal confine.
L'ordinanza interlocutoria ha richiamato, al riguardo, un
primo
indirizzo, secondo cui, nel caso in cui il regolamento
edilizio
determini solo la distanza minima fra le costruzioni, in
assenza di
qualunque indicazione circa il distacco delle stesse dal
confine, il
principio della prevenzione deve ritenersi operativo, non
ostandovi
alcun divieto di costruire in aderenza o sul confine (Cass.
05.12.2007 n. 25401; Cass. 20.04.2005 n. 8283; Cass. 01.06.1993 n.
6101;
Cass. 16.05.1991 n. 5474; Cass. 07.06.1988 n. 3859; Cass.
20.11.1987 n. 8543 e Cass. 24.06.1983 n. 4352).
Ha rilevato che, invece, in base ad un diverso orientamento,
allorquando i regolamenti edilizi comunali stabiliscano una
distanza minima assoluta tra costruzioni maggiore di quella
prevista dal codice civile, detta prescrizione deve
intendersi
comprensiva di un implicito riferimento al confine, dal
quale chi
costruisce per primo deve osservare una distanza non
inferiore alla
metà di quella prescritta, con conseguente esclusione della
possibilità di costruire sul confine e, quindi,
dell'operatività del
cosiddetto criterio della prevenzione (Cass. 22.02.2007 n.
4199;
Cass. 19.07.2006 n. 16574; Cass. 01.07.1996 n. 5953; Cass.
28.040.1992 n. 5062; Cass. 10.10.1984 n. 5055; Cass. 29.06.1981 n.
4246).
Ha accennato, inoltre, alla posizione intermedia assunta da
altra pronuncia (Cass. 16.02.1999 n. 1282), la quale, pur
affermando che la prevenzione non opera ove i regolamenti
edilizi
comunali stabiliscano una distanza minima assoluta tra
costruzioni
maggiore di quella prevista dal codice civile -detta
prescrizione
dovendosi intendere comprensiva di un implicito riferimento
al
confine-, precisa che il metodo di misurazione dei distacchi
-metà
della distanza dal confine per ciascun proprietario- non è
incompatibile con la previsione della facoltà di edificare
sul
confine ove lo spazio antistante sia libero fino alla
distanza
prescritta, oppure in aderenza o in appoggio a costruzioni
preesistenti, con conseguente applicabilità del criterio
della prevenzione.
Nell'ordinanza interlocutoria è stata poi richiamata una
risalente pronuncia delle Sezioni Unite di questa Corte,
nella
quale è stato affermato che, nel caso di norma regolamentare
che
determini la distanza fra costruzioni non dal confine, ma in
via
assoluta, commisurandola alla maggiore altezza di uno dei
corpi
di fabbrica, rimane esclusa la possibilità di costruire sul
confine e
l'applicabilità del criterio di prevenzione, onde colui che
costruisce per primo deve osservare, rispetto al confine,
una
distanza pari alla metà dell'altezza dell'erigendo
fabbricato (Cass.
Sez. Un. 27.11.1974 n. 3873).
La stessa ordinanza ha segnalato, peraltro, una più recente
pronuncia delle Sezioni Unite, che ha affrontato,
risolvendolo in
senso affermativo, il problema della compatibilità del
principio
codicistico della prevenzione con la disciplina sulle
distanze tra
fabbricati vicini dettata dall'art. 41-quinquies, primo
comma,
lettera c), della legge 17.08.1942 n. 1150 (aggiunto
dall'art. 17
della legge 06.08.1967 n. 765), traendone la conseguenza che,
quando il fabbricato del preveniente si trovi ad una
distanza dal
confine inferiore alla metà del distacco tra fabbricati
prescritto
dalla citata norma speciale, il prevenuto ha, ai sensi
dell'art. 875
cod. civ., la facoltà di chiedere la comunione forzosa del
muro
allo scopo di costruirvi contro (Cass. Sez. Un. 01.08.2002 n.
11489).
2.2) Prima di affrontare la questione rimessa a queste
Sezioni
Unite, occorre rammentare che, nel sistema delineato dagli
artt.
873 ss. cod. civ., il principio della prevenzione comporta
che il
confinante che costruisce per primo viene a condizionare la
scelta
del vicino che voglia a sua volta costruire. Al preveniente,
invero,
è offerta una triplice facoltà, potendo egli edificare sia
rispettando, una distanza dal confine pari alla metà di
quella
imposta dal codice, sia sul confine, sia ad una distanza dal
confine inferiore alla metà di quella prescritta.
A fronte
alla
scelta operata dal preveniente, il vicino che costruisce
successivamente, nel primo caso, deve costruire anch'esso ad
una
distanza dal confine pari alla metà di quella prevista, in
modo da
rispettare il prescritto distacco legale dalla preesistente
costruzione. Nel secondo caso, il prevenuto può chiedere la
comunione forzosa del muro sul confine (art. 874 cod. civ.)
o
realizzare la propria fabbrica in aderenza allo stesso (art.
877,
primo comma, cod. civ.); ove non intenda costruire sul
confine, è
tenuto ad arretrare il suo edificio in misura pari
all'intero
distacco legale. Nella terza ipotesi considerata, il
prevenuto può
chiedere la comunione forzosa del muro e avanzare la propria
fabbrica fino ad esso, occupando lo spazio intermedio, dopo
avere
interpellato il proprietario se preferisca estendere il muro
a
confine o procedere alla sua demolizione (art. 875 cod.
civ.); in
alternativa, può costruire in aderenza (art. 877, secondo
comma, cod. civ.) o rispettando il distacco legale dalla
costruzione del
preveniente.
Così sinteticamente riassunto il meccanismo della
prevenzione,
va precisato che esula dal quesito posto nell'ordinanza
interlocutoria l'ipotesi dei regolamenti locali che, pur
imponendo
una distanza assoluta tra fabbricati, prevedano
espressamente la
possibilità di costruire sul confine, ovvero di costruire in
appoggio
o in aderenza. In una simile evenienza, infatti, è la stessa
fonte
regolamentare a sancire direttamente, senza necessità di
alcuno
sforzo interpretativo, l'operatività della regola della
prevenzione
prevista dal codice civile, con le relative implicazioni
riguardo alle
facoltà rispettivamente spettanti al preveniente e al
prevenuto.
La questione rimessa alle Sezioni Unite, inoltre,
si
riferisce
specificamente alla ipotesi dei regolamenti locali che, come
quello in esame, stabiliscano una distanza minima dal
confine in
una misura fissa, non anche a quella dei regolamenti che
prescrivano una distanza minima dal confine non
predeterminata,
ma commisurata all'altezza di una delle costruzioni.
Ipotesi,
quest'ultima, per la quale può farsi riferimento alle
indicazioni
fornite dalle Sezioni Unite nella menzionata pronuncia n.
11489/2002 in relazione all'analoga previsione di cui alla
c.d.
legge ponte, per la quale è stata ritenuta -in mancanza di
dati di
segno contrario emergenti da specifiche disposizioni
regolamentari- l'operatività del principio di prevenzione.
2.3) Così delimitato il campo di indagine, si osserva che i
precedenti favorevoli all'applicabilità del criterio della
prevenzione, citati nell'ordinanza di rimessione, si fondano
essenzialmente sul rilievo della natura integrativa dei
regolamenti
edilizi con riferimento alle previsioni codicistiche in
materia di
distanze, che comprendono il criterio della prevenzione.
In questo senso, in particolare, le sentenze 07.06.1988 n.
3859 e
16.05.1991 n. 5474 affermano che "le norme dei regolamenti
comunali edilizi che fissano le distanze nelle costruzioni
in
misura diversa da quelle stabilite dal codice civile sono,
per
l'espresso disposto dell'art. 873 cod. civ., integrative del
codice
medesimo, il quale, rinviando ai regolamenti locali per
tutto ciò
che concerne le distanze nelle costruzioni, comprende tutta
la
disciplina predisposta da quelle fonti. Ne deriva che le
norme dei
regolamenti edilizi che si limitino a stabilire una distanza
nelle
costruzioni superiore a quella del codice civile, senza
prescrivere
tale distanza in rapporto al confine, non implicano il
divieto di
costruire in appoggio o in aderenza, ricorrendone i
presupposti ai
sensi degli artt. 874, 875, 877 cod. civ., e, di
conseguenza, non
incidono sull'esercizio del diritto di prevenzione, la cui
operatività non esige un'espressa previsione ad opera delle
norme
regolamentari".
Dello stesso tenore la sentenza 01.07.1993 n. 6101, nella quale
si
afferma che "le norme dei regolamenti comunali che fissano
le distanze nelle costruzioni in misura diversa da quelle
stabilite dal
codice civile.., hanno natura di norme integrative dell'art.
873
cod. civ. e con esse trova, perciò, applicazione anche il
regime del
codice civile in tema di distanze nelle costruzioni in fondi
finitimi, fra cui quello della prevenzione, che vieta al
costruttore
prevenuto il quale non possa o non voglia costruire in
appoggio o
in aderenza, di creare un distacco minore di quello
corrispondente
all'altezza che ha il suo edificio sul lato fronteggiante il
fondo del
vicino".
Le successive pronunce citate nell'ordinanza interlocutoria
si
rifanno sostanzialmente ai medesimi argomenti.
Così, la sentenza del 05.12.2007 n. 25401 si limita ad
osservare
che "costituisce principio di diritto ormai consolidato in
giurisprudenza di legittimità che il diritto del
proprietario
confinante di costruire in aderenza al confine non sussiste
quando i
regolamenti locali fissano solo la distanza minima delle
costruzioni
dal confine, ritenendosi in questo caso che l'obbligo di
arretrare la
costruzione è assoluto, come lo è il corrispondente divieto
di
costruire sul confine. Nel caso, invece, che il regolamento
edilizio
fissi solo la distanza fra le costruzioni, in assenza di
qualunque
indicazione circa il distacco delle costruzioni dal confine,
il
principio della prevenzione deve ritenersi in vigore perché
la sua
operatività non è ostacolata da alcun divieto di costruire
in
aderenza o sul confine".
Analoghe considerazioni vengono svolte nella sentenza 20.04.2005 n. 8283.
Non appaiono, invece, particolarmente significative ai fini
della soluzione della questione che qui rileva le due
ulteriori —e
più risalenti- pronunce citate nell'ordinanza interlocutoria
(Cass.
20.11.1987 n. 8543 e Cass. 24.06.983 n. 4352), le quali si
riferiscono a regolamenti comunali che prevedevano
espressamente
la possibilità di edificare in aderenza, rendendo per ciò
solo salvo
il criterio della prevenzione.
L'opzione interpretativa in esame trova un autorevole
conforto
nella citata decisione a Sezioni Unite n. 11489 del 2002,
nella cui
motivazione è stata richiamata e ritenuta condivisibile la
"consolidata giurisprudenza di questa Suprema Corte in sede
di
applicazione dei regolamenti locali che non prescrivono
distanze
dei fabbricati dai confini, limitandosi a stabilire
distacchi tra i
fabbricati"; giurisprudenza che, secondo le Sezioni Unite,
ha
"correttamente" ritenuto che "solo in presenza di una norma
regolamentare che prescriva una distanza tra fabbricati con
riguardo al confine si ponga l'esigenza di un'equa
ripartizione tra
proprietari confinanti dell'onere di salvaguardare una zona
di
distacco tra le costruzioni, con la conseguenza che, in
assenza di
una siffatta prescrizione, deve trovare applicazione il
principio
della prevenzione, con la conseguente possibilità, per il
prevenuto,
di costruire in aderenza alla fabbrica costruita per prima,
se questa sia stata posta sul confine od a distanza
inferiore alla metà del
prescritto distacco tra fabbricati".
2.4) Le pronunce menzionate nell'ordinanza di rimessione a
sostegno della tesi contraria all'operatività del criterio
della
prevenzione fanno perno essenzialmente sul rilievo secondo
cui
l'assolutezza del distacco previsto dai regolamenti locali
non può
ripercuotersi in danno di uno solo dei confinanti, ma va
equamente ripartita tra le parti interessate.
In tal senso, si legge nella sentenza 22.02.2007 n. 4199 che,
"quando i regolamenti edilizi prevedano una distanza minima
assoluta tra costruzioni maggiore di quella prescritta dal
codice
civile senza un riferimento esplicito al confine . la
prevista
assolutezza della distanza, rapportata ad un'equa
ripartizione del
relativo onere, è da ritenersi comprensiva di un implicito
riferimento al confine, dal quale chi costruisce per primo
deve
osservare una distanza non inferiore alla metà di quella
prescritta,
con conseguente esclusione della possibilità di costruire
sul
confine e, quindi, della operatività del principio della
prevenzione".
Dello stesso tenore appaiono le sentenze 29..06.1981 n. 4246 e
10.10.1984 n. 5055.
Non offrono, invece, particolari spunti le ulteriori
pronunce
menzionate.
La sentenza 28.04.1992 n. 5062 muove, infatti, dall'analisi
della
disciplina regolamentare applicabile in concreto, ove era
prescritta una distanza minima assoluta fra edifici, con la
possibilità, peraltro, di costruire in aderenza per una
certa
categoria di costruzioni; dal che la Corte, con un'opzione
ermeneutica circoscritta allo specifico regolamento
edilizio, ha
desunto che nella generalità dei casi fosse stabilita
un'implicita
distanza dal confine in misura pari alla metà di quella fra
edifici.
La sentenza 19.07.2006 n. 16574 si riferisce, poi, ad un
regolamento locale che, seppure stabilendola in rapporto
all'altezza degli edifici, prescriveva una distanza minima
delle
costruzioni dal confine.
L'ultima decisione menzionata (01.07.1996 n. 5953), a ben
vedere, si presta ad una interpretazione contraria
all'orientamento
qui preso in considerazione: in motivazione, infatti, si
afferma
l'operatività del criterio della prevenzione nel caso in cui
i
regolamenti locali impongano unicamente una distanza minima
fra
gli edifici, a meno che l'interpretazione della norma
regolamentare non porti ad escludere la facoltà di costruire
in
aderenza.
2.5) Le Sezioni Unite ritengono che il contrasto debba
essere
composto privilegiando l'interpretazione favorevole
all'operatività, nella ipotesi considerata, del criterio
della
prevenzione, non apparendo convincenti le ragioni che nella
elaborazione giurisprudenziale e dottrinale sono state
addotte a
sostegno dell'opposta tesi.
2.6) Un argomento sovente utilizzato ai fini dell'esclusione
del
criterio della prevenzione poggia sul dato letterale delle
disposizioni regolamentari che prescrivono un determinato
distacco
minimo "assoluto" tra costruzioni, per desumerne, anche in
considerazione dell'esigenza di assicurare un'equa
ripartizione del
relativo onere tra le parti, il carattere "inderogabile" di
tale
distacco.
Più in generale, a sostegno dell'orientamento contrario alla
operatività del criterio di prevenzione, sono state svolte
considerazione attinenti alla natura stessa del relativo
meccanismo, che si porrebbe in contrasto con la funzione
propria
della disciplina dei distacchi tra edifici, volta ad
assicurare un
equo contemperamento degli interessi e dei sacrifici dei
proprietari dei fondi confinanti.
E' in tale prospettiva che
si è
formato l'orientamento giurisprudenziale che ha ravvisato
nei
regolamenti locali che impongono un distacco assoluto tra
costruzioni un implicito riferimento al confine e, quindi,
l'obbligo
per ciascuna parte di rispettare una distanza minima dal
confine
pari alla metà di quella complessiva prescritta per i
distacchi tra
edifici. Solo in tal modo, infatti, secondo i fautori della
tesi
esposta, potrebbe essere soddisfatta l'esigenza di evitare
eccessivi
sacrifici a carico di colui che costruisca per secondo;
obiettivo che verrebbe frustrato in caso di applicazione del
principio di
prevenzione, di per sé incompatibile con un'equa
ripartizione tra
le parti dell'onere imposto dalla previsione del distacco.
In dottrina, poi, alcuni autori hanno rimarcato il carattere
di
"specialità" della disciplina dettata dai regolamenti
edilizi
rispetto a quella codicistica, per ravvisare in tale
normativa una
deroga non solo al dato numerico della distanza, ma
all'intero
sistema dei rapporti tra proprietari limitrofi delineato dal
codice
civile.
Un ulteriore argomento invocato a sostegno della
inoperatività
del criterio della prevenzione è quello che si fonda sul
rilievo
della natura pubblicistica dei regolamenti locali, connessa
al fatto
che essi concorrerebbero a comporre la complessiva
disciplina
urbanistica; a detta natura conseguirebbe la non
praticabilità della
disciplina codicistica della prevenzione, tipicamente
destinata a
regolare i rapporti tra privati.
In tale ottica si pone la
già citata
pronunzia delle Sezioni Unite n. 3873/1974, che ha osservato
come l'intento insito nella norma regolamentare sia quello
"di
garantire in ogni caso un ampio spazio tra gli edifici onde
soddisfare interessi di ordine generale, come quelli
igienici, di
quiete pubblica e di estetica edilizia.., intento, questo,
che
rimarrebbe ovviamente frustrato se, nel contempo, venissero
consentite costruzioni sul confine e fosse quindi permessa,
da
parte del vicino, la costruzione in aderenza".
2.7) Gli argomenti sopra richiamati, ad avviso delle Sezioni
Unite, non costituiscono un ostacolo all'affermazione
dell'operatività in materia dell'istituto codicistico della
prevenzione, apparendo agevolmente confutabili.
E invero, al criterio di interpretazione letterale, che si
fonda
sulla pretesa assimilazione degli attributi "assoluto" e
"inderogabile", può opporsi, in conformità di un'autorevole
opinione dottrinale, come la normativa edilizia contempli
effettivamente la previsione di distanze "inderogabili",
come tali
destinate a non tollerare in alcun caso la possibilità di
costruire
sul confine o in aderenza. Al di fuori di tali ipotesi,
tuttavia, in
presenza di una norma regolamentare che si limiti a
prevedere un
distacco "assoluto" tra costruzioni, non sembra possibile
escludere in radice la possibilità di edificare sul confine
o a
distanza dal confine inferiore alla metà di quella legale,
ferma
restando la necessità, nel caso in cui non vengano
realizzate
costruzioni in appoggio o in aderenza, di rispettare la
distanza
minima prescritta dal regolamento locale.
Quanto all'ostacolo derivante dalla necessità di assicurare
un'equa ripartizione dell'onere tra i proprietari
confinanti, è
facile obiettare che un equo contemperamento degli interessi
delle
parti è garantito dalla possibilità, offerta al prevenuto,
di chiedere
la comunione forzosa del muro o di costruire in aderenza
alla
fabbrica eretta dal preveniente sul confine o a distanza
dallo stesso inferiore alla metà del distacco fissato dalla
norma
regolamentare. Il meccanismo della prevenzione, come
congegnato dal codice civile, pertanto, consente di regolare
armonicamente il rapporto di successione temporale tra le
costruzioni che sorgono su fondi contigui, senza assicurare
posizioni di vantaggio a colui che costruisce per primo in
danno
di colui che costruisce per secondo: alle facoltà
riconosciute al
preveniente, infatti, fanno da contrappeso quelle attribuite
al
prevenuto, alle quali il primo non può opporsi.
All'argomento basato sul carattere di "specialità" dei
regolamenti edilizi, poi, può replicarsi che detti
regolamenti,
proprio in ragione di tale specialità, sono di stretta
interpretazione; con la conseguenza che, allorché essi si
limitino
ad imporre un distacco minimo tra costruzioni, senza
prescrivere
espressamente altresì una distanza minima dal confine, non
pare
lecito cogliere negli stessi una deroga al criterio della
prevenzione sancito in via generale dal codice civile. I
regolamenti locali, infatti, in virtù del rinvio previsto
nell'art.
873 c.c., hanno portata integrativa delle prescrizioni del
codice
civile in tema di distanze tra costruzioni su fondi
finitimi; sicché
ad essi, salva espressa previsione contraria, deve ritenersi
applicabile l'intera disciplina codicistica dettata in
materia,
compreso il meccanismo della prevenzione.
La tesi che ravvisa la ragione della incompatibilità del
principio della prevenzione con la disciplina
extracodicistica delle
distanze nella natura "pubblicistica" di tale normativa,
infine, è
stata già considerata insostenibile da queste Sezioni Unite
nella
sentenza n. 11489/2002, nella quale è stato rilevato che è
"evidente la componente pubblicistica, accanto a quella
privatistica, di tutta la disciplina, anche codicistica,
sulle
distanze, volta, com'è noto, ad armonizzare la disciplina
dei
rapporti intersoggettivi di vicinato con l'interesse
pubblico ad un
ordinato assetto urbanistico" .
Una simile componente pubblicistica, pertanto, così come non
ha impedito la previsione nel codice civile della regola
della
prevenzione, allo stesso modo non può costituire un serio
ostacolo
all'estensione della relativa disciplina alla materia
regolata dai
regolamenti locali.
Né potrebbe sostenersi la natura esclusivamente
pubblicistica
della normativa extracodicistica in materia di distanze, ove
solo si
tenga conto della natura tipicamente privatistica della
sanzione
prevista in caso di violazione delle relative disposizioni,
costituita dal rimedio della riduzione in pristino, rimesso
all'iniziativa del vicino, il quale potrebbe anche non farvi
ricorso.
Ove, poi, si consideri che la ratio delle norme sulle
distanze
minime tra costruzioni è, secondo l'opinione dominante,
quella di
evitare il pregiudizio che potrebbe derivare agli edifici
dalla
creazioni di intercapedini troppo ristrette, appare evidente
che una simile finalità non viene frustrata dalla previsione
della facoltà di
costruire in aderenza o in appoggio, escludendosi in tal
modo la
possibilità stessa della formazione di intercapedini
pericolose tra i
due fabbricati.
2.8) In definitiva, nessuna delle ragioni preclusive
evidenziate
in giurisprudenza e in dottrina osta all'applicabilità del
principio
codicistico della prevenzione nell'ipotesi in cui un
regolamento
locale si limiti a stabilire un distacco minimo tra le
costruzioni
maggiore rispetto a quello contemplato dall'art. 873 del
codice
civile, senza prescrivere altresì una distanza minima delle
costruzioni dal confine o vietare espressamente la
costruzione in
appoggio o in aderenza.
Orbene, se le norme regolamentari, così come in concreto
strutturate, postulano solo l'esigenza del rispetto di una
distanza
minima tra fabbricati, non vi è alcun valido motivo per
negare a
colui che costruisca per primo la possibilità di avvalersi
delle
facoltà connesse al principio di prevenzione in base alla
disciplina
codicistica.
Le norme dei regolamenti edilizi che fissano le distanze tra
le
costruzioni in misura diversa da quelle stabilite dal codice
civile,
infatti, in virtù del rinvio contenuto nell'art. 873 cod.
civ., hanno
portata integrativa delle disposizioni dettate in materia
dal codice
civile; e tale portata non si esaurisce nella sola deroga
alle
distanze minime previste dal codice, ma si estende
all'intero impianto di regole e principi dallo stesso
dettato per disciplinare
la materia, compreso il meccanismo della prevenzione, che i
regolamenti locali possono eventualmente escludere,
prescrivendo
una distanza minima delle costruzioni dal confine o negando
espressamente la facoltà di costruire in appoggio o in
aderenza.
Ne discende che un regolamento locale che si limiti a
stabilire una
distanza tra le costruzioni superiore a quella prevista dal
codice
civile, senza imporre un distacco minimo delle costruzioni
dal
confine, non incide sul principio della prevenzione, come
disciplinato dal codice civile, e non preclude, quindi, al
preveniente la possibilità di costruire sul confine o a
distanza dal
confine inferiore alla metà di quella prescritta tra le
costruzioni,
ne al prevenuto la corrispondente facoltà di costruire in
appoggio
o in aderenza, in presenza dei presupposti previsti dagli
artt. 874,
875 e 877 cod. civ.
2.9) Alla luce degli esposti principi, nella specie,
contrariamente a quanto dedotto dai ricorrenti, deve
ritenersi
l'operatività della regola della prevenzione, non risultando
che il
regolamento edilizio del Comune di Ottaviano, che impone un
distacco tra costruzioni di metri otto, preveda altresì una
distanza
minima delle costruzioni dal confine.
I primi due motivi di ricorso, di conseguenza, devono essere
disattesi. |
INCARICHI PROFESSIONALI: Scelta Ctu, punito il giudice che concentra gli incarichi.
Professionisti. Il magistrato deve rispettare il criterio
della rotazione.
Perde un anno di anzianità il giudice che concentra gli
incarichi su due o tre consulenti d’ufficio, senza
rispettare il criterio della rotazione.
Le Sezioni unite
civili della Corte di Cassazione, con la sentenza 18.05.2016 n. 10157,
respingono il ricorso di una toga contro la sentenza del
Consiglio superiore della magistratura che aveva punito la
violazione dell’obbligo di trasparenza nella trattazione
degli affari.
L’accusa era di aver “selezionato” una rosa
ristretta professionisti ai quali affidare numerosi
incarichi in tema di controversie previdenziali. Scelte
fatte malgrado la “preferenza” non fosse sfuggita al
presidente del Tribunale, che aveva invitato la toga, per
ben due anni, a rispettare la rotazione.
Lo stesso presidente aveva sollevato il problema anche in
una nota dalla quale emergeva che più del 50% degli
incarichi erano stati assegnati a due soli professionisti.
Il ricorrente aveva conferito ad una consulente 105
incarichi e ad un altro 71: pari rispettivamente al 24% e al
16% del totale. Il giudice incolpato aveva sottolineato
nella sua difesa che il limite del 10%, indicato come tetto
di assegnazione degli incarichi, dall’articolo 23 delle
disposizioni attuative del Codice civile, doveva essere
riferito ai mandati conferiti dall’intero ufficio
giudiziario. Una lettura corretta, ma che non serve a
scongiurare l’illecito.
La norma in questione prevede che il presidente del
Tribunale vigili affinché gli incarichi siano distribuiti
equamente tra gli iscritti all’albo, senza danno per
l’amministrazione della giustizia, «in modo tale che a
nessuno dei consulenti iscritti possano essere conferiti
incarichi in misura superiore al 10 per 100 di quelli
affidati dall’ufficio». Sarà sempre il presidente a
garantire che sia assicurata l’adeguata trasparenza
nell’assegnazione degli incarichi anche attraverso gli
strumenti informatici.
I giudici sottolineano che la regola fondamentale della
norma esaminata è nella frase «gli incarichi siano equamente
distribuiti tra gli iscritti all’albo». La successiva
precisazione, relativa al limite del 10% (introdotta
dall’articolo 52 della legge 69/2009), è un criterio che
deve essere applicato dal presidente del Tribunale in
relazione a tutti gli incarichi complessivi, conferiti da
tutti i magistrati dell’ufficio ad un singolo consulente.
Solo il presidente è, infatti, nella condizione di avere
cognizione dell’insieme dei “lavori” attribuiti ad un
consulente e, in caso di superamento del tetto, può invitare
le toghe dell’ufficio ad astenersi da ulteriori nomine. In
tal senso -precisa il collegio- è condivisibile
l’interpretazione del ricorrente, ma questo non significa
che i suoi motivi siano fondati.
Correttamente la sentenza impugnata ha escluso che il limite
del 10%, nell’ipotesi esaminata, fosse applicabile agli
incarichi conferiti dai singoli magistrati. È ovvio,
infatti, che nei tribunali di dimensioni medio-grandi la
percentuale fissata sarebbe talmente alta, che ogni giudice
potrebbe concentrare gli incarichi su un unico consulente
senza mai raggiungerla.
Il criterio corretto è dunque
nell’«equa distribuzione degli incarichi che fa in ogni caso
capo ai singoli magistrati e che non è suscettibile di una
predeterminazione numerica o percentuale, dovendosene di
caso in caso verificare la violazione». La prova è che nel
capo di incolpazione non si fa alcun rifermento al tetto del
10%, ma solo alla mancata osservazione del principio di
rotazione in violazione del dovere di correttezza e
diligenza.
Il problema esaminato dalla Cassazione è sentito dal Csm,
che il 4 maggio scorso ha approvato le linee guida sul punto
(si veda Il Sole 24 Ore del 05.05.2016), in base alle
quali lo stesso professionista non potrà ricevere più del
10% degli incarichi.
La settima sezione dell’organo di
autogoverno dei giudici (relatore Francesco Cananzi) ha però
chiarito che la nozione di ufficio è flessibile: se in
questa rientra il Tribunale, nelle sedi più ampie è evidente
che il limite è nei fatti privo di conseguenze (articolo Il Sole 24 Ore del
19.05.2016). |
ENTI
LOCALI - VARI: Autovelox non tarato? La multa è nulla.
Cassazione. L’effetto della sentenza Consulta sulle
rilevazioni automatiche di velocità.
È nulla la multa per eccesso di velocità se il Comune non
prova di aver provveduto alla taratura annuale
dell’autovelox.
La Corte di
Cassazione, Sez. II civile - con la
sentenza 16.05.2016 n. 9972, annulla con rinvio la
sentenza con la quale il Tribunale aveva confermato
l’obbligo per la ricorrente di pagare la multa, che le era
stata inflitta per aver superato il limite imposto dalla
segnaletica nel tratto stradale.
Una decisione presa dai giudici di merito senza considerare
l’effetto della sentenza (113/2015) con la quale la Consulta
ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo
45, comma 6, del Dlgs 285/1992 del Codice della strada. Il
contrasto con la Carta riguardava la parte in cui la norma
bocciata non prevedeva un obbligo periodico di verifica
della funzionalità e della taratura per tutte le
apparecchiature impiegate nell’accertamento delle violazioni
dei limiti di velocità.
In quell’occasione la Consulta aveva
sottolineato che «i fenomeni di obsolescenza e
deterioramento possono pregiudicare non solo l’affidabilità
delle apparecchiature, ma anche la fede pubblica che si
ripone in un settore di significativa rilevanza sociale,
quale quello della sicurezza stradale».
La Suprema corte ricorda che la pronuncia della Corte
costituzionale ha effetto retroattivo ed è applicabile anche
ai giudizi pendenti. In virtù del verdetto dei giudici delle
leggi dunque si deve ritenere che l’articolo 45 comma 6 del
codice della strada prescriva controlli cadenzati degli
autovelox, in assenza dei quali la multa va considerata
nulla.
Un “particolare” che era sfuggito ai giudici di
merito, i quali si erano mossi sul solco della consolidata
giurisprudenza precedente la sentenza della Consulta, fino
ad allora la Cassazione aveva, infatti, ritenuto non
necessaria, ai fini della validità della multa, la prova
della verifica periodica. Ora il Comune è invece tenuto a
dimostrare di aver fatto i dovuti accertamenti. Non passa
invece un secondo motivo di ricorso.
La signora multata si
lamentava che il Tribunale aveva sottovalutata la presenza
di una seconda macchina nel momento della rilevazione
automatica. Un’eccezione che non era stata però sollevata
nel ricorso introduttivo. La Suprema corte precisa, che il
giudizio di opposizione all’ordinanza-ingiunzione è chiuso e
dunque limitato ai soli motivi contenuti nell’opposizione
senza alcuna possibilità di integrazione (articolo Il Sole 24 Ore del
17.05.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Dipendente
assente, indagini libere.
Confermata dalla Corte di Cassazione, Sez. lavoro, la
legittimità dei controlli sul dipendente assente con un
permesso ex lege 104/1992 attraverso agenzie
investigative (sentenza 12.05.2016 n.
9749).
Un dipendente di una società ricorreva avverso il
licenziamento per giusta causa intimato dal datore di
lavoro, intimato per aver utilizzato giornate di permesso ex
lege 104/1992 concessi per l'assistenza alla suocera
disabile, per dedicarsi a effettuare lavori in alcuni
terreni di proprietà.
Tra i motivi di ricorso, il lavoratore
sosteneva che gli accertamenti investigativi cui era stato
assoggettato, sono invece ammissibili solo quando destinati
a tutelare il patrimonio aziendale. La Suprema corte ha
ritenuto infondato il motivo. Ha ribadito, in ordine alla
portata delle disposizioni (legge n. 300 del 1970, artt. 2 e
3) che delimitano, a tutela della libertà e dignità del
lavoratore, in coerenza con disposizioni e principi
costituzionali, che la sfera di intervento di persone
preposte dal datore di lavoro a difesa dei propri interessi
e, cioè, per scopi di tutela del patrimonio aziendale (art.
2) e di vigilanza dell'attività lavorativa (art. 3), non
precludono il potere dell'imprenditore di ricorrere alla
collaborazione di soggetti (quale, nella specie, un'agenzia
investigativa) diversi dalla guardie particolari giurate per
la tutela del patrimonio aziendale, né, rispettivamente, di
controllare l'adempimento delle prestazioni lavorative e
quindi di accertare mancanze specifiche dei dipendenti, ai
sensi degli artt. 2086 e 2104 c.c., direttamente o mediante
la propria organizzazione gerarchica.
Ciò non esclude che il
controllo delle guardie particolari giurate, o di un'agenzia
investigativa, non possa riguardare, in nessun caso, né
l'adempimento, né l'inadempimento dell'obbligazione
contrattuale del lavoratore di prestare la propria opera,
essendo l'inadempimento stesso riconducibile, come
l'adempimento, all'attività lavorativa, che è sottratta alla
suddetta vigilanza, ma deve limitarsi agli atti illeciti del
lavoratore non riconducibili al mero inadempimento
dell'obbligazione.
Tale principio è stato ribadito
ulteriormente, affermandosi che le dette agenzie per operare
lecitamente non devono sconfinare nella vigilanza
dell'attività lavorativa vera e propria, riservata,
dall'art. 3 dello Statuto, direttamente al datore di lavoro
e ai suoi collaboratori, restando giustificato l'intervento
in questione non solo per l'avvenuta perpetrazione di
illeciti e l'esigenza di verificarne il contenuto, ma anche
in ragione del solo sospetto o della mera ipotesi che
illeciti siano in corso di esecuzione. Né a ciò ostano sia
il principio di buona fede sia il divieto di cui all'art. 4
dello Statuto dei lavoratori, ben potendo il datore di
lavoro decidere autonomamente come e quando compiere il
controllo, anche occulto, ed essendo il prestatore d'opera
tenuto ad operare diligentemente per tutto il corso del
rapporto di lavoro.
Ciò posto si è ritenuto dare continuità
all'insegnamento che ha considerato legittimo il controllo
finalizzato all'accertamento dell'utilizzo improprio dei
permessi ex lege 104 del 1992, art. 33, suscettibile
di rilevanza anche penale, essendo stato effettuato al di
fuori dell'orario di lavoro e in fase di sospensione
dell'obbligazione principale di rendere la prestazione
lavorativa. Le motivazioni sono state respinte
(articolo ItaliaOggi del
20.05.2016).
---------------
MASSIMA
3.3.— Con il terzo mezzo si denuncia violazione o falsa
applicazione degli artt.
2, 3 e 4 della l. n. 300 del 1970 sostenendo che gli
accertamenti investigativi
sono ammissibili solo quando destinati a tutelare il
patrimonio aziendale.
Il motivo è infondato.
Va ribadito in ordine alla portata delle disposizioni (L. n.
300 del 1970, artt. 2 e 3) che delimitano, a tutela della
libertà e dignità del lavoratore, in coerenza con
disposizioni e principi costituzionali, la sfera di
intervento di persone preposte dal datore di lavoro a difesa
dei propri interessi -e cioè per scopi di tutela del
patrimonio aziendale (art. 2) e di vigilanza dell'attività
lavorativa (art. 3)- che esse non precludono il potere
dell'imprenditore di ricorrere alla collaborazione di
soggetti
(quale, nella specie, un'agenzia investigativa)
diversi dalla guardie
particolari giurate per la tutela del patrimonio aziendale,
né, rispettivamente, di
controllare l'adempimento delle prestazioni lavorative e
quindi di accertare
mancanze specifiche dei dipendenti, ai sensi degli artt.
2086 e 2104 c.c.,
direttamente o mediante la propria organizzazione
gerarchica.
Ciò non esclude
che il controllo delle guardie particolari giurate, o di
un'agenzia investigativa, non
possa riguardare, in nessun caso, né l'adempimento, né
l'inadempimento
dell'obbligazione contrattuale del lavoratore di prestare la
propria opera, essendo
l'inadempimento stesso riconducibile, come l'adempimento,
all'attività lavorativa,
che è sottratta alla suddetta vigilanza, ma deve limitarsi
agli atti illeciti del
lavoratore non riconducibili al mero inadempimento
dell'obbligazione
(cfr., in tali
termini, n. 9167 del 2003).
Tale principio è stato ribadito
ulteriormente,
affermandosi che
le dette agenzie per operare lecitamente
non devono sconfinare
nella vigilanza dell'attività lavorativa vera e propria,
riservata, dall'art. 3 dello
Statuto, direttamente al datore di lavoro e ai suoi
collaboratori, restando
giustificato l'intervento in questione non solo per
l'avvenuta perpetrazione di
illeciti e l'esigenza di verificarne il contenuto, ma anche
in ragione del solo
sospetto o della mera ipotesi che illeciti siano in corso di
esecuzione
(v. Cass. n.
3590 del 2011).
Né a ciò ostano sia il principio di buona
fede sia il divieto di cui
all'art. 4 dello Statuto dei lavoratori, ben potendo il
datore di lavoro decidere
autonomamente come e quando compiere il controllo, anche
occulto, ed essendo
il prestatore d'opera tenuto ad operare diligentemente per
tutto il corso del
rapporto di lavoro
(cfr. n. 16196 del 2009).
Ciò posto
occorre dare continuità all'insegnamento che ha
considerato
legittimo il controllo finalizzato all'accertamento
dell'utilizzo improprio dei
permessi ex. l. n. 104 del 1992, art. 33, suscettibile di
rilevanza anche penale,
essendo stato effettuato al di fuori dell'orario di lavoro
ed in fase di sospensione
dell'obbligazione principale di rendere la prestazione
lavorativa
(in termini Cass.
n. 4984 del 2014). |
TRIBUTI: Gestori di acqua, energia e tlc esenti dal canone
concessorio.
Servizi a rete. Il Consiglio di Stato ribadisce il recente
cambio di giurisprudenza.
Non è dovuto
il canone concessorio se l’occupazione dei servizi a rete
non impedisce in tutto o in parte la fruizione della strada.
Lo ha deciso il Consiglio di Stato
-Sez. V- con la
sentenza
12.05.2016 n. 1926, confermando l’annullamento di un
regolamento comunale istitutivo del canone concessorio non
ricognitorio.
Finisce così l’ampio contenzioso degli ultimi anni tra
Comuni e gestori di acqua, gas, energia elettrica e
telecomunicazioni. La materia del contendere non riguarda la
Tosap (o il Cosap) ma l’applicazione del canone previsto
dall’articolo 27 del Codice della strada, che molti Comuni
hanno istituito con regolamento, poi impugnato assieme alle
richieste di pagamento inviate ai gestori dei servizi a
rete.
Per comprendere le dimensioni del fenomeno va
considerato che nel 2015 sono state depositate ben 65
sentenze (in particolare dal Tar Milano), in prevalenza
negative per gli enti locali, che si sono visti annullare i
regolamenti con evidenti ripercussioni sui bilanci. Da qui
l’appello al Consiglio di Stato, che si era peraltro già
pronunciato a fine 2014, attribuendo al canone in questione
la patente di legittimità (sentenza n. 6459/2014).
Ma il vento è cambiato. Una prima avvisaglia si è avuta con
l’ordinanza n. 1191 del 7 aprile scorso dello stesso
Consiglio di Stato, che dava atto di un orientamento
favorevole alla tesi comunale, ma riteneva di pervenire a
diverse conclusioni per «prevalenti ragioni testuali e
sistematiche». Le stesse parole della sentenza depositata
ieri all’esito dell’udienza pubblica tenutasi proprio il 7
aprile insieme a tanti altri appelli sul canone. Si
attendono quindi altre sentenze dello stesso tenore, che
conferma la decisione del Tar Milano (sentenza n. 1130/2015)
sia pure per ragioni in parte diverse.
In particolare i giudici di Palazzo Spada evidenziando che
il canone concessorio stradale non può essere richiesto a
fronte di qualunque utilizzo della strada, ma solo in caso
di utilizzo che impedisca in tutto o in parte la pubblica
fruizione. Pertanto la pretesa sarà legittima solo durante
la fase di posa in opera dell’infrastruttura a rete,
trattandosi di lavori che occupano la sede stradale.
In sostanza, contrariamente a quanto affermato con sentenza
n. 6459/2014, il Consiglio di Stato esclude ora la
possibilità di esigere il canone non ricognitorio in tutte
le ipotesi di utilizzo del sottosuolo stradale che non
impediscono o limitano l’uso pubblico della sede viaria,
come nel caso delle infrastrutture idriche a rete. Un
settore peraltro nel quale vige un principio di tendenziale
gratuità della messa a disposizione della rete idrica
(articolo 153 Dlgs 152/2006).
Lo stesso dicasi anche per le
reti di telecomunicazioni (articolo 93 Dlgs 259/2003), ma in
questo caso il nodo interpretativo è stato definitivamente
sciolto dal legislatore con l’articolo 12 del Dlgs 33/2016,
che vieta l’applicazione di altri oneri. Per tutti gli altri
gestori (acqua, gas ed energia elettrica), lo stop al canone
è invece arrivato dal Consiglio di Stato (articolo Il Sole 24 Ore del
13.05.2016). |
LAVORI PUBBLICI: Gara
per appalto integrato, esclusione legittima senza Sia.
La mancanza dello studio di impatto ambientale (Sia) e della
relazione sulle indagini e sui rilievi legittima
l'esclusione di una offerta per un appalto integrato; non è
sanabile con il soccorso istruttorio e determina la
legittima esclusione dalla gara.
È quanto ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 12.05.2016 n. 1904 in relazione alla gara per un
appalto integrato bandita sulla base del progetto
preliminare, con richiesta del progetto definitivo in sede
di offerta.
In questa procedura, non più ammessa dal nuovo
codice dei contratti pubblici, il disciplinare di gara
prescriveva la presentazione, tra gli altri, della
«relazione sulle indagini e i rilievi effettuati e
propedeutici alla progettazione» e dello «studio di impatto
ambientale», entrambi previsti come documenti essenziali
annessi al progetto definitivo dall'art. 24 dell'abrogato
dpr 207/2010.
Nel caso di specie i giudici hanno confermato che non
soltanto mancavano i citati documenti, ma non esistevano in
altri atti, comunque prodotti, documenti riconducibili a
quelli richiesti a pena di esclusione. In realtà, nota la
sentenza, in qualche documento potevano rinvenirsi alcuni
riferimenti a studi e documenti, ma «non sussisteva invece,
anche sotto il profilo sostanziale, una vera e propria
relazione propedeutica alla progettazione secondo ciò che è
richiesto per tale tipologia di opera, né uno studio di
impatto ambientale o altro documento analogo o equivalente».
Il collegio ha confermato la sentenza di primo grado e
quindi ritiene legittima l'esclusione disposta per mancanza
di documenti indicati dal bando e dal disciplinare di gara,
previsti obbligatoriamente a pena di esclusione. Per il Cds
si tratta di documenti espressione di specifiche
prescrizioni poste dalla legge (dal regolamento sui
contratti pubblici) e la loro mancanza integra la
fattispecie del «mancato adempimento alle prescrizioni
previste dal presente codice e dal regolamento e da altre
disposizioni di legge vigenti».
Tale mancanza non è neanche rimediabile con la
regolarizzazione documentale postuma ex art. 46 del Codice
dei contratti pubblici (cosiddetto soccorso istruttorio)
anche perché in un appalto integrato «il progetto
definitivo rappresenta una parte integrante e sostanziale
della domanda di partecipazione del concorrente»
(articolo ItaliaOggi del
20.05.2016).
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MASSIMA
2. Passando all’esame dell’appello, si deve rammentare
in via generale che
è da ritenersi legittima un’esclusione
disposta per mancanza di documenti indicati dalla lex
specialis di gara, da produrre obbligatoriamente a pena di
esclusione, trattandosi di documenti espressione di
specifiche prescrizioni poste dalla legge
(o, come nel caso
di specie, dal Regolamento sui contratti pubblici ex d.P.R.
n. 2017/2010),
ciò integrando la fattispecie del “mancato
adempimento alle prescrizioni previste dal presente codice e
dal regolamento e da altre disposizioni di legge vigenti”
(cfr. anche Consiglio di Stato, Ad, Plen,, 25.02.2014,
n. 9),
non rimediabile con la regolarizzazione documentale
postuma ex art. 46 del Codice dei contratti pubblici
(cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. V, 22.10.2015, n.
4869).
Tale principio è ancora più rilevante nelle ipotesi, come
quelle in esame, in cui viene in rilievo un cd. appalto
integrato ex art. 53, comma 2, lett. b), d.lgs. n. 163 del
2006, nel quale il progetto definitivo rappresenta una parte
integrante e sostanziale della domanda di partecipazione del
concorrente.
Nel caso in esame, il par. X4 del disciplinare di gara,
pedissequamente riproduttivo delle vigenti norme
regolamentari, prescriveva la presentazione, tra gli altri,
della “relazione sulle indagini e i rilievi effettuati e
propedeutici alla progettazione” (par. X4, n. 1, lett. c)
del disciplinare di gara) e dello “studio di impatto
ambientale” (par. X4, n. 1, lett. f) del disciplinare di
gara).
Il primo di tali documenti è previsto quale documento
essenziale annesso al progetto definitivo dall’art. 24,
comma 2, lett. b), d.P.R. n. 207/2010; il secondo dall’art.
24, comma 2, lett. e), d.P.R. n. 207/2010.
Le prescrizioni documentali contenute nel disciplinare di
gara a pena di esclusione corrispondono dunque a specifiche
previsioni del Regolamento e risultano, pertanto, legittime
in coerenza con l’art. 46, comma 1-bis, d.lgs. n. 163 del
2006.
3. Sotto il profilo sostanziale, oggetto del secondo motivo
d’appello della Regione, si deve evidenziare che il
verificatore ha avuto l’incarico del TAR, espletandolo
fedelmente e accuratamente, di riscontrare controllare non
solo la carenza formale della documentazione prodotta, ma
anche di verificarne se sostanzialmente esistevano in altri
atti, comunque prodotti, i predetti documenti richiesti a
pena di esclusione, procedendo all’indagine in concreto di
tutta la documentazione prodotta dall’aggiudicatario sulla
base delle regole tecniche che presiedono alla redazione dei
progetti in gara, nell’esercizio di un corretto potere
istruttorio sulla base degli artt. 64 e 66 c.p.a. ( senza
alcuna sostituzione delle valutazioni riservate
all’Amministrazione).
Il verificatore in primo grado, con valutazioni approfondite
e del tutto condivisibili, ha puntualmente accertato che,
quand’anche in qualche documento possano rinvenirsi alcuni
riferimenti a studi e documenti, non sussiste invece, anche
sotto il profilo sostanziale, una vera e propria relazione
propedeutica alla progettazione secondo ciò che è richiesto
per tale tipologia di opera, né uno studio di impatto
ambientale o altro documento analogo o equivalente.
L’appello della Regione deve essere respinto.
...
5. Anche il secondo motivo d’appello incidentale è
infondato, posto che, in primo luogo, come riconosce anche
l’appellante incidentale, non è certamente applicabile al
caso di specie (e alle ipotesi risarcitorie come quella in
esame) la regola oggi stabilita dall’art. 38, comma 2-bis,
d.lgs. n. 163 del 2006, che espressamente prevede che la
graduatoria rimanga congelata a prescindere da ogni
successiva modifica, anche per via giurisdizionale, della
compagine dei concorrenti.
In secondo luogo,
si deve rilevare che il mancato
riconoscimento di un’aggiudicazione automatica al RTI Ador.Mare
dell’appalto in questione, in quanto seconda graduata, a
seguito dell’esclusione del RTI La Dragaggi incide soltanto
ed esclusivamente sotto il profilo risarcitorio per
verificare la sussistenza della lesione del bene della vita
e, conseguentemente, del danno.
E’ pur vero che è possibile fare applicazione degli ordinari
criteri elaborati dalla giurisprudenza, civile ed
amministrativa, in tema di accertamento della probabilità
per il RTI Ador.Mare di aggiudicarsi la procedura di gara in
esame; ma se tale probabilità viene ragionevolmente messa in
discussione tanto da non permettere al giudice di
raggiungere il pieno convincimento circa l’esistenza nella
specie del cd. “più probabile che non”
(cfr., a contrario,
Consiglio di Stato, sez. IV, 20.01.2015, n. 131),
è
evidente che si aprono due possibili strade, egualmente
percorribili: rigettare la domanda risarcitoria, ovvero
verificare se, sulla base di un diverso criterio, sia
possibile raggiungere un pieno convincimento in ordine a
tale elemento della fattispecie aquiliana.
Nel caso in esame, tale criterio è stato riconosciuto nella
riedizione della gara, mediante confronto a coppie, con un
ragionamento formulato dal TAR con dovizia di argomentazioni
non irragionevoli che, in questa sede, non può che trovare
conferma, in quanto specificamente calibrato alla gara in
oggetto e compatibile con il metodo del confronto a coppie,
metodo che produce risultati che non sono ricostruibili ex
post, sempre ai soli fini risarcitori, mediante
un’operazione logico-ricostruttiva del giudice.
Pertanto,
quando il giudice di primo grado non raggiunga un
pieno convincimento in merito all’esistenza del danno
risarcibile, anche in base al criterio del cd. “più
probabile che non”, è legittimo ricorrere ad altri ed
ulteriori, purché ragionevoli, criteri induttivi per
verificarne aliunde la sussistenza, così come è avvenuto nel
caso in esame.
6. Parimenti infondato è l’ultimo motivo d’appello
incidentale, con il quale l’appellata Ador.Mare srl ritiene
che il quantum risarcitorio debba ricomprendere: il mancato
utile sui lavori non eseguiti; il mancato risparmio delle
spese generali; la perdita di chance e il danno curriculare;
il danno conseguente alla mancata remunerazione dei costi
sostenuti per la progettazione definitiva redatta nonché al
mancato utile sulla progettazione.
Ritiene il Collegio che il TAR abbia fatto buon uso dei
criteri di matrice giurisprudenziale funzionali alla
liquidazione del danno.
Infatti,
il TAR ha liquidato il lucro cessante con
riferimento alla percentuale di profitto desumibile dalla
concreta offerta presentata dalla medesima ricorrente, così
come ritenuto compatibile da questo Consiglio in plurime
decisioni
(cfr., da ultimo, Consiglio di Stato, sez. III, 10.04.2015, n. 1839).
Lo stesso è a dirsi per quanto riguarda il danno
curriculare, poiché nelle gare pubbliche non può trovare
accoglimento la richiesta di risarcimento del danno
curriculare del quale non sia stata fornita alcuna prova
(cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 30.11.2015, n.
5396).
Per quanto riguarda il mancato riconoscimento delle spese
sostenute dall’appellato, si deve ribadire (da ultimo,
Consiglio di Stato, sez. III, 10.04.2015, n. 1839) che
nelle controversie aventi ad oggetto gli atti di gara
pubblica non è risarcibile il danno per spese e costi di
partecipazione alla gara, per le spese generali e legali e
le spese di progettazione atteso che la partecipazione alle
gare d'appalto comporta per i partecipanti costi che
ordinariamente restano a carico delle imprese medesime, sia
in caso di aggiudicazione che in caso di mancata
aggiudicazione, a meno di non riconoscere un risarcimento
per equivalente superiore alle perdite patrimoniali subite
dal danneggiato, violando pertanto un principio fondamentale
in tema di risarcimento; con il risultato che l'impresa
concorrente illegittimamente pretermessa dalla
aggiudicazione percepirebbe, in sede risarcitoria, più di
quanto avrebbe avuto se avesse eseguito il contratto, poiché
beneficerebbe sia dei vantaggi economici che avrebbe avuto
se non avesse stipulato ed eseguito il contratto oggetto di
gara, sia del lucro che avrebbe conseguito ove il contratto
fosse stato eseguito; in definitiva, si cumulerebbero i
danni da lesione dell'interesse negativo con quelli da
lesione dell'interesse positivo, il che è da ritenere
inammissibile alla luce dei principi in materia di
risarcimento del danno.
Infine, il dedotto danno da perdita di chance non si ritiene
dovuto, atteso che risulta assorbito dalla corresponsione
della piena percentuale di profitto, come sopra indicato.
E’ evidente che il danno liquidato ricomprende interessi e
rivalutazione, secondo i noti principi elaborati da questa
giurisprudenza, poste di danno pacificamente ricomprese nel
quantum liquidato dallo stesso TAR, benché non esplicitate,
atteso che la liquidazione è avvenuta solo “per criteria”;
tali elementi accessori del credito aquiliano dovranno
dunque essere specificati in sede esecutiva |
INCARICHI LEGALI:
Legali in gara, quantum deciso dalla p.a..
Nel caso di partecipazione di un avvocato a una commissione
di gara per un appalto pubblico non vanno applicate le
tariffe professionali, bensì il compenso fissato
dall'amministrazione.
Questo è quanto ha precisato la Corte di Cassazione, Sez. II
civile, con la
sentenza 11.05.2016 n. 9659.
I giudici della Suprema corte, infatti, hanno rilevato come
le tariffe professionali degli avvocati siano applicabili
solo per quelle attività tecniche, o comunque collegate con
prestazioni di carattere tecnico, che siano considerate
nella tariffa, oggettivamente proprie della professione
legale.
Tali attività devono essere specificamente riferite alla
consulenza o assistenza delle parti in affari giudiziari o
extragiudiziari e non possono essere, quindi, applicate,
solo perché rese da un professionista iscritto all'albo,
alle prestazioni svolte nell'ambito di una commissione
mista, i cui atti siano imputabili esclusivamente all'organo
collegiale.
Alla luce di queste considerazioni ne deriva che, nel caso
in esame, in caso di commissione composta dal presidente
dell'Ufficio regionale per i pubblici appalti, da tre
professionisti ingegneri e/o architetti e da un
professionista esperto in materie giuridiche, il compenso di
quest'ultimo componente deve essere liquidato, sebbene
avvocato, non applicando le tariffe professionali forensi,
bensì secondo la misura stabilita dall'assessore regionale
per i lavori pubblici, al quale, per legge regionale, spetta
provvedere alla relativa determinazione (articolo ItaliaOggi
Sette del 16.05.2016). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Pareri pure senza motivazione.
Discrezionalità al Consiglio dell'Ordine degli avvocati.
PARCELLE/ Il Tar Umbria sui compensi contenuti tra minimi e
massimi tariffari.
I pareri di congruità espressi dal Consiglio dell'Ordine
degli avvocati sulla liquidazione delle parcelle
professionali, contenuta tra i minimi ed i massimi
tariffari, non richiedono specifica motivazione.
Lo ha
precisato il TAR Umbria con la
sentenza 10.05.2016 n. 395.
Nel caso in esame era stato chiesto l'annullamento del
provvedimento con cui l'Ordine degli avvocati di Perugia
aveva disposto la liquidazione di un compenso professionale
pari a euro 16 mila per l'attività svolta da un avvocato nel
corso di una controversia civile al fine di fare accertare
il mancato rispetto delle distanze legali tra costruzioni e
di chiedere la conseguente condanna a porre in essere le
opere necessarie a eliminare il manufatto illecitamente
realizzato.
Il ricorrente, sebbene la causa si fosse conclusa
positivamente, a suo favore, aveva lamentato che tale
provvedimento di liquidazione impugnato non conteneva alcuna
motivazione.
I giudici amministrativi respingono il ricorso.
Il Collegio osserva, infatti, come il parere di congruità
sulle parcelle professionali reso dal Consiglio dell'Ordine
degli avvocati sia un atto soggettivamente e oggettivamente
amministrativo. Tale atto non si esaurisce in una mera
certificazione della rispondenza del credito alla tariffa
professionale, ma implica una valutazione di congruità della
prestazione.
Dal momento che tale valutazione di congruità non si
esaurisce in un mero riscontro di conformità alla tariffa
delle prestazioni professionali degli avvocati, la
liquidazione così effettuata interviene nell'esercizio di un
potere ampiamente discrezionale che -secondo i giudici
amministrativi- se contenuta tra i minimi e i massimi
tariffari non richiede alcuna precisa motivazione
(articolo ItaliaOggi Sette del 16.05.2016
-
tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
Ciò precisato, va ricordato che secondo il costante
indirizzo giurisprudenziale,
il parere di congruità sulle parcelle professionali reso dal
Consiglio dell’Ordine degli avvocati è atto soggettivamente
ed oggettivamente amministrativo, che non si esaurisce in
una mera certificazione della rispondenza del credito alla
tariffa professionale, ma implica una valutazione di
congruità della prestazione.
Non esaurendosi dunque siffatta valutazione di congruità in
un mero riscontro di conformità alla tariffa delle
prestazioni professionali degli avvocati, la liquidazione
così effettuata interviene nell’esercizio di un potere
ampiamente discrezionale e, se contenuta tra i minimi ed i
massimi tariffari
(il che non è contestato nella fattispecie),
non richiede specifica motivazione, spettando al contrario
al professionista che lo contesti dedurre e provare che il
giudizio stesso si sia tradotto in una determinazione, che
finisce con il prescindere dal considerare l’effettiva
realtà delle prestazioni professionali rese
(in termini Cons. Stato, Sez. IV, 23.12.2010, n. 9352; Sez.
IV, 24.12.2009, n. 8749).
La liquidazione della parcella del ricorrente non è dunque
inficiata da vizio motivazionale, tanto più che, nella
vicenda in esame, vi è stata la nota dell’Ordine degli
Avvocati di Perugia in data 11.05.2015 che ha esplicitato al
ricorrente come «le valutazioni di merito sono […] da
ritenersi incorporate nelle annotazioni e nei depennamenti
posti a margine della Sua nota, che prevedeva uno scaglione
di riferimento differente rispetto a quanto dichiarato negli
atti di causa».
Piuttosto, esaminando le censure del ricorrente, il
Consiglio ha legittimamente preso a parametro lo scaglione
di valore indeterminabile (alto), mentre il ricorrente aveva
applicato quello del valore tra euro 500.000,00 ed euro
1.500.000,00; ed invero la domanda di accertamento della
realizzazione di un edificio in violazione delle norme sulle
distanze tra le costruzioni non consente di individuare il
valore effettivo della controversia, e, del resto, lo stesso
ricorrente aveva indicato un valore indeterminato ai fini
del contributo unificato.
Il “pro-memoria” esplicativo del valore della causa,
ipotizzante un intervento di demolizione e di
consolidamento, anche a prescindere dalla sua attendibilità,
non ha valore, in quanto attiene alla fase di esecuzione
della sentenza. |
SICUREZZA LAVORO: Dopo la fine dei lavori edili il cantiere non è chiuso.
Resta l’obbligo di vigilare sulla sicurezza dei lavoratori.
Cassazione. La posizione di garanzia del committente e del
coordinatore.
Il cantiere non può considerarsi chiuso una volta
ultimati i lavori di carpenteria: per gli addetti resta
dunque l’obbligo di vigilare sulla sicurezza degli operai.
La Corte di Cassazione
- Sez. IV penale, con
la
sentenza 09.05.2016 n. 19208, accoglie il ricorso del pm
contro la decisione del giudice per le indagini preliminari
di dichiarare il non luogo a procedere nei confronti del
coordinatore per la sicurezza e del committente, accusati di
omicidio colposo per la morte di un operaio.
Secondo il pm, il cantiere, al momento dell’incidente non
poteva dirsi chiuso, perché erano ancora in corso alcune
attività. Ad iniziare dallo “scassero” delle forme
utilizzate per i pilastri di cemento armato, tanto più che
non c’era stata nessuna rituale comunicazione di fine lavori
alla committente da parte della ditta affidataria.
Per la Suprema corte ci sono certamente margini per una
lettura alternativa a quella data dal gip, come evidenziato
dal consulente tecnico che aveva considerato verosimile la
sussistenza di un nesso di causalità tra la condotta degli
indagati e l’evento. Molte le irregolarità riscontrate:
dall’omessa verifica degli obblighi relativi
all’applicazione delle disposizioni sulla sicurezza previste
dal Piano di sicurezza e coordinamento, alla mancata
verifica della validità del contratto di subappalto, in
realtà nullo in origine per l’assenza di dettagli sui costi
della sicurezza.
La Cassazione mette l’accento sul primario compito di
coordinamento delle attività di più imprese nell’ambito di
uno stesso cantiere attribuito al coordinatore dalla legge (Dlgs
89/2008). Secondo la norma, per cantiere temporaneo o mobile
si intende qualunque luogo nel quale si effettuino lavori
edili: dalla costruzione alla demolizione. Si pone dunque in
netto contrasto con la legge l’interpretazione in base alla
quale con la fine dei lavori edili si esaurisce la posizione
di garanzia del coordinatore per l’esecuzione e del
committente.
Per la Cassazione, ciò che mantiene operante
tale ruolo non può essere tanto il mancato completamento
delle attività inerenti i lavori edili o di ingegneria
civile, quanto piuttosto la persistenza di ulteriori fasi di
lavorazione tipiche dell’attività di cantiere nel suo
complesso.
L’esecuzione di lavori edili o di ingegneria civile -scrivono i giudici- serve, a connotare, in ragione del tipo
di attività svolta, il cantiere temporaneo o mobile, ma non
è sufficiente a definire anche i suoi limiti spaziotemporali
«diversamente correlati al perfezionamento di tutte le fasi
di lavorazione anche successive ai lavori edili o di
ingegneria civile in senso stretto, funzionali al collaudo e
alla consegna dell’opera».
La vicenda, sottolinea la
Cassazione, impone, in sede di udienza preliminare, un esame
più dettagliato del fatto e del comportamento dei singoli
indagati (articolo Il Sole 24 Ore del
10.05.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
--------------
MASSIMA
5.1. Per contro, la vicenda, nella sua delicatezza e
peculiarità allo
stato delle indagini, presenta sicuramente possibilità di
lettura alternativa
rispetto a quella esposta dal Giudice, come del resto
manifestato dal consulente
tecnico del p.m. (ing. Gi.Ru.), il quale ha comunque
rappresentato la
verosimile sussistenza del nesso di causalità tra la
condotta, colpevole, degli
imputati Le. e Pr. e l'evento.
Quanto al primo si
evidenziava che lo
stesso aveva omesso di verificare l'adempimento, da parte
del coordinatore per
l'esecuzione dei lavori, degli obblighi relativi
all'applicazione delle disposizioni
sulla sicurezza previste dal Piano di Sicurezza e
Coordinamento (PSC), ed, in
particolare, di vigilare sulla presenza del Coordinatore in
cantiere e, inoltre, non
avrebbe assolto ad alcune rilevanti incombenze:
a) non
avrebbe verificato la
validità temporale del Documento Ufficiale di Regolarità
Contributiva dell'impresa
affidataria "Or.Co. srl", allegata alla
comunicazione d'inizio lavori;
b) non
avrebbe eccepito alcunché sulla validità del contratto di
subappalto intercorso tra
la suddetta e la "Ed.Ve. srl", sebbene lo stesso
ne avesse avuto la
contezza per averlo preventivamente autorizzato, in quanto
viziato, nella sua
genesi, dalla mancata specificazione dei costi relativi alla
sicurezza ex art. 26,
comma 5, D.Lgs. 81/2008, come tale, quindi, da ritenersi nullo
ai sensi
dell'art. 1418 del codice civile, quindi improduttivo di
effetti ab origine.
Quanto al
secondo si evidenziava che, oltre ad essere stato autore di
incoerenze su taluni
dati inseriti nell'iter procedimentale della gara di
appalto, aveva omesso di
ottemperare alle incombenze a lui prescritte dall'articolo
92, comma 1, D.Lgs.
81/2008.
6. Mette conto, ancora, ricordare che i compiti e la
funzione
normativamente attribuiti alla posizione di garanzia del
coordinatore per
l'esecuzione dei lavori risalgono all'entrata in vigore del
D.Lgs. 14.08.1996,
n. 494 (di attuazione della Direttiva 92/57/CEE)
-nell'ambito
di una generale e
più articolata ridefinizione delle posizioni di garanzia e
delle connesse sfere di
responsabilità correlate alle prescrizioni minime di
sicurezza e di salute da
attuare nei cantieri temporanei o mobili- a fianco di quella
del committente, allo
scopo di consentire a quest'ultimo di delegare, a soggetti
qualificati, funzioni e
responsabilità di progettazione e coordinamento, altrimenti
su di lui ricadenti,
implicanti particolari competenze tecniche.
La definizione
dei relativi compiti e
della connessa sfera di responsabilità discende, pertanto,
da un lato, dalla
funzione di generale, alta vigilanza che la legge demanda
allo stesso
committente, dall'altro dallo specifico elenco,
originariamente contenuto nel
D.Lgs. 14.08.1996, n. 494, art. 5, ed attualmente
trasfuso nel D.Lgs. n. 81
del 2008, art. 92, a mente del quale il coordinatore per
l'esecuzione è tenuto:
- a verificare, con opportune azioni di
coordinamento e controllo, l'applicazione, da
parte delle imprese esecutrici e dei lavoratori autonomi,
delle disposizioni loro
pertinenti contenute nel Piano di Sicurezza e di
Coordinamento (P.S.C.) e la
corretta applicazione delle relative procedure di lavoro;
- a
verificare l'idoneità del
Piano Operativo di Sicurezza (P.O.S.), assicurandone la
coerenza con il P.S.C.,
che deve provvedere ad adeguare in relazione all'evoluzione
dei lavori ed alle
eventuali modifiche intervenute, valutando le proposte delle
imprese esecutrici
dirette a migliorare la sicurezza in cantiere; a verificare
che le imprese esecutrici
adeguino, se necessario, i rispettivi P.O.S.;
- ad organizzare
tra i datori di lavoro,
ivi compresi i lavoratori autonomi, la cooperazione ed il
coordinamento delle
attività nonché la loro reciproca informazione;
- a verificare
l'attuazione di quanto
previsto negli accordi tra le parti sociali al fine di
realizzare il coordinamento tra i
rappresentanti della sicurezza finalizzato al miglioramento
della sicurezza in
cantiere;
- a segnalare, al committente o al responsabile dei
lavori, le
inosservanze alle disposizioni cautelari e alle prescrizioni
del P.S.C., proponendo
la sospensione dei lavori, l'allontanamento delle imprese o
dei lavoratori
autonomi dal cantiere, o la risoluzione del contratto in
caso di inosservanza;
- a
dare comunicazione di eventuali inadempienze alla Azienda
Unità Sanitaria
Locale e alla Direzione Provinciale del Lavoro
territorialmente competenti;
- a
sospendere, in caso di pericolo grave e imminente,
direttamente riscontrato, le
singole lavorazioni fino alla verifica degli avvenuti
adeguamenti effettuati dalle
imprese interessate.
6.1. Ed è proprio in relazione al primario compito di
coordinamento
delle attività di più imprese nell'ambito di un medesimo
cantiere,
normativamente attribuito a tale figura professionale, che
deve trovare
fondamento la definizione della sua posizione di garanzia
nel cantiere
temporaneo o mobile come positivizzata nel D.Lgs. n. 81 del
2008, art. 89,
comma 1, lett. a).
Secondo tale norma, per cantiere
temporaneo o mobile
s'intende qualunque luogo in cui si effettuano lavori edili
o di ingegneria civile,
ossia qualunque luogo in cui si effettuano lavori di
costruzione, manutenzione,
riparazione, demolizione, conservazione, risanamento,
ristrutturazione o
equipaggiamento; la trasformazione, il rinnovamento o lo
smantellamento di
opere fisse, permanenti o temporanee, in muratura, in
cemento armato, in
metallo, in legno o in altri materiali, comprese le parti
strutturali delle linee
elettriche e le parti strutturali degli impianti elettrici,
le opere stradali,
ferroviarie, idrauliche, marittime, idroelettriche e, solo
per la parte che comporta
lavori edili o di ingegneria civile, le opere di bonifica,
di sistemazione forestale e
di sterro; gli scavi, ed il montaggio e lo smontaggio di
elementi prefabbricati
utilizzati per la realizzazione di lavori edili o di
ingegneria civile.
6.2. Come è evidente, la lettera della legge non autorizza a
ritenere
che il cantiere temporaneo o mobile debba considerarsi
concluso, e che sia
correlativamente esaurita la posizione di garanzia del
coordinatore per
l'esecuzione e del committente, allorché siano terminate le
opere edili in senso
stretto, ponendosi tale interpretazione in contrasto tanto
con la pluralità delle
lavorazioni che, ordinariamente, afferiscono ai cantieri in
cui si eseguono lavori
edili, e che sono agli stessi funzionali, quanto con la
necessità di garantire la
massima sicurezza dei lavoratori legata al coordinamento
delle diverse attività
lavorative per tutto il tempo necessario a consentire la
completa esecuzione
dell'opera, ancorché í lavori edili in senso stretto siano
stati terminati in un
momento antecedente.
6.3. Ciò che mantiene operante la posizione di garanzia del
coordinatore per l'esecuzione e del committente non può
essere tanto il mancato
completamento delle attività inerenti ai lavori edili o di
ingegneria civile
propriamente detti, quanto piuttosto la persistenza di
ulteriori fasi di lavorazione
proprie dell'attività di cantiere nel suo complesso.
L'esecuzione di lavori edili o di
ingegneria civile giova, in altre parole, a connotare, in
ragione del tipo di attività
che ivi si svolge, il cantiere temporaneo o mobile, ma non è
sufficiente a definire
anche i limiti spaziotemporali di tale cantiere,
diversamente correlati al
perfezionamento di tutte le fasi di lavorazione, anche
successive ai lavori edili o
di ingegneria civile in senso stretto, funzionali al
collaudo ed alla consegna
dell'opera (cfr. sez. 4, n. 3809 del 07/01/2015).
6.4. Tanto vieppiù vale se si considera che non vi era stata
(e
comunque non ve n'è traccia agli atti) alcuna rituale
comunicazione di fine lavori
alla committente da parte dell'impresa affidataria. |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: Il preliminare è valido anche senza titoli edilizi.
Cassazione. Resta l’eseguibilità in forma specifica.
Non è nullo,
ed è comunque eseguibile in forma specifica, il contratto
preliminare di compravendita immobiliare che non rechi le
cosiddette «menzioni urbanistiche», vale a dire quei
contenuti, in ordine ai titoli edilizi in forza dei quali
l’edificio promesso in vendita è stato costruito o
ristrutturato, che è prescritto a pena di nullità per la
stipula del contratto definitivo dalla legge 47/1985 e dal Dpr 380/2001.
È quanto deciso
dalla Corte di Cassazione, Sez. II civile, nella
sentenza 09.05.2016 n. 9318, in
riforma della sentenza 195/2011 della Corte d’Appello di
Lecce, andata in segno contrario.
Come noto, gli atti traslativi della proprietà di edifici
devono contenere, a pena di nullità, talune menzioni o
dichiarazioni: ad esempio, la attestazione che l’edificio è
stato costruito prima del settembre 1967, la menzione dei
titoli edilizi che hanno abilitato le costruzioni post 1967,
la menzione delle domande di condono edilizio e dei relativi
versamenti di oblazioni e oneri, eccetera.
Quanto poi ai
contratti di compravendita di terreni, occorre allegare ad
essi il certificato di destinazione urbanistica e attestare,
nel corpo del contratto, che le prescrizioni degli strumenti
urbanistici non sono variate dalla data di rilascio di detto
certificato.
Si pone dunque il tema se tutto questo apparato di
dichiarazioni debba essere contenuto anche nel contratto
preliminare, e ciò anche in vista del fatto che, in caso di
inadempimento all’obbligo di stipula del contratto
definitivo assunto con il contratto preliminare, il
contraente non inadempiente può domandare al giudice (ai
sensi dell’articolo 2932 del Codice civile) l’emanazione di
una sentenza la quale tenga luogo del contratto definitivo
che non è stato spontaneamente stipulato a causa
dell’inadempimento di uno dei contraenti del contratto
preliminare.
La risposta è negativa: la mancanza nel preliminare dei
contenuti che sono prescritti per la validità del contratto
definitivo non inficia la validità del contratto preliminare
e la sua eseguibilità in forma specifica, in quanto ben può
il contraente non inadempiente integrare, nel corso del
giudizio, i dati utili al trasferimento immobiliare e che
manchino nel contratto preliminare.
In sede di giurisprudenza di legittimità è stato infatti più
volte affermato che, per ottenere la sentenza di esecuzione
in forma specifica di cui all’articolo 2932 del Codice
civile, non è necessario che nel contratto preliminare siano
inserite le dichiarazioni urbanistiche richieste, a pena di
nullità del contratto definitivo di compravendita: in tal
senso si sono espresse non solo le Sezioni Unite nella
sentenza 11.11.2009, n. 23825, ma anche diverse
sentenze delle sezioni semplici (a cominciare dalla 628/2003
per giungere alla 15947/2015, passando attraverso la
17028/2012 e la 28456/2013). La ragione è che (per
utilizzare le parole delle Sezioni Unite) tali dichiarazioni
non costituiscono un «presupposto della domanda, bensì una
condizione dell’azione, che può intervenire anche in corso
di causa e sino al momento della decisione della lite».
Questo significa, in sostanza, che la sentenza di esecuzione
in forma specifica può essere pronunciata anche nel caso in
cui le dichiarazioni in questione non siano state inserite
fin dall’origine nel testo del contratto preliminare, purché
esse siano rese nel corso del giudizio, e comunque prima
dell’emissione della sentenza che giudica sulla domanda di
esecuzione in forma specifica del contratto preliminare
(articolo Il Sole 24 Ore del
10.05.2016 - tratto da www.fiscooggi.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Pubblico impiego, legittimo lo stop alle ferie «monetizzate».
Spending review. Esclusi i casi di cessazione imprevista.
Il divieto di
monetizzare le ferie è «una normativa settoriale», nata
dall’obiettivo di «arginare un possibile uso distorto della
monetizzazione», e quindi non cozza contro il diritto al
riposo e l’obbligo di pagare il lavoro aggiuntivo rispetto a
quello stabilito dal contratto.
Su questi presupposti, nella
sentenza
06.05.2016 n. 95 la Corte costituzionale (presidente Lattanzi, relatore
Sciarra) ha salvato il blocco alla traduzione in euro delle
ferie dei dipendenti pubblici, imposto dal Governo Monti
nella spending review del 2012 (articolo 5, comma 8 del Dl
95/2012) all’interno del pacchetto di misure scritte per
frenare la spesa pubblica.
A portare la questione sui tavoli dei giudici delle leggi è
stato il Tribunale di Roma, che oltre a giudicare
«manifestamente irragionevole» (e quindi contrario
all’articolo 3 della Costituzione) lo stop assoluto alla
monetizzazione, ha chiamato in causa anche l’articolo 36
della Carta fondamentale, quello che fissa il diritto «al
riposo settimanale e a ferie annuali retribuite».
Per la Consulta, però, questi diritti costituzionali non
sono messi a rischio dalla spending review di Monti che anzi
riaffermerebbe «la preminenza del godimento effettivo delle
ferie».
Il meccanismo applicativo, disciplinato dalle istruzioni a
suo tempo diffuse da Inps, Ragioneria generale dello Stato e
Funzione pubblica, hanno infatti permesso di trasformare le
ferie in euro nel caso più a rischio, cioè quello in cui il
rapporto di lavoro con l’amministrazione di riferimento si
chiude per ragioni «che non chiamino in causa la volontà del
lavoratore e la capacità organizzativa del datore di
lavoro».
In tutti gli altri casi, dalle dimissioni al
pensionamento, il diritto alle ferie non è messo a rischio,
perché se il rapporto di lavoro si chiude per ragioni
prevedibili o per la volontà del lavoratore c’è lo spazio
per prevedere l’uscita, e quindi programmare il riposo in
anticipo (articolo Il Sole 24 Ore del
07.05.2016). |
CONDOMINIO: Il lastrico solare resta comune.
Condominio. Bocciata la pretesa di un proprietario che
reclamava la proprietà esclusiva dopo aver sbarrato
l’accesso agli altri.
Per escludere
la natura di «parte comune» del lastrico solare non è
sufficiente che chi ne reclama la proprietà esclusiva ne
avesse precluso l’accesso agli altri condòmini.
Questo il principio
espresso dalla Corte di Cassazione -Sez. II civile- con la
sentenza 05.05.2016 n. 9035.
La vicenda prende le mosse da una coppia di coniugi che,
dopo aver acquistato alcuni appartamenti, conveniva in
giudizio la società venditrice, chiedendo che alla stessa
venisse ordinata la remissione in pristino del lastrico
solare che aveva riservato a sé.
La causa arrivava alla Cassazione che affermava che la
natura comune del bene non potesse essere esclusa in alcun
modo dal fatto che la società (ora condòmino) avesse privato
da alcuni anni gli altri condòmini dell’accesso diretto al
bene tramite le scale.
La Corte ricordava anzitutto come il lastrico solare sia
inserito esplicitamente tra le «parti comuni» elencate
dall’articolo 1117 del Codice civile, e che, in particolare,
già una recente decisione (la 4501/2015) della Cassazione
aveva così affermato: «La natura condominiale del lastrico
solare, affermata dall’art. 1117 Cod. civ., può essere
esclusa soltanto da uno specifico titolo in forma scritta,
essendo irrilevante che il singolo condòmino non abbia
accesso diretto al lastrico, se questo riveste, anche a
beneficio dell’unità immobiliare di quel condòmino, la
naturale funzione di copertura del fabbricato comune”.
Quindi
è stato ribadito che il diritto di condominio sulle parti
comuni (quali appunto il lastrico solare) può essere escluso
se per le obbiettive caratteristiche del bene serve in modo
esclusivo all’uso al godimento di un solo condòmino.
Nel caso affrontato, invece, il lastrico solare non aveva
perso la propria natura condominiale, rimanendo infatti “al
servizio” quale copertura del fabbricato comune nonostante
un solo condòmino avesse materialmente privato gli altri
condomini della possibilità di accedervi.
Secondo la Cassazione, inoltre, per vincere la presunzione
di comunione delle parti comuni elencate dall’articolo 1117
del Codice civile occorre verificare se se nel primo atto di
trasferimento di un unità immobiliare la proprietà del bene
potenzialmente rientrante tra le parti comuni sia stata o
meno riservata ad uno solo dei contraenti. Cosa che non era
affatto avvenuta in questo caso (articolo Il Sole 24 Ore del
06.05.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Legali, niente tetto agli onorari nelle
controversie sulle multe.
Il tetto per spese, competenze e onorari dei difensori nelle
cause davanti al giudice di pace, introdotto dal decreto
Salva Italia non opera nelle controversie di opposizione a
ordinanza-ingiunzione, a verbale di accertamento per le
violazioni al codice della strada e a cartella di pagamento
laddove si denuncia la mancata notifica della multa.
E ciò
perché deve ritenersi che la soglia introdotta dal dl 212/2011
operi soltanto nelle liti in cui il giudice di pace decide
secondo equità, mentre nelle controversie inerenti le
sanzioni amministrative si possono porre questioni complesse
che implicano decisioni secondo diritto, anche se la parte
opponente e la stessa amministrazione possono stare in
giudizio di persona.
È quanto emerge dalla
sentenza
05.05.2016 n. 8961 della VI Sez. civile della Corte di
Cassazione.
È stato accolto il ricorso del trasgressore, dopo la
sconfitta in sede di merito, quanto alla liquidazione di
competenze e onorari. Anche secondo il tribunale se si
litiga davanti al Gdp per una multa di 73 euro le spese di
giustizia non potrebbero essere liquidate in misura
superiore a 70. E invece no.
Il Salva Italia ha modificato
l'art. 91 cpc introducendo il tetto alle spese di giustizia
pari al valore della lite con un rinvio alle «cause previste
dall'art. 82, comma 1 cpc»: quest'ultima norma dispone che
«davanti al Gdp le parti possono stare in giudizio
personalmente nelle cause il cui valore non eccede euro
1.100».
Il legislatore, dunque, ha voluto mettere una soglia
solo per le controversie che sono attribuite alla
giurisdizione equitativa del Gdp: deve, infatti, ricordarsi
l'art. 113 Cpc, comma 2, secondo cui il Gdp decide secondo
equità le cause il cui valore non eccede 1.100 euro, salvo
quelle derivanti da rapporti giuridici relativi a contratti
conclusi secondo le modalità di cui all'articolo 1342 cc.
La limitazione delle spese, quindi, riguarda le controversie
nelle quali si può stare in giudizio da soli, mentre nelle
cause sulle multe la difesa tecnica non solo è giustificata
ma, in certi casi, indispensabile
(articolo ItaliaOggi del 06.05.2016). |
APPALTI: Gara:
è legittimo escludere l'offerta tecnica non idonea.
È legittima l'esclusione dalla gara di un'impresa autrice di
un'offerta giudicata inidonea dal punto di vista tecnico;
non sufficiente la sola penalizzazione in termini di
punteggio.
Lo ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. V, con
la
sentenza 05.05.2016 n. 1809 per una procedura di
affidamento di una concessione di nove anni del servizio di
illuminazione.
In particolare i giudici hanno precisato che
le difformità dell'offerta tecnica che pongono in evidenza
l'inadeguatezza del progetto proposto dall'impresa
offerente, rispetto ai requisiti minimi previsti dalla
stazione appaltante per il contratto da affidare,
legittimano l'esclusione dalla gara e non già la mera
penalizzazione dell'offerta nell'attribuzione del punteggio.
Questo perché tali difformità determinano la mancanza di un
elemento essenziale per la formazione dell'accordo
necessario per la stipula del contratto. Inoltre, ha detto
il Consiglio di stato, nell'ambito di un procedimento di
manifestazione di volontà contrattuale scandito da fasi
predefinite a livello normativo, l'esclusione dalla gara di
un concorrente per difformità essenziali dell'offerta
esprime il dissenso dell'amministrazione rispetto a un
prodotto o servizio giudicato non rispondente alle
caratteristiche tecniche minime previste nel progetto o nel
capitolato posto a base della selezione.
A fronte di ciò, l'amministrazione legittimamente può quindi
non riconoscere alcun punteggio durante la fase di
valutazione tecnica e procedere direttamente all'esclusione
dell'impresa dalla gara, manifestando il proprio dissenso
impeditivo della conclusione del contratto per mancanza
nell'oggetto dei profili qualitativi che la stessa
amministrazione si sarebbe attesa dal concorrente.
In particolare, la stazione appaltante aveva evidenziato
quattro punti specifici di inadeguatezza dei prodotti
offerti per l'adeguamento tecnologico degli impianti di
illuminazione, comportanti, secondo la stazione appaltante,
una diminuzione qualitativa di questi ultimi. Per il
collegio giudicante non vi era quindi alcun dubbio che si
potesse procedere all'esclusione dalla gara di un'impresa
autrice di un'offerta giudicata inidonea dal punto di vista
tecnico
(articolo ItaliaOggi del 13.05.2016
- tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
3. Il motivo è infondato.
Secondo la costante giurisprudenza di questo Consiglio di
Stato, le difformità dell’offerta tecnica che rivelano
l’inadeguatezza del progetto proposto dall’impresa offerente
rispetto ai requisiti minimi previsti dalla stazione
appaltante per il contratto da affidare legittimano
l’esclusione dalla gara e non già la mera penalizzazione
dell’offerta nell’attribuzione del punteggio, perché
determinano la mancanza di un elemento essenziale per la
formazione dell'accordo necessario per la stipula del
contratto (da ultimo: Sez. III, 21.10.2015, n. 4804,
01.07.2015, n. 3275; Sez. V, 17.02.2016, n. 633, 23.09.2015,
n. 4460).
Il collegio condivide ed intende dare continuità a questo
orientamento, sottolineando che nell’ambito di un
procedimento di manifestazione di volontà contrattuale
scandito da fasi predefinite a livello normativo
l’esclusione dalla gara di un concorrente per difformità
essenziali dell’offerta esprime il dissenso
dell’amministrazione rispetto ad un prodotto o servizio
giudicato non rispondente alle caratteristiche tecniche
minime previste nel progetto o nel capitolato posto a base
della selezione.
A fronte di ciò, l’amministrazione legittimamente può quindi
non riconoscere alcun punteggio all’esito della fase di
valutazione tecnica ed escludere l’impresa dalla gara,
manifestando il proprio dissenso impeditivo della
conclusione del contratto per mancanza nell’oggetto delle
qualità attese.
Ciò precisato, in questa ipotesi rientra pacificamente
quella oggetto della presente controversia, in cui all’esito
dell’attività valutativa la commissione giudicatrice
nominata dal Comune di Pisa per l’affidamento del servizio
di illuminazione pubblica ha enucleato quattro specifici
profili di inadeguatezza dei prodotti offerti dall’odierna
appellante per l’adeguamento tecnologico degli impianti di
illuminazione, comportanti, secondo la prospettazione della
stazione appaltante, una diminuzione qualitativa di questi
ultimi. Non vi è pertanto dubbio che la stessa
amministrazione potesse disporre l’esclusione dalla gara di
un’impresa autrice di un’offerta giudicata inidonea dal
punto di vista tecnico.
Inoltre, contrariamente a quanto sostiene la Co.Ge.I., tale
causa di esclusione non si pone in contrasto con il
principio di tassatività sancito dall’art. 46, comma 1-bis,
cod. contratti pubblici atteso che tale norma riguarda il
mancato rispetto di adempimenti solo documentali o formali o
privi, comunque, di una base normativa espressa, e non già
l’accertata mancanza dei necessari requisiti dell’offerta
che erano stati richiesti per la partecipazione alla gara
(in questo senso si è espresso questo Consiglio di Stato,
nelle seguenti sentenze: Sez. III, 17.11.2015, n. 5261; Sez.
V, 17.02.2016, n. 633, citata).
Infine, non è conferente il richiamo al principio di
equivalenza delle specifiche tecniche sancito dall’art. 68
cod. contratti pubblici, dal momento che esso presuppone la
corrispondenza delle prestazioni offerte dal prodotto
offerto e non già un’inidoneità di quest’ultimo rispetto
alle specifiche indicate dall’amministrazione e poste a base
di gara. |
PUBBLICO IMPIEGO: Ordine rifiutato? Va replicato.
Altrimenti il preside non può sanzionare l'insegnante.
Legittimo il rifiuto del docente se il dirigente non replica
l'ordine di servizio contestato. Il Tribunale di Treviso ha
dato ragione ad un docente che aveva posto un atto di
rimostranza a fronte di una disposizione del preside di
recarsi in una classe diversa da quella assegnata in orario.
La sentenza 05.05.2106 n. 219 è del giudice
del lavoro del TRIBUNALE di Treviso.
La normativa risale allo Statuto del pubblico impiego
(d.p.r. n. 3 del 10.01.1957) che, per la parte, è
rimasta vigente anche con il nuovo testo unico (il decreto
legislativo n. 165/2001) e con i sopravvenuti contratti
collettivi di lavoro; va annotato che il significato sotteso
alla norma applicata non scardina il principio della
dipendenza e subordinazione, ma rende partecipe il
lavoratore (entro alcuni limiti, come vedremo)
dell'obiettivo di buon andamento dell'attività della
pubblica amministrazione, dettato dell'art. 97 della
Costituzione.
Nel caso di specie, il dirigente scolastico
aveva ordinato ad un insegnante tecnico pratico (itp), in
compresenza con il docente di materia, di recarsi a fare
supplenza in una classe (seconda) che in quel momento era
rimasta scoperta. L'itp contestava l'ordine depositando atto
di rimostranza scritta e facendo rilevare il contrasto con
il proprio orario che lo vedeva contemporaneamente impegnato
in una classe quinta ed in attività programmata di
laboratorio per alunni che sarebbe andati incontro all'esame
di stato.
Il preside non reiterava la disposizione e,
prendendo atto del rifiuto dell'insegnante, comminava la
sanzione di sospensione dal servizio e dalla retribuzione
per tre giorni. Da qui nasceva il tentativo di conciliazione
non andato a buon fine, e successivamente il ricorso in
tribunale.
Hanno assunto rilevanza decisiva le limitazioni del dovere
verso il superiore poste dall'articolo 17 del dpr n. 3/1957
ove, per l'impiegato al quale venga impartito un ordine che
egli ritenga palesemente illegittimo, è fatta possibilità di
rimostranza con indicazione delle ragioni.
La norma prosegue
obbligando il dipendente a dare esecuzione al comando se
esso viene rinnovato per iscritto, istituendo così la figura
del «secondo ordine di servizio»; ulteriore e ben più grave
limite, qui non relativo al caso, è quello previsto a
chiusura della norma: «L'impiegato non deve comunque
eseguire l'ordine del superiore quando l'atto sia vietato
dalla legge penale». Appare qui evidente come, restando
esclusi casi clamorosi (ad esempio, l'ordine di rinchiudere
un ragazzo in un'aula) ed ormai lontani dal nostro contesto
scolastico, possano tuttavia nascondersi insidie
interpretative su casi di più sottile spessore (come
prescrivere dei lavori fisici a carico di un discente).
Il preside, nel fatto narrato, però non faceva seguire la
reiterazione dell'ordine e procedeva per vie disciplinari.
La sospensione è stata impugnata davanti al giudice del
lavoro che, nel valutare i presupposti di fatto e di diritto
che avrebbero reso applicabile la sanzione, ha viceversa
ritenuto corretto il comportamento del dipendente nel porre
atto di rimostranza e nell'attendere una rinnovazione dello
stesso mai posta in essere dal dirigente scolastico,
rendendo così privo di efficacia il primo ordine di
servizio. Il tribunale ha finanche precisato che l'art. 17
del dpr n. 3/1957 è rimasto in armonia con il successivo
T.U. n. 165/2001 e con i vari contratti.
L'istituto dell'atto di rimostranza è altresì previsto anche
per il personale Ata con un peculiare complemento nei
relativi contratti collettivi
(articolo ItaliaOggi del
17.05.2016). |
TRIBUTI: Società comunali senza sconti. Gli immobili posseduti non
beneficiano dell'esenzione Imu. La Cassazione considera tassativo l'elenco dei soggetti che
non pagano l'imposta.
Un immobile posseduto da una società costituita da più
comuni e utilizzato per lo svolgimento dell'attività di
smaltimento rifiuti non ha diritto a fruire dell'esenzione
Ici.
Il principio è stato affermato dalla Corte di
Cassazione, Sez. V civile, con la
sentenza
04.05.2016 n. 8872.
Naturalmente, la stessa regola vale per l'Imu.
Secondo la Cassazione, l'elencazione dei soggetti esenti
dall'imposta municipale è tassativa e una società di
capitali, ancorché costituita tra enti pubblici
territoriali, «non può fruire dell'esenzione, non rientrando
tra i soggetti esenti e non essendo possibile una
interpretazione analogica della norma agevolativa, siccome
norma eccezionale. A prescindere dalla ulteriore questione
se gli immobili della società siano destinati a scopi
istituzionali».
L'interpretazione dei giudici di legittimità è pienamente
condivisibile. L'esenzione Ici, ma lo stesso vale per l'Imu,
è prevista per gli immobili posseduti, oltre che dallo
stato, da regioni, province, comuni ed è condizionata dalla
destinazione effettiva che a questi viene data.
L'elencazione è tassativa, poiché tutte le norme che
prevedono agevolazioni sono di stretta interpretazione e non
è ammesso ricorrere all'analogia.
Per il riconoscimento
dell'esenzione non è sufficiente la volontà di utilizzare
l'immobile per scopi istituzionali. La destinazione deve
essere effettiva e concreta. In base all'articolo 7, comma
1, lettera a), del decreto legislativo 504/1992 non spetta
l'esenzione Ici e Imu se l'ente pubblico non fornisce la
prova che l'immobile abbia questa destinazione esclusiva.
Gli immobili, dunque, devono essere diretti a soddisfare
compiti dell'ente pubblico (sede o ufficio) che ne è
proprietario. È indispensabile che l'utilizzo avvenga in
forma immediata e diretta, e cioè da soggetti interni alla
struttura organizzativo-amministrativa dell'ente, poiché
solo in questo caso l'uso può essere caratterizzato da fini
istituzionali.
Per esempio la Commissione tributaria provinciale di Terni,
prima sezione, con la sentenza 237/2011 ha stabilito che la
provincia è tenuta a pagare l'Ici (e dal 2012 anche l'Imu)
se gli immobili non sono destinati al soddisfacimento di
compiti dello stesso ente pubblico che ne è proprietario.
Non è infatti sufficiente che li metta a disposizione di
terzi, anche se la provincia è obbligata a darli in uso allo
stato per lo svolgimento di attività didattiche (sede
universitaria).
Va ricordato che con l'introduzione dell'Imu è stato
ristretto l'ambito delle esenzioni prima riconosciute dalla
disciplina Ici. Non possono più fruire dell'agevolazione
fiscale gli immobili posseduti dalle camere di commercio,
industria, artigianato e agricoltura.
Non è stata riproposta l'esenzione neppure per i fabbricati
dichiarati inagibili o inabitabili che vengono recuperati
per essere destinati a attività assistenziali. Infine, con
la modifica dell'articolo 7, lettera a), sono state
ridisegnate le agevolazioni anche per gli immobili posseduti
dagli enti pubblici territoriali, poiché l'esonero dal
pagamento è limitato solo agli immobili siti sul proprio
territorio e non compete più per quelli ubicati sul
territorio di altri enti
(articolo ItaliaOggi del 13.05.2016). |
APPALTI:
Interdittiva antimafia, conta la «sostanza».
Imprese. I dati possono essere in altri provvedimenti.
Il meccanismo
dell’interdittiva antimafia, che serve a escludere dai
rapporti con la Pa e da sussidi o sovvenzioni le imprese in
odore di rapporti con la criminalità organizzata, deve
badare alla sostanza, e non è quindi vincolata a «formalismi
linguistici né a formule sacramentali».
Per essere efficace, può anche limitarsi a richiamare
sinteticamente i risultati scritti nei provvedimenti
dell’autorità giudiziaria, negli atti di indagine o negli
accertamenti della Polizia, se questi ultimi spiegano in
modo sufficiente il rischio di infiltrazioni.
Su queste basi il Consiglio di Stato, con la
sentenza 04.05.2016 n. 1743, ha bocciato il ricorso di un’impresa
campana che aveva già chiesto senza successo al Tar la
revisione dell’interdittiva.
Nella sentenza, però, i giudici
amministrativi fanno di più, e sulla base di una puntuale
ricostruzione normativa ricostruisce le regole generali
dell’interdittiva, e fissa il principio che si può
riassumere con la «prevalenza della sostanza sulla forma».
L’interdittiva, spiegano i giudici, serve a evitare alla Pa
rapporti con imprenditori con i quali manca la «fiducia
imprescindibile sulla loro affidabilità»: a farla cadere può
essere un complesso di elementi, da vicende anomale nella
struttura o nella gestione dell’impresa a rapporti di
parentela, amicizia, «colleganza» tali da indicare un
pericolo verosimile di infiltrazione.
Tutti questi fattori
possono essere riportati negli atti dell’autorità giuridiziaria, che non sono limitati alle sole sentenze, e
negli atti di indagine e di polizia.
Quando ci sono questi elementi, l’interdittiva è efficace, a
patto naturalmente che le “fonti” richiamate riportino dati
sufficienti a sostenerla. In caso contrario, l’obbligo di
motivazione puntuale viene assunto in prima persona dalla
Prefettura (articolo Il Sole 24 Ore del
05.05.2016). |
APPALTI:
Informativa senza troppi formalismi.
ANTIMAFIA/ Sentenza del Cds.
Informativa antimafia senza formalismi linguistici né
particolari formule. L'importante è che dalla valutazione si
evincano le ragioni sostanziali che giustificano la
valutazione di permeabilità mafiosa. E la sussistenza di
«relazioni pericolose» è desumibile dai più molteplici e
diversi rapporti di parentela, amicizia, colleganza,
frequentazione, collaborazione.
I principi ai quali le prefetture devono attenersi
nell'emanazione delle cosiddette informative antimafia,
ossia quel giudizio emesso in chiave preventiva per
interdire le imprese a rischio di infiltrazioni mafiose
dall'instaurare o proseguire rapporti con l'amministrazione,
sono stati enucleati dal Consiglio di Stato, Sez. III, con
la
sentenza 04.05.2016 n. 1743.
La sentenza chiarisce le direttive in materia, e, allo
stesso tempo, individua gli elementi oggettivi di rilievo
così come i criteri posti alla base di tali misure
preventive: come per esempio provvedimenti giudiziari, atti
di indagine, accertamenti svolti dalle forze di polizia in
sede istruttoria.
In sede di valutazione, vanno altresì esplicitate le ragioni
in base alle quali, secondo la logica del «più probabile
che non», sia ragionevole dedurre il rischio di
infiltrazione mafiosa nell'impresa. La sezione ha enucleato,
a solo titolo esemplificativo, un'ampia casistica di tali
elementi.
Essi non consistono solo nelle circostanze desumibili dalle
sentenze di condanna e dalle misure di prevenzione
antimafia, ma anche da tutti gli altri provvedimenti
giudiziari; dai più molteplici e diversi rapporti di
parentela, amicizia, colleganza, frequentazione,
collaborazione; da vicende anomale nella formale struttura o
nella concreta gestione dell'impresa
(articolo ItaliaOggi del 05.05.2016). |
APPALTI: La decertificazione non toglie l’obbligo dei documenti.
Consiglio di Stato. Nelle gare d’appalto.
Per la
verifica dei requisiti economico-finanziari e
tecnico-organizzativi dei concorrenti in una gara d’appalto,
la pubblica amministrazione ha solo la facoltà, ma non
l’obbligo di acquisire gli atti direttamente dagli archivi
pubblici. Infatti, con la cosiddetta decertificazione «si
snaturerebbe», fino alla sua «sostanziale abrogazione», il
controllo a sorteggio che precede l’apertura delle buste.
Il
Consiglio di Stato –sentenza
03.05.2016 n. 1716, IV Sez.– ha bocciato così il ricorso di due imprese contro
l’esclusione da una gara per la progettazione di alloggi per
il ministero della Difesa, disposta, in base all’ex Codice
appalti (articolo 48, Dlgs 163/2006), per aver presentato in
ritardo i certificati sui requisiti dichiarati nella
domanda.
Secondo le ricorrenti, avendo richiesto i documenti per
posta elettronica certificata, la stazione appaltante aveva
violato non solo il disciplinare di gara che le imponeva di
utilizzare solo fax o telegrammi, ma le stesse norme
generali (comma 5, articolo 77) che la obbligavano a
comunicazioni per via elettronica solo se previsto nel
bando. Ma, soprattutto, non aveva “semplificato” il
controllo degli atti, acquisendoli d’ufficio come dettato
dal Testo unico sulla documentazione amministrativa (Dpr
445/2000).
In linea col primo grado (Tar Salerno, sentenza 1319/2015),
il collegio ha spiegato che la norma (comma 5, articolo 77)
impone l’uso della Pec non quando scelta e “preferita” dagli
atti di gara, ma quando la Pa, come in questo caso, è tenuta
a rispettare il Codice dell’amministrazione digitale (Dlgs
82/2005); essendo poi norma speciale, essa prevale -«secondo una normale regola di interpretazione della legge»
e qui per il «fenomeno di eterointegrazione del bando»- su
quella generale (comma 1, articolo 77) pur se questa
consente alle stazioni appaltanti di scegliere tra posta,
fax, via elettronica o telefono, o una loro combinazione.
In ogni caso, si chiarisce che, anche se lo stesso Consiglio
di Stato ha ammesso l’applicabilità del Dpr 445/2000 agli
appalti pubblici e che «la norma sulla cd. decertificazione
costituisce una nuova regola generale sui rapporti tra
privati e Pa» anche per la fase in esame (sentenza
4359/2014), «ciò non comporta né che il concorrente sia per
ciò solo dispensato dal presentare la documentazione
richiestagli, né che la possibilità di cui si sia
eventualmente avvalsa l'amministrazione si trasformi in un
obbligo posto dalla legge a carico della medesima».
Al
contrario, verrebbe di fatto abrogato il subprocedimento di
controllo dei requisiti di chi partecipa alle gare
pubbliche, comprese le scadenze e soprattutto le sanzioni
non a caso fissate per l’operatore economico che non le
rispetti.
Ribadendo la perentorietà dei dieci giorni concessi per la
comprova (Adunanza plenaria, sentenza 10/2014), si è quindi
stabilito che in questa fase –verifica su almeno il 10%
degli offerenti in gara scelti con sorteggio pubblico-
«l’amministrazione ben potrà procedere alla verifica di
quanto dichiarato consultando gli archivi pubblici (ex artt.
43 e 71 Dpr n. 445/2000), ma certo non può sostituire la
propria iniziativa di ufficio a quelli che sono precisi
obblighi incombenti ai concorrenti chiamati agli adempimenti
di cui al citato art. 48» (articolo Il Sole 24 Ore del
19.05.2016).
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MASSIMA
2. L’appello è infondato e deve essere, pertanto,
respinto, con conseguente conferma della sentenza impugnata.
La presente controversia verte sul fatto che
l’amministrazione appaltante ha richiesto alle ditte
appellanti, in quanto sorteggiate, la documentazione di
comprovazione ex art. 48 d.lgs. n. 163/2006, mediante
e-mail inviata all’indirizzo di posta elettronica, e non già
–come indicato al punto 11 del “disciplinare di gara per
procedura aperta”– “a mezzo fax oppure telegramma”.
Dal che è conseguita l’esclusione dalla gara per non avere
la concorrente fornito in tempo utile (calcolato a decorrere
dalla ricezione della richiesta via mail) la documentazione
richiesta.
2.1. In relazione al primo motivo di appello il collegio
evidenzia che l’art. 77, co. 5, del d.lgs. n. 163/2006,
prevede che le amministrazioni pubbliche che sono tenute
all’osservanza delle disposizioni del Codice
dell’amministrazione digitale (d.lgs. n. 82/2005), operano
nel rispetto di tali disposizioni e delle relative norme di
attuazione ed esecuzione. E’, inoltre, previsto che “in
particolare, gli scambi di comunicazioni tra amministrazioni
aggiudicatrici ed operatori economici deve avvenire tramite
posta elettronica certificata”.
Benché, dunque, il comma 1 del medesimo art. 77 preveda, in
via generale, che “tutte le comunicazioni e tutti gli scambi
di informazioni tra stazioni appaltanti e operatori
economici possono avvenire, a scelta delle stazioni
appaltanti, mediante posta, mediante fax, per via
elettronica”, o anche per telefono o “mediante una
combinazione di tali mezzi”, qualora ricorra l’ipotesi di
una amministrazione pubblica tenuta ad operare nel rispetto
delle disposizioni del Codice dell’amministrazione digitale,
le comunicazioni stesse non possono che avvenire per il
tramite di posta elettronica certificata.
Si tratta, a tutta evidenza, di una normale relazione tra
disposizione generale (comma 1), e disposizione speciale
(comma 5), che come tale prevale sulla generale, secondo una
normale regola di interpretazione della legge.
D’altra parte, lo stesso comma 1 dell’art. 77, nell’indicare
in via generale i mezzi utilizzabili per le comunicazioni,
indica la “via elettronica ai sensi dei commi 5 e 6”, in tal
modo già prevedendo la possibilità che tale forma di
comunicazione –lungi dal dipendere dalla scelta volontaria
dell’amministrazione esplicitata nel bando– debba essere
quella obbligatoriamente seguita sia dall’amministrazione
sia dagli operatori economici.
Alla luce di tali presupposti normativi, la sentenza
impugnata ha condivisibilmente affermato la presenza di un
fenomeno di eterointegrazione del bando (Cons. Stato, sez.
VI, 11.03.2015 n. 1250), dovendo intendersi la previsione
di legge cogente e dunque integrativa delle previsioni del
bando, pur nelle ipotesi di suo omesso richiamo.
Nel caso di specie, peraltro, il punto VI.3 del bando di
gara (pagina 8) prevede espressamente che “è obbligo del
concorrente, ai fini della partecipazione alla gara,
indicare il domicilio eletto per le comunicazioni,
l’indirizzo di posta elettronica e il numero di fax al fine
dell’invio delle comunicazioni inerenti la procedura di
gara...”.
Né, a fronte della cogente disposizione di legge, può
assumere valore dirimente quanto previsto al punto 11 del
disciplinare di gara, posto che si tratta di disposizione
contenuta in un atto amministrativo generale, al quale non
può a tutta evidenza accordarsi alcuna possibilità di
prevalere su quanto obbligatoriamente disposto dalla legge.
D’altra parte, occorre ricordare che, come sostenuto dalla
giurisprudenza (Cons. Stato, sez. III, 11.07.2013 n.
3735; sez. V, 24.01.2013 n. 439), nelle gare pubbliche
il disciplinare di gara deve essere interpretato in
conformità a quanto statuito dal bando, atteso che le sue
disposizioni sono chiamate ad integrare, e non a modificare,
quelle del bando, ed in caso di contrasto prevalgono le
previsioni di quest’ultimo.
A maggior ragione dunque, come nel caso di specie,
a fronte
dell’assenza nel bando di previsioni espresse in ordine alle
modalità di comunicazione (peraltro richiedendosi
l’indirizzo di posta elettronica) e in presenza di una
cogente disposizione di legge in materia, non può trovare
alcuna considerazione quanto previsto dal disciplinare di
gara in contrasto con la legge.
Infine, occorre ricordare, quanto alla intervenuta
esclusione dalla gara, che la stessa è disposta dall’art.
48, co. 1, d.lgs. n. 163/2006, e, dunque, non è possibile
invocare la violazione, nel caso di specie, del principio di
tassatività delle cause di esclusione.
In definitiva, una volta accertata, per le ragioni innanzi
esposte, la regolarità della richiesta della documentazione
di comprovazione per via informatica, le conseguenze
derivanti dalla sua mancata (o intempestiva) presentazione
sono direttamente previste dalla legge (cfr., in ordine
all’obbligo di escussione della cauzione a fronte della
mancata prova del possesso di tutti i requisiti previsti
dalla legge per le gare disciplinate dal codice dei
contratti pubblici ed al conseguente obbligo, d’indole
comunque non lesiva, di segnalazione all’A.N.A.C., Ad. Plen.
nn. 2 del 2012 e 34 del 2014, cui si rinvia a mente del
combinato disposto degli artt. 88, co. 2, lett. d), 99 e
120, co. 10, c.p.a.).
2.2. E’ altrettanto infondato il secondo motivo di appello
(sub lett. b) dell’esposizione in fatto), con il quale si
ritiene che l’amministrazione avrebbe dovuto procedere ex
officio alla acquisizione della documentazione di comprovazione, ai sensi degli art. 40 (nel testo modificato
dall’art. 15, l. n. 183/2011) e 43, co. 1, DPR n. 445/2000.
La parte appellante a tal fine richiama la giurisprudenza di
questo Consiglio di Stato (sez. V, 27.08.2014 n. 4359;
sez. III, 26.09.2013 n. 4785), che ha avuto modo di
affermare che “la norma sulla cd. decertificazione
(costituisce) una nuova regola generale sui rapporti tra
privati e P.A.”, di modo che “non si rinvengono, quindi,
ragioni per escludere che questa potesse essere applicata
anche alla materia degli appalti pubblici”, ed anche al
procedimento di verifica del possesso dei requisiti ex art.
48 d.lgs. n. 163/2006.
Orbene, in disparte ogni verifica in ordine alla possibilità
e agli esatti termini di applicazione della disciplina di
cui al DPR n. 445/2000 alle procedure di gara, ciò che
occorre chiarire è che, se è possibile affermare, sulla
scorta della indicata giurisprudenza, che in fase di
verifica ex art. 48 l’amministrazione ben possa procedere ad
acquisire documentazione facendo ricorso agli archivi
pubblici (ed è questo il caso oggetto della sentenza n.
4359/2014), ciò non comporta né che il concorrente sia per
ciò solo dispensato dal presentare la documentazione
richiestagli, né che la possibilità di cui si sia
eventualmente avvalsa l’amministrazione si trasformi in un
obbligo posto dalla legge a carico della medesima.
Così argomentando, per un verso si snaturerebbe il
subprocedimento di verifica dei requisiti dei partecipanti
alle procedure di affidamento, per altro verso, si
perverrebbe ad una sostanziale “abrogazione” dell’art. 48,
e, in particolare, dei termini cogenti da questo imposti e
delle sanzioni previste per il loro mancato rispetto.
Proprio perché si tratta di un subprocedimento di verifica
dei requisiti, incombe al concorrente procedere alla
comprova dei requisiti da esso stesso dichiarati; e proprio
per questo la legge prevede le sanzioni conseguenti al suo
comportamento omissivo.
L’amministrazione ben potrà procedere alla verifica di
quanto dichiarato consultando gli archivi pubblici (ex artt.
43 e 71 DPR n. 445/2000), ma certo non può sostituire la
propria iniziativa di ufficio a quelli che sono precisi
obblighi incombenti ai concorrenti chiamati agli adempimenti
di cui al citato art. 48.
In tal senso è la giurisprudenza dell’Adunanza plenaria del
Consiglio di Stato (cfr. n. 10 del 2014 cui si rinvia a
mente del combinato disposto degli artt. 88, co. 2, lett.
d), 99 e 120, co. 10, c.p.a.).
3. Per le ragioni esposte, l’appello deve essere rigettato,
con conseguente conferma della sentenza impugnata. |
SICUREZZA LAVORO: Non si sfugge alla sicurezza.
La sentenza della corte di cassazione.
Una qualsiasi prestazione lavorativa, al nero o resa a
titolo amichevole, presuppone l'osservanza delle misure di
sicurezza sul lavoro.
È la volta, da ultimo, della
sentenza
02.05.2016 n. 18208 della Corte di Cassazione, Sez.
IV penale.
Il titolare di un'officina ricorreva avverso la sentenza
che, riformando quella di primo grado, lo aveva riconosciuto
corresponsabile del reato di omicidio colposo aggravato
dalla violazione della normativa antinfortunistica in danno
altra persona.
L'imputato, nella qualità di titolare di
un'impresa esercente la attività di lavorazione in ferro,
era stato chiamato a rispondere della morte di un lavoratore
che, mentre era impegnato a eseguire lavori di montaggio di
una ringhiera in ferro ad un balcone esterno di un
fabbricato in costruzione, era precipitato al suolo
dall'alto, riportando lesioni mortali.
L'addebito di colpa
era stato ravvisato nell'avere l'imputato omesso le adeguate
misure precauzionali atte a prevenire le cadute dall'alto:
in assenza di impalcati di protezione o parapetti, adeguata
cintura di sicurezza. Sostenevano tra l'altro i giudici
d'appello che nessun rilievo per escludere la responsabilità
poteva farsi discendere dalla mancanza di un formale
rapporto lavorativo tra vittima e imputato (la
collaborazione della vittima era basata su un rapporto
amicale), perché tale circostanza non escludeva l'obbligo
del rispetto della normativa cautelare.
Con il ricorso per
Cassazione si invocava il proscioglimento pieno,
sostenendosi una diversa ricostruzione dell'incidente, e
riproponendosi la tesi della collaborazione amicale che
escluderebbe l'applicabilità della normativa prevenzionale.
Infondata, a giudizio della Suprema corte, è da ritenersi la
doglianza basata sull'assenza di formale rapporto di lavoro,
ove si consideri che le norme antinfortunistiche non sono
dettate soltanto per la tutela dei lavoratori, ossia per
eliminare il rischio che i lavoratori (e solo i lavoratori)
possano subire danni nell'esercizio della loro attività, ma
sono dettate finanche a tutela dei terzi, cioè di tutti
coloro che, per una qualsiasi legittima ragione, accedono
nei cantieri o comunque in luoghi ove vi sono macchine che,
se non munite dei presidi antinfortunistici voluti dalla
legge, possono essere causa di eventi dannosi.
Le
disposizioni prevenzionali, infatti, sono da considerare
emanate nell'interesse di tutti, finanche degli estranei al
rapporto di lavoro, occasionalmente presenti nel medesimo
ambiente lavorativo, a prescindere, quindi, da un rapporto
di dipendenza diretta con il titolare dell'impresa: non è
dubbia quindi l'applicabilità nel caso di interesse, laddove
è pacifica l'attività comunque prestata dalla vittima in
favore dell'imputato, quale che ne sia stata la «causale»
(amicizia o altro). Respinto il ricorso con conferma della
condanna
(articolo ItaliaOggi del
20.05.2016).
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MASSIMA
Infondata è la doglianza basata sull'assenza di formale
rapporto di lavoro, ove si consideri che le norme
antinfortunistiche non sono dettate soltanto per la tutela
dei lavoratori, ossia per eliminare il rischio che i
lavoratori (e solo i lavoratori) possano subire danni
nell'esercizio della loro attività, ma sono dettate finanche
a tutela dei terzi, cioè di tutti coloro che, per una
qualsiasi legittima ragione, accedono nei cantieri o
comunque in luoghi ove vi sono macchine che, se non munite
dei presidi antinfortunistici voluti dalla legge, possono
essere causa di eventi dannosi.
Le disposizioni prevenzionali,
infatti, sono da considerare emanate
nell'interesse di tutti, finanche degli estranei al rapporto
di lavoro, occasionalmente presenti nel medesimo ambiente
lavorativo, a prescindere, quindi, da un rapporto di
dipendenza diretta con il titolare dell'impresa
[Sezione IV, 06.11.2009, Morelli]: non è dubbia quindi
l'applicabilità nel caso di interesse, laddove è pacifica
l'attività comunque prestata dalla vittima in favore
dell'imputato, quale che ne sia stata la "causale"
[amicizia o altro]. |
ENTI LOCALI - VARI: Ospedali.
Parcheggi, no giustizia fai-da-te.
Rischia la galera il privato che fa rimuovere i veicoli in
divieto di sosta nella zona ospedaliera chiedendo la
corresponsione delle spese di custodia e trasporto del
mezzo. E non importa se a monte c'è un contratto scritto con
l'Azienda sanitaria.
Lo ha evidenziato la Corte di
Cassazione, Sez. II penale, con la
sentenza
02.05.2016 n. 18127.
All'interno dell'ospedale di Frosinone una ditta è stata
incaricata dall'Asl per la rimozione dei veicoli in divieto
di sosta. Effettuata la rimozione del mezzo o l'apposizione
delle ganasce i veicoli in difetto venivano quindi
riconsegnati ai proprietari previo pagamento delle spese.
A seguito di una serie di denunce sono scattate indagini
conclusesi col non luogo a procedere a carico degli
indagati. Ma per il collegio l'area di pertinenza
dell'ospedale è privata ad uso pubblico: si applica il
codice della strada.
Solo gli organi di polizia stradale possono pertanto
accertare ed elevare verbali
(articolo ItaliaOggi del 04.05.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO: Inps, danno da risarcire. Indennizzi certi per errati
estratti contributivi. L'analisi dell'Ancl in merito alle pronunce della Corte di
cassazione.
L'Inps deve rifondere il danno procurato in caso di rilascio
di estratto contributivo cui consegue l'errata convinzione
di poter essere collocato in pensione.
Così si e pronunciata
la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con la
sentenza
02.05.2016 n.
8604.
Tribunale e Corte d'appello avevano respinto la
domanda di un ex dipendente avente ad oggetto la richiesta
di condanna dell'Inps al risarcimento del danno derivatogli
dalla mancata percezione del trattamento pensionistico per
circa 18 mesi, in conseguenza dell'erronea comunicazione
della sua situazione contributiva da parte dell'Istituto
circa il numero dei contributi accreditatigli.
«In
particolare», osservavano i giudici d'appello, «il prospetto
contributivo, sul quale l'assicurato aveva fatto affidamento
per ritenere perfezionati i requisiti contributivi necessari
per la pensione, non aveva valore certificativo ai sensi
dell'art. 54 della legge n. 88/1989, trattandosi di una
semplice videata di computer, senza alcuna sottoscrizione da
parte dei funzionario responsabile», priva di indicazioni
circa la data alla quale, con quel numero di contributi
settimanali, il ricorrente avrebbe maturato il diritto alla
pensione di anzianità.
Il richiedente, invece, ben avrebbe
fatto a richiedere un nuovo estratto contributivo con
requisiti certificativi prima di accettare la risoluzione
del rapporto di lavoro. Contro questa sentenza il mancato
pensionato ha fatto ricorso in Cassazione.
Va premesso che
la stessa Corte ha avuto modo di esaminare il caso di
lavoratori che avevano rassegnato le dimissioni sul
presupposto, poi rivelatosi errato, di avere maturato i
requisiti di anzianità necessari per beneficiare della
pensione. In tali casi ha affermato che il lavoratore
indotto alle dimissioni dal comportamento dell'Inps ha
diritto al risarcimento del danno in un importo
commisurabile a quello delle retribuzioni perdute fra la
data della cessazione del rapporto di lavoro e quella
dell'effettivo conseguimento della detta pensione, in forza
del completamento del periodo di contribuzione a tal fine
necessario (Cass., 10.11.2008, n. 26925, in cui si e
statuito che, in caso di erronea comunicazione al
lavoratore, da parte dell'Inps, della posizione contributiva
utile al pensionamento, l'ente risponde del danno derivatone
per inadempimento contrattuale, salvo che provi l'estraneità
della causa dell'errore alla sua sfera di controllo e l'inevitabilità
del fatto impeditivo nonostante l'applicazione della normale
diligenza).
Si è, in particolare, evidenziato l'obbligo che
fa carico all'Istituto, ai sensi della legge 09.03.1989,
n. 88, art. 54, di comunicare all'assicurato che ne faccia
richiesta, i dati relativi alla propria situazione
previdenziale e pensionistica. Infatti, gli enti
previdenziali sono obbligati a comunicare, a richiesta
esclusiva dell'interessato o di chi ne abbia diritto ai
sensi di legge, i dati richiesti relativi alla propria
situazione previdenziale e pensionistica. Inoltre, la norma
dispone che «la comunicazione da parte degli enti ha valore certificativo della situazione in essa descritta». Si e poi
qualificata la responsabilità dell'Ente come contrattuale,
in quanto si tratta di obbligazione di origine legale
attinente ad un rapporto intercorrente tra due parti, con la
conseguente applicabilità dell'art. 1218 cod. civ.
Questa
norma pone espressamente a carico del debitore la prova che
l'inadempimento è stato determinato da impossibilità della
prestazione derivante da causa a lui non imputabile, prova
che esige la dimostrazione dello specifico impedimento che
ha reso impossibile la prestazione
(articolo ItaliaOggi del 13.05.2016). |
INCARICHI PROGETTUALI: I giovani professionisti possono limitarsi a firmare il
progetto. Appalti. L’interpretazione del Consiglio di Stato sui
raggruppamenti temporanei.
Spazio ai
giovani professionisti nella progettazione degli appalti
pubblici, sia che valga il testo unico 163/2006 sia che
valgano le norme applicative delle direttive europee (legge
11 e Dlgs 50 del 2016):
questo è il principio che si desume
dalla
sentenza 02.05.2016 n. 1680 del Consiglio di Stato,
Sez. VI.
La progettazione di lavori pubblici incentiva i
giovani professionisti prevedendo (articoli 253 e 263, Dpr
207/2010) che si possa operare con raggruppamenti temporanei
in cui vi sia almeno un professionista laureato abilitato da
meno di cinque anni all’esercizio della professione.
Secondo il Consiglio di Stato, la norma non impone una
specifica tipologia di rapporto professionale tra il giovane
professionista e gli altri componenti del raggruppamento
temporaneo di progettisti. Così basta che il raggruppamento
temporaneo comprenda un progettista che abbia anche «solo
sottoscritto» il progetto. Secondo i giudici, basta la
sottoscrizione del progetto, perché essa implica una
partecipazione professionale e, quindi, l’esistenza di un
rapporto professionale con il raggruppamento temporaneo.
Non sono quindi necessarie indagini ulteriori sul ruolo
rivestito dal giovane professionista all’interno del
raggruppamento o sulla tipologia specifica di rapporti tra
raggruppamento e professionista. Ciò perché la finalità
della norma è di promuovere la “presenza” del giovane
professionista nell’ambito del raggruppamento temporaneo,
consentendogli di maturare un’esperienza adeguata e di poter
così arricchire il proprio curriculum.
Diverso è il caso dell’indagine sui requisiti di
partecipazione per il personale tecnico (articolo 263, Dpr
207/2010): in materia di requisiti, si chiede alle imprese
concorrenti di fornire specifici dati circa le fatturazioni
Iva del personale tecnico utilizzato, con possibilità di
collaborazione a progetto solo nel caso di soggetti
esercenti arti o professioni.
Tra le agevolazioni per i giovani progettisti, c’è anche
quella sull’età professionale, poiché (articolo 253, Dpr
207/2010) si rimane «giovani professionisti» all’interno di
un quinquennio che decorre dall’iscrizione all’albo (e non
col superamento dell’esame di abilitazione). L’abilitazione,
infatti, è un requisito necessario per iscriversi, ma non
costituisce di per sé titolo all’esercizio della
professione: il solo esame di abilitazione non consente al
professionista di operare sottoscrivendo progetti,
occorrendo l’iscrizione all’albo.
Tutti questi concetti saranno utilizzabili anche nel regime
delle nuove direttive sugli appalti pubblici, poiché
identica, in più norme (articolo 1, lettera ccc, legge
11/2016; articoli 24, comma 5, 95, comma 13 e 154, comma 3, Dlgs 50/2016) è la logica di avvantaggiare i giovani
professionisti con migliori condizioni di accesso.
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.05.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
5.2. Sul requisito del giovane professionista (v. sopra,
pp. 2/a) e 3.2.).
Ad avviso dell'appellante l'articolo 253, comma 5, del d.lgs. n. 163/2006 richiede la sussistenza, tra giovane
professionista e RTP, di un rapporto di collaborazione
professionale o di dipendenza, condizione che, si afferma
nell'atto di appello, non sarebbe stata rispettata nel caso
di specie poiché la sottoscrizione del progetto da parte
dell'arch. Mo. non sarebbe indicativa della tipologia
di rapporto richiesto; anzi, si aggiunge, genererebbe dubbi
circa l'effettiva partecipazione del giovane professionista
all'attività progettuale.
Inoltre, si afferma nell'atto di
appello, il quinquennio di cui all'articolo 253, comma 5,
del d.P.R. n. 207/2010 decorrerebbe dalla data del
conseguimento dell’abilitazione all'esercizio della
professione, e non dall'iscrizione all'albo professionale.
E’ inoltre necessario, secondo l'appellante, che la qualità
di giovane professionista sia posseduta per tutta la durata
della procedura di gara, non potendo ritenersi sufficiente
il possesso del requisito di “giovane professionista” solo
alla scadenza della presentazione della domanda.
I profili di censura non sono meritevoli di accoglimento.
Diversamente da quanto sostiene l'appellante,
l'art. 253,
comma 5, del d.P.R. n. 207/2010, in base al quale “ai sensi
dell’art. 90, comma 7, del codice, i raggruppamenti
temporanei previsti dallo stesso art. 90, comma 1, lett. g)
del codice devono prevedere quale progettista la presenza di
almeno un professionista laureato abilitato da meno di
cinque anni all'esercizio della professione…”, nel fare
riferimento alla “presenza”, quale progettista, di almeno un
giovane professionista, non impone una specifica tipologia
di rapporto professionale che debba intercorrere tra il
giovane professionista e gli altri componenti del
raggruppamento temporaneo di progettisti, sicché per
integrare il requisito richiesto è sufficiente anche l’avere
(solo) sottoscritto il progetto.
L’avvenuta sottoscrizione
del progetto implica certamente una partecipazione
professionale e, quindi, l’esistenza di un rapporto
professionale con il raggruppamento temporaneo, senza la
necessità di indagini ulteriori sul ruolo rivestito dal
giovane professionista all’interno del raggruppamento, e
sulla tipologia specifica di rapporti tra raggruppamento e
professionista.
Né può dubitarsi del rispetto della “ratio”
della norma in quanto la finalità “promozionale” della
previsione concernente la “presenza” del giovane
professionista nell’ambito del raggruppamento temporaneo
–consentire al progettista di maturare un’esperienza
adeguata e di poter così arricchire il proprio “curriculum”– risulta rispettata.
Quanto agli ulteriori profili di censura sul punto, il
Collegio non condivide l'interpretazione, prospettata
dall'appellante, secondo la quale il termine quinquennale di
cui all'art. 253, comma 5, del d.P.R. n. 207/2010
–“professionista laureato abilitato da meno di cinque anni
all’esercizio della professione”- decorrerebbe dal momento
del superamento dell'esame di abilitazione.
Infatti, il mero superamento dell'esame di abilitazione non
legittima il laureato a fregiarsi del titolo professionale.
Si consideri sul punto quanto dispone l’art. 2229, comma 1,
cod. civ.: “la legge determina le professioni intellettuali
per l'esercizio delle quali è necessaria l'iscrizione in
appositi albi o elenchi”. Da ciò consegue che il titolo di
professionista è conseguito solo a seguito dell'iscrizione
nell'albo di riferimento, e che l'abilitazione è requisito
necessario per l'iscrizione anzidetta ma non costituisce di
per sé titolo legittimante all'esercizio della professione.
Il solo esame di abilitazione non consente al professionista
di operare come tale, sottoscrivendo progetti, poiché a
seguito di esso non risulta attestato il possesso dei
requisiti ulteriori occorrenti per l’esercizio della
professione; requisiti che invece sono attestati
dall’iscrizione all’albo, che costituisce dunque il solo
provvedimento “abilitante” in senso proprio all’esercizio
della professione.
Bene quindi la sentenza di primo grado ha considerato
irrilevante, al fine suindicato, il momento –anteriore-
dell’abilitazione, “che costituisce una delle fasi del
percorso di abilitazione all’esercizio della professione,
percorso che inizia con la laurea e termina con l’iscrizione
all’albo”.
E in maniera corretta il Tar ha aggiunto che le vicende
successive alla scadenza del termine della presentazione
della domanda –“e segnatamente il tempo occorrente
all’Amministrazione per la definizione della procedura di
gara”– non possono essere imputate alla impresa
partecipante alla gara, sicché, diversamente da quanto
sostenuto nell’appello, il possesso del requisito di
“giovane professionista” non è richiesto per tutta la durata
della procedura di gara.
E’ invece sufficiente, come è avvenuto nella specie, che il
requisito di “giovane professionista” sia posseduto al
momento della presentazione della domanda.
Appare evidente infatti come i requisiti come quello in
questione non possano soggiacere all’incertezza della durata
delle procedure di gara e dunque al principio di continuità
dei requisiti.
Risulta perciò inappropriato il richiamo compiuto
nell’appello a Cons. Stato, Ad. plen. n. 8 del 2015, nella
parte in cui si sancisce che “nelle gare di appalto per
l'aggiudicazione di contratti pubblici i requisiti generali
e speciali devono essere posseduti dai candidati non solo
alla data di scadenza del termine per la presentazione della
richiesta di partecipazione alla procedura di affidamento,
ma anche per tutta la durata della procedura stessa fino
all'aggiudicazione definitiva ed alla stipula del contratto,
nonché per tutto il periodo dell'esecuzione dello stesso,
senza soluzione di continuità”. |
APPALTI: Si può valutare l'offerta anche senza scomporla.
Stazione appaltante non sindacabile.
In un appalto pubblico la mancata scomposizione degli
elementi di valutazione dell'offerta non è causa di
indeterminatezza dei criteri di valutazione, censurabile dal
magistrato amministrativa.
È quanto ha affermato il
Consiglio di Stato, Sez. III, con la
sentenza
02.05.2016 n. 1661.
La questione riguardava un bando di
gara per il quale la stazione appaltante non aveva ritenuto
necessario procedere alla cosiddetta scomposizione in pesi e
sub-pesi.
In particolare, i giudici hanno precisato che la mancata
previsione di sub pesi e sub punteggi per ciascun criterio
di valutazione qualitativa dell'offerta non costituisce
indice di indeterminatezza dei criteri di valutazione e
quindi non rappresenta un motivo di censura dell'operato
della stazione appaltante, sindacabile da parte del giudice
amministrativo.
I giudici hanno chiarito che la possibilità
di individuare sub criteri è, infatti, meramente eventuale,
com'è palese dall'espressione letterale «ove necessario» che
figura all'art. 83, comma 4, del codice dei contratti (dlgs
163/2006). Si tratta di norma replicata all'articolo 95 del
nuovo codice (dlgs 50/2016) che prevede che «per ciascun
criterio di valutazione prescelto possono essere previsti,
ove necessario, sub-criteri e sub-pesi o sub-punteggi».
Per il Consiglio di stato la scelta compiuta dalla stazione
appaltante per una procedura di affidamento con il criterio
dell'offerta economicamente più vantaggiosa, «relativamente
ai criteri di valutazione delle offerte, ivi compreso il
peso da attribuire a tali singoli elementi, specificamente
indicati nella lex specialis, e ivi compresa anche la
disaggregazione eventuale del singolo criterio valutativo in
sub-criteri, è espressione dell'ampia discrezionalità che la
legge le ha attribuito per meglio perseguire l'interesse
pubblico».
La sentenza ricorda che la scelta effettuata dalla stazione
appaltante sarebbe sindacabile in sede di legittimità «solo
allorché sia macroscopicamente illogica, irragionevole ed
irrazionale e i criteri non siano trasparenti e
intellegibili, non consentendo ai concorrenti di calibrare
la propria offerta»
(articolo ItaliaOggi del 06.05.2016).
---------------
MASSIMA
3. - Infondato è il secondo motivo.
3.1. - EBM ha dichiarato, in conformità al capitolato, di
non essere competente ad eseguire la manutenzione per una
lunga serie di tipologie di apparecchiature (più della metà
del valore delle prestazioni contrattuali); ciò, ad avviso
delle appellanti, renderebbe l’offerta inammissibile per
violazione del divieto di cessione del contratto, ex art.
118, comma 1, D.lgs. n. 163/2006, e del divieto di
immodificabilità soggettiva dell’esecutore della commessa
pubblica.
Inoltre, sarebbe eclatante lo sforamento del limite del 30%
del valore del contratto subappaltabile, limite imposto
dall’art. 118, comma 2, cod. appalti.
Neppure potrebbe richiamarsi il comma 12 dell’art. 118, in
quanto non si è trattato dell’affidamento di attività
specifiche (che esulerebbero dalla quota consentita per il
subappalto) ma dell’affidamento delle stesse prestazioni
principali.
3.2. - In proposito, il Collegio osserva che:
a) il ricorso
per gli interventi manutentivi ai costruttori, o a ditte
esclusiviste della manutenzione su delega del costruttore, è
consentito dal CSA (art. 3, pag. 7), senza limitazioni
quantitative, ed è giustificato dalla necessità di alta
specializzazione richiesta dal tipo di prestazioni e
apparecchiature;
b) nella dichiarazione resa il 09.04.2014 (doc. 2
allegato all’offerta) EBM ha dichiarato, sotto la propria
responsabilità, di possedere il “know-how complessivo che
copre una quota maggioritaria delle apparecchiature oggetto
di appalto” e, ciò nonostante, per alcune apparecchiature con
particolarità tecnologica dichiara di optare per una
gestione operata di concerto con i costruttori.
3.3. - Gli interventi in questione non ricadono nella
nozione di “subappalto”, ma nell’eccezione di cui al comma
12, lett. a), dell’art. 118 del D.lgs. n.163/2006,
trattandosi di “attività specifiche” che richiedono
interventi di professionisti ad hoc.
Si potrebbe, tutt’al più, trattare di “fornitura in opera”,
comportando la sostituzione di pezzi di ricambio di alto
valore, per i quali non si verifica solitamente la
condizione che il valore della manodopera supera del 50% del
valore dell’intero intervento, ricadendosi così
nell’eccezione al contratto di subappalto di cui all’art.
118, comma 11, codice dei contratti pubblici.
3.4. - Va qui, peraltro, ricordato, secondo l’insegnamento
da ultimo ribadito da AP n. 9 del 02.11.2015, che “il
subappalto è un istituto che attiene alla fase di esecuzione
dell'appalto (e che rileva nella gara solo negli stretti
limiti della necessaria indicazione delle lavorazioni che ne
formeranno oggetto), di talché il suo mancato funzionamento
(per qualsivoglia ragione) dev'essere trattato alla stregua
di un inadempimento contrattuale, con tutte le conseguenze
che ad esso ricollega il codice (tra le quali, ad esempio,
l'incameramento della cauzione).”
Dunque, anche un anomalo ricorso al subappalto non avrebbe
determinato l’esclusione dalla gara di EBM.
4. - Infondato è anche il terzo motivo di appello con cui si
denuncia l’inammissibilità dell’offerta di EBM perché
indeterminata e condizionata: infatti, per un verso, EBM
afferma di eseguire in proprio la parte eccedente il 30% del
servizio; per altro verso, dichiara di non avere la
competenza per oltre il 53% del valore delle prestazioni, in
violazione dell’art. 46, comma 1-bis, codice dei contrati
pubblici.
4.1. - La censura non è fondata in quanto, per le ragioni
già esposte, l’aggiudicataria si è avvalsa delle possibilità
consentite a tutte le partecipanti sia dalla legge di gara,
che dal codice dei contratti.
5. - Infondato è il quarto motivo di appello con cui si
deduce la violazione dell’art. 38 del D.lgs. n. 163/2006 per
avere EBM omesso di presentare la dichiarazione dei
requisiti di moralità del soggetto cessato dalla carica
l’anno antecedente la pubblicazione del bando, Sig. Pi.To., direttore generale con ampi poteri di
rappresentanza, assimilabili a quelli di un amministratore,
di ITAL TBS & Biomedical service S.p.a., socio di
maggioranza della società aggiudicataria.
Osserva il Collegio che
l’obbligo di cui all’art. 38 cit.
riguarda esclusivamente gli amministratori muniti di potere
di rappresentanza, ossia i soggetti che risultino titolari
della funzione rappresentativa derivante dallo statuto, vale
a dire il rappresentante legale della società, e non anche
chi ricopra la qualifica di direttore generale senza potere
di rappresentanza legale
(Consiglio di Stato sez. IV, 04.05.2015 n. 2231; Consiglio di Stato, sez. III,
02.03.2015, n. 1020).
Nella specie, non è rinvenibile nei confronti del direttore
generale suddetto alcuna attribuzione specifica di potere di
rappresentanza e amministrazione, atteso che, per espressa
disposizione statutaria (cfr. doc. 12, pag. 5, della visura
storica del registro delle imprese C.C.I.A.A. di Trieste), i
poteri di ordinaria e straordinaria amministrazione spettano
al Consiglio di amministrazione e i poteri di rappresentanza
legale spettano al Presidente e agli amministratori
delegati.
5.1. - Sotto altro profilo, EBM avrebbe dovuto essere
esclusa per non aver prodotto la dichiarazione contenente i
nominativi dei “familiari conviventi del socio di
maggioranza”, costituente obbligo in presenza di un numero
di soci pari o inferiore a quattro (ex art. 85, comma 3,
D.lgs. n. 159/2011).
La lettura della norma fatta dall’appellante è frutto di un
equivoco: la norma si può riferire solo al concorrente che
sia società di cui fanno parte fino a quattro soci “persone
fisiche”, non avendo senso logico, altrimenti, il
riferimento testuale al “familiare convivente”.
Nella fattispecie, invece, la TBS, socio di maggioranza di
EBM non è persona fisica, ma persona giuridica: non è
possibile ipotizzare nei suoi confronti un “familiare
convivente”.
6.- Con altro gruppo di motivi, le società appellanti
deducono, in via subordinata, l’illegittimità integrale
della gara.
6.1. - Sotto un primo profilo, le appellanti denunciano
l’illegittimità dell’art. 7 del capitolato e della tabella
allegata, che fisserebbe criteri di valutazione delle
offerte generici e indeterminati, in violazione dell’art. 83
del Codice dei contratti, prevedendo solo il relativo
punteggio massimo, ma senza alcuna ripartizione al loro
interno mediante l’individuazione di sub criteri, residuando
così ampio potere discrezionale in capo alla commissione.
Emblematici sarebbero i criteri n. 2 e n. 5, per ognuno dei
quali era prevista l’attribuzione di punti 20.
6.2. - Il motivo è infondato.
La tabella di cui all’allegato 13, “tabella di valutazione
delle offerte”, ha indicato con trasparenza i criteri di
valutazione e il punteggio massimo riferito a ciascun
criterio.
L’art. 7 del capitolato ha previsto l’attribuzione di un
coefficiente, compreso tra 0 e 1, da parte di ciascun
commissario, sulla base dei criteri elencati nell’allegato;
per ciascun elemento di valutazione qualitativo ha previsto
che, successivamente all’assegnazione del valore medio,
verrà operata la c.d. “riparametrazione”, riportando
all’unità il punteggio dell’offerente che ha ottenuto il
coefficiente con media maggiore; i coefficienti degli altri
offerenti verranno rapportati a questo, per ogni elemento di
valutazione, in maniera proporzionale.
Si tratta di una previsione conforme all’art. 120 DPR
207/2010 e all’allegato P, punto II, lett. a) n. 4 che
contempla la “riparametrazione”, la quale comporta il
calcolo dell’offerta economicamente più conveniente
attraverso il sistema dell’attribuzione di coefficienti
assoluti agli elementi qualitativi dell’offerta tecnica, e
il riposizionamento delle offerte a secondo dei coefficienti
riportati, secondo una formula matematica.
6.3. -
La mancata previsione di sub pesi e sub punteggi per
ciascun criterio di valutazione qualitativa dell’offerta non
è indice di indeterminatezza dei criteri di valutazione.
La possibilità di individuare sub criteri è, infatti,
meramente eventuale, com’è palese dall’espressione letterale
“ove necessario” che figura all’art. 83, comma 4, del codice
dei contratti.
La scelta operata dall'Amministrazione appaltante, in una
procedura di aggiudicazione con il criterio dell'offerta
economicamente più vantaggiosa, relativamente ai criteri di
valutazione delle offerte, ivi compreso il peso da
attribuire a tali singoli elementi, specificamente indicati
nella lex specialis, e ivi compresa anche la disaggregazione
eventuale del singolo criterio valutativo in sub-criteri, è
espressione dell'ampia discrezionalità che la legge le ha
attribuito per meglio perseguire l'interesse pubblico.
La scelta è sindacabile in sede di legittimità solo allorché
sia macroscopicamente illogica, irragionevole ed irrazionale
ed i criteri non siano trasparenti ed intellegibili, non
consentendo ai concorrenti di calibrare la propria offerta
(Consiglio di Stato, sez. V, 18/06/2015, n. 3105).
6.4. - Nella fattispecie, il bando di gara ha inteso
rinunciare alla suddivisione in sub-criteri e sub-punteggi e
optare per un'elencazione solo di criteri, senza al contempo
scomporre le cinque voci in sub-categorie rigidamente
ancorate alla riserva a loro favore di una quota-parte del
punteggio complessivo.
La scelta, nell'ottica dell'ente appaltante, di non
individuare sotto-voci meritevoli di separata
considerazione, giacché contraddistinte le voci principali
da profili tutti allo stesso modo rilevanti e coessenziali
ad un apprezzamento complessivo, si rivela non illogica,
comportando il vantaggio di evitare scomposizioni di
punteggio produttive di un disordinato frazionamento dei
giudizi e foriere di valutazioni finali disancorate da un
esame unitario.
6.5. - Non risulta neppure fondata la censura, collegata
alla precedente, secondo cui la mera attribuzione del
coefficiente numerico da parte di ciascun commissario
sarebbe illegittima in assenza della predefinizione nel
bando di sub criteri.
Come si è visto, si tratta di aspetti tra loro non
consequenziali:
la fissazione di sub criteri è meramente
eventuale e, d’altra parte, l’attribuzione dei coefficienti
è prevista dal capitolato in coerenza con il disposto
dell’all. P al regolamento al codice dei contratti, di cui
al DPR 207/2010.
7. - E’ destituito di fondamento anche il motivo con cui si
deduce che la Commissione avrebbe dovuto stabilire i criteri
motivazionali che intendeva utilizzare nell’attribuzione dei
punteggi prima di avviare il sub procedimento di valutazione
delle offerte tecniche.
In difetto, sarebbe impossibile ricostruire l’iter logico
seguito; sarebbero anche stati distrutti appunti, note,
etc., contenenti la valutazione in itinere.
Invero, i criteri di valutazione e il relativo punteggio,
come già detto, sono stati fissati nella lex di gara, per
cui nessun’altra attività di predeterminazione di punteggi
era richiesta alla Commissione.
Neppure si richiedeva una motivazione di tipo discorsivo,
per cui risulta irrilevante la distruzione di appunti di
ogni tipo.
In presenza di criteri sufficientemente puntuali, la
valutazione può estrinsecarsi mediante l'attribuzione di
punteggi numerici senza la necessità di ulteriore
motivazione, esternandosi in tal caso il giudizio della
Commissione ex se nella graduazione e ponderazione dei
punteggi assegnati
(Consiglio di Stato, sez. III,
15/01/2016, n. 112). |
VARI: Rinuncia all’eredità impugnabile se causa danno al creditore.
Successioni. Anche se c’è buona fede.
Il creditore
può contestare che il suo debitore abbia rinunciato a
un’eredità la cui accettazione avrebbe incrementato il suo
patrimonio, qualora la rinuncia comporti un «danno
sicuramente prevedibile» per il creditore «nel senso che
ricorrano fondate ragioni per ritenere che i beni personali
del debitore possano non risultare sufficienti per
soddisfare del tutto i suoi creditori».
Lo ha deciso la
Corte di Cassazione, Sez. VI civile, nella
ordinanza 29.04.2016 n. 8519.
Nel caso giunto all’esame della Corte, un soggetto, poi
fallito, aveva effettuato una rinuncia a un’eredità
devolutagli; il curatore del fallimento aveva dunque chiesto
al giudice l’autorizzazione ad accettare l’eredità lasciata
al rinunciante, ai sensi dell’articolo 524 del Codice
civile, il quale sancisce che se taluno rinunzia, benché
senza frode, a un’eredità con danno dei suoi creditori,
questi possono farsi autorizzare ad accettarla in nome e
luogo del rinunziante, al solo scopo di soddisfarsi sui beni
ereditari fino alla concorrenza dei loro crediti.
Dato che la rinunzia all’eredità è suscettibile di recare
danno al creditore del rinunziante, il quale non può
beneficiare dell’incremento del patrimonio del suo debitore
per effetto della mancata acquisizione dell’eredità da parte
del debitore stesso, la legge autorizza infatti il creditore
ad accettare l’eredità in nome e in luogo del rinunziante
(senza quindi che il creditore impugnante divenga un erede)
al fine di soddisfarsi sui beni ereditari.
All’accettazione
dell’eredità rinunciata, il creditore perviene per mezzo di
un’autorizzazione giudiziale, che non è un provvedimento di
giurisdizione volontaria, ma una vera e propria sentenza in
esito a un giudizio di natura contenziosa.
Per la Cassazione, dunque, il sopravvenuto fallimento del
rinunciante è circostanza «altamente verosimile» del fatto
che «il patrimonio del debitore, dato l’acclarato stato di
insolvenza, non sia sufficiente a fare fronte a tutte le
pretese creditorie».
Presupposti dell’azione di cui all’articolo 524 del Codice
civile sono dunque che, da un lato, la rinunzia all’eredità
effettuata dal debitore rappresenti un pregiudizio per i
suoi creditori (pertanto essi sono legittimati ad impugnarla
solo in quanto si tratti di un’eredità attiva); e, d’altro
lato, che la garanzia rappresentata per i creditori dal
patrimonio del debitore si riveli insufficiente. In altre
parole, il presupposto dell’azione è la sussistenza di un
danno prevedibile per il creditore a causa della rinuncia
all’eredità da parte del debitore, vale a dire l’esistenza
di fondate ragioni circa il fatto che il patrimonio del
debitore rinunciante sia sufficiente per il soddisfacimento
dei suoi debiti.
È invece irrilevante che il debitore rinunciante abbia un
intento fraudolento nel porre in essere la rinuncia
all’eredità (è anzi ininfluente la consapevolezza che il
debitore o gli ulteriori chiamati all’eredità abbiano del
possibile danno per il creditore, causato dalla rinuncia del
debitore: Cassazione, sentenza n. 3548/1995). Come del pari
è irrilevante che, a seguito della rinuncia, l’eredità sia
stata accettata da ulteriori chiamati o sia stata ad essi
devoluta per effetto del meccanismo dell’accrescimento che
si ha in caso di chiamata in quote eguali (articolo Il Sole 24 Ore del
04.05.2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Cattivi odori.
Concimi, il disagio ha un limite.
Chi gestisce un impianto di produzione di concime organico
deve prestare attenzione alle esalazioni rilasciate
nell'ambiente adottando ogni precauzione per limitare il
disagio dei residenti. Diversamente scatteranno prescrizioni
tecniche obbligatorie da parte della provincia.
Lo ha
chiarito il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza
28.04.2016 n.
1633.
Un comune romagnolo da anni convive
con un insediamento produttivo che trasforma le deiezioni
avicole in concimi. Tante le doglianze dei residenti.
A
seguito di una serie di sopralluoghi si è quindi reso
necessario adottare una misura limitativa delle emissioni e
contro questo provvedimento l'azienda ha proposto ricorso,
ma senza successo. Il testo unico ambientale permette di
adottare aggiornamenti ad hoc delle autorizzazioni già
rilasciate.
Nel caso esaminato dal collegio la negligenza
del gestore, unitamente al superamento della soglia di
normale tollerabilità degli odori, ha permesso alla
provincia di adottare un provvedimento limitativo, ai sensi
del dlgs 152/2006
(articolo ItaliaOggi del 04.05.2016).
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MASSIMA
L’appello è infondato.
Il nucleo argomentativo da cui muovono le censure è che la
situazione ambientale, scaturente dalle emissioni in
atmosfera prodotte dallo stabilimento, presa in
considerazione dall’amministrazione resistente, non
consentisse, in assenza della richiesta di modifica
sostanziale, di imporre nuove prescrizioni rispetto a quelle
già contenute nell’autorizzazione prima del decorso del
termine quindicennale della sua efficacia.
Tuttavia, a supporto di quanto dedotto, l’appellante
richiama solo una parte degli accertamenti effettuati dagli
organi tecnici preposti alla vigilanza ed al controllo della
salubrità dell’ambiente che, complessivamente considerati,
hanno indotto l’amministrazione ad adottare l’atto
impugnato.
Dai rilievi effettuati dal Corpo Forestale dello Stato,
dalla Polizia municipale e dal Servizio antinquinamento
(doc. 10 del fascicolo della Provincia) s’evidenzia una
gestione non oculata dell’impianto e delle prescrizioni
provinciali contenute nel provvedimento n. 476 del
19.10.2005.
A quelli facevano riscontro le note dell’Arpa (in data
29.05.2006 e 20.07.2006) che ribadivano la necessità di
predisporre i congegni necessari ad abbattere le emissioni
in atmosfera, nonché il rapporto effettuato dai Carabinieri
del nucleo tutela ambientale (datato 18.08.2006) laddove
rilevano l’assenza di chiusura della parti dello
stabilimento da cui provenivano le emissioni.
L’ASL, nella conferenza di servizi del 28.02.2007, ribadiva
la necessità di analoghe prescrizioni.
In definitiva l’indagine diacronica della
vicenda, alla luce degli atti versati in causa, mostra una
situazione altra da quella descritta dalla ricorrente,
integrante il presupposto previsto dall’art. 269 d.lgs. n.
152 del 2006 per modificare, nel senso dell’aggiornamento,
l’autorizzazione già rilasciata mediante l’adozione di nuove
prescrizioni necessarie per garantire la salubrità
ambientale e rispettare il valore limite di concentrazione
di odore.
Del resto l’art. 269, commi 7 e 8, d.lgs.
n. 152 del 2006 parla di “aggiornamento”
dell’autorizzazione. Il comma 8 precisa che è cosa diversa
dal mero rinnovo, e consiste nell’adeguamento modificativo
delle prescrizioni alle mutate situazioni di fatto e di
diritto, e che deve inerire alla originaria autorizzazione,
costituente espressione del potere esercitato
dall’amministrazione.
Il che trae altresì fondamento dall’accordo transattivo qui
stipulato dalla società appellante con la Provincia,
recepita nella Conferenza dei servizi (in data 07.05.2007),
ed infine nell’atto impugnato.
L’accordo transattivo –stipulato durante il procedimento
istruttorio– esemplifica e documenta la partecipazione al
procedimento della società. Ne segue l’infondatezza delle
censure che lamentano il difetto del contraddittorio e di
motivazione del provvedimento impugnato.
Da ultimo mette conto rilevare che l’insediamento
produttivo, essendosi adeguata la società ricorrente alle
prescrizioni per cui è causa, opera attualmente in forza
dell’autorizzazione unica ambientale rilasciata
dall’amministrazione competente (n. 2043 del 09.07.2014).
Conclusivamente l’appello deve essere respinto. |
TRIBUTI:
Pertinenze esenti se strettamente asservite.
Affinché un'area sia qualificabile come pertinenza, esente
da tassazione Ici, deve sussistere un vincolo d'asservimento
durevole delle aree al fabbricato, con il fine di
migliorarne le condizioni d'uso e il valore. In materia
fiscale, vista l'indisponibilità del rapporto, la prova
dell'oggettivo asservimento pertinenziale, che grava sul
contribuente, deve essere del resto valutata con maggior
rigore rispetto ai rapporti privatistici.
Così si è espressa la Corte di Cassazione, Sez. V civile,
con la
sentenza 27.04.2016 n. 8367.
Nel caso di specie (che ha riflessi anche sull'Imu) il
contribuente aveva impugnato sei avvisi di accertamento,
attraverso i quali il comune richiedeva il pagamento
dell'Ici relativamente a due aree edificabili, contigue a un
edificio di cui i ricorrenti erano proprietari.
I
contribuenti non le avevano infatti mai dichiarate, in
quanto le utilizzavano come giardino pertinenziale
dell'abitazione. Sia la Ctp che la Ctr confermavano la
correttezza degli avvisi. Il contribuente proponeva quindi
ricorso davanti alla Corte, che però lo riteneva infondato,
rilevando che le aree erano censite in catasto autonomamente
rispetto all'edificio al quale accedevano ed erano inserite
in zona territoriale omogenea B a prevalente destinazione
residenziale.
Nel caso di specie dunque la scelta pertinenziale avrebbe
avuto l'unica funzione di eludere il prelievo, in contrasto
con la reale natura del cespite, laddove la simulazione di
un vincolo di pertinenza al fine di ottenere un risparmio
fiscale può rappresentare abuso del diritto
(articolo ItaliaOggi del
21.05.2016).
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MASSIMA
Il motivo non è fondato.
Infatti, oggetto degli avvisi d'accertamento e liquidazione
emessi dal Comune di Ravarino e poi opposti, sono due aree,
autonomamente distinte nel catasto del predetto comune,
quali aree edificabili, in quanto inserite in zona
territoriale omogenea B a prevalente destinazione
residenziale, giusta estratti dello strumento urbanistico
allegati dalla parte resistente al presente ricorso.
Tali aree, come detto, sono censite in catasto
autonomamente, rispetto all'edificio al quale accedono e non
sono mai state fatte oggetto di dichiarazione e liquidazione
ai fini ICI (la parte contribuente, inoltre, avrebbe potuto
impugnare l'attuale classamento presso la competente sede
giudiziaria, mentre vi ha inizialmente prestato adesione,
ritenendo di beneficiare del maggior valore attribuito,
mentre, successivamente e nella presente sede, ha ritenuto
più rispondente al proprio interesse, attribuire un diverso
utilizzo all'area); questa circostanza, secondo
l'orientamento di questa Corte, non consente alla parte
contribuente di poter contestare l'atto impositivo,
deducendo la sussistenza di un asserito vincolo di
pertinenzialità; infatti, secondo l'orientamento che si
ritiene di condividere, "Il rapporto
d'ICI s'instaura attraverso la denuncia del contribuente,
mediante la quale egli dichiara la sua situazione di
possesso rilevante per l'ICI e sulla base di essa egli
stesso provvede alla liquidazione periodica dell'imposta.
L'impostazione iniziale viene variata, oltre che per
l'eventuale intervento accertativo del Comune, ogni volta
che nella situazione possessoria del contribuente
s'introduca una modificazione e il contribuente rinnovi la
dichiarazione adeguatrice...".
Nella odierna vicenda, il rapporto ICI è stato gestito come
una specie, del genere rapporto giuridico, fissato
inizialmente dal contribuente sul solo presupposto del
possesso dell'abitazione, con omissione di ogni riferimento
al possesso dei due terreni, sia a titolo di area
edificabile che di pertinenza, "...cosicché,
se lo stesso contribuente non ha affermato la sua
pertinenzialità in via di specialità, vuoi dire che egli ha
voluto lasciarlo nella sua condizione di area fabbricabile,
corrispondentemente alla regola generale. A questo
proposito, sovviene a rafforzare questa conclusione il
doveroso riconoscimento della volontà del privato di
valutare liberamente la convenienza dell'applicazione di
altre norme sulle aree fabbricabile, come quelle, per
esempio, che ne regolano l'espropriazione e la relativa
indennità...,"
(Cass. n. 19638/2009).
Pertanto, volendo fare "buon governo" delle superiori
considerazioni,
si deve ribadire che affinché un'area sia qualificabile come
"pertinenza" e, come tale, vada esente dalla
tassazione ICI, deve sussistere un vincolo d'asservimento
durevole, funzionale o ornamentale delle aree al fabbricato,
con il fine di migliorarne le condizioni d'uso, la
funzionalità e il valore; infatti, in materia fiscale,
attesa 'indisponibilità' del rapporto tributario, la
prova dell'oggettivo asservimento pertinenziale che grava
sui contribuente (quando, come nella specie, ne derivi una
tassazione attenuta) deve essere valutata con maggior rigore
rispetto alla prova richiesta nei rapporti di tipo
privatistico.
Pertanto,
la mera "scelta" pertinenziale non può avere alcuna
valenza tributaria, perché avrebbe l'unica funzione di
eludere il prelievo fiscale, evitando l'assoggettabilità al
precetto che impone la tassazione in ragione della reale
natura del cespite. E la possibile simulazione di un vincolo
di pertinenza, ai sensi dell'art. 817 c.c., al fine di
ottenere un risparmio fiscale, può essere inquadrata nella
più ampia categoria dell'abuso del diritto
(v. Cass. sez. un. n. 30055 del 2008).
Pertanto, secondo l'insegnamento di questa Corte "...per
qualificare come pertinenza di un fabbricato un'area
edificabile, è necessario che intervenga un'oggettiva e
funzionale modificazione dello stato dei luoghi che
sterilizzi in concreto e stabilmente lo "ius edificandi" e
che non si risolva, quindi, in un mero collegamento
materiale, rimovibile "ad libitum"..."
(Cass. n. 25127 del 2009). |
EDILIZIA PRIVATA: Niente permesso per le tende «a casetta».
Consiglio di Stato. L’utilizzo è temporaneo e la struttura
in alluminio è un accessorio.
Più elasticità
per le strutture che non generano veri e propri volumi,
comprese le tende rigide “a casetta”: lo sottolinea il
Consiglio di Stato nella
sentenza 27.04.2016 n. 1619,
che riguarda il Comune di Roma.
Il principio generale (articolo 3, comma 1, lettera e.5, del
Dpr 380/2001, Testo unico edilizia) è che le opere precarie
non hanno necessità di alcun titolo e ad esse sono
assimilati gli interventi di arredo (articolo 6, lettera e,
del Dpr).
Per qualificare un’opera come precaria non basta
verificare le caratteristiche dei materiali (spessore,
resistenza) né le modalità di collegamento al suolo (perni,
viti e bulloni, sistemi di ancoraggio). Occorre invece far
riferimento alle esigenze (di natura stabile o temporanea)
che l’opera sia diretta a soddisfare; in altri termini,
occorre tener presente il carattere dell’utilizzo
dell’opera, nel senso che se esso non è continuativo si può
dedurre una precarietà e quindi la collocabilità senza
titolo abilitativo.
Il caso esaminato riguardava due strutture di alluminio
anodizzato atte a ospitare una tenda retrattile in materiale
plastico comandata elettricamente, su un terrazzo; era
quindi dubbia la temporaneità della loro utilizzazione,
mentre non era in discussione la circostanza che la
struttura garantisse una migliore fruizione dello spazio.
Su questi presupposti, il Consiglio ha precisato che la
struttura non realizzava una «trasformazione edilizia e
urbanistica del territorio» che rendesse necessario, per il Dpr, uno specifico provvedimento. Infatti, l’opera
principale non è la struttura in sé, di plastica o metallo,
con parti mobili o fisse, bensì la tenda, quale elemento di
protezione da sole e agenti atmosferici, finalizzata ad una
migliore fruizione dell’esterno dell’unità abitativa. In un
contesto già edificato, quindi, la struttura in alluminio
anodizzato è un mero elemento accessorio, necessario al
sostegno ed all’estensione della tenda.
I giudici hanno anche escluso che si fosse in presenza di
una ristrutturazione edilizia, che (articolo 3, lettera d,
del Dpr), richiede «interventi rivolti a trasformare gli
organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere»,
che «comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni
elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione, la
modifica e l’inserimento di nuovi elementi e impianti».
Per
aversi ristrutturazione, sarebbe stato necessario che le
opere avessero consistenza e rilevanza edilizia, fossero
cioè tali da poter «trasformare l’organismo edilizio»,
condividendo pertanto natura e consistenza degli elementi
costitutivi di esso.
In sintesi, non occorre il previo rilascio del permesso di
costruire nel caso di una tenda retrattile, perché questa si
risolve in un mero elemento di arredo del terrazzo su cui
insiste. Solo nel caso in cui la struttura sia tamponata sui
due lati liberi da lastre di vetro mobili “a pacchetto”,
munite di supporti che manualmente scorrano in appositi
binari, con un vetro fisso superiore (timpano), il tutto
inserito nelle strutture di alluminio anodizzato, si
configurerebbe un vero nuovo volume (articolo Il Sole 24 Ore del
04.05.2016). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Parcheggi, vendite dal 2005. Resta il vincolo pertinenziale
se ultimati prima del 16 dicembre.
Spazi privati. Per la Cassazione cessioni vietate a chi è
estraneo al condominio.
Il problema
dei parcheggi nelle aree urbane continua ad assumere
primaria importanza, se si considera anche il susseguirsi di
disposizioni normative riguardanti la materia e le
molteplici pronunce da parte dei giudici.
Non possono, in ogni caso, essere autorizzate nuove
costruzioni se queste non vengono corredate di aree
destinate a parcheggio. La misura dell’area da destinare a
parcheggio è quella prevista dall’articolo 41-sexies della
legge 1150/1942 (e successive modifiche): un metro quadrato
ogni dieci metri cubi di costruito.
Spetta alla pubblica amministrazione accertare la conformità
degli spazi così destinati alla misura proporzionale
stabilita dalla legge.
Con l’entrata in vigore della legge 246/2005 è venuto meno
il vincolo di pertinenzialità tra parcheggi costruiti
nell’immobile (o nelle aree a esso pertinenti) e le unità
immobiliari site nell’immobile stesso, avendo l’articolo 12
della legge eliminato il diritto reale a favore di queste.
Così le aree di parcheggio si possano vendere liberamente
anche a soggetti estranei al condominio. Tale disposizione
conferma comunque l’obiettivo di imporre ai costruttori di
unità immobiliari di realizzare adeguati spazi di
parcheggio, senza alcun vincolo soggettivo di destinazione
in favore di queste.
La norma non è applicabile alle costruzioni e ai relativi
parcheggi realizzati prima del 16.12.2005, data di entrata
in vigore della legge, perché alla stessa non può
attribuirsi alcune effetto retroattivo. In tal senso si è
espressa la recente
sentenza
22.04.2016 n. 8220 della Corte di Cassazione, Sez. II
civile (relatore Antonio Scarpa), sul presupposto che
l’articolo 12 della legge 246/2005 «non ha effetto
retroattivo, né natura imperativa; ne consegue che nei casi
in cui, al momento dell’entrata in vigore della nuova
disciplina risultassero già stipulati gli atti di vendita
delle singole unità immobiliari, trova applicazione la
disciplina anteriore di cui al citato articolo 41-sexies
delle legge 1150 del 1942».
Quest’ultima imponeva, per le
nuove costruzioni, un vincolo soggettivo di destinazione fra
le unità immobiliari e gli spazi di parcheggio, vincolo che
impediva la circolazione libera di questi ultimi: box e
spazi di parcheggio già di pertinenza di un appartamento
sono destinati a restare così per sempre.
La sentenza, soffermandosi in modo analitico
sull’operatività dell’articolo 41-sexies e riprendendo
concetti già affermati dalla Suprema Corte, ribadisce che si
tratta di una norma imperativa e inderogabile, in
correlazione degli interessi pubblicistici da essa
perseguiti, che opera non soltanto nel rapporto fra il
costruttore o proprietario di edificio e l’autorità
competente in materia urbanistica, ma anche nei rapporti
privatistici riguardanti questi spazi, nel senso di imporre
la loro destinazione a uso diretto delle persone che
stabilmente occupano le costruzioni o a esse abitualmente
accedono.
Non sono ammesse deroghe mediante atti privati di
disposizione degli stessi spazi, le cui clausole difformi
sono perciò sostituite di diritto dalla medesima norma
imperativa, al punto che nel giudizio intercorrente tra gli
acquirenti degli immobili illegittimamente privati del
diritto all’uso dell’area a parcheggio e i terzi che abbiano
acquistato porzioni di tale area, la nullità di cui
all’articolo 1418 del Codice civile dei negozi stipulati dai
primi, nella parte in cui ha omessa tale inderogabile
destinazione, è rilevabile d’ufficio anche in via
incidentale.
Sotto tale profilo però precisa che si può giungere alla
nullità solo se, al momento della realizzazione degli
edifici, il costruttore ha fatto riserva di una ben
determinata e identificata area da destinare a parcheggio e
sempre che manchi un successivo trasferimento del medesimo
spazio su altre aree comunque idonee a tale utilizzazione al
momento del rilascio della nuova concessione in variante.
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Usucapione possibile per le aree di sosta.
Il caso. Usi non contestati.
La proprietà
delle aree interne e circostanti ai fabbricati di nuova
costruzione, su cui grava il vincolo pubblicistico di
destinazione a parcheggio, può essere acquistata anche per
usucapione. Il principio è confermato dalla sentenza 8820/16
con cui i giudici di legittimità confermano che il «possesso
utile ai fini di usucapione decorre in danno del
proprietario dal momento dell’atto di acquisto, essendo
soltanto a far tempo da esso possibile considerare
distintamente il diritto dominicale (trasferito) e quello al
parcheggio (non trasferito) sull’area destinata a
parcheggio».
Per la Cassazione l’usucapione in favore degli
acquirenti ha effetto estintivo anche del vincolo
pubblicistico di destinazione, stante l’efficacia
retroattiva reale dell’usucapione stessa.
Per gli acquisti «a titolo derivativo» invece opera il
principio per cui il vincolo di destinazione impresso alle
aree destinate a parcheggio non impedisce che il
proprietario dell’area possa riservare a sé, o trasferire a
terzi, il diritto di proprietà sull’area o su parti di essa,
fermo però il succitato diritto d’uso da parte dei
proprietari delle unità immobiliari site nel fabbricato
(articolo Il Sole 24 Ore del
03.05.2016).
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MASSIMA
IV. E' dapprima infondato il decimo motivo di ricorso.
Basta
ribadire, in proposito, come, secondo il costante
orientamento di
questa Corte,
la Part. 12, comma 9, della legge 28.11.2005, n.
246, che ha modificato l'art. 41-sexies della legge 17.08.1942, n.
1150, ed in base al quale gli spazi per parcheggio possono
essere
trasferiti in modo autonomo rispetto alle altre unità
immobiliari, non
ha effetto retroattivo, né natura imperativa; ne consegue
che nei casi
in cui, come quello in esame, al momento dell'entrata in
vigore della
nuova disciplina risultassero già stipulati gli atti di
vendita delle singole unità immobiliari, trova applicazione
la disciplina anteriore,
di cui al citato art. 41-sexies della legge n. 1150 del 1942
(Cass. 05.06.2012, n. 9090; Cass. 01.08.2008, n. 21003).
V. Il primo ed il secondo motivo del ricorso principale, la
cui
trattazione unitaria risulta opportuna per la loro
connessione, sono
invece fondati, per quanto di ragione.
Entrambi i motivi
sono
radicati sul presupposto della decisività del riscontro
dell'efficacia
di giudicato (diretto o riflesso) da attribuire alla
sentenza della Corte
d'Appello di Roma n. 388/1992 (intervenuta a suo tempo tra
gli
acquirenti degli appartamenti compresi negli edifici siti in
Roma,
Via ..., n. 685, Via ..., n. 16, e Via
..., n. 4 e la costruttrice S.r.l. Ed.Eg.), nei
confronti
degli attuali ricorrenti, i quali avevano a loro volta
acquistato i posti
auto, box e negozi realizzati nell'area da destinare a
parcheggio.
A
proposito di tale pronuncia, la Corte di merito ha affermato
che la
stessa non avesse efficacia in senso stretto di giudicato,
ma
comunque rivelasse "effetto riflesso nei confronti degli
appellati,
che, pur essendo rimasti estranei al detto giudizio, sono
titolari di
diritti ed obblighi, dipendenti dalla situazione giuridica
definitiva in
quel processo".
Ora, è vero che questa Corte ha più volte
affermato
che una sentenza passata in giudicato, anche quando non
possa
avere l'effetto vincolante di cui all'art. 2909 c.c., può
avere
comunque l'efficacia riflessa di prova o di elemento di
prova
documentale in ordine alla situazione giuridica che abbia
formato
oggetto dell'accertamento giudiziale, e che tale efficacia
indiretta
può essere invocata da chiunque vi abbia interesse,
spettando al
giudice di esaminare la sentenza prodotta a tale scopo e
valutarne
liberamente il contenuto, anche in relazione agli altri
elementi di giudizio rinvenibili negli atti di causa (da
ultimo, Cass. 20.02.2013, n. 4241).
Quel che tuttavia fa difetto nel caso in
esame, per
ravvisare, come fatto dalla Corte di Roma, un'efficacia
riflessa della
sentenza n. 388/1992 riguardo alle parti di questo giudizio,
che a
quello culminato nell'invocata pronuncia non parteciparono,
è il
presupposto della titolarità in capo a questi ultimi di
diritti ed
obblighi dipendenti dalla situazione giuridica definita in
quel primo
processo. L'assunto a base della statuizione qui impugnata
evidente
postula che solo l'efficacia ultra partes di quella sentenza
del 1992
possa rendere opponibile agli attuali ricorrenti l'ivi
conseguita
declaratoria del diritto reale ex lege all'uso del
parcheggio.
Vale,
all'opposto, un diverso principio, conforme al consolidato
orientamento di questa Corte, e nella sostanza seguito dalla
stessa
pronuncia qui impugnata, per il quale
il vincolo di
destinazione
impresso agli spazi per parcheggio dall'art. 41-sexies della
legge 17.08.1942, n. 1150, secondo il testo introdotto dalla
legge 06.08.1967 n. 765, art. 18, norma di per sé imperativa, non può
subire
deroghe mediante atti privati di disposizione degli stessi
spazi, le cui
clausole difformi sono perciò sostituite di diritto dalla
medesima
norma imperativa. Tale vincolo si traduce in una limitazione
legale
della proprietà, che può essere fatta valere, con
l'assolutezza tipica
dei diritti reali, nei confronti dei terzi che ne contestino
l'esistenza e
l'efficacia.
Pertanto
coloro che abbiano acquistato le
singole unità
immobiliari dall'originario costruttore-venditore, il
quale,
eludendo il vincolo, abbia riservato a sé la proprietà di
detti spazi,
ben possono agire per il riconoscimento del loro diritto
reale d'uso
direttamente nei confronti dei terzi ai quali l'originario
costruttore
abbia alienato le medesime aree destinate a parcheggio.
In
un tale giudizio (qual è quello in esame),
intercorrente tra
gli acquirenti
degli immobili illegittimamente privati del diritto all'uso
dell'area
pertinente a parcheggio ex art. 18 della legge 06.08.1967, n. 765,
ed i terzi che abbiano acquistato porzioni di tale area, la
nullità dei
negozi stipulati dai primi, nella parte in cui sia stata
omessa tale
inderogabile destinazione, con conseguente loro integrazione
"ope
legis", è rilevabile anche "incidenter tantum", sicché non
deve
necessariamente correlarsi alla verifica della sussistenza e
dell'opponibilità, in via immediata o, appunto, riflessa, di
un
giudicato conseguito nei confronti dell'originario
costruttore-venditore.
Come pure,
in un giudizio così congegnato, non si
impone nemmeno che sia convenuto il costruttore-venditore,
pur
spettando a questo l'eventuale diritto (personale) a
conseguire
l'integrazione del prezzo di acquisto da coloro che agiscano
per
ottenere il riconoscimento del loro diritto d'uso sugli
spazi vincolati
a parcheggio (Cass. 14.11.2000, n. 14731; Cass. 25.03.2004, n. n. 5755).
VI. Può poi passarsi all'analisi congiunta del quarto e
dell'ottavo
motivo di ricorso, anch'essi in logica connessione.
Questi
criticano
la sentenza della Corte di Roma, ai sensi dell'art. 360, n.
3, 4 e 5,
c.p.c., per non aver dato sufficiente rilievo nel suo
ragionamento alle
concessioni in variante ed in sanatoria, ed ai conseguenti
certificati
di abitabilità, che accompagnavano i titoli di acquisto
degli attuali
ricorrenti, provvedimenti che comprovavano il rispetto della
destinazione a parcheggio dell'area riservata; e per aver
determinato
l'asservimento a parcheggio di un'area di mq. 7.354,90,
anziché di
mq. 6.354,90.
In particolare, è oggetto di doglianza la frase della
pronuncia
d'appello secondo la quale l'art. 41-sexies della legge n.
1150/1942
"opera nel rapporto tra il costruttore o proprietario di
edificio e
l'autorità competente in materia urbanistica", sicché
quest'ultima
"non può porre nel nulla gli atti d'obbligo, formati col
Comune dal
costruttore, al fine del rilascio della licenza edilizia".
Tali patti
d'obbligo, secondo quanto illustra la stessa sentenza
impugnata a
pagina 32, individuavano in mq. 6.354,90 l'area da destinare
a
parcheggio. Il Tribunale ha invece determinato in mq.
7.354,90 la
stessa area, disponendo il prosieguo istruttorio per
individuare
tramite CTU consistenza e posizione di quest'area.
I due motivi sono parzialmente fondati, per quanto di
ragione.
Non esiste il denunciato vizio di ultrapetizione in quanto
la
normativa urbanistica, dettata dall'art. 41-sexies della
legge n. 1150
del 1942, si limita a prescrivere, per i fabbricati di nuova
costruzione, una misura proporzionale alla cubatura totale
dell'edificio da destinare obbligatoriamente a parcheggi,
pari ad un
metro quadrato per ogni venti metri cubi di costruito,
secondo i
parametri applicabili per l'epoca dell'edificazione. Tale
misura
proporzionale è imposta dalla legge, sicché l'eventuale
metratura
prospettata dalla parte con l'atto introduttivo di un
giudizio volto al
riconoscimento del diritto d'uso a parcheggio ha solo valore
indicativo, per cui non incorre in ultrapetizione il giudice
che, sulla
base delle risultanze processuali, determini l'estensione
della
relativa area in misura pure diversa e maggiore da quella
inizialmente quantificata dall'istante.
Per la concreta attuazione, invece, della costituzione del
diritto reale
di uso per parcheggio, soltanto in assenza di relativa
previsione nell'atto concessorio, o nel regolamento
condominiale, o negli atti di
acquisto dei singoli appartamenti, è consentito chiedere al
giudice
tale identificazione (Cass. 11.08.1997, n. 7474). Ai
fini del
rispetto del vincolo di destinazione impresso agli spazi per
parcheggio dall'art. 41-sexies citato, infatti, il rapporto
tra la
superficie delle aree destinate a parcheggio e la volumetria
del
fabbricato, così come richiesto dalla legge, va
effettivamente
verificato a monte dalla P.A. nel rilascio della concessione
edilizia.
La rimozione del vincolo a parcheggio sulle aree individuate
in sede
di rilascio della concessione edilizia come condizione
essenziale per
lo stesso rilascio, può tuttavia avvenire tramite una nuova
concessione in variante, al fine di trasferirlo su altre
zone
riconosciute idonee. L'art. 41-sexies della Legge
urbanistica opera,
pertanto, come norma di relazione nei rapporti privatistici
e come
norma di azione nel rapporto pubblicistico con la P.A., la
quale non
può autorizzare nuove costruzioni che non siano corredate di
dette
aree, costituendo l'osservanza della norma condizione di
legittimità
della licenza (o concessione) di costruzione, e alla quale
esclusivamente spetta l'accertamento della conformità degli
spazi
alla misura proporzionale stabilita dalla legge e della loro
idoneità
ad assicurare concretamente la prevista destinazione.
Manca,
pertanto, nel ragionamento seguito dalla Corte di Roma, la
verifica,
sollecitata dagli appellanti, dell'eventuale adeguato
trasferimento
dello spazio destinato a parcheggio, inizialmente fissato
coi patti
d'obbligo ed impressa nella concessione, su altre aree
comunque
idonee a tale utilizzazione, il che, come ora ricordato, ben
può
avvenire mediante il rilascio di una nuova concessione in
variante
(quali quelle dedotte dagli attuali ricorrenti), non avendo
il giudice ordinario il potere di attribuire agli acquirenti
di singole unità
immobiliari il diritto di impiegare come parcheggio uno
spazio, pur
se di proprietà del costruttore-venditore, in tutto o in
parte diverso
da quello destinato a tale uso, secondo la prescrizione
della
concessione edilizia, originaria o in variante (cfr. Cass.
30.07.1999, n. 6894; Cass. 14.11.2000, n. 14731; Cass. 05.05.2003, n. 6751; Cass. 13.01.2010, n. 378).
Sempre questa Corte ha affermato come
gli spazi che debbono
essere riservati a parcheggio ex art. 41-sexies possono
essere ubicati
indifferentemente nelle nuove costruzioni ed anche nelle
aree di
pertinenza delle stesse, trattandosi di modalità entrambe
idonee a
soddisfare l'esigenza, costituente la "ratio" della norma,
di
deflazione della domanda di spazi per parcheggio nelle aree
destinate alla pubblica circolazione, non essendo, peraltro,
consentito al giudice di sindacare le scelte compiute in
proposito
dalla P.A. (Cass. 22.02.2006, n. 3961).
Quanto, infine, alla rilevanza da attribuire nella presente
lite agli atti
d'obbligo intercorsi tra la società costruttrice e il Comune
di Roma,
torna utile richiamare l'insegnamento espresso
reiteratamente da
questa Corte, in forza del quale l'atto con il quale un
proprietario-costruttore si sia impegnato nei confronti del Comune, ai
fini del
rilascio della concessione edilizia, a conferire una
particolare
destinazione a determinate superfici, non è riconducibile
alla figura
del contratto a favore di terzi, di cui all'art. 1411 c.c.,
sia perché non
costituisce un contratto di diritto privato, sia perché non
ha neppure
la specifica autonomia e natura di fonte negoziale di un
regolamento
dei contrapposti interessi delle parti stipulanti,
caratterizzandosi,
piuttosto, come atto intermedio del procedimento
amministrativo volto al conseguimento del provvedimento concessorio finale, dal
quale promanano soltanto poteri autoritativi della P.A. e
non la
possibilità per i terzi privati di accampare diritti sulla
sua base.
Ne
consegue che,
per il rispetto dell'obbligo di destinazione
assunto dal
proprietario-costruttore, salva l'ipotesi che esso sia stato
trasfuso in
una disciplina negoziale all'atto del trasferimento della
singola unità
immobiliare da lui realizzata, i singoli condomini non hanno
alcuna
azione, fermo il diritto al risarcimento del danno qualora
l'inosservanza dell'obbligo concreti una violazione delle
norme
urbanistiche (Cass. 20.11.2006, n. 24572; Cass. 23.02.2012, n. 2742).
VII. Sono parzialmente fondati, per quanto di ragione,
altresì, il
terzo, il sesto ed il settimo motivo di ricorso, da trattare
congiuntamente sempre perché connessi.
La Corte d'appello ha, in estrema sintesi e facendo salve le
diversità
delle singole posizioni scrutinate, riconosciuto in favore
degli
appellanti principali ed incidentali l'acquisto dei
rispettivi beni per
usucapione decennale, fermo restando il vincolo di
destinazione a
parcheggio.
Ora, questa Corte ha effettivamente più volte riconosciuto
come "la
proprietà delle aree interne o circostanti ai fabbricati di
nuova
costruzione, su cui grava il vincolo pubblicistico di
destinazione a
parcheggio, può essere acquistata per usucapione, non
comportandone tale vincolo indisponibilità, inalienabilità e
incommerciabilità" (Cass. 15.11.2002, n. 16053; Cass.
07.06.2002, n. 8262).
Tale possesso utile a fini di
usucapione
decorre in danno del proprietario dal momento dell'atto di
acquisto,
essendo soltanto a far tempo da esso possibile considerare
distintamente il diritto dominicale (trasferito) e quello al
parcheggio
(non trasferito) sull'area destinata a parcheggio.
Non è
stata oggetto
di censura la sentenza impugnata nella parte in cui la
stessa ha
riconosciuto l'usucapione abbreviata ex art. 1159 c.c. in
favore
degli appellanti. La soluzione adottata avrebbe dovuto
indurre, in
verità, ad affrontare il profilo della configurabilità
dell'usucapione
decennale, ai sensi dell'art. 1159 c.c., in favore di colui
che abbia
acquistato, come nella specie, un'area di parcheggio asseritamente
vincolata al diritto d'uso "ex lege", quanto, in
particolare, alla
sussistenza del requisito del titolo idoneo a trasferire la
proprietà,
trattandosi di atto nullo per contrarietà a norme imperative
(cfr., in
senso contrario all'ammissibilità, Cass. 24.05.2013, n.
12996).
La questione è tuttavia sottratta all'esame di questa Corte
giacché,
come detto, non oggetto di gravame.
Ora, è evidente che la ravvisata usucapione in favore dei
terzi
acquirenti dell'area di parcheggio, a differenza di quanto
afferma la
sentenza della Corte di Roma, avrebbe effetto estintivo
anche del
vincolo pubblicistico di destinazione, in forza
dell'efficacia
retroattiva reale dell'usucapione stessa.
Quanto, viceversa, agli acquisti a titolo derivativo, opera
davvero il
principio per cui
il vincolo di destinazione impresso alle
aree
destinate a parcheggio, interne o circostanti ai fabbricati
di nuova
costruzione, di cui all'art. 41-sexies, legge n. 1150 del
1942, non
impedisce che il proprietario dell'area possa riservare a sé,
o
trasferire a terzi, il diritto di proprietà sull'intera
area, o su parti di
essa, fermo restando il succitato diritto d'uso da parte dei
proprietari
delle unità immobiliari site nel fabbricato (Cass. 24.11.2003,
n. 17882; Cass. 27.12.2011, n. 28950).
Tuttavia, nella vicenda oggetto di questo giudizio, perché
si possa
correttamente affermare la nullità ex art. 1418 c.c. di
quella parte dei
contratti di compravendita immobiliare nella quale al
trasferimento
della proprietà sulle singole porzioni dell'edificio non si
era
accompagnato anche quello della proprietà o, quanto meno,
del
diritto reale d'uso sulle pertinenziali porzioni dello
spazio riservato
al parcheggio degli edifici di Via ..., n. 685, Via ..., n. 16, e Via
..., n. 4, occorre
accertare:
1)
l'avvenuta riserva, al momento della realizzazione di tali
edifici,
all'interno degli atti d'obbligo intercorsi tra la società
costruttrice e
il Comune di Roma, se richiamati dagli atti di trasferimento
delle
singola unità immobiliari, e della concessione edilizia, di
una
determinata ed identificata area da destinare a parcheggio,
come
richiesto dalla Legge urbanistica;
2) il mancato successivo
trasferimento del medesimo spazio destinato a parcheggio nei
patti
d'obbligo e nella concessione, su altre aree comunque idonee
a tale
utilizzazione al momento del rilascio della nuova
concessione in
variante.
Solo, infatti, la determinazione di uno preciso spazio,
interno od
esterno agli edifici, idoneo ad essere utilizzato a scopo di
parcheggio, e la successiva stipulazione d'atti di
compravendita
delle singole porzioni immobiliari con espressa esclusione o
mancata menzione del contestuale trasferimento della
proprietà o
del diritto reale d'uso sulle pertinenziali porzioni del
detto spazio
riservato, consentono di pervenire alla dichiarazione di
nullità di
quegli atti.
Ove sia, diversamente,
accertato che, pur previsto negli
atti
d'obbligo e nella concessione edilizia, lo spazio da adibire
a parcheggio non sia stato affatto riservato a tal fine in
corso di
costruzione e sia stato impiegato, invece, per realizzarvi
manufatti
od opere d'altra natura (quali, nella specie, negozi) da
destinare a
diversa utilizzazione (ipotesi, cioè diversa, da quella in
cui allo
spazio realizzato conformemente al progetto sia stata
successivamente data una diversa destinazione in sede di
vendita),
non può dirsi nemmeno mai costituito il rapporto di pertinenzialità
ex lege voluto dalla legge urbanistica, sicché non
può ravvisarsi la
nullità parziale dei contratti di vendita aventi ad oggetto
quei diversi
manufatti, né farsi luogo a tutela ripristinatoria per
ottenere la
realizzazione ex novo dello spazio da destinare a parcheggio
non
riservato in corso d'edificazione, ammettendosi unicamente
una
tutela risarcitoria (Cass. 18.04.2003, n. 6329; Cass.
05.05.2009, n. 10341).
Secondo i principi generali di allocazione dell'onere
istruttorio,
spetta in ogni caso agli attori, i quali deducano la nullità
degli atti di
acquisto da parte di terzi di un'area di parcheggio
vincolata al diritto
d'uso ex art. 41-sexies Legge urbanistica, di provare che i
beni
oggetto di tali alienazioni siano compresi nell'ambito ben
delimitato
da tale norma (ovvero nell'apposito spazio riservato per
parcheggio
in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni venti
metri
cubi di costruzione, concretamente destinato a tal fine in
sede di
realizzazione del fabbricato), in quanto elemento
costitutivo del loro
asserito diritto, giacché ogni spazio ulteriore è
completamente
svincolato da detta disciplina e può, quindi, essere
liberamente
venduto, locato o costituire oggetto di altri negozi
giuridici (Cass. 23.01.2006, n. 1221). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Recupero dei buoni pasto Non incide sulle tasse.
L'indebito versato a titolo di buoni pasto può essere
recuperato, ma senza incidere sulla quota di tassazione
esente da prelievo tributario.
Questo è il principio
espresso dal TAR Puglia-Bari, Sez. III, con la
sentenza 21.04.2016 n.
528.
La vicenda riguardava alcuni dipendenti della Croce
rossa italiana, i quali si erano visti richiedere le
maggiori somme percepite in passato sui buoni pasto (euro
8,93 anziché euro 4,65), mediante prelievo sui ticket restaurant maturati successivamente ai provvedimenti di
recupero.
Il Collegio giudicante ha premesso che «i buoni pasto non
possono essere considerati un emolumento in natura, ma un
trattamento economico speciale perché incorporano un valore
monetario intrinseco, con la conseguenza che essi sono «dei
valori assimilabili a mezzi di pagamento, ancorché destinati
all'acquisto dei soli beni alimentari».
Inoltre si è
puntualizzato che «i buoni pasto sono una quota di reddito
imponibile per il valore nominale eccedente l'importo di
5,29, mentre sono esenti entro tale limite, stante la
peculiare loro natura di valore non accantonabile che,
pertanto, non esprime capacità contributiva, in quanto
indirizzato al soddisfacimento di un bisogno primario
incomprimibile».
In base a tali elementi i giudici
amministrativi baresi hanno ritenuto che la peculiare
destinazione di tale risorsa all'acquisto di un pasto non
costituisce un ostacolo assoluto alla ripetizione
dell'indebito, ma ciò non può avvenire sui ticket futuri di
spettanza degli interessanti, benché abbiano valore unitario
inferiore al limite di esenzione tributaria.
Infatti dal recupero deve restare esclusa la quota
dell'importo nominale dei buoni pasto considerata essenziale
per la soddisfazione delle esigenze alimentari del
percettore e tale quota, in mancanza di un'espressa
previsione normativa, coincide con l'importo esente da
imposte sui redditi.
Il Tar pugliese ha poi concluso
affermando che «il limite di tassazione previsto per i buoni
pasto traduce un principio immanente nell'ordinamento e,
dunque, non v'è ragione di escludere che, come il fisco,
anche il pubblico datore di lavoro non possa incidere su
dette risorse, benché entrambi, di regola, ne abbiano
titolo.»
(articolo ItaliaOggi Sette del 09.05.2016). |
PUBBLICO IMPIEGO: Il giudice lumaca resta al palo.
È legittimo il non conferimento di incarichi direttivi.
Il Tar Brescia sul caso di un magistrato che depositava in
grave ritardo le sentenze.
È legittima la decisione di non conferire incarichi
direttivi e semidirettivi ad un magistrato motivata con
riferimento al fatto che il giudice ha depositato con grave
ritardo diverse sentenze.
Lo ha confermato il TAR Lombardia–Brescia, Sez. I con l'ordinanza 21.04.2016 n. 309.
Nel caso in esame il Consiglio giudiziario presso la Corte
d'appello di Brescia aveva espresso diversi pareri negativi
per il conferimento di uffici direttivi e semidirettivi ad
un giudice a causa del susseguirsi di ritardi nel deposito
delle sue sentenze.
Tale circostanza era emersa dai
precedenti verbali del Consiglio giudiziario e riguardava il
biennio precedente. Più precisamente risultava che 49 delle
81 minute redatte dal giudice erano state depositate
nell'intervallo temporale tra i 181-365 giorni e 4 minute
oltre l'anno. Il magistrato aveva comunque chiesto la
sospensione dell'efficacia dei pareri negativi al fine di
ottenere un remand nei confronti del Consiglio giudiziario,
per la formulazione di una nuova valutazione.
Il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia,
sezione staccata di Brescia (Sezione Prima), respinge la
domanda cautelare.
Infatti, secondo il quadro normativo di riferimento (dlgs
160-2006 e successive circolari applicative) per il
conferimento delle funzioni direttive e semidirettive
assumono rilievo anche gli elementi desunti attraverso le
valutazioni di professionalità del magistrato di cui
all'art. 11 di detto decreto legislativo. La diligenza
costituisce uno dei parametri di tali valutazioni e –ai
sensi della lett. c) del comma 2 del citato art. 11– la
stessa diligenza è riferita, tra l'altro, «al rispetto dei
termini per la redazione e il deposito di provvedimenti».
Ebbene, nel caso specifico risulta una accertata situazione
storica nei ritardi e non solo. Risultano indette periodiche
riunioni (cinque per l'esattezza) da parte della presidente
della Corte d'appello, durante le quali sono state
«monitorate le criticità relative ai ritardi nel deposito
dei provvedimenti» del magistrato ricorrente e sono stati
stabiliti dei piani di rientro che sono stati parzialmente
rispettati.
Tali ritardi, secondo i giudici, hanno denotato una
difficoltà di gestione del ruolo e di conciliazione della
attività non strettamente «giudiziarie» con il ruolo
ordinario che ben giustificano i pareri negativi espressi
dal Consiglio giudiziario
(articolo ItaliaOggi Sette del 16.05.2016). |
INCARICHI PROFESSIONALI: L'avvocato ha un tris di doveri.
Sollecitazione, dissuasione e informazione al cliente.
La Corte di cassazione passa in rassegna le modalità
operative del professionista.
L'avvocato è tenuto ad assolvere, sia all'atto del
conferimento del mandato, sia nel corso dello svolgimento
del rapporto, ai doveri di sollecitazione, dissuasione e
informazione del cliente, visto che lo stesso avvocato è
tenuto a rappresentare all'assistito tutte le questioni di
fatto e di diritto, comunque insorgenti, ostative al
raggiungimento del risultato, o comunque produttive del
rischio di effetti dannosi.
È quanto ribadito dai giudici
della II Sez. civile della Corte di Cassazione con
la
sentenza
19.04.2016 n. 7708.
Inoltre, secondo
una ormai consolidata giurisprudenza della stessa Cassazione
(Cass., sez. 2ª, sentenza n. 14597 del 2004), è facoltà
dell'avvocato quella di richiedere al cliente gli elementi
necessari o utili in suo possesso; di sconsigliarlo
dall'intraprendere o proseguire un giudizio dall'esito
probabilmente sfavorevole.
I giudici hanno anche osservato
che sarà onere dell'avvocato fornire la prova della condotta
mantenuta e che al riguardo non potrà considerarsi
sufficiente il rilascio da parte del cliente delle procure
necessarie all'esercizio dello ius postulandi, «trattandosi
di elemento che non è idoneo a dimostrare l'assolvimento del
dovere di informazione in ordine a tutte le circostanze
indispensabili per l'assunzione da parte del cliente di una
decisione pienamente consapevole sull'opportunità o meno di
iniziare un processo o intervenire in giudizio».
Secondo gli Ermellini, poi, l'attività del professionista
legale tesa a persuadere il cliente al compimento o meno di
un atto, ulteriore rispetto all'assolvimento dell'obbligo
informativo, sarà concretamente inesigibile, oltre che
contrastante, con il principio secondo cui l'obbligazione
informativa dell'avvocato è un'obbligazione di mezzi e non
di risultato.
Il difensore è tenuto a informare i clienti sui diversi
punti della causa, e ciò si configura come dovere di
diligenza
(articolo ItaliaOggi Sette del 09.05.2016).
----------------
MASSIMA
1.2.2. - La motivazione resa dalla Corte territoriale
risulta
esente da censura.
Non può ritenersi che il difensore avesse il dovere di
insistere
per ottenere il consenso della parte alla chiamata in
causa del terzo: la diligenza cui era tenuto il difensore
nell'esercizio del suo mandato era stata assolta nel momento
in cui il cliente era stato informato sul punto (ex plurimis,
Cass., sez. 3^, sentenza n. 24544 del 2009).
Vero che, secondo la giurisprudenza di questa Corte,
l'obbligo di diligenza, ai sensi del combinato disposto di
cui
agli artt. 1176, secondo comma, e 2236 cod. civ., impone
all'avvocato di assolvere -sia all'atto del conferimento
del
mandato, sia nel corso dello svolgimento del rapporto-
anche
ai doveri di sollecitazione, dissuasione ed informazione del
cliente, essendo il professionista tenuto a rappresentare a
quest'ultimo tutte le questioni di fatto e di diritto,
comunque
insorgenti, ostative al raggiungimento del risultato, o
comunque produttive del rischio di effetti dannosi; di
richiedergli
gli elementi necessari o utili in suo possesso; di
sconsigliarlo dall'intraprendere o proseguire un giudizio
dall'esito probabilmente sfavorevole.
E' vero, di
conseguenza, che incombe sul professionista l'onere di
fornire la prova
della condotta mantenuta, e che al riguardo non è
sufficiente
il rilascio da parte del cliente delle procure necessarie
all'esercizio dello ius postulandi, trattandosi di elemento
che non è idoneo a dimostrare l'assolvimento del dovere di
informazione
in ordine a tutte le circostanze indispensabili per
l'assunzione da parte del cliente di una decisione
pienamente
consapevole sull'opportunità o meno di iniziare un processo
o
intervenire in giudizio
(Cass., sez. 2^, sentenza n. 14597
del
2004).
Ciò detto,
è altresì vero che l'attività di persuasione
del cliente al compimento o non di un atto, ulteriore
rispetto
all'assolvimento dell'obbligo informativo, è concretamente
inesigibile,
oltre che contrastante con il principio secondo
cui l'obbligazione informativa dell'avvocato è
un'obbligazione
di mezzi e non di risultato
(ex plurimis, Cass., sez. 3^,
sentenza
n. 10289 del 2015).
1.2.3. - Nel caso di specie la scelta del cliente, di non
chiamare in garanzia il terzo, era riconducibile a ragioni
fattuali e non giuridiche, non esplicitate dal cliente al
difensore,
mentre la consapevolezza delle conseguenze giuridiche
della mancata chiamata in garanzia, ossia l'impossibilità di
rivalersi sul garante, era contenuta nell'informazione resa
in
merito alla facoltà di chiamata in causa del terzo.
E del resto, il difensore non poteva prospettare in modo
certo al proprio cliente la responsabilità della ditta
installatrice
dell'impianto di allarme, a fronte della pronuncia di
merito che aveva ritenuto non accertato il nesso causale tra
inidoneità o malfunzionamento dell'impianto e perpetrazione
del furto.
Non sussiste, pertanto, la dedotta violazione di legge.
2. - Con il secondo motivo è dedotto vizio di motivazione
circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in
relazione
all'art. 360, primo coma, n. 5, cod. proc. civ., per
avere la Corte d'appello ritenuto che l'eventualità della
chiamata in garanzia del terzo non implicasse la risoluzione
di specifiche questioni processuali o di diritto
sostanziale,
ma fosse rimessa ad una valutazione di opportunità spettante
al cliente e non sindacabile dal difensore.
2.1. - La doglianza è infondata.
2.1.1. - Il dovere di informazione del difensore si
arrestava
dinanzi alla prospettazione della possibilità di chiamare
in garanzia la società che aveva installato l'impianto
antifurto
-peraltro, verificato pochi giorni prima del furto e
risultato non manomesso dopo la perpetrazione del furto- e
non residuavano altri oneri informativi o di sollecitazione
che il difensore avrebbe potuto fornire, alla stregua di
specifiche
cognizioni giuridiche di cui disponeva, tanto più che
la scelta della Sh.Te. di non chiamare in causa
l'installatore era riconducibile a ragioni di opportunità,
sulle quali il difensore non avrebbe potuto sindacare. |
APPALTI:
Busta in gara pure non controfirmata.
Forma no, sostanza sì. Non si può estromettere l'impresa
dalla gara per i lavori di progettazione soltanto perché la
busta con la sua offerta non risulta controfirmata. E ciò
anzitutto perché, specie in tempi di addio alla carta nella
procedura pubblica, imporre la sottoscrizione ai lembi
dell'involucro costituisce un inutile aggravamento dell'iter
burocratico; il tutto mentre la stazione appaltante dovrebbe
sforzarsi di favorire il più possibile la partecipazione
alle procedure pubbliche che pubblica.
È quanto emerge dalla
sentenza
19.04.2016 n. 1031, pubblicata dalla Sez. I del TAR Campania-Salerno.
Accolto il ricorso proposto dall'azienda esclusa dalla gara
bandita dalla comunità montana soltanto perché «in alcuni
punti» della busta «si intravvede in trasparenza una
colorazione rossa che potrebbe risultare ceralacca, ma non
si evidenzia il timbro con le controfirme».
Per annullare l'estromissione dell'azienda candidata i
giudici non hanno bisogno di vagliare il motivo di ricorso
che lamenta la clausola di nullità del bando: è la stessa
prescrizione di controfirmare i lembi della busta a essere
ritenuta «poco utile» dalla giurisprudenza
amministrativa perché finisce per appesantire le procedure;
la stessa stazione appaltante, peraltro, non solleva
questioni di mancata segretezza dell'offerta nel
giustificare l'estromissione dalla gara: si tratta insomma
di una questione più che altro formale, mentre è lo stesso
bando di gara a collegare l'incombente della sottoscrizione
alla riservatezza della proposta contenuta nella busta
(articolo ItaliaOggi del
21.05.2016).
---------------
MASSIMA
Il ricorso è fondato.
La lex specialis di gara ha espressamente collegato
le formalità, di cui alla Sezione X.1 (controfirma e
sigillatura sui lembi di chiusura) all’esigenza di
assicurare la segretezza dell’offerta.
Ora, la segretezza dell’offerta non è stata, per vero, mai
posta in discussione.
La stazione appaltante, nelle sue difese, ha sostenuto che,
in realtà, tale previsione capitolare fosse piuttosto volta
a garantire la provenienza e la paternità dell’offerta: ma
si tratta d’interpretazione, in contrasto con il dato
letterale del bando.
Ne consegue che va confermata la conclusione raggiunta in
sede di esame della domanda cautelare, nel senso
dell’illegittimità dell’esclusione della ricorrente dalla
gara ad evidenza pubblica in oggetto, conformemente agli
esiti cui è pervenuta, di recente, la giurisprudenza
amministrativa.
Possono citarsi, all’uopo, le massime seguenti:
- “L’apposizione della controfirma sui
lembi sigillati della busta che la contiene mira a garantire
il principio della segretezza dell’offerta e dell’integrità
del plico. La norma di cui all’art. 46, comma 1-bis, d.lgs.
n. 163 del 2006 stabilisce che le irregolarità relative alla
chiusura dei plichi, diverse dalla non integrità del plico
contenente l’offerta o la domanda di partecipazione, sono
causa di esclusione solo se sono tali da far ritenere,
secondo le circostanze concrete, che sia stato violato il
principio di segretezza delle offerte (nel caso di specie,
non risulta che tale valutazione in concreto sia stata fatta
ma anzi risulta che la busta sia sostanzialmente integra e
che la mancanza delle firme sui due lembi è supplita
dall’apposizione della ceralacca sui medesimi)”
(TAR Milano-Lombardia, Sez. III, 02/04/2015, n. 880);
- “In tema di partecipazione a
gare per l’affidamento di appalti pubblici, la clausola del
disciplinare che prescrive, a pena di esclusione, che tanto
il plico esterno che le buste interne debbano essere
sigillati con ceralacca, controfirmati e timbrati su tutti i
lembi di chiusura, compresi quelli predisposti già chiusi
dal fabbricante, va interpretata nel senso che le
irregolarità considerate possono determinare l’esclusione
solo qualora le modalità di chiusura adoperate dal
concorrente siano concretamente idonee a rendere possibile
la manomissione del contenuto, sicché essa è nulla e va
comunque disapplicata nella parte in cui sancisce
l’esclusione per la mancanza di controfirma in presenza
della regolare sigillatura del plico, con l’ulteriore
conseguenza che la qualificazione legislativa del vizio in
termini di nullità esclude che la relativa domanda sia
subordinata all’ordinario termine di decadenza”
(TAR L’Aquila, Sez. I, 05/07/2013, n. 647 – altra massima,
ricavabile dalla stessa sentenza, recita: “In
tema di partecipazione a gare per l’affidamento di appalti
pubblici, se la sigillatura di tutti i lembi è di per sé
misura idonea ad escludere anche la mera possibilità o
probabilità che il contenuto della busta possa essere
manomesso senza lasciare tracce, l’imposizione anche della
controfirma appare misura a tal fine superflua e perciò
vietata a norma dell’art. 46, comma 1-bis, d.lgs. 12.04.2006
n. 163”);
- cfr., anche, TAR Catania (Sicilia), Sez. II, 03/12/2009,
n. 2023: “Costituisce senza dubbio un
aggravamento del procedimento di gara per l’affidamento di
un appalto pubblico richiedere la controfirma sui lembi di
chiusura della busta contenente l’istanza. Trattasi infatti
di adempimento che non riveste particolare utilità nel
corretto svolgimento della pubblica selezione e che dunque
si pone in violazione del principio di proporzionalità e
ragionevolezza nonché del divieto di inutile aggravamento
del procedimento di cui all’art. 1, comma 2, l. n. 241 del
1990”.
In conformità al predetto orientamento giurisprudenziale,
che privilegiando l’aspetto sostanzialistico della verifica
dell’integrità dell’offerta appare, anche, maggiormente in
linea con il principio della salvaguardia della più ampia
partecipazione alle gare pubbliche (favor partecipationis),
orientamento condiviso dal Tribunale, il ricorso va accolto,
con conseguente annullamento dei provvedimenti, gravati in
epigrafe sub 1) e 2); laddove, stante l’approccio
ermeneutico fatto proprio dal Collegio, non è necessario
scendere all’analisi della terza censura dell’atto
introduttivo del giudizio, volta al rilievo
dell’illegittimità della clausola del bando di gara, ove
interpretata in modo difforme da quello patrocinato dalla
ricorrente e condiviso dal Tribunale. |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
Rinnovazione contratto, si tratta sempre di facoltà.
Anche quando una disposizione normativa o una previsione dei
precedenti atti di gara consentano la proroga o la
rinnovazione del contratto con il contraente originario, si
tratterà sempre di una mera facoltà.
Lo hanno affermato i
giudici della III Sez. del Consiglio di Stato con la
sentenza 15.04.2016 n. 1532.
E inoltre, secondo
un ormai consolidato orientamento dettato dalla
giurisprudenza, l'adesione alle convenzioni Consip
(applicandosi l'art. 15, comma 13, lettera d), del dl
95/2012, anche alle aziende sanitarie - si vedano: Cons.
stato, III, n. 5022/2015 e n. 1486/2014) adempie pienamente
all'obbligo nazionale e comunitario di individuare il
migliore contraente tramite procedure di evidenza pubblica
(si vedano: Cons. stato, III, n. 4081/2014; V, n.
2194/2015).
Pertanto, conseguenza di ciò sarà che, se
l'Amministrazione pubblica ritiene non conveniente
rinegoziare la prosecuzione del rapporto oltre la scadenza,
ben potrà procedere ad espletare una procedura di evidenza
pubblica per la scelta del nuovo contraente. I giudici del
Consiglio di stato hanno, altresì, evidenziato come la
violazione delle regole di correttezza, che presiedono alla
formazione del contratto, andrà ad assumere rilevanza solo
dopo che la fase pubblicistica abbia attribuito al
ricorrente effetti concretamente vantaggiosi, e solo dopo
che tali effetti siano venuti meno nonostante l'affidamento
ormai conseguito dalla parte interessata (come nel caso di
annullamento per illegittimità degli atti della sequenza
procedimentale, ovvero di revoca della gara o
dell'aggiudicazione, o di rifiuto a stipulare il contratto
con l'aggiudicataria).
Alla luce di quanto affermato dalla
Cassazione (cfr. Cass. civ., III, n. 7768/2007; Cass. lav.,
n. 11438/2004), affinché possa ritenersi integrata la
responsabilità precontrattuale, è necessario che tra le
parti siano in corso trattative; che le trattative siano
giunte ad uno stadio idoneo a far sorgere nella parte che
invoca l'altrui responsabilità il ragionevole affidamento
sulla conclusione del contratto; che la controparte, cui si
addebita la responsabilità, le interrompa senza un
giustificato motivo; che, infine, pur nell'ordinaria
diligenza della parte che invoca la responsabilità, non
sussistano fatti idonei ad escludere il suo ragionevole
affidamento.
In particolare, nei confronti della p.a., se
non è ipotizzabile una responsabilità precontrattuale, per
violazione del dovere di correttezza di cui all'art. 1337
c.c. rispetto al procedimento amministrativo strumentale
alla scelta del contraente, essa è ammissibile con riguardo
alla fase successiva alla scelta, in cui il recesso dalle
trattative da parte della p.a. è sindacabile sotto il
profilo della violazione del dovere del neminem laedere
(articolo ItaliaOggi Sette del 16.05.2016).
---------------
MASSIMA
10. Il Collegio osserva che l’art. 6 comma 2, lettera
b), dell’Allegato II, del d.lgs. 115/2008, prevede
univocamente una rinegoziazione del contratto di servizio
energia, con modifica delle condizioni ai fini del
conseguimento di una maggiore efficienza energetica, ed
allungamento (in questo senso, proroga) della durata
originaria.
Nella sentenza appellata, la qualificazione di detta
tipologia contrattuale non costituisce, a ben vedere, una
premessa che condiziona le successive statuizioni, non
essendo contestato che la proroga (la novazione oggettiva)
dei contratti in essere sia in linea di principio vietata
dalla normativa e che la predetta disposizione costituisca
una deroga al divieto, ed essendo invece controversa
l’applicabilità della disposizione al contratto stipulato
tra le parti nel 2003.
Tuttavia, la conclusione raggiunta dal TAR non può essere
condivisa.
L’art. 6, comma 2, si inserisce in una normativa che mira
alla tutela dell’ambiente ed al miglioramento
dell’efficienza negli usi finali dell’energia; la sua
ratio ha dunque carattere ambientale, ed è legata
all’opportunità di conseguire un più rapido adeguamento dei
servizi energia ai sopravvenuti parametri di efficienza
energetica, senza attendere la naturale scadenza dei
contratti e consentendone la rinegoziazione anticipata,
incentivandola mediante l’allungamento della durata, con
possibilità quindi di spalmare su un periodo più lungo i
corrispettivi a fronte degli investimenti necessari per far
fronte agli interventi volti al conseguimento
dell’efficienza energetica.
Una simile finalità riguarda anzitutto i contratti in essere
all’entrata in vigore del d.lgs. 115/2008, per i quali
l’opportunità di un efficientamento è maggiore di quelli
stipulati in conformità alle previsioni della normativa
sopravvenuta, che presuppongono livelli di efficienza
superiori.
Non sembra invece corretto collegare la possibilità di
rinegoziazione e di allungamento della durata, alla
rispondenza dei contenuti del contratto in essere alle
previsioni minime del d.lgs. 115/2008, essendo la deroga al
divieto di rinnovazione senza gara giustificabile al solo
fine di conseguire migliori risultati ambientali, attraverso
l’applicazione dei requisiti di cui all’Allegato II,
altrimenti da rinviare alla naturale scadenza contrattuale.
In questo senso, la interpretazione data dall’Azienda ed
accolta dal TAR è proprio quella che esporrebbe l’art. 6,
comma 2, lettera b), a più fondati dubbi di compatibilità
con il diritto dell’Unione Europea.
Alla luce di tali considerazioni, pur condividendo l’assunto
che l’art. 6, cit. costituisce previsione derogatoria e come
tale non è suscettibile di interpretazione estensiva o
analogica, gli argomenti basati sul tenore letterale delle
disposizioni del d.lgs. 115/2008 (e sui quali sembra basarsi
la decisione dell’AVCP invocata a sostegno della tesi
contraria) non appaiono dirimenti. Infatti:
-
nessuna disposizione prevede espressamente che la
possibilità di proroga debba essere prevista nel bando della
procedura che ha condotto alla stipula del contratto da
rinegoziare/prorogare;
-
la rispondenza alle previsioni (in termini di contenuti e
requisiti prestazionali) dell’allegato II, è chiaramente
riferita al contenuto del contratto una volta rinegoziato,
non a quello da rinegoziare; sembra pertanto non rilevante
stabilire se i contenuti del contratto esistente tra le
parti fossero o no già sostanzialmente coerenti con le
disposizioni sopravvenute;
-
l’art. 16, comma 4, del d.lgs. 115/2008, nel prevedere che
tra i contratti che possono essere “proposti”
nell’ambito della fornitura di un servizio energetico
rientra il contratto di servizio energia di cui all’art. 1,
comma 1, lettera p), del d.P.R. 412/1993, “rispondente”
a quanto stabilito nell’allegato II, riguarda la tipologia
ed i contenuti dei nuovi contratti da stipulare, e non
impedisce quindi che la rinegoziazione si applichi anche ad
un contratto rientrante nella tipologia secondo la normativa
pregressa, in vigore al momento della stipula, e con
contenuti ad essa rispondenti;
-
i requisiti previsti dall’Allegato II che il contratto
servizio energia deve rispettare, riguardano logicamente i
contratti futuri, e la circostanza che tra i requisiti vi
sia che il contratto “faccia esplicito e vincolante
riferimento al presente atto” non significa che i
contratti precedenti non possano essere considerati
contratti di servizio energia, ai fini della rinegoziazione,
ma soltanto che dopo l’entrata in vigore del d.lgs. 115/2008
il contenuto dei contratti di servizio energia deve
univocamente riferirsi alle previsioni della normativa ed in
particolare dell’Allegato II, in modo da consentire la
possibilità di rinegoziazione (per introdurre contenuti
migliorativi) solo ai contratti che risultano stipulati in
aderenza alle previsioni di legge pro-tempore vigenti (ed
abbiano quindi, dal punto di vista dell’efficienza
energetica, un contenuto legittimo).
11. Posto che non sussisteva un impedimento giuridico
all’applicazione dell’art. 6, comma 2, lettera b),
dell’Allegato II del d.lgs. 115/2008, non per questo
l’Azienda era obbligata a seguire tale strada.
Infatti,
anche quando una disposizione normativa o una previsione dei
precedenti atti di gara consentano la proroga o rinnovazione
del contratto con il contraente originario, proprio in
quanto possibilità derogatoria di un divieto generale, si
tratta di mera facoltà; con la conseguenza che, se
l’Amministrazione ritiene non conveniente rinegoziare la
prosecuzione del rapporto oltre la scadenza, ben può
procedere ad espletare una procedura di evidenza pubblica
per la scelta del nuovo contraente.
E l’adesione alle convenzioni Consip (applicandosi l’art.
15, comma 13, lettera d), del d.l. 95/2012, anche alle
aziende sanitarie -cfr. Cons. Stato, III, n. 5022/2015 e n.
1486/2014)- adempie pienamente all’obbligo nazionale e
comunitario di individuare il migliore contraente tramite
procedure di evidenza pubblica (cfr. Cons. Stato, III, n.
4081/2014; V, n. 2194/2015).
Tanto più nel caso in esame, dato che la prima proposta
progettuale era stata presentata all’Azienda pochi mesi
prima della scadenza decennale del contratto, e quindi
l’opportunità di anticipare, mediante la rinnovazione,
l’applicazione dell’Allegato II del d.lgs. 115/2008, era
ormai pressoché virtuale.
12. La decisione di non rinegoziare il contratto si sottrae
pertanto alle censure dedotte dall’appellante. |
PUBBLICO IMPIEGO:
Oltraggio a pubblico ufficiale solo se ci sono testimoni.
L’offesa al poliziotto o al vigile deve essere
potenzialmente udibile da altre persone, quindi compiuta in
luogo pubblico o aperto al pubblico.
Un’offesa a un vigile, un carabiniere,
un poliziotto, un dipendente del Comune o qualsiasi altro
pubblico ufficiale, se fatta in assenza di testimoni, e
quindi “a tu per tu”, in un luogo ove non possa essere udita
da altri soggetti presenti, non fa scattare il reato di
oltraggio a pubblico ufficiale.
E' quanto chiarito dalla Corte di Cassazione, Sez. VI
penale,
sentenza 13.04.2016 n. 15440, sulla scorta
dell’interpretazione della norma del codice penale
modificata dal 2009.
Il codice penale –è bene ricordarlo– sanziona chiunque, in
un luogo pubblico (una strada) o comunque aperto al pubblico
(per esempio il parcheggio di un centro commerciale o
l’ufficio del Comune), offende l’onore e il prestigio di un
pubblico ufficiale.
Ma non è solo il luogo, e quindi la presenza di testimoni, a
far scattare il reato. Sono necessari altri due presupposti:
• l’offesa deve essere proferita proprio mentre l’ufficiale
compie un atto che gli è proprio, ossia sta svolgendo il
proprio lavoro: pertanto non scatta tale reato quando, ad
esempio, l’agente in borghese non sta svolgendo la propria
missione o in caso di dipendente del Comune durante un
giorno non lavorativo;
• l’offesa deve essere proferita proprio a causa
dell’esercizio delle funzioni del pubblico ufficiale: per
esempio, per via di una multa che l’automobilista ritiene
ingiusta, e non perché, ad esempio, la pattuglia gli ha
tagliato la strada a un incrocio.
In tutti gli altri casi in cui non ricorrono tali elementi,
non si potrà più punire la condotta come oltraggio al
pubblico ufficiale, e quindi penalmente, ma tutt’al più
andranno verificati i presupposti dell’illecito di ingiuria,
illecito che –come noto– è stato ormai depenalizzato e
costituisce solo un motivo di risarcimento del danno a
seguito di causa civile (il giudice però potrà applicare, a
termine del giudizio, anche una multa da pagare allo Stato).
I testimoni
La presenza di persone che, seppur presenti nelle adiacenze,
possano aver sentito l’offesa è condizione essenziale perché
si possa essere puniti per il reato di oltraggio a pubblico
ufficiale. Secondo la Cassazione, è sufficiente che le
espressioni offensive rivolte al pubblico ufficiale “possano
essere udite dai presenti” perché scatti il penale.
Infatti, il bene giuridico fondamentale tutelato dal codice
penale è il buon andamento della pubblica amministrazione,
per cui “già questa potenzialità costituisce un aggravio
psicologico che può compromettere la sua prestazione,
disturbandolo –mentre compie un atto del suo ufficio– perché
gli fa avvertire condizioni avverse, per lui e per la
pubblica amministrazione della quale fa parte, e ulteriori
rispetto a quelle ordinarie”.
Non è necessario che i testimoni sentano effettivamente le
parole oltraggiose, bastando che abbiano la possibilità di
udirle o, comunque, di rendersi conto del comportamento
oltraggioso, in quanto la presenza di testimoni è condizione
atta a rendere più impegnativa la prestazione del pubblico
ufficiale (commento tratto da www.laleggepertutti.it).
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MASSIMA
4. Relativamente al quarto motivo di ricorso,
concernente la contestualità delle espressioni ingiuriose
usate dall'imputato e il compimento di atto di ufficio da
parte della persona offesa, deve registrarsi che nella
ricostruzione degli eventi effettuata dalla sentenza
impugnata, le condotte di Sa. maturarono dopo che
l'assistente Ga. si fu qualificato come appartenente alla
Guardia di Finanza e dopo che, in questa veste, si accinse a
identificarlo. Lo mostra lo stesso brano di querela
riportato dal ricorrente a supporto della sua ricostruzione,
dove si legge "prontamente mi identificavo come
finanziere e mostravo il mio distintivo, lo straniero non
desisteva...".
5. La Corte ha plausibilmente desunto la presenza di più
persone dal riferimento (nella querela) agli avventori (più
d'uno, quindi almeno due) "che stavano seduti sugli
sgabelli", né può trascurarsi che nel locale,
all'esterno del quale si consumò l'episodio, stava il
gestore ancora attento allo sviluppo degli eventi dopo che,
poco prima, contro lui l'imputato aveva inveito. La
contiguità spaziale dei presenti rende ragionevole presumere
che i presenti abbiano effettivamente udito le frasi
pronunciate dall'imputato.
Vale, comunque, osservare quanto segue. La sentenza n. 341
del 1994 della Corte costituzionale (richiamando le
precedenti sentenze nn. 109 del 1968, 165 del 1972, 51 del
1980 e le ordinanze nn. 323 del 1988 e 127 del 1989) ha
precisato che "la plurioffensività del
reato di oltraggio rende certamente ragionevole un
trattamento sanzionatorio più grave di quello riservato
all'ingiuria, in relazione alla protezione di un interesse
che supera quello della persona fisica e investe il
prestigio e quindi il buon andamento della pubblica
amministrazione".
Se il bene giuridico fondamentale tutelato
dall'art. 341-bis cod. pen. è il buon andamento della
pubblica amministrazione, allora è sufficiente a integrare
il reato la semplice possibilità che le espressioni lesive
possano essere udite dai presenti, perché già potenzialità
può compromettere la prestazione del pubblico ufficiale,
disturbato -mentre compie un atto del suo ufficio-
dall'avvertire condizioni potenzialmente lesive per lui e
per la pubblica amministrazione della quale fa parte.
In quest'ottica, la giurisprudenza
formatasi sul punto
-relativamente a quella che allora era una circostanza
aggravante e ora è elemento costitutivo del reato- e secondo
la quale non è necessario che gli astanti sentano
effettivamente le parole oltraggiose, bastando che abbiano
la possibilità di udirle (Sez. 6, n. 15559 del 07/07/1989,
Rv. 182513) o, comunque, di rendersi conto del comportamento
oltraggioso (Sez. 6, n. 1223 del 19/11/1980, dep. 1981, Rv.
147653)- può recepirsi nella considerazione
che la presenza di astanti è condizione atta a rendere più
impegnativa la prestazione del pubblico ufficiale.
Su queste basi può esplicitarsi il seguente principio di
diritto: poiché il bene giuridico
fondamentale tutelato dall'art. 341-bis cod. pen. è il buon
andamento della pubblica amministrazione, allora è
sufficiente che le espressioni offensive rivolte al pubblico
ufficiale possano essere udite dai presenti, perché già
questa potenzialità costituisce un aggravio psicologico che
può compromettere la sua prestazione, disturbandolo -mentre
compie un atto del suo ufficio- perché gli fa avvertire
condizioni avverse, per lui e per la pubblica
amministrazione della quale fa parte, e ulteriori rispetto a
quelle ordinarie.
6. Anche il sesto motivo di ricorso è manifestamente
infondato. L'assunto che esclude l'oltraggio sul presupposto
che le espressioni offensive sarebbero state rivolte a Ga.
non in quanto pubblico ufficiale ma in quanto persona, non
contenendo riferimenti alla sua qualifica, poggia su una
artificiosa distinzione concettuale e trascura che le
espressioni aggressive conseguirono all'intervento del
finanziere nella sua veste di pubblico ufficiale già
palesata all'imputato.
7. La valutazione di una minaccia come "grave"
ex art. 612, comma 2, cod. pen. è apprezzamento di fatto non
censurabile nel giudizio di legittimità, se congruamente
motivata in relazione alla entità del turbamento psichico
che l'atto intimidatorio può determinare sul soggetto
passivo (Cass. pen.
Sez. 2, n. 277 del 21/02/1966, Rv. 101788).
A tal fine, non è necessario che la
minaccia di morte sia circostanziata perché rilevano
l'insieme delle condizioni concrete nelle quali è espressa,
particolarmente quelle dell'autore del delitto e della
persona offesa
(Sez. 6, n. 35593 del 16/06/2015, Rv. 26434; Sez. 1, n. 9314
del 05/04/1990, Rv. 184724; Sez. 5, n. 43380 del 26/09/2008,
Rv. 242188).
Nella fattispecie, la Corte ha congruamente osservato (pag.
7-8) che la minaccia di morte per Ga. e i suoi familiari,
proveniva da soggetto che aveva reiterato i suoi
comportamenti aggressivi nonostante l'intervento del
pubblico ufficiale e che potenziò la sua minaccia
evidenziando che l'entità della pena che poteva
derivargliene non lo dissuadeva.
L'apprezzamento della gravità della
minaccia non necessariamente deve collegarsi allo specifico
evento prefigurato (nella fattispecie la morte) ma è
sufficiente che allarmi il soggetto passivo anche in vista
di danni minori eppure gravi. E' palese, inoltre, che il
fatto che il oggetto passivo sia in qualche misura esposto
per la sua professione a condotte minatorie non lo rende
impermeabile agli effetti psicologici delle stesse. |
ATTI AMMINISTRATIVI - TRIBUTI: Niente compensazione per giusti motivi.
In caso di soccombenza di una delle parti, è illegittima la
compensazione delle spese di giudizio «per giusti motivi»:
le spese, infatti, possono essere compensate dal giudice per
«gravi ed eccezionali ragioni», che devono trovare puntuale
riferimento in specifiche circostanze o aspetti della
controversia decisa e, in ogni caso, devono essere indicate
specificamente e non con un generico richiamo.
È quanto
ribadisce la Corte di Cassazione, Sez. VI civile, nell'ordinanza
13.04.2016 n. 7345.
Il giudizio di
legittimità prendeva le mosse dal ricorso proposto da un
notaio che impugnava una sentenza della Ctr del Lazio per la
parte della decisione relativa alle spese. Nonostante,
infatti, il notaio fosse risultato completamente vittorioso
nel giudizio instaurato contro un avviso di liquidazione
(vicenda in cui veniva coinvolto come responsabile in
solido), il giudice regionale capitolino aveva disposto la
compensazione integrale delle spese di giudizio, appoggiando
la statuizione sulla frase “per giusti motivi”.
Questo,
secondo il contribuente, non era conforme ai dettami
dell'articolo 92 del cpc («se vi è soccombenza reciproca o
concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni,
esplicitamente indicate nella motivazione, il giudice può
compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le
parti»), norma applicabile al processo tributario e a
quello specifico giudizio (instaurato dopo il 04.07.2009). Gli ermellini hanno accolto il ricorso e cassato la
sentenza, rinviando ad altra sezione della Ctr del Lazio,
chiamata a disporre anche per quanto concerne la
liquidazione delle spese del grado di giudizio in
Cassazione.
La compensazione delle spese era una possibilità
pur prevista dall'allora vigente panorama normativo (art. 92 cpc, richiamato espressamente dall'articolo 15 del dlgs
546/1992); tuttavia, è necessario che il giudice che opti per
tale scelta, in presenza di soccombenza di una delle parti,
dedichi un congruo spazio alla motivazione specifica sul
punto, individuando delle argomentazioni valide a
sostenerla. A tal scopo, non può dirsi sufficiente una
generica locuzione «per giusti motivi», che non rispetta i
parametri fissati dalle norme.
Da precisare che l'attuale versione dell'art. 15 del dlgs
546/1992, comma 2, ha recepito espressamente i precetti di cui
al citato art. 92 cpc, disponendo che «le spese di giudizio
possono essere compensate in tutto o in parte dalla
commissione tributaria soltanto in caso di soccombenza
reciproca o qualora sussistano gravi ed eccezionali ragioni
che devono essere espressamente motivate».
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] In tema di contenzioso tributario, secondo la
testuale previsione dell'art. 15, comma primo, dlgs n. 546
del 1992, la Commissione tributaria può dichiarare
compensate le spese processuali in tutto o in parte a norma
dell'art. 92, comma secondo, cpc, norma quest'ultima
emendata dalla legge 18.06.2009, n. 69, art. 45, comma
11, applicabile alla fattispecie per essere il giudizio di
primo grado iniziato dopo il 04/07/2009 (essendo in
contestazione il regime di tassazione di un mandato
irrevocabile registrato dal professionista in data
“18/07/2011” e l'impugnazione del successivo avviso di
liquidazione).
Detta norma, com'è noto, prevede che, “se vi
è soccombenza reciproca o concorrono altre gravi ed
eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella
motivazione, il giudice può compensare, parzialmente o per
intero, le stese tra le parti".
Sul punto si è consolidato
l'orientamento (Cass. 20.04.2012, n. 6279) per il quale
le “gravi ed eccezionali ragioni”, da indicarsi
esplicitamente nella motivazione e in presenza delle quali -o, in alternativa alle quali, della soccombenza reciproca-
il giudice può compensare, in tutto o in parte, le spese del
giudizio, devono trovare puntuale riferimento in specifiche
circostanze o aspetti della controversia decisa (Cass., ord.
15.12.2011, n. 26987) e comunque devono essere appunto
indicate specificamente (Cass., ord. 13.07.2011, n.
15413; Cass. 20.10.2010, n. 21521).
Al riguardo, le Sezioni Unite di questa Corte hanno avuto
modo di precisare che “l'art. 92 cp, comma 2, nella parte in
cui permette la compensazione delle spese di lite allorché
concorrano “gravi ed eccezionali ragioni”, costituisce una
norma elastica, quale clausola generale che il legislatore
ha previsto per adeguarla ad un dato contesto
storico-sociale o a speciali situazioni, non esattamente ed
efficacemente determinabili a priori, ma da specificare in
via interpretativa da parte del giudice del merito, con un
giudizio censurabile in sede di legittimità, in quanto
fondato su norme giuridiche” (Gas s. Sez. un., n.
2572/2012).
Erroneamente, pertanto, la Ctr ha disposto la
compensazione integrale delle spese di lite “per giusti
motivi”, in violazione della normativa vigente ratione
temporis, 3. Per tutto quanto sopra esposto, in accoglimento
del primo motivo del ricorso, assorbito il secondo, va
cassata la sentenza impugnata, con rinvio alla Ctr del
Lazio, in diversa composizione. Il giudice del rinvio
provvederà anche alla liquidazione delle spese del presente
giudizio di legittimità.
PQM
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata
con rinvio, anche in ordine alla liquidazione delle spese
del presente giudizio di legittimità, alla Commissione
tributaria regionale del Lazio in diversa composizione.
[omissis]
(articolo ItaliaOggi Sette del 16.05.2016). |
ENTI
LOCALI: I tagli di bilancio non cancellano l’equa riparazione.
Consiglio di Stato. Dopo la legge di Stabilità.
Il richiamo ai
tagli di spesa e ai limiti al bilancio non può far sì che la
pubblica amministrazione si sottragga all’obbligo dell’equa
riparazione dei danni per l’irragionevole durata di un
processo. Ciò vale anche dopo la razionalizzazione dei costi
per i risarcimenti dettata dalla legge di Stabilità 2016.
L’ha chiarito il Consiglio di Stato,
Sez. IV,
sentenza
13.04.2016 n. 1444, accogliendo solo in parte il
ricorso principale del ministero della Giustizia contro la
decisione di primo grado (Tar Lazio, 14368/2015) che gli
aveva ordinato di eseguire la sentenza di condanna della
Corte d’appello al pagamento di un indennizzo di mille euro
a un privato in base alla cosiddetta legge Pinto (legge
89/2001).
Il ministero sosteneva che il Tar non avesse verificato i
presupposti delle sanzioni di mora (cosiddette “astreintes”),
cioè non avesse considerato la limitatezza delle risorse
disponibili e l’importo irrisorio della somma dovuta, e che,
in base alla disciplina (comma 7, articolo 3), avrebbero
costituito nel primo caso una «ragione ostativa» alla
condanna e nel secondo l’avrebbero resa «manifestamente
iniqua».
Il collegio ha ricordato che sulla questione
l’adunanza plenaria (sentenza 15/2014) esige di tener conto
anche delle «peculiari condizioni del debitore pubblico, al
pari dell’esigenza di evitare locupletazioni eccessive o
sanzioni troppo afflittive...», ma che in questo caso non
può accogliere del tutto le contestazioni del ministero
poiché «una generica allegazione delle ben note ristrettezze
finanziarie e limitazioni di bilancio» non può «giustificare
una totale esenzione dell’amministrazione inadempiente dalle
penalità di mora».
Tali appelli, come precisato nella sentenza, non sono
ammissibili nemmeno dopo la riforma della legge Pinto
introdotta dalla legge di stabilità 2016 (comma 777, legge
208/2015). Alla norma invocata (comma 7, articolo 3) che
riconosce «l’erogazione degli indennizzi agli aventi diritto
(...)nei limiti delle risorse disponibili», il legislatore
ha infatti aggiunto «nel relativo capitolo, fatto salvo il
ricorso al conto sospeso».
«È evidente che, a seguito di tale innovazione normativa,
scema di molto, se addirittura non viene del tutto meno,
l’effetto impeditivo al pagamento dell’equa riparazione
derivante dalla momentanea incapienza del relativo capitolo
di bilancio».
In questo caso, però, Palazzo Spada ha
ritenuto «eccessivo e non conforme a equità» il parametro
scelto dal Tar per la penalità di mora (interesse semplice
al tasso dei rifinanziamenti Bce) e l’ha sostituito con
quello d’interesse legale previsto dal Codice del processo
amministrativo (lettera e, comma 4, articolo 114, Dlgs
104/2010) come ora indicato dopo le modifiche fissate dalla
stessa legge di Stabilità (comma 781) (articolo Il Sole 24 Ore del
05.05.2016). |
LAVORI PUBBLICI: Appalti, ritardi non sempre con danni. Non è rilevante che
il contratto stabilisca alcune opere preliminari.
Corte d’appello di Napoli. Il riconoscimento se
l’appaltatore esercita il recesso per consegna fuori tempo
dell’area
No al
risarcimento del danno causato dalla ritardata consegna
dell’area in cui si devono effettuare lavori pubblici, se
l’appaltatore non ha esercitato il diritto di recesso dal
contratto. È la regola stabilita dall’articolo 10 del Dpr
1063/1962 (oggi articolo 153 del Dpr 207/2010), che si
applica anche quando l’appaltatore deve effettuare attività
che precedono la consegna del cantiere di lavoro.
Ed è la conclusione
a cui è giunta la Corte d’appello di Napoli (presidente
Giordano, relatore Cataldi) con la sentenza 13.04.2016.
La controversia è stata promossa da una Srl che si era
aggiudicata un appalto di opere pubbliche. In primo grado,
la società aveva chiesto il pagamento di 175mila euro come
risarcimento dei danni dovuti a maggiori oneri per la
ritardata consegna del cantiere. L’ente locale appaltante
aveva chiesto il rigetto della domanda, sostenendo che la
Srl non aveva esercitato la facoltà di recesso dal contratto
e dunque non poteva vantare alcun diritto.
Il Tribunale aveva respinto la richiesta. Il giudice di
primo grado osservava che, se l’amministrazione appaltante
non consegna i lavori nel termine di legge, l’appaltatore ha
diritto di recedere dal contratto in base all’articolo 10
del Dpr 1063/1962. Solo se esercita questa facoltà può
chiedere il risarcimento dei danni; se, invece, non dichiara
di recedere, ciò significa -affermava il Tribunale- che ha
ritenuto ancora eseguibile il contratto senza ulteriori
oneri per l’amministrazione.
La società appaltatrice ha presentato appello sostenendo che
l’articolo 10 disciplina solo le ipotesi in cui il vincolo
giuridico nasce al momento della consegna dei lavori. Nel
caso in esame, invece, prima della consegna del cantiere la
srl aveva effettuato attività preparatorie. Di conseguenza,
la consegna costituiva solo l’osservanza di un obbligo in
corso d’opera, successivo all’esecuzione già avviata.
Nel respingere l’impugnazione, la Corte afferma che non è
possibile distinguere a seconda che il contratto preveda o
meno l’onere dell’appaltatore di eseguire opere
anteriormente alla messa a disposizione del cantiere. I
giudici napoletani ricordano quindi che, con la sentenza
3801/1992, la Cassazione aveva escluso che la disciplina
contenuta nell’articolo 10 del Dpr 1063 sia applicabile
quando l’appaltatore deve svolgere attività prima della
consegna dei lavori. Per il giudice di legittimità, infatti,
tale consegna non costituisce «un mero atto di cooperazione
del committente», ma rappresenta piuttosto «un preciso
adempimento da attuare nel corso dell’esecuzione» del
contratto.
Tuttavia, secondo la Corte campana questa conclusione non è
convincente. Innanzitutto, perché l’articolo 10 non lascia
spazio a interpretazioni che consentano di effettuare
«differenziazioni in ragione delle specificità dei singoli
casi». E poi perché la norma dispone che, dopo il recesso,
l’appaltatore ha diritto al rimborso non solo delle spese
contrattuali (previste dall’articolo 9 dello stesso Dpr
1063), ma anche delle «altre spese da lui effettivamente
sostenute».
Dunque, l’articolo 10 considera pure il caso di
un recesso avvenuto, «in mancanza di formale consegna,
allorché l’appaltatore abbia dovuto sostenere alcune spese
finalizzate alla realizzazione dell’opera». Come quelle
affrontate dalla Srl per il monitoraggio di qualità e
quantità di fibre disperse in aria o depositate negli
ambienti in cui si dovevano avviare gli interventi.
Così la Corte conferma la sentenza impugnata e condanna la
Srl al pagamento delle spese del grado, che liquida in
10mila euro (articolo Il Sole 24 Ore del
05.05.2016). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Il condominio stoppa la Scia.
No all'ok al locale hot travestito da circolo culturale.
I casi in cui i rapporti di vicinato arrivano davanti al Tar
a causa di atti del comune.
Il Tar riporta la pace in condominio. Le liti fra vicini
finiscono davanti al giudice amministrativo, invece che
ordinario, quando un provvedimento del comune può mettere
fine ai litigi nello stabile. Ma può anche darsi che a far
scoppiare la guerra sia stato proprio un atto dell'ente, per
esempio la Scia troppo frettolosa che dà l'ok a operare nel
palazzo a un inquilino davvero scomodo: il night a luci
rosse travestito da circolo culturale.
Ecco allora che il condominio fa annullare la verifica di
inizio attività del locale perché il sopralluogo
dell'amministrazione è stato insufficiente.
È quanto emerge
dalla
sentenza
12.04.2016 n. 4333, pubblicata della Sez. II-ter
del TAR Lazio-Roma.
Interessi delicati. Al piano terra del fabbricato si è
installato un vero e proprio sexy night club, con tanto di lap dance. Ma il condominio impugna la Scia di trasferimento
del presunto circolo, che nella sede precedente era
qualificato anche formalmente come locale pubblico. I
residenti sospettano che il tesseramento all'ingresso sia
solo un espediente per bypassare il regolamento condominiale
e il suo divieto di affittare locali nel palazzo a chi fa
spettacoli.
Eppure dopo le verifiche del comune le attività
svolte nei locali sono state dichiarate compatibili con la
natura di associazione culturale. Il ricorso del condominio
è accolto perché l'amministrazione deve accertare se al
piano più basso dell'edificio si tengono davvero show senza
autorizzazioni e licenze di polizia.
Controlli a sorpresa. Decisive le prove portate dal
condominio: è massiccia la campagna pubblicitaria
dell'associazione che promuove i numeri di strip tease anche
su internet. Sussiste dunque l'offerta al pubblico di un
genere di intrattenimento riconducibile alla nozione di
pubblico spettacolo, con l'inevitabile corollario di un
rumoroso pubblico sgradito ai residenti.
Il comune non
riesce a smentire l'attendibilità delle indicazioni
provenienti dalla controparte. E invia anche controlli a
sorpresa: gli interessi in gioco sono molto delicati per la
natura dell'attività che si tiene nei locali e l'intervento
dell'amministrazione risulta doveroso perché si tratta di
questioni che investono la pubblica sicurezza. All'ente
locale non resta che pagare le spese di lite.
Sfera giuridica. Passiamo a un altro vicino sgradito:
l'autolavaggio. Fra spazzoloni e lance a spruzzo i residenti
non ce la fanno più. Chi vive o lavora in zona ha diritto di
verificare se l'impianto è autorizzato a svolgere attività
tanto rumorose. E il comune deve mettere a disposizione dei
confinanti il titolo in base al quale opera l'impresa che
disturba il riposo e le occupazioni: non risulta necessaria
l'intenzione di fare causa all'azienda.
È quanto emerge
dalla
sentenza
01.04.2015 n. 4909, pubblicata dalla Sez. II-bis
del TAR Lazio-Roma.
Già in passato si è scoperto che
l'autolavaggio fracassone non aveva diritto a utilizzare
l'aspirapolvere. Ora i confinanti vogliono sapere se
l'impianto ha ricevuto qualche altro permesso o continua a
operare nell'illegalità. E non c'è bisogno di scomodare
«l'informazione ambientale» di cui al decreto legislativo
195/2005: basta la legge sulla trasparenza così come
modificata nel 2009. Chi abita vicino all'impianto ha un
interesse qualificato ad accedere ai documenti per evitare
un danno alla sua sfera giuridica.
Addio barbecue. Infine: il giudice spegne il barbecue. Stop
al forno del confinante che è stato realizzato senza
permesso di costruire ma solo con la Scia in sanatoria: il
vicino ottiene l'annullamento del provvedimento autorizzatorio mettendo fine ai fumi molesti che invadono
casa sua, specie nel weekend.
È quanto emerge dalla
sentenza 24.09.2015 n. 900, pubblicata dal TAR
Calabria-Reggio Calabria.
In ambito urbanistico il concetto di pertinenza del cespite
risulta più restrittivo che in campo civile e non si può
invocare quando manca un rapporto di stretta
consequenzialità con l'immobile principale: la fornace è una
costruzione autonoma che ha bisogno della concessione
(articolo ItaliaOggi Sette del 09.05.2016). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Il posto auto spetta solo se previsto nel progetto edilizio.
Contenzioso. I diritti di chi acquista.
Chi compra un appartamento in condominio ha diritto
all’area parcheggio solamente se questa esiste nella
struttura, altrimenti gli spetta un risarcimento.
La
sentenza
11.04.2016 n. 7065,
Sez. II civile della Corte di Cassazione, è intervenuta sul caso di
due fratelli, convenuti in giudizio da un terzo condòmino,
che affermava come –in una compravendita tra gli stessi–
essi avessero illegittimamente occupato tutta l’area
parcheggio condominiale.
I due proprietari chiamati in giudizio si difendevano
specificando come, in base alle leggi, all’acquisto di un
immobile in condominio un’area andasse destinata a
parcheggio esclusivo, a prescindere dalla sua preesistenza.
La Suprema Corte ha chiarito l’applicabilità al caso
concreto della legge 765/1967 che all’articolo 18 afferma che
«nelle nuove costruzioni e anche nelle aree di pertinenza
delle costruzioni stesse, debbono essere riservati appositi
spazi per parcheggi in misura non inferiore a un metro
quadrato per ogni 20 metri cubi di costruzione» e specifica
che l’eventuale contratto di compravendita di un immobile in
condominio sprovvisto dell’area parcheggio sarebbe stato
affetto da nullità parziale.
La disciplina dei parcheggi condominiali prevede svariati
oneri: in capo al venditore, quello di prevedere questa
pertinenza nel contratto di vendita (Cassazione, sentenza
5755/2004), per il costruttore del palazzo, invece, di
dotare il condominio di una serie di parcheggi di metratura
sufficiente a servire tutte le abitazioni (Cassazione,
sentenza 3961/2006) e –da ultimo– per la pubblica
amministrazione, di effettuare un controllo sui progetti di
costruzione degli stabili e verificare se essi hanno
predisposto parcheggi sufficienti a servire le costruende
unità immobiliari (Cassazione, sentenza 378/2010).
In conclusione, quindi, l’acquirente ha diritto a vedersi
riconosciuto il diritto all’area parcheggio, a condizione
però che essa esista, dato che, come specifica la Cassazione
«l’effettiva esistenza di uno spazio destinato a parcheggio
proporzionato alla cubatura totale dell’edificio nel
provvedimento abilitativo all’edificazione è condizione per
il riconoscimento giudiziale del diritto reale al suo uso da
parte degli acquirenti delle singole unità immobiliari del
fabbricato».
In caso, quindi, di mancanza dell’area non si potrà
domandare al giudice una tutela reale, ma solo risarcitoria
verso il proprio venditore, il costruttore dello stabile o –addirittura– verso la pubblica amministrazione in caso si
sia resa colpevole di un mancato controllo sui progetti e
abbia autorizzato la costruzione del palazzo condominiale
senza le aree parcheggio previste dalla legge (articolo Il Sole 24 Ore del
03.05.2016).
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MASSIMA
10. I primi due motivi, congiuntamente esaminati per la
loro connessione, si rivelano 'infondati'.
10.1. Quanto al primo rilievo dedotto, il motivo non attinge
la ratio decidendi
sottesa alla sentenza impugnata.
Invero, la corte d'appello salernitana, prendendo le mosse
dal tenore dell'atto di
compravendita intercorso tra La.Vi. ed El.Gi. (il quale
prevedeva, tra l'altro, che il trasferimento avesse altresì
ad oggetto, oltre
all'appartamento, "ogni accessorio, accessione, dipendenza,
pertinenza ... così come
pervenuto alla parte venditrice"), ha dato per assodato che
la quota parte dell'area
destinata a parcheggio trasferita dalla Immobiliare Fi.
alla El. fosse pari, a seguito dell'atto di rettifica
del 22.11.1972, a mq. 21,24 (anziché a mq. 52,14, come
concordato con l'atto notarile del 27.10.1972).
Tanto è vero
che, con riferimento
esclusiva a questa ridotta area, ha riconosciuto al La. il diritto reale d'uso sulla
quota parte di dimensioni di mq. 14,58 di pertinenza
dell'appartamento acquistato
con l'atto pubblico del 20.12.1990 (quale porzione del più
ampio box di mq. 21,24).
Da ciò consegue che non ricorrevano i presupposti affinché il
La. individuasse
nei contraenti del contratto di compravendita del 27.10.1972
i soggetti legittimati sul
piano passivo a soddisfare la sua pretesa.
In ogni caso, il Tribunale di Salerno, per come riportato
nello stesso ricorso, si era
limitato ad affermare che fu proprio l'atto di rettifica del
22.11.1972 ad aver
concretato un "atto contra legem", e che "la palese nullità
di esso andava dedotta ....
nei confronti di diversi soggetti, e comunque non solo della
El.Gi.". Si
trattava, pertanto, di affermazione resa "incidenter tantum"
e quindi sottratta
all'efficacia del giudicato, anche perché la necessità di
statuire con tale efficacia sul
punto avrebbe comportato l'esigenza di integrità del
contraddittorio, invece esclusa
dal Tribunale proprio in relazione all'oggetto della domanda
proposta.
D'altro canto, ed ancora, la preventiva declaratoria di
nullità dell'atto di rettifica del
22.11.1972 non è condizione indispensabile per
pervenire alla conseguente
invalidità della compravendita stipulata il 10.12.1990, oggetto di questa
causa.
Il vincolo di destinazione impresso agli spazi per
parcheggio dall'art. 41-sexies della legge 17.08.1942, n. 1150, secondo il testo
introdotto dall'art. 18
della legge 06.08.1967, n. 765, norma di per sé
imperativa, non può subire
deroghe mediante atti privati di disposizione degli stessi
spazi, le cui clausole
difformi sono perciò sostituite di diritto dalla medesima
norma imperativa.
Tale
vincolo si traduce in una limitazione legale della
proprietà, che può essere fatta
valere, con l'assolutezza tipica dei diritti reali, nei
confronti dei terzi che ne
contestino l'esistenza e l'efficacia. Pertanto in un
giudizio (qual è quello in esame),
intercorrente tra l'acquirente di un immobile che si assume
illegittimamente privato
del diritto all'uso dell'area pertinente a parcheggio ex
art. 18 della legge 06.08.1967, n. 765, ed un terzo che
abbia acquistato porzione di tale area, la nullità del
negozio stipulato da quest'ultimo, nella parte in cui sia
stata omessa tale
inderogabile destinazione, con conseguente integrazione "ope
legis", non deve
necessariamente correlarsi alla preventiva dichiarazione di
nullità dell'atto di
vendita intercorso con l'originario costruttore-venditore
(argomenta da Cass. 14.11.2000, n. 14731; Cass. 25.03.2004, n. n. 5755).
10.2. Con riferimento all'asserito giudicato formatosi sulla
statuizione del Tribunale
in virtù della quale comunque al La. sarebbe stato
trasferito il diritto di
usufruire del parcheggio nell'area comune condominiale (id
est, della quota
condominiale dell'area di parcheggio), va ricordato che il
giudicato non si estende
ad ogni proposizione contenuta in una sentenza con carattere
di semplice
affermazione incidentale, atteso che per aversi giudicato
implicito è necessario che
tra la questione decisa in modo espresso e quella che si
vuole tacitamente risolta
sussista un rapporto di dipendenza indissolubile, e dunque
che l'accertamento
contenuto nella motivazione della sentenza attenga a
questioni che ne costituiscono
necessaria premessa ovvero presupposto logico indefettibile
(Cass. 05.07.2013, n.
16824).
Nel caso di specie, anche a voler prescindere dal fatto che
lo stesso Tribunale di
Salerno ha espressamente (cfr. pag. 10 del ricorso) chiarito
che "per inciso"
formulava l'ulteriore considerazione secondo cui l'area di
parcheggio, all'origine,
era stata compresa tra i beni condominiali poi ceduti pro
quota al La. con
l'atto del 1994, è evidente che tra questa affermazione e la
questione assorbente che
aveva indotto il giudice di primo grado a rigettare la
domanda attorea (quella per cui
l'attore avrebbe dovuto semmai chiedere -nei confronti di
altri soggetti- la nullità
dell'atto di rettifica con il quale la sua dante causa aveva
accettato la riduzione della
quota ideale dell'area di parcheggio spettante ai due
appartamenti da lei
originariamente acquistati) non è configurabile alcun
rapporto di dipendenza
indissolubile.
L'affermazione del Tribunale di Salerno
"sinallagma contrattuale che
comunque, per inciso, non deve essere riequilibrato, in
quanto l'area di parcheggio, all'origine, fu compresa tra i
beni condominiali, che risultano ceduti pro quota al
La." appare enunciazione puramente incidentale, ovvero
considerazione priva
di relazione causale col deciso, e perciò sottratta
all'autorità del giudicato, la quale è
circoscritta oggettivamente in conformità alla funzione
della pronunzia giudiziale,
diretta a dirimere la lite nei limiti delle domande
proposte.
11. Il terzo ed il quarto motivo, anch'essi esaminati
congiuntamente per evidenti
ragioni di connessione, risultano, invece, fondati per
quanto di ragione.
Quanto al primo profilo, va rilevato che la corte d'appello
ha considerato che la
dante causa aveva legittimamente alienato al germano
l'intera area parcheggio in
precedenza acquistata, e per questa ragione ha dichiarato la
nullità, sia pure parziale,
della compravendita intercorsa tra i due germani.
Secondo la consolidata elaborazione di questa Corte, invero,
nel fabbricato
condominiale di nuova costruzione ed anche nelle relative
aree di pertinenza, ove il
godimento dello spazio per parcheggio -nella misura di un
metro quadrato per ogni
venti metri cubi di costruito, ai sensi della norma
imperativa ed inderogabile di cui
all'art. 41-sexies della legge n. 1150 del 1942, introdotto
dall'art.18 della legge n.
765 del 1967- non sia assicurato in favore del singolo
condomino, essendovi un
titolo contrattuale che attribuisca ad altri la proprietà
dello spazio stesso, si ha nullità
di tale contratto, nella parte in cui sia omessa tale
inderogabile destinazione, con
integrazione "ope legis" del contratto tramite
riconoscimento di un diritto reale di
uso di detto spazio in favore del condomino, nella misura
corrispondente ai
parametri della disciplina normativa applicabile per l'epoca
dell'edificazione (Cass.
24.11.2003, n. 17882; Cass. 27.12.2011, n.
28950).
Alla nullità del contratto di compravendita di unità
immobiliari, nella parte in cui
risulti sottratta (mediante riserva al venditore o
trasferimento a terzi) la superficie
destinata all'inderogabile funzione di parcheggio, consegue
l'integrazione della
convenzione negoziale "ope legis", con l'attribuzione, in
favore dell'acquirente
dell'unità immobiliare, del diritto reale d'uso di tale
area, e, in favore dell'alienante,
del corrispettivo ulteriore (da concordarsi tra le parti, o,
in difetto, da determinarsi dal giudice), così ripristinando
direttamente l'equilibrio del sinallagma contrattuale
(Cass. 18.04.2000, n. 4977).
Coerentemente con tale
impostazione, la corte di
merito ha dichiarato la nullità parziale dell'atto del
10.12.1990 nella parte relativa al
trasferimento "integrale" dell'area destinata a parcheggio
all'acquirente El.Li.
D'altra parte, la ricorrente evidenzia (cfr. pagg. da 7 a 9
del ricorso) che il Ctu
nominato dal Tribunale, le cui conclusioni venivano accolte
nella sentenza di primo
grado, avesse accertato che l'area da riservare a parcheggio
proporzionata alla
volumetria dei due appartamenti interno 10 e interno 11, in
origine acquistati da
Gi.El., doveva essere pari a mq. 34,80, mentre la
zona coperta da questa
ricevuta era pari soltanto a mq. 21,24, perciò mancando mq.
13,56 alla quota di
legge. Lo stesso perito aveva quindi stimato in mq. 10,90 il
diritto alla quota ideale
dell'area di parcheggio spettante ad El.Li., traendo
la conseguenza che,
almeno con riferimento ai residui mq. 10,34, El.Gi. avesse sottratto
l'area alla sua destinazione per quanto concerne l'altro
appartamento di cui si era
riservata la proprietà (e che poi ha ceduto al La.).
E' quindi incontroverso che l'area residua riconosciuta a
Giuliana Elefante con l'atto
di rettifica del 22.11.1972 (pari complessivamente a
mq. 21,24) non
garantisse a nessuno dei due appartamenti, poi da questa
alienati a diversi soggetti, i
parametri plano-volumetrici previsti dalla legge
urbanistica. Il controricorrente
ribadisce in questa sede come tale area di parcheggio, per
quanto insufficiente
rispetto ai criteri di legge, non fosse stata asservita in
quell'atto di rettifica all'uno o
all'altro degli appartamenti, e perciò ne pretende una
quota.
Ora, secondo consolidata interpretazione giurisprudenziale,
la norma dettata dall'art.
41-sexies della legge n. 1150 del 1942, si limita a
prescrivere, per i fabbricati di
nuova costruzione, una misura proporzionale alla cubatura
totale dell'edificio da
destinare obbligatoriamente a parcheggi, pari ad un metro
quadrato per ogni venti
metri cubi di costruito, secondo i parametri applicabili per
l'epoca dell'edificazione.
Per la concreta attuazione, invece, della costituzione del
diritto reale di uso per parcheggio, soltanto in assenza di
relativa previsione nell'atto concessorio, o nel
regolamento condominiale, o negli atti di acquisto dei
singoli appartamenti, è
consentito chiedere al giudice tale identificazione (Cass.
11.08.1997, n. 7474).
Ai fini del rispetto del vincolo di destinazione impresso
agli spazi per parcheggio
dall'art. 41-sexies citato, infatti, il rapporto tra la
superficie delle aree destinate a
parcheggio e la volumetria del fabbricato, così come
richiesto dalla legge, va effettivamente verificato a monte
dalla P.A. nel rilascio della concessione edilizia
(cfr. Cass. 30.07.1999, n. 6894; Cass. 14.11.2000,
n. 14731; Cass. 05.05.2003, n. 6751; Cass. 13.01.2010, n. 378).
Sempre questa Corte ha affermato come gli spazi che debbono
essere riservati a
parcheggio ex art. 41-sexies possono essere ubicati
indifferentemente nelle nuove
costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle stesse,
trattandosi di modalità
entrambe idonee a soddisfare l'esigenza, costituente la "ratio"
della norma, di
deflazione della domanda di spazi per parcheggio nelle aree
destinate alla pubblica
circolazione, non essendo, peraltro, consentito al giudice
di sindacare le scelte
compiute in proposito dalla P.A. (Cass. 22.02.2006, n.
3961).
Ed allora, nella vicenda oggetto di questo giudizio, perché
si possa correttamente
affermare la nullità parziale ex art. 1418 c.c. dell'atto
pubblico del 10.12.1990, come
affermato dalla Corte d'Appello di Salerno, riconoscendo al La. il diritto reale
d'uso sull'area di parcheggio occorre accertare l'avvenuta
riserva, al momento della
realizzazione dell'edificio di via ..., n. 21, di
Salerno, all'interno della
concessione edilizia, di una sufficiente ed individuata area
da destinare a
parcheggio, come richiesto dalla Legge urbanistica.
Solo,
infatti, la determinazione
di uno preciso spazio, interno od esterno all'edificio,
idoneo ad essere utilizzato a
scopo di parcheggio, e la successiva stipulazione di un atto
di compravendita della
singola porzione immobiliare con espressa esclusione o
mancata menzione del
contestuale trasferimento della proprietà o del diritto
reale d'uso sulle pertinenziali
porzioni del detto spazio riservato, consentono di pervenire
alla dichiarazione di
nullità di quell'atto.
Ove sia, diversamente, accertato che,
pur previsto nella concessione edilizia, lo spazio
sufficiente da adibire a parcheggio secondo le
proporzioni di legge, non fosse stato affatto riservato in
corso di costruzione o fosse
stato impiegato, invece, per realizzarvi opere d'altra
natura da destinare a diversa
utilizzazione (ipotesi, cioè diversa, da quella in cui allo
spazio realizzato
conformemente al progetto fosse stata successivamente data
una diversa
destinazione in sede di vendita), non può dirsi nemmeno mai
costituito il rapporto di
pertinenzialità ex lege voluto dalla legge urbanistica,
sicché non può ravvisarsi la
nullità parziale dei contratti di vendita aventi ad oggetto
quello spazio, né farsi luogo
a tutela ripristinatoria per ottenere la realizzazione ex
novo dello spazio da destinare
a parcheggio non riservato in corso d'edificazione,
ammettendosi unicamente una
tutela risarcitoria.
In sostanza, l'effettiva esistenza di
uno spazio destinato a
parcheggio proporzionato alla cubatura totale dell'edificio
nel provvedimento
abilitativo all'edificazione è condizione per il
riconoscimento giudiziale del diritto
reale al suo uso da parte degli acquirenti delle singole
unità immobiliari del
fabbricato (Cass. 18.04.2003, n. 6329; Cass. 22.02.2006, n. 3961; Cass.
07.05.2008, n. 11202; Cass. 11.02.2009, n. 3393;
Cass. 05.05.2009, n.
10341; Cass. 08.08.2014, n. 17813).
Non è corretto, quindi, riconoscere un diritto reale di uso
in favore del La. in
una misura comunque non corrispondente ai parametri di cui
all'art. 41-sexies della
legge n. 1150 del 1942, in modo soltanto da condividere i
disagi dell'insufficienza
dell'area di parcheggio con Li.El., altro subacquirente di Gi.El., in
quanto l'integrazione "ope legis" del contratto di acquisto
del ricorrente non può che
avvenire, sussistendone le specificate condizioni di fatto,
nella proporzione
aritmetica stabilita dalla citata norma imperativa ed
inderogabile.
Né nella
motivazione della corte d'appello risulta esplicitato se il
diritto reale d'uso in favore
di Lauriello Vincenzo sul sufficiente spazio destinato a
parcheggio potesse trovare
pieno esercizio sulle aree esterne al fabbricato comunque
idonee a garantire la
prescrizione normativa della legge urbanistica.
Secondo i principi generali di allocazione dell'onere
istruttorio, spetta in ogni caso all'attore, il quale deduca
la nullità dell'atto di acquisto da parte di terzi di
un'area di
parcheggio vincolata al diritto d'uso ex art. 41-sexies
Legge urbanistica, di provare
che il bene oggetto di tale alienazione sia compreso
nell'ambito ben delimitato da
tale norma (ovvero nell'apposito spazio riservato per
parcheggio in misura non
inferiore ad un metro quadrato per ogni venti metri cubi di
costruzione,
concretamente destinato a tal fine in sede di realizzazione
del fabbricato), in quanto
elemento costitutivo del suo asserito diritto (Cass.
23.01.2006, n. 1221). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Errore di fatto? Subito palese.
La domanda di revocazione richiede l'immediatezza.
Il Consiglio di stato interviene sugli atti del giudizio.
Indagini ermeneutiche al bando.
L'errore di fatto, idoneo a fondare la domanda di
revocazione, deve apparire con immediatezza ed essere di
semplice rilevabilità, senza necessità di argomentazioni
induttive o indagini ermeneutiche.
È quanto ribadito dai giudici della V Sez. del
Consiglio di Stato con la
sentenza
05.04.2016 n. 1331.
Sull'errore di fatto revocatorio c'è ormai una consolidata
giurisprudenza (Cons. St., sez. III, 01.10.2012, n.
5162; sez. VI, 02.02.2012, n. 587; 01.12.2010, n.
8385, nonché Cons. St., Ad. Plen., 17.05.2010, n. 2;
nonché tra le più recenti sez. III, 04.08.2015, n. 3844;
27.07.2015, n. 3686; 13.05.2015, n. 2392; 23.06.2014, n. 3183;
07.04.2014, n. 1635; sez. IV, 26.08.2015, n. 3993) secondo cui tale errore si sostanzia «in una
svista o in un abbaglio dei sensi» che va a provocare una
percezione errata del contenuto degli atti del giudizio
(ritualmente acquisiti agli atti di causa), andando a
determinare un contrasto tra due diverse proiezioni dello
stesso oggetto, l'una emergente dalla sentenza e l'altra
risultante dagli atti e documenti di causa.
Quindi tale
errore non deve assolutamente essere confuso con quello che
coinvolge l'attività valutativa del giudice, costituendo il
peculiare mezzo previsto dal legislatore per eliminare
l'ostacolo materiale che si frappone tra la realtà del
processo e la percezione che di essa ha avuto il giudicante,
proprio a causa della svista o dell'abbaglio dei sensi.
In sintesi, quindi, se da un lato l'errore di fatto
revocatorio è configurabile nell'attività preliminare del
giudice di lettura e percezione degli atti acquisiti al
processo, quanto alla loro esistenza e al significato
letterale (senza coinvolgere la successiva attività
d'interpretazione e di valutazione del contenuto delle
domande e delle eccezioni ai fini della formazione del
convincimento), esso non ricorrerà nell'ipotesi di erroneo,
inesatto o incompleto apprezzamento delle risultanze
processuali o di anomalia del procedimento logico di
interpretazione del materiale probatorio ovvero quando la
questione controversa sia stata risolta sulla base di
specifici canoni ermeneutici o sulla base di un esame
critico della documentazione acquisita, tutte ipotesi queste
che danno luogo a un ipotetico errore di giudizio, non
censurabile mediante la revocazione, anche perché il rischio
in tal caso sarebbe quello di trasformare il tutto in un
ulteriore grado di giudizio, non previsto però
dall'ordinamento
(articolo ItaliaOggi Sette del 09.05.2016).
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MASSIMA
8. Occorre premettere che, secondo un consolidato
indirizzo giurisprudenziale (del Consiglio di Stato e della
Corte di Cassazione) l'errore di fatto,
idoneo a fondare la domanda di revocazione ai sensi degli
artt. 106 c.p.a e 395, n. 4, c.p.c., deve essere
caratterizzato:
a) dal derivare da una pura e semplice
errata o mancata percezione del contenuto meramente
materiale degli atti del giudizio, la quale abbia indotto
l'organo giudicante a decidere sulla base di un falso
presupposto di fatto, facendo cioè ritenere un fatto
documentalmente escluso ovvero inesistente un fatto
documentalmente provato;
b) dall'attenere ad un punto non
controverso e sul quale la decisione non abbia espressamente
motivato;
c) dall'essere stato un elemento decisivo
della decisione da revocare, necessitando perciò un rapporto
di causalità tra l'erronea presupposizione e la pronuncia
stessa (Cons. St.,
Ad. Plen., 17.05.2010, n. 2; nonché tra le più recenti sez.
III, 04.08.2015, n. 3844; 27.07.2015, n. 3686; 13.05.2015,
n. 2392; 23.06.2014, n. 3183; 07.04.2014, n. 1635; sez. IV,
26.08.2015, n. 3993; 11.06.2015, n. 2854; 14.05.2015, n.
2431).
L'errore deve inoltre apparire con
immediatezza ed essere di semplice rilevabilità, senza
necessità di argomentazioni induttive o indagini
ermeneutiche
(Cons. St., sez. IV, 13.12.2013, n. 6006; sez. VI,
25.05.2012, n. 2781; 05.03.2012, n. 1235).
8.1. L'errore di fatto revocatorio si
sostanzia quindi in una svista o in un abbaglio dei sensi
che ha provocato l'errata percezione del contenuto degli
atti del giudizio (ritualmente acquisiti agli atti di
causa), determinando un contrasto tra due diverse proiezioni
dello stesso oggetto, l'una emergente dalla sentenza e
l'altra risultante dagli atti e documenti di causa: esso
pertanto non può (e non deve) confondersi con quello che
coinvolge l'attività valutativa del giudice, costituendo il
peculiare mezzo previsto dal legislatore per eliminare
l'ostacolo materiale che si frappone tra la realtà del
processo e la percezione che di essa ha avuto il giudicante,
proprio a causa della svista o dell'abbaglio dei sensi
(giuris. citata, nonché Cons. St., sez. III, 01.10.2012, n.
5162; sez. VI, 02.02.2012, n. 587; 01.12.2010, n. 8385).
Pertanto, mentre l'errore di fatto
revocatorio è configurabile nell'attività preliminare del
giudice di lettura e percezione degli atti acquisiti al
processo, quanto alla loro esistenza ed al significato
letterale (senza
coinvolgere la successiva attività d'interpretazione e di
valutazione del contenuto delle domande e delle eccezioni ai
fini della formazione del convincimento, così che rientrano
nella nozione dell'errore di fatto di cui all'art. 395, n.
4, c.p.c., i casi in cui il giudice, per svista sulla
percezione delle risultanze materiali del processo, sia
incorso in omissione di pronunzia o abbia esteso la
decisione a domande o ad eccezioni non rinvenibili negli
atti del processo, Cons. St., sez. III, 24.05.2012, n.
3053), esso non ricorre nell'ipotesi di
erroneo, inesatto o incompleto apprezzamento delle
risultanze processuali o di anomalia del procedimento logico
di interpretazione del materiale probatorio ovvero quando la
questione controversa sia stata risolta sulla base di
specifici canoni ermeneutici o sulla base di un esame
critico della documentazione acquisita, tutte ipotesi queste
che danno luogo ad un ipotetico errore di giudizio, non
censurabile mediante la revocazione
(che altrimenti si trasformerebbe in un ulteriore grado di
giudizio, non previsto dall'ordinamento, Cons. St., sez. III,
08.10.2012, n. 5212; sez. IV, 28.10.2013, n. 5187; sez. V,
11.06.2013, n. 3210; 18.10.2012, n. 5353; 26.03.2012, n.
1725; sez. VI, C.d.S., sez. VI, 02.02.2012, n. 587;
15.05.2012, n. 2781; 16.09.2011, n. 5162; Cass. Civ., sez.
I, 23.01.2012, n. 836; sez. II, 31.03.2011, n. 7488).
8.2. Anche l’omessa pronuncia su motivi o
eccezioni è stata ritenuta denunciabile nell’ambito del
vizio revocatorio di errore di fatto, ogni qualvolta essa
sia dipesa dalla mancata percezione di atti e documenti di
causa nei quali la domanda o l'eccezione erano state
formulate (Ad.
plen. 22.01.1997, n. 3; Sez. III, 24.05.2012, n. 3053; Sez.
IV, 13.10.2014, n. 5043, 28.10.2013 n. 5187, 13.06.2013, n.
3287, 15.04.2013, n. 2026; sez. V, 22.01.2015, n. 264; Sez.
VI, 22.09.2014, n. 4774, 20.07.2011, n. 4305), con la
precisazione che l'omessa pronuncia inficiata da svista
percettiva degli atti di causa non si traduce in errore
revocatorio allorquando la domanda o eccezione risulti
implicitamente respinta in base ad una lettura non
formalistica della motivazione della decisione di cui si
chiede la revoca. |
EDILIZIA PRIVATA:
Case mobili e titolo edilizio: nuova sentenza del Consiglio
di Stato.
La precarietà dei manufatti non si può desumere dalle
finalità di alloggio transitorio e temporaneo proprie delle
strutture ricettive turistiche.
La stabile collocazione, ad opera del
gestore, di un vero e proprio nucleo organizzato di case
mobili, determina un’alterazione del territorio che non può
ritenersi né precaria né transitoria, e la realizzazione di
una struttura ricettiva atipica che può ritenersi
assimilabile a quella di un villaggio turistico.
Nel momento in cui tali manufatti, definiti case mobili
perché muniti di ruote, sono stati stabilmente infissi al
suolo, all’interno dell’area del campeggio, ed hanno perso
la loro mobilità, viene meno quella caratteristica di
precarietà dell’opera che consente la loro collocazione in
assenza di titoli edilizi all’interno di strutture ricettive
turistiche.
Lo ha evidenziato il Consiglio di Stato (Sez. VI) nella
sentenza 01.04.2016 n. 1291.
Palazzo Spada sottolinea che le disposizioni volte a
consentire la libera collocazione all’interno delle
strutture ricettive di strutture mobili (come le “case” su
ruote) “è volta chiaramente a favorire l’occupazione
transitoria del suolo, in particolare da parte dei turisti
che utilizzano tali mezzi muovendosi da una struttura
all’altra, e non anche a favorire la realizzazione, in
assenza di titoli edilizi, di strutture stabili equiparabili
a quelle di tipo alberghiero”.
Temporanee sono, infatti, esclusivamente le modalità di
soggiorno dei soggetti ospitati nelle strutture, che nulla
hanno in comune con la stabile presenza ed utilizzazione
delle "case mobili".
Il Consiglio di Stato ricorda che “la possibile collocazione
temporanea di roulotte o camper o altri manufatti mobili
all’interno di strutture ricettive all’aperto, come i
camping, è chiaramente consentita dal legislatore e non
prevede il rilascio di titoli edilizi”.
Ai sensi dell’art. 3, comma 1, lettera e.5), del D.P.R. n.
380 del 6 giugno 2001, recante il T.U. delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia edilizia, sono,
infatti, da considerarsi nuove costruzioni, comportanti la
trasformazione edilizia e urbanistica del territorio, «l'installazione
di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di
qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili,
imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti
di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, ad
eccezione di quelli che siano diretti a soddisfare esigenze
meramente temporanee o siano ricompresi in strutture
ricettive all'aperto per la sosta e il soggiorno dei
turisti, previamente autorizzate sotto il profilo
urbanistico, edilizio e, ove previsto, paesaggistico, in
conformità alle normative regionali di settore».
IL PRONUNCIAMENTO DELLA CONSULTA.
I limiti per l’applicazione di tale disposizione sono stati
di recente chiariti dalla Corte Costituzionale, con la
sentenza n. 171 del 02-06.07.2012. Con tale sentenza la
Corte ha sancito l’illegittimità costituzionale, per la
violazione della normativa statale in ordine agli interventi
di nuova costruzione, del comma 1 dell’art. 25-bis della
legge della Regione Lazio n. 13 del 2007, inserito dall’art.
2 della legge regionale n. 14 del 2011, secondo cui era
consentita, nelle strutture ricettive all’aria aperta,
previste dall’art. 23, comma 4, della detta legge regionale,
l’installazione e il rimessaggio dei mezzi mobili di
pernottamento, con relativi preingressi e cucinotti, «anche
se collocati permanentemente».
La Corte Costituzionale ha precisato che l’art. 6 del D.P.R.
n. 380 del 2001 stabilisce quali sono gli interventi
eseguibili senza alcun titolo abilitativo, e tra essi non
figurano le installazioni delle strutture sopra menzionate,
mentre il successivo art. 10 inserisce gli interventi di
nuova costruzione tra quelli di trasformazione urbanistica
ed edilizia del territorio.
Pertanto, ha aggiunto la Corte, «l’assunto della difesa
regionale –secondo cui le strutture mobili, previste
dall’art. 1 della legge impugnata, non determinerebbero
alcuna trasformazione irreversibile o permanente del
territorio su cui insistono– si pone in palese contrasto con
la normativa statale e con i principi fondamentali da essa
affermati. Invero, è evidente che, se quell’assunto fosse
esatto, cioè se si trattasse “di strutture caratterizzate da
precarietà oggettiva, tenuto conto delle tipologie dei
materiali utilizzati”, il legislatore statale non avrebbe
catalogato in modo espresso tra “gli interventi di nuova
costruzione” l’installazione di manufatti leggeri, tra cui
le case mobili. Inoltre, quanto alla precarietà funzionale
che contraddistinguerebbe i manufatti, ponendosi come
nozione distinta dalla temporaneità delle funzioni cui
assolvono, giacché essi sarebbero volti a garantire esigenze
meramente temporanee, è sufficiente notare, da un lato, che
proprio il dettato della norma censurata smentisce tale
precarietà, dal momento che considera l’installazione e il
rimessaggio dei mezzi mobili, “anche se collocati
permanentemente”, come attività edilizia libera, e perciò
non soggetta a titolo abilitativo edilizio; e, dall’altro,
che proprio la mancanza del titolo edilizio e di ogni
previsione di verifica o di controllo impedisce di
riscontrare il presunto carattere precario e temporaneo
dell’installazione».
Né secondo la Corte, è possibile giungere ad una conclusione
diversa per effetto della norma di cui all’art. 6, comma 6,
del T.U. sull’edilizia, che consente alle Regioni a statuto
ordinario di poter estendere la disciplina sull’attività
edilizia libera ad interventi edilizi ulteriori rispetto a
quelli menzionati nel medesimo articolo, poiché tale
disposizione si riferisce ad (altri) interventi (atipici)
senza che possa essere derogata la disposizione dettata
dall’art. 3 del D.P.R. n. 380 del 2001.
Nella decisione richiamata, la Consulta ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale anche dell’art. 2, comma 8,
secondo periodo, della legge della Regione Lazio n. 14 del
2011, per aver disposto che, nelle strutture regolarmente
autorizzate all’esercizio ricettivo e ricadenti nei parchi
naturali successivamente istituiti, l’installazione, la
rimozione e/o lo spostamento di mezzi mobili di
pernottamento non costituiscono mutamenti dello stato dei
luoghi e pertanto non sono soggetti al preventivo parere
degli enti gestori.
Quindi, aggiunge il Consiglio di Stato, “per effetto di
quanto disposto dal citato art. 3 del T.U. dell’edilizia
l'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e
di strutture di qualsiasi genere, quali roulotte, camper e,
come nella specie, case mobili, può ritenersi pertanto
consentita in strutture ricettive all'aperto per la sosta e
il soggiorno dei turisti se sono diretti a soddisfare
esigenze meramente temporanee, non determinandosi una
trasformazione irreversibile o permanente del territorio su
cui insistono, mentre l’installazione stabile di mezzi
(teoricamente) mobili di pernottamento determina una
trasformazione irreversibile o permanente del territorio,
con la conseguenza che per tali manufatti, equiparabili alle
nuove costruzioni, necessita il permesso di costruire. Se
l’area interessata è poi in zona vincolata, per tali
manufatti occorre anche il nulla osta dell’amministrazione
preposta alla tutela del vincolo”.
La disposizione “è chiaramente volta ad escludere la
necessità di titoli edilizi per la collocazione temporanea
di strutture mobili destinate ad abitazione, come le
roulotte, i camper o anche le case mobili, da parte dei
turisti che utilizzano tali mezzi per muoversi da una
struttura all’altra e si avvalgono poi dei diversi servizi
messi a loro disposizione dai gestori delle strutture
ricettive”
(commento tratto da
www.casaeclima.com).
---------------
MASSIMA
... per la riforma della sentenza del TAR per il Lazio,
Sede di Roma, Sez. I-quater, n. 11725 del 24.11.2014, resa
tra le parti, concernente la demolizione di case mobili e il
ripristino dello stato dei luoghi.
...
3.- La società Ro.Ge. ha appellato l’indicata sentenza ritenendola
erronea sotto diversi profili.
In particolare la società appellante ha insistito nel
sostenere l’illegittimità dell’impugnata ordinanza di
demolizione in quanto le case mobili oggetto del
provvedimento sanzionatorio sono destinate a soddisfare,
contrariamente a quanto affermato dal TAR, esigenze
intrinsecamente temporanee.
Dopo aver ricordato che la normativa regionale (art. 25-bis
della legge n. 13 del 2007, Organizzazione del sistema
turistico laziale), che prevedeva la libera installazione
delle strutture oggetto del provvedimento impugnato, è stata
dichiarata incostituzionale dalla Corte Costituzionale, con
sentenza n. 171 del 2012, la società appellante ha sostenuto
che comunque la normativa nazionale (art. 3, comma 1, lett.
e5, del T.U. dell’edilizia) include i manufatti leggeri,
come le case mobili, fra quelli per i quali occorre il
permesso di costruire, se utilizzati come abitazioni o come
luogo di lavoro, «salvo che siano installati, con temporaneo
ancoraggio al suolo, all’interno di strutture ricettive
all’aperto in conformità alla normativa regionale di
settore, per la sosta e il soggiorno di turisti».
L’appellante ha poi aggiunto che anche la legge regionale n.
18 del 2008 prevede che il posizionamento di mezzi mobili
all’interno del camping non è soggetto a titoli abilitativi.
4.- Ciò premesso, si deve preliminarmente ricordare che
la
possibile collocazione temporanea di roulotte o camper o
altri manufatti mobili all’interno di strutture ricettive
all’aperto, come i camping, è chiaramente consentita dal
legislatore e non prevede il rilascio di titoli edilizi.
Ai sensi dell’art. 3, comma 1, lettera e.5), del D.P.R. n.
380 del 06.06.2001, recante il T.U. delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia edilizia,
sono,
infatti, da considerarsi nuove costruzioni , comportanti la
trasformazione edilizia e urbanistica del territorio,
«l'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati,
e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers,
case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come
abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi,
magazzini e simili, ad eccezione di quelli che siano diretti
a soddisfare esigenze meramente temporanee o siano
ricompresi in strutture ricettive all'aperto per la sosta e
il soggiorno dei turisti, previamente autorizzate sotto il
profilo urbanistico, edilizio e, ove previsto,
paesaggistico, in conformità alle normative regionali di
settore».
5.- I limiti per l’applicazione di tale disposizione sono
stati di recente chiariti dalla Corte Costituzionale, con la
sentenza n. 171 del 02-06.07.2012, citata dalla stessa
società appellante.
Con tale sentenza la Corte ha sancito l’illegittimità
costituzionale, per la violazione della normativa statale in
ordine agli interventi di nuova costruzione, del comma 1
dell’art. 25-bis della legge della Regione Lazio n. 13 del
2007, inserito dall’art. 2 della legge regionale n. 14 del
2011, secondo cui era consentita, nelle strutture ricettive
all’aria aperta, previste dall’art. 23, comma 4, della detta
legge regionale, l’installazione e il rimessaggio dei mezzi
mobili di pernottamento, con relativi preingressi e
cucinotti, «anche se collocati permanentemente».
5.1.- La Corte Costituzionale ha quindi precisato che
l’art.
6 del D.P.R. n. 380 del 2001 stabilisce quali sono gli
interventi eseguibili senza alcun titolo abilitativo, e tra
essi non figurano le installazioni delle strutture sopra
menzionate, mentre il successivo art. 10 inserisce gli
interventi di nuova costruzione tra quelli di trasformazione
urbanistica ed edilizia del territorio.
Pertanto, ha aggiunto la Corte, «l’assunto della difesa
regionale –secondo cui le strutture mobili, previste
dall’art. 1 della legge impugnata, non determinerebbero
alcuna trasformazione irreversibile o permanente del
territorio su cui insistono– si pone in palese contrasto
con la normativa statale e con i principi fondamentali da
essa affermati. Invero, è evidente che, se quell’assunto
fosse esatto, cioè se si trattasse “di strutture
caratterizzate da precarietà oggettiva, tenuto conto delle
tipologie dei materiali utilizzati”, il legislatore statale
non avrebbe catalogato in modo espresso tra “gli interventi
di nuova costruzione” l’installazione di manufatti leggeri,
tra cui le case mobili. Inoltre, quanto alla precarietà
funzionale che contraddistinguerebbe i manufatti, ponendosi
come nozione distinta dalla temporaneità delle funzioni cui
assolvono, giacché essi sarebbero volti a garantire esigenze
meramente temporanee, è sufficiente notare, da un lato, che
proprio il dettato della norma censurata smentisce tale
precarietà, dal momento che considera l’installazione e il
rimessaggio dei mezzi mobili, “anche se collocati
permanentemente”, come attività edilizia libera, e perciò
non soggetta a titolo abilitativo edilizio; e, dall’altro,
che proprio la mancanza del titolo edilizio e di ogni
previsione di verifica o di controllo impedisce di
riscontrare il presunto carattere precario e temporaneo
dell’installazione».
5.2.- Né secondo la Corte, è possibile giungere ad una
conclusione diversa per effetto della norma di cui all’art.
6, comma 6, del T.U. sull’edilizia, che consente alle
Regioni a statuto ordinario di poter estendere la disciplina
sull’attività edilizia libera ad interventi edilizi
ulteriori rispetto a quelli menzionati nel medesimo
articolo, poiché tale disposizione si riferisce ad (altri)
interventi (atipici) senza che possa essere derogata la
disposizione dettata dall’art. 3 del D.P.R. n. 380 del 2001.
5.3.- Si deve aggiungere che la Corte, nella decisione
richiamata, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale
anche dell’art. 2, comma 8, secondo periodo, della legge
della Regione Lazio n. 14 del 2011, per aver disposto che,
nelle strutture regolarmente autorizzate all’esercizio
ricettivo e ricadenti nei parchi naturali successivamente
istituiti, l’installazione, la rimozione e/o lo spostamento
di mezzi mobili di pernottamento non costituiscono mutamenti
dello stato dei luoghi e pertanto non sono soggetti al
preventivo parere degli enti gestori.
6.- Per effetto di quanto disposto dal citato art. 3 del
T.U. dell’edilizia l'installazione di manufatti leggeri,
anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere,
quali roulotte, camper e, come nella specie, case mobili,
può ritenersi pertanto consentita in strutture ricettive
all'aperto per la sosta e il soggiorno dei turisti se sono
diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee, non
determinandosi una trasformazione irreversibile o permanente
del territorio su cui insistono, mentre l’installazione
stabile di mezzi (teoricamente) mobili di pernottamento
determina una trasformazione irreversibile o permanente del
territorio, con la conseguenza che per tali manufatti,
equiparabili alle nuove costruzioni, necessita il permesso
di costruire.
Se l’area interessata è poi in zona vincolata,
per tali manufatti occorre anche il nulla osta
dell’amministrazione preposta alla tutela del vincolo.
6.1.- L’indicata disposizione è chiaramente volta ad
escludere la necessità di titoli edilizi per la collocazione
temporanea di strutture mobili destinate ad abitazione, come
le roulotte, i camper o anche le case mobili, da parte dei
turisti che utilizzano tali mezzi per muoversi da una
struttura all’altra e si avvalgono poi dei diversi servizi
messi a loro disposizione dai gestori delle strutture
ricettive.
7.- Nella fattispecie, come risulta dalla documentazione in
atti, le case mobili oggetto del provvedimento di
demolizione, in gran parte poi rimosse, benché collocate
all’interno di una struttura ricettiva turistica autorizzata
non erano evidentemente caratterizzate da quella precarietà
e temporaneità che ne poteva consentire la permanenza in
assenza di titoli edilizi.
Risulta, infatti, dagli atti, che la società appellante
aveva collocato stabilmente, destinandole al servizio di
turisti, ben 142 case mobili (n. 70 di mt. 3 x 8, di forma
rettangolare, e n. 72 di circa mq. 27, di forma ad “L”, per
un totale di circa 3.624 mq.), munite di ruote, ma sollevate
dal suolo, ed allacciate all’impianto idrico sanitario ed
elettrico.
7.1.- In tal modo, la stabile collocazione, ad opera del
gestore, di un vero e proprio nucleo organizzato di case
mobili, ha determinato un’alterazione del territorio, che
non può ritenersi né precaria né transitoria, e la
realizzazione di una struttura ricettiva atipica che può
ritenersi assimilabile a quella di un villaggio turistico.
In particolare, nel momento in cui tali manufatti, definiti
case mobili perché muniti di ruote, sono stati stabilmente
infissi al suolo, all’interno dell’area del campeggio, ed
hanno perso la loro mobilità (tanto che, come ha accertato
il Comune, erano sollevati dal suolo), è venuta meno quella
caratteristica di precarietà dell’opera che consente la loro
collocazione in assenza di titoli edilizi all’interno di
strutture ricettive turistiche.
Infatti, le disposizioni volte a consentire la libera
collocazione all’interno delle strutture ricettive di
strutture mobili (come le “case” su ruote) è volta
chiaramente a favorire l’occupazione transitoria del suolo,
in particolare da parte dei turisti che utilizzano tali
mezzi muovendosi da una struttura all’altra, e non anche a
favorire la realizzazione, in assenza di titoli edilizi, di
strutture stabili equiparabili a quelle di tipo alberghiero.
7.2.- Correttamente il TAR ha, pertanto, affermato che,
per individuare la natura precaria di un'opera, si deve
seguire «non il criterio strutturale, ma il criterio
funzionale», per cui un'opera se è realizzata per soddisfare
esigenze non temporanee non può beneficiare del regime
proprio delle opere precarie.
7.3.- Anche questa Sezione ha più volte affermato che
non
possono essere considerati manufatti destinati a soddisfare
esigenze meramente temporanee quelli destinati ad una
utilizzazione perdurante nel tempo, di talché l'alterazione
del territorio non può essere considerata temporanea,
precaria o irrilevante (fra le più recenti: Consiglio di
Stato, Sez. VI, n. 4116 del 04.09.2015).
La Sezione ha anche affermato che la “precarietà”
dell'opera, che esonera dall'obbligo del possesso del
permesso di costruire, postula un uso specifico e
temporalmente limitato del bene e non la sua stagionalità
che non esclude la destinazione del manufatto al
soddisfacimento di esigenze non eccezionali e contingenti,
ma permanenti nel tempo (Consiglio di Stato, Sez. VI, n.
2841 del 03.06.2014).
8.- Né, come pure ha giustamente osservato il TAR,
la
precarietà dei manufatti può desumersi dalle finalità di
alloggio transitorio e temporaneo proprie delle strutture
ricettive turistiche: «temporanee sono, infatti,
esclusivamente le modalità di soggiorno dei soggetti
ospitati nelle strutture, che nulla hanno in comune con la
stabile presenza ed utilizzazione delle "case mobili" in
questione».
9.- Alla luce delle esposte considerazioni, l’appello
risulta infondato e deve essere pertanto respinto (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 01.04.2016 n. 1291 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
VARI:
La vacanza è diritto assoluto. Il godimento delle ferie
tutelabile in via aquiliana. La sentenza del tribunale di Reggio Emilia che ha
riconosciuto il risarcimento.
Il diritto al godimento della vacanza non può considerarsi
soltanto quale diritto di credito, nascente dal contratto di
viaggio e tutelabile a livello contrattuale nei rapporti con
l'organizzatore o tour operator, ma anche come diritto
assoluto tutelabile in via aquiliana.
Il TRIBUNALE di Reggio Emilia - Sez. I civile, con la
sentenza 30.03.2016 n. 434 (si veda ItaliaOggi del 21
aprile scorso), ha riconosciuto a un uomo coinvolto in un
incidente stradale e alla moglie (non direttamente
coinvolta), il risarcimento del danno non patrimoniale
conseguente al mancato godimento delle ferie e delle vacanze
programmate da tempo, in piena armonia con il principio di
integralità del risarcimento del danno alla persona, più
volte ribadito dalla Corte di cassazione.
Le sezioni unite della Suprema corte, nel procedere alla
sistemazione della figura del «danno non patrimoniale» con
le note sentenze di San Martino del 2008 hanno chiaramente
affermato che, in tema di danno alla persona, il
riconoscimento del carattere «onnicomprensivo» del
risarcimento del danno non patrimoniale non può andare a
scapito del principio della «integralità» del risarcimento
medesimo.
Ciò impone di tenere conto dell'insieme dei pregiudizi
sofferti, ivi compresi quelli esistenziali, purché sia
provata nel giudizio l'autonomia e la distinzione degli
stessi, dovendo il giudice, a tal fine, provvedere
all'integrale riparazione secondo un criterio di
personalizzazione del danno, che tenga conto, pur
nell'ambito di criteri predeterminati, delle condizioni
personali e soggettive del danneggiato e della gravità della
lesione e, dunque, delle particolarità del caso concreto e
della reale entità del danno.
Il giudice di pace di Reggio Emilia, sull'onda di letture «abolizioniste»
di tutti i pregiudizi non patrimoniali diversi dal danno
biologico, successive alle sopra richiamate sentenze delle
ss.uu. del 2008, non aveva accolto le richieste risarcitorie
dei due coniugi in ordine al danno non patrimoniale da
vacanza rovinata o da ferie non godute.
Il tribunale di Reggio Emilia, in appello, ha correttamente
vagliato tutti i pregiudizi non patrimoniali allegati
conseguenti alle lesioni riportate dall'uomo, compresi
quelli derivanti dalla lesione di un interesse
costituzionalmente garantito, quale appunto il diritto alle
ferie.
Le ferie, ha precisato il tribunale reggiano, rappresentano
un diritto, inviolabile e irrinunciabile, costituzionalmente
garantito dall'art. 36 Cost., e devono essere considerate
non solo quale periodo di riposo dall'attività lavorativa,
ma anche quale periodo in cui per il lavoratore è
sicuramente maggiormente possibile dedicarsi agli affetti
familiari.
Per questo, il tribunale ha accolto anche la domanda di
risarcimento presentata dalla moglie per il danno subito a
seguito della forzosa rinuncia al periodo di ferie,
stabilendo che ancorché la donna non fosse stata
direttamente coinvolta nel sinistro stradale, la sua
posizione poteva ritenersi assimilata a quella del marito
sotto il profilo del mancato godimento della vacanza
programmata con la propria famiglia.
L'unica alternativa possibile per la coppia era rinunciare
alle ferie, atteso che le stesse erano state organizzate con
largo anticipo evidenziando, con ciò, la difficoltà di
entrambi, in quanto lavoratori subordinati, di un repentino
cambio di programma nell'organizzazione delle proprie ferie.
Con la sentenza in commento, hanno trovato quindi tutela
pregiudizi autonomi e diversi dal danno alla salute
(articolo ItaliaOggi Sette del 09.05.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Parafarmacie, insegna a bandiera.
La parafarmacia ben può installare l'insegna a bandiera
all'esterno del negozio, esattamente come la farmacia, anche
nel centro storico della città. Solo che la croce nel primo
caso è blu e nel secondo verde.
Nessuna discriminazione è
possibile nel regolamento comunale che disciplina il
commercio perché anche la parafarmacia svolge un servizio di
pubblica utilità vendendo le medicine disponibili senza
ricetta sanitaria e dunque deve potersi segnalare agli
utenti al pari di altre strutture come ospedali e
ambulatori.
È quanto emerge dalla
sentenza
21.03.2016 n. 520, pubblicata dalla
III Sez. del TAR Toscana.
Libera concorrenza
Accolto il ricorso di un imprenditore con la croce blu. È
vero: la Corte di giustizia Ue ha considerato
eurocompatibile la normativa italiana che impedisce alle
parafarmacie la vendita di medicinali di fascia C che
implicano della prescrizione del medico ma con onere a
carico dell'utente. E ciò perché potrebbe danneggiare le
farmacie che non operano in provincia o in zone centrali.
Ma l'Antitrust e gli stessi giudici amministrativi hanno
bocciato forme di discriminazione a danno delle parafarmacie
laddove la disparità di trattamento non risulta fondata sul
regime di vincoli cui sono sottoposti negozi con insegna a
croce verde.
E dopo le liberalizzazioni del 2012 ogni restrizione imposta
dall'amministrazione impone al giudice di controllare se il
veto è adeguato allo scopo e non rischia invece di alterare
il libero gioco della concorrenza e soffocare l'iniziativa
economica delle imprese.
Spese di lite compensare per la novità della questione
(articolo ItaliaOggi del
21.05.2016).
---------------
MASSIMA
Il ricorso è fondato.
Occorre prendere le mosse dalla seconda censura atteso che
la questione da essa posta –ossia se le parafarmacie debbano
o meno incluse nel catalogo dei servizi di pubblica utilità
per i quali è consentita la deroga al generale divieto di
installazione di insegne a bandiera nel centro storico-
potrebbe avere carattere dirimente ai fini della decisione.
Ai sensi dell’art. 8, comma 3, del regolamento comunale per
la installazione delle insegne “quando le caratteristiche
ambientali e l’architettura dell’immobile lo consentano
potrà essere autorizzata l’installazione verticale a
bandiera..di insegne con simbolo per la individuazione di
ospedali di ambulatori di pronto soccorso (anche
veterinario), di farmacie, di telefoni, di generi di
monopolio e di parcheggio…”.
La norma, compiendo un bilanciamento di interessi, consente
una (condizionata) deroga alla disciplina di protezione dei
caratteri storico ambientali degli edifici inclusi nella
zona A del comune di Firenze al fine di consentire
l’esposizione di segnaletiche, anche a bandiera, che
facilitino l’individuazione di taluni servizi ritenuti di
pubblica utilità, in specie quelli correlati alla tutela
della salute come gli ospedali, gli ambulatori di pronto
soccorso e le farmacie.
Il catalogo non include anche gli esercizi parafarmaceutici.
Tuttavia, come osserva la ricorrente, allo stato attuale
della legislazione anche i predetti esercizi erogano un
servizio volto a soddisfare bisogni connessi alla salute
che, per molti versi, è assimilabile a quello svolto dalle
vere e proprie farmacie.
Nelle parafarmacie è, infatti, possibile reperire farmaci la
cui dispensazione non necessità di ricetta medica (categoria
che include oggi quasi tutti i medicinali inclusi nella
fascia C del prontuario), presidi per l’automedicazione,
medicinali veterinari anche sottoposti a ricetta medica ad
esclusione degli stupefacenti di cui all’art. 45 del DPR
309/1990, servizi diagnostici come misurazione della
pressione, esami delle urine etc.., prenotazione delle
visite specialistiche presso il SSN.
Inoltre, al pari di quanto accade per le farmacie, i
predetti servizi non si esauriscono in un mero scambio di
natura commerciale fra venditore e cliente ma, data la loro
rilevanza per la tutela del diritto alla salute, hanno un
contenuto strettamente professionale, potendo essere erogati
soltanto da soggetti particolarmente qualificati come i
farmacisti che l’ordinamento nazionale, non a caso,
considera come “persone esercenti un servizio di pubblica
necessità” (art. 359 c.p.).
Occorre poi tenere in considerazione il fatto che
la vendita di prodotti medicinali e la erogazione dei
connessi servizi di pubblica utilità costituiscono attività
economiche di rilevanza comunitaria che godono garanzia
della libertà di stabilimento prevista dagli artt. 49 e
seguenti del TFUE, con la conseguenza che ogni restrizione
normativa che ne ostacoli o ne scoraggi l'esercizio da parte
dei cittadini dell'Unione europea deve essere debitamente
giustificata
(Corte Giustizia UE sez. IV, 05/12/2013, n. 159).
In recepimento dei predetti principi anche il legislatore
nazionale attraverso gli artt. 1 della L. 24.03.2012 n. 27 e
34, l. 22.12.2011 n. 214 ha sancito che
le disposizioni imponenti divieti, restrizioni oneri o
condizioni all'accesso e all'esercizio delle attività
economiche sono da interpretarsi in senso tassativo,
restrittivo e ragionevolmente proporzionato alle perseguite
finalità di interesse pubblico generale, alla stregua dei
principi costituzionali per i quali l'iniziativa economica
privata è libera secondo condizioni di piena concorrenza e
pari opportunità tra tutti i soggetti, affidando, quindi, al
giudice un rigoroso controllo di proporzionalità nei
confronti dei provvedimenti amministrativi e dei regolamenti
che prevedano restrizioni alla libera iniziativa o che,
comunque, siano suscettibili di alterare il libero gioco
della concorrenza.
In applicazione delle predette disposizioni comunitarie e
nazionali
deve ritenersi che anche un regolamento comunale che ponga
limiti alla ordinaria facoltà dell’imprenditore che si
rivolge ad un’utenza indifferenziata di segnalare alla
clientela l’ubicazione dell’esercizio costituisce una
potenziale restrizione della libertà economica che deve
essere adeguatamente giustificata da motivi di interesse
generale sulla base di un bilanciamento operato secondo i
criteri di proporzionalità e non discriminazione.
Sotto quest’ultimo profilo, nel caso di specie, assume
rilevanza la circostanza che in relazione ad un’ampia fascia
di servizi sanitari le parafarmacie svolgono la propria
attività in regime di concorrenza con le farmacie, con la
conseguenza che ogni trattamento differenziato suscettibile
di favorire queste ultime deve trovare adeguata
giustificazione negli “obblighi di servizio pubblico”
(limitazioni territoriali alla apertura delle sedi in
relazione alla cd. “pianta organica”, obblighi di
apertura in orari predeterminati, turni, etc.) a cui esse, a
differenza delle parafarmacie, sono soggette. Obblighi che
impongono, è vero, forme di compensazione ma non
giustificano qualsiasi tipo di trattamento differenziato.
Così se, da un lato la Corte di giustizia UE ha
considerato legittima la normativa nazionale che impedisce
alle parafarmacie la vendita di medicinali di fascia C
necessitanti di prescrizione medica (ma con onere a carico
dell’utente), in relazione agli effetti che ciò potrebbe
comportare sulla sostenibilità economica degli esercizi
farmaceutici costretti ad operare in sedi economicamente
poco appetibili (sentenza 159/2013 cit.), dall’altro,
la giurisprudenza del g.a. e la Autorità garante per la
concorrenza hanno censurato forme di discriminazione fra le
due categorie di imprese che non trovavano giustificazione
nel particolare regime vincolistico che connota gli esercizi
farmaceutici (ad es. sono stati considerati contrari alla
normativa pro concorrenziale il divieto di svolgere attività
di tecnico audioprotesista nei locali adibiti a parafarmacia
- TAR Umbria, sez. I, 25/07/2014, n. 421 -l’affidamento in
esclusiva alle farmacie della vendita di prodotti alimentari
per celiaci - Agcm, 17/01/2013, n. 1603-; l’affidamento alle
sole farmacie del servizio di prenotazione delle visite
specialistiche presso il SSNN - Agcm, 18/06/2014-).
Per quanto concerne la specifica questione delle insegne la
giurisprudenza, restando nel solco dell’orientamento di cui
sopra, ha chiarito che
l’installazione all’esterno dell’esercizio di una croce con
impianto neon non costituisce affatto una prerogativa
commerciale di pertinenza delle sole farmacie in quanto la
legge riserva a tali esercizi soltanto il tratto connotativo
del colore verde della croce
(TAR, Roma, sez. II, 12/09/2012, n. 7697).
Alla luce delle suddette considerazioni
l’art. 8 del regolamento delle insegne del comune di Firenze
deve considerarsi illegittimo nella parte in cui consente
alle sole farmacie la facoltà di esporre insegne a bandiera
con la croce conformi alle tipologie tipiche ammesse nella
zona A del centro storico laddove le caratteristiche
ambientali e l’architettura dell’immobile lo consentano.
Invero, sebbene non possa essere negato che
la tutela dei caratteri del centro storico costituisca un
motivo imperativo di interesse generale che può comportare
restrizioni alla libertà di impresa, tale esigenza, nella
specie, risulta essere stata declinata in modo non conforme
ai principi di non discriminazione e proporzionalità. E ciò
in quanto:
1)
il simbolo della croce non si correla in modo specifico alle
sole categorie di medicinali che le farmacie sono abilitate
a commercializzare ma designa più comprensivamente l’offerta
al pubblico di prodotti e servizi di pubblica utilità
inerenti la cura della salute umana che la legge non riserva
alle farmacie ma, casomai, ai farmacisti (non per nulla è
proprio la croce a contraddistinguere il relativo ordine),
attribuendo solo al colore verde valenza distintiva.
2) Pertanto,
nel momento in cui la p.a. assuma che l’offerta al pubblico
di servizi sanitari può giustificare una deroga al divieto
di installazione di insegne a bandiera nel centro storico
tale deroga deve essere estesa a tutti gli esercizi che
svolgano tali attività, specie se in concorrenza fra loro.
3)
L’interesse pubblico a salvaguardare (anche in modo
capillare e diffuso) elementi architettonici di particolare
pregio non può essere presidiato attraverso distinzioni
astratte e discriminatorie fra “categorie di imprese”
che offrono analoghi prodotti e servizi nel medesimo settore
ma va tutelato a monte attraverso l’individuazione delle “tipologie
di servizi” che per la loro utilità pubblica possono
giustificare una deroga e a valle attraverso il giudizio
discrezionale relativo alla compatibilità dell’insegna
(della farmacia o parafarmacia poco importa) con le
caratteristiche ambientali ed architettoniche, così come
appunto prevede lo stesso art. 8 del censurato regolamento. |
EDILIZIA PRIVATA: Il
garage diventa negozio? Passo carrabile revocato.
Il comune deve revocare il passo carrabile se il locale
prima destinato a garage viene poi trasformato in una
attività commerciale. Quindi senza alcuna necessità di
transito veicolare verso l'area di stazionamento dei mezzi.
Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. I, con il
parere 18.03.2016 n. 743.
Il comune di Genova ha negato la voltura di un passo
carrabile richiesto per agevolare l'accesso ad un locale
originariamente destinato a garage e poi trasformato in
esercizio commerciale. Contro questa determinazione
l'interessato ha proposto ricorso straordinario al
Presidente della repubblica ma senza successo.
L'articolo 22 del codice e l'art. 46 del relativo
regolamento stradale specificano che la concessione di un
passo carrabile è subordinata a precise condizioni di
carattere oggettivo. Ovvero alla necessità di accedere con
veicoli ad un'area laterale idonea al loro stazionamento. Un
negozio non può essere certamente paragonato ad un garage,
prosegue il parere.
Quindi ha fatto bene il comune a revocare la licenza privata
di divieto di sosta con rimozione a fronte di un cambiamento
sostanziale della destinazione d'uso dei locali
(articolo ItaliaOggi del 14.05.2016).
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MASSIMA
Premesso
La ricorrente, in data 19/06/2005 ha proposto ricorso
straordinario per l’annullamento del provvedimento del
Comune di Genova n. 1348 dell’01/03/2005, di diniego di
rilascio di voltura di un passo carrabile.
L’ufficio di polizia municipale, dopo aver verificato
l’effettivo utilizzo dello stesso, dichiarava
l’insussistenza dei requisiti previsti dall’art. 22 del
codice della strada e dall’art.46 del regolamento in quanto
il locale prospiciente risultava essere un negozio con
arredi e merci tale che impedivano l’ingresso veicolare.
La ricorrente ha impugnato il provvedimento con i seguenti
motivi:
- violazione e falsa applicazione dell’art. 22 del codice
della strada e dell’art. 46 del regolamento attuativo,
eccesso di potere per difetto dei presupposti e
travisamento, perché la ricorrente ha chiesto la mera
voltura della precedente autorizzazione;
- violazione e falsa applicazione dei principi in materia di
autotutela, perché l’ente non poteva negare il rilascio di
un passo carrabile già esistente e avrebbe dovuto motivare
in ordine all’interesse pubblico al suo annullamento;
- violazione e falsa applicazione dell’art. 22 del codice
della strada e dell’art. 46 del regolamento del c.d.s.,
eccesso di potere per difetto dei presupposti e difetto di
istruttoria perché non esisterebbe alcuna disposizione che
vieta il rilascio dell’autorizzazione di passo carrabile per
un negozio che dispone di spazio sufficiente per lo
stazionamento dei veicoli.
L’Amministrazione ha sostenuto l’infondatezza delle censure
e ha concluso per il rigetto del ricorso.
Considerato
Il ricorso è da respingere.
Risulta dalla documentazione in atti che il locale per il
quale il Comune aveva concesso il passo carrabile è
diventato un negozio ed è venuta meno la sua destinazione
d’uso e quindi la presenza dei presupposti necessari alla
sua autorizzazione.
Al riguardo va rilevato, come già evidenziato dalla
giurisprudenza, che la revoca della
concessione di passo carrabile ha valore di atto ricognitivo
dell’intervenuto mutamento sostanziale dei luoghi e di
accertamento della sopravvenuta inefficacia della
concessione in quanto “la concessione di passo carrabile,
determinando una compressione dell’uso pubblico della sede
stradale ove essa insiste, invero, è subordinata alla
verifica di precise tassative condizioni di carattere
oggettivo e, in particolare, della correlazione funzionale
con un’area laterale idonea allo stazionamento dei veicoli,
in difetto della quale il provvedimento resta privo di
idonea base giustificativa, di tal che l’accertamento della
sopravvenuta inefficacia dell’atto concessorio … costituisce
atto dovuto e vincolato per l’amministrazione”
(C.S.V 2823/2001).
Tali considerazioni sono sufficienti per respingere il
ricorso. |
ATTI
AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: L’art
21-nonies della legge n. 241 del 1990 ha codificato il
risalente principio giurisprudenziale per cui un
provvedimento amministrativo illegittimo può essere
annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse
pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli
interessi dei destinatari e dei controinteressati.
Si tratta, quindi, dell’esercizio di un potere ampiamente
discrezionale, rispetto al quale l’amministrazione è tenuta
a motivare sulle ragioni di interesse pubblico alla
rimozione dell’atto, ciò in particolare quando sia trascorso
un lungo lasso temporale dalla sua adozione, come nel caso
di specie.
---------------
Il provvedimento impugnato ha considerato quale unico
presupposto la illegittimità del provvedimento annullato,
senza alcuna valutazione né del tempo particolarmente lungo
trascorso (quasi quindici anni dal rilascio della
concessione edilizia), né dell’interesse pubblico attuale
all’esercizio dell’autotutela e all’affidamento del privato,
considerato anche che nel frattempo gli immobili sono stati
alienati a terzi sulla base della concessione edilizia
rilasciata dal Comune.
La giurisprudenza è costante nel ritenere che il
provvedimento di autotutela debba essere adeguatamente
motivato con riferimento alla sussistenza di un interesse
pubblico concreto ed attuale all'annullamento nonché alla
valutazione comparativa dell'interesse dei destinatari al
mantenimento delle posizioni e dell'affidamento insorto in
capo ai medesimi.
In materia edilizia, l’annullamento in autotutela di titoli
edilizi illegittimamente rilasciati è considerato in maniera
più rigorosa; infatti, in base ad un diffuso orientamento
giurisprudenziale, l’annullamento di una concessione
edilizia non necessita di una espressa e specifica
motivazione sul pubblico interesse, configurandosi questo
nell'interesse della collettività al rispetto della
disciplina urbanistica.
---------------
... per l'annullamento della determinazione dirigenziale di
Roma Capitale n. 1465/2014 prot. 151777, avente ad oggetto
il procedimento di annullamento in autotutela della
concessione edilizia n. 80 del 26/01/2000;
...
1. Con il presente ricorso è stato impugnato il provvedimento
dell’08.10.2014 con il quale il dirigente dell’Ufficio
Permessi di Costruire del Dipartimento Programmazione ed
Attuazione Urbanistica di Roma Capitale ha annullato in
autotutela la concessione edilizia rilasciata il 26.01.2000
al sig. Pa.Pe. e successivamente trasferita, a
seguito della permuta del terreno con edificio da costruire,
alla Ga.Do. s.r.l., per la realizzazione di un
fabbricato di civile abitazione composto da quattro unità
immobiliari a schiera in via Gravedona, località
Mazzalupetto.
Il provvedimento di autotutela è basato sulla
ritenuta erroneità del calcolo della superficie fondiaria
utile per definire la volumetria da realizzare, dovuta alla
non conformità della rappresentazione grafica del lotto
interessato, rappresentata dal progettista, alle tavole del
piano particolareggiato Palmarola Selva Nera adottato il
26.04.1999 e al perimetro delle zone O riportato nella
delibera di giunta regionale n. 4777 del 1983.
Ciò ha
comportato, secondo la ricostruzione degli uffici comunali,
un aumento della cubatura oggetto della concessione edilizia
pari a complessivi metri cubi 120,20, di cui con il
provvedimento di autotutela si è anche ordinata la
demolizione.
Il provvedimento in questione dà atto che la comunicazione
di avvio del relativo procedimento era stata inviata con
nota n. 49325 del 2008; che successivamente sia il Pe.
che la società costruttrice Ga.Do., avevano prodotto
documentazione contestando la circostanza relativa
all’erroneo calcolo della superficie fondiaria e quindi
della volumetria consentita e comunque avevano proposto la
cessione a Roma Capitale della sede stradale di via Gravedona e della cubatura proveniente da altro lotto del
medesimo piano particolareggiato; che il responsabile del
procedimento con nota del 16.05.2013 si era espresso nel
senso della chiusura del procedimento con la conferma della
validità della concessione edilizia n. 80 del 2000; che con
nota del 23.07.014, era stata richiesta documentazione
relativa alla stipula dell’atto di cessione e
all’acquisizione dei diritti edificatori a cui era
subordinata la conferma di validità della concessione
edilizia; fa inoltre riferimento ad una nota del 31.07.2014
del Tribunale civile di Roma.
Sostanzialmente il provvedimento di autotutela è basato
sulla richiesta di documentazione inviata il 23.07.2014
relativa alla acquisizione di ulteriori diritti edificatori
e cessione della strada a cui non è dato riscontro e alla
nota del Tribunale civile (che riguarda il giudizio civile
proposto dalla attuale proprietaria di un appartamento del
complesso immobiliare nei confronti del ricorrente e della
società Ga.Do.).
Avverso il provvedimento di autotutela, la società Ga.Do., avente causa dell’originario titolare del titolo
edilizio e costruttrice dell’immobile, ha proposto i motivi
in diritto così rubricati:
1) violazione dei principi sottesi alla legge 07.08.1990,
n. 241, in particolare degli artt. 2, 7 e 21-nonies, in
materia di esercizio del potere amministrativo per difetto
di istruttoria; eccesso di potere ed eccessiva durata del
procedimento di autotutela;
2) violazione dell’art. 21-nonies della legge n. 241 del
1990 in materia di legittimo affidamento indotto da Roma
Capitale, eccesso di potere per carenza di motivazione,
difetto di istruttoria e travisamento dei fatti;
3) violazione dell’art. 38 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380;
eccesso di potere per difetto di motivazione e di
istruttoria.
2. Si è costituita in giudizio Roma Capitale, resistendo al
ricorso.
3. Il ricorso è stato chiamato per la discussione
all’udienza pubblica del giorno 11.12.2015 e quindi
trattenuto in decisione.
4. Il ricorso è fondato.
L’art 21-nonies della legge n. 241 del 1990 ha codificato il
risalente principio giurisprudenziale per cui un
provvedimento amministrativo illegittimo può essere
annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse
pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli
interessi dei destinatari e dei controinteressati.
Si tratta, quindi, dell’esercizio di un potere ampiamente
discrezionale, rispetto al quale l’amministrazione è tenuta
a motivare sulle ragioni di interesse pubblico alla
rimozione dell’atto, ciò in particolare quando sia trascorso
un lungo lasso temporale dalla sua adozione, come nel caso
di specie.
Il provvedimento impugnato ha considerato quale unico
presupposto la illegittimità del provvedimento annullato,
senza alcuna valutazione né del tempo particolarmente lungo
trascorso (quasi quindici anni dal rilascio della
concessione edilizia), né dell’interesse pubblico attuale
all’esercizio dell’autotutela e all’affidamento del privato,
considerato anche che nel frattempo gli immobili sono stati
alienati a terzi sulla base della concessione edilizia
rilasciata dal Comune.
La giurisprudenza è costante nel ritenere che il
provvedimento di autotutela debba essere adeguatamente
motivato con riferimento alla sussistenza di un interesse
pubblico concreto ed attuale all'annullamento nonché alla
valutazione comparativa dell'interesse dei destinatari al
mantenimento delle posizioni e dell'affidamento insorto in
capo ai medesimi (Consiglio di Stato n. 2468 del 2014; n.
2567 del 2012).
In materia edilizia, l’annullamento in autotutela di titoli
edilizi illegittimamente rilasciati è considerato in maniera
più rigorosa; infatti, in base ad un diffuso orientamento
giurisprudenziale, l’annullamento di una concessione
edilizia non necessita di una espressa e specifica
motivazione sul pubblico interesse, configurandosi questo
nell'interesse della collettività al rispetto della
disciplina urbanistica (Consiglio di Stato n. 562 del 2015;
n. 4982 del 2011; n. 7342 del 2010).
Nel caso di specie, peraltro, si tratta dell’annullamento in
via di autotutela di una concessione edilizia rilasciata nel
2000 (sulla valutazione motivata della posizione dei
soggetti destinatari del provvedimento, nel caso del lungo
tempo trascorso dall’adozione delle concessioni annullate
cfr. di recente Consiglio di Stato n. 5625 del 2015).
Inoltre, il procedimento di verifica della concessione
edilizia è stato avviato dal Comune nel 2008 e fino al 2014
è stato portato avanti con la partecipazione delle parti
private, compresi, oltre al ricorrente e alla società
costruttrice, gli attuali proprietari degli immobili, per
giungere ad una soluzione della questione, come risulta
anche dalle riunioni tenutesi nel 2011 (cfr. verbali del
20.05.2011 e del 10.06.2011) presso gli uffici comunali.
Nello stesso provvedimento impugnato si dà espressamente
atto della nota del 06.05.2013 con cui il responsabile del
procedimento ha proposto la chiusura del procedimento con la
conferma della validità della concessione edilizia n. 80 del
2000; e della nota del 23.07.2014, quindi di pochi mesi
precedente al provvedimento impugnato, nella quale il Comune
si esprime nel senso della validità della concessione
edilizia n. 80, condizionandola alla cessione delle aree e
alla acquisizione dei diritti edificatori. Della ricezione
di tale ultima nota -a cui, secondo il Comune, non sarebbe
stato dato riscontro- da parte dell’odierna ricorrente il
Comune non ha dato alcuna prova agli atti del presente
giudizio.
Il provvedimento di annullamento, oltre che privo di
motivazione circa l’interesse pubblico ed attuale anche in
relazione al tempo trascorso e all’affidamento dei privati,
appare quindi anche in contrasto con i principi di
correttezza e buona fede a cui deve essere improntata
l’azione amministrativa, tenuto conto dei precedenti atti
degli stessi uffici comunali e dell’affidamento ingenerato
circa l’esito del procedimento avviato nel 2008.
La illegittimità del provvedimento di autotutela comporta la
illegittimità derivata anche dell’ordine di demolizione (TAR
Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 14.03.2016 n. 3177 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI FORNITURE: Fornitori di arredi, serve certificazione.
Tar Veneto: la Uni En Iso in capo all'azienda.
La mancanza di una certificazione Uni En Iso in capo
all'azienda affidataria giustifica l'annullamento di una
delibera con la quale è stata assegnata una gara telematica
per la fornitura di arredo scolastico e condanna la
Provincia di Vicenza il risarcimento del danno a favore
della ricorrente.
È questo l'esito del procedimento svoltosi
avanti al TAR Veneto, Sez. I,
sentenza 14.03.2016 n. 279, nella causa intentata da
una società che, classificatasi seconda nella procedura
d'appalto promossa dalla provincia di Vicenza, aveva
contestato l'irregolarità della scelta dell'impresa
vincitrice.
La vertenza era sorta a seguito della gara
indetta dalla Provincia di Vicenza che aveva la necessità di
rifornire gli Istituti scolastici per l'anno 2015-2016 di
arredi (banchi, armadi ecc.) per un importo pari a 78.000 e
dovendo rispettare gli obblighi imposti dalla spending
review –non potendo quindi né procedere all'indizione di
una procedura di gara «classica», né tantomeno disporre un
affidamento diretto– procedeva all'acquisto tramite il c.d..
M.E.P.A. (Mercato elettronico della pubblica
amministrazione) messo a disposizione da Consip.
La
procedura prevedeva che la Provincia invitasse gli operatori
economici che si erano preventivamente accreditati presso la
piattaforma digitale Consip -e che offrivano arredi
scolastici- formulando una cd. «Richiesta di Offerta» (R.d.O.)
affinché detti inviassero la loro miglior proposta per gli
arredi di cui necessitava.
Avendo tuttavia previsto come
obbligatorio il possesso di alcune Certificazioni attestanti
la conformità a norme Uni En Iso relativamente agli arredi
da acquistare, si verificava che la vincitrice della gara
dichiarasse, in fase di partecipazione, il possesso di dette
Certificazioni, salvo poi in sede d'aggiudicazione
definitiva non produrre alcuna Certificazione (in quanto,
con ogni probabilità, sprovvista delle medesime).
La
Provincia, tuttavia, motivando con la necessità
d'approvvigionarsi entro il 5/9 u.s. (data d'inizio
dell'anno scolastico), non disponeva l'annullamento
dell'aggiudicazione e lo scorrimento della graduatoria, ma
confermava l'affidamento già disposto alla concorrente priva
delle certificazioni da prodotto obbligatorie. La seconda
classificata decideva così d'impugnare tale decisione,
formulando anche una richiesta di risarcimento del danno che
questa avrebbe subìto non avendo conseguito l'affidamento
della fornitura che del tutto illegittimamente
l'amministrazione appaltante aveva invece deciso d'assegnare
ad un concorrente che non rispettava le prescrizioni di
gara.
Il Tar Veneto ha ritenuto fondata la domanda,
condannando la Provincia di Vicenza il risarcimento del
danno a favore della ricorrente. Considerato che si trattava
di una fornitura da 70.000 circa, i giudici amministrativi
hanno riconosciuto alla ricorrente circa 6.000 di
risarcimento danno (oltre alle spese legali)
(articolo ItaliaOggi Sette del 16.05.2016).
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MASSIMA
8.2. Tanto premesso, la censura sollevata con il gravame
è fondata e pertanto il ricorso deve essere accolto.
8.3. Tuttavia, considerato che il contratto
di fornitura in questione ha avuto integrale esecuzione e
non è quindi più materialmente possibile ammettere il
subentro della parte vittoriosa, deve considerarsi non più
utile alla ricorrente l’annullamento dei provvedimenti
impugnati, così come il risarcimento in forma specifica del
danno subito; pertanto, accertata la loro illegittimità ai
sensi dell’art. 34, comma 3, c.p.a., occorre decidere la
domanda di risarcimento del danno per equivalente proposta
in via subordinata.
8.4. Al riguardo, si riscontra la presenza di tutti gli
elementi integranti la fattispecie risarcitoria.
8.4.1. Sussiste, in primo luogo, la condotta illegittima
dell’Amministrazione.
8.4.2. Sussiste altresì la lesione, non iure e
contra ius, dell’interesse al bene della vita vantato
dalla ricorrente: infatti, laddove l’Amministrazione avesse
correttamente rilevato che la società aggiudicataria non
possedeva, al momento della produzione dell’offerta, un
requisito tecnico “minimo” richiesto a pena di
esclusione per la partecipazione alla procedura di evidenza
pubblica, l’appalto di fornitura in questione avrebbe dovuto
essere affidato alla società ricorrente, seconda
classificata, sulla base di un criterio di aggiudicazione
vincolato (prezzo più basso).
Né sono stati allegati e/o dimostrati in giudizio, da parte
della parte resistente e della controinteressata, eventuali
difetti dell’offerta o dei requisiti di partecipazione della
ricorrente idonei a determinarne l’esclusione.
8.4.3. Vi è, infine, un nesso eziologico tra la condotta
illegittima e la lesione.
8.4.4. Quanto all’elemento soggettivo, occorre osservare
che, in materia di risarcimento da mancato
affidamento di gare pubbliche di appalto, non è necessario
provare la colpa dell’Amministrazione aggiudicatrice, poiché
il rimedio risarcitorio risponde al principio di effettività
previsto dalla normativa comunitaria e le garanzie di
trasparenza e di non discriminazione operanti in materia di
aggiudicazione dei pubblici appalti fanno sì che qualsiasi
violazione degli obblighi di matrice comunitaria consente
alla impresa pregiudicata di ottenere un risarcimento dei
danni, a prescindere da un accertamento in ordine alla
colpevolezza dell’ente e alla imputabilità soggettiva della
lamentata violazione
(così, ex multis, Cons. Stato, III, n. 1839/2015 e
Cons. Stato, V, n. 6450/2014).
8.5. Occorre, pertanto, accertare e liquidare i pregiudizi
subiti dalla società ricorrente.
8.6. Viene in rilievo, in primo luogo, il lucro cessante.
8.6.1. In relazione ad esso, la parte ricorrente ha chiesto
una liquidazione del relativo ammontare “nella misura del
10% (o di quella maggiore o minor somma che risulterà di
giustizia) applicata all’importo dell’offerta Mobilferro
resa in gara” pari a € 70.900,80.
8.6.2. Al riguardo il Collegio osserva che
l’onere della prova dell’esistenza e della quantificazione
del danno per la dimostrazione del “mancato utile”
nella percentuale non inferiore al 10% dell’importo
dell’appalto, al netto del ribasso offerto
–secondo il criterio che trova il suo fondamento normativo
nell’art. 345 della legge 20.03.1865, n. 2248, Allegato F,
ed attualmente ribadito negli artt. 134 e 158 del codice dei
contratti pubblici (d.lgs. n. 163/2006)–,
ricade interamente sulla parte ricorrente, essendo peraltro
tale onere ribadito dall’art. 124 del c.p.a. secondo il
quale “il giudice ... dispone il risarcimento del danno
per equivalente, subito e provato”.
8.6.3. Infatti in base al principio
generale sancito dall’art. 2697 c.c, ai fini del
risarcimento dei danni provocati da illegittimo esercizio
del potere amministrativo, la ricorrente deve fornire la
prova dell’esistenza del danno, non potendosi invocare il
principio acquisitivo perché tale principio attiene allo
svolgimento dell’istruttoria e non alla allegazione dei
fatti costitutivi del proprio diritto, pur potendosi
ricorrere alle presunzioni semplici ex art. 2729 c.c. per
fornire la prova del danno subito e della sua entità
(cfr. Cons. Stato, V, 6450/2014 cit.).
8.6.4. Su tali presupposti la
giurisprudenza prevalente ha superato l’orientamento secondo
il quale il danno debba essere quantificato in maniera
automatica nel 10% forfettario del prezzo a base d’asta o
dell’offerta al ribasso, sostenendo che tale criterio,
ancorché capace di individuare in via indicativa l’utile che
l’impresa può trarre dall’esecuzione di un appalto, non può
essere oggetto di applicazione automatica e indifferenziata,
finendo per rivelarsi, per l’imprenditore, spesso più
favorevole dell’impiego del capitale.
8.6.5. Secondo il più recente orientamento
quindi è necessario che l’impresa fornisca la prova della
percentuale di utile effettivo che avrebbe conseguito in
concreto se fosse risultata aggiudicataria dell’appalto, con
riferimento all’offerta economica presentata al seggio di
gara (cfr., fra le
tante, Cons. Stato, III, n. 1839/2015 cit.), tenendo conto
di tutte le voci di costo.
Deve inoltre essere detratto dall’importo
dovuto a titolo risarcitorio quanto dall’impresa percepito
grazie allo svolgimento di ulteriori attività lucrative, nel
periodo in cui avrebbe dovuto eseguire l’appalto in
contestazione, salva la prova gravante sull’impresa
dell’assenza dell’aliunde perceptum vel percepiendum.
8.6.6. Nel caso in esame tale prova “negativa” non è
stata fornita, mentre il criterio percentuale del 10%
dell’offerta appare senz’altro idoneo a individuare in via
indicativa l’utile massimo che l’impresa avrebbe potuto
trarre dall’esecuzione del contratto.
8.6.7. Pertanto, tale ultimo importo va
diminuito, secondo una valutazione equitativa, di quanto la
società danneggiata avrebbe potuto percepire grazie allo
svolgimento di diverse attività lucrative, nel periodo in
cui avrebbe dovuto eseguire l’appalto in contestazione
(cfr. Cons. Stato, III, n. 1839/2015 e Cons. Stato, Sez. VI,
n. 1681/2011).
8.6.8. Ciò posto, appare ragionevole, tenuto conto
dell’oggetto e della natura dell’appalto, decurtare in via
equitativa del 30% la somma calcolata sulla base del
criterio del 10% a titolo di ristoro patrimoniale (€
7.090,00), che risulta, quindi, essere quella di €. 4.963,00
(€ 7.090,00 - € 2.127,00)
8.6.9. È dovuto, altresì, il risarcimento del danno
curriculare.
Infatti, deve ammettersi che l’impresa illegittimamente
privata dell’esecuzione di un appalto possa rivendicare a
titolo di lucro cessante anche la perdita della possibilità
di arricchire il proprio curriculum professionale.
Tale danno non può che essere quantificato in via
equitativa, nella misura che si reputa corretta di € 709,00
(rapportato all’1% dell’offerta).
9. Il danno complessivo, al cui risarcimento deve essere
condannata la Provincia di Vicenza, ammonta, dunque, ad €
5.672,00 [(€4.963,00) + € 709,00].
9.1. Sulle somme corrisposte a titolo di risarcimento del
danno da responsabilità extracontrattuale devono comunque
riconoscersi gli interessi maturati al saggio legale vigente
e la rivalutazione monetaria da computarsi alla data del
verificarsi dell’illecito (giorno della stipula del
contratto), in funzione compensativa in relazione alla
mancata tempestiva disponibilità in capo al debitore della
somma dovuta a titolo di risarcimento del danno. |
EDILIZIA PRIVATA: Niente dehors per il bar senza sì del condominio.
Addio dehors per il bar se il titolare non ha fatto i conti
con il condominio prima di rivolgersi al comune per il
permesso. Stop all'autorizzazione unica concessa
all'esercizio pubblico dallo sportello attività produttive
dell'ente locale: la struttura a padiglione, infatti, va
considerata aderente alla facciata dello stabile e dunque
non può essere installata su una parete dell'edificio senza
prima ottenere il nulla osta di tutti coloro che risultano
proprietari del muro perimetrale.
È quanto emerge dalla
sentenza 04.03.2016 n. 379, pubblicata dalla
II Sez. del TAR
Toscana.
È proprio il regolamento comunale a imporre il
previo nulla osta dei proprietari o dell'amministratore
dell'edificio quando si verifica il «contatto-aderenza» con
la superficie esterna di un fabbricato: sbaglia dunque
l'amministrazione laddove interpreta le norme ritenendo
necessaria l'autorizzazione preventiva solo se i tiranti
della struttura a padiglione devono essere agganciati alla
parete.
Al comune non resta che pagare le spese di giudizio
(articolo ItaliaOggi Sette del 09.05.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: L'art.
37, comma 6, del DPR 06.06.2001, n. 380, prescrive che
“resta comunque salva, ove ne ricorrano i presupposti in
relazione all'intervento realizzato, l'applicazione delle
sanzioni di cui agli articoli 31, 33, 34, 35 e 44 e
dell'accertamento di conformità di cui all'articolo 36”, e
da tale norma discende che, poiché la denuncia di inizio
attività è utilizzabile solo per gli interventi che siano
conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei
regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia
vigente, soltanto in caso di interventi eseguiti in assenza
o difformità dalla denuncia di inizio attività ma conformi
alla citata disciplina urbanistica può trovare applicazione
la sola sanzione pecuniaria, mentre in caso di contrasto con
la disciplina urbanistica trova applicazione la sanzione
della demolizione.
---------------
... per l'annullamento del provvedimento comunale 20.07.2006
n. 16/06 di rimozione di interventi eseguiti in assenza di
permesso di costruire e rimessa in pristino dello stato dei
luoghi, nonché di ogni altro atto presupposto o conseguente,
in particolare del diniego di autorizzazione delle opere
eseguite in variante di cui al permesso di costruire prot.
n. 7110 notificato il 13/07/2006.
...
Ad un più approfondito esame di quello svolto nella fase
cautelare, il ricorso si rivela infondato e deve essere
respinto.
Nel caso all’esame con deliberazione consiliare n. 2 del
21.02.2005, è stato introdotto l’art. 4.32 delle norme
tecniche di attuazione che ha disciplinato le dimensioni,
l’altezza e le modalità costruttive delle strutture
pompeiane, prescrivendo la necessità del mantenimento della
struttura orizzontale e non inclinata delle travi superiori.
La struttura realizzata in difformità di quanto assentito
non è piana ed ha altezze superiori rispetto a quelle
ammesse dallo strumento urbanistico.
Pertanto anche a voler qualificare la medesima come
pertinenziale, nondimeno deve trovare applicazione la
sanzione della demolizione, in quanto l’art. 37, comma 6,
del DPR 06.06.2001, n. 380, prescrive che “resta comunque
salva, ove ne ricorrano i presupposti in relazione
all'intervento realizzato, l'applicazione delle sanzioni di
cui agli articoli 31, 33, 34, 35 e 44 e dell'accertamento di
conformità di cui all'articolo 36”, e da tale norma
discende che, poiché la denuncia di inizio attività è
utilizzabile solo per gli interventi che siano conformi alle
previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti
edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente,
soltanto in caso di interventi eseguiti in assenza o
difformità dalla denuncia di inizio attività ma conformi
alla citata disciplina urbanistica può trovare applicazione
la sola sanzione pecuniaria, mentre in caso di contrasto con
la disciplina urbanistica trova applicazione la sanzione
della demolizione (ex pluribus cfr. Tar Veneto, Sez.
II, 14.03.2012, n. 371).
Parimenti priva di fondamento è la censura di violazione
dell’art. 10-bis della legge 07.08.1990, n. 241, di cui al
secondo motivo, in quanto il diniego di sanatoria dà conto
nella motivazione delle ragioni del mancato accoglimento
delle osservazioni presentate, quando afferma che l’art. 22,
comma 1, del DPR 06.06.2001, n. 241, contrariamente a quanto
preteso dai ricorrenti, presuppone necessariamente la
conformità agli strumenti urbanistici.
In definitiva il ricorso deve essere respinto (TAR Veneto,
Sez. II,
sentenza 25.02.2016 n. 211 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - VARI:
Nuova tessera senza andare in caserma.
Chi smarrisce una tessera elettorale può presentarsi per la
denuncia allo sportello dei vigili e poi recarsi all'ufficio
comunale per richiedere immediatamente il duplicato. Non
serve passare prima dai carabinieri o dalla polizia.
Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza 22.02.2016 n. 708.
In un comune della provincia di Benevento alcuni elettori
hanno proposto censure al Tar evidenziando irregolarità
nelle consultazioni amministrative. Il collegio ha quindi
ritenuto fondata la censura di incompetenza dei vigili a
ricevere le denunce di smarrimento necessarie a richiedere
poi il duplicato delle tessere elettorali.
I giudici di palazzo Spada hanno però ribaltato questa
interpretazione. Anche la polizia municipale ha competenza
di polizia giudiziaria e di pubblica sicurezza per cui è
possibile presentare direttamente una denuncia di
smarrimento presso l'ufficio dei vigili.
In questo caso tutta la procedura burocratica si può gestire
dunque in comune, rivolgendosi prima allo sportello della
polizia locale e poi all'ufficio elettorale per richiedere
il duplicato. Non serve recarsi prima a un comando di
polizia o carabinieri
(articolo ItaliaOggi del 12.05.2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ascensore esterno essenziale.
Via libera all'impianto che è utile a disabili e anziani.
Sentenza del Tar Liguria: il condomino non riesce a far
annullare il sì comunale.
«Indispensabile». L'ascensore esterno è un'infrastruttura
necessaria ai residenti quando risulta impossibile
realizzare l'impianto dentro l'edificio perché la tromba
delle scale è troppo stretta: non serve soltanto a superare
le barriere architettoniche per i diversamente abili, ma
torna utile anche agli anziani che non ce la fanno più a
fare le scale a piedi. È così che il condominio non riesce a
bloccare il progetto che il singolo proprietario vuole
realizzare sulla facciata del fabbricato: ineccepibile il
permesso del Comune, che dà anche il suo assenso
paesaggistico.
È quanto emerge dalla
sentenza
29.01.2016 n. 97, che
arriva non a caso dal TAR Liguria - Sez. I, la regione più
«vecchia» d'Italia per popolazione residente.
Volume tecnico. Il via libera dell'amministrazione locale è
legittimo perché l'ascensore esterno non costituisce una
costruzione vera e propria: si tratta piuttosto di un volume
tecnico, come gli spazi nei quali corrono le condotte
idriche o termiche e tutte le opere edilizie che servono a
contenere gli impianti al servizio della costruzione
principale, non possono sorgere all'interno del fabbricato e
risultano prive di autonomia funzionale.
Insomma:
l'installazione dell'ascensore esterno deve essere
autorizzata quando serve a rimuovere un grosso ostacolo alla
fruizione dell'abitazione. Il condominio, dal canto suo, non
riesce a dimostrare che il progetto del singolo proprietario
riduca il godimento della cosa comune per tutti gli altri.
Distanza e indifferenza. Il fatto che l'ascensore esterno
non sia una costruzione ha conseguenze importanti anche nei
rapporti di vicinato: il condominio, infatti, ben può
realizzarlo a meno di tre metri dal confine con la proprietà
del vicino, ma sempre a condizione che la tromba delle scale
sia troppo stretta per ospitare la cabina.
È il precedente
che emerge dalla sentenza 1002/2015, pubblicata sempre dal Tar
della Liguria. Il fatto che debbano essere previsti piccoli
spazi per la salita e la discesa dei passeggeri non
impedisce di ritenere l'impianto un mero volume tecnico. E
dunque il computo delle distanze tra le proprietà non può
tener conto dell'innovazione rappresentata dalla colonna
dell'ascensore progettato dal condominio.
Maggioranza sufficiente. Ancora. Il comune non può
pretendere il consenso di tutti i proprietari degli immobili
che si affacciano sul cortile prima di autorizzare la
costruzione dell'ascensore che serve al disabile.
Per il
titolo edilizio che l'amministrazione locale è chiamata
rilasciare al cittadino risulta sufficiente il rispetto
delle maggioranze prescritte dal codice civile da parte
dell'assemblea condominiale che delibera l'intervento
edilizio: il permesso a costruire, infatti, viene rilasciato
fatti salvi i diritti dei terzi, i quali dunque devono
rivolgersi al giudice civile se si ritengono lesi.
È quanto
emerge dalla sentenza 561/2016, pubblicata dal Tar Salerno.
Limite unico. Accolto il ricorso del condomino che aveva
superato perfino gli ostacoli posti dalla Soprintendenza per
l'impianto da realizzare in area soggetta a vincolo
ambientale: troppo zelante l'ufficio tecnico dell'ente che
blocca i lavori dell'ascensore necessario a una signora
malata di cancro.
Affinché il via ai lavori abbia il placet
dell'ente, infatti, è sufficiente che la delibera sia
approvata dalla maggioranza degli intervenuti con un numero
di voti che rappresenta almeno un terzo del valore
dell'edificio.
L'unico limite è che l'installazione
dell'impianto non deve rendere inservibile il cortile,
altrimenti si configura l'innovazione vietata dall'articolo
dell'articolo 1120, secondo comma, c.c. Ma si tratta di un
elemento che ha rilievo soltanto sul piano civilistico.
Delibera da allegare. Ecco allora che il Comune deve invece
bloccare la Scia per l'ascensore «privato» se
l'amministratore-condomino non ha presentato insieme con il
progetto per superare le barriere architettoniche anche la
delibera dell'assemblea adottata in base all'articolo 78 del
Testo unico dell'edilizia, vale a dire la disposizione che
rimanda al codice civile prevedendo il quorum della
maggioranza e voti pari a un terzo del valore dell'edificio.
Lo sottolinea la sentenza 442/2016, pubblicata dal Tar Lazio.
Manutenzione straordinaria.
Accolto il ricorso di una dei condomini, che riesce a far
bloccare i lavori. L'impianto, prefigurato dalla Scia in un
edificio d'epoca nel centro storico, dovrebbe fermarsi solo
ad alcuni piani dell'edificio, con ogni probabilità a
servizio di un disabile, e non all'altezza dell'appartamento
della ricorrente.
Sbaglia il Comune a non intervenire dopo la segnalazione
dell'interessata perché la Scia è stata presentata senza
titolo dall'amministratrice, che è pure proprietaria
esclusiva di un'unità immobiliare e da un altro condomino.
Per realizzare l'impianto serve infatti un intervento di «manutenzione
straordinaria anche su strutture portanti» e prima di
rivolgersi al Comune bisognava acquisire la volontà di tutto
il condominio secondo la maggioranza indicata dall'articolo
1136 c.c. cui rimanda la norma contro le barriere
architettoniche.
L'impianto al servizio del disabile non può fermarsi solo ad
alcuni piani dell'edificio riducendo l'accessibilità agli
appartamenti, come nel caso dei lavori a danno delle scale e
dei ballatoi: bisogna contemperare gli interessi di tutti
(articolo ItaliaOggi Sette del 16.05.2016).
---------------
La massima
La giurisprudenza ha negato la natura di costruzione
all’ascensore realizzato all’esterno di un caseggiato, in quanto l’aggiunta
di tale manufatto non avrebbe potuto essere ammessa dalla conformazione
della tromba delle scale o degli altri ambienti interni.
Tale orientamento è giunto all’esito di una riflessione che ha portato a
delineare la nozione di volume tecnico come quell’opera edilizia priva di
alcuna autonomia funzionale, anche potenziale, che viene destinata a
contenere gli impianti serventi di una costruzione principale per esigenze
tecnico-funzionali della costruzione medesima.
Si tratta di quegli impianti necessari per l’utilizzo dell’abitazione che
tuttavia non possono essere ubicati all’interno di questa, come quelli
connessi alla condotta idrica, termica o all’ascensore.
La nozione così introdotta è derivata appunto dalla consapevolezza maturata
in giurisprudenza relativamente al significato della proprietà, soprattutto
condominiale, in una società che è mutata anche anagraficamente, e che
considera l’ascensore come un bene indispensabile non solo alla vita delle
persone con problemi di deambulazione, ma anche di coloro che trovano sempre
più difficoltoso salire e scendere i numerosi piani di scale che li separano
dalle vie pubbliche. |
ATTI
AMMINISTRATIVI: I
provvedimenti di annullamento in sede di autotutela sono
misure di natura discrezionale (cfr. del resto l’art.
21-nonies della legge n. 241/1990, che ha codificato sul
tema una consolidata giurisprudenza): per essi quindi, così
come, più ampiamente, per la generalità degli atti di
secondo grado, l’avviso di procedimento è di regola dovuto.
E’ pacifico che ai sensi dell'art 7, l. 07.08.1990, n. 241 i
provvedimenti di secondo grado concretanti esercizio della
c.d. autotutela decisoria, devono essere preceduti dalla
comunicazione di avvio del procedimento, venendo ad incidere
su posizioni consolidate del privato.
Il soggetto, nei cui confronti il provvedimento conclusivo
del procedimento amministrativo è destinato a produrre
effetti diretti, non solo deve essere destinatario della
comunicazione di avvio del procedimento stesso, ma ha
diritto di partecipare, in quanto l'istituto della
comunicazione non è configurato quale mero strumento di
instaurazione del contraddittorio, bensì quale strumento
mediante il quale è garantita una fattiva collaborazione del
privato, il quale deve essere messo in condizione di esporre
le proprie ragioni a tutela dei propri interessi nei casi in
cui l'Amministrazione imponga limitazioni ai suoi diritti;
la preventiva comunicazione di avvio del procedimento
costituisce infatti un principio generale dell'agere
amministrativo soprattutto quando si tratta di casi di
autotutela a mezzo di revoca o annullamento di precedenti
provvedimenti favorevoli e alla sua osservanza
l'Amministrazione è obbligata a meno che non sussistano
ragioni di assoluta urgenza da esplicitare adeguatamente
nella motivazione del provvedimento.
L'esercizio di poteri di autotutela costituisce sempre e
comunque manifestazione di discrezionalità amministrativa,
essendo rimessa all'autorità amministrativa la valutazione
in ordine alla necessità di farvi luogo nell'apprezzamento
bilanciato degli interessi pubblici, primari e secondari, e
privati implicati nella specifica vicenda amministrativa,
onde non può fondatamente sostenersi che il c.d.
auto-annullamento costituisca atto "dovuto e vincolato".
Peraltro, anche con riguardo agli atti "dovuti e vincolati",
sussiste l'obbligo di comunicazione di avvio del
procedimento (salvo che questo consegua ad un'istanza di
parte privata) secondo l'orientamento sostanzialmente
univoco della giurisprudenza amministrativa, posto che la
partecipazione del destinatario dell'atto (da intendere
nell'accezione di soggetto sulla cui sfera giuridica
ricadono gli effetti negativi del medesimo) può comunque
apportare all'Amministrazione un contributo conoscitivo sui
presupposti giuridico-fattuali di esercizio del potere e
sulla loro rilevanza e così consentire alla medesima di
adottare la determinazione finale nella pienezza e
completezza del quadro di elementi giuridico-fattuali
rilevanti nella fattispecie.
---------------
Gli atti in questa sede impugnati risultano illegittimi in
quanto adottati in violazione dei principi posti a garanzia
della partecipazione procedimentale dei soggetti interessati
alle conseguenze giuridiche dei provvedimenti adottandi e in
tema di procedura di annullamento in autotutela.
Vanno in questa sede richiamati i consolidati principi in
tema di partecipazione procedimentale, applicabili anche in
sede di autotutela.
Secondo una pacifica regola generale i provvedimenti di
annullamento in sede di autotutela sono misure di natura
discrezionale (cfr. del resto l’art. 21-nonies della legge
n. 241/1990, che ha codificato sul tema una consolidata
giurisprudenza): per essi quindi, così come, più ampiamente,
per la generalità degli atti di secondo grado, l’avviso di
procedimento è di regola dovuto (cfr. Cons. Stato, Sez. V,
sentenza n. 1041 del 05.03.2014, Sez. VI, 20.09.2012, n. 4997; IV, 30.12.2008, n. 6603; V,
01.07.2005, n. 3663).
E’ pacifico che ai sensi dell'art 7, l. 07.08.1990, n.
241 i provvedimenti di secondo grado concretanti esercizio
della c.d. autotutela decisoria, devono essere preceduti
dalla comunicazione di avvio del procedimento, venendo ad
incidere su posizioni consolidate del privato (cfr. TAR
Torino, sez. I, 30/07/2015, n. 1289).
Il soggetto, nei cui confronti il provvedimento conclusivo
del procedimento amministrativo è destinato a produrre
effetti diretti, non solo deve essere destinatario della
comunicazione di avvio del procedimento stesso, ma ha
diritto di partecipare, in quanto l'istituto della
comunicazione non è configurato quale mero strumento di
instaurazione del contraddittorio, bensì quale strumento
mediante il quale è garantita una fattiva collaborazione del
privato, il quale deve essere messo in condizione di esporre
le proprie ragioni a tutela dei propri interessi nei casi in
cui l'Amministrazione imponga limitazioni ai suoi diritti;
la preventiva comunicazione di avvio del procedimento
costituisce infatti un principio generale dell'agere
amministrativo soprattutto quando si tratta di casi di
autotutela a mezzo di revoca o annullamento di precedenti
provvedimenti favorevoli e alla sua osservanza
l'Amministrazione è obbligata a meno che non sussistano
ragioni di assoluta urgenza da esplicitare adeguatamente
nella motivazione del provvedimento (cfr. TAR Potenza,
sez. I, 11/05/2011, n. 298).
L'esercizio di poteri di autotutela costituisce sempre e
comunque manifestazione di discrezionalità amministrativa,
essendo rimessa all'autorità amministrativa la valutazione
in ordine alla necessità di farvi luogo nell'apprezzamento
bilanciato degli interessi pubblici, primari e secondari, e
privati implicati nella specifica vicenda amministrativa,
onde non può fondatamente sostenersi che il c.d.
auto-annullamento costituisca atto "dovuto e vincolato".
Peraltro, anche con riguardo agli atti "dovuti e vincolati",
sussiste l'obbligo di comunicazione di avvio del
procedimento (salvo che questo consegua ad un'istanza di
parte privata) secondo l'orientamento sostanzialmente
univoco della giurisprudenza amministrativa, posto che la
partecipazione del destinatario dell'atto (da intendere
nell'accezione di soggetto sulla cui sfera giuridica
ricadono gli effetti negativi del medesimo) può comunque
apportare all'Amministrazione un contributo conoscitivo sui
presupposti giuridico-fattuali di esercizio del potere e
sulla loro rilevanza e così consentire alla medesima di
adottare la determinazione finale nella pienezza e
completezza del quadro di elementi giuridico-fattuali
rilevanti nella fattispecie (TAR Napoli, sez. V,
27/01/2009, n. 406)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 15.01.2016 n. 226 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nel
caso di inottemperanza all’ordine di demolizione di un’opera
edilizia abusiva, il provvedimento di acquisizione gratuita
al patrimonio comunale della struttura discende dal fatto
stesso che non vi è stata la demolizione di quanto
costruito, né occorre un’ulteriore motivazione al riguardo,
dal momento che le ragioni di interesse pubblico perseguite
attraverso l’acquisizione non solo sono in re ipsa, ma sono
proprio quelle desumibili dalla perdurante esistenza del
manufatto, a seguito della mancata esecuzione dell’ordine di
demolizione.
Ne consegue che il ricorso introduttivo dev’essere respinto,
non riscontrandosi in capo alla P.A. alcuna discrezionalità
in merito all’adozione, o meno, dei provvedimenti impugnati.
---------------
FATTO
Il ricorrente impugna il provvedimento 29.03.2010 n. 8435, di
accertamento dell’inottemperanza ad eseguire l’ordinanza di
demolizione 03.03.1999 n. 24, relativa a lavori abusivi
realizzati su un immobile sito in Tropea, località Croce
s.n.c., nonché il successivo decreto 31.05.2010, di
acquisizione al patrimonio comunale delle opere e dell’area pertinenziale.
Con successivi motivi aggiunti, la stessa parte ha impugnato
l’ordinanza di demolizione 26.07.2010 n. 18163, relativo ai
medesimi lavori.
Resiste l’amministrazione comunale, eccependo la tardività
del gravame.
Con ordinanza 21.08.2010 n. 643, è stata respinta la domanda
cautelare per carenza di fumus boni juris.
All’udienza del 13.11.2015, la causa è stata trattenuta in
decisione.
DIRITTO
Va preliminarmente affermata la natura di atto dovuto dei
provvedimenti impugnati col ricorso introduttivo del
giudizio.
Ed infatti, nel caso di inottemperanza all’ordine di
demolizione di un’opera edilizia abusiva, il provvedimento
di acquisizione gratuita al patrimonio comunale della
struttura discende dal fatto stesso che non vi è stata la
demolizione di quanto costruito, né occorre un’ulteriore
motivazione al riguardo, dal momento che le ragioni di
interesse pubblico perseguite attraverso l’acquisizione non
solo sono in re ipsa, ma sono proprio quelle desumibili
dalla perdurante esistenza del manufatto, a seguito della
mancata esecuzione dell’ordine di demolizione (cfr. Cons.
Stato, Sez. V, 11.07.2014 n. 3565).
Ne consegue che il ricorso introduttivo dev’essere respinto,
non riscontrandosi in capo alla P.A. alcuna discrezionalità
in merito all’adozione, o meno, dei provvedimenti impugnati.
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 18.11.2015 n. 1726 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
tema di abusi edilizi, la sanzione pecuniaria è misura
eccezionale, alternativa alla demolizione, che si applica
solo ove risulti l’impossibilità del ripristino, con la
precisazione che la detta impossibilità può essere rilevata
d’ufficio o fatta valere dall’interessato, ma comunque in
una fase successiva all’ingiunzione, a carattere
diffidatorio, che precede l’ordine di demolizione,
quest’ultimo da emettere sulla base di specifici
accertamenti dell’ufficio tecnico comunale, chiamato ad
intervenire nella fase esecutiva.
---------------
FATTO
Il ricorrente impugna il provvedimento 29.03.2010 n. 8435, di
accertamento dell’inottemperanza ad eseguire l’ordinanza di
demolizione 03.03.1999 n. 24, relativa a lavori abusivi
realizzati su un immobile sito in Tropea, località Croce
s.n.c., nonché il successivo decreto 31.05.2010, di
acquisizione al patrimonio comunale delle opere e dell’area pertinenziale.
Con successivi motivi aggiunti, la stessa parte ha impugnato
l’ordinanza di demolizione 26.07.2010 n. 18163, relativo ai
medesimi lavori.
Resiste l’amministrazione comunale, eccependo la tardività
del gravame.
Con ordinanza 21.08.2010 n. 643, è stata respinta la domanda
cautelare per carenza di fumus boni juris.
All’udienza del 13.11.2015, la causa è stata trattenuta in
decisione.
DIRITTO
...
Sono invece fondati i motivi aggiunti.
Risulta che il ricorrente, con atto del 29.04.2010,
antecedente all’adozione dell’ordine di demolizione del
26.07.2010, ha chiesto la conversione della sanzione demolitoria in quella pecuniaria, osservando che la
demolizione avrebbe compromesso la stabilità del fabbricato.
Orbene, in tema di abusi edilizi, la sanzione pecuniaria è
misura eccezionale, alternativa alla demolizione, che si
applica solo ove risulti l’impossibilità del ripristino, con
la precisazione che la detta impossibilità può essere
rilevata d’ufficio o fatta valere dall’interessato, ma
comunque in una fase successiva all’ingiunzione, a carattere
diffidatorio, che precede l’ordine di demolizione,
quest’ultimo da emettere sulla base di specifici
accertamenti dell’ufficio tecnico comunale, chiamato ad
intervenire nella fase esecutiva (cfr. TAR Campania,
Napoli, Sez. IV, 16.05.2014 n. 2718)
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 18.11.2015 n. 1726 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Cantieri e lavori in corso su strada: chi risarcisce i
danni?
Dossi, buche, voragini e crepe sulla strada per cantieri con
lavori in corso: la responsabilità è sia dell’ente titolare
del suolo, come il Comune, sia della ditta appaltatrice dei
lavori.
Nel caso di danni subiti da un
automobilista alla propria auto o da un pedone per via di
lavori in corso sulla sede stradale, a pagare il
risarcimento è sia l’amministrazione titolare della strada
(il Comune, la Provincia, la Regione, lo Stato, ecc.), sia
la ditta appaltatrice dei lavori: entrambi i soggetti,
infatti, restano custodi della strada e sono quindi
responsabili dei relativi danni procurati ai cittadini.
L’ente titolare del suolo pubblico, però, può poi rivalersi
(con un’azione di regresso) nei confronti dell’appaltatore
se quest’ultimo non ha predisposto la segnaletica di avviso
per come imposto dalla legge.
Lo ha chiarito il TRIBUNALE di Firenze, Sez. II civile, con
la
sentenza 12.11.2015 n. 3983.
I lavori di manutenzione sulla strada vanno segnalati.
L’avviso dei lavori in corso va sempre adeguatamente
indicato con apposita segnaletica che risulti visibile,
anche se mobile; così, nel caso di pericolo non visibile e
non prevedibile, il motociclista, l’automobilista o il
pedone hanno sempre diritto al risarcimento; risarcimento
che non può essere loro negato, almeno in parte, anche
nell’ipotesi in cui vi sia un concorso di colpa da parte
dell’utente della strada per via della velocità non consona
da questi mantenuta (tale era il caso di specie che ha visto
coinvolto un motociclista il quale procedeva ad andatura non
consona allo stato dei luoghi). In questi casi, ditta
appaltatrice e Comune (o altra amministrazione titolare
della strada) non possono rimpallarsi la responsabilità del
risarcimento nei confronti del danneggiato: entrambi sono
responsabili in pari misura nei confronti di quest’ultimo
che potrà chiedere i soldi all’uno o all’altro soggetto
indifferentemente, salvo il diritto dell’amministrazione, di
rivalersi contro l’appaltatore qualora sia stato
responsabile nel non segnalare il pericolo.
Secondo il Tribunale di Firenze, in tema di danni
determinati dall’esistenza di cantieri e lavori stradali, “se
l’area del cantiere è stata completamente delimitata ed
affidata all’esclusiva custodia dell’appaltatore con
conseguente divieto su di essa del traffico veicolare e
pedonale, dei danni subiti all’interno di questa area ne
risponde esclusivamente l’appaltatore che ne è l’unico
custode”.
Se, invece, l’area risulta ancora adibita al traffico “la
responsabilità per i danni subiti dall’utente a causa di
lavori in corso su detta strada grava su entrambi i soggetti”
in quanto “l’ente titolare della strada ne ha conservato
la custodia sia pure insieme all’appaltatore utilizzando la
strada ai fini della circolazione” (link a
www.laleggepertutti.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La veranda del furbo non blocca il progetto.
Chi rispetta le norme edilizie non può essere penalizzato
per colpa dei furbi. Così, se il vicino ha realizzato una
veranda abusiva e il comune non l'ha contestata, l'ufficio
tecnico dell'ente non può invece bloccare i lavori del
progetto confinante conforme alle norme statali e locali per
il mancato rispetto delle distanze minime tra i fabbricati:
altrimenti il risultato sarebbe far arretrare la costruzione
di chi ha diritto a edificare soltanto per la presenza del
manufatto contro legge e dunque capovolgendo «ogni ordinario
criterio discretivo delle posizioni giuridiche tra quelle
lecite e quelle illecite».
È quanto emerge dalla
sentenza 05.11.2015 n. 5164, pubblicata dalla II
Sez. del TAR Campania-Napoli.
Il comune ha evidentemente chiuso un occhio sull'opera
contro legge costruita dal vicino e ora non può dichiarare
illegittimo dell'altro corpo di fabbrica e deciderne la
demolizione perché troppo prossimo alla veranda abusiva.
Spese di giudizio compensate per la peculiarità della
questione
(articolo ItaliaOggi Sette del 09.05.2016).
---------------
MASSIMA
3. Alla luce di quanto esposto, deve ritenersi che non
risulta smentito agli atti del giudizio che lo stato dei
luoghi differisce da quello rappresentato solo limitatamente
all’edificio di altro proprietario e che comunque le verande
insistenti su tale diversa proprietà non sono strutturate ai
fini portanti, ma risultano ricavate dalla chiusura parziale
delle balconate esistenti con vetro e alluminio
preverniciato e sono state determinate dall’UTC
dell’Amministrazione come aventi carattere provvisorio
ovvero temporaneo.
Ora, se il Comune non aveva contestato l’abusività di tali
verande, non poteva poi censurare la parte del corpo di
fabbrica per cui è controversia per mancato rispetto delle
distanze da alcune verande abusive, tanto più che l’edificio
realizzato da parte ricorrente risulta eseguito in
conformità ai Permessi di costruire rilasciati e le distanze
tra gli edifici sono rispettate in ragione sia della
temporaneità delle verande, sia del fatto che le mensole
balcone per la esiguità della larghezza non concorrono alla
determinazione delle distanze.
3.1 Ove si aderisse al non condivisibile assunto che la
distanza legale debba essere misurata tenendo conto anche
delle opere abusive confinanti, quale, appunto, la veranda
citata, si perverrebbe al risultato aberrante che, a causa
dell’illecito ampliamento dell’edificio in proprietà altrui,
parte ricorrente si vedrebbe costretta ad arretrare il
proprio manufatto rispetto alla sua legittima ubicazione
originaria.
La Società ricorrente si era in ogni caso munita
dell’Autorizzazione sismica del 06/05/2014, ma comunque il
Collegio ritiene di dover aderire all’orientamento in base
al quale
l'abuso edilizio, allorquando occorra valutare la domanda
del confinante di edificare sul proprio suolo, non può
essere, di per sé, rilevante ed incidente sulla posizione
giuridica di chi abbia diritto di edificare, pena il
capovolgimento, e quindi la vulnerazione, di ogni ordinario
criterio discretivo delle posizioni giuridiche tra quelle
lecite e quelle illecite
(Cons. Stato, IV, 27.03.2009, n. 1874; cfr. anche TAR
Campania, Napoli, IV, 21.07.2005, n. 10142).
3.2 I provvedimenti impugnati devono, dunque, reputarsi
illegittimi, posto che
la presenza di un manufatto abusivo non può essere di
ostacolo al ius aedificandi di chi ha presentato un
progetto in conformità delle norme locali e statali
(TAR Abruzzo, L’Aquila, 17.02.2004, n. 138), in disparte le
già accennate contraddizioni che hanno inficiato l’operato
del Comune sì da integrare il denunciato vizio del difetto
di istruttoria.
La Sezione ritiene, dunque, di dover aderire
all’orientamento in base al quale
l'abuso edilizio, allorquando occorra valutare la domanda
del confinante di edificare sul proprio suolo, non può
essere, di per sé, rilevante ed incidente sulla posizione
giuridica di chi abbia diritto di edificare, pena il
capovolgimento, e quindi la vulnerazione, di ogni ordinario
criterio discretivo delle posizioni giuridiche tra quelle
lecite e quelle illecite
(Cons. Stato, sez. IV, 27.03.2009, n. 1874; cfr. anche TAR
Campania, n. 10142 del 2005; n. 8720 del 2010 confermata dal
Cons. Stato n. 3968 del 2015).
4. Alla luce di quanto sopra deve ritenersi che il ricorso
in esame vada accolto con conseguente annullamento dei
provvedimenti oggetto di impugnazione. |
EDILIZIA PRIVATA:
Il D.M. 02.04.1968 n. 1444 –laddove all'art. 9
prescrive in tutti i casi la distanza minima assoluta di
metri dieci tra pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti- è norma che impone determinati limiti edilizi ai
Comuni nella formazione o revisione degli strumenti
urbanistici, ma non è immediatamente operante anche nei
rapporti tra privati; conseguentemente l'adozione, da parte
degli Enti locali, di strumenti urbanistici contrastanti con
la norma comporta l'obbligo, per il giudice di merito, non
solo di disapplicare le disposizioni illegittime, ma anche
di applicare direttamente la disposizione del ricordato art.
9 divenuta, per inserzione automatica, parte integrante
dello strumento urbanistico in sostituzione della norma
illegittima disapplicata.
Più in generale, va posto in rilievo che l'art. 9 del D.M.
02.04.1968 n. 1444, laddove prescrive la distanza di dieci
metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, va
rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad
impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il
profilo igienico-sanitario, ragion per cui non è eludibile
in funzione della natura giuridica dell'intercapedine.
Pertanto, le distanze tra costruzioni sono predeterminate
con carattere cogente in via generale ed astratta, in
considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni
di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è
lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione
della relativa disciplina.
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1. Con il ricorso in esame parte ricorrente deduce l’eccesso
di potere, la carenza di istruttoria e la violazione del DM
n. 1444/1968.
2. Nella fattispecie in esame il Collegio ritiene di aderire
alla consolidata giurisprudenza secondo la quale il D.M.
02.04.1968 n. 1444 –laddove all'art. 9 prescrive in tutti i
casi la distanza minima assoluta di metri dieci tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti- è norma che
impone determinati limiti edilizi ai Comuni nella formazione
o revisione degli strumenti urbanistici, ma non è
immediatamente operante anche nei rapporti tra privati;
conseguentemente (cfr. ex multis Cass. Civ., II,
01.11.2004, n. 21899) l'adozione, da parte degli Enti
locali, di strumenti urbanistici contrastanti con la norma
comporta l'obbligo, per il giudice di merito, non solo di
disapplicare le disposizioni illegittime, ma anche di
applicare direttamente la disposizione del ricordato art. 9
divenuta, per inserzione automatica, parte integrante dello
strumento urbanistico in sostituzione della norma
illegittima disapplicata (cfr. Cons. Stato, V, n. 7731/2010;
TAR Lombardia, Brescia, I, 16.10.2009, n. 1742).
2.1 Più in generale, va posto in rilievo che l'art. 9 del
D.M. 02.04.1968 n. 1444, laddove prescrive la distanza di
dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, va
rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad
impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il
profilo igienico-sanitario, ragion per cui non è eludibile
in funzione della natura giuridica dell'intercapedine (cfr.
TAR Toscana, III, 04.12.2001, n. 1734; TAR Liguria, I,
12.02.2004 n. 145).
Pertanto, le distanze tra costruzioni sono predeterminate
con carattere cogente in via generale ed astratta, in
considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni
di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è
lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione
della relativa disciplina (cfr. Cons. Stato, IV, 05.12.2005,
n. 6909)
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 05.11.2015 n. 5164).
|
AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI: Barriere
isolanti escluse se il cane del vicino latra.
Se i cani danno fastidio al vicino, non può essere il comune
a ordinare al proprietario di spostarli dal confine fra i
due immobili. I provvedimenti d'urgenza adottati dal
sindaco, infatti, servono a tutelare la comunità
amministrata e non possono intervenire nelle controversie
fra privati come le liti di vicinato.
È quanto emerge dalla
sentenza 10.09.2015 n. 2684, pubblicata dalla I
Sez. del TAR Puglia-Lecce.
Accolto il ricorso del proprietario degli animali: non deve
installare alcuna barriera di isolamento acustico al confine
fra i due immobili per attutire i latrati dei cani, come
invece gli aveva ingiunto il sindaco sulla base della
relazione dell'Asl, firmata dal dirigente del locale
servizio veterinario.
I due cani che vivono nella proprietà privata cominciano ad
abbaiare appena si avvicinano estranei alla casa: «è
piuttosto normale». È dunque escluso che il sindaco
possa provvedere nella situazione con un'ordinanza urgente,
che scatta solo in casi eccezionali: bisogna rivolgersi al
giudice civile (articolo ItaliaOggi Sette del 09.05.2016).
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MASSIMA
E’ impugnata l’epigrafata ordinanza con la quale il
Sindaco del Comune di Leverano ha intimato al ricorrente di
“provvedere, con immediatezza, allo spostamento dei cani
di sua proprietà in modo da impedire loro l’accesso
nell’area a ridosso dell’abitazione della sig. Ze., nonché
di installare, al confine con la proprietà di quest’ultima,
una barriera idonea ad attutire la rumorosità procurata
dall’abbaiare dei suddetti animali entro dieci giorni”.
...
Il ricorso è fondato e deve essere accolto.
In particolare, è fondata la censura con la quale il
ricorrente lamenta l’illegittima utilizzazione del potere
straordinario di ordinanza contingibile ed urgente.
Il potere di urgenza può essere esercitato solo per
affrontare situazioni di carattere eccezionale e imprevisto,
costituenti concreta minaccia per la pubblica incolumità,
per le quali non sia possibile utilizzare i normali mezzi
apprestati dall'ordinamento giuridico e unicamente in
presenza di un preventivo accertamento della situazione,
fondato su prove concrete e non su mere presunzioni: tali
presupposti non ricorrono, dunque, laddove il Sindaco possa
fronteggiare la situazione con rimedi di carattere corrente
nell’esercizio ordinario dei suoi poteri, ovvero la
situazione possa essere prevenuta con i normali strumenti
apprestati dall'ordinamento.
Nel caso in esame, l’ordinanza impugnata è stata adottata
sul presupposto della presenza di due cani all’interno di
una proprietà privata a cagione del loro abbaiare nelle
vicinanze di una proprietà privata “quando gli stessi si
rendevano conto della presenza di estranei”.
Appare quindi evidente che la stessa non è stata adottata al
fine di tutelare la salute e incolumità pubblica, bensì il
disturbo di un vicino, peraltro accertato solo ove si
verifichi la presenza di estranei, e quindi una circostanza
non rientrante nella eccezionalità e imprevedibilità (dato
che è piuttosto normale che i cani abbaino in presenza di
estranei) ben superabile con altri rimedi apprestati
dall’ordinamento.
In conclusione il ricorso deve essere accolto e
conseguentemente annullato l’atto impugnato. |
AGGIORNAMENTO AL 18.05.2016 |
ã |
Annullamento d'ufficio dei titoli edilizi entro un
termine ragionevole e, comunque, non superiore a 18
mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di
autorizzazione:
ECCO LE
PRIME PRONUNCE DELLA GIURISPRUDENZA DOPO LA LEGGE N.
124/2015 (riforma Madia). |
EDILIZIA PRIVATA:
Titoli edilizi, primi stop all’autotutela. I giudici
dichiarano illegittimo l’intervento correttivo della
Pa arrivato oltre i 18 mesi.
Procedimento amministrativo. Il nuovo limite
introdotto dalla riforma Madia fissa il periodo
entro cui si possono annullare gli atti.
Limite d’intervento
per la pubblica amministrazione. Con la
sentenza 17.03.2016 n. 351, il TAR
Puglia-Bari -Sez. III- ha dichiarato illegittimo il
provvedimento di autotutela (previsto dall’articolo
21-nonies della legge 241/1990 sul
procedimento amministrativo) adottato oltre il
termine di 18 mesi, con il quale un Comune aveva
annullato il permesso di costruire rilasciato in
precedenza ad una società immobiliare.
La sentenza rappresenta una delle prime applicazioni
giurisprudenziali delle novità introdotte dalla
legge Madia (124/2015) sulla riorganizzazione della
Pa. E la nuova normativa assume particolare rilievo
in materia edilizia, dove sussiste la necessità di
trovare un equilibrio tra l’esigenza di assicurare
il rispetto della legalità e quella di garantire la
stabilità dei rapporti e degli investimenti.
Soprattutto negli interventi avviati in seguito alla
presentazione di una Scia, l’operatore si trova
spesso in una situazione di incertezza, perché la Pa
ha il potere di annullare la segnalazione
certificata (o la Dia nei residui casi in cui è
ancora prevista), d’ufficio o su richiesta dei
terzi, anche a distanza di anni dal completamento
dei lavori.
In virtù della legge Madia, dopo la scadenza del
termine di 30 giorni stabilito per l’esercizio
ordinario dei poteri inibitori e/o repressivi sugli
interventi eseguiti tramite Scia (articolo 19, comma
6-bis, della legge 241/1990), la Pa può annullare
questo titolo soltanto entro 18 mesi dalla sua
formazione. Il medesimo termine, come ovvio, deve
essere rispettato anche nel caso in cui la Pa
intervenga su un titolo edilizio rilasciato (ad
esempio, un permesso di costruire).
Questi 18 mesi previsti per l’esercizio dei poteri
di autotutela rappresentano il periodo massimo entro
il quale la Pa può intervenire per annullare
d’ufficio un provvedimento illegittimo: non si può
quindi escludere che, sulla base delle singole
circostanze, il termine “ragionevole” possa
essere ritenuto ancora più breve (sul punto si veda
la
sentenza 14.01.2016 n. 47 del TAR
Puglia-Bari, Sez. III).
Il nuovo sbarramento temporale, che trova certamente
applicazione per i provvedimenti adottati
successivamente all’entrata in vigore della riforma
Madia, è comunque rilevante per valutare -sotto il
profilo della ragionevolezza del termine- la
legittimità dei provvedimenti di autotutela adottati
sotto la previgente disciplina (TAR Campania-Napoli,
Sez. III,
sentenza 24.02.2016 n. 984; TAR
Puglia-Lecce, Sez. II,
sentenza 03.03.2016 n. 430).
Gli ulteriori presupposti che legittimano
l’esercizio del potere di autotutela non sono stati
invece modificati dalla legge. Quindi, per poter
procedere all’annullamento di un provvedimento
illegittimo (ossia adottato in violazione di legge o
viziato da eccesso di potere o da incompetenza) è
necessaria:
- la sussistenza di ragioni di interesse pubblico;
- la circostanza che l’autotutela intervenga entro
un termine comunque “ragionevole” (ora
appunto fissato al massimo in 18 mesi);
- la necessaria considerazione degli interessi dei
destinatari e dei contro-interessati.
Nell’ambito dei provvedimenti adottati in violazione
di legge, è opportuno anche segnalare che con l’ordinanza
22.03.2016 n. 185 il TAR Marche ha
rimesso alla Corte di giustizia europea la questione
relativa alla compatibilità con il diritto
comunitario dei provvedimenti di Via (valutazione
impatto ambientale) adottati successivamente alla
realizzazione dell’impianto soggetto alla
valutazione stessa (cd. Via postuma).
La soluzione del quesito è di sicuro interesse per
tutti i progetti che, realizzati senza esser stati
preventivamente sottoposti alla procedura
ambientale, siano oggetto di provvedimenti di
demolizione.
---------------
Se si dichiara il falso il potere di
controllo non ha scadenza. Casi particolari. Sono
fatte salve le sanzioni penali.
Il potere di
autotutela della pubblica amministrazione può essere
esercitato oltre il termine dei 18 mesi solo in
alcuni casi particolari. Quando cioè il titolo da
annullare sia stato ottenuto sulla base di false
rappresentazioni dei fatti oppure di dichiarazioni
sostitutive di certificazione e dell’atto di
notorietà false o mendaci, per effetto di condotte
costituenti reato e accertate con sentenza passata
in giudicato. La deroga è stata inserita dalla
riforma Madia al comma 2-bis dell’articolo 21-nonies
della legge 241/1990.
In questo comma il legislatore ha letteralmente
chiarito che le amministrazioni “possono” e
non “devono” annullare i provvedimenti
ottenuti in modo illecito: ciò porta a ritenere che
anche in tale ipotesi l’autotutela non sia un atto
dovuto, ma preveda comunque la sussistenza degli
ulteriori presupposti indicati dall’articolo
21-nonies.
Nella parte finale del comma 2-bis, si fa comunque
salva l’applicazione delle sanzioni penali e delle
ulteriori sanzioni contemplate dal capo VI del Dpr
445/2000 (Testo unico in materia di documentazione
amministrativa) tra le quali è espressamente
previsto che, nel caso di false dichiarazioni rese
alla Pa, il dichiarante decada dai benefici
eventualmente conseguenti al provvedimento emanato
sulla base delle stesse dichiarazioni (articolo 75).
Il legislatore sembra così aver voluto evitare che
la novità normativa, finalizzata a tutelare chi
abbia fatto legittimo affidamento su un titolo
edilizio rilasciato (nel caso di permesso di
costruire) o non contestato entro 30 giorni (nel
caso di Scia) dall’autorità competente, possa essere
utilizzata da coloro che, confidando nell’inerzia o
nel mancato controllo della Pa, ottengano
l’abilitazione sulla base di irregolari
dichiarazioni o rappresentazioni dei fatti.
La medesima finalità è perseguita anche all’articolo
21, comma 1, della legge 241/1990, dove è
espressamente previsto che la Scia, o il titolo
edilizio ottenuto con il silenzio-assenso, non
produce gli effetti previsti dalla legge se è stato
formato sulla base di dichiarazioni false o mendaci.
In questo caso, il titolo non produce alcun effetto
giuridicamente rilevante (e infatti la norma
stabilisce che «non è ammessa la conformazione
dell’attività e dei suoi effetti a legge»):
quindi la pubblica amministrazione potrà adottare
tutti i provvedimenti necessari per ripristinare la
legalità violata, anche al di fuori del limite
temporale e dei presupposti indicati dall’articolo
21-nonies.
Resta infine da evidenziare il mancato coordinamento
della riforma con quanto stabilito dall’art. 39 del
Testo unico edilizia, Dpr 380/2001 (“Annullamento
del permesso di costruire da parte della regione”),
che continua a prevedere il potere regionale di
eliminare, entro 10 anni dalla loro adozione, i
provvedimenti comunali che autorizzano interventi
non conformi a prescrizioni degli strumenti
urbanistici o dei regolamenti edilizi, o comunque in
contrasto con la normativa urbanistico-edilizia (articolo
Il Sole 24 Ore del 09.05.2016 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
Ricordiamo cosa dispone l'art.
21-nonies della L. n. 241/1990: |
Art.
21-nonies. (Annullamento d'ufficio)
(si
veda anche l'articolo
1, comma 136, della legge n. 311 del 2004)
1. Il provvedimento
amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo
21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo
articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato
d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse
pubblico, entro un termine ragionevole, comunque non
superiore a diciotto mesi dal momento dell'adozione
dei provvedimenti di autorizzazione o di
attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi
in cui il provvedimento si sia formato ai sensi
dell'articolo
20, e tenendo conto degli interessi dei
destinatari e dei controinteressati, dall'organo che
lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla
legge. Rimangono ferme le responsabilità connesse
all'adozione e al mancato annullamento del
provvedimento illegittimo.
(comma modificato dall'art.
25, comma 1, lettera b-quater), legge n. 164 del
2014, poi dall'art.
6, comma 1, legge n. 124 del 2015)
2. È fatta
salva la possibilità di convalida del provvedimento
annullabile, sussistendone le ragioni di interesse
pubblico ed entro un termine ragionevole.
2-bis. I
provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base
di false rappresentazioni dei fatti o di
dichiarazioni sostitutive di certificazione e
dell'atto di notorietà false o mendaci per effetto
di condotte costituenti reato, accertate con
sentenza passata in giudicato, possono essere
annullati dall'amministrazione anche dopo la
scadenza del termine di diciotto mesi di cui al
comma 1, fatta salva l'applicazione delle sanzioni
penali nonché delle sanzioni previste dal capo VI
del testo unico di cui al
d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445.
(comma aggiunto dall'art.
6, comma 1, legge n. 124 del 2015) |
Di seguito le sentenze per esteso menzionate
nell'articolo di cui sopra: |
EDILIZIA PRIVATA:
Attesa la perentorietà del temine ex art.
21-nonies l. n. 241/1990, è illegittimo il
provvedimento di autotutela (di annullamento del
permesso di costruire) intervenuto oltre i 18 mesi
di legge.
--------------
... per l'annullamento, previa sospensiva, della nota prot.
n. 63548 del 19.11.2015 del Dirigente del Settore Edilizia
Pubblica e Privata e Servizi Catastali del Comune di
Barletta, notificata il 20 successivo, recante annullamento,
in autotutela, del permesso di costruire n. 133 del
01.04.2014, rettificato il 14.04.2014, rilasciato alla
società ricorrente Immobiliare MV srl.
...
La società odierna ricorrente impugna la rimozione in
autotutela del permesso di costruire (PdC) n. 133 del
01.04.2014, rettificato il 14.04.2014.
Deduce vari profili di censura, tra cui quello di tardività
dell’esercizio del potere di autotutela, essendo questo
intervenuto il 19.11.2015, ovverosia, oltre il termine di 18
mesi contemplati dall’art. 21-nonies, novellato dalla L. n.
124/2015 (entrata in vigore il 28.08.2015), dunque, già in
vigore -ratione temporis- al momento dell’adozione
dell’atto di secondo grado.
Resiste al ricorso il Comune intimato, sostenendo, quanto al
profilo di censura appena evidenziato, che il termine di cui
all’art. 21-nonies cit. sarebbe stato, comunque, rispettato,
attesa la tempestiva adozione della nota n. 52811 del
01.10.2015.
All’udienza del 10.03.2016, dopo ampia discussione delle
parti che hanno invocato la definizione con sentenza breve
della controversia, il ricorso è stato trattenuto in
decisione.
E’ fondato il profilo di doglianza appena evidenziato.
La nota n. 52811 del 01.10.2015 consiste pacificamente nella
comunicazione di avvio del relativo procedimento di
autotutela.
Essa non può valere a ritenere rispettato il termine
indicato dalla disposizione novellata, in quanto il tenore
letterale della stessa rinvia chiaramente, a tal fine,
all’adozione effettiva del provvedimento di autotutela (“Il
provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo
articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato
d'ufficio….”).
Nel medesimo senso depone l’interpretazione
logico-sistematica, in quanto, ritenere sufficiente
l’adozione della comunicazione di avvio del procedimento,
per il rispetto del termine normativamente imposto, conduce
a ritenerlo, di fatto, non perentorio ai fini dell’adozione
dell’atto definitivo di autotutela.
Una siffatta conclusione esegetica si sostanzierebbe in una
interpretazione sostanzialmente abrogativa della novella.
Ritenuta, dunque, la insufficienza della comunicazione di
avvio del procedimento, non può che rilevarsi che il
provvedimento di autotutela è intervenuto oltre il termine
dei 18 mesi (il PdC rettificato è del 14.04.2014, mentre il
provvedimento di annullamento è datato 19.11.2015).
Esso, dunque, attesa la perentorietà del suddetto temine (v.
sentenza di questa Sezione n. 47/2016), è illegittimo in
quanto tardivo e va, pertanto, annullato (TAR
Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 17.03.2016 n. 351
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
Il lungo lasso di tempo trascorso dai
provvedimenti autorizzatori, il numero degli stessi
e la natura economico-imprenditoriale dell’attività
esercitata dalla ricorrente depongono per
l’applicazione del principio dell’affidamento, il
quale appunto, in questa materia, “tutela la
certezza e la stabilità dei rapporti giuridici,
ammettendo la rimozione di una situazione di
vantaggio, attribuita ad un privato da un atto
amministrativo specifico, soltanto al ricorrere di
determinate condizioni: fra queste ultime, rientra
un intervallo di tempo tale da non ingenerare nel
privato la convinzione circa la stabilità del
rapporto”.
---------------
L’A.C. trascurava di considerare come ormai, a
distanza di più di dieci anni dal proprio, reiterato
errore e in presenza di un’attività economica
consolidata e dal 2010 significativamente ampliata,
il riferimento al tema del corretto rapporto tra
l’attività ricettiva e quella agricola, in origine
certamente decisivo, non era più sufficiente a
giustificare la rimozione dell’atto, la quale doveva
rispondere “a un interesse pubblico non solo attuale
e concreto ma anche prevalente rispetto ad altri
interessi a favore della sua conservazione e, tra
questi, in particolare, rispetto all’interesse del
privato che ha riposto affidamento nella legittimità
e stabilità dell’atto medesimo, tanto più quando un
simile affidamento si sia consolidato per effetto
del decorso di un rilevante arco temporale”.
----------------
...
per l’annullamento:
- della nota prot. n. 10080 del 25.05.2015, successivamente
ricevuta, con la quale si comunica l’avvio del procedimento
di annullamento dell’autorizzazione n. 17/04 e si invita la
ricorrente a limitare l’ospitalità agrituristica a n. 40
posti letto;
- del provvedimento prot. n. 12653 del 29.06.2015,
successivamente conosciuto, avente a oggetto <<Difformità
numerica della capacità ricettiva in attività agrituristica
‘Bo.Ma.’ con sede in Melendugno alla Strada Comunale
Bosco Coppola, frazione Borgagne. Comunicazioni di rilascio
di nuova autorizzazione>>;
- di ogni atto connesso, presupposto e/o consequenziale.
...
3.- Considerato che:
- l’art. 21-nonies l. n. 241 del 1990, nella formulazione
vigente all’epoca della d.d. impugnata, prevedeva che “1.
Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell’
articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo
articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d’ufficio,
sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un
termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei
destinatari e dei controinteressati, dall’organo che lo ha
emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge”;
- alla “stregua di tale previsione normativa [l’art.
21-nonies, ndr], che ha peraltro codificato il consolidato
orientamento già precedentemente espresso dalla
giurisprudenza, l’annullamento del provvedimento
amministrativo richiede, oltre all’illegittimità dell’atto,
anche la sussistenza dell’interesse pubblico alla sua
rimozione. Quest’ultimo deve, poi, trovare adeguata
evidenziazione, mediante un’idonea motivazione, che dia
conto della ponderazione degli interessi in gioco, inclusi
quelli dei destinatari dell’atto e dei controinteressati,
anche alla luce del tempo trascorso dall’adozione del
provvedimento […]".
E invero, la regola di cui all’articolo 21-nonies della
legge n. 241 del 1990 non soffre eccezioni -in linea di
principio- neppure nel caso in cui vengano in considerazione
interessi di particolare rilievo, quale quello attinente
alla tutela del paesaggio (cfr. in questo senso Cons. Stato,
Sez. VI, 20.09.2012, n. 4997).
La posizione di preminenza che l’interesse assume
nell’ambito dell’ordinamento giuridico, in considerazione
della sua consistenza di valore costituzionalmente primario
(C. cost. n. 367 del 2007, Id. n. 182 del 2006, Id. n. 151
del 1986), può invero attenuare l’onere motivatorio
incombente sull’Amministrazione in sede di annullamento in
autotutela dell’atto ampliativo, fino a rendere tale onere
minimo in certe ipotesi (specialmente in presenza di opere
di rilevante impatto o di interventi eseguiti in aree di
pregio particolarmente importante).
Tuttavia, <<tale preminenza non può elidere del tutto la
necessità che sia data evidenza del compimento di una
ponderazione idonea a mettere in luce la preminenza
dell’interesse pubblico concreto e attuale all’annullamento
dell’atto autorizzatorio illegittimamente rilasciato
rispetto agli altri contrapposti interessi>> (TAR Lombardia
Milano, II, 13.08.2015, n. 1896).
- l’art. 6, comma 1, lettera d), numero 1), della legge
07.08.2015, n. 124, inoltre, apportava all’art. 21-nonies le
seguenti modificazioni: “al comma 1, dopo le parole:
<<entro un termine ragionevole>> sono inserite le seguenti:
<<, comunque non superiore a diciotto mesi dal momento
dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di
attribuzione di vantaggi economici […]>>; e se è vero che la
novella non era ratione temporis applicabile alle
determinazioni impugnate, deve però ritenersi, in conformità
alla preferibile giurisprudenza, che il previsto sbarramento
temporale all’esercizio del potere di autotutela sia
comunque rilevante “ai fini interpretativi e ricostruttivi
del sistema degli interessi rilevanti” (così Consiglio
di Stato, VI, 10.12.2015, n. 5625).
4.- Ritenuto che, nel caso in esame:
- il lungo lasso di tempo trascorso dai provvedimenti
autorizzatori, il numero degli stessi e la natura
economico-imprenditoriale dell’attività esercitata dalla
ricorrente depongono per l’applicazione del principio
dell’affidamento, il quale appunto, in questa materia, “tutela
la certezza e la stabilità dei rapporti giuridici,
ammettendo la rimozione di una situazione di vantaggio,
attribuita ad un privato da un atto amministrativo
specifico, soltanto al ricorrere di determinate condizioni:
fra queste ultime, rientra un intervallo di tempo tale da
non ingenerare nel privato la convinzione circa la stabilità
del rapporto” (Consiglio di Stato, IV, 16.04.2015, n.
1953).
- a fronte di una serie di atti con i quali l’A.C.
autorizzava la società per 74 posti letto neppure può
ritenersi che tale legittimo affidamento fosse escluso dal
diverso, e più limitato, disposto del certificato regionale,
ben potendo il privato non aver colto tutte le implicazioni
che, sul piano amministrativo, siffatto contrasto
comportava.
- l’A.C., peraltro, pur avendo evidenziato la portata per
essa vincolante della certificazione regionale, trascurava
di considerare come ormai, a distanza di più di dieci anni
dal proprio, reiterato errore e in presenza di un’attività
economica consolidata e dal 2010 significativamente
ampliata, il riferimento al tema del corretto rapporto tra
l’attività ricettiva e quella agricola, in origine
certamente decisivo, non era più sufficiente a giustificare
la rimozione dell’atto, la quale doveva rispondere “a un
interesse pubblico non solo attuale e concreto ma anche
prevalente rispetto ad altri interessi a favore della sua
conservazione e, tra questi, in particolare, rispetto
all’interesse del privato che ha riposto affidamento nella
legittimità e stabilità dell’atto medesimo, tanto più quando
un simile affidamento si sia consolidato per effetto del
decorso di un rilevante arco temporale” (TAR Calabria
Catanzaro, II, 08.04.2015, n. 609).
5.- Ritenuto che il ricorso deve dunque essere accolto,
ferma restando, ovviamente, la necessità che, salvo il
profilo fin qui delineato, l’attività della società Ma.
sia in linea con tutta la normativa di settore applicabile
alle sue effettive dimensioni (TAR
Puglia-Lecce, Sez. II,
sentenza 03.03.2016 n. 430
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sotto l’ulteriore profilo considerato
(relativo all’interesse pubblico all’annullamento),
va detto che l’art. 21-nonies della legge
07.08.1990, n. 241 (nel testo vigente all’epoca di
adozione del provvedimento) disponeva che: <<Il
provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi
dell'articolo 21-octies può essere annullato
d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse
pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo
conto degli interessi dei destinatari e dei
controinteressati, dall'organo che lo ha emanato,
ovvero da altro organo previsto dalla legge>>.
La norma è espressione di un principio volto alla
composizione di tutti gli interessi che vengono in
rilievo, esigendo che la P.A. dia adeguata contezza
delle ragioni sottostanti all’annullamento
d’ufficio, in termini di interesse pubblico attuale
e prevalente, nei casi in cui il tempo trascorso
abbia ingenerato nel destinatario un concreto
affidamento nel consolidamento della situazione che
la stessa P.A. ha assentito.
A rafforzare il principio già contenuto dall’origine
nell’art. 21-nonies, dandovi concretezza, non può
essere trascurato che l’attuale formulazione della
norma (quale derivante dalla novella introdotta
dall’art. 6, comma 1, lett. d), n. 1), della legge
07.08.2015, n. 124, ancorché non applicabile alla
fattispecie in esame) pone il termine per
l’annullamento d’ufficio “comunque non superiore a
diciotto mesi dal momento dell'adozione dei
provvedimenti di autorizzazione”.
Nella specie, l’annullamento è stato disposto a
distanza di due anni dal rilascio del permesso di
costruire e non è enunciato quale interesse pubblico
prevalente determini la necessità di procedere
all’annullamento del titolo con cui il ricorrente ha
eseguito la manutenzione e il consolidamento
dell’edificio, in relazione alle quali non è addotto
(come sopra precisato) che i lavori abbiano arrecato
nocumento a preminenti valori necessitanti di
tutela.
---------------
... per l'annullamento del provvedimento del Coordinatore
della 4^ Area - Ambiente Territorio e Infrastrutture prot.
n. 56310 del 07/09/2010, con il quale è stato annullato il
permesso di costruire in sanatoria n. 151 del 09/08/2008,
rilasciato ai sensi dell'art. 36 del DPR n. 380/2001 per la
manutenzione ordinaria e straordinaria dell'immobile sito
alla via S. ... nn. 37/39; della nota prot.
n. 32984 del 19/05/2010, recante la comunicazione dei motivi
ostativi; di tutti gli atti anteriori, preordinati e
connessi.
...
Il ricorso è fondato.
Sono meritevoli di favorevole apprezzamento le censure con
cui si fa valere che non occorreva acquisire
l’autorizzazione paesaggistica e che, in ogni caso, non sono
esternate le ragioni in ordine alla sussistenza di un
concreto ed attuale interesse pubblico all’annullamento del
permesso di costruire.
L’art. 149, primo comma, lett. a), del d.lgs. 22.01.2004, n. 42 dispone infatti che:
<<Fatta salva l'applicazione dell'articolo 143, comma 4,
lettera a), non è comunque richiesta l'autorizzazione
prescritta dall'articolo 146, dall'articolo 147 e
dall'articolo 159:
a) per gli interventi di manutenzione ordinaria,
straordinaria, di consolidamento statico e di restauro
conservativo che non alterino lo stato dei luoghi e
l'aspetto esteriore degli edifici>>.
Emerge dallo stesso provvedimento impugnato che l’intervento
è consistito nella “Manutenzione ordinaria e straordinaria,
con sostituzione parziale dei solai, e consolidamento delle
murature, con ripristino abitativo dell’immobile”.
Il ricorrente ha prodotto in data 08/01/2016 l’istanza di
permesso di costruire con l’allegata relazione tecnica, da
cui risulta che –nell’immobile abbandonato da decenni e in
precarie condizioni statiche, oggetto di una non meglio
precisata ordinanza sindacale n. 268 del 06/03/2008– è stata
realizzata la sostituzione dei solai pericolanti con
interventi di cuci e scuci alle pareti anch’esse
pericolanti, oltre al completamento con intonaci,
pavimentazione, pitturazione, impianto idrico ed elettrico
ed infissi interni ed esterni, “con criteri e tipologie
idonee e consone al territorio ed all’ambiente circostante”
ed utilizzo di “prodotti e materiali in muratura di tufo e
solai in latero-cemento piano”, nonché “rifiniture in
assonanza della zona” (cfr. l’esibita relazione
descrittiva).
Con riferimento a tali elementi, può convenirsi sulla
deduzione del ricorrente secondo cui l’intervento non
necessitava di autorizzazione paesaggistica (non risultando
modifiche alla sagoma o ai prospetti e all’aspetto esteriore
dell’edificio), tenuto conto che nel provvedimento neppure
si dà conto delle asserite modifiche allo stato preesistente
dei luoghi.
Invero, la tutela paesaggistica è approntata per la
salvaguardia dei “valori paesaggistici oggetti di
protezione” (art. 146, primo comma, d.lgs. cit.), con
riguardo alla forma esterna dell’edificio posto in zona
tutelata (tale essendo l’ambito della tutela paesaggistica,
a partire dal riferimento, nell’art. 7 della legge 29.06.1939, n. 1497, agli immobili il cui “esteriore aspetto […] è
protetto dalla presente legge”).
Come detto, il provvedimento impugnato si limita ad
affermare che l’intervento ha modificato lo stato dei
luoghi, senza tuttavia concretamente addurre in quali
termini i lavori, in relazione alla loro tipologia
manutentiva e di consolidamento, abbiano concretamente
arrecato una compromissione ai valori tutelati.
Quanto al richiamo, operato nello stesso provvedimento, alla
norma che dispone la necessità dell’accertamento della
compatibilità paesaggistica <<per i lavori comunque
configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o
straordinaria ai sensi dell'articolo 3 del decreto del
Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380>> (quarto
comma, lett. c), dell’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004), va
osservato che in ogni caso occorre una verifica concreta,
non potendosi negare in mancanza la compatibilità
paesaggistica dell’intervento.
Sotto l’ulteriore profilo considerato (relativo
all’interesse pubblico all’annullamento), va detto che
l’art. 21-nonies della legge 07.08.1990, n. 241 (nel
testo vigente all’epoca di adozione del provvedimento)
disponeva che:
<<Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi
dell'articolo 21-octies può essere annullato d'ufficio,
sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un
termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei
destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha
emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge>>.
La norma è espressione di un principio volto alla
composizione di tutti gli interessi che vengono in rilievo,
esigendo che la P.A. dia adeguata contezza delle ragioni
sottostanti all’annullamento d’ufficio, in termini di
interesse pubblico attuale e prevalente, nei casi in cui il
tempo trascorso abbia ingenerato nel destinatario un
concreto affidamento nel consolidamento della situazione che
la stessa P.A. ha assentito.
A rafforzare il principio già contenuto dall’origine
nell’art. 21-nonies, dandovi concretezza, non può essere
trascurato che l’attuale formulazione della norma (quale
derivante dalla novella introdotta dall’art. 6, comma 1,
lett. d), n. 1), della legge 07.08.2015, n. 124, ancorché
non applicabile alla fattispecie in esame) pone il termine
per l’annullamento d’ufficio “comunque non superiore a
diciotto mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di
autorizzazione”.
Nella specie, l’annullamento è stato disposto a distanza di
due anni dal rilascio del permesso di costruire e non è
enunciato quale interesse pubblico prevalente determini la
necessità di procedere all’annullamento del titolo con cui
il ricorrente ha eseguito la manutenzione e il
consolidamento dell’edificio, in relazione alle quali non è
addotto (come sopra precisato) che i lavori abbiano arrecato
nocumento a preminenti valori necessitanti di tutela.
Alla stregua delle considerazioni che precedono, il ricorso
va dunque accolto e va conseguentemente annullato il
provvedimento impugnato, con condanna del Comune resistente
al pagamento delle spese processuali in favore del
ricorrente, secondo la regola della soccombenza, nella
misura indicata nel dispositivo (TAR
Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 24.02.2016 n. 984
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il comma 1 dell’art. 21-nonies oggi
dispone: “Il provvedimento amministrativo
illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies può
essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni
di interesse pubblico, entro un termine ragionevole,
comunque non superiore a diciotto mesi dal momento
dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o
di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i
casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi
dell'articolo 20, e tenendo conto degli interessi
dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo
che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto
dalla legge”.
Il fatto che il legislatore non abbia sostituito le
parole “termine ragionevole” con le parole “comunque
non superiore a 18 mesi”, che in vece ad esse si
aggiungono, induce a ritenere che si tratti di
un’operazione meramente interpretativa con la quale
si è inteso specificare che il termine ragionevole
non può superare i 18 mesi, dovendosi invece
riconoscere portata innovativa agli interventi di
modifica che sostituiscono una disposizione o parte
di essa, così risultandone una norma diversa dalla
precedente.
----------------
E’ noto che l’espressione “entro un termine
ragionevole”, contenuta nella versione originaria
dell’art. 21-nonies, ha occupato non poco la
dottrina e la giurisprudenza nell’opera di
elaborazione, in assenza di parametri costituzionali
di riferimento, di criteri uniformi di misurazione
del tempo entro il quale la p.a. può esercitare lo
ius poenitendi ed intervenire su posizioni
giuridiche acquisite, valorizzandosi talora il tempo
in sé, quando l’amministrazione ha chiari gli
elementi fondamentali dai quali si deduce
l’illegittimità del provvedimento, grazie
all’attività istruttoria espletata in precedenza,
altre volte gli effetti che medio tempore sono stati
prodotti dal provvedimento.
Con la disposizione in esame il legislatore ha
inteso quindi dare certezza e stabilità ai rapporti
che hanno titolo in atti amministrativi,
individuando nel termine massimo di diciotto mesi il
limite per l’annullamento d’ufficio, il quale
sarebbe senz’altro illegittimo se sopravvenuto dopo
il decorso di detto termine.
Pertanto, avuto riguardo ai provvedimenti per i
quali, alla data di entrata in vigore della novella,
il “termine ragionevole” per l’annullamento è ancora
in corso, il Collegio ritiene di escludere che il
termine di diciotto mesi possa nuovamente decorrere
da detta data, sia perché ciò sarebbe in contrasto
con la natura interpretativa delle disposizione in
rassegna sia perché, diversamente opinando, si
ammetterebbe un’irragionevole rimessione in termini
per la p.a., in palese contraddizione con
l’intendimento del legislatore di stabilire un
termine certo oltre il quale il provvedimento
amministrativo non può essere annullato se non in
sede giurisdizionale.
---------------
... per l'annullamento del provvedimento prot. n. 36502 del
10.09.2015, con cui il Comune di Trani ha annullato il
permesso di costruire tacito formatosi sull’istanza delle
ricorrenti (pratica n. 111/2009) e comunque ha negato
espressamente la realizzazione dell’intervento edilizio ivi
proposto.
...
E’ fondato il primo motivo di ricorso con il quale le
ricorrenti sostengono che il provvedimento gravato d’ufficio
sarebbe stato adottato quando era ormai decorso il termine
di 18 mesi dalla formazione del titolo edilizio, entro il
quale è consentito l’esercizio del potere di annullamento,
ai sensi della l. 124/2015, che ha modificato l’art.
21-nonies l. 241/1990.
In particolare il comma 1 dell’art. 21-nonies oggi dispone:
“Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi
dell'articolo 21-octies può essere annullato d'ufficio,
sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un
termine ragionevole, comunque non superiore a diciotto mesi
dal momento dell'adozione dei provvedimenti di
autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici,
inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai
sensi dell'articolo 20, e tenendo conto degli interessi dei
destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha
emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge”.
Il fatto che il legislatore non abbia sostituito le parole “termine
ragionevole” con le parole “comunque non superiore a
18 mesi”, che in vece ad esse si aggiungono, induce a
ritenere che si tratti di un’operazione meramente
interpretativa con la quale si è inteso specificare che il
termine ragionevole non può superare i 18 mesi, dovendosi
invece riconoscere portata innovativa agli interventi di
modifica che sostituiscono una disposizione o parte di essa,
così risultandone una norma diversa dalla precedente.
Secondo l’insegnamento della Corte costituzionale, infatti,
il carattere interpretativo di una novella si desume dal
rapporto che ne risulta fra norme –e non tra disposizioni–
di guisa che il sopravvenire della norma interpretante non
fa venir meno la norma interpretata, ma l’una e l’altra si
saldano tra loro dando luogo ad un precetto normativo
unitario (sentenza n. 397 del 1994).
Tipico tratto interpretativo hanno le disposizioni che
esprimono uno fra i possibili significati che la norma
interpretata, per il modo -generico o elastico- in cui è
formulata, può assumere nel contesto normativo di
riferimento, tanto da dar luogo a contrasti interpretativi o
incertezze applicative che inducono il legislatore a meglio
precisarne il precetto.
E’ noto che l’espressione “entro un termine ragionevole”,
contenuta nella versione originaria dell’art. 21-nonies, ha
occupato non poco la dottrina e la giurisprudenza nell’opera
di elaborazione, in assenza di parametri costituzionali di
riferimento, di criteri uniformi di misurazione del tempo
entro il quale la p.a. può esercitare lo ius poenitendi
ed intervenire su posizioni giuridiche acquisite,
valorizzandosi talora il tempo in sé, quando
l’amministrazione ha chiari gli elementi fondamentali dai
quali si deduce l’illegittimità del provvedimento, grazie
all’attività istruttoria espletata in precedenza (Tar
Firenze 11.06.2015 n. 904), altre volte gli effetti che
medio tempore sono stati prodotti dal provvedimento (Tar
L’Aquila Sez. I, 29.07.2008, n. 967).
Con la disposizione in esame il legislatore ha inteso quindi
dare certezza e stabilità ai rapporti che hanno titolo in
atti amministrativi, individuando nel termine massimo di
diciotto mesi il limite per l’annullamento d’ufficio, il
quale sarebbe senz’altro illegittimo se sopravvenuto dopo il
decorso di detto termine.
Pertanto, avuto riguardo ai provvedimenti per i quali, alla
data di entrata in vigore della novella, il “termine
ragionevole” per l’annullamento è ancora in corso, il
Collegio ritiene di escludere che il termine di diciotto
mesi possa nuovamente decorrere da detta data, sia perché
ciò sarebbe in contrasto con la natura interpretativa delle
disposizione in rassegna sia perché, diversamente opinando,
si ammetterebbe un’irragionevole rimessione in termini per
la p.a., in palese contraddizione con l’intendimento del
legislatore di stabilire un termine certo oltre il quale il
provvedimento amministrativo non può essere annullato se non
in sede giurisdizionale.
Venendo al caso in decisione è evidente che il provvedimento
di annullamento del 10.09.2015 -adottato dopo l’entrata in
vigore della novella (28.08.2015)- è sopravvenuto dopo più
di quattro anni dalla formazione del silenzio assenso,
maturato il 02.06.2011 come accertato da questo TAR con
sentenza 610/2013.
Non solo allora è evidente che fosse decorso il termine di
18 mesi previsto dalla l. 124/2015, ma appare comunque
irragionevole che il Comune, che aveva suscitato affidamento
delle ricorrenti rilasciando il parere favorevole del
28.07.2010, abbia invece atteso rebus sic stantibus
circa quattro anni per rimuovere il titolo edilizio.
Naturalmente resta fermo il potere del Comune di Trani di
eventualmente reiterare l’annullamento senza limiti di tempo
ove sussistano le condizioni previste dal comma 2-bis
dell’art. 21-nonies l. 241/1990 parimenti introdotto dalla
l. 124/2015.
Pertanto il ricorso deve essere accolto con assorbimento
degli altri motivi (TAR
Puglia-Bari, Sez. III, la
sentenza 14.01.2016 n. 47
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
INCENTIVO PROGETTAZIONE
INTERNA |
Con l'AGGIORNAMENTO
AL 23.03.2016 davamo conto di come la Sez.
controllo veneta della Corte dei Conti avesse deferito alla
Sez. Autonomie la seguente questione di massima: "Se
gli incentivi previsti e disciplinati dai commi 7-bis, 7-ter
e 7-quater del D.lgs. n. 163 del 12.04.2006 possano essere
riconosciuti ed erogati al personale indicato dal comma
7-ter anche nel caso di progettazione affidata e realizzata
da soggetti esterni alla stazione appaltante".
Altresì, col precedente
AGGIORNAMENTO AL 31.12.2015, informavamo che
anche la Sez. controllo abruzzese richiedeva l'intervento
della Sez. Autonomie circa le seguenti questioni: 1) “se
sia possibile riconoscere l’incentivo di cui all’art. 93
d.lgs. n. 163/2006 in favore del Responsabile unico del
procedimento, anche nell’ipotesi in cui tutte le attività
che la legge individua come incentivabili, sia di
progettazione sia di direzione dei lavori, sia di collaudo,
siano state svolte all’esterno dell’Ente da professionisti
all’uopo incaricati”;
2) “se la nozione di "collaboratori" di cui al comma
7-ter dell'art. 93 del d.lgs. n. 163/2006 faccia riferimento
solamente ai collaboratori con professionalità tecnica
(componenti lo staff tecnico delle specifiche figure
professionali richiamate dall'art. 93 citato, per lo
svolgimento delle attività ivi indicate) ovvero possa essere
estesa anche al personale addetto alle altre attività
amministrative connesse comunque alla realizzazione dei
lavori, quali: le procedure di espropriazione, di
accatastamento e frazionamento, procedure di appalto dei
lavori, predisposizione dei contratti di appalto, stesura
degli atti di gara e provvedimenti amministrativi afferenti
ai lavori”.
Ebbene, è arrivata la risposta che di seguito
riportiamo. |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
Appalti, vecchi incentivi anche se il progetto è
esterno. Corte dei conti. La riforma si applica alle
«attività svolte» dopo il 19.04.2016.
Gli incentivi ai dipendenti pubblici per le attività di
progettazione, nella forma riveduta e corretta dal decreto
Madia del 2014, possono essere attribuiti al responsabile
unico del procedimento (Rup) negli appalti anche se una
parte dei progetti è stata affidata all’esterno. Non solo: i
“premi” possono andare anche a direttori dei lavori,
collaudatori e collaboratori anche se la progettazione è
stata esternalizzata integralmente. Peccato, però, che
questi incentivi siano stati cancellati dalla riforma degli
appalti.
Ad affrontare il tema è la
deliberazione 13.05.2016 n. 18,
diffusa ieri, con cui la sezione Autonomie della Corte dei
conti chiude un ricco dibattito interpretativo alimentato
dal decreto Madia fra i magistrati contabili delle sezioni
regionali.
Quel meccanismo è stato abolito, ma la nuova delibera è
tutt'altro che inutile, per due ragioni: in un inciso, la
sezione Autonomie conferma autorevolmente che la riforma
valgono per le «attività poste in essere dopo il
19.04.2016», data di entrata in vigore del decreto
legislativo 50/2016 attuativo della delega appalti, e che
quindi i lavori effettuati prima ma non ancora pagati
seguono le vecchie regole. La precisazione dovrebbe evitare
le incertezze sulla decorrenza che hanno accompagnato tutti
i ritocchi agli incentivi “Merloni”.
Da queste premesse discende che le indicazioni fissate dai
magistrati servono a pagare nel modo corretto gli incentivi
legati ai lavori effettuati fino al 19 aprile.
Il decreto Madia, aveva cambiato il paradigma dei premi,
cancellando la vecchia impostazione “Merloni” e
sostituendola con un fondo da redistribuire fra i
dipendenti. Il fondo, a carico degli stanziamenti previsti
per la realizzazione dei singoli lavori e pari al massimo al
2% della base di gara, finanzia per l’80% il premio a
responsabile unico, incaricati dell’appalto e collaboratori.
Per far partire gli incentivi, ribadisce la Corte, è
indispensabile aver adottato il regolamento ad hoc. Posta
questa premessa, gli incentivi possono andare al Rup anche
se una parte dei progetti è stata esternalizzata, vista la
complessità del suo ruolo. Per le altre figure “incentivabili”,
tocca al regolamento la «prudente definizione» dei
criteri con cui graduare gli incentivi, e individuare i «collaboratori»
che rientrano nel meccanismo (articolo Il Sole 24 Ore del
14.05.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
●
“Il riconoscimento dell’incentivo alla
progettazione di cui all’art. 93, comma 7-ter, del d.lgs. n.
163/2006 in favore del responsabile unico del procedimento
non presuppone necessariamente che l’intera attività di
progettazione sia svolta all’interno dell’ente”.
●
“La nozione di “collaboratori” di cui al
comma 7-ter dell’art. 93 del d.lgs. n. 163/2006 fa
riferimento alle professionalità –di norma tecniche-
all’uopo individuate in sede di costituzione dell’apposito
staff, le quali devono porsi in stretta correlazione
funzionale e teleologica rispetto alle attività da compiere
per la realizzazione dell’opera a regola d’arte e nei
termini preventivati.”
●
“Gli incentivi previsti e
disciplinati dai commi 7-bis, 7-ter e 7-quater del d.lgs. n.
163 del 12.04.2006 possono essere riconosciuti ed
erogati in favore delle figure professionali interne
esplicitamente individuate dalla norma che svolgano le
attività tecniche ivi previste, anche in presenza di
progettazione affidata non integralmente a soggetti estranei
ai ruoli della stazione appaltante e dagli stessi realizzata”.
---------------
La Sezione è chiamata ad esprimere il proprio avviso in
merito alle questioni di massima sollevate, ai sensi
dell’art. 6, comma 4, del d.l. n. 174/2012, dalle Sezioni
regionali di controllo per l’Abruzzo con
deliberazione 22.12.2015 n. 358 e per il Veneto
con
deliberazione 04.03.2016 n. 123, tutte incentrate sull’interpretazione
dell’articolo 93, commi 7-ter e seguenti del d.lgs.
163/2006, come introdotti dagli articoli 13 e 13-bis, del
d.l. 24.06.2014, n. 90 convertito con modificazioni
dalla legge 11.08.2014, n. 114.
Pertanto, le questioni sono riunite e formano oggetto della
presente deliberazione.
Esse sono articolate nei seguenti termini:
1. “Se sia possibile riconoscere l’incentivo di cui all’art.
93 d.lgs. n. 163/2006 in favore del Responsabile unico del
procedimento, anche nell’ipotesi in cui tutte le attività
che la legge individua come incentivabili, sia di
progettazione sia di direzione dei lavori, sia di collaudo,
siano state svolte all’esterno dell’Ente da professionisti
all’uopo incaricati”;
2. “Se la nozione di "collaboratori" di cui al comma 7-ter,
dell'art. 93, del d.lgs. n. 163/2006 faccia riferimento
solamente ai collaboratori con professionalità tecnica,
ovvero possa essere estesa anche al personale addetto alle
altre attività amministrative connesse comunque alla
realizzazione dei lavori, quali, a titolo esemplificativo,
le procedure di espropriazione, di accatastamento e
frazionamento, le procedure di appalto dei lavori, di
predisposizione dei contratti di appalto, la stesura degli
atti di gara e di provvedimenti amministrativi afferenti ai
lavori”;
3. “Se gli incentivi previsti e disciplinati dai commi
7-bis, 7-ter e 7-quater del d.lgs. n. 163 del 12.04.2006 possano essere riconosciuti ed erogati al personale
indicato dal comma 7-ter anche nel caso di progettazione
affidata e realizzata da soggetti esterni alla stazione
appaltante”.
Le predette questioni sono state sollevate in ragione del
contrasto interpretativo emerso nell’ambito dell’attività
consultiva svolta ex art.7, comma 8, della legge 05.06.2003, n. 131, dalle Sezioni regionali di controllo, come
ampiamente ricostruito nella parte in fatto, in vista della
definizione di un indirizzo interpretativo univoco, al quale
debbono conformarsi le Sezioni remittenti e le altre Sezioni
regionali di controllo.
1. Ai fini del corretto inquadramento della tematica, si
rende necessario un breve excursus normativo, che prende le
mosse dall’art. 13, del d.l. 24.06.2014, n. 90, conv. in
l. n. 114/2014, con il quale sono stati abrogati i commi 5 e
6 dell’art. 92.
Il successivo articolo 13-bis, rubricato “Fondi per la
progettazione e l'innovazione”, ha aggiunto all’art. 93, del
d.lgs. n. 163/2006, una serie di commi fra cui il comma
7-bis, che, nell’istituire un apposito fondo per la
progettazione e l’innovazione, demanda ad un regolamento
dell’ente la determinazione della percentuale effettiva
delle risorse (non superiori al 2 per cento degli importi
posti a base di gara di un’opera o di un lavoro) da
destinare alle predette finalità.
Le risorse così determinate possono essere devolute, in
forza di quanto disposto dal successivo comma 7-ter,
per
l’80 per cento ai compensi incentivanti da suddividere tra
il responsabile del procedimento e gli incaricati della
redazione del progetto, del piano della sicurezza, della
direzione lavori, del collaudo, nonché tra i loro
collaboratori. Il restante 20 per cento è destinato, dal
comma 7-quater all’acquisto da parte dell’ente di beni,
strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di
innovazione, di implementazione di banche dati per il
controllo ed il miglioramento della capacità di spesa per
centri di costo nonché all’ammodernamento ed
all’accrescimento dell’efficienza dell’ente e dei servizi ai
cittadini.
Il secondo periodo del comma 7-ter dell’articolo 93 d.lgs.
n. 163/2006 demanda al potere regolamentare di ciascun ente
la definizione dei “criteri di riparto delle risorse del
fondo, tenendo conto delle responsabilità connesse alle
specifiche prestazioni da svolgere, con particolare
riferimento a quelle effettivamente assunte e non rientranti
nella qualifica funzionale ricoperta, della complessità
delle opere, escludendo le attività manutentive, e
dell’effettivo rispetto, in fase di realizzazione
dell’opera, dei tempi e dei costi previsti dal quadro
economico del progetto esecutivo”.
Tale regolamento, nel quale trova necessario presupposto
l’erogazione degli emolumenti in questione, ha rappresentato
da sempre un passaggio fondamentale per la regolazione
interna della materia, nel rispetto dei principi e canoni
stabiliti dalla legge, e per tale motivo gli enti sono
tenuti ad adeguarlo tempestivamente alle novità normative
medio tempore intervenute.
Analogo adempimento, pertanto (previa definizione dei nuovi
criteri in sede di contrattazione decentrata integrativa),
si renderà necessario anche a seguito dell’entrata in vigore
del nuovo Codice dei contratti pubblici, approvato con
decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, in attuazione
delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE del
Parlamento europeo e del Consiglio del 26.02.2014.
In linea con quanto previsto dai criteri di delega (art. 1,
comma 1, lett. rr) contenuti nella legge 28.01.2016, n.
11, la nuova normativa, sostitutiva della precedente,
abolisce gli incentivi alla progettazione previsti dal
previgente art. 93, comma 7-ter ed introduce, all’art. 113,
nuove forme di “incentivazione per funzioni tecniche”.
Disposizione, quest’ultima, rinvenibile al Tit. IV del
d.lgs. n. 50/2016 rubricato “Esecuzione”, che
disciplina gli
incentivi per funzioni tecniche svolte da dipendenti
esclusivamente per le attività di programmazione della spesa
per investimenti e per la verifica preventiva dei progetti
e, più in generale, per le attività tecnico-burocratiche,
prima non incentivate, tese ad assicurare l’efficacia della
spesa e la realizzazione corretta dell’opera.
Queste nuove disposizioni, tuttavia, sulla base
dell’articolata disciplina transitoria contenuta negli
articoli 216 e 217, troveranno applicazione per le sole
attività poste in essere successivamente alla data di
entrata in vigore, ossia il 19.04.2016.
Non risultando applicabili ratione temporis le disposizioni
appena richiamate, è evidente che le questioni all’odierno
esame dovranno essere risolte sulla base del previgente
regime normativo, ossia dell’art. 93 del d.lgs. n. 163/2006
come modificato dal dl n. 90/2014, in costanza del quale
sono state poste in essere le attività in ipotesi
incentivabili.
Delineato il quadro normativo di riferimento, non appare
secondario osservare che il legislatore, con l’art. 93,
commi 7-bis e seguenti, ha modificato profondamente la
disciplina dell’istituto degli incentivi alla progettazione,
ridefinendone l’ambito di operatività sotto il profilo
soggettivo, limitandolo alle figure professionali
espressamente individuate dalle norme (responsabile del
procedimento ed incaricati della redazione del progetto, del
piano della sicurezza, della direzione dei lavori e del
collaudo e loro “collaboratori”) con esclusione di quelle
aventi qualifica dirigenziale che,
come già in diverse occasioni precisato anche da questa
Sezione (cfr. da ultimo
deliberazione 23.03.2016 n. 10),
sono state espunte
dall’applicazione del fondo per la progettazione in forza
dell’art. 7-ter (ultimo periodo).
Inoltre, la corresponsione dell’incentivo, in ossequio al
principio di effettività, sancito dall’art. 7, comma 5, del
d.lgs. n. 165/2001, è prevista a vantaggio esclusivo dei
soggetti che abbiano effettivamente svolto prestazioni
incentivabili non rientranti nelle competenze della
“qualifica funzionale ricoperta”, al fine di
riconoscere,
come già evidenziato nella sopra citata
deliberazione 23.03.2016 n. 10,
un differenziale retributivo connesso al maggior
carico di lavoro e di responsabilità assunto dai dipendenti
coinvolti, nei limiti indicati dalla norma, nell’attività di
progettazione.
Sotto il profilo oggettivo, la novità rilevante della
disciplina introdotta dal d.l. n. 90/2014 è rappresentata dal
fatto che le risorse non sono più assegnate in riferimento
alla singola opera, in quanto non vi è più lo stretto
collegamento, prima esistente, fra opera e compenso, tale da
determinare una corrispondenza diretta fra attività svolta e
diritto alla percezione dell’incentivo, ma esse confluiscono
in un fondo, denominato, ai sensi del comma 7-bis, per la
progettazione e l’innovazione. In tal modo, viene meno la sinallagmaticità della prestazione oggetto di
incentivazione, che caratterizza, invece, l’affidamento
dell’incarico a professionisti esterni all’amministrazione,
nei limiti ed alle condizioni di cui al citato art. 90, comma
6, del citato d.lgs. n. 163/2006.
Premesso quanto sopra, è utile ricordare che,
almeno nel
regime antecedente all’entrata in vigore del d.lgs. n.
163/2006, l’orientamento interpretativo prevalente, anche
per via della formulazione originaria dell’articolo 18 della
legge n. 109/1994 (c.d. legge “Merloni”), poneva in stretto
collegamento l’erogazione degli incentivi in questione con
il necessario svolgimento, all’interno dell’ente,
dell’attività di progettazione.
La successiva evoluzione normativa, tuttavia, sembra aver
superato questa impostazione, posto che l’art. 93, comma
7-ter, ha previsto che le quote del fondo incentivante
corrispondenti a prestazioni non svolte dai dipendenti, ma
affidate a personale esterno all'organico
dell'amministrazione, costituiscono necessariamente economie
di spesa.
Dall’analisi della richiamata disposizione, sembra potersi
evincere che l’attività del RUP, ove svolta tramite
personale dipendente –come previsto dall’art. 9, del D.P.R.
n. 207/2010–
sia incentivabile a prescindere dallo
svolgimento o meno all’interno dell’ente dell’intera
attività di progettazione e delle restanti attività
contemplate.
Le rilevanti funzioni intestate al responsabile unico
nell’ambito della gestione delle varie fasi procedimentali,
del contraddittorio con le parti private e del coordinamento
con gli uffici interni ed esterni, rimangono, infatti,
sostanzialmente invariate, al pari delle correlate
responsabilità, anche nell’ipotesi di esternalizzazione
delle altre attività previste dall’art. 93 del d.lgs.
163/2006, in cui permane, comunque, l’obbligo
dell’amministrazione di dotarsi di tale figura nell’ambito
del proprio organico.
Come già osservato da una parte della giurisprudenza
contabile (Sez. contr. Lombardia,
parere 01.10.2014 n. 247;
Sez. contr. Piemonte,
parere 20.01.2015 n. 17), la
normativa vigente non richiede, ai fini della legittima
erogazione dell’incentivo, il necessario espletamento
interno di tutta l’attività progettuale quanto, semmai, una
previsione regolamentare che ripartisca gli incentivi in
maniera conforme alle responsabilità attribuite e devolva in
economia la quota relativa agli incarichi conferiti a
professionisti esterni.
Dalla sintetica ricostruzione normativa proposta, appare
chiaro come le disposizioni, introdotte dal d.l. n. 90/2014
e dalla relativa legge di conversione, mirassero fra l’altro
ad un obiettivo di razionalizzazione e di contenimento della
spesa, anche attraverso la subordinazione dell’erogazione
dell’incentivo al rispetto di alcuni parametri collegati ai
tempi ed ai costi previsti inizialmente nel quadro economico
del progetto esecutivo dell’opera, il cui mancato rispetto,
ai sensi della predetta disciplina, può dar luogo anche alla
riduzione delle risorse destinate al fondo per la
progettazione e l’innovazione.
2. La seconda questione sollevata dalla Sezione regionale di
controllo per l’Abruzzo, è volta, come si è detto, ad
accertare se la nozione di “collaboratori”, prevista dal
comma 7-ter dell’art. 93 del d.lgs. n. 163/2006, faccia
riferimento solamente a quelli con professionalità tecnica,
ovvero possa essere estesa anche al personale addetto ad
altre attività amministrative, comunque connesse alla
realizzazione dei lavori. A titolo esemplificativo, sono
state in precedenza citate le procedure di esproprio, le
attività relative agli accatastamenti e ai frazionamenti, le
procedure di gara, ovvero di predisposizione dei contratti
di appalto e di provvedimenti afferenti ai lavori.
A questo riguardo, deve preliminarmente osservarsi che
la
nozione di “collaboratore”, almeno in astratto, è priva di
un’autonoma portata qualificatrice, in quanto assume
connotazioni di volta in volta mutevoli a seconda
dell‘attività incentivata cui accede.
Ed invero,
se la progettazione, la direzione dei lavori e il
collaudo sembrano far riferimento ad attività di natura
prevalentemente tecnica, non altrettanto può dirsi con
riferimento all’attività del Responsabile del procedimento,
in considerazione della molteplicità -ed eterogeneità-
delle funzioni che quest’ultimo è chiamato ex lege (articoli
9 e 10 DPR n. 207/2010) a svolgere.
I collaboratori di quest’ultimo, pertanto, si ritiene che
possano essere in possesso anche di profili professionali
non tecnici, purché necessari ai compiti da svolgere, e
sempre che il regolamento interno all’ente ripartisca gli
incentivi in modo razionale, equilibrato e proporzionato
alle responsabilità attribuite.
Muovendo da questo presupposto, l’accezione di
“collaboratore”, ai fini della ripartizione degli incentivi,
non può essere aprioristicamente delimitata in relazione al
bagaglio professionale –tecnico od amministrativo–
posseduto, ma deve necessariamente porsi in stretta
correlazione funzionale e teleologica rispetto alle attività
da compiere.
In questo senso, particolare rilevanza assume, nel caso del
RUP, il provvedimento di istituzione, ai sensi dell’art. 10
del DPR n. 207/2010, dell’ufficio di supporto, che, in
relazione alle peculiarità dell’opera da eseguire, individua
le figure professionali all’uopo necessarie, al fine di
realizzare l’opera a regola d’arte e nel rispetto dei tempi
e dei costi preventivati.
La regolamentazione interna degli enti, cui è demandata la
disciplina attuativa, dovrà correttamente delimitare la
portata definitoria del termine “collaboratori”, evitando
uno sproporzionato ampliamento, in sede di corresponsione
dell’incentivo, della platea dei beneficiari, che, magari
ispirata a finalità perequative del trattamento economico
accessorio, risulterebbe poco coerente con le reali
necessità funzionali e, più in generale, con la logica di
sistema.
3. La terza questione sollevata dalla Sezione regionale di
controllo per il Veneto relativa alla possibilità di
riconoscere gli incentivi al personale di cui al comma
7-ter, anche nel caso di progettazione affidata a soggetti
esterni alla stazione appaltante e dagli stessi realizzata.
A questo riguardo, sulla base della ricostruzione effettuata
in precedenza, è possibile ritenere che l’erogazione
dell’incentivo alla progettazione alle figure professionali
tassativamente elencate (responsabile del procedimento,
incaricati della redazione del progetto, del piano della
sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, e loro
collaboratori) non presupponga il necessario espletamento
all’interno dell’intera attività di progettazione. Ciò
purché le figure professionali destinatarie degli incentivi,
ripartiti in maniera conforme alle responsabilità loro
attribuite, siano solo quelle elencate dal legislatore e le
quote relative ai segmenti di attività svolte da
professionisti esterni siano devolute in economia.
Nel rispetto dei limiti quantitativi stabiliti dal
menzionato comma 7-ter è demandata a ciascun ente la
prudente definizione dei criteri di riparto delle risorse
del fondo, tenendo conto delle responsabilità connesse alle
specifiche prestazioni da svolgere, (con particolare
riferimento a quelle effettivamente assunte e non rientranti
nella “qualifica funzionale” ricoperta), della
complessità delle opere (di carattere non manutentivo cfr.
deliberazione 23.03.2016 n. 10) e dell’effettivo rispetto, in fase di
realizzazione dell’opera, dei tempi e dei costi
preventivati, con conseguente riduzione proporzionale delle
risorse incentivanti in caso di mancato rispetto.
In questa prospettiva, le amministrazioni sono, comunque,
tenute a prevedere nei propri regolamenti, in modo
analitico, una gradazione delle percentuali spettanti per
ogni incarico espletabile dal sopraindicato personale sulla
base dei criteri di proporzionalità, logicità, congruenza e
ragionevolezza, e, in ogni caso, in maniera tale da
permettere, nel caso in cui alcune prestazioni siano state
affidate a professionisti esterni, una partecipazione delle
altre figure professionali interne percentualmente
contenuta, che non svilisca la finalità di contenimento
della spesa perseguita dalle disposizioni in commento.
A questo riguardo, deve evidenziarsi che, pur
nell’evoluzione normativa dinanzi analizzata, non sembra
essere venuto meno il favor legislatoris per l’affidamento
di tali attività alle professionalità interne alla stessa
amministrazione, in un’ottica di valorizzazione delle figure
professionali in servizio e, al contempo, di risparmio.
Tali obiettivi, tuttavia, vanno conseguiti evitando
eventuali aggravi di spesa derivanti non solo dal mancato
rispetto di tempi e costi preventivati, ma anche da
un’esecuzione dell’opera non a regola d’arte o non in linea
con gli standard qualitativi previsti nel progetto
approvato.
Conclusivamente, appare doveroso sottolineare che la
soluzione delle questioni poste non può che rimanere
definita in un ambito di stretto principio, non potendo la
Corte in questa sede addentrarsi in aspetti di dettaglio
della disciplina, che attengono, come sopra precisato, alla
potestà regolamentare riconosciuta in capo agli enti locali.
Ciò anche in considerazione di quanto precisato nella
delibera n. 3/2014/QMIG in merito al fatto che “ausilio
consultivo per quanto possibile deve essere reso senza che
esso costituisca un’interferenza con le funzioni requirenti
e giurisdizionali e ponendo attenzione ad evitare che di
fatto si traduca in un’intrusione nei processi decisionali
degli enti territoriali”.
P.Q.M.
La Sezione delle autonomie della Corte dei conti, riunite le
questioni di massima rimesse dalle Sezioni regionali di
controllo per l’Abruzzo e per il Veneto con la
deliberazione 22.12.2015 n. 358
e
deliberazione 04.03.2016 n. 123, pronuncia i seguenti
principi di diritto:
●
“Il riconoscimento dell’incentivo alla
progettazione di cui all’art. 93, comma 7-ter, del d.lgs. n.
163/2006 in favore del responsabile unico del procedimento
non presuppone necessariamente che l’intera attività di
progettazione sia svolta all’interno dell’ente”.
●
“La nozione di “collaboratori” di cui al
comma 7-ter dell’art. 93 del d.lgs. n. 163/2006 fa
riferimento alle professionalità –di norma tecniche-
all’uopo individuate in sede di costituzione dell’apposito
staff, le quali devono porsi in stretta correlazione
funzionale e teleologica rispetto alle attività da compiere
per la realizzazione dell’opera a regola d’arte e nei
termini preventivati.”
●
“Gli incentivi previsti e
disciplinati dai commi 7-bis, 7-ter e 7-quater del d.lgs. n.
163 del 12.04.2006 possono essere riconosciuti ed
erogati in favore delle figure professionali interne
esplicitamente individuate dalla norma che svolgano le
attività tecniche ivi previste, anche in presenza di
progettazione affidata non integralmente a soggetti estranei
ai ruoli della stazione appaltante e dagli stessi realizzata”
(Corte di Conti, Sez. Autonomie,
deliberazione 13.05.2016 n. 18). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Qualora
non sia rispettato il termine di 90 giorni stabilito
dall’art. 167, comma 5, del Codice per il paesaggio, il
potere dell’Amministrazione continua a sussistere (tanto che
un suo parere tardivo resta comunque disciplinato dal
medesimo comma 5), ma l’interessato può proporre ricorso al
giudice amministrativo, per contestare l’illegittimo
silenzio-inadempimento dell’organo statale: la perentorietà
del termine riguarda non la sussistenza del potere, ma
l’obbligo di concludere la fase del procedimento (obbligo
che, se rimasto inadempiuto, può essere dichiarato
sussistente dal giudice, con le relative conseguenze sulle
spese del giudizio derivato dall’inerzia del funzionario).
Infatti, nel caso di superamento del medesimo termine (e
così come avviene nel caso di superamento del termine di
centottanta giorni, fissato dal medesimo art. 167, comma 5,
per la conclusione del procedimento, nonché nel caso di
superamento di quello di quarantacinque giorni, fissato
dall’art. 146, comma 5), il Codice non ha determinato né la
perdita del relativo potere, né alcuna ipotesi di silenzio
qualificato o significativo.
Pertanto, il superamento del sopra richiamato termine di
novanta giorni:
- consente all’interessato di proporre il ricorso previsto
dall’art. 117 del codice del processo amministrativo (così
come in linea di principio ha ritenuto la sentenza di primo
grado);
- non rende illegittimo in quanto tale il parere tardivo;
- comporta che comunque il provvedimento conclusivo del
procedimento deve attenersi al parere vincolante, sia pure
emesso dopo il superamento del termine fissato dal
richiamato art. 167, comma 5.
---------------
Condivide, infatti, la Sezione i principi affermati dal
primo giudice che richiamano la giurisprudenza della Sesta
Sezione del Consiglio di Stato.
L’art. 167 del d.lgs. n 42 del 2004, al comma 5, dispone che
“il proprietario, possessore o detentore a qualsiasi
titolo dell’immobile o dell’area interessati dagli
interventi di cui al comma 4 presenta apposita domanda
all’autorità preposta alla gestione del vicolo ai fini
dell’accertamento della compatibilità paesaggistica degli
interventi medesimi. L’autorità competente si pronuncia
sulla domanda entro il termine perentorio di centottanta
giorni, previo parere vincolante della Soprintendenza da
rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni […]”.
Ritiene innanzitutto il Collegio che, qualora non sia
rispettato il termine di novanta giorni stabilito dall’art.
167, comma 5, del Codice per il paesaggio, il potere
dell’Amministrazione continua a sussistere (tanto che un suo
parere tardivo resta comunque disciplinato dal medesimo
comma 5), ma l’interessato può proporre ricorso al giudice
amministrativo, per contestare l’illegittimo
silenzio-inadempimento dell’organo statale: la perentorietà
del termine riguarda non la sussistenza del potere, ma
l’obbligo di concludere la fase del procedimento (obbligo
che, se rimasto inadempiuto, può essere dichiarato
sussistente dal giudice, con le relative conseguenze sulle
spese del giudizio derivato dall’inerzia del funzionario).
Infatti, nel caso di superamento del medesimo termine (e
così come avviene nel caso di superamento del termine di
centottanta giorni, fissato dal medesimo art. 167, comma 5,
per la conclusione del procedimento, nonché nel caso di
superamento di quello di quarantacinque giorni, fissato
dall’art. 146, comma 5), il Codice non ha determinato né la
perdita del relativo potere, né alcuna ipotesi di silenzio
qualificato o significativo.
Pertanto, il superamento del sopra richiamato termine di
novanta giorni:
- consente all’interessato di proporre il ricorso previsto
dall’art. 117 del codice del processo amministrativo (così
come in linea di principio ha ritenuto la sentenza di primo
grado);
- non rende illegittimo in quanto tale il parere tardivo;
- comporta che comunque il provvedimento conclusivo del
procedimento deve attenersi al parere vincolante, sia pure
emesso dopo il superamento del termine fissato dal
richiamato art. 167, comma 5 (cfr. Cons. Stato, Sez. VI,
18.09.2013, n. 4656)
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 26.04.2016 n. 1613 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: I
box prefabbricati sono riconducibili alla nozione di “volume
tecnico” trattandosi di opere prive di una qualsivoglia
autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché
destinata a solo contenere, senza possibilità di alternative
e comunque per una consistenza volumetrica del tutto
contenuta, impianti serventi di una costruzione principale
per essenziali esigenze tecnico-funzionali della medesima:
come tali non generano alcun aumento di carico territoriale
o di impatto visivo.
La realizzazione di questi piccoli box non costituisce
quindi elemento ostativo al rilascio dell’autorizzazione
paesistica postuma.
---------------
6. - Con il quarto
motivo di appello l’appellante ha reiterato le censure
assorbite del primo giudice.
6.1 - Ha quindi riproposto la censura di violazione
dell’art. 167, comma 4, lett. a), del D.Lgs. 42/2004,
sottolineando come l’accertamento di compatibilità
paesaggistica postuma sia possibile “per i lavori
realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione
paesaggistica che non abbiano determinato creazione di
superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli
legittimamente realizzati”, rilevando che nel caso di
specie, invece, vi sarebbe stata la realizzazione di volumi
consistenti in box prefabbricati.
6.2 - La censura è infondata.
Occorre preventivamente rilevare che i box prefabbricati
sono riconducibili alla nozione di “volume tecnico”
trattandosi di opere prive di una qualsivoglia autonomia
funzionale, anche solo potenziale, perché destinata a solo
contenere, senza possibilità di alternative e comunque per
una consistenza volumetrica del tutto contenuta, impianti
serventi di una costruzione principale per essenziali
esigenze tecnico-funzionali della medesima: come tali non
generano alcun aumento di carico territoriale o di impatto
visivo (cfr. Cons. Stato Sez. VI, Sent., 31/03/2014, n.
1512).
La realizzazione di questi piccoli box non costituisce
quindi elemento ostativo al rilascio dell’autorizzazione
paesistica postuma
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 26.04.2016 n. 1613 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Dal
mancato rispetto del termine previsto dall’art. 167, comma
5, d.lgs. 42/2004 per il rilascio del parere obbligatorio e
vincolante non matura alcuna decadenza del potere della
Soprintendenza.
S’è convincentemente affermato che la perentorietà del
termine non riguarda affatto la sussistenza del potere bensì
l’obbligo di concludere la fase del procedimento.
A corollario: il parere tardivo non è ex se illegittimo
tant’è che il provvedimento conclusivo del procedimento deve
comunque attenersi al parere ancorché emesso dopo che è
spirato il termine di cui al 5° comma dell’art. 167 d.lgs.
cit.
---------------
Costituisce orientamento giurisprudenziale, da cui non
sussistono giustificati motivi per qui discostarsi, che dal
mancato rispetto del termine, previsto dall’art. 167, comma
5, d.lgs. 42 del 2004 per il rilascio del parere, non maturi
alcuna decadenza del potere della Soprintendenza.
S’è convincentemente affermato che la perentorietà del
termine non riguarda affatto la sussistenza del potere bensì
l’obbligo di concludere la fase del procedimento.
A corollario: il parere tardivo non è ex se
illegittimo tant’è che il provvedimento conclusivo del
procedimento deve comunque attenersi al parere ancorché
emesso dopo che è spirato il termine di cui al 5° comma
dell’art. 167 d.lgs. cit. (cfr, ex multis, Cons. St.,
sez. VI, 18.09.2013 n. 4656; Tar Puglia, Lecce, sez. I,
12.07.2013 n. 1681)
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 05.05.2014 n. 695 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
APPALTI:
Oggetto: Nuovo Codice dei contratti pubblici – Analisi
ANCE delle novità di rilievo
(ANCE di Bergamo,
circolare 06.05.2016 n. 112). |
INCARICHI PROGETTUALI:
Oggetto: Formazione - Linee di indirizzo n. 4
(Consiglio Nazionale degli Ingegneri,
circolare 29.04.2016 n. 722). |
PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI:
OGGETTO: riconoscimento diritti di rogito al vice
segretario (MEF-RGS,
nota 25.03.2016 n.
26297 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
Chiarimenti sulle procedure di deroga
(Ministero dell'Interno, Dipartimento dei Vigili del Fuoco,
nota 16.03.2016 n. 3272 di prot.). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
PATRIMONIO:
B.U.R. Lombardia,
serie ordinaria n. 19 del 12.05.2016,
"POR FESR 2014-20: Asse IV, Azione IV.4.C.1.1 – Fondo
regionale per l’efficienza energetica (FREE): bando per la
concessione di agevolazioni finalizzate alla
ristrutturazione energetica degli edifici pubblici" (deliberazione
G.R. 09.05.2016 n. 5146). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 19 del 09.05.2016, "Pubblicazione
ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale
21.01.2000, n. 1, dei nominativi e degli estremi dei
provvedimenti di riconoscimento di Tecnico Competente in
Acustica Ambientale alla data del 30.04.2016, in attuazione
dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447
e della deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato
regionale 03.05.2016 n. 74). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 18 del 06.05.2016, "Approvazione
degli strumenti attuativi del programma regionale di
gestione dei rifiuti – Linee guida per la stesura di
regolamenti comunali di gestione dei rifiuti urbani e
assimilazione rifiuti speciali" (deliberazione
G.R. 29.04.2016 n. 5105). |
ENTI LOCALI - VARI: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 18 del 06.05.2016, "Approvazione
del bando per la diffusione dei sistemi di accumulo di
energia elettrica da impianti fotovoltaici in attuazione
della d.g.r. n. 4769 del 28.01.2016" (decreto
D.U.O. 03.05.2016 n. 3821). |
ENTI LOCALI -
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, supplemento n. 18 del 03.05.2016, "Disposizioni
in materia di commercio su aree pubbliche. Modifiche alla
legge regionale 2 febbraio 2010, n. 6 (Testo unico delle
leggi regionali in materia di commercio e fiere)" (L.R.
29.04.2016 n. 10). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, supplemento n. 18 del 03.05.2016, "Legge
regionale 25.03.2016 - n. 7: «Modifiche alla legge regionale
09.12.2008, n. 31 (Testo unico delle leggi regionali in
materia di agricoltura, foreste, pesca e sviluppo rurale) e
alla legge regionale 16.08.1993, n. 26 (Norme per la
protezione della fauna selvatica e per la tutela
dell’equilibrio ambientale e disciplina dell’attività
venatoria) conseguenti alle disposizioni della legge
regionale 08.07.2015, n. 19 e della legge regionale
12.10.2015, n. 32 e contestuali modifiche agli articoli 2 e
5 della l.r. 19/2015 e all’articolo 3 della l.r. 32/2015»
pubblicata sul BURL suppl. n. 13 del 29.03.2016" (avviso
di rettifica). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA PRIVATA:
F. Grazziotto,
IL GIUDICE PENALE PUÒ
ORDINARE LA DEMOLIZIONE DI OPERE ILLEGITTIME ANCHE SENZA
CONDANNA.
Il giudice penale può ordinare la demolizione di opere
illegittime anche senza condanna. Nei casi in cui il reato
si prescrive, il giudice penale deve dichiarare estinto il
reato, ma può disporre la demolizione o la confisca anche in
assenza di una condanna penale
(13.05.2016 - tratto da www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Consumo di suolo, via libera dalla Camera al disegno di
legge per il contenimento e riuso.
I proventi dei titoli abilitativi edilizi e delle sanzioni
previste dal testo unico dell’edilizia saranno vincolati
alle opere di urbanizzazione, agli interventi di
riqualificazione e rigenerazione urbana, alla demolizione
dei manufatti abusivi e al verde pubblico (...continua) (12.05.2016
- link a www.casaeclima.com). |
APPALTI:
Codice Appalti: le novità per il Mercato Elettronico della
Pubblica Amministrazione. Gli impatti del nuovo Codice su
MePA e Sistema dinamico di acquisizione (12.05.2016
- link a
www.casaeclima.com). |
LAVORI PUBBLICI:
SOA, nuove regole con la Legge europea 2015 e con il nuovo
Codice appalti. Eliminato l’obbligo per le Società Organismi
di Attestazione di avere la sede legale in Italia
(10.05.2016 - link a
www.casaeclima.com). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI:
Difetti costruttivi, la responsabilità sussiste se incidono
sul godimento dell'immobile. Dall'Ance una rassegna della
giurisprudenza di merito (09.05.2016 -
link a www.casaeclima.com). |
APPALTI: R.
De Nictolis,
Il nuovo codice dei contratti pubblici
(28.04.2016 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Codice dei contratti: contenuti della motivazione nelle
procedure negoziate (26.04.2016 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Niente abuso edilizio senza cemento armato o acciaio
(26.04.2016 -
link a www.laleggepertutti.it). |
APPALTI:
Sparisce dal codice dei contratti il rinnovo disposto in via
autonoma col bando (25.04.2016 -
link a http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI:
Tipologie di contratti (24.04.2016 - link
a http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI SERVIZI:
Servizi legali: il nuovo codice dei contratti chiarisce che
sono appalti – no intuitu personae (05.03.2016
- link a http://luigioliveri.blogspot.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Abuso edilizio: la prescrizione e l’ordine di demolizione
(16.12.2015 - link a www.laleggepertutti.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Abuso edilizio: quando si prescrive? (09.07.2015
- link a
www.laleggepertutti.it). |
A.N.AC. (già
AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI) |
PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI:
Linee guida aventi ad oggetto il procedimento di
accertamento delle inconferibilità e delle incompatibilità
degli incarichi amministrativi da parte del responsabile
della prevenzione della corruzione.
Attività di vigilanza e poteri di accertamento dell’A.N.AC.
in caso di incarichi inconferibili e incompatibili (13.05.2016
- link a www.anticorruzione.it).
----------------
Con le linee guida contenute nel documento oggetto di
consultazione, l’Autorità intende fornire indicazioni volte
a orientare gli RPC nel procedimento di accertamento delle
inconferibilità e delle incompatibilità di cui al d.lgs. n.
39/2013.
In particolare viene affrontato il tema dell’attività di
verifica del RPC sulle dichiarazioni concernenti la
insussistenza di cause di inconferibilità o incompatibilità
e dell’attività di vigilanza e poteri di accertamento dell’Anac
in caso di incarichi inconferibili e incompatibili.
Al fine di consentire la massima partecipazione all’adozione
delle Linee guida, con la consultazione l’Autorità intende
acquisire da parte di tutti i soggetti interessati ogni
osservazione ed elemento utile per la elaborazione del
documento definitivo.
Eventuali contributi potranno essere inviati entro le ore
24.00 del 25.05.2016 mediante compilazione dell’apposito
modello. |
APPALTI:
Oggetto: Indicazioni operative alle stazioni appaltanti e
agli operatori economici a seguito dell’entrata in vigore
del Codice dei Contratti Pubblici, d.lgs. n. 50 del
18.04.2016 (comunicato
del Presidente del 11.05.2016 - link a
www.anticorruzione.it).
---------------
Pubblicato il Comunicato del Presidente dell’11.05.2016
con il quale, a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. n.
50/2016, si forniscono chiarimenti in relazione alla
normativa da applicare per alcune procedure di affidamento
disciplinate dall’abrogato d.lgs. 163/2006, all’operatività
di alcune norme introdotte dal d.lgs. 50/2016 e al periodo
transitorio relativo al passaggio dal vecchio al nuovo
Codice. |
APPALTI:
Oggetto: Deliberazione n. 157 del 17.02.2016 – Regime
transitorio dell’utilizzo del sistema AVCpass
(comunicato
del Presidente 04.05.2016 - link a
www.anticorruzione.it). |
APPALTI:
Indicazioni sul regime transitorio nel nuovo Codice degli
appalti e delle concessioni.
In relazione al regime transitorio del d.lgs. 18.04.2016 n.
50 delineato, in particolare, dagli articoli 216, comma 1 e
220, anche a seguito di numerose richieste di chiarimenti
avanzate da Stazioni appaltanti, era stato adottato,
congiuntamente al Ministero delle Infrastrutture e dei
Trasporti, il
comunicato 22.04.2016 che precisava che il codice
doveva ritenersi entrato in vigore il 19 aprile e, quindi,
applicabile ai bandi pubblicati a partire da quella data.
Numerose stazioni appaltanti hanno, però, successivamente
evidenziato come il Codice fosse stato pubblicato, nella
versione on-line della Gazzetta Ufficiale (n. 91) del
19.04.2016, dopo le 22.00 e, quindi, solo da quel momento
reso pubblicamente conoscibile.
Nell’esprimersi su tali ulteriori richieste di parere,
l’Autorità, sentita anche l’Avvocatura generale dello Stato,
ha considerato che tale accertata evenienza imponga, in base
al principio generale di cui all’art. 11 delle preleggi al
codice civile ed all’esigenza di tutela della buona fede
delle stazioni appaltanti, una diversa soluzione equitativa
con riferimento ai soli bandi o avvisi pubblicati nella
giornata del 19 aprile.
Per essi, in particolare, continua ad operare il pregresso
regime giuridico, mentre le disposizioni
del d.lgs. 50/2016 riguarderanno i bandi e gli avvisi
pubblicati a decorrere dal 20.04.2016
(03.05.2016 - link a www.anticorruzione.it). |
APPALTI: Almeno due offerte a confronto. Comparazione su affidamenti
diretti fino a 40 mila. APPALTI/ L'Anac ha reso disponibili le linee guida
sull'applicazione della riforma.
Affidamenti diretti fino a 40 mila euro ma con almeno due
offerte da comparare; corrispettivi per le progettazioni
obbligatori; commissari di gara scelti dall'albo Anac anche
sopra il milione di euro di euro; fatturati triennali per le
gare di servizi tecnici; ripresi i contenuti del dpr
207/2010 per l'aggiudicazione con il criterio dell'offerta
economicamente più vantaggiosa; gli ordini professionali e
le università forniranno gli elenchi dei commissari di gara
da iscrivere nell'albo Anac.
Sono queste alcune delle
indicazioni fornite dall'Autorità nazionale anticorruzione
con le
sette linee guida emesse dall'Autorità nazionale
anticorruzione (pubblicate il 28.04.2016) e concernenti la disciplina del direttore dei
lavori e del direttore dell'esecuzione (accorpate in un solo
documento), del responsabile unico del procedimento, dei
contratti sotto soglia Ue, dell'offerta economicamente più
vantaggiosa; dei criteri di scelta dei commissari di gara e
di iscrizione degli esperti nell'Albo nazionale obbligatorio
dei componenti delle commissioni giudicatrici, nonché dei
servizi di ingegneria e architettura.
Osservazioni,
formulazioni alternative o integrative delle bozze, potranno
essere inviate fino al 16.05.2016 mediante compilazione
di un apposito modello messo a disposizione sul sito Anac.
Va precisato che ancora non è del tutto chiaro il grado di
vincolatività di queste linee guida, visto che solo per due
dei sette documenti (direttore dei lavori e direttore
dell'esecuzione) si parla di adozione con decreto
ministeriale. Per le altre linee guida si tratterebbe di
atti che è l'Anac a emanare direttamente, ai sensi dell'art.
213, comma 2, e che sembrano quindi avere carattere di mero
indirizzo per le stazioni appaltanti.
Per la disciplina dei contratti sotto soglia Ue, l'Anac
precisa, fra le diverse cose, che «in ragione del richiamo
al principio di trasparenza e di pubblicità, la determina a
contrarre (che contiene anche i criteri di selezione degli
invitati) è pubblicata anche nelle procedure negoziate di
importo inferiore alla soglia di rilevanza europea». Viene
inoltre chiarito come debba essere applicato il criterio
della rotazione: bisognerà «favorire la distribuzione
temporale delle opportunità di aggiudicazione tra tutti gli
operatori potenzialmente idonei, evitando il consolidarsi di
rapporti esclusivi con determinati operatori economici».
Per
gli affidamenti diretti (fino a 40 mila) si suggerisce di
acquisire almeno due offerte. Per i lavori fino a un milione
con invito a dieci imprese si sottolinea come sia «tanto più
necessaria l'individuazione di meccanismi idonei a garantire
la trasparenza della procedura e la parità di trattamento
degli operatori economici».
Per i servizi tecnici, dopo aver
chiarito che il dm 143/2013 (sui parametri per quantificare
le parcelle) è obbligatorio per le stazioni appaltanti, l'Anac
riprende la maggior parte dei contenuti della determina
4/2015, ma con alcune differenze sui requisiti: il fatturato
deve essere richiesto sui tre anni (non più 5) e non potrà
superare il doppio dell'appalto; l'organico medio annuo (per
le sole società) sarà richiesto su tre anni, ma al massimo
potrà essere quantificato in due (e non più tre) volte le
unità stimate.
Potranno essere nominati commissari di gara (l'Anac
suggerisce commissari esterni anche fra 1 e 5,2 milioni di
lavori) i professionisti abilitati da almeno cinque anni (o
dieci anni per le grandi committenze), i dipendenti delle
amministrazioni (almeno funzionari o dirigenti con 5 anni di
esperienza) e i professori universitari sempre con 5 anni di
esperienza nella materia specifica.
Le linee guida, «al fine
di evitare un onere amministrativo elevato per l'Autorità»
demandano a ordini professionali e a università il compito
di comunicare l'elenco dei candidati idonei all'iscrizione
all'albo che deve gestire l'Anac. Sull'offerta
economicamente più vantaggiosa vengono riprodotti metodi ci
attribuzione di punteggi e allegati del vecchio regolamento
del codice del 2006
(articolo ItaliaOggi del 30.04.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Appalti, ecco le linee guida Anac.
Indicazioni su commissari di gara,
progettazione e procedure informali.
Non si è fatta
attendere la bussola dell’Anticorruzione sull’applicazione
del nuovo codice degli appalti. A dieci giorni esatti
dall’entrata in vigore del decreto che ha mandato in
pensione il vecchio testo unico,
arrivano le prime
indicazioni dell’Anac.
Si parte dagli aspetti giudicati più
urgenti per consentire al mercato di funzionare in maniera
corretta, con sette linee guida in totale: procedura
negoziata, commissioni giudicatrici, direzione dei lavori e
dell’esecuzione, offerta economicamente più vantaggiosa,
servizi di progettazione e responsabile unico del
procedimento. Altre ne arriveranno nelle prossime settimane,
aggiungendo un tassello per volta al puzzle della
regolazione leggera dell’Authority.
I sette documenti sono stati approvati dal Consiglio
dell’Autorità e saranno posti subito in consultazione, per
consentire a imprese e pubbliche amministrazioni di valutare
il loro impatto. Alcuni saranno recepiti con decreto del Mit,
altri diventeranno determinazioni dell’Anticorruzione. Per
tutti c’è un denominatore comune: la volontà di incidere con
decisione sull’applicazione del Dlgs n. 50/2016. In alcuni
punti, addirittura, l’Anac forza l’interpretazione, tentando
di fare luce su diversi passaggi che, se applicati in
maniera scorretta, rischierebbero di mancare gli obiettivi
della riforma, mettendo in ombra quote rilevanti del
mercato. Senza dimenticare la necessità di ammorbidire i
molti spigoli creati da una fase transitoria troppo brusca,
come dimostra il caos relativo ai bandi pubblicati a cavallo
dell’entrata in vigore del Dlgs 50/2016.
Basta l’esempio delle commissioni giudicatrici per capire la
logica con cui si è mossa l’Autorità. Cantone non ha mai
nascosto la delusione rispetto alla scelta di limitare agli
appalti di maggiore importo (sopra la soglia Ue di 5,2
milioni per i lavori) l’obbligo di servirsi di commissari di
gara indipendenti scelti, a sorteggio, da un albo gestito
proprio dall’Anac. Con le linee guida si tenta di correggere
questa impostazione. Con due indicazioni importanti. La
prima è che il presidente della commissione deve sempre
essere scelto tra i commissari esterni. La seconda è invece
un’indicazione di opportunità che “sconsiglia” le
amministrazioni dal servirsi di commissari interni per gli
appalti di valore superiore al milione. Indicazioni arrivano
poi per la composizione degli elenchi (da realizzare con il
filtro di ordini e università) e sui requisiti necessari a
candidarsi come commissario.
Improntate al criterio di elevare al massimo l’asticella
della trasparenza sono anche le indicazioni contenute nel
capitolo dedicato agli appalti sotto la soglia europea. In
particolare quelli di importo inferiore al milione, per cui
anche il nuovo codice ha confermato la possibilità di
assegnazioni senza una gara formale, a valle di preventivi
chiesti alle imprese sulla base di una semplice base di
mercato. Anche per i micro appalti, sotto i 40mila euro,
per cui è possibile l’incarico diretto, le linee guida
chiedono di passare perlomeno dall’esame di due preventivi,
motivando le scelte.
Per gli appalti oltre questa soglia e
fino a un milione arrivano poi paletti sullo svolgimento
delle indagini di mercato, sul contenuto degli avvisi da
pubblicare per un tempo minimo di 15 giorni sul sito
dell’amministrazione. Specifiche precise sono previste anche
sul contenuto degli inviti. «Considerata l’ampiezza del
limite della soglia fino a un milione di euro», l’obiettivo
è limitare i «rischi insiti nella possibilità di affidare
tramite procedura negoziata una porzione ragguardevole
dell’intero mercato».
Passando ai servizi di progettazione, qui viene chiarita la
questione del cosiddetto “decreto parametri”, il
provvedimento che fissa gli importi da porre a base di
questo tipo di gare. Anche se il codice parla di una mera
facoltà, le linee guida vanno in direzione opposta e
ribadiscono «l’obbligo per le stazioni appaltanti di
determinare i corrispettivi per i servizi di ingegneria e
architettura applicando rigorosamente le aliquote di cui al
Dm 143/2013». Ma non solo. L’altro punto molto rilevante
riguarda la qualificazione per le gare sopra la soglia di
100mila euro. Qui si dice che il fatturato globale per
servizi di ingegneria e di architettura espletati negli
ultimi tre esercizi antecedenti la pubblicazione del bando
deve essere al «massimo pari al doppio dell’importo a base
di gara». Rispetto al passato, quindi, vengono ammorbiditi i
requisiti.
Novità di rilievo riguardano anche l’utilizzo dell’offerta
economicamente più vantaggiosa. L’Anac apre innanzitutto
alla possibilità di inserire tra i criteri di aggiudicazione
anche elementi soggettivi, come il possesso di
certificazioni di qualità. Possibile poi anche azzerare i
punteggi assegnati allo sconto sulla base d’asta,
aggiudicando le prestazioni soltanto sulla base degli
elementi qualitativi.
Quanto al responsabile unico del
procedimento, infine, l’Anac cerca di promuovere una sua
maggiore qualificazione. Così, enuncia esplicitamente la
volontà di farne un «project manager» della pubblica
amministrazione (articolo Il Sole 24 Ore del
29.04.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
CORTE DEI CONTI |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: In
relazione all'art. 61, comma 9, del DL 25.06.2008 n. 112,
convertito con modificazioni dalla Legge 133/2008, sussiste
l'obbligo di versare il 50% -del compenso pattuito- all'Ente
che autorizza il proprio dipendente ad espletare l'incarico
di collaudo in relazione a contratti pubblici di lavori,
servizi e forniture o di componente o di segretario di un
collegio arbitrale, indipendentemente dalla amministrazione
pubblica che conferisce l'incarico ovvero dalla provenienza
del finanziamento.
---------------
Il Comune di Mozzecane (VR), con richiesta pervenuta ed acquisita
al protocollo n. 3138 del 12.05.2015 di questa Sezione,
ha chiesto un parere avente ad oggetto l’interpretazione
dell’articolo 61, comma 9, del D.L. 25.06.2008 n. 112,
convertito con modificazioni dalle legge 133/2008 formulato
nei termini che seguono.
“L'art. 61, comma 9, del DL 25.06.2008 n. 112,
convertito con modificazioni dalla Legge 133/2008,
applicabile anche agli Enti Locali come ribadito dalla Corte
dei Conti - Sezioni riunite in sede di controllo con la
delibera n. 58/2010, ha introdotto l'obbligo per un
dipendente pubblico a cui viene conferito un incarico di
collaudo in relazione a contratti pubblici di lavori,
servizi e forniture o di componente o di segretario di un
collegio arbitrale di versare il 50% del compenso spettante,
destinando tale importo al finanziamento del trattamento
economico accessorio dei dirigenti. La Corte dei Conti
Sezioni delle Autonomie, con delibera n. 12 del 09.03.2015, ha chiarito che, nell'ipotesi in cui il suddetto
incarico venga conferito da una Pubblica Amministrazione
diversa da quella a cui appartiene il dipendente incaricato
che:
• la quota del compenso deve essere versata, a prescindere
dalla provenienza del finanziamento, alla Pubblica
Amministrazione in cui il dipendente, autorizzato ex art. 53
del D.lgs. 165/2001, presta servizio, al fine di consentire
che le relative somme possano confluire nei pertinenti fondi
per il finanziamento del trattamento accessorio, in
relazione alla qualifica, dirigenziale o meno, rivestita dal
dipendente;
• i destinatari della decurtazione sono tutti i dipendenti
delle Amministrazioni Pubbliche, di qualifica dirigenziale e
non, che, nel rispetto delle limitazioni e dei divieti
legislativamente imposti, svolgano una delle predette
attività, percependone il relativo compenso.
Il Comune di Mozzecane è un Ente con una popolazione poco
superiore a 7000 abitanti, privo di figure dirigenziali, con
dipendenti titolari di posizioni organizzative. Il
dipendente Responsabile dell'Area tecnica, titolare di
posizione organizzativa, è stato autorizzato, ai sensi
dell'art. 53 del D.lgs. 165/2001, a svolgere per conto di
soggetti privati e di Pubbliche Amministrazioni incarichi
retribuiti di collaudo inerenti opere pubbliche o di
interesse pubblico. Ai fini della corretta applicazione
dell'art. 61 del DL 112/2008, si chiede a codesta spettabile
Sezione di Controllo:
- se l'obbligo di versare all'Ente che autorizza il proprio
dipendente ad espletare le tipologie di incarico sopra
descritte il 50% del compenso pattuito con il dipendente
medesimo si applica solo nel caso che a conferire e a
remunerare l'incarico sia un'altra Pubblica Amministrazione
o trova applicazione anche nell'ipotesi in cui a conferire o
a remunerare tale incarico inerente opere pubbliche o di
interesse pubblico sia un soggetto diverso da una Pubblica
Amministrazione;
- se, negli Enti privi di figure dirigenziali, il compenso
versato all'Ente autorizzante deve essere utilizzato per
finanziare il trattamento accessorio riconosciuto alle
posizioni organizzative (con conseguente risparmio per
l'Ente medesimo) o possa essere destinato ad incrementare la
parte variabile del fondo produttività di tutto il personale
dipendente;
- qualora la quota del compenso possa essere utilizzata per
incrementare il fondo produttività, quale sia la corretta
classificazione di tali risorse ai sensi dell'art. 15 del
CCNL del 01/04/1999;
- se, in considerazione della natura di tale entrata, la
quota del suddetto compenso utilizzata per finanziare il
trattamento accessorio del personale dipendente dell'Ente
deve essere considerata anche ai fini del rispetto del
limite di spesa del personale”.
...
In relazione al primo quesito formulato (“se l'obbligo di
versare all'Ente che autorizza il proprio dipendente ad
espletare le tipologie di incarico sopra descritte il 50%
del compenso pattuito con il dipendente medesimo si applica
solo nel caso che a conferire e a remunerare l'incarico sia
un'altra Pubblica Amministrazione o trova applicazione anche
nell'ipotesi in cui a conferire o a remunerare tale incarico
inerente opere pubbliche o di interesse pubblico sia un
soggetto diverso da una Pubblica Amministrazione”) va
richiamata la deliberazione della Sezione delle Autonomie n.
12 del 09.03.2015, la quale ha posto il principio per cui
“la norma contenuta nel comma 9 sembra effettivamente
prevedere un ulteriore meccanismo di finanziamento del fondo
per il trattamento economico accessorio delle
amministrazioni di provenienza del personale incaricato, in
cui le risorse in questione possono essere utilizzate
secondo modalità stabilite in sede contrattuale” e che “nel
caso di incarico conferito a personale di altra
amministrazione, la quota di compenso debba essere versata,
a prescindere dalla provenienza del finanziamento,
all’amministrazione in cui il dipendente presta servizio, e
che ha autorizzato l’incarico, affinché le relative somme
possano confluire nei pertinenti fondi per il finanziamento
del trattamento accessorio, in relazione alla qualifica –dirigenziale o meno– da questo rivestita”.
L’irrilevanza della provenienza della fonte di finanziamento
del corrispettivo discende dalla lettura testuale della
disposizione: il comma 9 dell’art. 61 del D.L. 112/2008,
infatti, prevede l’obbligo di riversamento del 50% del
compenso ricevuto in ragione non della natura giuridica
(amministrazione pubblica o no) del soggetto in favore del
quale l’attività è svolta, ma dell’oggetto di quest’ultima,
e cioè “attività di componente o segretario di collegi
arbitrali” e “collaudi svolti in relazione a contratti
pubblici di lavori, servizi e forniture”
(Corte di Conti, Sez. controllo Veneto,
parere 04.05.2016 n. 266). |
PATRIMONIO:
Il contratto di permuta risulta operazione
finanziariamente neutra e, conseguentemente, non contemplata
dal divieto di cui all’art. 12, comma 1-ter, del D.L.
06.07.2011 n. 98, convertito in legge dall’art. 1, comma 1,
della L. 15.07.2011 n. 111, secondo cui: “A decorrere dal
01.01.2014 al fine di pervenire a risparmi di spesa
ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità
interno, gli enti territoriali e gli enti del Servizio
Sanitario nazionale effettuano operazioni di acquisto di
immobili solo ove ne siano comprovate documentalmente
l’indispensabilità e l’indilazionabilità attestate dal
responsabile del procedimento. La congruità del prezzo è
attestata dall’Agenzia del demanio, previo rimborso delle
spese. Delle predette operazioni è data preventiva notizia,
con l’indicazione del soggetto alienante e del prezzo
pattuito, nel sito internet istituzionale dell’ente”.
---------------
Con nota del 24.03.2016, pervenuta ed acquisita a
protocollo di questa Sezione n. 3860 in data 29.03.2016,
il Sindaco del Comune di Concordia Sagittaria (VE) ha
richiesto un parere in merito alla applicazione dell’art.
12, comma 1-ter, del D.L. 06.07.2011 n. 98, convertito in
legge dall’art. 1, comma 1, della L. 15.07.2011 n. 111,
che prevede: “A decorrere dal 01.01.2014 al fine di
pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli
previsti dal patto di stabilità interno, gli enti
territoriali e gli enti del Servizio Sanitario nazionale
effettuano operazioni di acquisto di immobili solo ove ne
siano comprovate documentalmente l’indispensabilità e l’indilazionabilità
attestate dal responsabile del procedimento. La congruità
del prezzo è attestata dall’Agenzia del demanio, previo
rimborso delle spese. Delle predette operazioni è data
preventiva notizia, con l’indicazione del soggetto alienante
e del prezzo pattuito, nel sito internet istituzionale
dell’ente”.
In particolare, viene chiesto se la permuta “pura” sia
esclusa dal campo di applicazione della norma.
...
L’ambito oggettivo di applicazione dell’art. 12, comma 1-ter,
del D.L. 98/2011 sopra riportato è stato oggetto di esame da
parte delle Sezioni Regionali di controllo della Corte
Conti, il cui indirizzo costante è orientato in ordine
all’esclusione da detto ambito della permuta c.d. “pura”,
quella, cioè, in cui non vi sono conguagli in denaro.
La non riconducibilità della citata fattispecie alla norma
de qua è stata affermata dalla Sezione regionale di
controllo per la Lombardia con la pronuncia n. 164 del 2013,
nella quale “pur consapevole che la permuta, anche ove non
preveda movimenti finanziari, è un contratto commutativo e
quindi a titolo oneroso”, la Sezione lombarda, da un lato
considerando che “dal punto di vista teleologico,
innanzitutto, occorre considerare che la disposizione in
commento novella un decreto legge recante "Disposizioni
urgenti per la stabilizzazione finanziaria", ed è inserita
nell’ambito di una legge di stabilità, la quale, ai sensi
dell’art. 11, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196
”contiene esclusivamente norme tese a realizzare effetti
finanziari”" e dall’altro che “risolvendosi nella mera
diversa allocazione delle poste patrimoniali dell’ente
afferenti a beni immobili, il contratto di permuta risulta
operazione finanziariamente neutra e, conseguentemente, non
contemplata dal richiamato divieto”, perviene alla
conclusione, anche sulla base di elementi interpretativi
letterali (il “soggetto alienante” e “il prezzo pattuito”)
che la disposizione non si applichi ai casi di permuta
“pura” (orientamento ribadito con le successive
deliberazioni n. 97/2014, 299/2014 e 21/2015).
In senso conforme si è pronunciata anche questa Sezione con
la delibera n. 280/2013, oltre ad altre Sezioni regionali di
controllo (Piemonte, n. 191/2014; Toscana n. 3/2015 tra le
altre), tutte concordi nel ritenere, alla luce della
ratio
esplicitata nello stesso testo, che la norma si applichi a
quei contratti che determinano un onere di spesa a carico
dell’ente.
Con riferimento a tale ultimo aspetto la Sezione regionale
di controllo per l’Emilia Romagna, con deliberazione n.
80/2015, aderendo all’orientamento consolidato succitato, ha
però precisato, coerentemente all’individuata ratio
normativa, che “l’applicabilità della previsione di cui al
ripetuto art. 12, comma 1-ter, del D.L. 98/2011 si deve
considerare sussistente ogni qualvolta, a seguito
dell’acquisizione, l’amministrazione pubblica sia chiamata
ad un esborso finanziario, ancorché lo stesso discenda
unicamente dalle obbligazioni tributarie che l’atto
traslativo comporta”
(Corte di Conti,
Sez. controllo Veneto,
parere
04.05.2016 n. 264). |
PATRIMONIO: I contratti
di locazione passiva in essere e gravanti su Amministrazioni
pubbliche vanno comunque soggetti a riduzione del 15% del
canone, tenendo presente che per i soli immobili di
proprietà privata adibiti a caserme è eventualmente
consentito ai Comuni di contribuire al pagamento del canone
di locazione come determinato dall'Agenzia delle entrate.
---------------
Con la nota indicata in epigrafe l’Ente ha formulato alla
Sezione una richiesta di motivato avviso con cui, dopo aver
rappresentato le circostanze di fatto e di diritto relative
alla modalità di concessione in locazione di un proprio
immobile adibito a locale caserma dei Carabinieri, ha
esposto di aver ribassato il canone di locazione del 15% in
ottemperanza al nuovo testo dell’art. 4, co. 4, D.L. n.
95/2012 (come modificato a opera dell’art. 24, co. 4, del
D.L. n. 66/2014 convertito, con modificazioni, dalla legge
23.06.2014, n. 89).
Alla luce di tali premesse, visti anche i pronunciamenti di
altre Sezioni regionali di controllo, il Comune chiede di
avere un motivato avviso sull’applicazione della riduzione
in parola al caso in cui i contraenti del contratto di
locazione siano entrambi parti pubbliche.
...
I. La problematica oggetto del quesito riguarda la
possibilità, per un Comune, di poter riportare all’importo
originariamente pattuito un canone di locazione relativo ad
un immobile comunale adibito a locale caserma dei
Carabinieri.
In particolare, il Comune ha rappresentato di aver
unilateralmente ribassato del 15% il canone di locazione,
ritenendosi obbligato all’applicazione del nuovo testo
dell’art. 3, co. 4, D.L. 95/2012 (come modificato a seguito da
parte dell’art. 24, co. 4, del D.L. 66/2014).
Per ben comprendere la problematica in esame, appare
opportuno procedere ad un preliminare esame della disciplina
applicabile e dei precedenti delle altre Sezioni regionali
di controllo.
II. La questione prospettata dal Comune di Codroipo richiede
di affrontare brevemente la recente normativa in tema di
locazioni passive da parte delle pubbliche Amministrazioni
centrali.
La normativa di riferimento è essenzialmente rappresentata
dall’art. 3, co. 4, del D.L. 95/2012, come modificato
dall'art. 24, comma 4, del D.L. 24.04.2014, n. 66
(convertito, con modificazioni, dalla legge 23.06.2014,
n. 89), secondo cui: “ai fini del contenimento della spesa
pubblica, con riferimento ai contratti di locazione passiva
aventi ad oggetto immobili a uso istituzionale stipulati
dalle Amministrazioni centrali, come individuate
dall'Istituto nazionale di statistica ai sensi dell'articolo
1, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196, nonché
dalle Autorità indipendenti ivi inclusa la Commissione
nazionale per le società e la borsa (Consob) i canoni di
locazione sono ridotti a decorrere dal 01.07.2014 della
misura del 15 per cento di quanto attualmente corrisposto. A
decorrere dalla data di entrata in vigore della legge di
conversione del presente decreto la riduzione di cui al
periodo precedente si applica comunque ai contratti di
locazione scaduti o rinnovati dopo tale data. La riduzione
del canone di locazione si inserisce automaticamente nei
contratti in corso ai sensi dell’articolo 1339 codice
civile, anche in deroga alle eventuali clausole difformi
apposte dalle parti, salvo il diritto di recesso del
locatore. Analoga riduzione si applica anche agli utilizzi
in essere in assenza di titolo alla data di entrata in
vigore del presente decreto. Il rinnovo del rapporto di
locazione è consentito solo in presenza e coesistenza delle
seguenti condizioni:
a) disponibilità delle risorse finanziarie necessarie per il
pagamento dei canoni, degli oneri e dei costi d’uso, per il
periodo di durata del contratto di locazione;
b) permanenza per le Amministrazioni dello Stato delle
esigenze allocative in relazione ai fabbisogni espressi agli
esiti dei piani di razionalizzazione di cui ai sensi
all’articolo 2, comma 222, della legge 23.12.2009, n.
191, ai piani di razionalizzazione ove già definiti, nonché
di quelli di riorganizzazione ed accorpamento delle
strutture previste dalle norme vigenti”.
La normativa di cui sopra, quindi, ha chiaramente operato
una scelta di riduzione (in misura pari al 15%) dei canoni
di locazione passiva che gravano sulle pubbliche
Amministrazioni centrali.
Analoga misura, secondo il disposto dell’art. 3, co. 7, del
D.L. 95/2012 (come modificato da parte del D.L 24.04.2014, n. 66), è da intendersi estesa, in quanto compatibile,
anche nei confronti delle altre Amministrazioni pubbliche di
cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165.
Può essere dunque utile procedere ad un esame dei precedenti
resi dalle altre Sezioni regionali di controllo su questioni
analoghe che vengono comunque ad intrecciarsi con la
specifica tematica in esame.
III. Questa Sezione si è pronunciata sulla possibilità per
l’Ente locale di contribuire ai costi di affitto con la
pronuncia n. 25/VIIIC./2004 in cui si è affermato che un
Comune, per favorire la presenza sul territorio comunale
della caserma dei Carabinieri, può rinunciare a parte del
canone locatizio, anche innovando il contratto di locazione,
qualora lo stesso fosse già perfezionato.
Significativa è altresì la deliberazione della Sezione
regionale di controllo per la Sardegna n. 3/2010/PAR secondo
cui “le esigenze di tutela dell’ordine pubblico
rappresentate dal Comune vanno ad inserirsi -
necessariamente- nel quadro dei rapporti e delle valutazioni
da assumersi in sede interistituzionale, secondo l’assetto e
con le procedure sopra riferiti. Esclusivamente in tale
contesto concertativo allargato potranno assumersi le
deliberazioni degli Enti interessati (Stato ed Enti
territoriali), incidenti sulle rispettive dotazioni
finanziarie o patrimoniali in relazione alle eventuali forme
di contribuzione alla spesa necessarie per le esigenze di
salvaguardia della sicurezza pubblica. Sul punto si
sottolinea che la normativa specificamente intervenuta –introducendo una deroga ai principi generali di cui al
paragrafo n. 4- circoscrive l’impegno economico-finanziario
in capo agli Enti territoriali, quanto a modi e tempi, senza
prevederne in alcun caso un totale accollo a carico degli
stessi”.
A seguito di un contrasto tra le citate delibere e quelle di
altre Sezioni che invece propendevano per l’inammissibilità,
è stata investita della questione la Sezione delle Autonomie
che, con la deliberazione n. 16/SEZAUT/2014/QMIG ha reso una
sua pronuncia di orientamento con la quale si è affermato
che: “la Costituzione, pur attribuendo allo Stato la
competenza esclusiva in materia di ordine pubblico e
sicurezza (art. 117, comma 2, lett. h), tuttavia, riconosce,
nella nuova formulazione dell’art. 118, l’esigenza di
stabilire, con legge statale, forme di coordinamento fra
Amministrazioni statali e periferiche, in vista del
potenziamento della sicurezza a livello locale. Al riguardo,
deve osservarsi che una specifica base normativa e
soprattutto finanziaria è stata posta dall’art. 1, comma
439, della legge finanziaria per il 2007, che autorizza i
Prefetti a stipulare convenzioni con le Regioni e gli enti
locali per realizzare programmi straordinari, tesi ad un
potenziamento dei presidi di sicurezza sul territorio,
accedendo alle risorse logistiche, strumentali e finanziarie
messe a disposizione dagli enti che aderiscono. (…) La
finalità di potenziamento della tutela dell’ordine pubblico
e della sicurezza trova pieno riconoscimento nell’ambito
dell’autonomia degli enti, che sono chiamati a valutare le
necessità della collettività amministrata in termini di
priorità e di compatibilità finanziarie e gestionali e,
sulla scorta di tali valutazioni, ad avviare le eventuali
concertazioni interistituzionali, volte all’adozione di
specifici protocolli d’intesa che individuino obiettivi e
risorse. Peraltro, ferma restando l’importanza degli
strumenti di concertazione interistituzionale e la rilevanza
degli obiettivi di potenziamento della sicurezza pubblica da
perseguire nell’ambito degli appositi programmi, di cui
all’art. 1, comma 439, della legge finanziaria per il 2007,
tuttavia la Sezione ritiene che non possano rientrare
nell’ambito degli anzidetti strumenti le forme di
contribuzione come quella in esame, volte al pagamento del
canone di locazione. Ciò anche in considerazione del
carattere non episodico della contribuzione, che deve
presumersi possa interessare la gestione del bilancio
dell’ente ben oltre l’esercizio in corso e che, pertanto,
mal si attaglia alla natura transitoria degli accordi in
questione, la cui durata in generale è annuale”.
Tale pronuncia di orientamento è stata recepita dalla
Sezione regionale di controllo per l’Emilia-Romagna,
parere 07.07.2014 n. 173.
Da notare, peraltro, che tale specifica problematica è stata
di recente risolta a livello normativo, ed infatti
tra le
disposizioni relative alla locazione di beni immobili da
adibire a caserma dei Carabinieri, la legge 28.12.2015, n. 208 (legge di stabilità per il 2016) ha disposto,
con l'art. 1, comma 500, l'introduzione del nuovo comma
4-bis all'interno dell’art. 3 del D.L. 06.07.2012, n. 95
secondo cui: “per le caserme delle Forze dell'ordine e del
Corpo nazionale dei vigili del fuoco ospitate presso
proprietà private, i comuni appartenenti al territorio di
competenza delle stesse possono contribuire al pagamento del
canone di locazione come determinato dall'Agenzia delle
entrate”.
Alla luce del succitato quadro normativo, quindi,
le
Amministrazioni comunali possono ora fornire un contributo
diretto ai canoni di locazione da corrispondere ai soggetti
privati per l’affitto di immobili da adibire a caserme di
Forze dell’ordine o dei Vigili del fuoco.
Tale assunto, sul quale si tornerà in seguito, rileva seppur
indirettamente, anche in ordine al più specifico quesito
posto dal Comune richiedente.
Sullo specifico punto, si richiama un precedente della
stessa Sezione regionale Emilia-Romagna che, con il
parere 15.12.2015 n. 157, ha affermato che “la
disposizione del novellato art. 3, comma 4, del d.l. n. 95/2012
non pare applicabile nell’ipotesi in cui il rapporto
intervenga tra due pubbliche amministrazioni. E’ preclusiva,
in tal senso, l’interpretazione finalistica e financo
letterale della normativa richiamata avente, peraltro,
natura di norma eccezionale e, come tale insuscettibile di
applicazione “oltre i casi e i tempi” in essa considerati
(cfr. art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale).
Si osserva, infatti che la statuizione oggetto di disamina è
applicabile, prima di ogni ulteriore considerazione, quando
realizzi la finalità richiamata nel testo di legge di
“contenimento della spesa pubblica”. All’evidenza, tale
finalità non si realizza qualora il rapporto concessorio,
cui sarebbe eventualmente da applicare la riduzione
automatica del canone nella misura del 15 per cento,
intervenga tra due pubbliche amministrazioni. Infatti
l’effetto pratico sarebbe del tutto neutro rispetto
all’obiettivo del contenimento della spesa pubblica, essendo
di assoluta evidenza che l’inserzione automatica ex art. 1339
c.c. di una tale clausola nel rapporto intercorrente tra due
pubbliche amministrazioni, pur comportando per l’una un
risparmio nella misura del 15 per cento di quanto
corrisposto in precedenza, per l’altra comporterebbe, in
egual misura, un minor introito”.
Si tratta della pronuncia richiamata anche dal Comune
istante, peraltro, senza tenere in adeguato conto, come di
seguito si preciserà, il più articolato quadro normativo e
giurisprudenziale.
Ed invero, tra i precedenti rinvenibili, merita in
particolare di essere segnalata anche la deliberazione della
Sezione regionale di controllo per il Veneto n. 272/2015/PAR
secondo cui “non sembra potersi ritenere che vi siano lacune
normative in relazione ad ipotesi di contratti di locazione
posti in essere da un comune antecedentemente
all’applicazione della disposizione normativa che ha esteso
agli enti locali la disciplina del d.l. 95/2012 e che,
quindi, erano in corso al momento dell’entrata in vigore
della medesima. Il comma 4 dell’art. 3 del D.L. 95/2012
sopra richiamato prevede, infatti, l’inserzione automatica
ex art. 1339 c.c. della clausola di riduzione del canone di
locazione -anche in deroga ad eventuali clausole difformi
previste dalle parti- fermo restando il diritto, in capo al
locatore, di optare per il recesso dal contratto”.
Tale pronuncia ha ribadito dunque, con riferimento alla
normativa introdotta sulla riduzione del 15% dei canoni di
locazione passiva, l’applicabilità a favore delle
Amministrazioni pubbliche considerate dalla norma che
prevede l’inserzione automatica di clausole ex art. 1339 cod.
civ. a favore degli Enti individuati come beneficiari dalla
legge.
IV. Il Collegio condivide tale lettura ed invero si osserva
che l’art. 3, co. 4, del D.L. 95/2012, come modificato dall'art.
24, comma 4, legge n. 89 del 2014, dettando previsioni per i
contratti di locazione passiva aventi ad oggetto immobili a
uso istituzionale stipulati dalle Amministrazioni centrali,
come individuate dall'Istituto nazionale di statistica ai
sensi dell'articolo 1, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196, nonché dalle Autorità indipendenti ivi inclusa
la Commissione nazionale per le società e la borsa (Consob),
ha previsto l’inserzione automatica ex art. 1339 c.c. della
clausola di riduzione del canone di locazione, anche in
deroga ad eventuali clausole difformi previste dalle parti,
fermo restando il diritto, in capo al locatore, di optare
per il recesso dal contratto.
La stessa disciplina è applicabile, ai sensi dell’art. 3, co. 7,
del D.L. 95/2012, alle Amministrazioni locali (in tal senso,
si veda anche la citata deliberazione della Sezione
regionale di controllo per il Veneto n. 272/2015/PAR).
Alla luce della normativa introdotta e delle richiamate
pronunce emanate dalle Sezioni regionali sul tema, il
Collegio ritiene di dover approfondire le problematiche
sollevate dal parere prospettato dal Comune di Codroipo.
Invero, il Comune richiedente si limita a richiamare una
deliberazione dell’Emilia Romagna,
parere 15.12.2015 n. 157, senza
procedere ai necessari raccordi con la normativa introdotta
sul tema, anche successivamente a detta pronuncia.
Va però considerato che, in una lettura sistematica, la
deliberazione in questione pare porsi come una, seppur
indiretta, applicazione del principio di coordinamento
affermato dalla deliberazione n. 16/SEZAUT/2014/QMIG della
Sezione delle Autonomie secondo cui, nell’ambito degli
strumenti di concertazione interistituzionale e degli
obiettivi di potenziamento della sicurezza pubblica da
perseguire tramite gli appositi programmi, non sarebbe
possibile prevedere da parte dei Comuni forme di
contribuzione volte al pagamento del canone di locazione per
le caserme delle Forze dell’ordine.
Come sopra anticipato,
tale impostazione è ormai superata e
non più attuale alla luce del disposto normativo recato dal
nuovo comma 4-bis all'interno dell’art. 3 del D.L. 06.07.2012, n. 95, introdotto dall'art. 1, comma 500, della legge
28.12.2015, n. 208 (legge di stabilità per il 2016)
che ha riconosciuto possibilità per i Comuni di contribuire
alle spese per la locazione di immobili privati adibiti a
caserme di Forze dell’ordine nei limiti del “canone di
locazione come determinato dall'Agenzia delle entrate”.
Non può invero ignorarsi una connessione tra le due
fattispecie normativamente previste.
Alla luce del succitato quadro normativo, quindi, appare
chiaro che il contributo diretto da parte dei Comuni ai
canoni di locazione per caserme ospitate in immobili
privati, rappresenterebbe una forma di aiuto economico
assimilabile alla riduzione ex lege dei canoni di locazione
per gli immobili pubblici locati alle Forze dell’ordine,
trattandosi in ambedue i casi di forme di sostegno
consentite dall’Ordinamento, con la conseguenza che:
a) opera ex lege la riduzione del canone per tutte le
locazioni passive cui sono tenute le pubbliche
Amministrazioni per il godimento di immobili adibiti ad uso
istituzionale, senza distinzione tra immobili di proprietà
pubblica o privata;
b) per i soli immobili di proprietà privata adibiti a
caserme è eventualmente consentito ai Comuni di contribuire
al pagamento del canone di locazione come determinato
dall'Agenzia delle entrate.
Tale impostazione giuridica, relativa al diritto
applicabile, appare già di per sé risolutiva del quesito
prospettato, ancorché dalla normativa citata non si evinca
una espressa indicazione circa l’applicabilità della
predetta riduzione ai canoni di locazione relativi ad
immobili di proprietà pubblica affittati ad altra pubblica
Amministrazione.
Ritiene comunque il Collegio di fare cenno ai possibili
effetti, invero non chiaramente affrontati nel quesito
pervenuto, ma solo indirettamente enucleabili dalla lettura
della più volte citata pronuncia dell’Emilia Romagna,
relativi alla considerazione della diversa natura dei saldi
di bilancio relativi, nel caso di specie, a una pubblica
Amministrazione centrale e a una pubblica Amministrazione
locale.
Invero la riduzione dei canoni, inserita ex lege in base al
disposto dell’art. 1339 cod. civ., ha il precipuo scopo di
ridurre la spesa per canoni di locazione passiva gravanti
sulle Amministrazioni locatarie, ragion per cui va assunto a
riferimento il saldo di bilancio dei singoli comparti,
piuttosto che il conto economico consolidato delle pubbliche
Amministrazioni.
La stessa disciplina, infatti, come si è detto, è
applicabile, ai sensi dell’art. 3, co. 7, del D.L. 95/2012,
alle Amministrazioni locali.
Il tutto, val la pena di evidenziare, anche alla luce
dell’attuale previsione dell’art. 3, co. 7, del D.L. 95/2012
secondo cui le Regioni e le Province autonome di Trento e
Bolzano possono adottare misure alternative di contenimento
della spesa corrente al fine di conseguire risparmi non
inferiori a quelli derivanti dall'applicazione della citata
disposizione.
Da notare che tale ultima previsione ha recentemente
interessato la Consulta in un giudizio di costituzionalità,
sollevato dalla Regione Veneto con ricorso notificato il 18.08.2014 e depositato il successivo 22 agosto (reg. ric.
n. 63 del 2014, che è stato deciso lo stesso giorno della
presente camera di consiglio).
In tale giudizio, di particolare rilievo, merita di essere
richiamata la problematica della finanza delle Regioni,
delle Province autonome e degli Enti locali come parte della
finanza pubblica allargata e della possibilità per il
legislatore statale di imporre alle Regioni e agli Enti
locali vincoli alle politiche di bilancio, con una
legislazione di principio, per ragioni di coordinamento
finanziario connesse ad obiettivi nazionali, condizionati
anche dagli obblighi comunitari.
Aspetti questi ultimi che assumono valenza ancor più
significativa nell’assetto ordinamentale della Regione
Friuli Venezia Giulia, per le specifiche competenza
statutarie in materia di ordinamento e finanza degli Enti
locali.
Tale assunto da ultimo richiamato conferma la maggiore
complessità ed articolazione del quadro normativo rispetto
alle prospettazioni del quesito, quadro riassumibile, come
si è detto, nei suesposti princìpi secondo cui
i contratti
di locazione passiva in essere e gravanti su Amministrazioni
pubbliche vadano comunque soggetti a riduzione del 15% del
canone, tenendo presente che per i soli immobili di
proprietà privata adibiti a caserme è eventualmente
consentito ai Comuni di contribuire al pagamento del canone
di locazione come determinato dall'Agenzia delle entrate
(Corte dei Conti, Sez. controllo Friuli Venezia Giulia,
parere 27.04.2016 n. 40). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Danno erariale.
Responsabilità del dirigente che da esecuzione ad atti
di indirizzo illegittimi della Giunta Comunale.
Va disattesa l'argomentazione difensiva che
esclude la responsabilità del dirigente ritenendo l'attività
svolta esecutiva di scelte operate a monte dalla Giunta
comunale, in considerazione del principio di separazione tra
attività di indirizzo e gestione, essendo il dirigente, per
espressa disposizione legislativa (art. 4, comma 2, D.Lgs.
n. 165 del 2001), responsabile in via esclusiva del
pagamento illegittimo dei trattamenti economici accessori.
In altri termini, l'autonomia decisionale, normativamente
prevista, di cui godeva il dirigente avrebbe dovuto indurlo
a disattendere una direttiva dell'organo di indirizzo, se
palesemente illegittima, o, nel dubbio, interpretarla, anche
con riferimento agli atti normativi interni, in modo
conforme alla legge (nella
fattispecie il dirigente aveva liquidato se stesso e i
propri collaboratori a fronte di un indirizzo della Giunta
Comunale che ne disponeva la possibile erogazione per
attività collegate a finanziamenti comunitari).
---------------
1.Preliminarmente va
scrutinata l’eccezione di inammissibilità della citazione
per carenza di motivazione in ordine alle deduzioni fornite
dal convenibile a seguito di invito a dedurre.
1.1 L’eccezione è infondata.
Giova al riguardo richiamare il principio di diritto
enunciato dalle Sezioni Riunite di questa Corte con la
sentenza 7/98/QM ed espresso -al punto 4 della parte motiva-
nel senso che “…nel conseguente atto di citazione il P.R.
non è obbligato a motivare le ragioni per le quali egli ha,
eventualmente anche in toto, disatteso le deduzioni fornite
non determinando l'invito l'insorgere di un contraddittorio
pre-processuale tra P.R. ed invitato. Invero un ipotetico
obbligo (peraltro non legislativamente previsto e non
creabile in via giurisprudenziale) di motivazione finirebbe
per trasformare la fase istruttoria, di cui il P.R. è il
dominus, in un anomalo diretto contenzioso tra il medesimo e
l'invitato imponendo contemporaneamente al primo funzioni,
nonché obblighi di motivazione, propri del giudicante
travalicandosi in tal modo quella istituzionale di
acquisizione degli elementi probatori da sottoporre poi alla
valutazione del giudice. L'esame valutativo delle deduzioni
dell'invitato potrà, quindi, anche essere espresso dal P.R.
in modo sintetico od essere persino implicito nel fatto
stesso che viene emesso l'atto di citazione…”.
2. Parimente non meritevole di condivisione si reputa la
censura di insussistenza del danno formulata sull’assunto
secondo cui le attività progettuali costituivano per i
dipendenti comunali prestazioni aggiuntive extra
istituzionali, finanziate da fondi esterni non gravanti sul
bilancio dell’ente locale.
2.1 Occorre, infatti, rilevare che la tesi difensiva induce
ad una impropria sovrapposizione di due diversi e distinti
rapporti: quello tra i soggetti finanziatori e l’Ente
beneficiario, e, quello tra quest’ultimo e il personale da
esso dipendente.
La prima relazione intercorre tra la Regione e le autonomie
locali alle quali compete, oltre alla partecipazione alla
fase di programmazione, l’identificazione delle opportunità
locali, la formulazione delle proposte progettuali,
collocate all’interno degli obiettivi definiti dalla
Regione, spesso la realizzazione degli interventi, la loro
focalizzazione su un numero limitato di priorità, la loro
operatività in un quadro di programmazione finalizzato allo
sviluppo.
Per gli interventi attribuiti alla competenza delle
Autonomie locali e degli organismi pubblici, la Regione
procede all’impegno della spesa a favore dei medesimi, ad
avvenuta acquisizione di dichiarazioni del rappresentante
legale in ordine all’avvenuto completamento dell’iter
procedurale per l’attuazione del progetto e alla conformità
ed ammissibilità delle spese sostenute secondo le
disposizioni comunitarie e nazionali vigenti (POR Puglia
2000-2006).
A monte di siffatta disciplina si pongono le disposizioni
comunitarie (artt. 2 e 4, lett. b, della norma n. 11, del
Regolamento CEE n. 448/2004) che -afferenti al rapporto tra
CE e Stati membri e non conferenti nel senso prospettato
dalla Parte appellante- si limitano ad indicare le
condizioni in presenza delle quali talune categorie di spesa
sono ammesse al cofinanziamento.
Ciò posto, va evidenziato che l’erogazione di remunerazioni
aggiuntive ai dipendenti coinvolti nel progetto afferisce al
rapporto tra l’Ente locale e il proprio personale, e non può
che trovare disciplina nel quadro normativo di settore
-compiutamente richiamato dalla sentenza appellata-
rappresentato dall’art. 45 del d.lgs. 165/2001 e dai
contratti collettivi chiamati a definire un collegamento tra
i trattamenti economici accessori e la performance
individuale o collettiva che, deve essere valutata nel
rispetto di una precisa logica procedimentale
(rendicontazione del risultato conseguito, sua misurazione e
conclusiva valutazione dello stesso da parte degli organismi
a ciò preposti).
Ne consegue che l’erogazione degli emolumenti in esame
disposta senza il rispetto della procedura normativamente
prevista si appalesa illegittima e dannosa, giacché, in
ipotesi di emolumenti non dovuti è la stessa maggiorazione
retributiva che, per il suo intero ammontare, ne realizza
ex se gli effetti lesivi.
3. Va disattesa anche l’argomentazione difensiva che esclude
la responsabilità del dirigente ritenendo l’attività svolta
esecutiva di scelte operate dalla Giunta comunale.
3.1 In tal senso, milita il principio di separazione tra le
attività di indirizzo e le attività di gestione, di cui è
espressione il comma 2, dell’art. 4, del d.lgs. 165/2001 che
nell’attribuire ai dirigenti l'adozione degli atti e
provvedimenti amministrativi, compresi tutti gli atti che
impegnano l'amministrazione verso l'esterno, nonché la
gestione finanziaria, tecnica e amministrativa mediante
autonomi poteri di spesa di organizzazione delle risorse
umane, strumentali e di controllo, ne afferma la
responsabilità in via esclusiva.
Responsabilità dei dirigenti ribadita poi con specifico
riguardo all'attribuzione dei trattamenti economici
accessori dall’art. 45, comma 4, del d.lgs. 165/2001.
Ne consegue che la determina dirigenziale di liquidazione
delle somme non può essere intesa quale “atto meramente
esecutivo” della delibera giuntale n. 93 del 2004.
4. Con riguardo all’elemento soggettivo, infine è da
ritenere che la condotta tenuta dal dirigente -nel
sottoscrivere una determina, incondizionatamente
autorizzativa delle indebite erogazioni, nella pienezza dei
suoi poteri decisionali- sia espressiva di colpa grave.
Occorre, peraltro, considerare –come correttamente rilevato
dal giudice di prime cure- che l’autonomia decisionale
normativamente prevista di cui godeva il dirigente avrebbe
dovuto indurlo a disattendere una direttiva dell’organo di
indirizzo, se palesemente illegittima, o, nel dubbio,
interpretarla, anche con riferimento agli atti normativi
interni, in modo conforme alla legge.
In conclusione va affermata la riferibilità del danno al
comportamento del ricorrente.
5. In ordine all’invocata applicazione dell’istituto della
compensatio lucri cum damno previsto dell’art. 1,
comma 1-bis, della legge n. 20/1994, -il cui onere
probatorio, nell’an e nel quantum, incombe
sull’istante- non se ne reputano sussistenti i presupposti,
ovvero: l’effettività del vantaggio, la identità causale tra
il fatto produttivo del danno e quello produttivo dell’utilitas
e la corrispondenza di quest’ultima ai fini istituzionali
dell’amministrazione che se ne appropria (SS.RR., sent. n. 5
del 24.01.1997).
6. Alla luce delle considerazioni esposte l’’appello deve
essere respinto e confermata l’impugnata sentenza, non
ricorrendo circostanze valutabili in funzione del richiesto
esercizio del potere riduttivo dell’addebito.
L’Es. deve perciò essere conclusivamente condannato al
pagamento, in favore del Comune di Lecce, della somma di €.
23.893,88, oltre oneri accessori come determinati nella
sentenza impugnata
(Corte dei Conti, Sez. III giurisdiz. Centrale
d'Appello,
sentenza 26.04.2016 n. 160). |
APPALTI FORNITURE:
Il presupposto per procedere ad
acquisti autonomi extra Consip e centrali di committenza
regionali è l’inidoneità del bene o del servizio al
soddisfacimento dello specifico bisogno
dell’amministrazione, per mancanza di caratteristiche
essenziali; l’inidoneità, la quale deve emergere da un
confronto operato tra lo specifico fabbisogno dell’ente e il
bene o il servizio oggetto di convenzione, sembra dover
riguardare esclusivamente le caratteristiche del bene o del
servizio stesso, senza che la valutazione possa estendersi a
elementi ulteriori che incidono sul fabbisogno, quali, nel
caso prospettato, l’ubicazione dei distributori di
carburante.
Ovviamente, resta salva la possibilità, di cui all’art. 1,
co. 494, della legge di stabilità per il 2016, di effettuare
affidamenti al di fuori del regime Consip e delle altre
centrali di committenza regionale, per carburanti, purché
ricorrano le previste condizioni (- procedere all’acquisto
tramite procedure ad evidenza pubblica; - ottenere un
corrispettivo inferiore almeno del 3% rispetto a quello
fissato da Consip o da altre centrali di committenza
regionale; - sottoporre i contratti a condizione risolutiva
con possibilità per il contraente di adeguamento ai migliori
corrispettivi nel caso di intervenuta disponibilità di
convenzioni Consip e delle centrali di committenza regionali
che prevedano condizioni di maggior vantaggio economico in
percentuale superiore al 10 per cento).
---------------
Il Sindaco del Comune di Galliera (BO) ha inoltrato a questa
Sezione la seguente richiesta di parere:
“Premesso che:
- il Comune di Galliera ha in dotazione n. 8 veicoli per le
regolari attività istituzionali;
- nel territorio comunale non è presente gestore selezionato
da Consip;
- la centrale unica di Committenza dell’Unione Reno Galliera,
con sede in San Giorgio di Piano ha espletato una gara per
la fornitura del carburante per i veicoli istituzionali, ma
alla scadenza non sono pervenute domande e la gara è andata
deserta.
Dato atto che:
- sulla centrale di Committenza Consip esiste una specifica
convenzione con la ditta Kuwait Petroleum, che se pur a
prezzi convenienti, non presenta una rete di distribuzione
sul territorio adeguata alle esigenze di questo ente, in
quanto il gestore più vicino risulta essere nel Comune di
San Pietro in casale a 9 km di distanza.
Per quanto sopra esposto, considerato che fornirsi dei
carburanti alla stazione di servizio di San Pietro in Casale
risulta assolutamente antieconomico, sia per la distanza da
percorrere (9 km andata + 9 km ritorno) che per il tempo di
impiego del personale, siamo con la presente a richiedere un
Vostro parere in merito alla possibilità di poter effettuare
i rifornimenti dei veicoli comunali presso una stazione di
servizio nel nostro territorio al di fuori delle convenzioni Consip”.
...
2.1 Preliminarmente, occorre individuare le principali norme
rilevanti ai fini del parere.
Il sistema delle centrali di committenza, stazioni
appaltanti che gestiscono gli approvvigionamenti di beni e
servizi per la pubblica amministrazione, avvalendosi di
apposite convenzioni, trova il suo fondamento nell’art. 26
della legge 23.12.1999, n. 488 (finanziaria per il
2000); detta norma, nel testo attualmente vigente, prevede
che vengano stipulate, nel rispetto della normativa in
materia di scelta del contraente, con procedure competitive,
“convenzioni con le quali l'impresa prescelta si impegna ad
accettare, sino a concorrenza della quantità massima
complessiva stabilita dalla convenzione ed ai prezzi e
condizioni ivi previsti, ordinativi di fornitura di beni e
servizi deliberati dalle amministrazioni dello Stato anche
con il ricorso alla locazione finanziaria”. La stipulazione
di un contratto in violazione delle suddette previsioni
costituisce causa di responsabilità amministrativa.
Successivamente, l’art. 58 della legge 23.12.2000, n.
388, ha provveduto ad individuare la Consip come la centrale
acquisti nazionale, prevedendo che “le convenzioni di cui al
citato articolo 26 sono stipulate dalla Concessionaria
servizi informatici pubblici (CONSIP) Spa, per conto del
Ministero del tesoro, del bilancio e della programmazione
economica, ovvero di altre pubbliche amministrazioni di cui
al presente comma […]”.
Con il decreto del Presidente della Repubblica 04.04.2002, n. 101, contenente il "Regolamento recante criteri e
modalità per l'espletamento da parte delle amministrazioni
pubbliche di procedure telematiche di acquisto per
l'approvvigionamento di beni e servizi", è stato
ulteriormente disciplinato lo svolgimento delle procedure
telematiche di acquisto, introducendo il MePA - Mercato
Elettronico della PA.
A seguito dell’abrogazione del citato
DPR n. 101/2002, l’attuale disciplina del MePA è contenuta
nel decreto del Presidente della Repubblica 05.10.2010,
n. 207, che all'art. 328 ne definisce le modalità di
funzionamento, stabilendo che, fatti salvi i casi di ricorso
obbligatorio al mercato elettronico previsti dalle norme in
vigore, ai sensi dell'articolo 85, comma 13, del codice dei
contratti pubblici, la stazione appaltante può stabilire di
procedere all'acquisto di beni e servizi attraverso il
mercato elettronico realizzato dalla medesima stazione
appaltante, o utilizzando il mercato elettronico della
pubblica amministrazione realizzato dal Ministero
dell'economia e delle finanze sulle proprie infrastrutture
tecnologiche avvalendosi di Consip S.p.A., oppure attraverso
il mercato elettronico istituito dalle centrali di
committenza di riferimento, di cui all'articolo 33 del
codice dei contratti pubblici.
Con la legge 27.12.2006, n. 296 (legge finanziaria
2007), è stato sancito un più esteso campo di utilizzo delle
convenzioni-quadro, prevedendo altresì l’obbligo di
ricorrere al mercato elettronico della pubblica
amministrazione per gli acquisti di beni e servizi al di
sotto della soglia di rilievo comunitario; inoltre, è stata
prevista l’istituzione di centrali di committenza regionali.
L’art. 1, co. 7, del d.l. 06.07.2012, n. 95 (convertito
con modificazioni dalla l. 07.08.2012, n. 135) ha
provveduto ad estendere e generalizzare per tutte le
pubbliche amministrazioni l’obbligo di ricorso alle
convenzioni Consip per alcune tipologie merceologiche di
beni, tra cui i carburanti, disponendo, altresì, che i
contratti stipulati in violazione di tali previsioni sono
nulli e costituiscono illecito disciplinare e contabile, ai
quali corrisponde quindi un’ipotesi tipica di responsabilità
amministrativa.
Recentemente, la legge 28.12.2015, n. 208 (legge di
stabilità per il 2016), all’art. 1, co. 510, ha previsto che
“le amministrazioni pubbliche obbligate ad approvvigionarsi
attraverso le convenzioni di cui all'articolo 26 della legge
23.12.1999, n. 488, stipulate da Consip SpA, ovvero
dalle centrali di committenza regionali, possono procedere
ad acquisti autonomi esclusivamente a seguito di apposita
autorizzazione specificamente motivata resa dall'organo di
vertice amministrativo e trasmessa al competente ufficio
della Corte dei conti, qualora il bene o il servizio oggetto
di convenzione non sia idoneo al soddisfacimento dello
specifico fabbisogno dell'amministrazione per mancanza di
caratteristiche essenziali”.
Lo stesso articolo, con specifico riferimento all’acquisto
di carburanti per autotrazione, al co. 494, ha stabilito che
“è fatta salva la possibilità di procedere ad affidamenti,
nelle indicate categorie merceologiche, anche al di fuori
delle predette modalità, a condizione che gli stessi
conseguano ad approvvigionamenti da altre centrali di
committenza o a procedure di evidenza pubblica, e prevedano
corrispettivi inferiori almeno del 10 per cento per le
categorie merceologiche telefonia fissa e telefonia mobile e
del 3 per cento per le categorie merceologiche carburanti
extra-rete, carburanti rete, energia elettrica, gas e
combustibili per il riscaldamento rispetto ai migliori
corrispettivi indicati nelle convenzioni e accordi quadro
messi a disposizione da Consip SpA e dalle centrali di
committenza regionali. Tutti i contratti stipulati ai sensi
del precedente periodo devono essere trasmessi all'Autorità
nazionale anticorruzione. In tali casi i contratti dovranno
comunque essere sottoposti a condizione risolutiva con
possibilità per il contraente di adeguamento ai migliori
corrispettivi nel caso di intervenuta disponibilità di
convenzioni Consip e delle centrali di committenza regionali
che prevedano condizioni di maggior vantaggio economico in
percentuale superiore al 10 per cento rispetto ai contratti
già stipulati. Al fine di concorrere al raggiungimento degli
obiettivi di finanza pubblica attraverso una
razionalizzazione delle spese delle pubbliche
amministrazioni riguardanti le categorie merceologiche di
cui al primo periodo del presente comma, in via
sperimentale, dal 01.01.2017 al 31.12.2019 non si
applicano le disposizioni di cui al terzo periodo del
presente comma”.
2.2 Richiamata la normativa, occorre verificare se vi siano
precedenti pareri resi, in materia, da questa magistratura
contabile.
Numerose sono le deliberazioni di questa Corte relative
all’obbligo di ricorso alle convenzioni Consip (tra le
altre, si richiama il parere di questa Sezione reso con
deliberazione n. 286, del 17.12.2013.
Recentemente, la Sezione di controllo della Regione Friuli
Venezia Giulia, con deliberazione n. 35/2016/PAR, del 25.03.2016 , si è espressa sulla medesima questione oggetto
del presente parere. Si riporta il quesito: “se sia
consentito, per motivi di economicità ed efficienza, di
rifornirsi dal distributore di carburante esistente (unico)
nel paese, ogni qual volta in base ad una convenzione Consip
il distributore cui doversi rivolgere sia più distante di
esso”. La citata Sezione ha affermato che “la citata
previsione del comma 510, riguardando l’acquisto di beni e
servizi privi di requisiti essenziali, non può ritenersi
applicabile all’acquisto di quei prodotti, come il
carburante, che sono per loro stessa natura intrinsecamente
fungibili”.
2.3 E’ ora possibile rispondere alla richiesta di parere,
circa la possibilità, per una pubblica amministrazione, di
operare acquisti di carburante per autotrazione, al di fuori
delle convenzioni stipulate dalla Consip o da centrali di
committenza regionali, nel caso in cui l’ubicazione del
distributore più vicino renda l’operazione diseconomica.
Questa Sezione ritiene di non potersi discostare
dall’interpretazione già fornita dalla Sezione di controllo
della Regione Friuli Venezia Giulia.
Una diversa lettura del disposto di cui all’art. 1, comma
510, legge n. 208/2015, infatti, sembra essere preclusa
dalla lettera della norma. Il presupposto per procedere ad
acquisti autonomi extra Consip e centrali di committenza
regionali è l’inidoneità del bene o del servizio al
soddisfacimento dello specifico bisogno
dell’amministrazione, per mancanza di caratteristiche
essenziali; l’inidoneità, la quale deve emergere da un
confronto operato tra lo specifico fabbisogno dell’ente e il
bene o il servizio oggetto di convenzione, sembra dover
riguardare esclusivamente le caratteristiche del bene o del
servizio stesso, senza che la valutazione possa estendersi a
elementi ulteriori che incidono sul fabbisogno, quali, nel
caso prospettato, l’ubicazione dei distributori di
carburante.
Ovviamente, resta salva la possibilità, di cui all’art. 1,
co. 494, della legge di stabilità per il 2016, di effettuare
affidamenti al di fuori del regime Consip e delle altre
centrali di committenza regionale, per carburanti, purché
ricorrano le previste condizioni (procedere all’acquisto
tramite procedure ad evidenza pubblica; ottenere un
corrispettivo inferiore almeno del 3% rispetto a quello
fissato da Consip o da altre centrali di committenza
regionale; sottoporre i contratti a condizione risolutiva
con possibilità per il contraente di adeguamento ai migliori
corrispettivi nel caso di intervenuta disponibilità di
convenzioni Consip e delle centrali di committenza regionali
che prevedano condizioni di maggior vantaggio economico in
percentuale superiore al 10 per cento).
Pur non potendo questa Corte, anche in sede consultiva,
prescindere dal dato normativo, può essere utile evidenziare
come, in casi, come quello all’attenzione del Collegio, di
comuni presso i quali non siano presenti distributori di
carburanti della ditta aderente alla convenzione, la
corretta applicazione della disciplina possa determinare
gravi diseconomie.
Pertanto, è auspicabile una rimeditazione, da parte del
legislatore statale, della normativa. Potrebbe essere
ampliata la discrezionalità riconosciuta agli enti pubblici,
fino a consentire la stipulazione in deroga alle convenzioni
sottoscritte dalle centrali di committenza, a fronte di un
evidente e dimostrato risparmio complessivo (nel caso degli
acquisti di carburante per autotrazione e delle altre
categorie merceologiche, di cui al citato art. 1, comma 494,
infatti, il risparmio che consente di operare in deroga, può
essere calcolato sul solo corrispettivo)
(Corte dei Conti,
Sez. controllo Emilia Romagna,
parere
20.04.2016 n. 38). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: La corretta
interpretazione dell’articolo 93, comma 7-ter, d.lgs.
163/2006, alla luce delle disposizioni recate dal d.l. n.
90/2014 e dei criteri individuati dalla legge delega n.
11/2016, è nel senso dell’esclusione dall’incentivo alla
progettazione interna di qualunque attività manutentiva,
senza distinzione tra manutenzione ordinaria o
straordinaria.
In motivazione, la Sezione delle autonomie ha, altresì,
precisato che: “…la chiara formulazione dell’articolo 93,
comma 7-ter, desumibile dall’applicazione del fondamentale
canone ermeneutico dell’interpretazione letterale non lasci
spazio ad criteri per cosi dire sussidiari, che finirebbero
inevitabilmente per alterare la voluntas legis, espressa in
modo inequivoco dal tenore letterale delle disposizioni (in
claris non fit interpretatio)”.
----------------
Con
parere 15.12.2015 n. 155, questa Sezione regionale
di controllo ha reso il proprio parere su due quesiti posti
dal Comune di Ferrara e, al contempo, ha sospeso la
pronuncia su un altro rispetto al quale ravvisava una
difformità di orientamenti tra diverse Sezioni regionali di
controllo.
I quesiti sui quali la Sezione si è pronunciata riguardano
l’individuazione delle categorie di personale alle quali può
essere corrisposto il cd. incentivo alla progettazione
previsto dall’articolo 93, comma 7-ter, d.lgs. n. 163/2006,
stabilendo che non è possibile riconoscere tale emolumento
al personale dei ruoli amministrativo e/o contabile, e
quello volto ad individuare l’atto regolamentare da
applicare (quello vigente all’epoca del progetto o un nuovo
regolamento) per gli incentivi da riconoscere per attività
iniziate precedentemente alla data del 19/08/2014 (data di
entrata in vigore della nuova disciplina in tema di compenso
incentivante) da proseguire ed ultimare.
Il quesito sul quale è stata riscontrata una difformità di
orientamenti tra le Sezioni regionali concerneva la
possibilità o meno di corrispondere l’incentivo alla
progettazione per le attività di manutenzione straordinaria
anche a seguito delle modifiche normative introdotte
dall’articolo 13-bis del decreto-legge 24.06.2014, n.
90, convertito, con modificazioni, in legge 11.08.2014,
n. 114.
La pronuncia su tale quesito è stata conseguentemente
sospesa, con conseguente remissione degli atti al Presidente
della Corte ai sensi dell’articolo 6, comma 4, d.l. 10.10.2012, n. 174, ai fini della valutazione
dell’opportunità di deferire alla Sezione delle autonomie,
ovvero alle Sezioni riunite. Di tale decisione è stata data
comunicazione al Sindaco di Ferrara.
Successivamente, il Presidente della Corte dei conti ha
rimesso la questione alla Sezione delle autonomie, che si è
espressa con
deliberazione 23.03.2016 n. 10.
...
Sinteticamente si rammenta che, con il
parere 15.12.2015 n. 155, questa Sezione regionale ha rimesso gli atti
al Presidente della Corte dei conti ai sensi dell’articolo
6, comma 4, d.l. 174/2012 e sospeso la pronuncia sul quesito
con il quale il Comune di Ferrara chiedeva se il cd.
compenso incentivante previsto dal novellato art. 93, comma
7-ter, d.lgs. n. 163/2006 potesse essere corrisposto per le
attività di manutenzione straordinaria, che, a differenza di
quelle di manutenzione ordinaria, per le quali l’incentivo
andrebbe certamente escluso, in ragione della natura dei
lavori e della loro complessità, richiedono un’attività
progettuale specialistica tale da giustificare il
riconoscimento del predetto emolumento.
Nella citata deliberazione, la Sezione rilevava che, a
decorrere dal 19.08.2014, è stata prevista una nuova
disciplina in materia di incentivi spettanti ai dipendenti
delle pubbliche amministrazioni per le attività di
progettazione. La materia de qua, originariamente
disciplinata dall’articolo 92, commi 5 e 6, d.lgs. 163/2006
(codice degli appalti pubblici), è stata modificata
dall’articolo 13 del decreto-legge 24.06.2014, n. 90,
convertito in legge 11.08.2014, n. 114 che ha abrogato i
commi 5 e 6 del richiamato articolo 92 del codice degli
appalti, dall’articolo 13-bis, aggiunto in sede di
conversione in legge, mediante il quale sono stati inseriti,
nell’articolo 93 (rubricato “Livelli della progettazione per
gli appalti e le concessioni di lavori"), i commi da 7-bis a
7-quinquies.
In particolare, il comma 7-ter, rimanda alla fonte
regolamentare di ciascuna pubblica amministrazione
rientrante nell’ambito di applicazione soggettiva della
norma la definizione di alcuni aspetti della disciplina,
prevedendo, che l’incentivo alla progettazione debba essere
escluso per le attività di manutenzione, senza ulteriori
specificazioni.
Sull’interpretazione di tale aspetto della disciplina, la
Sezione aveva ravvisato una difformità di indirizzi tra le
Sezioni regionali di controllo che si erano sino ad allora
pronunciate.
Secondo un orientamento (Sez.
Lombardia
parere 28.10.2015 n. 351 e Sez.
Marche
parere 17.12.2014 n. 141), l’incentivo alla progettazione poteva
essere riconosciuto per le attività di manutenzione
straordinaria, purché si fosse resa necessaria una
preventiva attività di progettazione.
Secondo il contrapposto orientamento (Sez.
Toscana
parere 28.10.2015 n. 490, Sez. Umbria
parere 14.05.2015 n. 71, Sez. Liguria
parere 24.10.2014 n. 60) -al quale questa Sezione regionale di
controllo dichiarava di aderire- l’interpretazione
letterale della norma porterebbe a sostenere che ogni
tipologia di attività manutentiva, a prescindere dalla
presenza o meno di una preventiva attività di progettazione,
non possa essere remunerata con l’incentivo ex art. 93,
comma 7-ter, d.lgs. n. 163/2006.
Tanto premesso, ritenendo sussistente l’ipotesi di cui
all’art. 6, comma 4, del decreto legge 10.10.2012,
n. 174, convertito con modificazioni dalla legge 07.12.2012, n. 213, la Sezione ha sospeso la pronuncia sul predetto
quesito rimettendo gli atti al Presidente della Corte dei
conti per le valutazioni di competenza.
A seguito del conseguente deferimento, la Sezione delle
autonomie, con la
deliberazione 23.03.2016 n. 10
(allegato 1), ha risolto la questione di massima, enunciando
il seguente principio di diritto: “la corretta
interpretazione dell’articolo 93, comma 7-ter, d.lgs.
163/2006, alla luce delle disposizioni recate dal d.l. n.
90/2014 e dei criteri individuati dalla legge delega n.
11/2016, è nel senso dell’esclusione dall’incentivo alla
progettazione interna di qualunque attività manutentiva,
senza distinzione tra manutenzione ordinaria o
straordinaria”.
In motivazione, la Sezione delle autonomie ha, altresì,
precisato che: “…la chiara formulazione dell’articolo 93,
comma 7-ter, desumibile dall’applicazione del fondamentale
canone ermeneutico dell’interpretazione letterale non lasci
spazio ad criteri per cosi dire sussidiari, che finirebbero
inevitabilmente per alterare la voluntas legis, espressa in
modo inequivoco dal tenore letterale delle disposizioni (in
claris non fit interpretatio)”.
Questa Sezione regionale di controllo, ai sensi dell’art. 6,
comma 4, del d.l. 10.10.2012, n. 174, convertito dalla
legge 07.12.2012, n. 213, si attiene al principio
ermeneutico richiamato (Corte
dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna,
parere 20.04.2016 n. 37). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: La corretta
interpretazione dell’articolo 93, comma 7-ter, d.lgs.
163/2006, alla luce delle disposizioni recate dal d.l. n.
90/2014 e dei criteri individuati dalla legge delega n.
11/2016, è nel senso dell’esclusione dall’incentivo alla
progettazione interna di qualunque attività manutentiva,
senza distinzione tra manutenzione ordinaria o
straordinaria.
In motivazione, la Sezione delle autonomie ha, altresì,
precisato che: “…la chiara formulazione dell’articolo 93,
comma 7-ter, desumibile dall’applicazione del fondamentale
canone ermeneutico dell’interpretazione letterale non lasci
spazio ad criteri per cosi dire sussidiari, che finirebbero
inevitabilmente per alterare la voluntas legis, espressa in
modo inequivoco dal tenore letterale delle disposizioni (in claris non fit interpretatio)”.
----------------
Con
parere 15.12.2015 n. 156, questa Sezione regionale,
preso atto della difformità di orientamenti, ha sospeso la
pronuncia sulla richiesta di parere presentata dal Comune di Coriano rimettendo gli atti, ai sensi dell’articolo 6, comma
4, d.l. 10.10.2012, n. 174 al Presidente della Corte ai
fini della valutazione dell’opportunità di deferire alla
Sezione delle autonomie, ovvero alle Sezioni riunite. Di
tale decisione è stata data comunicazione al Sindaco di Coriano.
Successivamente, il Presidente della Corte dei conti ha
rimesso la questione alla Sezione delle autonomie, che si è
espressa con
deliberazione 23.03.2016 n. 10.
Il quesito riguardava la possibilità o meno di corrispondere
l’incentivo alla progettazione previsto dall’articolo 93,
comma 7-ter, d.lgs. 163/2006 per le attività di manutenzione
straordinaria, anche a seguito delle modifiche normative
introdotte dall’articolo 13-bis del decreto-legge 24.06.2014, n. 90, convertito, con modificazioni, in legge 11.08.2014, n. 114.
...
Sinteticamente si rammenta che, con IL
parere 15.12.2015 n. 156, questa Sezione regionale ha rimesso gli atti
al Presidente della Corte dei conti ai sensi dell’articolo
6, comma 4, d.l. 174/2012 e sospeso la pronuncia sul quesito
con il quale il Comune di Coriano chiedeva se il cd.
compenso incentivante previsto dal novellato art. 93, comma
7-ter, d.lgs. n. 163/2006 potesse essere corrisposto per le
attività di manutenzione straordinaria, che, a differenza di
quelle di manutenzione ordinaria, per le quali l’incentivo
andrebbe certamente escluso, in ragione della natura dei
lavori e della loro complessità, richiedono un’attività
progettuale specialistica tale da giustificare il
riconoscimento del predetto emolumento.
Nella citata deliberazione, la Sezione rilevava che, a
decorrere dal 19.08.2014, è stata prevista una nuova
disciplina in materia di incentivi spettanti ai dipendenti
delle pubbliche amministrazioni per le attività di
progettazione. La materia de qua, originariamente
disciplinata dall’articolo 92, commi 5 e 6, d.lgs. 163/2006
(codice degli appalti pubblici), è stata modificata
dall’articolo 13 del decreto-legge 24.06.2014, n. 90,
convertito in legge 11.08.2014, n. 114 che ha abrogato i
commi 5 e 6 del richiamato articolo 92 del codice degli
appalti, dall’articolo 13-bis, aggiunto in sede di
conversione in legge, mediante il quale sono stati inseriti,
nell’articolo 93 (rubricato “Livelli della progettazione per
gli appalti e le concessioni di lavori”), i commi da 7-bis a
7-quinquies.
In particolare, il comma 7-ter, rimanda alla fonte
regolamentare di ciascuna pubblica amministrazione
rientrante nell’ambito di applicazione soggettiva della
norma la definizione di alcuni aspetti della disciplina,
prevedendo, che l’incentivo alla progettazione debba essere
escluso per le attività di manutenzione, senza ulteriori
specificazioni.
Sull’interpretazione di tale aspetto della disciplina la
Sezione aveva ravvisato una difformità di indirizzi tra le
Sezioni regionali di controllo che si erano sino ad allora
pronunciate.
Secondo un orientamento (Sez. Lombardia
parere 28.10.2015 n. 351 e Sez.
Marche
parere 17.12.2014 n. 141), l’incentivo alla progettazione poteva
essere riconosciuto per le attività di manutenzione
straordinaria, purché si fosse resa necessaria una
preventiva attività di progettazione.
Secondo il contrapposto orientamento (Sez. Toscana
parere 28.10.2015 n. 490, Sez. Umbria
parere 14.05.2015 n. 71, Sez. Liguria
parere 24.10.2014 n. 60) -al quale questa Sezione regionale di controllo
dichiarava di aderire- l’interpretazione letterale della
norma porta a sostenere che ogni tipologia di attività
manutentiva, a prescindere dalla presenza o meno di una
preventiva attività di progettazione, non possa essere
remunerata con l’incentivo ex art. 93, comma 7-ter, d.lgs.
n. 163/2006.
Tanto premesso, ritenendo sussistente l’ipotesi di cui
all’art. 6, comma 4, del decreto legge 10.10.2012,
n. 174, convertito con modificazioni dalla legge 07.12.2012, n.213, la Sezione ha sospeso la pronuncia sul predetto
quesito rimettendo gli atti al Presidente della Corte dei
conti per le valutazioni di competenza.
A seguito del conseguente deferimento, la Sezione delle
autonomie, con la
deliberazione 23.03.2016 n. 10
(allegato 1), ha risolto la questione di massima, enunciando
il seguente principio di diritto: “la corretta
interpretazione dell’articolo 93, comma 7-ter, d.lgs.
163/2006, alla luce delle disposizioni recate dal d.l. n.
90/2014 e dei criteri individuati dalla legge delega n.
11/2016, è nel senso dell’esclusione dall’incentivo alla
progettazione interna di qualunque attività manutentiva,
senza distinzione tra manutenzione ordinaria o
straordinaria”.
In motivazione, la Sezione delle autonomie ha, altresì,
precisato che: “…la chiara formulazione dell’articolo 93,
comma 7-ter, desumibile dall’applicazione del fondamentale
canone ermeneutico dell’interpretazione letterale non lasci
spazio ad criteri per cosi dire sussidiari, che finirebbero
inevitabilmente per alterare la voluntas legis, espressa in
modo inequivoco dal tenore letterale delle disposizioni (in claris non fit interpretatio)”.
Questa Sezione regionale di controllo, ai sensi dell’art.6,
comma 4, del d.l. 10.10.2012, n.174, convertito dalla
legge 07.12.2012, n. 213, si attiene al principio
ermeneutico richiamato
(Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna,
parere 20.04.2016 n. 36). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: La corretta interpretazione dell’articolo 93,
comma 7-ter, d.lgs. 163/2006, alla luce delle disposizioni
recate dal d.l. n. 90/2014 e dei criteri individuati dalla
legge delega n. 11/2016, è nel senso dell’esclusione
dall’incentivo alla progettazione interna di qualunque
attività manutentiva, senza distinzione tra manutenzione
ordinaria o straordinaria.
---------------
Il Sindaco del Comune di Mazzano (BS), con nota del 13.02.2016,
ha formulato una richiesta di parere avente ad oggetto
l’interpretazione della disciplina del “fondo per la
progettazione e l'innovazione”, previsto dall'art. 93, commi
7-bis, 7-ter e 7-quater del d.lgs. 12.04.2006, n. 163.
L’istante precisa che, ai fini della determinazione della
quota destinata ai dipendenti interni, in relazione alla
complessità dell'opera, lo schema di regolamento predisposto
dall’amministrazione comunale distingue fra “progetti
riguardanti nuove opere” (ristrutturazioni, restauri,
recuperi edilizi e rifacimenti, manutenzione straordinaria
composta) e progetti di sola manutenzione ordinaria.
Alla luce della vigente formulazione del comma 7-ter del
citato art. 93 (che sembra escludere tout court le attività
manutentive), il Sindaco pone i seguenti quesiti:
a) se i progetti riguardanti la "manutenzione straordinaria
composta" ed la “manutenzione ordinaria" vanno inquadrati
all'interno della nozione di "attività manutentive", per le
quali opera, ex lege, l'esclusione dalla ripartizione del
fondo per la progettazione e l'innovazione;
b) se, invece, ai fini della ripartizione del predetto fondo
andrebbero escluse solo quelle procedure che, di norma, non
richiedono alcuna attività di progettazione (come definita
dal d.lgs. n. 163 del 2006 e dal DPR 05.10.2010, n.
207), ossia quelle prestazioni semplici ed uniformi, che non
richiedono la produzione di elaborati progettuali, come, per
esempio, i cottimi fiduciari indicati all'art. 173 del DPR
n. 207 del 2010.
...
La Sezione ha già esaminato la richiesta di parere
proveniente dal Comune di Mazzano (BS) nella camera di
consiglio del 01.03.2016. Nell’occasione, il collegio ha
sospeso la pronuncia in attesa che la Sezione delle
Autonomie della Corte dei conti decidesse sulla questione di
massima sollevata dalla Sezione regionale di controllo per
l’Emilia Romagna con
parere 15.12.2015 n. 156.
Dopo il deposito della
deliberazione 23.03.2016 n. 10 della Sezione delle
Autonomie, che si è pronunciata
sulla questione deferita, il magistrato relatore ha chiesto
al Presidente della Sezione regionale la fissazione di una
nuova camera di consiglio.
Nella pronuncia indicata, adottata ai sensi dell’art. 6,
comma 4, del decreto legge 10.10.2012, n. 174,
convertito dalla legge 07.12.2012, n. 213, la Sezione
delle Autonomie ha affermato il seguente principio di
diritto: “la corretta interpretazione dell’articolo 93,
comma 7-ter, d.lgs. 163/2006, alla luce delle disposizioni
recate dal d.l. n. 90/2014 e dei criteri individuati dalla
legge delega n. 11/2016, è nel senso dell’esclusione
dall’incentivo alla progettazione interna di qualunque
attività manutentiva, senza distinzione tra manutenzione
ordinaria o straordinaria.”
Il seguente orientamento, per le cui motivazioni si rinvia
al testo della
deliberazione 23.03.2016 n. 10 vincola
l’interpretazione della scrivente Sezione regionale e
permette di dare risposta al questo posto dal Comune di Mazzano
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 14.04.2016 n. 111). |
PATRIMONIO: Un ente locale che si determina per l’acquisto di un bene
immobile in ragione di una convenzione urbanistica, ma non ha
ancora formalizzato l’acquisto con passaggio notarile, può
impegnare il prezzo per l’acquisto del bene costituendo un
fondo pluriennale vincolato quando detto prezzo è finanziato
con l’avanzo di amministrazione ed è pagato in rate a
scadenza su più annualità?
La Sezione osserva che, poiché il
verificarsi dei presupposti indicati nella convenzione
urbanistica costituisce idoneo titolo giuridico per
procedere all’impegno di spesa del prezzo da corrispondere
per l’acquisizione del bene immobile previsto nella
convenzione medesima, l’ente locale, quando il pagamento è
rateizzato in più esercizi finanziari, deve avvalersi
dell’istituto del fondo pluriennale vincolato.
---------------
Il Sindaco del Comune di Clusone (BG), con la nota indicata in
epigrafe, espone nelle premesse che il Consiglio Comunale
aveva approvato, con deliberazione n. 78 del 30.12.2002,
convenzione urbanistica, sottoscritta il 07.05.2003,
relativa al Piano Integrato di Intervento denominato "Angelo Maj", obbligandosi all'acquisto dell'immobile costituente
l'ex Convitto Angelo Maj, al prezzo di € 981.268,00, entro
60 giorni dal collaudo delle opere pubbliche previste dal
PII medesimo, eseguito il 26.03.2010 con conseguente
perfezionamento dell'obbligo dell'acquisto in data
25.05.2010.
Chiarisce che il 24.05.2010 perveniva al Comune lettera
raccomandata da parte della proprietaria dell'immobile in
questione con la quale veniva fissata la data del rogito
notarile per il giorno 26.07.2010.
Stanti i pesanti riflessi che il pagamento di un importo
così elevato avrebbe avuto sui saldi del Patto di Stabilità
interno l’amministrazione civica avviava una trattativa con
la controparte per addivenire ad un pagamento rateizzato e
ad una diversa determinazione del prezzo.
Tenuto conto che l’accordo si è concluso solamente nell'anno
2015, il Consiglio Comunale -con deliberazione n. 24 del
24.03.2015, prendendo atto del medesimo- ha disposto di
applicare l'avanzo di amministrazione 2014, nella quota
destinata ad investimenti e nella quota libera per il nuovo
importo concordato di € 750.000.00.
Oltre il prezzo più contenuto, il comune istante otteneva a
proprio vantaggio la rateizzazione del prezzo in sei
annualità, nella misura di € 150.000,00 per i primi tre anni
e € 100.000,00 per quelli a seguire.
Tuttavia il trasferimento di proprietà dell'immobile non è
ancora materialmente avvenuto e nel bilancio di previsione
2015 è stato applicato importo dell'avanzo di
amministrazione per € 750.000,00 destinato al pagamento
della prima rata ed all'alimentazione della quota di Fondo
Pluriennale Vincolato di parte capitale per le rate scadenti
negli esercizi successivi per € 600.000,00.
Alla luce di quanto premesso, al fine di verificare la
corretta applicazione del principio contabile della
competenza finanziaria potenziata ex D.Lgs. 118/2011,
l’organo rappresentativo dell’Ente chiede a questa Sezione
di esprimere un parere sul seguente quesito: “se sia
correttamente costituito il Fondo Pluriennale 'Vincolato di
parte capitale per la quota relativa all'acquisto
dell'immobile in parola, potendosi ritenere giuridicamente
perfezionata l'obbligazione all'acquisto dello stesso,
essendosi concretizzate le condizioni previste dalla
convenzione urbanistica, anche in assenza del formale
passaggio di proprietà del bene con atto notarile”.
...
2. Venendo al merito della richiesta, occorre
preliminarmente osservare che la Sezione, nell’ambito
dell’attività consultiva, non può sindacare le pregresse
scelte dell’ente che si riverberano sulle modalità, anche
temporali, con le quali l’ente locale è pervenuto alla
decisione di acquisire il bene immobile a cui si fa
riferimento nella richiesta di parere, trattandosi di
opzione gestionale rimessa alla potestà amministrativa
riservata dalla legge alla pubblica amministrazione. Dunque,
questa Sezione prenderà in esame il quesito formulato
dall’ente astraendolo da ogni riferimento alla fattispecie
concreta sottostante.
Il quesito può essere riformulato nei termini che seguono:
un ente locale che si determina per l’acquisto di un bene
immobile in ragione di una convenzione urbanistica ma non ha
ancora formalizzato l’acquisto con passaggio notarile, può
impegnare il prezzo per l’acquisto del bene costituendo un
fondo pluriennale vincolato quando detto prezzo è finanziato
con l’avanzo di amministrazione ed è pagato in rate a
scadenza su più annualità?
Per risolvere il quesito formulato, occorre preliminarmente
richiamare le regola che disciplinano il fondo pluriennale
vincolato.
Il principio applicato 4.2 allegato al d.lgs. n.
118/2011, definisce nello specifico le modalità di
costituzione, l’iscrizione in bilancio e la gestione del
c.d. fondo pluriennale vincolato che, di fatto, opera come
un saldo finanziario, costituito da risorse già accertate
(nel caso di specie, l’avanzo di amministrazione risultante
dagli esercizi precedenti e accertato nel rispetto degli
artt. 186 e 187 Tuel), destinate al finanziamento di
obbligazioni passive dell’ente già impegnate, ma esigibili
in esercizi successivi a quello in cui è accertata l’entrata
(nel caso in esame le rate per il pagamento del prezzo di
acquisto dell’immobile).
La finalità del fondo in discorso è sancita al punto 5.4 del
richiamato principio contabile applicato: “nasce
dall'esigenza di applicare il principio della competenza
finanziaria di cui all'allegato 1, e rendere evidente la
distanza temporale intercorrente tra l'acquisizione dei
finanziamenti e l'effettivo impiego di tali risorse”.
In ordine alla costituzione del fondo il legislatore precisa
che questo “è formato solo da entrate correnti vincolate e
da entrate destinate al finanziamento di investimenti,
accertate e imputate agli esercizi precedenti a quelli di
imputazione delle relative spese”, ma “prescinde dalla
natura vincolata o destinata delle entrate che lo
alimentano”.
Inoltre, “il fondo riguarda prevalentemente le
spese in conto capitale ma può essere destinato a garantire
la copertura di spese correnti, ad esempio per quelle
impegnate a fronte di entrate derivanti da trasferimenti
correnti vincolati, esigibili in esercizi precedenti a
quelli in cui è esigibile la corrispondente spesa”.
Questo istituto salvaguarda gli equilibri di bilancio perché
“sugli stanziamenti di spesa intestati ai singoli fondi
pluriennali vincolati non è possibile assumere impegni ed
effettuare pagamenti. Il fondo pluriennale risulta
immediatamente utilizzabile, a seguito dell'accertamento
delle entrate che lo finanziano, ed è possibile procedere
all'impegno delle spese esigibili nell'esercizio in corso
(la cui copertura è costituita dalle entrate accertate nel
medesimo esercizio finanziario), e all'impegno delle spese
esigibili negli esercizi successivi (la cui copertura è
effettuata dal fondo). In altre parole, il principio della
competenza potenziata prevede che il "fondo pluriennale
vincolato" sia uno strumento di rappresentazione della
programmazione e previsione delle spese pubbliche
territoriali, sia correnti sia di investimento, che evidenzi
con trasparenza e attendibilità il procedimento di impiego
delle risorse acquisite dall'ente che richiedono un periodo
di tempo ultrannuale per il loro effettivo impiego ed
utilizzo per le finalità programmate e previste”.
Chiarito il funzionamento del fondo pluriennale vincolato e
che in entrata può essere alimentato dal risultato di
amministrazione vincolato già accertato e accantonato per
gli esercizi successivi (principio contabile applicato
concernente la competenza finanziaria, allegato 4/2 punto
9.2 capoversi 6 e 7), ai fini della soluzione del quesito in
esame, occorre altresì evidenziare che detto fondo può
essere costituito solo quando sussiste il titolo giuridico
per impegnare la spesa la cui scadenza è ripartita su più
esercizi finanziari. Infatti, mentre le entrate vincolate
destinate alla copertura di spese impegnate e imputate agli
esercizi successivi sono rappresentate nel fondo pluriennale
vincolato, diversamente le entrate vincolate destinate alla
copertura di spese non ancora impegnate (in assenza di
obbligazioni giuridicamente perfezionate) sono rappresentate
contabilmente nella quota vincolata del risultato di
amministrazione.
Dunque, bisogna affrontare la questione se la sottoscrizione
di una convenzione urbanistica che prevede l’obbligo a
carico dell’ente di acquisire un determinato bene immobile
-anche se il trasferimento non è stato ancora formalizzato
con atto notarile- costituisca idoneo titolo giuridico per
procedere all’impegno di spesa.
Nel caso di specie, poiché come riferisce l’ente
si sono
verificati i presupposti previsti dalla convenzione per far
sorgere l’obbligo di acquisto del bene immobile in discorso,
a prescindere dalla formalizzazione dell’acquisto mediante
atto notarile, si deve ritenere che il titolo giuridico per
procedere all’impegno di spesa sussista e, in ragione della
scadenza delle singole rate del pagamento del prezzo, l’ente
debba procedere ad impegnare la spesa nell’esercizio di
competenza.
Detta affermazione è in linea con il principio contenuto
nell’allegato sulla competenza finanziaria potenziata (all.
4.2), laddove al punto 5.3. si afferma che “anche per le
spese di investimento che non richiedono la definizione di
un cronoprogramma, l'imputazione agli esercizi della spesa
riguardante la realizzazione dell'investimento è effettuata
nel rispetto del principio generale della competenza
finanziaria potenziato, ossia in considerazione
dell'esigibilità della spesa. Pertanto, anche per le spese
che non sono soggette a gara, è necessario impegnare sulla
base di una obbligazione giuridicamente perfezionata, in
considerazione della scadenza dell'obbligazione stessa. A
tal fine, l'amministrazione, nella fase della
contrattazione, richiede, ove possibile, che nel contratto
siano indicate le scadenze dei singoli pagamenti. E' in ogni
caso auspicabile che l'ente richieda sempre un
cronoprogramma della spesa di investimento da realizzare”.
In conclusione, poiché il verificarsi dei presupposti
indicati nella convenzione urbanistica, costituisce idoneo
titolo giuridico per procedere all’impegno di spesa del
prezzo da corrispondere per l’acquisizione del bene immobile
previsto in convenzione, l’ente locale, quando il pagamento
è rateizzato in più esercizi finanziari, deve avvalersi
dell’istituto del fondo pluriennale vincolato
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 13.04.2016 n. 108). |
ENTI LOCALI - LAVORI PUBBLICI: L’Ente, in caso di esercizio provvisorio, per
finanziare lavori pubblici di somma urgenza, può ricorrere o
alla procedura di cui all’art. 163 (fondi capienti
indipendentemente dalla presenza di un evento eccezionale o
imprevedibile), o alla procedura di cui al comma 3 dell’art.
191 del TUEL ricorrendo la fattispecie ivi prevista. In tale
ultimo caso non vi è alcun problema di ordine logico in
quanto un bilancio c’è ed esplica i suoi effetti.
Invero, le nuove regole disciplinate dal TUEL
nella versione vigente prevedono che il bilancio di
previsione sia redatto su tre anni ed abbia valore
autorizzatorio in ciascuno degli anni presi in esame dal
bilancio. Pertanto, pur non avendo il Comune approvato il
bilancio di previsione 2016-2018, un bilancio 2016 a cui
fare riferimento nel corso dell’esercizio provvisorio vi è
ed è quello relativo al 2016 approvato per il periodo
2015-2017.
Inoltre, è lo stesso principio contabile sopra richiamato a
riconoscere “l’esistenza” del bilancio nel corso
dell’esercizio provvisorio allorquando dispone che “è
consentita la possibilità di variare il bilancio gestito in
esercizio provvisorio, secondo le modalità previste dalla
specifica disciplina di settore”.
---------------
Con la nota indicata in premessa il Sindaco del Comune di
Otricoli (TR) chiede a questa Sezione un parere circa la corretta
applicazione del combinato disposto degli artt. 191, comma 3
e 194, comma 1, lett. e), del TUEL.
In particolare il Sindaco riferisce di aver valutato la
necessità di avviare, per causa di forza maggiore, una
procedura di somma urgenza e di trovarsi in esercizio
provvisorio ai sensi dell’art. 163 del TUEL. In tali
circostanze il Comune di Otricoli chiede se:
1) la previsione dell'articolo 163 del D.Lgs. 18.08.2000 n.
267, che prevede al comma 3 l'esclusione tra i limiti di
impegno di spesa, delle spese per somma urgenza, è
riferibile anche ai casi di incapienza delle previsioni di
bilancio;
2) in esercizio provvisorio sia possibile procedere al
riconoscimento dei debiti fuori bilancio [nei termini della]
procedura [indicata dall’] articolo 191, comma 3, del D.Lgs,
18.08.2000 n. 267, per le somme che non trovano copertura
nelle disponibilità di bilancio.
Il Comune chiede, poi, qualora non fosse possibile procedere
al riconoscimento del debito fuori bilancio, come si debba
procedere per l'applicazione della somma urgenza in assenza
delle disponibilità nel bilancio provvisorio.
...
Per ciò che concerne il merito dei quesiti posti dal Sindaco
di Otricoli, la soluzione agli stessi si rinviene nel D.lgs.
n. 267 del 2000 e nei principi contabili vigenti.
Con riferimento al primo quesito, il comma 3 dell’art. 163,
individua le spese impegnabili in esercizio provvisorio, tra
cui quelle relative ai lavori pubblici di somma urgenza o
altri interventi di somma urgenza, a cui si applica la
disciplina prevista dal medesimo articolo ai commi 4 e 5.
Per procedere ad impegni di spesa su fondi incapienti è
necessario che ricorra la fattispecie prevista dal comma 3,
dell’art. 191 (“qualora i fondi specificamente previsti in
bilancio si dimostrino insufficienti”), norma che si
riferisce sia all’insufficienza dei fondi sia all’incapienza
degli stessi in quanto in entrambi i casi l’Ente si trova di
fronte a lavori di summa urgenza privi di copertura
finanziaria (una lettura “restrittiva” vanificherebbe
l’intento della norma).
Ritiene questo Collegio che l’Ente abbia la
possibilità di attivare la procedura di cui al comma 3,
dell’art. 191 [la
Giunta,…., su proposta del responsabile del procedimento,
sottopone al Consiglio il provvedimento di riconoscimento
della spesa con le modalità previste dall'articolo 194,
comma 1, lettera e), prevedendo la relativa copertura
finanziaria nei limiti delle accertate necessità per la
rimozione dello stato di pregiudizio alla pubblica
incolumità] nel corso dell’esercizio provvisorio.
Difatti, da una parte la tipologia di spesa è ricompresa tra
quelle ammesse dall’art. 163 del TUEL e dai principi
contabili vigenti (punto 8.5) nel corso dell’esercizio
provvisorio, dall’altra la norma in esame non prevede
eccezioni alla procedura ivi richiamata ed è, pertanto,
ammissibile il riconoscimento del debito fuori bilancio, o
meglio, riconoscimento della spesa con le modalità previste
dall'articolo 194, comma 1, lettera e), in caso di evento
eccezionale o imprevedibile la cui rimozione richieda lavori
che non trovino copertura finanziaria in bilancio.
Diversamente argomentando l’Ente si troverebbe
nell’impossibilità, ad esempio, di salvaguardare
l’incolumità pubblica (finalità che il legislatore intende
realizzare con la norma in esame).
Pertanto l’Ente, in caso di esercizio provvisorio, per
finanziare lavori pubblici di somma urgenza, può ricorrere o
alla procedura di cui all’art. 163 (fondi capienti
indipendentemente dalla presenza di un evento eccezionale o
imprevedibile), o alla procedura di cui al comma 3 dell’art.
191 del TUEL ricorrendo la fattispecie ivi prevista. In tale
ultimo caso non vi è alcun problema di ordine logico in
quanto un bilancio c’è ed esplica i suoi effetti.
Senza voler prendere posizioni circa l’esistenza di un
bilancio in esercizio provvisorio sotto il previgente
ordinamento contabile, le nuove regole disciplinate dal TUEL
nella versione vigente prevedono che il bilancio di
previsione sia redatto su tre anni ed abbia valore
autorizzatorio in ciascuno degli anni presi in esame dal
bilancio. Pertanto, pur non avendo il Comune approvato il
bilancio di previsione 2016-2018, un bilancio 2016 a cui
fare riferimento nel corso dell’esercizio provvisorio vi è
ed è quello relativo al 2016 approvato per il periodo
2015-2017.
Inoltre, è lo stesso principio contabile sopra richiamato a
riconoscere “l’esistenza” del bilancio nel corso
dell’esercizio provvisorio allorquando dispone che “è
consentita la possibilità di variare il bilancio gestito in
esercizio provvisorio, secondo le modalità previste dalla
specifica disciplina di settore”
(Corte dei Conti, Sez. controllo Umbria,
parere 29.02.2016 n. 35). |
PUBBLICO IMPIEGO: In
ordine alla corretta
imputazione contabile della spesa dovuta a titolo di IRAP,
che grava sull’Amministrazione quale sostituto d’imposta,
per i compensi professionali dovuti all’avvocatura interna,
l’obbligo giuridico di
provvedere al pagamento dell’IRAP grava in capo
all’Amministrazione -non potendosi ricomprendere nel
concetto di “onere riflesso”-, che reperirà le risorse per
finanziare il pagamento dell’imposta nei fondi destinati a
compensare l’attività dell’avvocatura comunale.
---------------
Il Sindaco del Comune di Foligno (PG) ha inoltrato a questa
Sezione Regionale di Controllo una richiesta di parere, per
il tramite del Consiglio delle Autonomie Locali dell’Umbria,
in merito ai compensi professionali dovuti alla avvocatura
interna a seguito di sentenza favorevole all'Ente in base
all’art. 27 del CCNL 14.09.2000, ed in particolare
relativamente alla corretta imputazione contabile della
spesa dovuta a titolo di IRAP, che grava
sull’Amministrazione quale sostituto d’imposta.
In particolare l’Ente chiede di conoscere se l’IRAP “…debba
essere in tutto e per tutto imputata come gli oneri
previdenziali, e pertanto contabilmente a carico del
compenso lordo maturato in favore del dipendente, ovvero se
la provvista finanziaria di tale onere per l'Amministrazione
debba essere imputata a carico del bilancio comunale…”.
...
Nel merito il Comune chiede di conoscere l’avviso della
Sezione in merito alla imputazione contabile dell’IRAP, da
versare quale sostituto di imposta, in relazione ai compensi
professionali dovuti alla avvocatura interna per il caso di
sentenza favorevole all'Ente, così come previsto dall’art.
27 del CCNL 14.09.2000. In particolare l’Amministrazione
chiede se l’IRAP debba essere assimilata agli oneri
previdenziali, e dunque posta a carico del compenso lordo
spettante al dipendente, oppure se vada imputata a carico
del bilancio comunale o di altra voce del quadro economico
dei lavori incentivati.
Occorre premettere che il citato art. 27 del CCNL EE.LL. del
14.09.2000 (Norma per gli enti provvisti di
Avvocatura) ha previsto che:
“1. Gli enti provvisti di Avvocatura costituita secondo i
rispettivi ordinamenti disciplinano la corresponsione dei
compensi professionali, dovuti a seguito di sentenza
favorevole all’ente, secondo i principi di cui al regio
decreto legge 27.11.1933 n. 1578 e disciplinano, altresì, in
sede di contrattazione decentrata integrativa la
correlazione tra tali compensi professionali e la
retribuzione di risultato di cui all’art. 10 del CCNL del
31.03.1999. Sono fatti salvi gli effetti degli atti con i
quali gli stessi enti abbiano applicato la disciplina
vigente per l’Avvocatura dello Stato anche prima della
stipulazione del presente CCNL.”.
Successivamente la legge 23.12.2005, n. 266 (legge
finanziaria 2006) all’art. 1, comma 208 (Contenimento oneri
personale avvocatura interna delle amministrazioni
pubbliche), ha previsto che “Le somme finalizzate alla
corresponsione di compensi professionali comunque dovuti al
personale dell'avvocatura interna delle amministrazioni
pubbliche sulla base di specifiche disposizioni contrattuali
sono da considerare comprensive degli oneri riflessi a
carico del datore di lavoro.”
La magistratura contabile ha avuto modo di chiarire che
nella nozione di “oneri riflessi” indicata dal legislatore
vanno ricompresi solo gli “oneri previdenziali ed
assistenziali” e non anche i diversi oneri fiscali, quali
l’imposta IRAP.
Ciò in base alla considerazione che il presupposto
dell’imposta regionale sulle attività produttive è
costituito dall’esercizio di una attività organizzata
autonomamente, fatto che non ricorre in caso di personale
dipendente da un ente, che, per operare, si avvale invece
della struttura e dei mezzi dell’ente stesso, datore di
lavoro a cui carico resta dunque l’imposta .
Si è pertanto concluso che, in considerazione dei
presupposti propri dell’IRAP di cui all’art. 2 del D.lvo n.
446 del 1997, la detta imposta non va considerata ai fini
del compenso da erogare ad avvocato dipendente, assegnato
all’ufficio legale dell’ente. Ne deriva che l’IRAP non deve
essere trattenuta dal compenso corrisposto all’avvocato.
(cfr. tra le tante Corte dei conti, Sezione Regionale di
controllo per l’Umbria, deliberazione n. 11/2007/p del
22.10.2007; deliberazione n. 1/2008/p del 28.02.2008).
Più di recente la Sezioni Riunite della Corte dei conti, con
deliberazione n. 33/CONTR/2010 del 07.06.2010, hanno
confermato che l’IRAP, costituendo un onere fiscale, grava
sull’ente datore di lavoro, che non deve trattenerla dal
compenso corrisposto all’avvocato dipendente.
E’ stato poi precisato che le somme destinate al pagamento
dell’IRAP devono trovare copertura finanziaria nell’ambito
dei fondi per il pagamento dei compensi professionali
dell’avvocatura interna delle amministrazioni pubbliche, nel
rispetto dell’art. 81, quarto comma, della Costituzione, in
quanto “l’imposta deve, comunque, trovare copertura
nell’ambito delle risorse quantificate e disponibili, in
linea con l’obiettivo del contenimento di ogni effetto di
incremento degli oneri di personale gravanti sui bilanci
degli enti pubblici”.
Si è concluso nel senso che “...Pertanto, ai fini della
quantificazione dei fondi per l’incentivazione e per le
avvocature interne, vanno accantonate, a fini di copertura,
rendendole indisponibili, le somme che gravano sull’ente per
oneri fiscali, nella specie a titolo di IRAP. Quantificati i
fondi nel modo indicato, i compensi vanno corrisposti al
netto, rispettivamente, degli “oneri assicurativi e
previdenziali” e degli “oneri riflessi”, che non includono,
per le ragioni sopra indicate, l’IRAP…”.
In altri termini “...su un piano strettamente contabile,
tenuto conto delle modalità di copertura di “tutti gli
oneri”, l’amministrazione non potrà che quantificare le
disponibilità destinabili ad avvocati e professionisti,
accantonando le risorse necessarie a fronteggiare l’onere
Irap, come avviene anche per il pagamento delle altre
retribuzioni del personale pubblico …. Pertanto, le
disposizioni sulla provvista e la copertura degli oneri di
personale (tra cui l’Irap) si riflette, in sostanza, sulle
disponibilità dei fondi per la progettazione e per
l’avvocatura interna ripartibili nei confronti dei
dipendenti aventi titolo, da calcolare al netto delle
risorse necessarie alla copertura dell’onere Irap gravante
sull’amministrazione.”
Va messo in evidenza che l’orientamento espresso dalle
Sezioni Riunite, appena riportato, è stato confermato anche
dalla giurisprudenza successiva (Corte dei conti, Sezione
regionale di controllo per la Basilicata, deliberazione
n. 115/2013; Liguria, n. 38/2014; Veneto, n. 393/2015).
Questa Sezione non ha motivo di discostarsi
dall’orientamento consolidatosi in materia, e pertanto il
Collegio conclude nel senso che l’obbligo giuridico di
provvedere al pagamento dell’IRAP grava in capo
all’Amministrazione -non potendosi ricomprendere nel
concetto di “onere riflesso”-, che reperirà le risorse per
finanziare il pagamento dell’imposta nei fondi destinati a
compensare l’attività dell’avvocatura comunale
(Corte dei Conti, Sez. controllo Umbria,
parere 29.02.2016 n. 23). |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Presidenti, elezioni doc.
Nel ballottaggio vince chi ottiene più voti. La disciplina è
affidata dalla legge all'autonomia degli enti locali.
Qual è la normativa da applicare per l'elezione del
presidente del consiglio comunale qualora emergano, in
materia, delle differenze tra la disciplina statutaria e
quella regolamentare di un ente locale?
Nella fattispecie in esame, al fine di consentire l'elezione
del presidente del consiglio comunale, sono state convocate
due sedute consiliari che, tuttavia, non hanno avuto esito
positivo. Si è proceduto, quindi, ad una terza votazione di
ballottaggio tra i due candidati più votati nella seconda
votazione senza esito positivo in quanto si sono registrati,
sul totale dei votanti, metà voti a favore di un candidato e
metà schede bianche.
Lo statuto comunale prevede che il presidente sia eletto a
maggioranza dei due terzi dei componenti l'assemblea. Se,
dopo due scrutini, da tenersi in due distinte sedute, nessun
candidato ottiene la maggioranza prevista, nella terza
votazione si effettua il ballottaggio a maggioranza semplice
fra i due candidati che hanno riportato il maggior numero di
voti nella seconda votazione.
Il regolamento del consiglio comunale prevede, invece,
un'ulteriore votazione successiva alla terza risultata
infruttuosa in quanto stabilisce che, qualora nessun
candidato ottenga, dopo due scrutini, la maggioranza
qualificata prevista dallo statuto, si debba procedere,
nella terza votazione, al ballottaggio a maggioranza
semplice fra i due candidati che hanno riportato il maggior
numero di voti nella seconda votazione e che le votazioni
vengano ripetute nella seduta successiva.
Posto che la disciplina del numero legale per la validità
delle adunanze (c.d. «quorum strutturale») e delle
votazioni (c.d. «quorum funzionale o deliberativo») è
stata delegificata -ai sensi dell'art. 38, comma 2, del
decreto legislativo n. 267/2000, «il funzionamento dei
consigli, nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto, è
disciplinato dal regolamento»- nel caso di specie non si
ravvisa la discrasia tra le due fonti di autonomia locale,
in quanto la normativa regolamentare si limita a
disciplinare un'ulteriore votazione di cui non si fa
menzione nello statuto.
In altri termini, il regolamento del consiglio comunale non
contrasta con nessuna norma statutaria poiché, in quanto
fonte abilitata a porre norme sul funzionamento del
consiglio, aggiunge un ulteriore passaggio alla procedura
prevista dallo statuto per l'elezione del presidente del
consiglio comunale.
Le citate fonti di autonomia locale, pertanto, con
riferimento al ballottaggio da tenersi nella terza
votazione, dovrebbero essere interpretate in coerenza con la
ratio che, normalmente, ispira il sistema di
ballottaggio; vale a dire considerando eletto quello tra i
candidati che abbia ottenuto il più alto numero dei voti a
prescindere dal numero dei votanti
(articolo ItaliaOggi del 13.05.2016). |
APPALTI:
Le nuove procedure di affidamento.
DOMANDA:
In ordine alla corretta applicazione di quanto previsto dal
nuovo Codice degli Appalti – D.Lgs. n. 50/2016, si chiede:
1. La soglia dei 1.000,00 € per l’acquisizione di beni e
servizi in forma autonoma e, quindi, senza obbligo di
ricorso a Convenzioni Consip, Piattaforma telematica
M.E.P.A., Piattaforma telematica di Sintel/Arca – Regione
Lombardia, Centrale Unica di Committenza (C.U.C), è tuttora
vigente (L. n. 296/2006 Art. 1, co. 450)?
2. In base al combinato disposto di cui all’art. 36 ed art.
37 del D.Lgs. n. 50/2016, l’affidamento diretto da parte del
Comune per la fornitura di beni e servizi di importo
inferiore a 40.000, 00 € e lavori di importo inferiore a
150.000,00 deve essere comunque effettuato nell’ambito: a)
Convenzione Consip; b) Piattaforma telematica MEPA?
3. In assenza del prodotto richiesto in Convenzione Consip
ed in MEPA è possibile procedere alla richiesta di offerta
mediante ricorso alle procedure ordinarie (forme
tradizionali cartacee per l’espletamento della gara)? O è
necessario rivolgersi alla Piattaforma telematica di Sintel/Arca
– Regione Lombardia?
RISPOSTA:
Ai sensi dell’art. 35 del D.Lgs. 50/2016 (nuovo Codice degli
appalti), emanato in attuazione delle direttive comunitarie
2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE, e applicabile a tutti i
bandi di gara pubblicati successivamente al 19 aprile u.s.,
le disposizioni del codice si applicano ai contratti
pubblici il cui importo, al netto dell’imposta sul valore
aggiunto, è pari o superiore alle soglie seguenti:
- euro
209.000 per gli appalti pubblici di forniture, di servizi e
per i concorsi pubblici di progettazione, aggiudicati da
amministrazioni aggiudicatrici sub-centrali (inclusi gli
enti locali). Il calcolo del valore stimato dell’appalto è
basato sull'importo totale pagabile, al netto dell'IVA,
valutato dall'amministrazione aggiudicatrice. Il calcolo
tiene conto dell'importo massimo stimato, ivi compresa
qualsiasi forma di eventuali opzioni o rinnovi del contratto
esplicitamente stabiliti nei documenti di gara.
L’affidamento e l'esecuzione di lavori, servizi e forniture
sotto soglia, avvengono nel rispetto dei principi di
economicità, efficacia, tempestività e correttezza, nonché
nel rispetto del principio di rotazione e in modo da
assicurare l'effettiva possibilità di partecipazione delle
micro, piccole e medie imprese, secondo le seguenti
modalità:
1) per affidamenti di importo inferiore a 40.000
euro, mediante affidamento diretto, adeguatamente motivato o
per i lavori in amministrazione diretta;
2) per affidamenti
di importo pari o superiore a 40.000 euro e inferiore alle
soglie per le forniture e i servizi (209.000), mediante
procedura negoziata previa consultazione, ove esistenti, di
almeno cinque operatori economici individuati sulla base di
indagini di mercato o tramite elenchi di operatori
economici, nel rispetto di un criterio di rotazione degli
inviti.
Le S.A sono comunque obbligate (la norma fa infatti
salvo quanto previsto dagli articoli 37 e 38) a utilizzare
gli strumenti di acquisto e di negoziazione, anche
telematici, previsti dalle vigenti disposizioni in materia
di contenimento della spesa. Potranno farlo in modalità
autonoma ove in possesso della necessaria qualificazione di
cui all'articolo 38 (iscritte in apposito elenco delle s.a.
qualificate presso l’Anac, perché in possesso dei requisiti
tecnico organizzativi definiti con dpcm da emanarsi entro
novanta giorni dalla data di entrata in vigore del codice).
Al momento questa parte della disciplina non è applicabile.
In alternativa, possono acquisire lavori, forniture o
servizi mediante impiego di una centrale di committenza
qualificata secondo la normativa vigente, ovvero mediante
aggregazione con una o più stazioni appaltanti aventi la
necessaria qualifica. Lo stesso avviene in caso di
indisponibilità degli strumenti telematici anche in
relazione alle singole categorie merceologiche.
L’articolo
1, comma 450, della legge 27.12.2006, n. 296, come
modificato dal comma 502 della legge di stabilità 2016
(Legge 208/2015), prevede che le altre amministrazioni
pubbliche di cui all'articolo 1 d.lgs. 165/01 sono tenute a
fare ricorso al me.P.A. ovvero ad altri mercati elettronici
per gli acquisti di beni e servizi di importo pari o
superiore a 1.000 euro (ad eccezione degli acquisti di beni
e strumenti informatici, per cui è sempre obbligatorio il
ricorso al me.PA, ai sensi del co. 508 L. 208/2015).
Sulla base della normativa richiamata, si risponde nel
dettaglio ai quesiti posti:
1) La soglia dei 1.000,00 € per
l’acquisizione di beni e servizi in forma autonoma e,
quindi, senza obbligo di ricorso a Convenzioni Consip,
Piattaforma telematica M.E.P.A., Piattaforma telematica di
Sintel/Arca – Regione Lombardia, Centrale Unica di
Committenza (C.U.C), è tutt’ora vigente.
2) L’affidamento diretto da parte del Comune di appalti per
la fornitura di beni e servizi di importo inferiore a 40.000
euro e lavori di importo inferiore a 150.000 euro deve
essere comunque effettuato: utilizzando gli strumenti di
acquisto e di negoziazione, anche telematici, previsti dalle
vigenti disposizioni in materia di contenimento della spesa
in modalità autonoma ove in possesso della necessaria
qualificazione di cui all'articolo 38 (iscritte in apposito
elenco delle s.a. qualificate presso l’Anac, perché in
possesso dei requisiti tecnico organizzativi definiti con
dpcm da emanarsi entro novanta giorni dalla data di entrata
in vigore del codice).
Al momento questa parte della
disciplina non è applicabile. mediante impiego di una
centrale di committenza qualificata, o mediante aggregazione
con una o più stazioni appaltanti aventi la necessaria
qualifica (unioni di Comuni, convenzioni, SUA).
3) In caso di indisponibilità degli strumenti
telematici, anche in relazione alle singole categorie
merceologiche, le stazioni appaltanti procedono mediante
impiego di una centrale di committenza qualificata (ex art.
38, ma la norma non è ancora attuabile), o mediante
aggregazione con una o più stazioni appaltanti aventi la
necessaria qualifica (unioni di Comuni, convenzioni, SUA), o
procedono mediante lo svolgimento di procedura ordinaria
(artt. 60 e ss.)
(link a
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PATRIMONIO:
L'impianto sportivo.
DOMANDA:
Questo Comune lo scorso anno ha affidato per 15 anni ad una
società sportiva dilettantistica la gestione di un bene
pubblico (impianto sportivo di calcio) per le finalità
proprie dello stesso. L’affidamento è stato fatto a seguito
di pubblico avviso nel rispetto dei principi di trasparenza
ecc.
La precedente gestione era stata affidata ad una società
sportiva dilettantistica che non aveva più interesse ne
mezzi sufficienti a condurre una gestione in pareggio. Il
comune annualmente versava a favore di detta società
sportiva dilettantistica un contributo variabile (tra 25000
e 30000 euro) per supportare le spese di gestione. Detto
contributo viene adesso versato anche al nuovo gestore vista
la scarsa rilevanza economica dell’impianto, peraltro assai
vetusto.
Il nuovo gestore (la nuova associazione sportiva
dilettantistica) propone oggi al comune di eseguire
importanti lavori di miglioramento della struttura e dei
vari impianti e locali accessori (campo in erba da
trasformare in sintetico, irrigazione, illuminazione,
spogliatoi ecc. ecc.) per un importo complessivo stimabile
in circa 4500000 euro. Il vantaggio di questi interventi di
miglioria sarebbe immediatamente quello di rendere meno
onerosa la gestione con risparmi evidenti sulle utenze ed
una maggiore fruibilità degli impianti anche da parte di
utenze di comuni vicini, con evidente vantaggio per
riequilibrare le spese di gestione attuali.
Il nuovo gestore
avrebbe la possibilità di realizzare circa il 50% dei vari
lavori di miglioria tramite sponsor che avrebbero tutto
l’interesse a finanziare i lavori anche eseguendoli
direttamente trattandosi di imprese locali (debitamente
qualificate) ed interessate a pubblicizzare la loro
attività.
Il comune dovrebbe versare al gestore (sulla base
di un progetto dallo stesso presentato) un contributo pari
alla differenza dei lavori che lo lo stesso gestore
realizzerebbe tramite sponsor e ditte specializzate ed in
possesso dei regolari requisiti di legge e relative
qualifiche (SOA ecc.).
L’offerta del gestore per il comune è
sicuramente interessante ed il contributo verrebbe versato
solo in base ai lavori man mano eseguiti e certificati. Si
chiede di sapere se il comune può procedere nel modo
suddetto e con quali modalità.
RISPOSTA:
Le esigenze descritte nel quesito di avvalersi di un
affidatario gestore dell’impianto sportivo di calcio anche
per eseguire i lavori descritti nel quesito versando al
medesimo un contributo pari alla differenza di importo
necessario rispetto a quello ottenuto dallo stesso gestore
tramite suoi sponsor, delinea sicuramente una sistematica
che può essere ricondotta all’istituto della concessione
disciplinata dall’art. 142 ss. del vecchio codice ed ora
dall’art. 164 ss. del nuovo codice dei contratti pubblici.
Si consiglia pertanto di valutare attentamente la
problematica in relazione alle nuove disposizione
verificando in particolare i nuovi limiti e modalità di
affidamento e le nuove limitazioni in ordine alla
possibilità della PA di concedere un contributo economico in
aggiunta alla gestione in chiave produttiva del bene (v. in
particolare art. 165, comma 2, in ordine al limite del 30%
dell’investimento)
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EDILIZIA PRIVATA:
L'ordinanza di demolizione.
DOMANDA:
Si chiede di sapere quali siano i provvedimenti da
intraprendere per sanzionare l'inottemperanza ad una
ordinanza di demolizione a firma del funzionario
responsabile (titolare di posizione organizzativa) dell'area
urbanistica.
RISPOSTA:
L’art. 17 del d. l. 133/2014, al fine di imprimere impulso
alle attività di vigilanza urbanistico - edilizia e alla
semplificazione delle procedure volte alla irrogazione delle
sanzioni ripristinatorie conseguenti all’accertamento di
reati legati all’abusivismo edilizio, ha integrato il comma
4 dell’art. 31 del D.P.R. 380/2001 con ulteriori tre commi,
prevedendo, in particolare, una sanzione amministrativa
pecuniaria di importo compreso tra 2.000 euro e 20.000 euro
da comminarsi a carico del responsabile dell’abuso che
risulti inadempiente, decorso il termine perentorio di
novanta giorni dall’ingiunzioni stabilito per provvedere
alla demolizione o alla rimessa in pristino dello stato dei
luoghi.
La quantificazione della sanzione, di competenza del
dirigente, trova una compiuta disciplina generale nell’art.
11 della legge n. 689/1981, “Modifiche al sistema penale”,
secondo cui: “Nella determinazione della sanzione
amministrativa pecuniaria fissata dalla legge tra un limite
minimo ed un limite massimo e nell'applicazione delle
sanzioni accessorie facoltative, si ha riguardo alla gravità
della violazione, all'opera svolta dall'agente per
l'eliminazione o attenuazione delle conseguenze della
violazione, nonché alla personalità dello stesso e alle sue
condizioni economiche”.
Tuttavia, nulla vieta, come negli altri casi di sanzioni
amministrative pecuniarie di competenza degli enti locali,
fissate dalla legge tra un limite minimo e un limite
massimo, il consiglio, con atto regolamentare, stabilisca
criteri ai quali il dirigente debba attenersi per la
determinazione della sanzione.
Si ritiene invece che non possa essere modificata la
disposizione prevista dalla norma che stabilisce la misura
massima in caso di abusi realizzati sulle aree e sugli
edifici di cui al comma 2 dell’art. 27 del D.P.R. 380/2001,
ivi comprese le aree soggette a rischio idrogeologico
elevato o molto elevato.
L’irrogazione della sanzione amministrativa pecuniaria non
deve far ritardare, da parte del responsabile, l’adozione
degli altri atti, previsti dalla normativa, tesi al
ripristino della situazione precedente all’abuso:
l’acquisizione dell’area, l’immissione in possesso, la
trascrizione nei registri immobiliari e l’eventuale
demolizione dell’opera acquisita
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APPALTI:
L'affidamento del servizio biblioteca comunale.
DOMANDA:
Questa Amministrazione, dovendo affidare il servizio
biblioteca comunale e premio letterario, chiede se sia
possibile procedere mediante affidamento diretto come
previsto dall'art. 36 (contratti sotto soglia) comma 2 del
D.Lgs. n. 50/2016.
RISPOSTA:
L’affidamento del servizio di gestione della biblioteca può
avvenire mediante affidamento diretto, ai sensi dell’art. 36
del D.Lgs. 50/2016, solo se di importo inferiore a 40.000
euro, al netto dell'IVA. Il calcolo tiene conto dell'importo
massimo stimato, ivi compresa qualsiasi forma di eventuali
opzioni o rinnovi del contratto esplicitamente stabiliti nei
documenti di gara.
L’affidamento deve comunque avvenire
attraverso ordini a valere su strumenti di acquisto, che non
richiedono apertura del confronto competitivo, messi a
disposizione dalle centrali di committenza (convenzioni Consip, accordi quadro CUC, acquisti a catalogo). Se invece
l’importo del servizio è pari o superiore a 40.000 euro,
l’affidamento avviene mediante procedura negoziata previa
consultazione, ove esistenti, di almeno cinque operatori
economici (indagini di mercato, elenchi di operatori
economici, rotazione degli inviti).
Anche in questo caso, le S.A sono comunque obbligate a utilizzare gli strumenti di
acquisto e di negoziazione, anche telematici (strumenti che
richiedono apertura del confronto competitivo).
Ma possono
farlo autonomamente solo se sono S.A. qualificate, ai sensi
dell’art. 38 (ossia iscritte in elenco Anac, perché in
possesso dei requisiti tecnico organizzativi definiti con
DPCM da emanarsi entro novanta giorni dalla data di entrata
in vigore del codice. Al momento questa parte della
disciplina non è applicabile). Altrimenti devono ricorrere
ad una centrale di committenza qualificata
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CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/
Gruppo misto, comuni liberi. È l'ente a decidere il numero
minimo per la costituzione.
Consiglio di stato: le norme regolamentari non possono
essere disapplicate se non previo ritiro.
La disciplina prevista dal regolamento sul funzionamento del
consiglio comunale può condizionare la possibilità di
costituire il gruppo misto alla circostanza che lo stesso
sia composto da almeno due consiglieri, con ciò impedendo la
formazione del gruppo misto monopersonale?
L'esistenza
dei gruppi consiliari non è espressamente prevista dalla
legge e la relativa materia è regolata dalle norme
statutarie e regolamentari dei singoli enti locali.
In un precedente parere di questo ministero, il cui
orientamento si conferma, era stato osservato che, «in
assenza di disposizioni che escludano espressamente la
possibilità di istituire il gruppo misto anche con la
partecipazione di un unico componente, si potrebbe accedere
a un'interpretazione delle fonti di autonomia locale
orientata alla valorizzazione dei diritti dei singoli di
poter aderire ad un gruppo consiliare».
Nel caso di specie, però, il regolamento del consiglio
comunale vieta espressamente la possibilità di costituire il
gruppo misto uni personale e, pertanto, va da sé che
l'avviso espresso in altra circostanza non può essere
adattato al diverso contesto normativo in vigore nel comune
in oggetto.
In merito, appare utile richiamare le osservazioni formulate
dal Consiglio di stato con sentenza n. 3357 del 2010, in
base alle quali, una volta adottato il regolamento recante
le norme sul funzionamento del consiglio comunale, queste
ultime non possono essere disapplicate se non previo ritiro.
Pertanto, poiché la materia dei «gruppi consiliari» è
interamente demandata alla competenza delle fonti di
autonomia locale, è in tale ambito che potrà essere valutata
l'opportunità di adottare apposite modifiche alla normativa
in questione
(articolo ItaliaOggi del 06.05.2016). |
PATRIMONIO:
Possibilità acquisizioni immobili, ai sensi dell'art. 12,
comma 1-ter, D.L. n. 98/2011.
La disposizione di cui all'art. 12,
comma 1-ter, D.L. n. 98/2011, prevede per le pubbliche
amministrazione un regime di limitazione per gli acquisti di
immobili a decorrere dall'01.01.2014.
La Corte dei conti ritiene l'inapplicabilità di questa
disciplina vincolistica ai casi di permuta pura, ovvero
senza conguaglio di prezzo a carico dell'ente territoriale.
Specificamente, la fattispecie della permuta di cosa
presente con cosa futura postula la manifestazione della
volontà delle parti nel senso di trasferimento della
proprietà attuale in cambio della cosa futura, che sarà
acquisita nel momento in cui verrà ad esistenza (artt. 1555
e 1472 c.c.).
Il Comune, proprietario di un terreno edificabile, sul quale
insiste un edificio che necessiterebbe di importanti lavori
di ristrutturazione, ha ricevuto proposta, da parte del
proprietario di un terreno adiacente, di un accordo avente
ad oggetto il trasferimento della proprietà del terreno e
dell'edificio comunali in cambio dell'acquisto del diritto
di proprietà su immobili che verranno realizzati su una
superficie inclusiva del terreno comunale di cui trattasi,
nell'ambito di un piano di riqualificazione urbana
dell'area.
Il Comune precisa che l'operazione avverrebbe senza
ulteriori spese, e chiede se la stessa sia possibile ai
sensi della normativa vigente, in particolare avuto riguardo
ai vincoli posti dall'art. 12, comma 1-ter, D.L. n. 98/2011
[1].
L'art. 12, comma 1-ter, richiamato dall'Ente prevede che, a
decorrere dall'01.01.2014, al fine di pervenire a risparmi
di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di
stabilità interno, gli enti territoriali (e gli enti del
Servizio sanitario nazionale) effettuano operazioni di
acquisto di immobili solo ove ne siano comprovate
documentalmente l'indispensabilità e l'indilazionabilità
attestate dal responsabile del procedimento. La congruità
del prezzo è attestata dall'Agenzia del demanio
[2].
Nel quadro di questo regime vincolistico di acquisti
immobiliari, il Comune prospetta un'operazione di
acquisizione di immobili dietro trasferimento di sue
proprietà immobiliari: detta operazione sembrerebbe
presentare i caratteri della permuta, per cui si espongono
alcune considerazioni, in generale, sulle condizioni che
rendono legittima detta modalità di acquisizione di
immobili, stante le previsioni di cui all'art. 12, comma
1-ter, D.L. n. 98/2011, ed in particolare sulle condizioni
che integrano la permuta di cosa presente con cosa futura,
visto che i locali che acquisirà il comune non sono ancora
esistenti [3].
In ordine alla possibilità di effettuare operazioni di
permuta immobiliare, da parte degli enti locali, nel quadro
della disciplina vincolistica richiamata, la Corte dei conti
ha distinto la fattispecie della permuta pura da quella
della permuta con conguaglio di prezzo a carico dell'ente
territoriale. La permuta pura costituisce un'operazione
finanziariamente neutra e pertanto non rientra nell'ambito
di applicazione del comma 1-ter dell'art. 12, D.L. n.
98/2011, nel presupposto dell'effettiva coincidenza di
valore, idoneamente accertata, fra i beni oggetto di
permuta. Per contro, nell'ipotesi in cui l'operazione
comprenda il versamento, da parte dell'ente territoriale,
della differenza di valore fra i beni oggetto della permuta,
con conseguente qualificazione dell'operazione non in
termini di neutralità finanziaria, si ricade nell'alveo di
applicazione del comma 1-ter in argomento
[4].
La distinzione tra permuta pura e permuta non a parità di
prezzo, ovvero con erogazione in denaro a conguaglio da
parte dell'amministrazione -osserva il magistrato contabile-
è operata oltre che dalla giurisprudenza contabile anche
dallo stesso legislatore, che ha espressamente disposto la
non applicabilità del previgente art. 12, comma 1-quater, DL
n. 98/2011, tra l'altro, alle permute a parità di prezzo
(art. 10-bis, c. 1, DL n. 35/2013, richiamato)
[5]. Per
cui, si impone all'ente locale una puntuale quantificazione
del valore di quanto sarà oggetto della permuta al fine di
garantire l'effettiva parità di prezzo richiesta dalla norma
[6].
Nel caso in esame, viene in considerazione il trasferimento
di un terreno edificabile, con l'edificio che vi insiste, di
proprietà del Comune, in cambio dell'acquisizione di locali
ancora da realizzarsi, e dunque potrebbe configurarsi, al
ricorrere di determinate circostanze che si vanno ad
esporre, la fattispecie della permuta di cose future.
La Corte dei conti Marche ha preso in esame la possibilità
della permuta di cose future, nell'anno 2013, ai sensi del
previgente art. 12, comma 1-quater, DL n. 98/2011, prima che
intervenisse l'interpretazione autentica operata dal D.L. n.
35/2013, ed ha concluso, in quella sede, per l'inclusione
della fattispecie della permuta nella norma di divieto di
acquisto [7].
Posto che, a seguito dell'interpretazione autentica
suddetta, è stato risolto (in senso positivo), sul piano
legislativo e giurisprudenziale, il dubbio sull'esclusione
delle operazioni di permuta pura dalla normativa limitativa
di cui al previgente comma 1-quater dell'art. 12, DL n.
98/2011 [8],
e dunque da quella, meno incisiva, di cui al vigente comma
1-ter, appaiono utili le considerazioni della Corte dei
conti Marche sulla configurabilità della permuta di cosa
futura, al fine di escluderla dal campo di applicazione del
divieto di acquisto di cui al comma 1-ter in argomento.
Al riguardo, la Corte dei conti Marche richiama le
riflessioni della Corte di cassazione, secondo cui la
fattispecie della permuta di cosa presente con cosa futura
si può constatare soltanto dopo un'attenta interpretazione
della reale volontà delle parti nel caso concreto.
E così, la Suprema Corte, muovendo dalla effettiva volontà
delle parti nella fattispecie dedotta in giudizio, ha
sostenuto che il contratto con cui una parte cede all'altra
la proprietà di un'area edificabile, in cambio di un
appartamento sito nel fabbricato che sarà realizzato sulla
stessa area a cura e con mezzi del cessionario, integra gli
estremi del contratto di permuta tra un bene esistente ed un
bene futuro, qualora il sinallagma negoziale consista nel
trasferimento della proprietà attuale in cambio della cosa
futura.
È il caso di osservare che nella stessa sentenza la Corte di
cassazione ha utilizzato il principio espresso per escludere
l'applicabilità della permuta nella fattispecie dedotta in
giudizio, in quanto il sinallagma contrattuale non
consisteva nel trasferimento immediato e reciproco del
diritto di proprietà attuale del terreno e di quello futuro
sul fabbricato, ma si articolava in due distinti contratti,
vendita con effetti reali immediati del terreno e promessa
di vendita, con effetti obbligatori, con la quale le parti
si impegnavano a stipulare un successivo contratto per
l'alienazione di una parte del fabbricato da costruire
[9].
Ed ancora, in altra sede, la Corte di cassazione ha
affermato che la cessione di un'area edificabile in cambio
di un appartamento sito nel fabbricato realizzato a cura e
con i mezzi del cessionario può integrare tanto gli estremi
della permuta tra un bene esistente ed un bene futuro quanto
quelli del negozio misto caratterizzato da elementi propri
della vendita e dell'appalto, ricorrendo la prima ipotesi
qualora il sinallagma contrattuale consista nel
trasferimento della proprietà attuale in cambio della cosa
futura (l'obbligo di erigere il manufatto collocandosi,
conseguentemente, su di un piano accessorio e strumentale),
verificandosi la seconda ove, al contrario, la costruzione
del fabbricato assuma rilievo centrale all'interno della
convenzione negoziale, e l'alienazione dell'area costituisca
solo il mezzo per pervenire a tale obiettivo primario delle
parti [10].
Alla luce delle considerazioni esposte, l'operazione
prospettata dal Comune può assumere i caratteri della
permuta di cosa presente con cosa futura se la volontà
espressa dalle parti sia nel senso di trasferimento della
proprietà attuale in cambio della cosa futura, che sarà
acquisita nel momento in cui verrà ad esistenza (artt. 1555
e 1472 c.c.), ed appare consentita, ai sensi del comma
1-ter, dell'art. 12, DL n. 98/2011, soltanto qualora vi sia
la corrispondenza di valore tra gli immobili comunali ceduti
(terreno ed edificio) e gli immobili futuri che acquisirà il
Comune, senza conguaglio di prezzo a suo carico (permuta
pura).
---------------
[1] Sull'applicazione dell'art. 12, comma 1-ter, in
argomento, ali enti locali del Friuli Venezia Giulia, v.
parere di questo Servizio n. 676/2015, consultabile
all'indirizzo web: http://autonomielocali.regione.fvg.it
[2] Attualmente non è più vigente la norma imperativa che
vietava l'acquisto di beni immobili, nell'anno 2013, da
parte delle pubbliche amministrazioni, contenuta nel comma
1-quater dell'art. 12, D.L. n. 98/2011, introdotto dall'art.
1, c. 138, L. n. 228/2012. Detto comma 1-quater era stato
oggetto di una norma di interpretazione autentica (art.
10-bis, c. 1, D.L. n. 35/2013), al fine di escludere
espressamente dall'ambito di applicabilità del divieto ivi
contenuto, tra l'altro, le permute 'a parità di prezzo'
(cfr. Corte dei conti. sez. contr. Lombardia, deliberazione
05.03.2014, n. 97).
[3] Ai sensi dell'art. 1552 c.c., 'La permuta è il contratto
che ha per oggetto il reciproco trasferimento della
proprietà di cose, o di altri diritti, da un contraente
all'altro'.
Per quanto concerne, in particolare, la permuta di cosa
presente con cosa futura, la stessa è possibile in forza del
rinvio alla disciplina della vendita operato per la permuta
dall'art. 1555 c.c., con conseguente applicazione dell'art.
1472 c.c., disciplinante la vendita di cose future, la cui
proprietà si acquista non appena vengano ad esistenza.
Infatti, la vendita di cosa futura si configura quale
vendita con effetti reali differiti, in quanto il
trasferimento del bene futuro avverrà solo con la sua venuta
ad esistenza.
[4] Cfr. Corte dei conti Lombardia, n. 97/2014, cit.. Nello
stesso senso, C. conti Lombardia, deliberazione 23.04.2013,
n. 162, secondo cui il tenore letterale del comma 1-ter
dell'art. 12, DL n. 98/2011, rivela l'inapplicabilità delle
prescrizioni ivi contenute ai casi di permuta pura, o al
massimo laddove sia previsto un conguaglio, da erogarsi però
a carico del privato; diversamente, si rientrerebbe
all'interno della norma interdittiva. Conformi, C. conti
Lombardia, deliberazione 23.04.2013, n. 164, e C. conti
Lombardia, deliberazione 07.05.2013, n. 193, richiamate da
C. conti Lombardia 24.09.2015, n. 310.
[5] C. conti, sez. contr. Piemonte, 30.10.2014, n. 203.
[6] C. conti, sez. contr. Piemonte, 18.06.2013, n. 236.
[7] Corte dei conti, sez. contr. Marche, 12.02.2013, n. 7.
[8] Corte dei conti Piemonte n. 236/2013 e n. 203/2014, citt..
[9] Cass. civ., sez. I, 22.12.2005, n. 28479.
[10] Cass. civ., sez. I, 21.11.1997, n. 11643, secondo cui
l'indagine sul reale contenuto delle volontà espresse nella
convenzione negoziale spetta al Giudice di merito (04.05.2016 -
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CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/
Accesso senza la privacy. Il diritto dei consiglieri
comunali è illimitato. Non possono
essere opposti profili di riservatezza, ma va tutelato il
segreto.
Sono ostensibili, da parte dell'amministrazione comunale, i
documenti concernenti il rilascio di titoli abilitativi,
studi di fattibilità, documenti dello Sportello unico
attività produttive e dell'Ufficio edilizia
privata-urbanistica richiesti dai consiglieri comunali ai
sensi dell'art. 43, comma 2, del decreto legislativo n.
267/2000?
L'istanza di accesso ai documenti rientranti in tale
elenco può essere riscontrata negativamente in ragione delle
eventuali pretese risarcitorie dei soggetti privati
coinvolti, eventualmente danneggiati dalla diffusione delle
notizie in possesso della amministrazione?
L'art. 43, comma 2, riconosce al consigliere comunale un
diritto dai confini più ampi sia del diritto di accesso ai
documenti amministrativi attribuito al cittadino nei
confronti del comune di residenza, ai sensi dell'art. 10 del
decreto legislativo n. 267/2000 che, più in generale, nei
confronti della pubblica amministrazione come disciplinato
dalla legge n. 241/1990.
La Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi con
parere espresso nella seduta del 28.02.2012 ha
affermato che «il diritto di accesso riconosciuto ai
consiglieri degli organi elettorali locali ex art. 43
decreto legislativo n. 267/2000 è strettamente funzionale
all'esercizio del proprio mandato, alla verifica e al
controllo del comportamento degli organi istituzionali
decisionali dell'ente territoriale, ai fini della tutela
degli interessi pubblici, e si configura come peculiare
espressione del principio democratico dell'autonomia locale
e della rappresentanza esponenziale della collettività
(Consiglio di stato sez. V, 08.11.2011, n. 5895). In tale
ottica, al consigliere comunale non può essere opposto alcun
diniego, altrimenti gli organi di governo dell'ente
sarebbero arbitri di stabilire essi stessi l'estensione del
controllo sul proprio operato».
La giurisprudenza del Consiglio di stato si è orientata nel
senso di ritenere che l'ampia prerogativa a ottenere
informazioni è riconosciuta ai consiglieri comunali senza
che possano essere opposti profili di riservatezza, restando
fermi, tuttavia, gli obblighi di tutela del segreto e i
divieti di divulgazione di dati personali, nei casi
specificamente determinati dalla legge, come previsto dal
sopra richiamato art. 43.
Anche il Tribunale amministrativo regionale della Lombardia
(sezione di Milano) con sentenza n. 2363 del 23.09.2014 ha
riconosciuto un ampio diritto dei consiglieri comunali ad
accedere agli atti del comune in quanto «non è in dubbio
che possa essere ostensibile anche documentazione che, per
ragioni di riservatezza, non sarebbe ordinariamente
ostensibile ad altri richiedenti, essendo il consigliere
tenuto al segreto d'ufficio» (articolo ItaliaOggi del 29.04.2016). |
APPALTI FORNITURE:
Acquisto mobili e arredi da parte degli enti locali
nell'anno 2016.
L'art. 10, comma 3, D.L. n. 210/2015,
nel novellare l'art. 1, comma 141, L. n. 228/2012, statuente
limiti agli acquisti di mobili e arredi delle pubbliche
amministrazioni, da un lato ha prorogato la sua applicazione
a tutto il 2016 e dall'altro ha disposto per tale anno
l'esclusione degli enti locali dall'ambito applicativo del
divieto.
Il Comune riferisce l'intenzione di attivare un Punto di
informazione turistica per finalità di promozione del
proprio territorio, e chiede se, alla luce della normativa
vigente -in particolare, in considerazione dei limiti di
spesa di cui al comma 141 [1]
dell'art. 1 della L. n. 228/2012 e delle ipotesi derogatorie
di cui al successivo comma 165 [2]-
possa procedere all'acquisto dei mobili necessari all'arredo
di detto Ufficio turistico.
La questione posta dall'Ente è allo stato superata, per
l'anno 2016, a seguito della modifica normativa recata dal
D.L. n. 210/2015. In particolare, l'art. 10 comma 3, D.L. n.
210/2015, nel novellare l'art. 1, comma 141, L. n. 228/2012,
da un lato ha prorogato la sua applicazione a tutto l'anno
2016 e dall'altro ha disposto che 'Per l'anno 2016 gli
enti locali sono esclusi dal divieto di cui al citato
articolo 1, comma 141, della legge n. 228 del 2012'.
In virtù dell'art. 10, comma 3, richiamato, l'Ente istante
non è soggetto, dunque, nell'anno 2016, al limite di
acquisto di mobili e arredi, di cui all'art. 1, comma 141,
L. n. 228/2012.
---------------
[1] Si riporta il testo del comma 141 in commento: 'Ferme
restando le misure di contenimento della spesa già previste
dalle vigenti disposizioni, negli anni 2013, 2014, 2015 e
2016 le amministrazioni pubbliche inserite nel conto
economico consolidato della pubblica amministrazione, come
individuate dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai
sensi dell'articolo 1, comma 3, della legge 31.12.2009, n.
196, e successive modificazioni, nonché le autorità
indipendenti e la Commissione nazionale per le società e la
borsa (CONSOB) non possono effettuare spese di ammontare
superiore al 20 per cento della spesa sostenuta in media
negli anni 2010 e 2011 per l'acquisto di mobili e arredi, se
non destinati all'uso scolastico e dei servizi all'infanzia,
salvo che l'acquisto sia funzionale alla riduzione delle
spese connesse alla conduzione degli immobili. In tal caso
il collegio dei revisori dei conti o l'ufficio centrale di
bilancio verifica preventivamente i risparmi realizzabili,
che devono essere superiori alla minore spesa derivante
dall'attuazione del presente comma. La violazione della
presente disposizione è valutabile ai fini della
responsabilità amministrativa e disciplinare dei dirigenti'.
[2] Si riporta il testo del comma 165 in commento: 'I limiti
di cui al precedente comma 141 non si applicano agli
investimenti connessi agli interventi speciali realizzati al
fine di promuovere lo sviluppo economico e la coesione
sociale e territoriale, di rimuovere gli squilibri
economici, sociali, istituzionali e amministrativi del Paese
e di favorire l'effettivo esercizio dei diritti della
persona in conformità al quinto comma dell'articolo 119
della Costituzione e finanziati con risorse aggiuntive ai
sensi del decreto legislativo 31.05.2011, n. 88' (21.04.2016 -
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ATTI
AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI:
Istanza di accesso, formulata da un cittadino, rispetto alla
documentazione prodotta a giustificazione della richiesta
per il rimborso degli oneri sostenuti a cagione dei permessi
retribuiti, goduti da un amministratore locale,
ai sensi degli articoli 79 e 80 del decreto legislativo
267/2000 (TUEL).
Nel caso di richiesta, presentata da un
cittadino, di ottenere copia della documentazione
giustificativa inerente al rimborso degli oneri relativi ai
permessi retribuiti goduti da un amministratore comunale ai
sensi degli artt. 79 ed 80 del d.lgs. 267/2000, non si
ritiene sussistente l'interesse diretto, concreto e attuale
connesso ad una situazione giuridicamente rilevante che
legittima l'esercizio del diritto di accesso.
Il Comune presenta una richiesta di parere in merito ad
un'istanza di accesso, formulata da parte di un cittadino e
finalizzata ad ottenere copia della documentazione
giustificativa concernente il rimborso degli oneri connessi
ai permessi retribuiti goduti da un amministratore locale,
ai sensi degli articoli 79 e 80 del decreto legislativo
18.08.2000, n. 267 - Testo unico delle leggi
sull'ordinamento degli enti locali (TUEL).
Al riguardo, l'ente locale, nel domandare se, nel caso di
specie, sia tenuto al rilascio di quanto richiesto, precisa
che il cittadino, che ha formulato l'istanza, non appare
portatore di alcun interesse giuridicamente rilevante.
Lo scrivente ritiene che in relazione alla richiesta di
accesso in oggetto non sussistano i presupposti che ne
possano giustificare l'accoglimento, in considerazione
dell'assenza di un interesse diretto, concreto ed attuale
connesso ad una situazione giuridicamente rilevante;
inoltre, anche qualora fosse motivatamente dimostrata
l'esistenza di quest'ultimo, l'istanza di accesso porrebbe
un problema di tutela della riservatezza dei terzi
controinteressati [1].
Al fine di fornire risposta all'illustrato quesito, è
necessario premettere alcune considerazioni sull'istituto
del diritto di accesso ai documenti amministrativi.
Si precisa, anzitutto, che, indipendentemente dalla natura
del diritto di accesso, esso è pur sempre strumentale
rispetto alla protezione di un'ulteriore o sottesa
situazione soggettiva che non necessariamente è di interesse
legittimo o di diritto soggettivo, ma che può avere anche la
consistenza di un interesse semplice o di fatto
[2].
Tale posizione giuridica attiva, in qualsiasi modo la si
voglia qualificare, deve sempre sussistere affinché la
pretesa di accedere agli atti possa trovare protezione.
L'orientamento della giustizia amministrativa è, pertanto,
nel senso che il diritto di accesso postula sempre un
accertamento concreto dell'esistenza di un interesse
differenziato della parte che richiede i documenti.
Si rammenta, inoltre, che il principio della trasparenza
amministrativa, accolto dal nostro ordinamento, non è
assoluto e incondizionato, ma subisce alcuni temperamenti,
basati, fra l'altro, sulla limitazione dei soggetti attivi
del diritto di accesso.
Da quanto sopra, discende l'esigenza di appurare un
collegamento diretto tra il richiedente e il documento: la
posizione legittimante l'accesso è costituita da una
situazione giuridicamente rilevante e dal collegamento tra
questa posizione sostanziale qualificata e la specifica
documentazione di cui si pretende la conoscenza e della
quale si chiede l'esibizione, onde poi procedere nella sede
ritenuta più opportuna per la sua effettiva tutela
[3].
Il diritto di accesso non giustifica, del resto, un
generalizzato e pluricomprensivo diritto alla conoscenza di
tutti i documenti riferiti all'attività della pubblica
amministrazione [4],
ma solo il più limitato diritto alla conoscenza di quegli
atti che incidono in via diretta e immediata sugli interessi
del soggetto instante.
La domanda di accesso soggiace, quindi, al filtro
dell'esistenza di un interesse diretto [5],
concreto [6]
e attuale [7],
corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata,
che trovi collegamento nel documento che si vuole conoscere
[8].
Si rammenta, inoltre, che, l'accesso non può essere un mezzo
per compiere una indagine o un controllo ispettivo, al
quale, per il Consiglio di Stato, 'sono ordinariamente
preposti organi pubblici, perché in tal caso nella domanda
di accesso è assente un diretto collegamento con specifiche
situazioni giuridicamente rilevanti'
[9].
Proprio perché l''interesse' rappresenta il fulcro
attorno al quale ruota tutta la disciplina del diritto di
accesso agli atti, è indispensabile motivare -in sede di
richiesta- l'esatta rappresentazione dell'interesse
all'accesso, acclarando una differenziata posizione di
interesse concreto, diretto ed attuale, che legittima a
chiedere copia di documenti.
Non si può ritenere che la richiesta di ottenere copia della
documentazione giustificativa inerente il rimborso degli
oneri relativi ai permessi retribuiti goduti da un
amministratore comunale ai sensi degli articoli 79 ed 80 del
decreto legislativo 267/2000 conferisca per ciò solo un
generico e indifferenziato titolo per il diritto d'accesso
nei confronti degli atti della pubblica amministrazione:
l'esercizio del diritto di accesso non può che essere
collegato alla sussistenza (e alla puntuale
rappresentazione) di un interesse differenziato, concreto e
attuale all'accesso ai documenti. La richiesta di ottenere
copia della summenzionata documentazione inerente al
rimborso degli oneri relativi ai permessi retribuiti di cui
agli articoli 79 ed 80 del decreto legislativo 267/2000 non
vale a incardinare nel soggetto instante un potere -comunque
privato e perciò estraneo ai circuiti pubblici di
rappresentatività e responsabilità- di controllo verso la
pubblica amministrazione.
Il diritto di accesso impone pur sempre un accertamento
concreto dell'esistenza di un bisogno differenziato di
conoscenza in capo a chi richiede i documenti, perché può
essere utilizzato solo come strumento di conoscenza, da
parte dei singoli titolari, di atti effettivamente, o anche
solo potenzialmente, incidenti sui loro interessi
particolari. Al riguardo, si rammenta che, mediante il
diritto di accesso, si esercita, legittimamente, un
controllo quando questo è indirizzato verso il singolo atto
amministrativo nei confronti del quale l'interessato vanta
un interesse concreto e differenziato rispetto alla
collettività.
All'atto della richiesta, al fine del riconoscimento
dell'interesse giuridicamente rilevante, il soggetto deve,
pertanto, dimostrare che esiste una correlazione tra la
propria situazione giuridica soggettiva e l'utilità di
conoscere il bene o la vicenda, oggetto dell'atto o del
documento amministrativo di cui chiede visione o copia
[10]. La
domanda di accesso deve, quindi, essere finalizzata alla
tutela di uno specifico interesse giuridico di cui il
richiedente è portatore [11].
Si osserva inoltre che, come rilevato dalla giustizia
amministrativa, 'il titolare deve esternare non solo le
ragioni per cui intende accedere ma, soprattutto, la
coerenza di tali ragioni con gli scopi alla cui
realizzazione il diritto di accesso è preordinato'
[12].
L'ente deve verificare l'attitudine dell'acquisizione dei
contenuti dell'atto o documento in astratto a realizzare un
interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una
situazione giuridicamente tutelata, come richiesto dalla
normativa vigente.
All'instante, è quindi, richiesta una 'doverosa
specificazione' [13]
dell'interesse correlato all'accesso.
Ed, inoltre, 'la domanda di accesso non può essere
palesemente sproporzionata rispetto all'effettivo interesse
conoscitivo del soggetto, che deve specificare il puntuale
riferimento che lega il documento richiesto alla propria
posizione soggettiva, ritenuta meritevole di tutela'
[14].
La giustizia amministrativa ha rimarcato che l'istante deve
possedere una posizione differenziata rispetto all'interesse
generico di ogni cittadino a conoscere l'attività dei
pubblici poteri, altrimenti l'istanza si risolve in una
indagine e verifica della mera legittimità dell'attività
della pubblica amministrazione, lungi dall'essere funzionale
alla salvaguardia di un proprio interesse giuridico protetto
[15].
In relazione al caso di specie, oltre alla già rilevata
mancanza di un interesse diretto, concreto e attuale in capo
al richiedente, si fa notare che l'istanza di accesso
potrebbe determinare un conflitto con esigenze di tutela
della riservatezza facenti capo a soggetti terzi.
Ed, invero, come già anticipato, l'istanza di accesso,
oggetto del quesito in analisi, pone anche delle
problematiche in ordine alla tutela della riservatezza dei
soggetti terzi controinteressati (possono esservi, invero,
soggetti controinteressati all'accesso: nel caso in esame,
l'amministratore comunale che ha usufruito dei permessi
retribuiti ai sensi degli articoli 79 e 80 del decreto
legislativo 267/2000 e datore di lavoro di quest'ultimo)
[16].
Tale situazione si verifica nei casi in cui l'ostensione o
la riproduzione dell'atto o documento siano potenzialmente
lesive del diritto alla riservatezza altrui. Al riguardo, si
rammenta che il diritto di accesso ai documenti
amministrativi è posto a garanzia della trasparenza ed
imparzialità degli enti pubblici e che, per regola generale,
l'amministrazione detentrice di documenti, direttamente
riferibili alla tutela di un interesse personale e concreto,
non può limitare il diritto di accesso, se non per motivate
esigenze di riservatezza [17]
o segretezza.
Il limite della riservatezza attribuisce rilievo
all'interesse privatistico a che sia mantenuto il riserbo in
ordine a vicende che coinvolgono la sfera personale,
determinandosi una tensione tra esigenze contrapposte,
risolta attraverso un bilanciamento di interessi.
All'infuori dei casi di esclusione, specificamente tipizzati
in sede legislativa o regolamentare, il diritto di accesso
può, dunque, essere sacrificato in relazione alla possibile
lesione, non consentita dall'ordinamento ovvero non
giustificata o controbilanciata da interessi di pari rango,
del diritto alla riservatezza che attiene alla sfera
personale di soggetti terzi, più o meno intensamente e più o
meno direttamente garantita dalla legge.
Anche in relazione al limite della riservatezza, vi è,
dunque, la necessità che il richiedente l'ostensione degli
atti specifichi con esattezza quale obiettivo si propone di
realizzare mediante l'apprendimento dei dati contenuti nella
documentazione indicata nella sua istanza. Ciò, fra l'altro,
consente (sia all'amministrazione sia, eventualmente, al
giudice) di valutare con precisione se l'interesse alla
conoscenza dell'atto o documento sia dotato di un fondamento
giuridico sufficientemente forte da consentirgli, in caso di
conflitto, di prevalere sul diritto alla riservatezza altrui
[18].
---------------
[1] La pubblica amministrazione, ricevuta una richiesta
di accesso, può: - declinarla per inammissibilità
nell'ipotesi che essa sia avanzata in assenza dei
presupposti richiesti dalla normativa perché si possa
procedere all'esame della pretesa nel merito (ad esempio,
perché totalmente priva di motivazione); - respingerla, se
la stessa afferisce ad atti inaccessibili, stante la
prevalenza dell'interesse alla riservatezza di terzi su
quello della pubblicità; - limitarla; - differirla; -
accoglierla ove non vi siano ragioni soggettive od
oggettive, la cui sussistenza sia indispensabile a seconda
dei casi, per respingerla, limitarla o differirla, rendendo
operante, in tal modo, i principi di pubblicità e
trasparenza dell'attività amministrativa sanciti, come
regola generale, dall'articolo 1, comma 1, della legge
07.08.1990, n. 241. Si legga, al riguardo, S. Pignataro,
'Forme e modalità di tutela del diritto di accesso agli atti
e documenti amministrativi', Giurisdizione Amministrativa,
n. 10, ottobre 2012, 395-396.
[2] Così, Consiglio di Stato, sez. V, 10.08.2007, n. 4411.
[3] Consiglio di Stato, 22.05.2006, n. 2959 e n. 24/2010.
[4] Così, Consiglio di Stato, sentenza n. 24/2010, cit.
[5] Per interesse diretto deve intendersi un interesse
riferibile al soggetto che fa l'istanza. Sull'interesse
diretto è utile, in particolare, la sentenza del Consiglio
di Stato, sez. IV, 04.04.2012, n. 4671, secondo cui, ai fini
dell'accesso, deve sussistere un''ineliminabile correlazione
con un interesse, oltre che attuale e concreto, quindi non
ipotetico e astratto, anche diretto ossia immediatamente
riferibile alla sfera giuridica dell'istante, in termini di
sua pertinenza ad essa e quindi, come tale, personale'. Si
adotta, dunque, l'equivalenza interesse diretto uguale ad
interesse personale. Ma la stessa sentenza offre un altro
spunto significativo: 'una stretta relazione con la
documentazione di cui si chiede l'ostensione, e quindi un
rapporto diretto tra la medesima e la situazione giuridica
soggettiva' (cfr. pure Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza
del 26.03.2012, n. 1768 e sez. VI, sentenza del 28.09.2010,
n. 7183). È, dunque, importante rafforzare l'idea secondo la
quale per l'accesso 'non è sufficiente il generico e
indistinto interesse di ogni cittadino alla legalità o al
buon andamento della attività amministrativa' (Consiglio di
Stato, Ad. Plen., sentenza del 24.04.2012, n. 7). Si veda
anche Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 13.12.1999,
n. 2109: 'La personalità dell'interesse ai fini dell'accesso
ai documenti amministrativi ex art. 22, l. 07.08.1990 n. 241
implica, per un verso, che quest'ultimo è riconosciuto solo
a colui che, rispetto ai documenti richiesti, versi in una
posizione legittimante, tale da differenziarlo dalla
generalità dei consociati e da coloro che in varia guisa
possono dirsi interessati all'attività del soggetto
pubblico; e, per altro verso, che il diritto d'accesso non
s'atteggia come una sorta di azione popolare diretta a
consentire una forma generalizzata di controllo sulla p.a.,
sicché l'interesse che legittima alla richiesta, da
accertare caso per caso, dev'essere personale e concreto,
quindi serio, non emulativo né riducibile a mera curiosità'.
[6] Interesse concreto indica un interesse non ipotetico,
finalizzato, non immaginario, non esistente solo nella mente
dell'accedente. Proprio per assicurare la finalizzazione
della domanda di accesso alla sussistenza di un interesse
concreto, che non può ravvisarsi nel generico, comune
interesse alla trasparenza dell'azione amministrativa,
l'istanza deve essere motivata con riferimento a detto
interesse (in tal senso, Consiglio di Stato, sez. IV,
sentenza del 11.01.1994, n. 8). La 'concretezza' presuppone
un collegamento tra il soggetto ed un bene della vita
coinvolto dal documento. Altrimenti, si configurerebbe la
fattispecie del controllo generalizzato dell'attività
amministrativa cui fa esplicito riferimento l'articolo 24,
legge 241/1990 (si veda Consiglio di Stato, sez. VI,
sentenza del 22.11.2012, n. 5936). Ai sensi della
disposizione da ultimo citata e al fine di tutelare la
pubblica amministrazione da richieste inutili, la
concretezza deve, quindi, tendere, principalmente, ad
escludere accessi 'esplorativi'. Il Consiglio di Stato ha
stabilito che l'interesse, imputabile al soggetto, deve
rientrare in una delle seguenti categorie: diritti
soggettivi, interessi legittimi, 'interesse solo strumentale
alla tutela di essi'. La scriminante è data, pertanto, dal
trovarsi l'instante in una posizione differenziata rispetto
agli altri soggetti dell'ordinamento giuridico.
[7] L''attualità' è valutata in base al momento in cui è
formulata la richiesta di accesso ad un determinato
documento.
[8] Così, Consiglio di Stato, sez. VI, 06.03.2009, n. 1351.
[9] Consiglio di Stato, sentenza n. 555/2006, richiamata da
Consiglio di Stato, sentenza n. 24/2010, cit.
[10] Si legga il parere formulato dallo scrivente, datato
26.03.2014, consultabile nella banca dati di cui
all'indirizzo internet http://autonomielocali.regione.fvg.it
[11] Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza del 30.09.1998,
n. 1346. Si legga anche Tar Toscana, Firenze, sez. II,
sentenza del 03.07.2009, n. 1184: 'Il diritto di accesso
previsto dall'art. 22, l. n. 241 del 1990, non ha introdotto
nell'ordinamento una sorta di azione popolare ispettiva nei
confronti della P.A., ma ha voluto porre a disposizione di
ogni cittadino uno strumento per superare la barriera della
riservatezza degli atti di ufficio al fine di tutelare
comunque i propri interessi; tuttavia l'espressione
normativa "tutela degli interessi", non deve essere intesa
solo come finalizzazione dell'accesso ad un ricorso
giurisdizionale, ma secondo un nesso inscindibile tra i
documenti richiesti e la verifica della eventuale lesione di
un proprio interesse qualificato: ne consegue che se, da un
lato, è escluso l'accesso a meri fini ispettivi, dall'altro
esso è ammesso anche quando il richiedente non assume di
volere verificare un preciso e determinato vizio degli atti
al fine della impugnativa, ma solo prospetti il proprio
interesse, purché concreto e qualificato, alla regolarità
della procedura in questione'.
[12] In tal senso, si legga Tar Ancona, sentenza del
30.03.2005, n. 274.
[13] Così, Tar Puglia, Lecce, Sez. II, sentenza
dell'11.04.2011, n. 647.
[14] Si confronti, sul punto, Tar Molise, sez. I, sentenza
del 09.12.2010, n. 1528.
[15] Si veda Tar Emilia-Romagna, Parma, sez. I, sentenza
04.10.2011, n. 328, tratta da F. Palazzi (a cura di),
'L'interesse ad accedere ai documenti della p.a. ... ', cit.
.
[16] La nozione di controinteressato, che si ricava dalla
legge generale sul procedimento amministrativo, concerne
tutti 'i soggetti, individuati o facilmente individuabili in
base alla natura del documento richiesto, che dall'esercizio
dell'accesso vedrebbero compromesso il loro diritto alla
riservatezza' (articolo 22, comma 1, lettera c, legge
241/1990).
[17] Si legga Tar Lazio, Roma, sez. III, sentenza del
05.11.2009, n. 10838. Il limite principale al diritto di
accesso è, quindi, costituito dalla riservatezza, oltre che
dalla segretezza, nei casi previsti dalla legge, al fine di
tutelare interessi pubblici generali. Ai sensi dell'articolo
24, comma 7, legge 241/1990, il limite della riservatezza
può essere superato, a favore dell'accessibilità degli atti,
soltanto per esigenze di cura e tutela dei propri diritti da
parte dell'istante. Il diritto di accesso trova, quindi, un
limite solo in specifiche e tassative esigenze di
riservatezza di terzi.
[18] Si legga S. Pignataro, 'Forme e modalità di tutela del
diritto di accesso ... ', cit., 391-406.
Sul rapporto tra accesso e riservatezza, si rimanda alla
lettura del parere n. 1265/2015, pubblicato, dallo
scrivente, nella già citata banca dati, ove è specificato
che, quando, come nel caso oggi in esame, sono coinvolti
dati personali di soggetti terzi, i documenti richiesti
devono essere necessari alla tutela del proprio interesse
(18.04.2016 -
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APPALTI SERVIZI:
Affidamento del servizio infermieristico domiciliare per
anziani e indigenti.
L'affidamento diretto entro i 40.000
euro, previsto dall'art. 125, comma 11, del D.Lgs. 163/2006,
è una particolare forma di cottimo fiduciario nella quale il
Responsabile unico del procedimento negozia con un unico
soggetto l'oggetto, i termini e le modalità di esecuzione
del contratto.
Le amministrazioni hanno comunque la facoltà di
assoggettarsi a regole più stringenti volte a garantire la
concorrenza, e possono quindi prevedere, anche per importi
di entità limitata, il ricorso ad indagini di mercato.
Secondo l'ANAC, in assenza di una specifica definizione
normativa, l'ANAC ha affermato, le indagini di mercato
devono essere improntate al rispetto dei principi generali
del Codice dei contratti: in particolare, l'avviso deve
specificare i criteri che la stazione appaltante utilizzerà
per individuare la ditta a cui affidare l'appalto; a tali
criteri, che devono essere preordinati e resi noti nel testo
dell'avviso, va attribuito un punteggio o una scala di
valore.
Il Comune ha provveduto all'affidamento diretto del servizio
infermieristico domiciliare [1]
per il periodo 2016-2017. A tal fine, in considerazione del
fatto che l'importo stimato del contratto sarebbe stato
contenuto entro il limite dei 40.000 euro, ha espletato una
indagine di mercato ai sensi dell'art. 11 del regolamento
comunale per le forniture ed i servizi in economia. Poiché
la determina di aggiudicazione è stata contestata da parte
di una delle ditte che avevano manifestato interesse, l'Ente
ha deciso di sospendere l'efficacia del provvedimento di
affidamento per esaminare i contenuti della contestazione.
Al fine di emettere un provvedimento corretto e motivato, il
Comune chiede di sapere, in ordine a due dei rilievi mossi
dalla ditta interessata:
1) se, ad avviso dello scrivente Ufficio, sia corretto, alla luce
del regolamento comunale, il ricorso all'affidamento diretto
attraverso la valutazione, nell'ambito dell'indagine di
mercato, dell'offerta economica, ma anche di esperienze
pregresse delle ditte presso l'Ente per la gestione del
medesimo servizio, affidando lo stesso non già alla ditta
che ha offerto il prezzo più basso ma a quella che si
ritiene possa garantire un 'più puntuale ed economico
adempimento';
2) se l'ufficio comunale abbia determinato in modo corretto il
valore del contratto, inferiore a 40.000 euro, limite
previsto dal regolamento comunale per il ricorso
all'affidamento diretto.
Preliminarmente si osserva che non rientra nelle competenze
di questo Servizio effettuare valutazioni sull'operato delle
singole amministrazioni. Ciononostante, in via meramente
collaborativa, si esprimono le seguenti considerazioni di
carattere generale, al fine di fornire al Comune elementi
utili per le sue determinazioni.
Innanzitutto, si osserva che il servizio oggetto di
affidamento pare rientrare nei servizi sanitari e sociali,
che fanno parte dell'elenco di cui all'Allegato II B del
Decreto legislativo 12.04.2006, n. 163 (cd. Codice degli
appalti). Ai sensi dell'art. 20 del Codice, l'aggiudicazione
degli appalti aventi per oggetto i servizi elencati
nell'Allegato II B è disciplinata esclusivamente da alcuni
articoli (65, 68 e 225). Tuttavia, il successivo art. 27
dispone che l'affidamento dei contratti pubblici aventi ad
oggetto lavori, servizi e forniture esclusi, in tutto o in
parte, dall'ambito di applicazione oggettiva del codice,
deve avvenire comunque nel rispetto dei principi generali su
cui si fonda la disciplina in materia di appalti, e già
elencati all'art. 2, comma 1, del D.Lgs. 163/2006
[2].
Tutto ciò premesso, con riferimento al quesito sub 1), pare
opportuno riassumere brevemente gli elementi distintivi
delle procedure di affidamento di (lavori) servizi e
forniture in economia, delineati dall'art. 125 del Codice.
Tali affidamenti rientrano nell'alveo delle procedure
negoziate e possono essere effettuati mediante
amministrazione diretta o cottimo fiduciario. Per quanto
attiene all'affidamento di servizi, in particolare, il comma
10 dell'art. 125 stabilisce che 'L'acquisizione in
economia di beni e servizi è ammessa in relazione
all'oggetto e ai limiti di importo delle singole voci di
spesa, preventivamente individuate con provvedimento di
ciascuna stazione appaltante, con riguardo alle proprie
specifiche esigenze (...)'.
Nel caso dei Comuni, sono i regolamenti per le forniture e i
servizi in economia a disciplinare il ricorso a tali
acquisizioni, individuando al loro interno le tipologie di
forniture e servizi ammessi e le modalità di selezione
dell'affidatario. Proprio con riferimento a queste modalità,
il comma 11 dell'art. 125 stabilisce che 'Per servizi o
forniture di importo pari o superiore a quarantamila euro e
fino alle soglie di cui al comma 9, l'affidamento mediante
cottimo fiduciario avviene nel rispetto dei principi di
trasparenza, rotazione, parità di trattamento previa
consultazione di almeno cinque operatori economici, se
sussistono in tale numero soggetti idonei, individuati sulla
base di indagini di mercato ovvero tramite elenchi di
operatori economici predisposti dalla stazione appaltante.'
Per quanto riguarda, poi, gli affidamenti di entità
economica non elevata, il Codice dispone, al secondo periodo
dello stesso comma, che 'Per servizi o forniture
inferiori a quarantamila euro, è consentito l'affidamento
diretto da parte del responsabile del procedimento'.
L'affidamento diretto entro i 40.000 euro, quindi, è una
particolare forma di cottimo fiduciario nella quale il
Responsabile unico del procedimento negozia con un unico
soggetto l'oggetto, i termini e le modalità di esecuzione
del contratto.
L'Ente instante, per l'affidamento del servizio in parola,
ha deciso di avvalersi di queste previsioni, recepite nel
proprio regolamento comunale per le forniture e i servizi in
economia [3].
Conformemente a quanto disposto dall'art. 11, comma 4, del
regolamento comunale, l'Ente ha pubblicato un avviso di
indagine di mercato per manifestazione di interesse, in cui
ha indicato che il servizio sarebbe stato affidato in forma
diretta secondo quanto stabilito dal richiamato art. 11.
Invero, come rilevato dall'AVCP (ora ANAC), nelle procedure
in economia, le amministrazioni hanno 'la possibilità di
assoggettarsi o meno volontariamente a regole procedurali
più stringenti, a fronte di una disciplina normativa che
lascia maggiori margini di discrezionalità, pur nel rispetto
dei principi insiti nel concetto stesso di gara, quali
quelli di trasparenza e par condicio dei concorrenti'
[4].
Con riferimento alle modalità di effettuazione delle
indagini di mercato, l'AVCP (ora ANAC) ha affermato
[5] che,
pur in assenza di una definizione normativa, questo
procedimento deve essere improntato al rispetto dei principi
generali del Codice (già richiamati in precedenza). In
osservanza, in particolare, del principio di trasparenza,
l'avviso deve specificare i criteri che saranno utilizzati
per l'individuazione della ditta a cui affidare l'appalto. A
titolo esemplificativo, l'Autorità ha indicato 'le
esperienze contrattuali registrate dalla stazione appaltante
nei confronti dell'impresa richiedente l'invito o da
invitare (...), l'idoneità operativa delle imprese rispetto
al luogo di esecuzione dei lavori ed anche il sorteggio
pubblico'. Nella stessa sede, l'AVCP ha altresì ribadito che
l'avviso 'deve indicare, come minimo, una succinta
descrizione degli elementi essenziali dell'appalto e della
procedura di aggiudicazione che si intende seguire...'.
Sulla base di queste indicazioni, si ritiene, pertanto, che
la stazione appaltante possa legittimamente prevedere una
valutazione delle esperienze pregresse delle ditte che hanno
risposto all'avviso per la gestione del medesimo servizio,
purché tale criterio sia esplicitamente indicato nell'avviso
di indagine di mercato, in modo che, dandone notizia a tutti
i potenziali interessati, venga rispettato il principio di
trasparenza [6].
Parimenti, sempre in osservanza dei principi di trasparenza
e parità di trattamento, si ritiene che a tali criteri debba
essere attribuito un punteggio, o quantomeno una scala di
priorità, e che anche questi elementi vadano preordinati e
resi noti già nel testo dell'avviso. [7]
Infine, con riferimento al quesito sub 2), e quindi alla
determinazione del valore economico del servizio, sempre in
linea generale, si richiama l'attenzione sull'art. 29 del
D.Lgs. 163/2006, in cui al comma 1 si stabilisce che: 'Il
calcolo del valore stimato degli appalti pubblici e delle
concessioni di lavori o servizi pubblici è basato
sull'importo totale pagabile al netto dell'IVA, valutato
dalle stazioni appaltanti. (...)'. Viene inoltre
precisato che il calcolo deve tener conto dell'importo
massimo stimato, comprendendo qualsiasi forma di opzione o
rinnovo del contratto. Tali indicazioni vanno tenute
presenti ogniqualvolta si renda necessario valutare il costo
del contratto, anche al fine di adeguare le varie procedure
di scelta del contraente alle soglie individuate dal D.Lgs.
163/2006.
Con riferimento allo specifico servizio da affidare nel caso
in esame, si ritiene che un elemento fondamentale ai fini
dell'individuazione del costo, in considerazione della
natura della prestazione da svolgere, possa essere il
contratto collettivo nazionale di riferimento per i servizi
infermieristici [8].
Dal CCNL, infatti, possono essere desunti elementi utili a
valutare, sulla base dell'impiego orario dei lavoratori
richiesto alla ditta, quale sia l'incidenza del costo del
lavoro, a cui andranno poi sommate le altre componenti
(nell'avviso si fa riferimento al costo derivante
dall'utilizzo dell'automezzo fornito dall'Ente nel
territorio e al costo chilometrico per gli spostamenti con
tale mezzo al di fuori del Comune) che si riterranno utili
ai fini della determinazione del prezzo complessivo.
Si segnala invece che, in via generale, in assenza di
parametri di riferimento, qualora il servizio sia già stato
affidato, a simili condizioni, in periodi di tempo passati,
nella determinazione del valore stimato dell'appalto, è
possibile utilizzare i dati storici relativi a tali periodi
[9].
Con specifico riferimento a questa modalità di
determinazione del costo del servizio, sentito il Servizio
finanza locale di questa Direzione centrale, si ritiene che
l'impegno risultante dalle scritture contabili alla chiusura
del rendiconto di gestione rappresenti la vera spesa
sostenuta.
---------------
[1] Il Comune garantisce ai propri residenti anziani ed
indigenti una serie di servizi di assistenza
infermieristica, prevalentemente sanitaria, unitamente ad
altri interventi di carattere assistenziale, sulla base di
un protocollo d'intesa con la locale Azienda per
l'Assistenza Sanitaria, approvato con delibera di Giunta.
[2] Come affermato dall'ANAC e riconosciuto dalla
giurisprudenza, 'La riconducibilità del servizio appaltato
all'All. II B del Codice non esonera quindi, le
amministrazioni aggiudicatrici dall'applicazione dei
principi generali in materia di affidamenti pubblici
desumibili dalla normativa comunitaria e nazionale, (...)'
(Deliberazione n. 25 dell'08.03.2012). Ai sensi dell'art. 2,
comma 1, del Codice, tali principi sono economicità,
efficacia, tempestività e correttezza; ed ancora libera
concorrenza, parità di trattamento, non discriminazione,
trasparenza, proporzionalità e pubblicità.
[3] Per quanto qui di interesse, si riporta il testo dei
commi 3 e 4 del regolamento comunale: '3. ... si può
prescindere dall'obbligo di chiedere più offerte e
preventivi per forniture e servizi d'importo contenuto entro
il limite di 40.000,00 Euro.
4. Per gli affidamenti di cui al comma precedente, il
responsabile del servizio/procedimento effettuata
un'indagine di mercato anche informale, può aggiudicare il
servizio o fornitura ad una ditta che per precedenti
incarichi o vicinanza alla sede comunale, garantisca un più
puntuale ed economico adempimento.'
[4] Parere n. 94 del 20.04.2008.
[5] AVCP, determinazione n. 2 del 06.04.2011.
[6] Si veda anche il decreto del Presidente della Repubblica
05.10.2010, n. 207, recante il Regolamento di attuazione del
Codice. In particolare, l'art. 331, comma 2, dispone che 'Le
stazioni appaltanti assicurano comunque che le procedure in
economia avvengano nel rispetto del principio della massima
trasparenza, contemperando altresì l'efficienza dell'azione
amministrativa con i principi di parità di trattamento, non
discriminazione e concorrenza tra gli operatori economici.'
[7] Per contro, si osserva che, laddove la condotta passata
di una ditta sia stata valutata negativamente dalla stazione
appaltante, questa può ricorrere all'esclusione della stessa
ai sensi dell'art. 38, comma 1, lett. f), del Codice, il
quale così recita: '1. Sono esclusi dalla partecipazione
alle procedure di affidamento delle concessioni e degli
appalti di lavori, forniture e servizi, né possono essere
affidatari di subappalti, e non possono stipulare i relativi
contratti i soggetti: (...) f) che, secondo motivata
valutazione della stazione appaltante, hanno commesso grave
negligenza o malafede nell'esecuzione delle prestazioni
affidate dalla stazione appaltante che bandisce la gara;
(...)'. Infatti, come rilevato dalla giurisprudenza,
'l'elemento che caratterizza la misura interdittiva di cui
all'art. 38, comma 1, lettera f), del codice dei contratti
pubblici è il pregiudizio arrecato, a causa della negligenza
o dell'inadempimento a specifiche obbligazioni contrattuali,
alla fiducia che la stazione appaltante deve poter riporre
ex ante nell'impresa alla quale affidare un servizio di
interesse pubblico ed include di conseguenza presupposti
squisitamente soggettivi, incidenti sull'immagine della
stessa agli occhi della stazione appaltante.' (Consiglio di
Stato, sez. V, sent. n. 4502 del 28.09.2015).
[8] Infatti, lo stesso avviso di indagine di mercato ne fa
menzione, con specifico riferimento alla retribuzione minima
garantita ai soggetti da impiegare nel servizio de quo.
[9] Così l'AVCP nella deliberazione n. 64 relativa
all'Adunanza del 27.06.2012 (14.04.2016 -
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AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Interventi di bonifica dei siti contaminati da
eseguirsi ai sensi della parte IV - Titolo V del Dlgs
152/2006 all'interno del perimetro del SIR "Chieti Scalo"
istituito con DGR 121/2011- Richiesta modalità procedurale
per l'acquisizione di parere e autorizzazione paesaggistica
ex art. 146 del Dlgs 42/2004 (ente sub delegato). Riscontro
(Regione Abruzzo,
nota 19.06.2015 n.
162248 prot.).
---------------
Si fa
seguito alla richiesta prot. 22819 del 30.04.2015 n. 20961
del 12.05.2012, in relazione a due distinti quesiti, miranti
a far luce sulla corretta procedura per il rilascio
dell'autorizzazione paesaggistica ex art. 146 del Dlgs
42/2004 nonché sui casi di esclusione previsti all'art. 149
dello stesso decreto. (...continua). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Richiesta di permesso a costruire in sanatoria
per demolizione e ricostruzione con ampliamento in zona
vincolata. Invio parere (Regione Abruzzo,
nota 20.03.2015 n. 73745 prot.).
---------------
Si riscontra la richiesta di parere con cui codesto
Comune chiede di conoscere l'orientamento dello scrivente in
merito alla possibilità di applicare la disciplina della
sanatoria edilizia ex art. 36 del DPR 380/2001, quando sia
definitivamente decorso il termine di 90 giorni ivi
previsto, di seguito all'emanazione dell'ordinanza di
demolizione, per un manufatto realizzato in assenza di
permesso di costruire. (...continua). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Quesito per accertamento di compatibilità
paesaggistica - art. 167 D.Lgs. 42/2004 - Sanatoria
ampliamento di un trabocco esistente. Comunicazioni
(Regione Abruzzo,
nota 18.03.2015 n.
70301 prot.).
---------------
In
riferimento alla richiesta di parere con cui codesto Comune
chiede di conoscere l'avviso della scrivente struttura in
merito alla procedura di "accertamento di compatibilità
paesaggistica ex art. 167 D.Lgs. 42/2004 s.m.i", avente ad
oggetto la sanatoria di un trabocco esistente, il quale,
(secondo quanto riferito nella nota che si riscontra),
rispetto alla concessione edilizia con cui è era stata
autorizzata la ricostruzione nel 1984, risulta ampliato, si
rappresenta quanto segue. (...continua). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Segnalazione disservizio e/o irregolarità in
ordine all'istruttoria di istanze in materia di edilizia
privata. Comunicazioni (Regione Abruzzo,
nota 03.06.2013 n. 2933 prot.).
---------------
Si
riscontra la nota di codesto Difensore Civico con la quale
si richiede allo scrivente motivato parere in merito al
regime normativo applicabile alle accertate variazioni
fisiche, consolidate nel tempo, della "proprietà demaniale
fluviale", avuto particolare riguardo alla possibilità di
assentire opere edili su terreni ubicati a meno di 150 metri
dalla fascia demaniale, ma a circa 600 metri di distanza dal
fiume Pescara, posto che, ad oggi, quest'ultimo risulta
avere un alveo che si è modificato da diversi decenni,
risultando spostato di circa 500 metri dal sito originario,
ancorché nella cartografia dell'Agenzia del Territorio sia
ancora in essere la situazione preesistente, con
l'indicazione grafica della vecchia fascia demaniale del
fiume Pescara, come è dato evincere dalle planimetrie
catastali. (...continua). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Sanatoria - Attraversamento a guado del Fiume
Orta in loc. Piano D'Oda (Regione Abruzzo,
nota 25.03.2013 n. 1653 prot.).
---------------
In
merito alle problematiche sollevate da codesta
Amministrazione con la nota in epigrafe emarginata e per
quanto di competenza della scrivente Struttura occorre
richiamare, in via preliminare, alcuni principi di carattere
generale avente rilevanza dirimente ai fini che qui
interessano.
Come è noto, secondo l'art. 822 C.C. i fiumi, i torrenti, i
laghi e le altre acque definite pubbliche dalle leggi in
materia fanno parte del demanio idrico-fluviale. Da
considerarsi demaniale è altresì il terreno interessato
dallo scorrimento delle acque pubbliche, posto che, in
questo caso, la demanialità discende dalla "funzione" che il
terreno assume a supporto e contenimento del fiume medesimo,
funzione che automaticamente viene meno in conseguenza di
fenomeni naturali quali i fenomeni "di piena" e "di magra"
che non abbiano carattere transitorio, ma che siano in grado
di determinare in modo irreversibile la cessazione di quella
funzione (ciò si verifica, ad esempio, nel caso di ritiro
delle acque da (...continua). |
NEWS |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: Via dai tetti.
Capannoni, agevolazioni sull'amianto.
Presto diventeranno operativi i nuovi incentivi per
rimuovere l'amianto dai tetti dei capannoni industriali.
Potranno accedere a un credito di imposta del 50% gli
interventi di bonifica di importo maggiore di 20 mila euro e
fino a 400 mila euro.
Lo schema di decreto che li
regolamenta è già sul tavolo dei ministeri competenti
(ministero dell'ambiente e ministero dell'Economia).
Ad annunciarlo è il ministro dell'ambiente, Gian Luca
Galletti, rispondendo il 28.04.2016 a un'interrogazione del
deputato del Partito democratico Enrico Borghi alla Camera.
Ricordiamo che le agevolazioni per la bonifica dell'amianto
sono state introdotte dal collegato ambiente alla legge di
Stabilità per il 2014 (legge n. 221/2015). Per i soggetti
titolari di reddito d'impresa che effettuano nell'anno 2016
interventi di bonifica dall'amianto su beni e strutture
produttive ubicate nel territorio dello Stato è attribuito,
nel limite di spesa complessivo di 5,667 milioni di euro per
ciascuno degli anni 2017, 2018 e 2019 un credito d'imposta
nella misura del 50% delle spese sostenute per i predetti
interventi nel periodo di imposta successivo a quello in
corso alla data di entrata in vigore della presente legge.
Il credito d'imposta non spetta per gli investimenti di
importo unitario inferiore a 20mila euro. La prima quota
annuale sarà utilizzabile a decorrere dal 1° gennaio del
periodo di imposta successivo a quello in cui sono stati
effettuati gli interventi di bonifica. Il credito di imposta
non concorrerà alla formazione del reddito né della base
imponibile dell'imposta regionale sulle attività produttive
(Irap).
Le domande andranno presentate online attraverso una
specifica piattaforma telematica realizzata dal Ministero
dell'ambiente che sarà utilizzabile solo dopo la
pubblicazione del decreto in Gazzetta Ufficiale
(articolo ItaliaOggi del 30.04.2016). |
SEGRETARI COMUNALI: Segretari nel caos. Diritti rogito, due tesi a confronto.
Dopo la Consulta fioccano le richieste di pagamento.
Caos sui diritti di rogito dei segretari comunali e
provinciali. La recente presa di posizione della Consulta,
che smentendo la Corte dei conti ha affermato la spettanza
dell'emolumento a tutti coloro che operano in enti privi di
dirigenza, indipendentemente dalla fascia professionale, sta
generando parecchia confusione sul territorio.
Urge, quindi, un chiarimento definitivo da parte della
magistratura contabile o del legislatore.
Come noto (si veda ItaliaOggi del 22.04.2016), la
questione nasce dall'art. 10, comma 2-bis, del dl 90/2014:
esso dispone che i diritti di rogito spettano «negli enti
locali privi di dipendenti con qualifica dirigenziale, e
comunque a tutti i segretari comunali che non hanno la
qualifica dirigenziale», in misura comunque non superiore a
un quinto dello stipendio in godimento
Tale norma ha dato luogo a due interpretazioni diverse: da
un lato, si è affermato che l'emolumento competerebbe
esclusivamente ai segretari di enti di piccole dimensioni
collocati in fascia C, dall'altro lato si è argomentato che
negli enti privi di personale con qualifica dirigenziale i
diritti spettano a prescindere dalla fascia professionale in
cui è inquadrato il segretario.
Mentre la Sezione delle autonomie, con la deliberazione n.
21/2015, ha condiviso la prima e più restrittiva lettura, la
Corte costituzionale, nella recente sentenza n. 75/2016, ha
sposato la seconda tesi.
A questo punto, ci si chiede quale sia l'interpretazione
corretta cui attenersi. Molti segretari hanno già
rivendicato le somme, chiedendo anche il pagamento degli
«arretrati» che diversi enti hanno nel frattempo
prudenzialmente accantonato. In questa prospettiva, si
ritiene che la presa di posizione dei giudici delle leggi
sia sufficiente a «smontare» il precedente della
giurisprudenza contabile.
In senso contrario, si evidenzia, invece, come la Consulta
si sia espressa nell'ambito di una sentenza di rigetto, che
tipicamente ha effetto solo «inter partes» e non «erga omnes».
Per di più, la pronuncia riguarda una regione a statuto
speciale (il Trentino-Alto Adige). Inoltre, l'inciso in cui
è contenuta la precisazione è un mero «obiter dictum», privo
di qualsiasi forza vincolante, e quindi non avente valore di
«precedente».
È anche vero, però, che la norma pare chiara e
la lettura dei giudici contabili molto forzata e non a caso,
come si è detto, non pacifica neppure fra le Sezioni
regionali (anche se da questo punto di vista l'intervento
della Sezione autonomie è vincolante).
Per risolvere la questione ed evitare comportamenti
difformi, pare necessario ed urgente un intervento
chiarificatore definitivo o della stessa Corte dei conti o
meglio ancora del legislatore, che con una norma di
interpretazione autentica potrebbe fare finalmente luce su
cosa aveva voluto dire con la infelice norma del dl 90
(articolo ItaliaOggi del 29.04.2016). |
APPALTI: In tilt le stazioni appaltanti. Paralizzate dalla mancanza
del regolamento attuativo. I compiti indicati dalla riforma del codice in attesa
dell'adozione delle linee guida Mit-Anac.
Sviluppare a livello esecutivo i progetti rimasti nel
cassetto per affidare appalti di sola esecuzione; definire
le modalità di applicazione dell'offerta economicamente più
vantaggiosa; rivedere le regole sul subappalto; il tutto
senza più il regolamento di attuazione del codice del 2006.
È quanto sono chiamate a fare le stazioni appaltanti dopo il
19 aprile, data di entrata in vigore del nuovo codice dei
contratti pubblici, in una situazione che dire difficile è
poco.
Prova ne sia il fatto che di nuovi bandi sopra soglia
europea, con le nuove norme, non ne sono usciti e che in
alcuni casi le amministrazioni rendono difficile comprendere
se un dato avviso (anche per importi ridotti) sia stato
emesso prima o dopo il 19 aprile.
Il problema maggiore è che la norma che prevede l'immediata
abrogazione del regolamento attuativo del vecchio codice dei
contratti pubblici rischia di paralizzare a lungo le
stazioni appaltanti. Anche immaginando il percorso più
rapido per adottare le linee guida generali del ministero
infrastrutture (Mit) e Anac, è difficile che prima di due
tre mesi si possano avere indicazioni operative utili.
Il problema risiede nell'articolo 271, comma 1 lettera u)
del decreto 50 che dichiara abrogate moltissime parti del
regolamento del 2010, facendo salve soltanto alcune norme
del dpr 207/2010 oggetto di disciplina da parte di
provvedimenti attuativi (esempio i livelli di progettazione,
la disciplina del Rup (responsabile unico del procedimento),
l'anagrafe delle stazioni appaltanti, la nomina dei
commissari di gara all'interno delle amministrazioni ecc.).
Per il resto il regolamento del codice del 2006 non è più
utilizzabile. A meno di non considerare le linee guida Mit-Anac come un atto attuativo del codice, interpretazione
ardua considerando che l'articolo 214, comma 12, del codice
stabilisce che il Mit «può adottare linee guida
interpretative e di indirizzo su proposta dell'Anac». Si
tratta di una facoltà e non di un obbligo, come è quello di
adottare i diversi provvedimenti attuativi di cui è
disseminato il codice.
Quindi è più che probabile che il regolamento sia oggi
sostanzialmente inutilizzabile. E così è, ad esempio, per la
verifica dei progetti (si veda articolo qui sotto) o per le
modalità di scelta dei progettisti, o ancora per
l'applicazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa
nei servizi tecnici, criterio obbligatorio da 40 mila euro
in su.
Un problema rilevante se si pensa che bisogna
sviluppare i progetti preliminari e definitivi fino al
livello esecutivo, con l'eccezione dell'appalto integrato
nei settori speciali (l'articolo 95 non è richiamato come
applicabile dall'articolo 122), nonché dell'affidamento a
contraente generale (sul definitivo), della concessione,
della finanza di progetto (art. 183 sul definitivo), del
contratto di disponibilità e, in generale, degli altri
contratti di Ppp dove non c'è obbligo di affidamento
sull'esecutivo.
Il nuovo codice prescrive il divieto di utilizzo del prezzo
più basso sopra un mln di euro per i lavori, con la
conseguenza che occorre applicare il criterio dell'offerta
economicamente più vantaggiosa. Purtroppo gli allegati del
dpr 207/2010 che prevedevano le formule da applicare per
valutare le offerte sono stati anch'essi abrogati dal 19
aprile. Alle stazioni appaltanti toccherà quindi scegliere
se fermarsi o continuare ad adottare gli stessi allegati e
le stesse formule del dpr 207, senza citarli, in attesa che
Anac e Mit diano qualche indicazione utile, nelle more
dell'adozione delle linee guida.
Sul subappalto le amministrazioni saranno libere di dettare
le regole fino ad arrivare a ritenerlo non utilizzabile; ma
se lo riterranno applicabile scatterà il tetto del 30% per
tutte le lavorazioni, con l'obbligo di associazione
verticale per le opere superspecialistiche
(articolo ItaliaOggi del 29.04.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
LAVORI PUBBLICI: Validazioni, è consentito affidarsi ai professionisti.
Le nuove regole sulla verifica preventiva della
progettazione.
Verifiche dei progetti sull'esecutivo (di regola) affidati a
organismi di ispezione accreditati, ma anche a progettisti
con incompatibilità sulla singola opera; vuoto normativo con
l'abrogazione del dpr 207/2010; confermato il divieto di
riserve su progetti validati.
È questo il quadro desumibile
dalla lettura del nuovo codice dei contratti pubblici in
tema di verifica preventiva della progettazione.
Si tratta
di una materia che vedeva nel dpr 207/2010 (regolamento del
codice del 2006) un cospicuo numero di norme attuative ma
che adesso risulta disciplinata dal solo articolo 26 del
decreto 50 (sostitutivo degli articoli 93, comma 6, e 112,
comma 5 del decreto 163/2006), in attesa delle linee guida Anac che dovrebbero sostituire il regolamento. Infatti,
dalla data di entrata in vigore del nuovo codice (19.04.2016) fra le parti del dpr 207/201 abrogate figura anche il
capo II del titolo I della parte II che conteneva le norme
sull'affidamento di incarichi di verifica dei progetti, sui
soggetti titolati a svolgere tale attività e sulle modalità
di effettuazione delle verifiche.
Nel merito, l'articolo 26 del decreto 50 stabilisce che la
verifica dei progetti concernente lavori pari o superiori a
20 milioni di euro potrà essere svolta dagli organismi di
controllo accreditati ai sensi della norma Uni Cei En Iso/Iec
17020. Si tratta dei cosiddetti organismi di ispezione di
tipo A, B e C che, rispettivamente svolgono queste attività
in maniera indipendente (A), come organismi interni alle
stazioni appaltanti (B), come strutture che progettano ma
che, avendo una struttura dedicata e autonoma per la
verifica dei progetti, a determinate condizioni possono
anche svolgere queste attività (C).
L'articolo 26 prevede inoltre che per lavori compresi fra i
20 milioni e la soglia di cui all'art. 35 (5,2 milioni) sarà
possibile affidare gli incarichi agli organismi accreditati
ma anche ai progettisti (professionisti singoli, associati,
società di professionisti e di ingegneria, consorzi stabili
di società). In quest'ultimo caso scatta però anche il
requisito della incompatibilità sul singolo progetto oggetto
di validazione, per cui chi verifica non deve avere
partecipato in alcun modo all'iter di produzione del
progetto, né potrà svolgere la sicurezza, la direzione
lavori e il collaudo. Per lavori di importo compreso fra 5,2
e 1 milione di euro la verifica verrà effettuata dagli
uffici tecnici, se il progetto è stato affidato a terzi, o
dalle stazioni appaltanti che dispongano di un sistema
interno di controllo. Infine per lavori fino a un milione la
verifica sarà di competenza del Rup (responsabile unico del
procedimento).
Va segnalato che la verifica dei progetti, da effettuarsi in
contraddittorio con il progettista, generalmente avverrà sul
progetto esecutivo, cioè sul livello che di regola sarà
quello necessario per affidare lavori pubblici; rimangono
poi altri casi in cui la verifica potrà essere effettuata su
livelli precedenti: sul definitivo per gli appalti integrati
nei settori speciali (acqua, energia e trasporti)
concessioni e Ppp, contraente generale e contratto di
disponibilità.
Infine, va notato che il nuovo codice conferma il divieto di
iscrizione di riserve tecniche, cioè su elementi del
progetto che siano stati oggetto di validazione (articolo ItaliaOggi del 29.04.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
SICUREZZA LAVORO: Per la sicurezza nei cantieri risponde anche l’affidatario.
Lavori pubblici. Con il subappaltatore.
Nell’esecuzione dei lavori pubblici l’affidatario è
solidalmente responsabile con il subappaltatore per gli
adempimenti da parte di quest’ultimo degli obblighi di
sicurezza previsti dalla normativa vigente.
È quanto previsto
dall’articolo 103 del nuovo Codice degli appalti pubblici,
approvato con il Dlgs 50/2016, in vigore dal 19 aprile scorso.
Il Codice estende le posizioni di garanzia di cui
all’articolo 299 del Dlgs 81/2008 (Testo unico sulla salute e
sicurezza sui luoghi di lavoro) oltre che sul datore di
lavoro, sul dirigente e sul preposto, anche sull’impresa
esecutrice dell’appalto. Si tratta di una responsabilità che
in caso di accertate violazioni delle norme di sicurezza da
parte del subappaltatore non potrà essere di natura penale
ma di natura contrattuale. Ne consegue che anche l’impresa
affidataria potrà essere chiamata in causa in sede civile
per il risarcimento del danno nel caso d’infortunio sul
lavoro occorso a un dipendente dell’impresa subappaltatrice.
Da qui la previsione di cui all’articolo 101 del Codice, che
riorganizza e individua nuove figure nell’ambito della
stazione appaltante titolare di un appalto pubblico, con
ampi riflessi anche sulla prevenzione degli infortuni.
L’organizzazione è piramidale e infatti, dopo aver
individuato la figura del Responsabile unico del
procedimento (Rup), in capo al quale fa riferimento la
direzione della esecuzione dei contratti aventi ad oggetto
lavori, servizi, forniture, mediante i controlli dei livelli
di qualità di tutte le prestazioni, prevede che questi possa
essere aiutato da un direttore dei lavori, il quale a sua
volta può avvalersi di uno o più direttori operativi e di
ispettori di cantiere.
Sarà compito dei direttori operativi, in collaborazione con
il direttore dei lavori, programmare e coordinare le
attività degli ispettori di cantiere. Gli ispettori,
presenti a tempo pieno durante il periodo di svolgimento di
lavori che richiedono un controllo quotidiano, tra cui
quello sull’attività dei subappaltatori, devono garantire
l’assistenza al coordinatore per l’esecuzione, il quale deve
a sua volta controllare l’applicazione da parte delle
imprese esecutrici e dei lavoratori autonomi delle
disposizioni contenute nel piano di sicurezza e di
coordinamento e la corretta applicazione delle relative
procedure di lavoro. In caso di irregolarità riscontrate
durante i controlli gli ispettori possono arrivare a
proporre al committente la sospensione dei lavori e, in casi
estremi, denunciare persistenti inadempienze agli organi di
vigilanza.
La responsabilità dell’impresa affidataria nei confronti
della stazione appaltante è in via esclusiva, mentre
risponde in solido con il subappaltatore per gli obblighi
retributivi e contributivi. Una responsabilità,
quest’ultima, che viene meno qualora il subappaltatore sia
una micro o piccola impresa e la stazione appaltante, a
richiesta, provveda a corrispondere direttamente al
subappaltatore, al cottimista, al prestatore di servizi ed
al fornitore di beni o lavori, l’importo dovuto per le
prestazioni da questi rese.
Un’ulteriore forma di pressione delle stazioni appaltanti
nei confronti delle imprese esecutrici per l’osservanza
delle disposizioni in materia di lavoro è stata introdotta
nell’articolo 105 del Codice, il quale, nel disciplinare le
garanzie definitive, stabilisce che le stazioni appaltanti
hanno il diritto di valersi della cauzione per provvedere al
pagamento di quanto dovuto dall’esecutore per le
inadempienze derivanti dalla inosservanza di norme dei
contratti collettivi, delle leggi e dei regolamenti sulla
tutela, protezione, assicurazione, assistenza e sicurezza
fisica dei lavoratori, comunque presenti in cantiere o nei
luoghi dove viene prestato il servizio nei casi di appalti
di servizi, nonché per l’esecuzione dell’appalto (articolo Il Sole 24 Ore del
28.04.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Dal
codice degli appalti contratti a tre facce.
Il nuovo codice degli appalti ha previsto tre tipi di
contratto autonomamente disciplinati. I primi due sistemi,
tutto sommato tradizionali, sono quelli fondati sul
«contratto di appalto» e sul cosiddetto «contratto di
concessione»; mentre il terzo, definibile come «sistema
semplificato» si basa su tre tipi di figure negoziali: il
contratto di «partenariato pubblico-privato», il cosiddetto
«affidamento in house» e l'»affidamento a contraente
generale».
È quanto rileva il consigliere di stato Carlo
Modica di Mohac, uno degli autori della Guida Il nuovo
codice degli appalti, disponibile da oggi in tutte le
edicole italiane.
La Guida di ItaliaOggi è il primo tentativo di analisi
approfondita dei contenuti della riforma dei contratti
pubblici entrata in vigore il 19 aprile di quest'anno. Hanno
infatti dato il loro contributo alcuni tra i massimi esperti
della materia.
Oltre all'avvocato Modica di Mohac, gli altri
autori dell'opera collettiva sono Andrea Mascolini,
direttore generale dell'Oice, Paola Rea, dello studio
Brugnoletti & associati, Ilenia Filippetti, dirigente dei
lavori pubblici della regione Umbria, Arnaldo Tinarelli,
della Fondazione scuola nazionale servizi, Massimiliano
Brugnoletti, dello studio Brugnoletti & associati, e
Massimiliano Balloriani, magistrato presso il Tar di
Pescara.
La Guida di ItaliaOggi, che contiene anche il testo
integrale del decreto legislativo numero 50, approfondisce
in particolare i temi più delicati che dovranno essere
affrontati dall'interprete come le problematiche del periodo
transitorio, cioè i mesi che vanno dal 19 aprile a quando
saranno approvati tutti i 50 regolamenti attuativi del nuovo
codice; i sistemi di affidamento e i settori esclusi; la
scelta del contraente e i criteri di aggiudicazione; le
novità in materia di concessioni, l'affidamento dei servizi
sociali e il contenzioso; infine il ruolo determinante dell'Anac
(l'Autorità nazionale anticorruzione di Raffaele Cantone).
La Guida di ItaliaOggi, di 226 pagine a 6 euro, sarà
disponibile in edicola fino alla fine del mese di maggio,
salvo esaurimento, e, tra qualche giorno anche in formato
pdf sul sito www.classabbonamenti.com/#page-1 (articolo ItaliaOggi del 28.04.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Appalti, nuovo codice incoerente con lo Statuto del lavoro
autonomo.
L'art. 7 del ddl 2233, noto anche come Statuto del lavoro
autonomo, è esplicitamente diretto a favorire l'accesso agli
appalti di tutti i professionisti autonomi (rapporti di
lavoro autonomo di cui al titolo III del libro quinto del
codice civile).
Lo chiarisce il comma 1: «Le amministrazioni
pubbliche promuovono, in qualità di stazioni appaltanti, la
partecipazione dei lavoratori autonomi agli appalti
pubblici, in particolare favorendo il loro accesso alle
informazioni relative alle gare pubbliche, anche attraverso
gli sportelli di cui all'articolo 6, comma 1, e la loro
partecipazione alle procedure di aggiudicazione».
Tuttavia
il nuovo codice appalti, approvato il 15 aprile scorso in
via definitiva dal consiglio dei ministri, fa riferimento
alle micro e alle piccole imprese (che però, proprio in
quanto imprese, spesso individuali, sono comunque iscritte
alla camera di commercio), ma non ai professionisti autonomi
e freelance.
Per esempio gli artt. 30 comma 7, 36 comma 1 e
41 comma 1, spingono ad assicurare l'effettiva
partecipazione di microimprese, piccole e medie imprese agli
appalti, nel rispetto delle disposizioni stabilite dal
presente codice e dalla normativa dell'Unione europea.
Confprofessioni ha chiesto che il nuovo codice degli appalti
tenga conto dell'orientamento espresso nel ddl lavoro
autonomo, contemplando espressamente la figura del
lavoratore autonomo
(articolo ItaliaOggi del 28.04.2016). |
INCARICHI PROGETTAZIONE: Codice appalti, semplificazioni in salita.
È una lacuna evidente la mancanza di un capitolo dedicato ai
servizi di architettura e ingegneria.
Ravvisare autentici elementi di semplificazione nel nuovo
codice sui contratti pubblici (dlgs 50/2016, entrato in
vigore lo scorso 19 aprile) è un esercizio non facile,
soprattutto a causa del paventato rallentamento delle
attività del settore dei lavori pubblici per la mancata
previsione di un periodo transitorio, utile a fronteggiare
tempi di emanazione diversi per le linee guida Anac e per i
vari decreti ministeriali e interministeriali: una dote di
numerosi provvedimenti necessari per completare il quadro
legislativo di riferimento.
Detto ciò, va rilevato che si
tratta di un provvedimento strutturalmente diverso rispetto
al passato, che ha recepito importanti chiarimenti
giurisprudenziali (per esempio, l'espressa eliminazione
della cauzione provvisoria per le attività dei servizi di
ingegneria e architettura) e introdotto elementi di novità
in merito all'iter di realizzazione di opere pubbliche a
rilevanza sociale: basti pensare al ruolo del dibattito
pubblico, che rientra a pieno titolo tra gli strumenti di
gestione.
Entrando nel merito delle proposte avanzate dalla
Rete delle professioni tecniche in sede di audizioni, spiace
che queste non siano state accolte in toto: la lacuna più
evidente è l'assenza di un capitolo specifico dedicato ai
servizi di architettura e ingegneria, peculiari delle
attività svolte dai professionisti dell'area tecnica. Oltre
a sottrarre la progettazione dall'incentivo del 2%, sarebbe
stato opportuno ridisegnare il ruolo dei dipendenti pubblici
riservando loro compiti di programmazione e controllo,
demandando ai liberi professionisti le attività di
progettazione, direzione e collaudo.
Scarsa soddisfazione
anche per la mancata adozione di una base vincolante da
assumere quale riferimento dei corrispettivi (definita per
decreto), la cui applicazione obbligatoria sarebbe andata a
garanzia di un dato di partenza oggettivo. Apprezzamento,
invece, per la completa informatizzazione della gestione dei
bandi di gara, per il radicale ridimensionamento del ricorso
all'appalto integrato, per l'espressa esclusione anche delle
attività tecniche dal criterio di aggiudicazione del prezzo
più basso.
Sulla scorta dei segnali positivi, il mondo delle
professioni tecniche intende continuare a fornire il proprio
contributo alla formazione dei vari decreti; in particolare,
si adopererà per garantire tutele reali ai giovani colleghi,
e per elevare la qualità progettuale e dei servizi tecnici,
riponendo in proposito alte aspettative soprattutto nelle
linee guida Anac, fondamentali per l'attuazione del codice
stesso.
L'auspicio è che la politica e il legislatore confermino la
disponibilità a recepire le indicazioni dei professionisti
di area tecnica, quotidianamente impegnati a confrontarsi e
testare criticità applicative che amplificano le difficoltà
in cui versa l'intero settore (articolo ItaliaOggi del 28.04.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Appalti, bandi da revocare se c’è il massimo ribasso.
Atti da riformulare e ripubblicare anche in caso di
subappalto o appalto integrato.
Il nuovo Codice. Amministrazioni alle prese con avvisi
pubblicati dopo il 19 aprile.
L’entrata in
vigore immediata del nuovo Codice degli appalti sta causando
un generale disorientamento negli enti appaltanti e negli
operatori, a causa della mancanza di un’adeguata disciplina
transitoria (pericolo da tempo segnalato da questo giornale,
si veda da ultimo Il Sole 24 Ore del 22 aprile).
Non appare
idonea allo scopo la complessa normativa contenuta
nell’articolo 216, diretta a regolamentare il passaggio tra
il vecchio e il nuovo regime. Essa lascia, infatti, in vita
“pezzi” del vecchio regolamento in attesa dell’emanazione
delle linee guida dell’Anac e di una nutrita serie di
provvedimenti attuativi, imponendo agli enti appaltanti una
complicata attività di ricostruzione sistematica.
Nel contempo, lo stesso articolo 216 stabilisce una linea di
cesura netta tra il vecchio e il nuovo regime: solo le
procedure i cui bandi sono stati pubblicati prima
dell’entrata in vigore del nuovo Codice –cioè entro il 18
aprile– possono continuare a svolgersi con le vecchie
regole, mentre quelle che hanno origine in bandi pubblicati
dopo tale data devono seguire le nuove regole.
La conseguenza di questa impostazione è evidente (ed è stata
ribadita dal
comunicato 22.04.2016 Anac-Mit): i bandi
pubblicati a partire dal 19 aprile che contengono previsioni
in contrasto con le norme introdotte dal decreto legislativo
50/2016 devono essere revocati e vanno ripubblicati dopo
averli resi aderenti alle nuove norme.
L’applicazione di questo principio impone alle stazioni
appaltanti un’analisi puntuale dei contenuti dei singoli
bandi per verificare se e in quali punti essi eventualmente
confliggano con la nuova disciplina e vadano quindi
corretti. Si tratta di un’analisi per nulla agevole, posto
che deve essere operata con riferimento a tutte le singole
disposizioni del nuovo Codice.
Vi sono tuttavia alcuni specifici aspetti in cui il
possibile conflitto appare immediato e insanabile. Il primo
è quello relativo all’utilizzo dell’appalto integrato di
progettazione ed esecuzione, da affidare sulla base di un
progetto preliminare o definitivo. Questa tipologia di
appalto non è più ammessa dal decreto legislativo 50/2016:
di conseguenza, se un bando pubblicato dopo il 18 aprile
prevede l’affidamento di un appalto integrato, l’ente
appaltante lo deve revocare, dotandosi di un progetto
esecutivo e solo dopo potrà ripubblicare il bando per
l’affidamento di un appalto di sola esecuzione (unica
tipologia oggi consentita).
Il secondo profilo riguarda i criteri di aggiudicazione. Con
le nuove norme il criterio del prezzo più basso (oggi
ridefinito del minor prezzo) è utilizzabile solo per i
lavori fino a un milione di euro e per le forniture e i
servizi sottosoglia o con caratteristiche standardizzate.
Pertanto, qualora un bando pubblicato dopo il 18 aprile
preveda il ricorso a questo criterio di aggiudicazione al di
fuori delle ipotesi indicate, andrà revocato. Il nuovo bando
da ripubblicare dovrà prevedere l’utilizzo del criterio
dell’offerta economicamente più vantaggiosa, con i
conseguenti criteri di valutazione e il peso ponderale
attribuito a ciascuno di essi.
Il terzo profilo attiene al subappalto. Le nuove norme
prevedono che il ricorso al subappalto debba essere
espressamente consentito nel bando di gara, che per le opere
superspecialistiche non possa superare il 30% dell’intero
importo dei lavori e che per gli appalti sopra soglia sia
individuata già in sede di offerta la terna di
subappaltatori. Nessuna di queste previsioni è contenuta
nella vecchia disciplina. Di conseguenza, un bando
pubblicato dopo il 18 aprile, non contenendo le indicazioni
richiamate, dovrà essere revocato, integrato nei termini
previsti dal nuovo Codice e ripubblicato (articolo Il Sole 24 Ore del
27.04.2016 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI SERVIZI - TRIBUTI: Baratto amministrativo per tutti. Chance a tutti gli enti.
Ampliate le forme di collaborazione.
CODICE APPALTI/ Il dlgs 50 allarga il perimetro
dell'istituto. Ma restano nodi da sciogliere.
Il nuovo codice dei contratti allarga il perimetro del
baratto amministrativo, ma non ne chiarisce ancora bene i
confini.
L'art. 190 del dlgs. 50/2016 riformula la disciplina
dell'istituto introdotto dall'art. 24 del dl 133/2014
(cosiddetto decreto «sblocca Italia»), senza tuttavia
sciogliere molti dei nodi emersi nella sua applicazione
pratica.
In primo luogo, il baratto viene esteso, dal punto di vista
soggettivo, a tutti gli «enti territoriali», mentre fino ad
oggi è stato limitato ai soli comuni.
Sul piano oggettivo, la nuova norma parla di «contratti di
partenariato sociale», da stipularsi «sulla base di progetti
presentati da cittadini singoli o associati, purché
individuati in relazione a un preciso ambito territoriale»,
che «possono riguardare la pulizia, la manutenzione,
l'abbellimento di aree verdi, piazze o strade, ovvero la
loro valorizzazione mediante iniziative culturali di vario
genere, interventi di decoro urbano, di recupero e riuso con
finalità di interesse generale, di aree e beni immobili
inutilizzati».
Anche da questo punto di vista, tale formulazione pare più
ampia e puntuale di quella dell'art. 24, che menziona, oltre
alla pulizia, "alla manutenzione e all'abbellimento di aree
verdi, piazze o strade», interventi di generica
«valorizzazione» territoriale.
Come contropartita, gli enti territoriali individuano
«riduzioni o esenzioni di tributi», che (analogamente a
quanto già previsto) devono essere «corrispondenti al tipo
di attività svolta dal privato o dalla associazione», ovvero
«comunque utili alla comunità di riferimento in un'ottica di
recupero del valore sociale della partecipazione dei
cittadini alla stessa».
È confermata anche la necessità di una delibera che
definisca «i criteri e le condizioni», ma nuovamente non
viene precisato se sia necessario un intervento dell'organo
consiliare (come di recente affermato dalla Corte dei conti
Emilia Romagna).
Inoltre, non si è chiarito se in sede di affidamento, sia
comunque necessario rispettare le regole dell'evidenza
pubblica, né se il baratto possa riguardare o meno anche
debiti tributari pregressi.
Da segnalare, nello stesso filone, anche l'art. 189 del dlgs
50, rubricato «Interventi di sussidiarietà orizzontale».
Esso consente di dare in gestione ad un «consorzio di
comprensorio» costituito dai cittadini residenti, per quanto
concerne la manutenzione e con diritto di prelazione, le
aree riservate al verde pubblico urbano e degli immobili di
origine rurale, riservati alle attività collettive sociali e
culturali di quartiere, ceduti al comune (con esclusione di
quelli ad uso scolastico e sportivo).
È inoltre possibile la formulazione all'ente competente, da
parte di gruppi di cittadini organizzati, di proposte
operative di pronta realizzabilità per la realizzazione di
opere di interesse locale, nel rispetto degli strumenti
urbanistici vigenti e delle prescrizioni in materia di
Codice dei beni culturali e senza oneri per l'ente medesimo.
La proposta è vagliata dall'ente, che può respingere (vale
il silenzio-rifiuto entro due mesi dalla presentazione) o
approvare gli interventi, regolando le fasi essenziali del
procedimento e i tempi di esecuzione
(articolo
ItaliaOggi del 27.04.2016). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
Progettisti, gli incentivi rientrano dalla finestra.
Incertezze sulla possibilità di erogare gli incentivi ai
dipendenti pubblici progettisti.
Secondo la chiave di
lettura maggiormente accreditata dell'articolo 113 del dlgs
50/2016, questo avrebbe abolito il compenso a risultato per
i progettisti delle pubbliche amministrazioni, aderendo così
ad una richiesta molto forte del mondo dei progettisti
privati, che possono ambire così ad un numero più ampio di
incarichi.
Tuttavia, la lettura attenta delle disposizioni
contenute nella norma non permette di esprimere la certezza
che effettivamente l'incentivo non sia dovuto. Se ci si
sofferma sul comma 2 dell'articolo 113, in apparenza i
progettisti sono esclusi. Infatti, la norma prevede che a
valere sul quadro economico dell'opera, le amministrazioni
pubbliche costituiscono e «destinano a un apposito fondo
risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento
modulate sull'importo dei lavori posti a base di gara per le
funzioni tecniche svolte dai dipendenti pubblici
esclusivamente per le attività di programmazione della spesa
per investimenti, per la verifica preventiva dei progetti di
predisposizione e di controllo delle procedure di bando e di
esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del
procedimento, di direzione dei lavori ovvero direzione
dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero
di verifica di conformità, di collaudatore statico ove
necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel
rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei
tempi e costi prestabiliti». La progettazione non è
menzionata.
Tuttavia, il successivo comma 3 dispone che «l'ottanta per
cento delle risorse finanziarie del fondo costituito ai
sensi del comma 2 è ripartito, per ciascuna opera o lavoro,
servizio, fornitura con le modalità e i criteri previsti in
sede di contrattazione decentrata integrativa del personale,
sulla base di apposito regolamento adottato dalle
amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti, tra il
responsabile unico del procedimento e i soggetti che
svolgono le funzioni tecniche indicate al comma 1 nonché tra
i loro collaboratori».
Il comma 1, nel definire gli oneri da indicare negli
stanziamenti del quadro economico, si riferisce agli «oneri
inerenti alla progettazione, alla direzione dei lavori
ovvero al direttore dell'esecuzione, alla vigilanza, ai
collaudi tecnici e amministrativi ovvero alle verifiche di
conformità, al collaudo statico, agli studi e alle ricerche
connessi, alla progettazione dei piani di sicurezza e di
coordinamento e al coordinamento della sicurezza in fase di
esecuzione quando previsti ai sensi del decreto legislativo
09.04.2008 n. 81, alle prestazioni professionali e
specialistiche necessari per la redazione di un progetto
esecutivo completo in ogni dettaglio».
Quindi, il rimando
che il comma 3 fa al comma 1, pare poter far rientrare dalla
finestra la corresponsione degli incentivi, uscita dalla
porta, visto che il comma 1 cita espressamente tra le
«funzioni tecniche» anche quelle relative alla
progettazione, i cui oneri sono indicati tra quelli che
costituiscono il fondo. Si potrebbe pensare, allora, che il
comma 2 escluda la destinazione delle some connesse alla
progettazione alla costituzione del fondo, certo. Ma, la
disposizione combinata tra commi 3 e 1 non aiuta di certo a
considerare conclusiva l'affermazione. Le possibilità che i
tecnici della p.a., se incaricati, rivendichino davanti al
giudice del lavoro la corresponsione dell'incentivo e che
trovino ragione delle eventuali azioni è molto ampia.
Solo
la contrattazione decentrata dei singoli enti, se escludesse
espressamente dai compensi i progettisti, potrebbe attenuare
le possibilità di attivare e vincere un possibile
contenzioso. Di certo, l'ambiguità della norma scatenerà
interpretazioni disparate ed il solito carico di pareri
spesso contraddittori delle sezioni regionali della Corte
dei conti.
Il tutto, meriterebbe un chiarimento molto
veloce, anche per capire una volta e per sempre se l'Irap
sia da considerare esclusa o inclusa nel quadro economico,
problema irrisolto dai pareri criptici della magistratura
contabile. Da sottolineare una novità chiara: col dlgs
50/2016 l'incentivazione potrà andare a responsabili del
procedimento, direttore dell'esecuzione e loro collaboratori
anche nel caso di appalti di servizi e forniture
(articolo ItaliaOggi del 27.04.2016
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI SERVIZI: Clausole sociali solo facoltative.
Se si sceglie questa opzione vanno anche applicati i
contratti più rappresentativi.
Codice degli appalti/1. Nei bandi di gara è possibile
prevedere il passaggio dei dipendenti al nuovo appaltatore.
Con la
pubblicazione in Gazzetta ufficiale del codice degli appalti
(Dlgs 50/2016) è entrata in vigore la nuova disciplina delle
clausole sociali. Si tratta di specifiche disposizioni che
dovrebbero garantire la continuità occupazionale dei
lavoratori interessati da un cambio di appalto, tramite il
loro passaggio alle dipendenze del nuovo appaltatore.
In particolare l’articolo 50 stabilisce che i bandi di gara,
gli avvisi e gli inviti per gli affidamenti dei contratti di
concessione e di appalto di lavori e servizi, diversi da
quelli aventi natura intellettuale, possono prevedere
apposite clausole sociali, volte a promuovere la stabilità
occupazionale del personale impiegato.
Il legislatore delegato considera facoltativa, e non
obbligatoria, l’introduzione della clausola sociale nei
bandi di gara; questa scelta ha fatto molto discutere in
quanto, nel corso dell’esame della bozza di decreto
legislativo, le competenti commissioni parlamentari avevano
chiesto che tale previsione fosse obbligatoria.
La clausola sociale può concretizzarsi nell’obbligo,
previsto dal bando, di assumere in tutto o in parte il
personale già utilizzato dal precedente appaltatore per
l’esecuzione del servizio. L’eventuale scelta in questa
direzione, precisa la legge, deve prevedere anche l’obbligo
per l’aggiudicatario di dare applicazione ai contratti
collettivi di settore stipulati, a livello nazionale,
territoriale o aziendale, dalle organizzazioni sindacali e
datoriali comparativamente più rappresentative sul piano
nazionale.
Il rispetto dei contratti collettivi è un impegno previsto
in più parti dal codice degli appalti: l’articolo 30
stabilisce tale obbligo a carico dei soggetti che eseguono
appalti pubblici e di concessioni (comma 3), individua come
vincolanti gli accordi in vigore per il settore e per la
zona nella quale si eseguono le prestazioni di lavoro, e
quelli il cui ambito di applicazione sia strettamente
connesso con l’attività oggetto dell’appalto (comma 4).
L’articolo 50 del codice precisa inoltre che la clausola
sociale può riguardare i servizi la cui esecuzione richieda
un’alta intensità di manodopera, ma anche in questo caso
resta fermo il carattere facoltativo della sua previsione.
Rientrano nella nozione, secondo la norma, tutti quei
servizi nei quali il costo della manodopera è pari almeno al
50% dell’importo totale del contratto.
Il codice precisa anche che le eventuali clausole sociali
dovranno essere conformi ai principi dell’Unione europea: è
chiaro il riferimento all’esigenza di rispettare i principi
comunitari (e anche costituzionali) in materia di libertà
imprenditoriale e della concorrenza, evitando che questo
tipo di clausole comportino la restrizione della platea dei
soggetti che vogliono competere all’affidamento del
servizio.
Quella introdotta dal Dlgs 50/2016 per i bandi pubblici non
è l’unica forma di clausola sociale contenuta nella riforma
degli appalti.
Una disposizione avente le medesime finalità (salvaguardare
l’occupazione nei casi di cambio dell’appaltatore) è
contenuta anche nella legge delega che ha dato origine al
codice. L’articolo 1, comma 10, della legge 11/2016 (con una
disposizione diventata subito efficace) prevede, per il
settore dei call center, il passaggio a carico del soggetto
che subentra nel servizio del personale impiegato
nell’appalto.
La norma si limita a fissare il principio generale,
assegnando ai contratti collettivi nazionali di lavoro,
stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali
maggiormente rappresentative sul piano nazionale, il compito
di regolare in maniera completa la materia (si prevede anche
un potere sussidiario del ministero del lavoro, in caso di
inerzia delle parti sociali) (articolo Il Sole 24 Ore del
26.04.2016). |
INCARICHI PROGETTUALI:
Gare già aperte ai professionisti.
Codice degli appalti/2. Per le norme attuali sono equiparati
alle imprese.
Appena entrato
in vigore, il codice degli appalti pubblici (decreto
legislativo 50/2016) potrebbe già essere modificato da una
norma esterna alla materia degli appalti, in attesa del
riordino previsto per il 31.07.2016.
È infatti in
discussione lo Statuto del lavoro autonomo (Ddl 2233) che,
all’articolo 7, prevede una maggiore partecipazione dei
lavoratori autonomi agli appalti pubblici.
Questa innovazione si affiancherà a quanto prevede il codice
degli appalti, cioè che fino a 40mila euro siano possibili
affidamenti diretti per i professionisti, purché vi sia
motivazione e si rispettino i principi di concorrenzialità
(articolo 36, comma 2, lettera a).
Ciò, tuttavia, non significa che debba prevalere l’elemento
della fiducia, cioè non è sufficiente una valutazione
personale sulla qualità del professionista (difficile da
motivare e da contestare). Nella scelta del professionista
occorre tener presente anche i principi di economicità,
efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza,
proporzionalità, pubblicità voluti dall’articolo 4 del
codice degli appalti.
Al di là di termini generali, un primo importante passo sarà
quello che alcune associazioni di professionisti (Acta,
Confassociazioni, Confprofessioni), individuano
nell’estensione, ai professionisti, di agevolazioni
dell’accesso alle gare già presenti nel codice degli appalti
per le micro e piccole imprese. Se, infatti, lo Statuto del
lavoro autonomo in corso di approvazione al Senato vuole
incentivare la partecipazione dei lavoratori autonomi agli
appalti pubblici, già ora basta applicare in modo
ragionevole le norme vigenti.
Si tratta, in particolare, dell’articolo 1, lettera ccc,
della legge 11/2016, che garantisce accesso alle micro,
piccole e medie imprese vietando le aggregazioni artificiose
di appalti e imponendo un obbligo di motivazione qualora un
affidamento non venga suddiviso in lotti.
Il committente pubblico, quindi, non può prevedere gare
eccessivamente dilatate che esigano requisiti
particolarmente consistenti, inaccessibili alle micro e
piccole imprese. Questa misura, sotto forma di divieto di
ostacoli alla partecipazione di concorrenti minori, è stata
trasfusa negli articoli 30, comma 7, 36, comma 1, e 41, comma 1,
del Dlgs 50/2016, a vantaggio anche dei professionisti,
grazie all’equiparazione con le piccole imprese.
Se le gare non possono avere criteri tali da escludere le
micro e piccole imprese, se deve essere rispettato il
criterio di rotazione ed essere agevolato il sistema di
reti, ciò può giovare anche ai professionisti, singoli o
associati, grazie all’equiparazione tra piccole imprese e
professionisti. Tale equiparazione è stata più volte
affermata dall’Autorità garante della concorrenza,
intervenuta in tema di tariffe e di pubblicità.
La giustizia amministrativa (Consiglio di Stato 411/2015
e 1164/2016) ha condiviso questa impostazione favorevole
all’equiparazione, che del resto è stata fatta propria anche
dal legislatore nella legge di Stabilità 2016: l’articolo
primo ha esteso ai professionisti la possibilità di
attingere a fondi strutturali europei, attraverso
l’equiparazione appunto a piccole e medie imprese (articolo Il Sole 24 Ore del
26.04.2016). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Avvocati, stretta privacy. Finita la perizia non si possono
tenere i dati. Lo dice il Garante in un provvedimento. Inflitti 192 mila di
sanzione.
Viola la privacy il consulente dell'autorità giudiziaria
che, finita la perizia, tiene per sé un data base con tutte
le informazioni sulle perizie effettuate. È un illecito che
contravviene agli obblighi di informativa e di raccolta del
consenso dell'interessato e delle prescrizioni sul
trattamento di dati giudiziari.
E tutto ciò può costare
molto caro: a un avvocato, che ha organizzato una maxi banca
dati, fruibile in un sito web, il Garante della privacy
(provvedimento 31.03.2016
n. 148) ha comminato la
sanzione pecuniaria amministrativa di 192 mila euro. E
questo anche se per gli stessi fatto il consulente è stato
assolto dal reato di trattamento illecito di dati.
Il
principio da seguire prevede, invece, che il consulente
restituisca tutto al giudice, senza tenere niente, salvo
specifiche autorizzazioni del magistrato o obblighi di legge
(vedasi le Linee Guida per i Ctu, provvedimento del Garante
n. 46 del 26.06.2008). Vediamo come sono andati i fatti.
Un avvocato ha svolto l'attività di consulente tecnico
dell'autorità giudiziaria per oltre 20 anni e ha costituito,
un database contenente moltissimi dati personali, dati di
traffico telefonico o comunque relativi a utenze telefoniche
e dati giudiziari: tutte informazioni acquisite proprio in
occasione degli incarichi conferiti. Tecnicamente, in base
al codice della privacy, i titolari di questi trattamenti
sono gli uffici giudiziari, che hanno conferito incarichi
peritali, da completare di regola in 60 giorni. Scaduto
questo termine tutte le informazioni non potevano essere
conservati dal professionista.
Ma a che cosa sono serviti queste informazioni, tra l'altro
messe in un sito web e fruibili in rete? Sono stati usati
dall'avvocato per difendersi in sede giudiziaria (il
procedimento per violazione della privacy); e sono stati
anche comunicati a una vasta platea di soggetti, fra cui
magistrati, appartenenti alle forze di polizia, giornalisti
e professionisti vari. In base a questi fatti, il garante ha
ritenuto che il database è stato creato e conservato in
assenza di specifico incarico da parte dell'autorità
giudiziaria e anche utilizzato per scopi diversi agli
incarichi peritali.
A un certo punto, quindi, il professionista, che in primo
tempo ha legittimamente acquisito i dati, successivamente è
diventato lui il titolare del trattamento, non operando più
come consulente dell'autorità giudiziaria, ma come soggetto
privato, al di fuori dal perimetro indicato negli incarichi
peritali e di consulenza. Così facendo il professionista,
però, ha violato gli articoli 11 e 27 del codice della
privacy (trattamento illecito di dati giudiziari). Per i
dati personali diversi da quelli giudiziari, la
conservazione e la comunicazione a terzi sono risultate al
garante illecite per mancanza del consenso degli
interessati.
Sul punto, sia per i dati giudiziari sia per i dati
personali comuni, l'avvocato ha sostenuto la legittimità
della conservazione e dell'utilizzo, poiché sono serviti a
difendersi in giudizio: l'avvocato è stato denunciato anche
per il reato di illecito trattamento dati (articolo 167
codice della privacy). Ma il garante ha ribattuto che questa
giustificazione non è plausibile, considerato che la
conservazione nel data base è cominciata molto prima
dell'indagine che ha coinvolto il professionista.
Proprio per l'assenza di una attuale esigenza difensiva, il
garante ha anche ravvisato la violazione dell'obbligo di
informativa agli interessati previsto dall'articolo 13 del
codice della privacy. Le violazioni riscontrate sono state
quattro: inosservanza della disciplina dei dati giudiziari,
mancato consenso, mancata informativa, violazioni su banca
dati di particolare dimensioni (quest'ultimo ritenuto un
illecito autonomo)
(articolo ItaliaOggi del 26.04.2016). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Dirigenti, assunzioni a rischio. Posti indisponibili finché
non sarà operativa la riforma. L'Unificata ha tentato di aprire un varco nel blocco imposto
dalla legge di Stabilità 2016.
Rischio nullità per le assunzioni di dirigenti effettuate da
enti locali in violazione dell'articolo 1, comma 219, della
legge 208/2015.
Le
indicazioni fornite dalla Conferenza unificata nella
seduta dello scorso 24 marzo a oggetto l'esame delle
«Problematiche interpretative relative all'articolo 1, commi
219 e 221, della legge 28.12.2015, n. 208 in materia
di dirigenza pubblica», non possono superare i rilevanti
problemi di legittimità di assunzioni effettuate contro la
volontà del legislatore.
Come è noto, l'articolo 1, comma 219, della legge 208/2015
impone alle amministrazioni (salvo poche e specifiche
eccezioni, che non contemplano gli enti locali) di rendere
indisponibili i posti delle qualifiche dirigenziali, finché
non sarà operativa la riforma della dirigenza, voluta
dall'articolo 11 della legge 124/2015.
I comuni in particolare hanno sollevato critiche nei
confronti della norma, perché costituisce un'ulteriore
gabbia alla propria autonomia organizzativa.
Tuttavia, dalla critica legittima si è passati al tentativo
di proporre interpretazioni della norma oggettivamente
troppo spinte, cercando di reperire elementi per
considerarla non applicabile agli enti locali, evocando
l'autonomia costituzionale o elementi accidentali, quali il
riferimento contenuto nel comma 219 agli incarichi di prima
e seconda fascia, inesistenti negli enti locali.
Si è trattato, tuttavia, di tesi prive di solidi elementi.
La Corte dei conti, sezione regionale di controllo della
Puglia, non a caso li ha respinti integralmente nella
deliberazione 17.03.2016, n. 73 mettendo in evidenza due
elementi decisivi per la piena applicabilità della norma a
tutti gli enti locali.
In primo luogo, la sezione rileva che
«la norma si riferisce a tutte le amministrazioni di cui
all'art. 1, comma 2, dlgs 165/2001, senza introdurre alcuna
espressa eccezione per gli enti locali»; in secondo luogo,
afferma: «Il comma 224 della citata legge 208/2015, nel
prevedere che resta escluso dal campo di applicazione del
comma 219 -tra gli altri- il personale delle città
metropolitane e delle province adibito all'esercizio di
funzioni fondamentali, non fa altro che confermare l'opzione
ermeneutica sopra indicata, atteso che siffatta eccezione
non avrebbe ragion d'essere se gli enti locali fossero
esclusi a priori, per estraneità soggettiva, dal raggio
operativo della disciplina in esame».
In Conferenza unificata si è cercata una soluzione definita
di compromesso, nell'ambito della quale spicca in
particolare l'indicazione secondo la quale «sarà comunque
possibile prevedere la copertura di posizioni dirigenziali
specificamente previste dalla legge o connesse alto
svolgimento di funzioni fondamentali, in base all'articolo
14, comma 27, del dl 78/2010, o di servizi essenziali».
Si tratta, tuttavia, di un'indicazione per un verso priva di
qualsiasi elemento cogente, in quanto proveniente da un
soggetto, la Conferenza unificata, non dotato in alcun modo
di poteri e competenze concernenti l'interpretazione e
l'applicazione delle norme: la Conferenza unificata, ai
sensi dell'articolo 2 del dlgs 281/1997 dispone solo di
compiti consultivi preventivi, non della possibilità di
esprimere pareri riguardo l'attuazione delle leggi. Meno che
mai se detti pareri portino, di fatto, a letture
contrastanti con le norme.
È evidentissima la contrapposizione tra quanto indicato
dalla Conferenza Unificata e l'articolo 1, commi 219 e 224,
della legge 208/2015: quest'ultima, infatti, esclude dal
sostanziale blocco temporaneo delle assunzioni di qualifiche
dirigenziali solo i dirigenti adibiti alle funzioni
fondamentali di province e città metropolitane (che, in
realtà, non possono assumere nessuno perché soggette al
perdurante divieto assoluto di assunzioni).
La Conferenza Unificata finisce per estendere anche ai
comuni la possibilità di assumere dirigenti nelle funzioni
fondamentali dei comuni definite dall'articolo 14, comma 27,
del dl 78/2010, cioè quasi tutte, con un'operazione posta a
porre nel nulla la ratio della legge di Stabilità del 2016,
evidentemente preordinata a tenere fermi gli incarichi
dirigenziali in vista della costituzione del ruolo unico
dirigenziale, previsto dalla riforma voluta dal ministro
Marianna Madia.
Pertanto, poiché la Conferenza Unificata non può costituire
fonte di produzione o di interpretazione efficace sul piano
giuridico, assunzioni di qualifiche dirigenziali basate sul
supporto del parere del 24 marzo, in quanto contrarie a
legge, si espongono a rischi concreti di nullità e
responsabilità erariale
(articolo ItaliaOggi del 26.04.2016). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
La definizione di “restauro scientifico” esclude
l’ammissibilità di incrementi volumetrici, né può
diversamente ritenersi, in considerazione del fatto che la
detta tipologia di intervento consente “l’inserimento degli
impianti tecnologici e igienico-sanitari essenziali”.
E’ vero, infatti, che la collocazione dei detti impianti può
richiedere la realizzazione di appositi volumi destinati ad
ospitarli, ma si tratta di volumi c.d. tecnici, che, com’è
noto, nulla hanno a che vedere con la volumetria, quale
quella di che trattasi, destinata a soddisfare esigenze
diverse da quella concernente il ricovero di siffatti
impianti.
---------------
Le censure delle due parti appellanti, rivolte a contestare
l’ipotizzato aumento di volumetria derivante dalla chiusura
del porticato, sono palesemente infondate e si prestano ad
una trattazione congiunta.
Occorre preliminarmente rilevare che la lex specialis
della gara non consentiva incrementi volumetrici, né,
contrariamente a quanto sostenuto dal Comune di Sassuolo,
questi ultimi potevano ritenersi ammessi in considerazione
della tipologia degli interventi da progettare.
In base al bando di gara il concorso di progettazione per
cui è causa, aveva ad oggetto interventi di “recupero
funzionale” e “restauro scientifico”.
Diversamente da quanto sostenuto dall’amministrazione
comunale, dalla definizione di “restauro scientifico”
contenuta nell’allegato alla L.R. 25/11/2002, n. 31, non si
ricava affatto l’ammissibilità di aumenti di cubatura.
Si legge nel citato allegato: <<Ai fini della presente
legge si intendono per:
…
“restauro scientifico", gli interventi che riguardano le
unità edilizie che hanno assunto rilevante importanza nel
contesto urbano territoriale per specifici pregi o caratteri
architettonici o artistici. Gli interventi di restauro
scientifico consistono in un insieme sistematico di opere
che, nel rispetto degli elementi tipologici formali e
strutturali dell'edificio, ne consentono la conservazione,
valorizzandone i caratteri e rendendone possibile un uso
adeguato alle intrinseche caratteristiche. Il tipo di
intervento prevede:
c.1) il restauro degli aspetti architettonici o il
ripristino delle parti alterate, cioè il restauro o
ripristino dei fronti esterni ed interni, il restauro o il
ripristino degli ambienti interni, la ricostruzione
filologica di parti dell'edificio eventualmente crollate o
demolite, la conservazione o il ripristino dell'impianto
distributivo-organizzativo originale, la conservazione o il
ripristino degli spazi liberi, quali, tra gli altri, le
corti, i larghi, i piazzali, gli orti, i giardini, i
chiostri;
c.2) consolidamento, con sostituzione delle parti non
recuperabili senza modificare la posizione o la quota dei
seguenti elementi strutturali:
- murature portanti sia interne che esterne;
- solai e volte;
- scale;
- tetto, con ripristino del manto di copertura originale;
c.3) l'eliminazione delle superfetazioni come parti
incongrue all'impianto originario e agli ampliamenti
organici del medesimo;
c.4) l'inserimento degli impianti tecnologici e
igienico-sanitari essenziali>>.
La trascritta definizione di “restauro scientifico”,
esclude, dunque, chiaramente l’ammissibilità di incrementi
volumetrici, né può diversamente ritenersi, in
considerazione del fatto che la detta tipologia di
intervento consente “l’inserimento degli impianti
tecnologici e igienico-sanitari essenziali”. E’ vero,
infatti, che la collocazione dei detti impianti può
richiedere la realizzazione di appositi volumi destinati ad
ospitarli, ma si tratta di volumi c.d. tecnici, che, com’è
noto, nulla hanno a che vedere con la volumetria, quale
quella di che trattasi, destinata a soddisfare esigenze
diverse da quella concernente il ricovero di siffatti
impianti.
Nel caso di specie, la proposta progettuale del RTP
capeggiato dalla arch. Ve. prevedeva indubbiamente la
realizzazione di volumetria aggiuntiva non classificabile
come mero volume tecnico
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 05.05.2016 n. 1822 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'installazione di pannelli in vetro atti a
chiudere integralmente un porticato che si presenti aperto
su tre lati, determina, senz’altro, la realizzazione di un
nuovo locale autonomamente utilizzabile, con conseguente
incremento della preesistente volumetria.
Ciò vale anche nell’ipotesi in cui le vetrate siano
facilmente amovibili e siano destinate a chiudere il
manufatto, solo per un determinato periodo nell’arco
dell’anno, atteso che:
a) le modalità di installazione e rimozione di una struttura sono
indifferenti rispetto alla sua funzione (nella specie quella
di realizzare un vano chiuso);
b) l’utilizzo stagionale delle vetrate non vale a conferire
all’opera che ne risulta natura precaria, atteso che al fine
di affermare siffatta natura occorre che la struttura sia
oggettivamente inidonea a soddisfare esigenze prolungate nel
tempo.
La giurisprudenza ha ritenuto, che la natura precaria di un
manufatto non può essere desunta dalla temporaneità della
destinazione soggettivamente assegnatagli dal costruttore,
rilevando l’idoneità dell’opera a soddisfare un bisogno non
provvisorio attraverso la perpetuità della funzione.
Coerentemente è stato affermato che nemmeno l’eventuale
intendimento di utilizzare la struttura stagionalmente, può
consentire di attribuire alla stessa carattere precario.
---------------
Ed invero l'installazione di pannelli in vetro atti a
chiudere integralmente un porticato che si presenti aperto
su tre lati, determina, senz’altro, la realizzazione di un
nuovo locale autonomamente utilizzabile, con conseguente
incremento della preesistente volumetria (Cons. Stato, Sez.
VI, 05/08/2013 n. 4089; Sez. V, 08/04/1999, n. 394;
26/10/1998 n. 1554).
Ciò vale anche nell’ipotesi in cui le vetrate siano
facilmente amovibili e siano destinate a chiudere il
manufatto, solo per un determinato periodo nell’arco
dell’anno, atteso che:
a) le modalità di installazione e rimozione di una struttura sono
indifferenti rispetto alla sua funzione (nella specie quella
di realizzare un vano chiuso);
b) l’utilizzo stagionale delle vetrate non vale a conferire
all’opera che ne risulta natura precaria, atteso che al fine
di affermare siffatta natura occorre che la struttura sia
oggettivamente inidonea a soddisfare esigenze prolungate nel
tempo.
La giurisprudenza ha ritenuto, che la natura precaria di un
manufatto non può essere desunta dalla temporaneità della
destinazione soggettivamente assegnatagli dal costruttore,
rilevando l’idoneità dell’opera a soddisfare un bisogno non
provvisorio attraverso la perpetuità della funzione (Cass.
Pen., Sez. III, 08/02/2007 n. 5350).
Coerentemente è stato affermato che nemmeno l’eventuale
intendimento di utilizzare la struttura stagionalmente, può
consentire di attribuire alla stessa carattere precario
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 05.05.2016 n. 1822 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non sussiste necessità di motivare in modo
particolare un provvedimento col quale sia stata ordinata la
demolizione di un manufatto abusivo, quand’anche sia
trascorso un lungo periodo di tempo tra l’epoca della
commissione dell’abuso e la data dell’adozione
dell’ingiunzione di demolizione, poiché l’ordinamento tutela
l’affidamento solo qualora esso sia incolpevole, mentre la
realizzazione di un’opera abusiva si concretizza in una
volontaria attività del costruttore contra legem.
Non può ammettersi, pertanto, un affidamento meritevole di
tutela alla conservazione di una situazione di fatto
abusiva. Colui che realizza un abuso edilizio non può
dolersi del fatto che l’amministrazione lo abbia prima in un
certo qual modo avvantaggiato, adottando solamente a
notevole distanza di tempo i provvedimenti repressivi
dell’abuso non sanabile.
---------------
L'ordine di demolizione, come i provvedimenti sanzionatori
in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una
specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né
una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati né una motivazione sulla sussistenza
di un interesse pubblico concreto ed attuale alla
demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di
alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva, che il tempo non può mai
legittimare (conf. Cons. Stato, IV, 20.07.2011, n. 4403, che
segnala il carattere dovuto dell’ordine di demolizione,
emanato “in mera dipendenza dall’accertamento dell’abuso e
dalla riconducibilità del medesimo ad una delle fattispecie
di illecito previste dalla legge, con la conseguenza che il
provvedimento sanzionatorio non richiede una particolare
motivazione, essendo sufficiente la mera rappresentazione
del carattere illecito dell’opera realizzata; né è
necessaria una previa comparazione dell’interesse pubblico
alla repressione dell’abuso, che è in “re ipsa”, con
l’interesse del privato proprietario del manufatto; e ciò
anche se l’intervento repressivo avvenga a distanza di tempo
dalla commissione dell’abuso, ove il medesimo non sia stato
oggetto di sanatoria in base agli interventi legislativi
succedutisi nel tempo”).
---------------
L'interesse pubblico alla tutela della disciplina
urbanistica non è negoziabile in ragione di un preteso
affidamento individuale: la presenza di un manufatto abusivo
none esaurisce infatti i suoi effetti, bilateralmente, nella
sfera giuridica del destinatario della misura
ripristinatoria, ma riguarda erga omnes l’intera
collettività circostante.
Sicché, quand’anche l’asserito affidamento individuale
davvero sussistesse, sarebbe comunque improduttivo di
effetti utili al fine superiore dell’esigenza generale di
ripristinare l’ordine urbanistico, di cui tutti beneficiano.
---------------
5. Con il secondo motivo gli appellanti deducono la
violazione del principio dell’affidamento perché la
fattispecie riguarda un preteso abuso, risalente
pacificamente a data anteriore al 1967, non eseguito dagli
appellanti e concernente un manufatto accessorio di modeste
dimensioni.
Il motivo non può trovare accoglimento alla luce della
consolidata giurisprudenza, in particolare della recente
pronuncia della Sezione (Cons. Stato, VI, 11.12.2013, n.
5943; 05.01.2015, n. 13) secondo la quale non sussiste
necessità di motivare in modo particolare un provvedimento
col quale sia stata ordinata la demolizione di un manufatto
abusivo, quand’anche sia trascorso un lungo periodo di tempo
tra l’epoca della commissione dell’abuso e la data
dell’adozione dell’ingiunzione di demolizione, poiché
l’ordinamento tutela l’affidamento solo qualora esso sia
incolpevole, mentre la realizzazione di un’opera abusiva si
concretizza in una volontaria attività del costruttore
contra legem. Non può ammettersi, pertanto, un
affidamento meritevole di tutela alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva. Colui che realizza un abuso
edilizio non può dolersi del fatto che l’amministrazione lo
abbia prima in un certo qual modo avvantaggiato, adottando
solamente a notevole distanza di tempo i provvedimenti
repressivi dell’abuso non sanabile.
Ed è da ribadire, con la giurisprudenza di questo Consiglio
di Stato (v., ex plurimis, Cons. Stato, V,
11.01.2011, n. 79 e, ivi, numerosi riferimenti
giurisprudenziali aggiuntivi), che l'ordine di demolizione,
come i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è
atto vincolato che non richiede una specifica valutazione
delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di
quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati né una motivazione sulla sussistenza di un
interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non
potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento
tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto
abusiva, che il tempo non può mai legittimare (conf. Cons.
Stato, IV, 20.07.2011, n. 4403, che segnala il carattere
dovuto dell’ordine di demolizione, emanato “in mera
dipendenza dall’accertamento dell’abuso e dalla
riconducibilità del medesimo ad una delle fattispecie di
illecito previste dalla legge, con la conseguenza che il
provvedimento sanzionatorio non richiede una particolare
motivazione, essendo sufficiente la mera rappresentazione
del carattere illecito dell’opera realizzata; né è
necessaria una previa comparazione dell’interesse pubblico
alla repressione dell’abuso, che è in “re ipsa”, con
l’interesse del privato proprietario del manufatto; e ciò
anche se l’intervento repressivo avvenga a distanza di tempo
dalla commissione dell’abuso, ove il medesimo non sia stato
oggetto di sanatoria in base agli interventi legislativi
succedutisi nel tempo” (Cons. Stato, VI, 23.10.2015, n.
4880).
Più ancora vale rilevare che l'interesse pubblico alla
tutela della disciplina urbanistica non è negoziabile in
ragione di un preteso affidamento individuale: la presenza
di un manufatto abusivo none esaurisce infatti i suoi
effetti, bilateralmente, nella sfera giuridica del
destinatario della misura ripristinatoria, ma riguarda
erga omnes l’intera collettività circostante. Sicché,
quand’anche l’asserito affidamento individuale davvero
sussistesse, sarebbe comunque improduttivo di effetti utili
al fine superiore dell’esigenza generale di ripristinare
l’ordine urbanistico, di cui tutti beneficiano (cfr. Cons.
Stato, VI, 28.01.2013, n. 498; 04.03.2013, n. 1268;
29.01.2015, n. 406)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 05.05.2016 n. 1774 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla natura e
consistenza delle realizzate n. 2 “pergotende”.
La struttura in alluminio anodizzato destinata ad ospitare
tende retrattili in materiale plastico non integra le
caratteristiche di “trasformazione edilizia e urbanistica
del territorio” (artt. 3 e 10 d.P.R. n. 380/2001). Va,
invero, considerato che l’opera principale non è la
struttura in sé, ma la tenda, quale elemento di protezione
dal sole e dagli agenti atmosferici, finalizzata ad una
migliore fruizione dello spazio esterno dell’unità
abitativa.
Considerata in tale contesto, la struttura in alluminio
anodizzato si qualifica in termini di mero elemento
accessorio, necessario al sostegno e all’estensione della
tenda. Quest’ultima, poi, integrata alla struttura portante,
non vale a configurare una “nuova costruzione”, atteso che
essa è in materiale plastico e retrattile, onde non presenta
caratteristiche tali da costituire un organismo edilizio
rilevante, comportante trasformazione del territorio.
Tanto è escluso in primo luogo dalla circostanza che la
copertura e la chiusura perimetrale che essa realizza non
presentano elementi di fissità, stabilità e permanenza, in
ragione del carattere retrattile della tenda; onde, in
ragione della inesistenza di uno spazio chiuso stabilmente
configurato, non può parlarsi di organismo edilizio
connotantesi per la creazione di nuovo volume o superficie.
Ciò resta escluso, inoltre, in considerazione della
tipologia dell’elemento di copertura e di chiusura, il quale
è una tenda in materiale plastico, privo pertanto di quelle
caratteristiche di consistenza e di rilevanza che possano
connotarlo in termini di componenti edilizie di copertura o
di tamponatura di una costruzione.
Allo stesso modo, deve ritenersi che non sia integrata la
fattispecie della ristrutturazione edilizia. Invero, ai
sensi dell’articolo 3, lettera d), del dpr n. 380/2001, tale
tipologia di intervento edilizio richiede che trattasi di
“interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi
mediante un insieme sistematico di opere”, i quali
“comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni
elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione, la
modifica e l’inserimento di nuovi elementi e impianti”: la
disposizione, così come declinata dal legislatore, richiede
che le opere realizzate abbiano consistenza e rilevanza
edilizia, siano cioè tali da poter “trasformare l’organismo
edilizio”, condividendo pertanto natura e consistenza degli
elementi costitutivi di esso
(massima tratta da https://renatodisa.com).
--------------
Con unico ed articolato motivo il signor Ag. lamenta:
Violazione dell’articolo 6, comma 1, del DPR n. 380/2001;
violazione della circolare n. 19137 del 09.03.2012; errata
applicazione dell’articolo 16 della legge regionale Lazio n.
15/2008; eccesso di potere per travisamento dei fatti,
erroneità dei presupposti, illogicità manifesta e carenza di
istruttoria.
L’appellante deduce in primo luogo l’erroneità della
sentenza impugnata per non avere esattamente compreso e
valutato la fattispecie concreta della installazione di due
pergotende, la quale rientra nell’ambito di operatività
dell’articolo 6 del dpr n. 380/2001 (cd. attività edilizia
libera), dovendosi in proposito fare riferimento
(accertamento omesso dal Tribunale) alla sussistenza di
peculiari caratteristiche, quali l’amovibilità delle opere,
la loro temporaneità ovvero la loro natura di arredo
pertinenziale.
Aggiunge ancora che il giudice di prime cure non avrebbe
considerato che lo stesso Comune, con la Circolare n. 19137
del 09.03.2012, nel disciplinare le ipotesi di attività
edilizia libera, vi aveva ricompreso le cd. “strutture
semplici, quali gazebo, pergotende con telo retrattile,
pergolati, se elementi di arredo annessi ad unità
immobiliari e/o edilizie aventi esclusivamente destinazione
abitativa”.
Rileva, poi, che la sentenza appellata avrebbe errato nel
ritenere l’opera realizzata assoggettata al preventivo
rilascio del permesso di costruire, atteso che, nella
specie, non era configurabile un intervento di
ristrutturazione edilizia, né tampoco di nuova costruzione,
difettando l’indefettibile presupposto della trasformazione
urbanistica ed edilizia del territorio.
Andavano, infatti, sottolineati caratteri di amovibilità,
precarietà e temporaneità delle strutture realizzate, nonché
la loro funzione meramente accessoria e pertinenziale
all’unità abitativa.
Lamenta, infine, la non corrispondenza tra la violazione
contestata e la ragione di diniego espressa dal Tribunale.
Invero, nella specie i provvedimenti gravati richiamavano
l’articolo 16 della legge regionale Lazio n. 15/2008,
riferentesi alle ipotesi di ristrutturazione edilizia e
cambi di destinazione d’uso in assenza di titolo edilizio,
mentre la sentenza di primo grado avrebbe configurato
l’opera quale intervento di nuova costruzione.
Ciò posto, rileva la Sezione che i provvedimenti impugnati
dal signor Ag. qualificano le opere realizzate quale
“interventi edilizi abusivi di ristrutturazione edilizia in
assenza di titolo abilitativo”.
Di poi, la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale
in questa sede gravata così motiva il rigetto del ricorso:
“Il ricorso è infondato e, pertanto, va respinto tenuto
conto che le opere realizzate risultano avere una
consistenza tale ed un ancoraggio al lastrico del terrazzo
sul quale sono installate, tale da costituire, secondo un
costante orientamento della Sezione, una modificazione
permanente della sagoma dell’edificio per la cui esecuzione
deve ritenersi necessaria la previa acquisizione di apposito
permesso di costruire”.
La disamina dell’appello –a giudizio della Sezione– non
può prescindere dalla considerazione della natura e della
consistenza delle opere realizzate.
Trattasi di n. 2 “pergotende”, le quali vengono
analiticamente descritte sia nei provvedimenti impugnati,
sia nella comunicazione ex art. 27, comma 4, del dpr n.
380/2001, prot. VB/2014/23430 del 02.04.2014.
In particolare, in tale ultimo atto viene riferita la
realizzazione di:
1) “struttura di alluminio anodizzato atta ad ospitare una
tenda retrattile in materiale plastico comandata
elettricamente. Detta struttura risulta ancorata ai muri
perimetrali del fabbricato e al muretto di parapetto del
terrazzo; risulta altresì sorretta da pali, sempre in
alluminio anodizzato, che poggiano sul pavimento del
terrazzo:La struttura che occupa una superficie di circa mq.
34 risulta tamponata sui due lati liberi da tendine
plastiche, scorrevoli all’interno di binari, comandate
elettricamente e da teli plastici fissi (timpano e
frangivento)inseriti nelle strutture di alluminio
anodizzato”;
2) “…una struttura in alluminio anodizzato atta ad ospitare
un tenda retrattile in materiale plastico comandata
elettricamente. Detta struttura risulta ancorata ai muri
perimetrali del fabbricato e al plateatico pavimentato
predetto. La struttura che occupa una superficie di circa
mq. 15 risulta tamponata sui due lati liberi da lastre in
vetro mobili “a pacchetto” munite di supporti che,
manualmente, scorrono in appositi binari e da vetro fisso
(timpano)inseriti nelle strutture di alluminio anodizzato”.
Orbene, in relazione alla tipologia dei manufatti
realizzati, così come sopra descritti, il Collegio ritiene
che l’appello sia parzialmente fondato, nei sensi che di
seguito si espongono.
La Sezione evidenzia preliminarmente che la questione
relativa alla non necessità del previo titolo abilitativo
non può essere risolta sulla base della pretesa precarietà
delle opere, fondata, a dire dell’appellante,
sulla
amovibilità delle strutture.
Si osserva, infatti, che dall’articolo 3, comma 1, lett. e.5,
del Testo Unico dell’Edilizia è possibile trarre una nozione
di “opera precaria”, la quale è fondata non sulle
caratteristiche dei materiali utilizzati né sulle modalità
di ancoraggio delle stesse al suolo quanto piuttosto sulle
esigenze (di natura stabile o temporanea) che esse siano
dirette a soddisfare.
Invero, la norma qualifica come “interventi di nuova
costruzione” (come tali assoggettati al previo rilascio del
titolo abilitativo), “l’installazione di manufatti leggeri,
anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere,
quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni che
siano utilizzati come abitazioni , ambienti di lavoro oppure
depositi, magazzini e simili, e che non siano diretti a
soddisfare esigenze meramente temporanee…”.
Dunque, la natura di opera “precaria” (non soggetta al
titolo abilitativo) riposa non nelle caratteristiche
costruttive ma piuttosto in un elemento di tipo funzionale,
connesso al carattere dell’utilizzo della stessa.
Ciò posto, trattandosi nella specie di strutture destinate
ad una migliore vivibilità dello spazio esterno dell’unità
abitativa (terrazzo), è indubitabile che le stesse siano
state installate non in via occasionale, ma per soddisfare
la suddetta esigenza, la quale non è certamente precaria.
In buona sostanza le “pergotende” realizzate non si
connotano per una temporaneità della loro utilizzazione, ma
piuttosto per costituire un elemento di migliore fruizione
dello spazio, stabile e duraturo.
Né, a giudizio del Collegio, risulta dirimente, ai fini
della soluzione della presente controversia, la circostanza
che le strutture siano ancorate ai muri perimetrali ed al
suolo.
Invero, l’ancoraggio si palesa comunque
necessario, onde evitare che l’opera, soggetta all’incidenza
degli agenti atmosferici, si traduca in un elemento di
pericolo per la privata e pubblica incolumità.
Chiarito per tale via che i manufatti in questione non sono
“precari”, è necessario però verificare se gli stessi, in
relazione a consistenza, caratteristiche costruttive e
funzione, costituiscano o meno un’opera edilizia soggetta al
previo rilascio del titolo abilitativo.
Orbene, ai sensi del combinato disposto degli articoli 3 e
10 del dpr n. 380/2001, sono in primo luogo soggetti al
rilascio del permesso di costruire gli “interventi di nuova
costruzione”, categoria nella quale rientrano quelli che
realizzano una “trasformazione edilizia e urbanistica del
territorio”.
Ciò premesso, ritiene la Sezione che la struttura in
alluminio anodizzato destinata ad ospitare tende retrattili
in materiale plastico non integri tali caratteristiche.
Va, invero, considerato che l’opera principale non è la
struttura in sé, ma la tenda, quale elemento di protezione
dal sole e dagli agenti atmosferici, finalizzata ad una
migliore fruizione dello spazio esterno dell’unità
abitativa.
Considerata in tale contesto, la struttura in alluminio
anodizzato si qualifica in termini di mero elemento
accessorio, necessario al sostegno e all’estensione della
tenda.
Quest’ultima, poi, integrata alla struttura portante, non
vale a configurare una “nuova costruzione”, atteso che essa
è in materiale plastico e retrattile, onde non presenta
caratteristiche tali da costituire un organismo edilizio
rilevante, comportante trasformazione del territorio.
Tanto è escluso in primo luogo dalla circostanza che la
copertura e la chiusura perimetrale che essa realizza non
presentano elementi di fissità, stabilità e permanenza, in
ragione del carattere retrattile della tenda (in proposito,
cfr. anche la cit. circolare del Comune di Roma, 09.03.2012,
n. 19137); onde, in ragione della inesistenza di uno spazio
chiuso stabilmente configurato, non può parlarsi di
organismo edilizio connotantesi per la creazione di nuovo
volume o superficie.
Ciò resta escluso, inoltre, in considerazione della
tipologia dell’elemento di copertura e di chiusura, il quale
è una tenda in materiale plastico, privo pertanto di quelle
caratteristiche di consistenza e di rilevanza che possano
connotarlo in termini di componenti edilizie di copertura o
di tamponatura di una costruzione.
In tale situazione, dunque, la struttura di alluminio
anodizzato mantiene la connotazione di mero elemento di
sostegno della tenda e non integra, dunque, la struttura
portante di una costruzione, la quale, integrandosi con gli
elementi di copertura e di chiusura, realizzi, così creando
un nuovo organismo edilizio, una trasformazione urbanistica
ed edilizia del territorio.
Allo stesso modo, deve ritenersi che non sia integrata la
fattispecie della ristrutturazione edilizia.
Invero, ai sensi dell’articolo 3, lettera d), del dpr n.
380/2001, tale tipologia di intervento edilizio richiede che
trattasi di “interventi rivolti a trasformare gli organismi
edilizi mediante un insieme sistematico di opere”, i quali
“comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni
elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione, la
modifica e l’inserimento di nuovi elementi e impianti”.
Orbene, la disposizione, così come declinata dal
legislatore, richiede comunque che le opere realizzate
abbiano consistenza e rilevanza edilizia, siano cioè tali da
poter “trasformare l’organismo edilizio”, condividendo
pertanto natura e consistenza degli elementi costitutivi di
esso.
La “trasformazione” può, infatti, realizzarsi solo
attraverso interventi che pongano in non cale la precedente
identità dell’organismo edilizio, risultato che può
realizzarsi solo quando questi abbiano una rilevanza
edilizia (e, dunque, una suscettività di incidenza sul
territorio) almeno pari o superiore agli elementi che
costituiscono la preesistenza.
Tali caratteristiche risultano all’evidenza non sussistenti
nella fattispecie della struttura in alluminio anodizzato
atta ad ospitare una tenda retrattile, avuto riguardo alla
consistenza di tale intervento ed alla circostanza che
l’immobile sul quale essa è collocata è un fabbricato in
muratura, sulla cui originaria identità e conformazione
l’opera nuova non può certamente incidere.
Sulla base delle considerazioni sopra svolte deve, pertanto,
ritenersi che la struttura realizzata e sopra descritta sub
1) non abbisognasse del previo rilascio del permesso di
costruire: giacché la tenda retrattile che essa è unicamente
destinata a servire si risolve, in ultima analisi, in un
mero elemento di arredo del terrazzo su cui insiste.
Di conseguenza, non può condividersi sul punto la pronuncia
di rigetto del ricorso operata dal giudice di primo grado,
dovendosi ritenere che i provvedimenti di sospensione dei
lavori e di demolizione adottati dall’amministrazione con
riferimento alla sua realizzazione siano illegittimi.
L’appello è, di conseguenza, per tale parte fondato.
A identiche conclusioni non può giungersi, invece, in
riferimento alla struttura sopra descritta sub 2).
Essa, invero, è pur sempre una “struttura in alluminio
anodizzato atta ad ospitare una tenda retrattile in
materiale plastico”.
Che, nondimeno, si connota diversamente per il fatto di
essere “tamponata sui due lati liberi da lastre di vetro
mobili a “pacchetto”, munite di supporti che manualmente
scorrono in appositi binari e da vetro fisso (timpano)
inseriti nelle strutture di alluminio anodizzato”.
Orbene, osserva la Sezione, conformemente ai principi in
precedenza esposti, che la presenza, quali elementi di
chiusura, di lastre di vetro determina il venir meno del
richiamato carattere di mera struttura di sostegno di tende
retrattili.
La natura e la consistenza del materiale utilizzato
(il vetro viene comunemente usato per la realizzazione di
pareti esterne delle costruzioni) fa sì che
la struttura di alluminio anodizzato si configuri, in questo
caso, non più come mero elemento di supporto di una tenda,
ma venga piuttosto a costituire la componente portante di un
manufatto, che assume consistenza di vera e propria opera
edilizia, connotandosi per la presenza di elementi di
chiusura che, realizzati in vetro, costituiscono vere e
proprie tamponature laterali.
Sicché il manufatto in questo caso costituisce “nuova
costruzione”, risultando idoneo a determinare una
trasformazione urbanistico ed edilizia del territorio.
Né in contrario riveste rilievo la circostanza che le
suddette lastre di vetro siano installate “a pacchetto” e,
dunque, apribili, considerandosi che la possibilità di
apertura attribuisce a tale sistema la stessa portata e
consistenza di una finestra o di un balcone, ma non modifica
la natura del manufatto che, una volta chiuso, è vera e
propria opera edilizia, come tale soggetta al rilascio del
previo titolo abilitativo.
Va, peraltro, considerato, in relazione al fatto che la
struttura di cui al citato punto 2) presenta comunque come
copertura una tenda retrattile in materiale plastico e,
dunque, potenzialmente (e parzialmente) i caratteri di
un’opera non soggetta a titolo edilizio (per la parte in cui
è mera struttura di sostegno di una tenda retrattile), che
il corretto esercizio del potere sanzionatorio avrebbe
imposto, nella sua funzione di ripristino della legalità
violata e nel rispetto del principio del mezzo più mite, una
reazione proporzionata all’entità dell’abuso e, dunque,
necessaria e sufficiente a riportare il realizzato
nell’ambito della conformità alla normativa urbanistica
(ossia senza demolire ciò che legittimamente può
realizzarsi, posto che utile per inutile non vitiatur).
L’ordine di demolizione avrebbe, di conseguenza, dovuto
limitarsi alla sola rimozione delle strutture laterali in
vetro in uno ai binari (inferiore e superiore) di
scorrimento delle stesse, ma non anche dell’intera
struttura.
Invero,
per effetto di tali rimozioni il manufatto, limitato
al solo sostegno di tende in plastica retrattili, viene
ricondotto a opera lecita e non abusiva, in quanto non
richiedente, per tutte le considerazioni in precedenza rese,
il preventivo titolo abilitativo.
Da quanto sopra discende che, per quanto riguarda il
manufatto descritto come sub 2), l’illegittimità dei
provvedimenti impugnati in primo grado deve essere esclusa
limitatamente alla rimozione degli elementi di chiusura
laterali in vetro in uno ai binari (inferiore e superiore)
di scorrimento degli stessi.
Queste costituiscono, pertanto, le componenti dell’opera che
dovranno essere rimosse in esecuzione della presente
pronunzia.
Conclusivamente, ritiene la Sezione che l’appello sia
fondato in parte e debba essere accolto nei sensi e nei
limiti sopra precisati; che, per l’effetto, la sentenza del
Tribunale debba essere riformata parzialmente e che dunque,
in parziale accoglimento del ricorso di primo grado, i
provvedimenti impugnati debbano essere integralmente
annullati, relativamente alla struttura di cui sub n. 1 (in
quanto unicamente destinata al sostegno d’un elemento di
arredo consistente in una tenda retrattile); mentre, quanto
alla struttura di cui sub n. 2, vanno annullati solo in
parte, ossia restando eccettuata dalla caducazione la
relativa parte in cui si dispone, per tale secondo
manufatto, la rimozione delle tamponature laterali in vetro
e dei binari (inferiore e superiore) di scorrimento di esse.
Limitatamente a tali componenti dell’opera, invero,
l’appello deve essere respinto e la sentenza di rigetto di
primo grado confermata, unitamente (in parte qua)
all’ordine demolitorio impugnato in prime cure
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 27.04.2016 n. 1619 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La penale responsabilità in ordine ai reati di
cui agli artt. 44, comma 1, lettera b), del dPR n. 380 del
2001, 64, 65, 71 e 72 del medesimo dPR ed ancora 93, 93 e 95
sempre del dPR n. 380 del 2001 concernono esclusivamente la
disciplina penale di manufatti la cui tenuta statica sia
assicurata tramite l'uso e l'applicazione di opere in
cemento armato ovvero di elementi strutturali in acciaio o
in altri metalli con funzione portante.
Esse appaiono, pertanto, eterogenee rispetto alla
realizzazione di un manufatto (abusivo) -struttura portante
realizzata con travi e pilastri di legno e pareti
perimetrali costruite in muratura- che non ha comportato la
utilizzazione né di cemento armato né di altri elementi
strutturali in metallo.
Detto altrimenti, non è configurabile la violazione della
disciplina delle opere in conglomerato cementizio armato in
caso di struttura portante realizzata con travi e pilastri
di legno e pareti perimetrali costruite in muratura, ove la
stessa non comporti la utilizzazione né di cemento armato né
di altri elementi strutturali in metallo.
---------------
La Corte di appello di Caltanissetta, con sentenza del
27.05.2014, ha confermato la decisione con la quale il
Tribunale di Gela aveva dichiarato la penale responsabilità
di Pe.Sa. in ordine ai reati di cui agli artt. 44, comma 1,
lettera b), del dPR n. 380 del 2001, 64, 65, 71 e 72 del
medesimo dPR ed ancora 93, 93 e 95 sempre del dPR n. 380 del
2001, per avere egli realizzato, in assenza della prescritta
concessione edilizia, su di un preesistente manufatto, una
sopraelevazione della superficie di circa 30 mq con pilastri
e travi in legno e con pareti perimetrali in muratura, per
avere eseguito la predetta opera in assenza di un progetto
esecutivo redatto da un tecnico abilitato, senza la
direzione tecnica di un professionista abilitato e senza
avere presentato la preventiva denunzia agli uffici
competenti così violando, altresì, la normativa applicabile
per le costruzioni in zona sismica; con la ricordata
sentenza della Corte territoriale era stata confermata anche
la condanna del Pellegrino alla pena di giustizia.
...
Va, viceversa, annullata la sentenza impugnata relativamente
alla affermazione della penale responsabilità del Pellegrino
in ordine ai reati a lui contestati al capo 2) della rubrica
elevata nei suoi confronti.
Siffatta contestazione, invero, concerne la realizzazione da
parte del prevenuto delle opere descritte sub 1) del capo di
imputazione, in violazione degli artt. 64, 65, 71 e 72 del
dPR n. 380 del 2001, in assenza di un progetto esecutivo
redatto da tecnico abilitato, senza che la direzione dei
relativi lavori sia stata assunta da tecnico a ciò abilitato
ed in assenza della preventiva denunzia delle realizzande
opere al Comune di Gela ovvero all'Ufficio provincia del
Genio civile.
Le disposizioni delle quali è stata contestata la
violazione, va ora considerato, concernono, tuttavia,
esclusivamente la disciplina penale di manufatti la cui
tenuta statica sia assicurata tramite l'uso e l'applicazione
di opere in cemento armato ovvero di elementi strutturali in
acciaio o in altri metalli con funzione portante (Corte di
cassazione, Sezione III penale, 17.04.2014, n. 17022).
Esse appaiono, pertanto, eterogenee rispetto alla
realizzazione da parte del Pe. di un manufatto che per
avere, come puntualmente precisato nella descrizione del
fatto contestato contenuta nel punto 1) del capo di
imputazione, una struttura portante realizzata con travi e
pilastri di legno e pareti perimetrali costruite in
muratura, non ha comportato la utilizzazione né di cemento
armato né di altri elementi strutturali in metallo.
La sentenza impugnata va, pertanto, annullata senza rinvio
limitatamente alla condanna concernente la contestazione di
cui al capo 2) della rubrica elevata a carico del Pe. perché
il fatto non sussiste e la relativa condanna, quantificata
dal giudice di prime cure, con la sentenza confermata dalla
Corte territoriale nissena, in 10 giorni di arresto ed euro
500.00 di ammenda, va conseguentemente eliminata
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
26.04.2016 n. 17085). |
EDILIZIA PRIVATA: Nel
calcolo del rispetto delle distanze, stabilite dagli
strumenti urbanistici, deve tenersi conto di qualsiasi
elemento sporgente e/o superficie aggettante dei fabbricati,
non assumendo alcuna rilevanza che gli sporti siano inadatti
all’incremento volumetrico o superficiario della costruzione
o che si trovino solo su una parte della facciata, eccetto
quelli esclusivamente ornamentali come i fregi e le
decorazioni.
---------------
Infatti, va disatteso il primo motivo di ricorso, atteso che
secondo un condivisibile orientamento giurisprudenziale
(cfr. per es. C.d.S. Sez. V n. 1267 del 13.03.2014; C.d.S.
Sez. IV n. 5557 del 22.11.2013; C.d.S. Sez. IV n. 4968 del
02.09.2011; TAR Lecce Sez. III n. 1624 del 28.09.2012), nel
calcolo del rispetto delle distanze, stabilite dagli
strumenti urbanistici, deve tenersi conto di qualsiasi
elemento sporgente e/o superficie aggettante dei fabbricati,
non assumendo alcuna rilevanza che gli sporti siano inadatti
all’incremento volumetrico o superficiario della costruzione
o che si trovino solo su una parte della facciata, eccetto
quelli esclusivamente ornamentali come i fregi e le
decorazioni
(TAR Basilicata,
sentenza 23.04.2016 n. 421 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: In
tema di danni determinati dall’esistenza di un cantiere
stradale, qualora l’area di cantiere risulti completamente
enucleata, delimitata ed affidata all’esclusiva custodia
dell’appaltatore, con conseguente assoluto divieto su di
essa del traffico veicolare e pedonale, dei danni subiti
all’interno di questa area risponde esclusivamente
l’appaltatore, che ne è l’unico custode.
Allorquando, invece, l’area su cui vengono eseguiti i lavori
e insiste il cantiere risulti ancora adibita al traffico e,
quindi, utilizzata a fini di circolazione, questa situazione
denota la conservazione della custodia da parte dell’ente
titolare della strada, sia pure insieme all’appaltatore.
----------------
6.2. Il richiamo nella sentenza ad eventuali profili di
responsabilità in materia antinfortunistica risulta,
peraltro, ultroneo, e correlativamente non dirimenti
eventuali carenze motivazionali sul punto, non essendo
contestata alcuna colpa specifica per violazione di norme
antinfortunistiche ed essendo l'evento da ascrivere,
piuttosto, al rischio connesso alla circolazione stradale.
Il rispetto delle norme cautelari che
regolano la sicurezza stradale non è,
infatti, esigibile esclusivamente dagli
utenti della strada alla guida di veicoli, dunque in fase di
circolazione, ma anche da coloro che svolgano attività
diverse, come la manutenzione stradale
(Sez. 4, n. 23152 del 03/05/2012, Porcu, Rv. 252971),
come si evince da quanto espressamente previsto
dall'art. 21, comma 2, d.lgs. 30.04.1992, n. 285
(<Chiunque esegue lavori o deposita materiali sulle aree
destinate alla circolazione o alla sosta di veicoli e di
pedoni deve adottare gli accorgimenti necessari per la
sicurezza e la fluidita' della circolazione e mantenerli in
perfetta efficienza sia di giorno che di notte>)
e dagli artt. 30-32 d.P.R. 16.12.1992, n. 495 a
proposito delle barriere che delimitano i cantieri sulla
strada.
7. Il tema centrale della questione impone peraltro di
chiarire che, allorché un incidente si
verifichi in un cantiere stradale, si pone il problema di
approfondire i rapporti e i limiti della responsabilità
dell'Ente proprietario della strada (committente) e
dell'appaltatore, sia in relazione agli obblighi che il
codice della strada pone a loro carico, rispettivamente
all'art. 14 per l'ente proprietario e all'art. 21 per chi
esegue i lavori, sia in relazione al contratto tra gli
stessi intervenuti e ad eventuali pattuizioni particolari
convenute dalle parti.
Non vi è, infatti, incompatibilità tra area di cantiere e
strada aperta al pubblico, atteso che vale al riguardo il
principio ben articolato dalla giurisprudenza civile
(Sez. 3, n. 15882 del 25/06/2013, Rv. 626858; Sez. 3, n.
12811 del 23/07/2012, Rv. 623374), secondo
cui in tema di danni determinati dall'esistenza di un
cantiere stradale, qualora l'area di cantiere risulti
completamente enucleata, delimitata ed affidata
all'esclusiva custodia dell'appaltatore, con conseguente
assoluto divieto su di essa del traffico veicolare e
pedonale, dei danni subiti all'interno di questa area
risponde esclusivamente l'appaltatore, che ne è l'unico
custode.
Allorquando, invece, l'area su cui vengono
eseguiti i lavori e insiste il cantiere risulti ancora
adibita al traffico e, quindi, utilizzata a fini di
circolazione, questa situazione denota la conservazione
della custodia da parte dell'ente titolare della strada, sia
pure insieme all'appaltatore.
7.1. La posizione di garanzia derivante
dalla proprietà della strada e dalla destinazione di essa al
pubblico uso comporta,
infatti, il dovere per l'Ente di far sì che
quell'uso si svolga senza pericolo per gli utenti.
Posizione di garanzia, dunque, a tutela
della collettività, direttamente derivante dalle norme del
codice della strada (art. 14), così come quella, parallela,
a carico dell'appaltatore, anch'essa riconducibile, come già
si è rilevato, al codice della strada (art. 21) e pertanto a
tutela proprio dell'incolumità dei terzi utenti della strada
che possano subire le conseguenze di una situazione di
pericolo non debitamente gestita
(Sez. 4, n. 11453 del 20/12/2012, dep. 2013, Zambito
Marsala, Rv. 255423).
Giova ricordare anche il principio affermato in altra
pronuncia da questa Sezione, secondo il quale
il pubblico amministratore committente non perde, in
conseguenza dell'appalto dei lavori di manutenzione e
sorveglianza delle strade, l'obbligo di vigilanza la cui
omissione è fonte di responsabilità qualora concorrano le
circostanze della conoscenza del pericolo, dell'evitabilità
dell'evento lesivo occorso a terzi e dell'omissione
dell'intervento diretto all'eliminazione del rischi
(Sez. 4, n. 37589 del 05/06/2007, Petroselli, Rv. 237772) (Corte
di Cassazione, Sez. IV penale,
sentenza 22.04.2016 n. 17010). |
TRIBUTI: Tributi, sulle delibere fuori tempo Tar che vai sentenza che
trovi. Il caso.
Nel mese di aprile si registrano due opposte decisioni sullo
stesso argomento da parte di due Tar diversi. Tar che vai
decisione che trovi.
Stesso ricorrente, stessa materia, stesse norme di
riferimento, ma incredibilmente diverse le decisioni a cui
sono giunti il TAR Calabria-Reggio Calabria con la
sentenza
08.04.2016 n. 392 e il
TAR Friuli Venezia Giulia, con la
sentenza
22.04.2016 n. 148.
Stesso ricorrente: il ministero dell'economia e delle
finanze che ha impugnato «i regolamenti sulle entrate
tributarie per vizi di legittimità».
Stessa materia: l'approvazione delle deliberazioni comunali
in materia di tributi locali adottate dopo il termine per
l'approvazione del bilancio di previsione. Per il comune
calabrese si trattava della delibera Tari, per quello
friulano della delibera Iuc, Tari e Tasi.
Stesse norme di riferimento: l'art. 1, comma 169, della
legge 27.12.2006 n. 296, il quale stabilisce che gli
enti locali deliberano le tariffe e le aliquote relative ai
tributi di loro competenza entro la data fissata da norme
statali per la deliberazione del bilancio di previsione. E
che, in caso di mancata approvazione entro il suddetto
termine, le tariffe e le aliquote si intendono prorogate di
anno in anno.
Purtroppo da anni gli enti locali rimangono «incagliati»
nelle spire di queste disposizioni e una nutrita
giurisprudenza si è ormai consolidata in materia, che ha
enucleato una serie di principi divenuti ormai saldi, primo
fra tutti la natura perentoria del termine, che, peraltro,
«è desumibile dal dato testuale della disposizione» stessa
come ha precisato il Consiglio di stato nelle sentenze n.
3808 del 17.07.2014, n. 4409 del 28.08.2014 e n.
1495 del 19.03.2015.
Anche la sentenza del Tar per la Calabria n. 392 del 2016
non si discosta da detta impostazione e anzi evidenzia che
la norma in esame «contiene, peraltro, previsioni
sanzionatorie, come l'inapplicabilità delle nuove tariffe e
aliquote, ove approvate dopo il termine» di approvazione del
bilancio di previsione. Da ciò i giudici calabresi arrivano
ad annullare la delibera comunale approvata fuori termine.
Il Tar per il Friuli Venezia Giulia, invece, non ha neanche
affrontato il merito del ricorso, ma lo ha dichiarato
inammissibile, sostenendo, in maniera assolutamente
singolare, che «non si vede quale utilità potrebbe ottenere
il ministero ricorrente dall'annullamento delle citate
delibere, se non un mero ripristino della legalità», come se
il ripristino della legalità non fosse un principio
oggettivamente degno di tutela.
In altri termini, secondo i
giudici friulani, non è sufficiente la denuncia della
«difformità dalla legge» delle delibere impugnate, per
quanto concerne la tempistica della loro approvazione, ma
viene richiesto al Mef di dimostrare un vero e proprio
interesse ad agire, come avviene per qualsiasi soggetto che
voglia agire in giudizio.
I giudici omettono, però, di
considerare quanto stabilito dal Consiglio di stato che
nella sentenza 3817 del 17.07.2014 ha messo in chiaro
che «tale legittimazione prescinde dall'esistenza di una
lesione di una situazione giuridica tutelabile in capo allo
stesso dicastero, configurandosi come una legittimazione ex lege, esclusivamente in funzione e a tutela degli interessi
pubblici la cui cura è affidata al ministero dalla stessa
legge (cfr. Cons. stato, sez. 3, parere del 14.07.1998)».
Ci sono quindi buoni motivi per ipotizzare che la pronuncia
del Tar Friuli resti come un'unica voce fuori dal coro.
È, infine, proprio un passo della sentenza del Tar per la
Calabria che ci offre un'esplicitazione dell'interesse a
ricorrere del Mef, laddove si afferma che l'esigenza di
tutela delle situazioni giuridiche soggettive dei cittadini
impone di circoscrivere il potere di determinazione delle
tariffe e delle aliquote da parte del comune entro un
margine di tempo ben definito, costituito dalla data di
approvazione del bilancio di previsione, che costituisce un
limite invalicabile alla discrezionalità
dell'amministrazione
(articolo ItaliaOggi del 29.04.2016). |
APPALTI: Gara, revocare si può.
Se per la p.a c'è risparmio economico.
Legittima la revoca di una gara di appalto pubblico se da
essa deriva un risparmio economico, se si evita una carenza
di copertura finanziaria e se vi potrebbe essere una mancata
corrispondenza della procedura alle esigenze dell'interesse
pubblico.
È quanto ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza 21.04.2016 n. 1599 rispetto a una revoca
deliberata da una giunta comunale il 21.06.2014, circa
un anno dopo la deliberazione con cui si era deciso di
avviare la proposta per l'affidamento in finanza di progetto
del servizio di gestione della pubblica illuminazione su
tutto il territorio comunale e circa quattro mesi dopo aver
indetto una gara a procedura aperta per la scelta
dell'affidatario in concessione.
La procedura era stata avviata prima delle elezioni della
nuova amministrazione comunale svoltesi il 25 maggio e l'08.06.2014. La nuova amministrazione, appena insediatasi,
aveva verificato che la procedura avviata avrebbe
determinato un impegno di risorse finanziarie pari a circa
mezzo milione per ogni anno (a tanto valeva il canone annuo
da corrispondere per 18 anni).
Palese quindi l'effetto di
irrigidire per lungo tempo il bilancio comunale, impedendo
margini di manovra per gli esercizi futuri.
L'amministrazione ha inoltre rilevato che la continua rapida
evoluzione delle tecnologie per la produzione e la
distribuzione di energia elettrica, in 18 anni avrebbero
potuto determinare consistenti risparmi di bilancio.
Tali motivazioni sono state ritenute legittime dal consiglio
di stato che le ha giudicate ragionevoli, non illogiche, né
irrazionali e soprattutto fondate su non implausibili
elementi di fatto, così che la scelta, rientrante nella
discrezionalità propria di cui è titolare esclusiva la
pubblica amministrazione, non può considerarsi illegittima.
I giudici hanno ricordato che la giurisprudenza ha giudicato
legittima la revoca dell'aggiudicazione provvisoria di una
gara di appalto motivata con riferimento al risparmio
economico che deriverebbe dalla revoca stessa ovvero per
carenza di copertura finanziaria e sopravvenuta mancata
corrispondenza della procedura alle esigenze dell'interesse
pubblico
(articolo ItaliaOggi del 29.04.2016).
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MASSIMA
III. L’appello è infondato e deve essere respinto.
In punto di fatto deve sottolinearsi che la revoca è stata
deliberata dalla giunta comunale di San Bonifacio con atto
n. 1 del 21.06.2014, circa un anno dopo la deliberazione con
cui si era deciso di avviare la proposta per l’affidamento
in finanza di progetto del servizio di gestione della
pubblica illuminazione su tutto il territorio comunale e
circa quattro mesi dopo aver indetto una gara a procedura
aperta per la scelta dell’affidatario in concessione, il
tutto prima quindi delle elezioni della nuova
amministrazione comunale svoltesi il 25 maggio e
l’08.06.2014.
Proprio la nuova amministrazione, appena insediatasi, ha
riscontrato l’impegno di risorse finanziarie derivante dalla
procedura in parola, quantificabile in canone annuo pari a
€. 500.000,00 eventualmente ribassati per un periodo di
diciotto anni, limitabili a quindici, tale da irrigidire per
lungo tempo il bilancio comunale ed impedendo margini di
manovra per gli esercizi futuri: ciò ha indotto la predetta
nuova valutazione ad una rigorosa valutazione di tutti i
flussi di entrata e di spesa, alla luce delle contrazioni di
risorse pubbliche per effetto della normativa statale più
recente, da ultimo dalla L. 27.12.2013 n. 147 e dal decreto
legge di 04.04.2014, n. 66, convertito nella L. 23.06.2014
n. 89.
Non può sottacersi che l’evidenziazione
della enorme spesa rispetto al calo dei finanziamenti è
stata accostata dall’amministrazione nella stessa
deliberazione di revoca anche alla continua rapida
evoluzione delle tecnologie per la produzione e la
distribuzione di energia elettrica, le quali nello spazio di
18 anni avrebbero potuto determinare consistenti risparmi di
bilancio.
Tali motivazioni risultano ragionevoli, non
illogiche, né irrazionali e soprattutto fondate su non
implausibili elementi di fatto, così che la scelta di
revocare la gara, che rientra nella discrezionalità propria
di cui è titolare esclusiva la pubblica amministrazione, non
può considerarsi illegittima.
In tal senso è sufficiente rammentare che,
secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, è
legittima la revoca dell’aggiudicazione provvisoria di una
gara di appalto motivata con riferimento al risparmio
economico che deriverebbe dalla revoca stessa ovvero per
carenza di copertura finanziaria e sopravvenuta mancata
corrispondenza della procedura alle esigenze dell’interesse
pubblico (tra le
tante, Cons. Stato, sez. III, 29.07.2015, n. 3748;
26.09.2013, n. 4809; 06.05.2013, n. 2418).
Alla legittimità della revoca consegue l’infondatezza della
domanda di risarcimento del danno.
Deve essere a questo punto esaminata la fondatezza della
domanda di risarcimento del danno da responsabilità
precontrattuale, che è astrattamente ammissibile anche in
presenza della legittimità della revoca
(Cons. Stato, sez. VI, 01.02.2013, n. 633).
A tal fine deve venire in considerazione un
comportamento contrario ai canoni di buona fede e
correttezza dell’amministrazione che, accortasi delle
ragioni che consigliavano di procedere alla revoca della
gara, non ha invece provveduto a tanto, ingenerando nella
parte un ragionevole affidamento nella conclusione della
gara e nella possibilità di aggiudicarsi l’appalto stesso.
Sennonché nel caso di specie tale situazione non è
ravvisabile, giacché la revoca della gara è intervenuta
prima della scadenza del termine per la presentazione della
domanda di partecipazione alla gara, senza quindi che nessun
affidamento si sia potuto ragionevolmente ingenerare nei
concorrenti, quand’anche la comunicazione della revoca fosse
a questi ultimi pervenuta dopo la scadenza del termine per
la presentazione delle offerte e dopo la effettiva
presentazione di queste ultime.
Al riguardo può ancora richiamarsi la pacifica
giurisprudenza del Consiglio di Stato e delle Sezioni Unite
della Corte di Cassazione, per la quale la
responsabilità precontrattuale della pubblica
amministrazione è connessa alla violazione delle regole di
condotta tipiche della formazione del contratto e quindi non
può che riguardare fatti svoltisi in tale fase; perciò la
responsabilità precontrattuale non è configurabile
anteriormente alla scelta del contraente, vale a dire della
sua individuazione, allorché gli aspiranti alla posizione di
contraenti sono solo partecipanti ad una gara e possono
vantare un interesse legittimo al corretto esercizio dei
poteri della pubblica amministrazione
(Cons. Stato, V, 21.08.2014 n. 4272), corretto esercizio di
cui non può dubitarsi nel vaso di specie, visti i tempi
seguiti dall’Amministrazione comunale per l’adozione della
revoca in questione e la plasubilità della motivazione.
E’ appena il caso di aggiungere che non essendosi prodotto
alcun effetto durevole vantaggioso in favore dell’appellante
in ragione dell’atto legittimamente revocato, non sussistono
neppure i presupposti per il riconoscimento dell’indennizzo
ex art. 21-quinqquies della l. n. 241 del 1990.
IV, Per le suesposte considerazioni l’appello deve essere
dunque respinto. |
EDILIZIA PRIVATA: Il
carattere permanente degli abusi edilizi comporta che il
decorso del tempo non spieghi alcuna efficacia sanante nei
confronti degli abusi stessi, con la conseguenza che in tali
circostanze non può formarsi alcuna fattispecie di legittimo
affidamento in capo al soggetto che ha realizzato le opere
abusive.
Da quanto precede deriva, quindi, che -non potendosi formare
in capo al ricorrente alcun legittimo affidamento sulla
sanabilità delle opere de quibus- il decorso di un lungo
lasso di tempo per l'adozione dei contestati provvedimenti
non risulta una circostanza adeguata al fine di inficiare la
loro legittimità, con la conseguenza che la censura in esame
risulta priva di pregio.
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10. Con l'ottavo motivo di gravame il ricorrente ha dedotto
l'illegittimità del provvedimento impugnato per violazione e
falsa applicazione dell'art. 3 della legge n. 241 del 1990,
sotto altro profilo, nonché violazione del principio
dell'affidamento del privato cittadino.
Secondo il ricorrente, infatti, il provvedimento de quo
sarebbe stato adottato dal Comune a distanza di oltre sei
anni dalla presentazione dell'istanza dell’08.06.2007, prot.
n. 10058, concernente il permesso di costruire in sanatoria:
operando in tal modo, quindi, l'Amministrazione comunale
avrebbe violato l'affidamento che si sarebbe ingenerato nel
ricorrente in ragione del decorso di un lungo lasso di tempo
dalla presentazione della succitata istanza.
Anche detta censura non può essere condivisa.
Rileva, infatti, la Sezione che, in base alla consolidata
giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, “il
carattere permanente degli abusi edilizi comporta che il
decorso del tempo non spieghi alcuna efficacia sanante nei
confronti degli abusi stessi...” (Cons. di Stato, Sez.
VI, 18.09.2013, n. 4651), con la conseguenza che in tali
circostanze non può formarsi alcuna fattispecie di legittimo
affidamento in capo al soggetto che ha realizzato le opere
abusive (Cons. di Stato, Sez. VI, 20.06.2013, n. 3667): da
quanto precede deriva, quindi, che -non potendosi formare in
capo al ricorrente alcun legittimo affidamento sulla
sanabilità delle opere de quibus- il decorso di un
lungo lasso di tempo per l'adozione dei contestati
provvedimenti non risulta una circostanza adeguata al fine
di inficiare la loro legittimità, con la conseguenza che la
censura in esame risulta priva di pregio
(Consiglio di Stato, Sez. II,
parere 21.04.2016 n. 962 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Abuso edilizio - Criteri per l'identificazione del
committente dei lavori - Assenza di titoli formali -
Disponibilità del bene.
In tema di violazioni edilizie costituenti reato,
il committente deve identificarsi in colui che ha la
materiale disponibilità del bene oggetto dell’intervento
abusivo, anche senza esserne il proprietario o senza avere
con lo stesso un rapporto giuridicamente qualificato.
In altri termini, la paternità, esclusiva o in concorso con
altri, dell’opera ben può essere attribuita anche a colui
che, pur in assenza di titoli formali astrattamente
legittimanti un potere decisionale, abbia, anche solo di
fatto, la disponibilità del bene.
Sicché, se con riguardo alla posizione di chi ricopra una
veste già di per sé implicante la disponibilità formale del
bene, la presunzione logica in tal modo derivante circa l’attribuibilità
al medesimo dei lavori comporta, in capo all’accusa, un
onere probatorio di minore portata perché in qualche modo
coincidente con tale dato formale, con riguardo invece a chi
tale qualifica formale non abbia, è necessario che sia
fornita la prova degli elementi fattuali univocamente
indicativi, in contrasto con l’apparente formale estraneità
del soggetto, della disponibilità di fatto del bene
coinvolto.
Ed infatti, sia pure con riferimento alla situazione del
coniuge mero comproprietario e non committente, si è
affermato che la responsabilità per l’abuso edilizio può
essere desunta da elementi oggettivi di natura indiziaria
della compartecipazione, anche morale, alla realizzazione
del manufatto, desumibili dalla presentazione della domanda
di condono edilizio, dalla piena disponibilità giuridica e
di fatto del suolo, dall’interesse specifico ad edificare la
nuova costruzione, dai rapporti di parentela o affinità tra
terzo e proprietario, dalla presenza di quest’ultimo “in
loco” e dallo svolgimento di attività di vigilanza
nell’esecuzione dei lavori o dal regime patrimoniale dei
coniugi.
---------------
Questa Corte ha in più occasioni affermato che in tema di
violazioni edilizie costituenti reato, il committente
deve identificarsi in colui che ha la materiale
disponibilità del bene oggetto dell'intervento abusivo,
anche senza esserne il proprietario o senza avere con lo
stesso un rapporto giuridicamente qualificato (Sez. 3, n.
43608 del 15/09/2015, Rosati, Rv. 265159); in altri termini,
la paternità, esclusiva o in concorso con altri, dell'opera
ben può essere attribuita anche a colui che, pur in assenza
di titoli formali astrattamente legittimanti un potere
decisionale, abbia, anche solo di fatto, la disponibilità
del bene.
Sicché, se con riguardo alla posizione di chi ricopra una
veste già di per sé implicante la disponibilità formale del
bene, la presunzione logica in tal modo derivante circa l'attribuibilità
al medesimo dei lavori comporta, in capo all'accusa, un
onere probatorio di minore portata perché in qualche modo
coincidente con tale dato formale, con riguardo invece a chi
tale qualifica formale non abbia, è necessario che sia
fornita la prova degli elementi fattuali univocamente
indicativi, in contrasto con l'apparente formale estraneità
del soggetto, della disponibilità di fatto del bene
coinvolto (nella fattispecie, del fondo sul quale i
manufatti sono stati edificati).
Ed infatti, sia pure con riferimento alla situazione del
coniuge mero comproprietario e non committente, si è
affermato che la responsabilità per l'abuso edilizio può
essere desunta da elementi oggettivi di natura indiziaria
della compartecipazione, anche morale, alla realizzazione
del manufatto, desumibili dalla presentazione della domanda
di condono edilizio, dalla piena disponibilità giuridica e
di fatto del suolo, dall'interesse specifico ad edificare la
nuova costruzione, dai rapporti di parentela o affinità tra
terzo e proprietario, dalla presenza di quest'ultimo "in
loco" e dallo svolgimento di attività di vigilanza
nell'esecuzione dei lavori o dal regime patrimoniale dei
coniugi (tra le altre, Sez. 3, n. 52040 del 11/11/2014,
Langella e altro, Rv. 261522) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 20.04.2016 n. 16163). |
ENTI LOCALI - VARI: Divieto
di sosta. Anche senza l'ordinanza multa valida.
La mancata indicazione sul retro del segnale di divieto di
sosta del numero dell'ordinanza comunale non invalida la
multa accertata dai vigili urbani.
Lo ha evidenziato la
Corte di Cassazione, Sez. II, civ., con la
sentenza
19.04.2016 n. 7709.
Un automobilista si è rivolto prima al prefetto poi al
tribunale e infine in Cassazione evidenziando la mancata
apposizione sul retro del segnale indicante divieto di sosta
del numero dell'ordinanza. Ma sempre senza successo. A
parere dei giudici di Piazza Cavour, infatti, l'eventuale
omissione sul retro dei segnali stradali delle indicazioni
previste dalla normativa configura una mera irregolarità.
In particolare l'omessa indicazione degli estremi
dell'ordinanza comunale sul retro del cartello non determina
l'illegittimità del segnale e non esime l'automobilista dal
rispetto delle indicazioni fornite
(articolo ItaliaOggi del 26.04.2016). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
L'obbligo di diligenza, ai sensi del combinato
disposto di cui agli artt. 1176, secondo comma, e 2236 cod.
civ., impone all'avvocato di assolvere -sia all'atto del
conferimento del mandato, sia nel corso dello svolgimento
del rapporto- anche ai doveri di sollecitazione, dissuasione
ed informazione del cliente, essendo il professionista
tenuto a rappresentare a quest'ultimo tutte le questioni di
fatto e di diritto, comunque insorgenti, ostative al
raggiungimento del risultato, o comunque produttive del
rischio di effetti dannosi; di richiedergli gli elementi
necessari o utili in suo possesso; di sconsigliarlo
dall'intraprendere o proseguire un giudizio dall'esito
probabilmente sfavorevole.
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1. - Il ricorso è infondato.
1.1. - Con il primo motivo è dedotta violazione degli artt.
1176, 1218, 1375, 2229 e 2236 cod. civ., in relazione
all'art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per avere
la Corte d'appello ritenuto che -a fronte di uno specifico
dovere informazione nei confronti del proprio cliente in
ordine all'opportunità di chiamare in causa il terzo- non
era fonte di responsabilità professionale il comportamento
omissivo dell'avvocato, che non aveva sollecitato il cliente
dopo che questi aveva rifiutato l'ipotesi di effettuare la
chiamata in causa del terzo.
1.2. - La doglianza è infondata.
1.2.1. - La Corte d'appello ha osservato che dalle prove
raccolte (prova testimoniale diretta, testi Ro. e Ve.)
emergeva con certezza che l'amministratore della Sh.Te. era
stato informato dall'avvocato Pa., codifensore insieme
all'avvocato Mi., dell'opportunità di chiamare in causa
-oltre all'istituto incaricato della sorveglianza del
capannone nel quale era stato perpetrato il furto- anche la
società che aveva installato l'impianto di allarme, ed
inoltre che, all'esito dell'informazione, la Sh.Te. aveva
scelto di non dare seguito alla predetta chiamata.
Tale valutazione di opportunità, secondo la Corte d'appello,
era rimessa al cliente e non era sindacabile dal difensore.
1.2.2. - La motivazione resa dalla Corte territoriale
risulta esente da censura.
Non può ritenersi che il difensore avesse il dovere di
insistere per ottenere il consenso della parte alla chiamata
in causa del terzo: la diligenza cui era
tenuto il difensore nell'esercizio del suo mandato era stata
assolta nel momento in cui il cliente era stato informato
sul punto (ex
plurimis, Cass., sez. 3^, sentenza n. 24544 del 2009).
Vero che, secondo la giurisprudenza di questa Corte,
l'obbligo di diligenza, ai sensi del combinato
disposto di cui agli artt. 1176, secondo comma, e 2236 cod.
civ., impone all'avvocato di assolvere -sia all'atto del
conferimento del mandato, sia nel corso dello svolgimento
del rapporto- anche ai doveri di sollecitazione, dissuasione
ed informazione del cliente, essendo il professionista
tenuto a rappresentare a quest'ultimo tutte le questioni di
fatto e di diritto, comunque insorgenti, ostative al
raggiungimento del risultato, o comunque produttive del
rischio di effetti dannosi; di richiedergli gli elementi
necessari o utili in suo possesso; di sconsigliarlo
dall'intraprendere o proseguire un giudizio dall'esito
probabilmente sfavorevole.
E' vero, di conseguenza, che incombe sul
professionista l'onere di fornire la prova della condotta
mantenuta, e che al riguardo non è sufficiente il rilascio
da parte del cliente delle procure necessarie all'esercizio
dello ius postulandi, trattandosi di elemento che non
è idoneo a dimostrare l'assolvimento del dovere di
informazione in ordine a tutte le circostanze indispensabili
per l'assunzione da parte del cliente di una decisione
pienamente consapevole sull'opportunità o meno di iniziare
un processo o intervenire in giudizio
(Cass., sez. 2^, sentenza n. 14597 del 2004).
Ciò detto, è altresì vero che l'attività di
persuasione del cliente al compimento o non di un atto,
ulteriore rispetto all'assolvimento dell'obbligo
informativo, è concretamente inesigibile, oltre che
contrastante con il principio secondo cui l'obbligazione
informativa dell'avvocato è un'obbligazione di mezzi e non
di risultato (ex
plurimis, Cass., sez. 3^, sentenza n. 10289 del 2015) (Corte
di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 19.04.2016 n. 7708). |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO:
Abuso edilizio e dolo.
Premesso che il dolo caratterizzante il
reato di abuso di ufficio è quello "intenzionale", va
rammentato che la prova dello stesso deve essere ricavata da
elementi ulteriori rispetto al comportamento "non iure"
osservato dall'agente, che evidenzino la effettiva "ratio"
ispiratrice del comportamento dell'agente, giacché la
condotta illecita deve essere posta in essere al preciso
scopo di perseguire, in via immediata, un danno ingiusto ad
altri o un vantaggio patrimoniale ingiusto per sé o per
altri.
---------------
2. Con un secondo motivo lamenta l'illogicità della
motivazione della sentenza con riferimento all'eccepita
mancanza del dolo intenzionale; segnatamente la sentenza non
ha fatto sul punto alcun riferimento a quanto sollevato con
l'atto di appello.
Aggiunge come da un lato la attività del tecnico comunale al
momento dell'approvazione del progetto sia meramente
cartolare e dall'altro la sentenza abbia trascurato di
considerare le conclusioni della sentenza del Tar che ha
ritenuto assente ogni violazione della normativa urbanistica
da parte dell'imputato. Non è stata raggiunta alcuna prova
circa le pretese scorrette modalità delle verifiche condotte
dall'imputato.
Anche l'affermazione dei benefici economici ricavati
dall'impresa edilizia destinataria del provvedimento sarebbe
erronea posto che anzi è stata applicata la sanzione
prevista dall'art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001.
...
5. E' invece fondato il secondo motivo:
premesso che il dolo caratterizzante il reato di abuso di
ufficio è quello "intenzionale", va rammentato che la
prova dello stesso deve essere ricavata da elementi
ulteriori rispetto al comportamento "non iure"
osservato dall'agente, che evidenzino la effettiva "ratio"
ispiratrice del comportamento dell'agente
(Sez. 2, n. 23019 del 05/05/2015, Adamo, Rv. 264280),
giacché la condotta illecita deve essere posta in
essere al preciso scopo di perseguire, in via immediata, un
danno ingiusto ad altri o un vantaggio patrimoniale ingiusto
per sé o per altri
(Sez. 3, n. 10810 del 17/01/2014, Altieri ed altri, Rv.
258893).
La sentenza si è sul punto limitata a richiamare la "tutt'altro
che trascurabile entità delle violazioni commesse" e "i
rilevanti benefici economici procurati all'impresa edilizia",
tra i quali quelli relativi agli oneri di urbanizzazione,
senza chiarire perché tali aspetti, lungi dall'essere
compatibili con un dolo anche solo generico, dovrebbero
essere univocamente indicativi dello scopo di favorire
l'impresa costruttrice, sui cui eventuali legami o rapporti
con l'imputato nulla è dato sapere.
La sentenza andrebbe dunque annullata con rinvio per nuova
motivazione sul punto; sennonché la prescrizione del reato,
nelle more intervenuta per decorso del termine scaduto in
data 13/09/2014 (anche a volere, come contestato dal
ricorrente, considerare la data di consumazione del
13/03/2007 indicata in imputazione) osta all'annullamento
posto che il conseguente rinvio all'esame del giudice di
merito è incompatibile con l'obbligo di immediata
declaratoria di proscioglimento stabilito dall'art. 129
c.p.p. (da ultimo, Sez. 3, n. 23260 del 29/04/2015, Gori, Rv.
263668); sicché la sentenza impugnata deve essere, da un
lato, annullata senza rinvio per essere il reato (unico
residuato già all'esito del giudizio di primo grado) estinto
appunto per prescrizione e, dall'altro, quanto alle
statuizioni civili adottate (nella specie la condanna
dell'imputato, confermata in appello, al risarcimento dei
danni in favore della costituita parte civile), annullata
con rinvio ai fini civili al giudice civile competente per
valore in grado d'appello (da ultimo, Sez. 5, n. 594 del
16/11/2011, Perrone, Rv. 252665; Sez. 5, n. 15015 del
23/02/2012, P.G. e p.c. in proc. Genovese, Rv. 252487)
(tratto da www.lexambiente.it -
Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 18.04.2016 n. 15895). |
EDILIZIA PRIVATA:
Rapporti tra autorizzazione paesaggistica e permesso di
costruire.
L'autorizzazione paesistica, essendo
finalizzata alla salvaguardia del paesaggio quale bene
costituzionalmente protetto tanto sotto l'aspetto estetico e
culturale quanto sotto il profilo di risorsa economica, è un
provvedimento distinto ed autonomo rispetto ai provvedimenti
autorizzatori in materia urbanistica, i quali sono invece
volti ad assicurare la corretta gestione del territorio,
sotto il profilo dell'uso e della trasformazione programmata
di esso in una visione unitaria e complessiva, con la
conseguenza che, stante la reciproca autonomia dei due
provvedimenti ad ogni effetto, ivi compreso quello
sanzionatorio, il reato paesaggistico è integrato tutte le
volte in cui manchi la relativa autorizzazione dell'autorità
preposta alla tutela dell'interesse paesaggistico, a nulla
rilevando che la stessa autorità, se preposta anche alla
tutela degli interessi urbanistici, abbia compiuto, in
ragione della pluralità degli interessi presidiati dalle
rispettive norme, una autonoma valutazione in quest'ultimo
senso e non anche, come necessario, anche ai fini
paesaggistici.
----------------
3. Anche il secondo motivo è manifestamente infondato,
essendo risultato incontroverso che il ricorrente realizzò
il fabbricato senza aver ottenuto alcun titolo abilitativo.
In particolare, per quanto concerne il reato paesaggistico,
la costruzione fu realizzata senza che fosse stata mai
rilasciata la necessaria autorizzazione da parte del
competente ufficio della Regione sarda, cosicché è stato
correttamente ritenuto del tutto irrilevante il fatto che
l'imputato avesse confidato nella definizione delle
procedure concernenti l'approvazione del piano di
lottizzazione, cui era subordinato il rilascio del permesso
a costruire e dunque la legittima edificazione dei singoli
edifici, posto che le disposizioni in materia urbanistica e
paesaggistica prevedono tassativamente che le opere edilizie
possano essere realizzate soltanto dopo il rilascio dei
preventivi provvedimenti abilitativi da parte delle
amministrazioni competenti, laddove invece il ricorrente ha
comunque dato corso alle opere in assenza della prescritta
autorizzazione paesistica.
Sono pertanto del tutto irrilevanti le obiezioni formulate
dal ricorrente, anche sotto il profilo del difetto di
motivazione, avendo la Corte d'appello fatto buon governo
del principio affermato dalla giurisprudenza di legittimità
secondo il quale l'autorizzazione paesistica, essendo
finalizzata alla salvaguardia del paesaggio quale bene
costituzionalmente protetto tanto sotto l'aspetto estetico e
culturale quanto sotto il profilo di risorsa economica, è un
provvedimento distinto ed autonomo rispetto ai provvedimenti
autorizzatori in materia urbanistica, i quali sono invece
volti ad assicurare la corretta gestione del territorio,
sotto il profilo dell'uso e della trasformazione programmata
di esso in una visione unitaria e complessiva, con la
conseguenza che, stante la reciproca autonomia dei due
provvedimenti ad ogni effetto, ivi compreso quello
sanzionatorio, il reato paesaggistico è integrato tutte le
volte in cui manchi, come nella specie, la relativa
autorizzazione dell'autorità preposta alla tutela
dell'interesse paesaggistico, a nulla rilevando che la
stessa autorità, se preposta anche alla tutela degli
interessi urbanistici, abbia compiuto, in ragione della
pluralità degli interessi presidiati dalle rispettive norme,
una autonoma valutazione in quest'ultimo senso e non anche,
come necessario, anche ai fini paesaggistici (Sez. 3, n.
23230 del 22/04/2004, Verdelocco, Rv. 229437).
Deriva da ciò anche la legittimità dei provvedimenti
sanzionatori di tipo amministrativo di rimessione in
pristino dello stato dei luoghi disposti dal giudice penale
per la violazione della normativa paesaggistica (tratta da
www.lexambiente.it - Corte di Cassazione, sez. III penale,
sentenza 14.04.2016 n. 15466). |
URBANISTICA:
Lottizzazione e autorizzazione a lottizzare postuma.
L'eventuale autorizzazione a lottizzare,
concessa "in sanatoria", non estingue il reato di
lottizzazione abusiva, non essendo espressamente prevista
dalla legge come causa estintiva di tale reato.
Qualora essa intervenga il giudice non può, tuttavia,
disporre la confisca, perché l'autorità amministrativa
competente, riconoscendo ex post la conformità della
lottizzazione agli strumenti urbanistici generali vigenti
sul territorio, ha inteso evidentemente lasciare il terreno
lottizzato alla disponibilità dei proprietari, rinunciando
implicitamente ad acquisirlo al patrimonio indisponibile del
Comune.
Allo stesso modo la successiva approvazione di un piano di
recupero urbanistico non può configurare un'ipotesi di
sanatoria della lottizzazione.
---------------
1. Per quanto riguarda il primo motivo, mediante il quale è stata
denunciata
violazione di legge in relazione agli artt. 36, 44 e 45 d.P.R. 380/2001 e 2
l.
241/1990, per l'omessa sospensione del processo nonostante
l'approvazione da
parte del Comune di Genova di un aggiornamento del Piano
Urbanistico
Comunale e di una convenzione urbanistica con la società
proprietaria del
fabbricato, in attuazione della quale è in corso il rilascio
del titolo di
legittimazione delle opere che ne consentirebbe il
mantenimento (rilasciato
successivamente al deposito del ricorso e di cui è stato
dato atto con i motivi
aggiunti), giova ricordare che l'eventuale autorizzazione a
lottizzare, concessa
"in sanatoria", non estingue il reato di lottizzazione
abusiva, non essendo espressamente prevista dalla legge come
causa estintiva di tale reato (Sez. 3, n.
23154 del 18/05/2006, Scalici, Rv. 234476; conf. Sez. 3, n.
4373 del
13/12/2013, Franco, Rv. 258921; Sez. 3, n. 43591 del
18/02/2015, Di Stefano,
Rv. 265153).
Qualora essa intervenga (ma ciò è oggetto degli
ulteriori rilievi
formulati dai ricorrenti con il quarto motivo e con i motivi
aggiunti a proposito
della confisca) il giudice non può, tuttavia, disporre la
confisca, perché l'autorità
amministrativa competente, riconoscendo ex post la
conformità della
lottizzazione agli strumenti urbanistici generali vigenti
sul territorio, ha inteso
evidentemente lasciare il terreno lottizzato alla
disponibilità dei proprietari,
rinunciando implicitamente ad acquisirlo al patrimonio
indisponibile del Comune.
Allo stesso modo -secondo la giurisprudenza di questa Corte-
la successiva
approvazione di un piano di recupero urbanistico non può
configurare un'ipotesi
di sanatoria della lottizzazione (vedi Cass., Sez. 3,
05.12.2001, Venuti).
Ne consegue, sotto il profilo della incidenza sulla
sussistenza della
lottizzazione abusiva, l'irrilevanza dell'aggiornamento del
Piano Urbanistico
Comunale e della stipula della convenzione urbanistica tra
il Comune e la
proprietaria dell'edificio, inidonei, per le ragioni
anzidette, anche nella ipotesi di
rilascio di valido e legittimo titolo di legittimazione
delle opere, ad estinguere il
reato di lottizzazione abusiva, con la conseguente
insussistenza di ragioni di
sorta per disporre la sospensione del processo in attesa del
rilascio di permesso
di costruire in sanatoria.
2. Soccorrono le medesime considerazioni in ordine al
secondo motivo di
ricorso, mediante il quale è stata denunciata violazione di
legge in relazione
all'art. 30 d.P.R. 380/2001, per l'omessa considerazione da
parte della Corte
d'appello del complesso iter amministrativo relativo alla
pianificazione urbanistica
dell'area nella quale si trova il fabbricato oggetto della
lottizzazione abusiva
contestata ai ricorrenti.
Costoro, infatti, in considerazione della innovazione dello
strumento
urbanistico direttivo nell'anno 2000, con la esclusione
della destinazione
direzionale dell'area nella quale si trova il fabbricato
oggetto dell'intervento
edilizio e la previsione quale destinazione caratterizzante
di tale area di quella
residenziale (con la conseguente richiesta da parte della
società proprietaria del
fabbricato di un nuovo titolo autorizzativo per conformarsi
a tale destinazione, in
ordine alla quale il Comune di Genova non si era determinato
nonostante il
decorso del termine di cui all'art. 2 l. 241/1990), hanno
prospettato l'insussistenza
della contestata lottizzazione abusiva, per essere stato
realizzato il manufatto
solamente nella sua struttura essenziale e con la sola
prefigurazione in vista del
suo adeguamento, anche sotto il profilo concessorio, alle
nuove destinazioni
residenziali previste dal Piano Urbanistico Comunale
vigente.
Risulta, tuttavia, assorbente, il dato, già evidenziato,
della radicale
difformità tra la concessione edilizia rilasciata alla
proprietaria, la S.r.l. Ba.
San Giuliano, dal Comune di Genova, n. 550 del 03/12/1991,
che prevedeva la
realizzazione di un fabbricato a destinazione direzionale di
quattro piani
(compreso il piano autorimessa seminterrato) su un'area
della superficie di 926
metri quadrati, con altezza di metri 15,15 e volume totale
di metri cubi 8492, e
quanto effettivamente realizzato dagli imputati, e cioè una
modifica di
destinazione d'uso del fabbricato e varianti in corso
d'opera mai assentite (tra
cui: la realizzazione del fabbricato ad una quota d'imposta
inferiore di circa m.
2,60; il frazionamento dell'edificio in undici unità
immobiliari; il rimodellamento
della sagoma dell'edificio con riduzione della superficie
lorda da mq. 2392 a mq.
1927 e la contestuale variazione dei prospetti; la
realizzazione di una rampa
elicoidale per l'accesso alla rimessa al piano seminterrato;
la diversa
realizzazione delle sistemazioni esterne circostanti il
fabbricato con inserimento
di due piscine; la realizzazione di un locale fuori terra in
calcestruzzo armato
della superficie di 10 mq.; la mancata realizzazione del
parcheggio pubblico
previsto quale opera in convenzione; la trasformazione della
pista provvisionale
di accesso al cantiere in viale carrabile posto a servizio
del fabbricato): una così
rilevante discrepanza determina la verificazione di una
lottizzazione abusiva, per
la totale difformità di quanto realizzato rispetto al piano
di lottizzazione,
irrilevante rimanendo, alla stregua dei principi ricordati,
l'eventuale
autorizzazione a lottizzare emessa successivamente, così
come l'approvazione di
un nuovo piano urbanistico-comunale, cui le opere abusive
sarebbero
astrattamente conformi, giacché ciò non determina comunque
una sanatoria
della lottizzazione abusiva o l'estinzione del reato, che
non sono contemplate
dall'art. 30 d.P.R. 380/2001.
Manifestamente infondato risulta poi il profilo della
censura fondato sul
rilievo che non sarebbe qualificabile come lottizzazione
abusiva l'intervento
edilizio realizzato dagli imputati, in quanto avente ad
oggetto un fabbricato e non
un terreno, giacché ricorre il reato di lottizzazione
abusiva fisica o materiale
quando l'intervento, per le sue dimensioni o
caratteristiche, sia idoneo a
pregiudicare la riserva pubblica di programmazione
territoriale (Sez. 3, n. 9446
del 21/01/2010, Lorefice, Rv. 246340), consista esso nella
realizzazione di un
nuovo fabbricato o nella suddivisione in lotti di un terreno
in vista della
realizzazione di nuove costruzioni, e tale idoneità a
pregiudicare la
programmazione territoriale di quanto realizzato dagli
imputati non è in alcun
modo stato oggetto di censura.
3. Per le medesime considerazioni risulta manifestamente
infondato anche il
terzo motivo di ricorso, mediante il quale è stata
prospettata errata applicazione degli artt. 30 e 44 d.P.R.
380/2001, per la ritenuta sussistenza dell'elemento
soggettivo del reato di lottizzazione abusiva in capo a
tutti gli imputati
nonostante l'incertezza della situazione in ordine alla
validità del piano di
lottizzazione a causa della sua sopravvenuta incompatibilità
con gli strumenti
urbanistici.
Va ricordato che è stato chiarito, quanto all'elemento
soggettivo del reato di
lottizzazione abusiva, che "non è ravvisabile alcuna
eccezione al principio
generale stabilito per le contravvenzioni dall'art. 42, 4°
comma, cod. pen.,
restando ovviamente esclusi i casi di errore scusabile sulle
norme integratici del
precetto penale e quelli in cui possa trovare applicazione
l'art. 5 cod. pen.
secondo l'interpretazione fornita dalla pronuncia n.
364/1988 della Corte
Costituzionale. Conseguentemente va ammessa anche la
cooperazione colposa
nella realizzazione del reato e diviene irrilevante
l'eventuale eterogeneità
dell'elemento soggettivo accertato in capo ai diversi
concorrenti" (così Sez. 3, n.
36940 del 11/05/2005, Stiffi, Rv. 232189; conf. Sez. 3, n.
38799 del
16/09/2015, De Paola, Rv. 264718).
Ora, nella vicenda in esame, i ricorrenti hanno intrapreso
sulla base del
piano di lottizzazione e della concessione edilizia del
1991, che contemplavano la
realizzazione di un fabbricato indiviso con destinazione
direzionale articolato su
quattro piani, una ristrutturazione con mutamento della
destinazione,
realizzando anche tutte le anzidette varianti in corso
d'opera mai assentite, in
assenza di risposta da parte del Comune di Genova circa la
variante riduttiva
della suddetta concessione edilizia ed in difformità
dall'originario piano di
lottizzazione e dalla concessione edilizia ottenuta: tutto
ciò comporta
l'irrilevanza, sotto il profilo della consapevolezza di
realizzare un'opera del tutto
difforme dal piano di lottizzazione e dalla concessione, dei
sopravvenuti
mutamenti degli strumenti urbanistici e delle altre vicende
amministrative e
giurisdizionali, soprattutto in considerazione della
importanza dell'opera e della
veste qualificata dei ricorrenti (quale evidenziata dalla
Corte d'appello), che non
potevano non rappresentarsi (sia pure nel quadro di
incertezza derivante dalle
pronunce dei giudici amministrativi, dalla imposizione del
vincolo storico
ambientale e del nuovo Piano Urbanistico Comunale) di dare
corso alla
realizzazione di un'opera illegittima, stante la persistente
palese e rilevante
difformità della stessa rispetto al piano di lottizzazione
ed alla concessione, in
ordine ai quali non erano intervenute modifiche di sorta da
parte degli organi
comunali.
4. Per quanto riguarda, infine, le censure relative al
mantenimento della
confisca, nonostante l'approvazione della variante del Piano
Urbanistico
Comunale e la stipula di convenzione attuativa e, da ultimo,
il rilascio (in data 24.02.2015) di permesso di
costruire al fine di ripristinare l'iniziale
destinazione d'uso del fabbricato con finalità direzionale,
oggetto del quarto
motivo e dei motivi aggiunti, va ribadito che
il
provvedimento di confisca delle
aree impartito con la sentenza di condanna per i reati di
lottizzazione abusiva e
di costruzione abusiva su area illecitamente lottizzata non
è automaticamente
caducato per effetto del successivo rilascio di permesso a
costruire in sanatoria,
in quanto il giudice dell'esecuzione penale ha il dovere di
controllare la legittimità
di tale provvedimento e, in particolare, la sussistenza dei
requisiti per il rilascio
del titolo abilitativo (così Sez. 3, n. 12350 del
02/10/2013, Pandiani, Rv.
259890).
E' solo per effetto di un legittimo rilascio della
concessione in sanatoria
per condono che è possibile rivisitare la questione
riguardante la confisca dei
manufatti abusivamente realizzati a seguito di lottizzazione
abusiva e dunque
confiscati, in quanto il titolo abilitativo sopravvenuto
legittima soltanto l'opera
edilizia come tale, ma non si estende alla possibilità di
rivedere la questione
riguardante la lottizzazione, perché la concessione non ha
una funzione
strumentale urbanistica di pianificazione dell'uso del
territorio (Sez. 3,
21.04.1989, n. 6160, Greco, Rv. 181117), e dunque, ferma
restando la
sussistenza della lottizzazione abusiva, per poter escludere
la confisca occorrerà
verificare la legittimità del permesso di costruire ed anche
la sua compatibilità e
coerenza con gli strumenti di pianificazione del territorio.
Ora, nella specie, occorrerà verificare, in sede esecutiva,
essendo una tale
indagine preclusa in questa sede, la legittimità del
rilascio del suddetto permesso
di costruire (avente lo scopo di consentire il ripristino
della iniziale destinazione
d'uso direzionale del fabbricato), tenendo conto dei
mutamenti frattanto
apportati allo stato dei luoghi ed all'edificio, onde
accertare la compatibilità di
tale permesso con lo stato di fatto e la sua congruenza
rispetto al suo scopo ed
agli strumenti urbanistici di pianificazione territoriale, e
solo all'esito di una tale
indagine potranno essere esclusi i presupposti per mantenere
la confisca, per
effetto ed in conseguenza della legittima sanatoria delle
opere e della loro
compatibilità con gli strumenti urbanistici.
Ne consegue la manifesta infondatezza anche di tali motivi
di ricorso, non
potendo allo stato essere esclusi i presupposti di detta
confisca (tratto da www.lexambiente.it -
Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 13.04.2016 n. 15404). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
Consiglio di Stato: gli atti di aggiornamento catastale
esclusi dalle competenze degli agrotecnici.
Accolto il ricorso del Consiglio nazionale dei geometri e
dei geometri laureati.
Gli agrotecnici non sono legittimati a
redigere e sottoscrivere gli atti di aggiornamento
geometrico di cui all'articolo 8 della legge n. 679/1969 e
agli articoli 5 e 7 del D.P.R. n. 650/1972.
Lo ha confermato il Consiglio di Stato (Sez. IV) che con la
sentenza 13.04.2016 n. 1458 ha accolto il ricorso
del Consiglio Nazionale dei Geometri e dei Geometri Laureati
che ha chiesto l’integrale riforma della sentenza di primo
grado con cui il Tar Lazio ha dichiarato l’inammissibilità
per carenza di interesse dei ricorsi introduttivi del
giudizio.
I geometri hanno fatto presente che, in seguito alla
sentenza della Corte Costituzionale, n. 154 del 2015 -con
cui è stata dichiarata l’incostituzionalità, per violazione
dell’art. 77, comma secondo Cost., dell’art. 26, comma
7-ter, del decreto legge n. 248 del 2007, in accoglimento
della questione prospettata dal Consiglio di Stato con
l'ordinanza n. 753 del 17.02.2014- risulta evidente non
soltanto l’interesse al ricorso introduttivo del giudizio,
ma anche la illegittimità dell’azione dell’Amministrazione.
L’art. 26, comma 7-ter, del decreto-legge 31.12.2007, n. 248
stabiliva che il comma 96 dell’art. 145 della legge
23.12.2000, n. 388 (legge finanziaria 2001), “si
interpreta nel senso che gli atti ivi indicati possono
essere redatti e sottoscritti anche dai soggetti in possesso
del titolo di cui alla legge 06.06.1986, n. 251, e
successive modificazioni”. La legge 06.06.1986, n. 251,
cui faceva espresso rinvio la disposizione censurata, ha
istituito l’albo professionale degli agrotecnici.
I giudici
di Palazzo Spada ricordano che secondo un costante
orientamento del Consiglio di Stato, dal quale non c’è
motivo per discostarsi, deve ritenersi che “la pronuncia
di illegittimità costituzionale di una norma di legge
determina la cessazione della sua efficacia erga omnes ed
impedisce, dopo la pubblicazione della sentenza, che essa
possa esser applicata ai rapporti, in relazione ai quali la
norma dichiarata incostituzionale risulti anche rilevante,
stante l’effetto retroattivo dell’annullamento escluso solo
per i cd. rapporti esauriti” (cfr. Cons. di Stato, Sez.
III, 14.03.2012, n. 1429).
La risoluzione n. 10/DF del 03.04.2008 del Ministero
dell’Economia e delle Finanze, nonché la circolare
dell’Agenzia del Territorio n. 3 del 14.04.2008, in seguito
alla pronuncia della Corte Costituzionale n. 154 del 2015, “devono
ritenersi viziate da una invalidità derivata: detti atti,
infatti, costituiscono integrazione e non mera
interpretazione, della disposizione dichiarata
incostituzionale e, il venir meno del presupposto normativo,
determina, in ultima analisi, la loro invalidità ed
inidoneità a produrre effetti”.
Pertanto, conclude il Consiglio di Stato, “Alla luce
delle suesposte argomentazioni, va accolto l’appello
proposto dal sig. Fausto Savoldi e dal Consiglio Nazionale
Geometri e Geometri Laureati e, per l’effetto, in riforma
della sentenza del TAR per il Lazio sede di Roma n. 7395 del
30.08.2012, devono annullarsi i provvedimenti impugnati in
primo grado” (commento tratto da www.casaeclima.com). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - TRIBUTI: Notifiche a mezzo posta senza relata.
Cassazione ricorda che si seguono le regole sul servizio
postale ordinario.
In tema di notificazioni a mezzo posta, non deve essere
redatta alcuna relata di notifica o annotazione specifica
sull'avviso di ricevimento in ordine alla persona cui è
stato consegnato il plico, e l'atto pervenuto all'indirizzo
del destinatario deve ritenersi ritualmente consegnato a
quest'ultimo, stante la presunzione di conoscenza di cui
all'art. 1335 c.c.
Inoltre, ai sensi dell'art. 140 cpc la
raccomandata cosiddetta «informativa» deve contenere la
semplice notizia del deposito dell'atto stesso presso la
casa comunale e, per quanto riguarda la notificazione nei
confronti di un destinatario irreperibile, non occorre che
dall'avviso di ricevimento della raccomandata informativa
del deposito dell'atto presso l'ufficio comunale risultino
tutte le annotazioni prescritte in caso di notificazione
effettuata a mezzo del servizio postale, dovendo piuttosto
da esso risultare il trasferimento, il decesso del
destinatario o altro fatto impeditivo della conoscibilità
(non della conoscenza effettiva) dell'avviso stesso.
Questi
importanti princìpi, in tema di notificazione, sono stati
espressi dalla VI Sez. civile della Corte di Cassazione
nell'ordinanza 12.04.2016 n. 7184.
I giudici di
legittimità hanno richiamato la pronuncia della Cassazione
n. 9111/2012 che, in tema di notificazioni a mezzo posta, ha
stabilito che la disciplina relativa alla raccomandata con
avviso di ricevimento, mediante la quale può essere
notificato l'avviso di liquidazione o di accertamento senza
intermediazione dell'ufficiale giudiziario, è quella dettata
dalle disposizioni concernenti il servizio postale ordinario
per la consegna dei plichi raccomandati, in quanto le
disposizioni di cui alla L. n. 890 del 1982 attengono
esclusivamente alla notifica eseguita dall'ufficiale
giudiziario ex art. 140 cpc.
Ne consegue che, difettando
apposite previsioni della disciplina postale, non deve
essere redatta alcuna annotazione specifica sull'avviso di
ricevimento in ordine alla persona cui è stato consegnato il
plico, e l'atto pervenuto all'indirizzo del destinatario
deve ritenersi ritualmente consegnato a quest'ultimo, stante
la presunzione di conoscenza di cui all'art. 1335 c.c.,
superabile solo se il medesimo dia prova di essersi trovato,
senza sua colpa, nell'impossibilità di prenderne cognizione.
Sempre con specifico riferimento alle formalità relative
alla notifica ai sensi dell'art. 140 cpc, in materia
tributaria, già la recente sentenza della Cassazione n.
26864/2014 ha precisato che la raccomandata cosiddetta
informativa, poiché non sostituisce l'atto da notificare, ma
contiene solo la notizia del deposito dell'atto stesso nella
casa comunale, non è soggetta alle disposizioni di cui alla
L. n. 890/1982, sicché per la stessa occorre rispettare solo
quanto prescritto dal regolamento postale per la
raccomandata ordinaria.
In particolare, la Suprema Corte ha
escluso che la mancata specificazione, sull'avviso di
ricevimento, della qualità del consegnatario e della
situazione di convivenza o meno con il destinatario
determini la nullità della notificazione. Inoltre, nella
notificazione nei confronti di destinatario irreperibile, ai
sensi dell'art. 140 cpc, non occorre che dall'avviso di
ricevimento della raccomandata informativa del deposito
dell'atto presso l'ufficio comunale, che va allegato
all'atto notificato, risulti precisamente documentata
l'effettiva consegna della raccomandata, ovvero
l'infruttuoso decorso del termine di giacenza presso
l'ufficio postale, né che detto avviso contenga, a pena di
nullità dell'intero procedimento notificatorio, tutte le
annotazioni prescritte in caso di notificazione effettuata a
mezzo del servizio postale, dovendo invece da esso
risultare, a seguito della sentenza della Corte
costituzionale n. 3 del 2010, il trasferimento, il decesso
del destinatario o altro fatto impeditivo della
conoscibilità dell'avviso stesso, come stabilito di recente
dalla sentenza della Cassazione n. 2959/2013.
Nel caso di specie, la Ctr del Lazio non si è conformata a
tali principi, avendo dichiarato la nullità della
notificazione della cartella esattoriale effettuata dal
messo notificatore ai sensi dell'art. 140 cpc, condizionando
la validità della notificazione alla riferibilità della
firma apposta sulla raccomandata di ricevimento al
destinatario della stessa, senza invece considerare
l'inutilità di siffatta verifica, una volta acclarato il
compimento della formalità dell'inoltro al destinatario
della raccomandata informativa
(articolo ItaliaOggi del 28.04.2016). |
URBANISTICA: Le
scelte urbanistiche compiute dalle autorità preposte
all’approvazione degli atti di pianificazione hanno natura
altamente discrezionale e, per questa ragione, sono
sindacabili da parte del giudice amministrativo solo nel
caso in cui vi siano evidenti indici di irrazionalità o
emerga chiaramente la sussistenza di errori nella
valutazione dei presupposti ad esse sottesi.
---------------
L’amministrazione non è tenuta a motivare specificamente le
scelte riguardanti le singole zone, essendo a tal fine
sufficiente il richiamo ai criteri generali seguiti
nell’impostazione del piano come risultanti dall’apposita
relazione di accompagnamento al piano stesso.
Uniche eccezioni a questa regola si hanno quando il soggetto
interessato dall’atto di pianificazione versi in situazione
di particolare affidamento; affidamento che può derivare o
da una convenzione urbanistica, già stipulata con il Comune,
che riservi all’area un trattamento più favorevole rispetto
a quello introdotto con il piano sopravvenuto, ovvero da una
sentenza di annullamento di un provvedimento di diniego al
rilascio un titolo edilizio.
Altra eccezione si ha poi nel caso in cui l’autorità intenda
imprimere destinazione agricola ad un lotto intercluso da
fondi legittimamente edificati.
---------------
Come noto, per costante orientamento giurisprudenziale, le
scelte urbanistiche compiute dalle autorità preposte
all’approvazione degli atti di pianificazione hanno natura
altamente discrezionale e, per questa ragione, sono
sindacabili da parte del giudice amministrativo solo nel
caso in cui vi siano evidenti indici di irrazionalità o
emerga chiaramente la sussistenza di errori nella
valutazione dei presupposti ad esse sottesi.
Per quanto riguarda poi il profilo motivazionale, si afferma
altresì che l’amministrazione non è tenuta a motivare
specificamente le scelte riguardanti le singole zone,
essendo a tal fine sufficiente il richiamo ai criteri
generali seguiti nell’impostazione del piano come risultanti
dall’apposita relazione di accompagnamento al piano stesso
(cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 07.04.2008 n. 1476; id.
13.03.2008 n. 1095; id. 27.12.2007 n. 6686).
Uniche eccezioni a questa regola si hanno quando il soggetto
interessato dall’atto di pianificazione versi in situazione
di particolare affidamento; affidamento che può derivare o
da una convenzione urbanistica, già stipulata con il Comune,
che riservi all’area un trattamento più favorevole rispetto
a quello introdotto con il piano sopravvenuto, ovvero da una
sentenza di annullamento di un provvedimento di diniego al
rilascio un titolo edilizio. Altra eccezione si ha poi nel
caso in cui l’autorità intenda imprimere destinazione
agricola ad un lotto intercluso da fondi legittimamente
edificati (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 01.10.2004 n.
6401; id. 04.03.2003 n. 1197)
(TAR Valle d'Aosta,
sentenza 12.04.2016 n. 13 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI:
Ingiunzione Tarsu firmata dal funzionario.
Ingiunzione di pagamento Tarsu illegittima senza la firma
del funzionario responsabile. L'ingiunzione emanata dal
concessionario della riscossione per conto del comune deve
essere sottoscritta, a pena di nullità, dal funzionario
responsabile dell'ente, che è tenuto anche ad apporre il
visto di esecutività sulla lista di carico. Il
concessionario della riscossione non è legittimato a
sottoscrivere l'ingiunzione.
È quanto ha stabilito la Ctp di
Taranto, I Sez., con la sentenza 07.04.2016 n. 854.
Per la commissione provinciale, l'ingiunzione non è
valida senza la «necessaria e specifica sottoscrizione da
parte del funzionario responsabile del servizio». In
particolare, l'atto impugnato (ingiunzione Tarsu) «non
risulta sottoscritto e ne accompagnato dalla provata
sottoscrizione da parte del funzionario responsabile
comunale di un pur più ampio elenco di contribuenti tenuti
al pagamento della pretesa tributaria che solo avrebbe
potuto rappresentare il ruolo e sanare le singole
situazioni».
Il principio non può essere condiviso ed è
destinato a generare solo confusione, tenuto conto che non
distingue i casi in cui l'ingiunzione va sottoscritta dal
funzionario responsabile dell'ente, perché l'incarico al
concessionario è limitato alla predisposizione dell'atto,
sotto forma di appalto di servizi, da quelli in cui, invece,
l'attività di riscossione è affidata in concessione e
l'esattore è legittimato alla sottoscrizione. Fermo restando
che il funzionario è tenuto ad apporre il visto di
esecutività sulla lista di carico, ma la stessa,
contrariamente a quanto sostenuto dal giudice, non deve
essere allegata all'ingiunzione.
Nel caso in esame la Soget,
nella qualità di concessionaria del comune di Taranto, era
abilitata alla sottoscrizione dell'atto: non a caso era
stata chiamata in causa dal contribuente come parte
resistente, essendo il soggetto autore dell'atto e, quindi,
legittimato a contraddire. Non era stata opposta, infatti,
dal ricorrente la carenza di legittimazione passiva nel
processo tributario. Solo laddove l'affidamento sia limitato
alla predisposizione degli atti, con la formula dell'appalto
di servizi, il soggetto incaricato può svolgere un'attività
endo-procedimentale, di supporto all'attività dell'ente, non
può sottoscrivere gli atti, non può assumersene la paternità
giuridica e, per l'effetto, non è abilitato alla difesa
innanzi alle commissioni tributarie, perché carente di
legittimazione passiva.
L'ingiunzione è uno strumento nato
per il recupero delle entrate patrimoniali. L'articolo 52
del decreto legislativo 446/1997 ne ha esteso l'ambito di
applicazione a tutte le entrate locali, sia tributarie che
extratributarie. È un atto amministrativo recettizio, che
esplica i suoi effetti nel momento in cui si perfeziona la
notifica, ovvero quando l'intimazione viene portata a
conoscenza del destinatario.
È utilizzabile a seguito di una pretesa divenuta definitiva
o anche quando l'atto viene contestato innanzi all'autorità
giudiziaria. È un atto emanabile dopo la notifica
dell'avviso di accertamento, sempre che non venga sospeso
dal giudice, o comunque qualora vi sia un titolo esecutivo
(articolo ItaliaOggi del 26.04.2016). |
APPALTI:
Impresa in gara se trasparente.
No all'esclusione se manca il Passoe.
No all'esclusione dall'appalto per l'impresa che al momento
in cui presenta l'offerta per la gara non risulta in
possesso del Passoe, il codice di registrazione presso il
servizio Avcpass, il sistema di controllo dei requisiti per
ottenere lavori pubblici targato Anac, l'authority
anticorruzione. L'importante è che risulti comunque iscritta
al sistema di trasparenza gestito dall'autorità presieduta
da Raffaele Cantone. Il Passoe, infatti, costituisce un
semplice strumento attraverso cui l'operatore economico può
essere verificato tramite Avcpass e la mancata produzione
del codice in sede di gara rappresenta una mera carenza
documentale, non anche un'ipotesi di irregolarità
essenziale.
Lo dice la
sentenza
06.04.2016 n. 1682 della II Sez. del TAR Campania-Napoli.
Accolto il ricorso dell'impresa
esclusa dalla procedura per l'affidamento di un servizio
comunale. È vero: serve un Passoe per ogni singola gara cui
si partecipa, ma ciò non esime l'impresa che si candida
all'appalto dall'obbligo di presentare le autocertificazioni
richieste sul possesso dei requisiti per la partecipazione
alla procedura di affidamento.
Non è dunque vero che
l'omissione del codice possa far scattare l'esclusione dalla
procedura pubblica: l'azienda ben può presentare il
documento in seguito regolarizzando la sua posizione e senza
pagare alcuna sanzione pecuniaria.
Lo conferma la stessa Anac nella nota illustrativa al bando
tipo: il concorrente deve essere invitato ad acquisire e
produrre il codice entro un certo termine, questo sì a pena
di esclusione
(articolo ItaliaOggi del 28.04.2016). |
APPALTI:
Sistema Avcpass: la mancata produzione del Passoe in sede di
gara non è un’irregolarità essenziale.
Tar Campania: il Passoe non solo non costituisce causa di
esclusione dalla procedura, ma può essere prodotto
successivamente regolarizzando la documentazione, senza
alcuna sanzione pecuniaria.
La mancata produzione del Passoe
(documento attestante l'iscrizione al sistema Avcpass) in
sede di gara rappresenta una semplice carenza documentale e
non anche un’ipotesi di irregolarità essenziale. Pertanto il
Passoe non solo non costituisce causa di esclusione del
concorrente dalla procedura, ma può essere prodotto,
regolarizzando la documentazione, successivamente, senza che
per questo sia dovuta alcuna sanzione pecuniaria.
Lo ha precisato il TAR Campania-Napoli, Sez. II, con la
sentenza 06.04.2016 n. 1682.
“La registrazione al servizio AVCPASS e la generazione
per ogni singola gara di un PASSOE non esime l’operatore
economico –scrive il Tar Napoli- dall’obbligo di presentare
le autocertificazioni richieste dalla normativa vigente in
ordine al possesso dei requisiti per la partecipazione alla
procedura di affidamento: il “PASSOE” rappresenta lo
strumento necessario per procedere alla verifica dei
requisiti stessi da parte delle stazioni appaltanti”.
Per l’operatore economico “non è, pertanto, prevista
alcuna semplificazione nella preparazione della
documentazione di gara, cui aggiunge proprio il PASSOE”.
Il PASSOE, ribadiscono i giudici amministrativi della
Campania, “rappresenta un semplice strumento attraverso
cui l’operatore economico può essere verificato per mezzo
del sistema ACVPASS con il quale la stazione appaltante
assolve, a norma dell’art. 6-bis, I comma, del DLgs n.
163/2006, all’obbligo di provvedere direttamente, presso gli
Enti certificanti convenzionati con l’ANAC (tra cui
Ministero della Giustizia, Unioncamere, Inail e Agenzia
delle Entrate), all’acquisizione dei documenti necessari
alla verifica dei requisiti autodichiarati dai concorrenti
in sede di gara”.
Pertanto, conclude il Tar Napoli, la mancata produzione del
PASSOE in sede di gara rappresenta “una semplice carenza
documentale e non anche un’ipotesi di irregolarità
essenziale: ne consegue che il PASSOE non solo non
costituisce causa di esclusione del concorrente dalla
procedura, ma può essere prodotto, regolarizzando dunque la
documentazione, successivamente, senza che per questo sia
dovuta alcuna sanzione pecuniaria” (commento tratto da
www.casaeclima.com).
---------------
MASSIMA
- che, nel merito, va osservato che oggetto della
controversia è la legittimità o meno dell’esclusione di “Qu.-2001
soc. coop.” dalla gara per l’affidamento triennale del
servizio di refezione scolastica a favore degli alunni della
scuola dell’infanzia, esclusione che il Comune di Crispano
ha disposto in ragione del fatto che il documento PASSOE
–che, richiesto dalla legge di gara, la concorrente aveva
omesso di inserire nella busta contenente la documentazione
amministrativa–, fornito alla commissione giudicatrice a
seguito dell’invito rivolto dalla commissione stessa in
ossequio alla doverosità del soccorso istruttorio, non era “posseduto”
dalla ricorrente alla scadenza del termine per la
presentazione dell’offerta (01.02.2016), ma era stato “generato”
successivamente (l’11.02.2016);
- che, in altre parole, l’esclusione di Qu. dalla gara trae
giustificazione e fondamento, secondo l’Amministrazione, non
già dall’omessa allegazione di un requisito di
partecipazione (posseduto dalla concorrente), ma proprio dal
suo mancato possesso, giacché era stato creato in un momento
successivo alla data ultima per la proposizione
dell’offerta;
- che, da parte sua, la ricorrente afferma che la mancanza
del PASSOE non può comportare -soprattutto quando, come nel
caso di specie, l’impresa sia registrata al servizio
AVCPASS- l’esclusione dalla gara, in quanto, non
configurandosi il predetto elemento quale requisito
essenziale di partecipazione, ciò contrasterebbe con il
principio di tassatività delle clausole di esclusione
sancito dall’art. 46, I comma-bis, del codice dei contratti;
- che l’affermazione della ricorrente va condivisa, giacché
né il codice dei contratti (art. 6-bis), né il “bando
disciplinare di gara” (pag. 10) accreditano il possesso
del PASSOE quale requisito di partecipazione previsto a pena
di esclusione dalla procedura concorsuale, né peraltro esso
si configura come elemento essenziale incidente sulla par
condicio dei concorrenti;
- che, invero, il sistema informatico AVCPASS (Autority
Virtual Company Passport) è stato elaborato
dall’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici (ora
incorporata nell’ANAC) in attuazione dell’art. 6-bis, I
comma, del DLgs n. 163/2006: tale articolo dispone che la
documentazione comprovante il possesso dei requisiti di
carattere generale, tecnico-organizzativo ed
economico-finanziario per la partecipazione alle procedure
disciplinate dal Codice deve essere acquisita dalle stazioni
appaltanti presso la Banca dati nazionale dei contratti
pubblici (BDNCP).
Con la deliberazione AVCP 20.12.2012 n. 111 l’Autorità ha
attuato il codice istituendo sul proprio sito istituzionale
un gateway per le stazioni appaltanti, denominato AVCPASS,
per accedere ai dati messi a disposizione dagli Enti
Certificanti, dall’Autorità di Vigilanza/Osservatorio sui
contratti pubblici e dagli Operatori Economici.
L'AVCPASS presuppone che tutti i soggetti, per accedere al
Portale AVCP, debbano registrarsi nel sistema. Una volta
registrato, l’accesso dell’operatore economico ai servizi
AVCPASS avviene a seguito del superamento di una procedura
che verifica le credenziali di autenticazione composte
dall’identificativo utente e dalla relativa password.
L’accesso nel profilo AVCPASS consente all’operatore
economico di generare e stampare un documento che attesta la
possibilità, per la stazione appaltante, di verificare il
concorrente tramite il sistema AVCPASS.
La stazione appaltante o l’ente aggiudicatore, accedendo al
sistema, sfrutta il collegamento tra la Banca dati nazionale
dei contratti pubblici e le banche dati dei soggetti
detentori delle informazioni necessarie alla verifica dei
requisiti di partecipazione alle gare pubbliche. Va tuttavia
osservato che l’AVCPASS, se si eccettua la
presentazione del PASSOE (tale documento, infatti, va
inserito nella busta contenente la documentazione
amministrativa), non modifica le normali procedure di gara,
ma cambia unicamente il mezzo con cui verificare i requisiti
di partecipazione alle gare.
Infatti, la registrazione al servizio
AVCPASS e la generazione per ogni singola gara di un PASSOE
non esime l’operatore economico dall’obbligo di presentare
le autocertificazioni richieste dalla normativa vigente in
ordine al possesso dei requisiti per la partecipazione alla
procedura di affidamento: il “PASSOE” rappresenta lo
strumento necessario per procedere alla verifica dei
requisiti stessi da parte delle stazioni appaltanti
(cfr., a tal proposito, l’art. 2, III comma, lett. b, della
deliberazione 17.02.2016 n. 157 dell’ANAC di aggiornamento
della precedente deliberazione n. 111/2012 dell’AVCP: ivi si
afferma, riprendendo pedissequamente l’inciso dell’AVCP, che
“il sistema rilascia un "PASSOE" da inserire nella busta
contenente la documentazione amministrativa. Fermo restando
l'obbligo per l'OE di presentare le autocertificazioni
richieste dalla normativa vigente in ordine al possesso dei
requisiti per la partecipazione alla procedura di
affidamento, il "PASSOE" rappresenta lo strumento necessario
per procedere alla verifica dei requisiti stessi da parte
delle stazioni appaltanti/enti aggiudicatori”).
Per l’operatore economico non è, pertanto,
prevista alcuna semplificazione nella preparazione della
documentazione di gara, cui aggiunge proprio il PASSOE. Il
PASSOE, lo si ribadisce, rappresenta un semplice strumento
attraverso cui l’operatore economico può essere verificato
per mezzo del sistema ACVPASS con il quale la stazione
appaltante assolve, a norma dell’art. 6-bis, I comma, del
DLgs n. 163/2006, all’obbligo di provvedere direttamente,
presso gli Enti certificanti convenzionati con l’ANAC
(tra cui Ministero della Giustizia, Unioncamere, Inail e
Agenzia delle Entrate), all’acquisizione
dei documenti necessari alla verifica dei requisiti
autodichiarati dai concorrenti in sede di gara.
La mancata produzione del PASSOE in sede di
gara rappresenta, perciò, una semplice carenza documentale e
non anche un’ipotesi di irregolarità essenziale: ne consegue
che il PASSOE non solo non costituisce causa di esclusione
del concorrente dalla procedura, ma può essere prodotto,
regolarizzando dunque la documentazione, successivamente,
senza che per questo sia dovuta alcuna sanzione pecuniaria.
Di tale avviso è anche l’ANAC (che, come s’è detto, ha
incorporato l’AVCP), che nella nota illustrativa al “Bando-tipo
per l’affidamento di contratti pubblici di servizi e
forniture” afferma espressamente (cfr. il paragrafo
relativo alle “cause di esclusione e soccorso istruttorio”,
pag. 8) che “fermo restando l’obbligo per l’operatore
economico di presentare le autocertificazioni richieste
dalla normativa vigente in ordine al possesso dei requisiti
per la partecipazione alla procedura di affidamento, il
“PASSOE” rappresenta lo strumento necessario per procedere
alla verifica dei requisiti stessi da parte delle stazioni
appaltanti. Al riguardo, si rappresenta che la mancata
inclusione del PASSOE non costituisce causa di esclusione
dell’operatore economico in sede di presentazione
dell’offerta. Tuttavia, le stazioni appaltanti saranno
tenute a verificare, nella prima seduta di gara,
l’inserimento del PASSOE nella busta contenente la
documentazione amministrativa e, laddove ne riscontrino la
carenza, dovranno richiedere all’operatore economico
interessato di acquisirlo e trasmetterlo in tempo utile a
consentire la verifica dei requisiti, avvertendolo
espressamente che in mancanza si procederà all’esclusione
dalla gara e alla conseguente segnalazione all’Autorità ai
fini dell’applicazione delle sanzioni di cui all’art. 6,
comma 11, del Codice, essendo il PASSOE l’unico strumento
utilizzabile dalla stazione appaltante per procedere alle
prescritte verifiche”.
L’ANAC, cioè, afferma senza mezzi termini che
il concorrente privo del PASSOE deve essere invitato
ad “acquisirlo” e produrlo entro un certo termine,
questo sì a pena di esclusione;
- che, dunque, avendo l’Amministrazione contestato alla
ricorrente non già il contenuto delle autocertificazioni
prodotte, ma soltanto la mancanza del documento che ne
consentiva la verificazione attraverso il sistema AVCPASS,
documento poi prodotto dall’interessata entro il termine
fissato dalla stessa Amministrazione, il ricorso è fondato e
va accolto, assorbite le ulteriori censure
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 06.04.2016 n. 1682 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Può
parlarsi di ristrutturazione e restauro conservativo in
tutte le ipotesi di lavori afferenti a edifici già esistenti
e individuabili nella loro struttura e caratteristiche,
anche se in parte diruti, mentre solo nei casi in cui non
sia affatto possibile individuare il manufatto originario,
quantomeno nei suoi connotati essenziali, deve parlarsi di
nuova costruzione.
Il concetto di costruzione esistente postula, invero, la
possibilità di individuazione della stessa come identità
strutturale, in modo da farla giudicare presente nella
realtà materiale quale specifica entità urbanistico-edilizia
esistente nell'attualità, sicché l'intervento edificatorio
non costituisce trasformazione urbanistico edilizia del
territorio rilevante in termini di nuova costruzione. Deve,
pertanto, trattarsi di manufatto che, a prescindere dalla
circostanza che sia abitato o abitabile, possa comunque
essere individuato nei suoi connotati essenziali, come
identità strutturale, in relazione anche alla sua
destinazione.
---------------
Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza
amministrativa, può parlarsi di ristrutturazione e restauro
conservativo in tutte le ipotesi di lavori afferenti a
edifici già esistenti e individuabili nella loro struttura e
caratteristiche, anche se in parte diruti, mentre solo nei
casi in cui non sia affatto possibile individuare il
manufatto originario, quantomeno nei suoi connotati
essenziali, deve parlarsi di nuova costruzione (Tar Napoli,
Sez. IV, sent. 25.07.2014 n. 4321; Tar Latina, Sez. I, sent.
30.09.2014, n. 762).
“Il concetto di costruzione esistente postula, invero, la
possibilità di individuazione della stessa come identità
strutturale, in modo da farla giudicare presente nella
realtà materiale quale specifica entità urbanistico-edilizia
esistente nell'attualità, sicché l'intervento edificatorio
non costituisce trasformazione urbanistico edilizia del
territorio rilevante in termini di nuova costruzione. Deve,
pertanto, trattarsi di manufatto che, a prescindere dalla
circostanza che sia abitato o abitabile, possa comunque
essere individuato nei suoi connotati essenziali, come
identità strutturale, in relazione anche alla sua
destinazione” (cfr. Cons. Stato, V, 10.02.2004, n. 475;
V, 15.03.1990, n. 293, Tar Salerno, Sez I, sent. 09.12.2012
n. 2436) (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 04.04.2016 n. 796 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La visione aerea satellitare non vieta il nuovo sottotetto.
Non si possono «cristallizzare» i luoghi in virtù della
tecnologia.
Tar di Brescia. Sì alla modifica: il paesaggio va tutelato
in base alla normale percepibilità.
La modifica di
un sottotetto non può trovare ostacolo nella visione aerea
da Google, quando si discute di tutela dei beni ambientali:
lo sottolinea il TAR Lombardia-Brescia (Sez. I,
ordinanza 04.04.2016 n. 270),
chiarendo i rapporti tra privati e Soprintendenza al
paesaggio.
Il proprietario di un sottotetto in zona
paesistica vincolata, avrebbe potuto rendere abitabili i
luoghi realizzando un terrazzo “a tasca” (detto anche “ad
asola”), con aperture di 5 e di 2 metri: in tal modo infatti
sarebbe stato raggiunto l’indice minimo aeroilluminante per
i locali sottostanti.
La Soprintendenza, competente per l’autorizzazione (articolo
146 del Dlgs 42/2004), si è, tuttavia, opposta osservando
che l’innovazione sarebbe stata visibile da percorsi
pedonali e carrabili di una collina sovrastante. Inoltre,
era anche possibile la visione satellitare del terrazzo.
Appunto su quest’ultimo argomento il Tar si è pronunciato in
modo innovativo, osservando che la visione satellitare si
affermerà in futuro, probabilmente, come la principale forma
di fruizione delle bellezze paesistiche, consentendo ad un
numero indeterminato di persone di accedere ad immagini
attraverso Internet.
Tuttavia oggi, da tale cambiamento del
pubblico che fruisce del paesaggio, non deriva un vincolo di immodificabilità rafforzato, sui luoghi osservabili. Anche
questo nuovo tipo di visione, secondo i giudici, va
collocato in una scala di valori che riguardano il pregio
paesistico, pregio che deve essere sempre riferito ad un
insieme complesso e non a singoli dettagli messi in primo
piano.
Il giudice ha quindi imposto alla Sovrintendenza di
pronunciarsi nuovamente, semmai imponendo eventuali misure
di mitigazione dell’intervento edilizio.
In altri termini,
secondo il Tar, il paesaggio va tutelato in coerenza a una
normale percepibilità; la dimensione del bene da tutelare
deve continuare a essere quella del passante, del turista,
dell’amante dell’arte o del paesaggio; occorre immedesimarsi
nel progettista che a suo tempo ha ideato i luoghi generando
armonia e qualità, e da tutto ciò può derivare una corretta
tutela paesistica.
Tutela che può esprimersi anche attraverso un divieto
assoluto di modifica (impedendo un’alterata percezione dei
luoghi), ma senza giungere ad un’assoluta cristallizzazione
dei luoghi causata dell’evolversi di tecnologie (visioni
aeree, uso di droni, elevata risoluzione delle immagini)
focalizzando dettagli non usualmente percepibili.
Nella
tutela del paesaggio, fino ad oggi, problemi del genere sono
emersi quando si è inteso modificare l’interno di
costruzioni in zone vincolate quali cantine, ambienti e
suddivisioni interne, solai o murature interne prive di
pregio specifico: per interventi su tali elementi edilizi,
ad esempio, il vincolo derivante da distanza dal mare (300
metri) è stato ritenuto irrilevante (Tar Lecce 321/2014,
Firenze 671/2014).
Anche il modesto innalzamento di un solaio di copertura può
risultare irrilevante sotto l’aspetto paesaggistico (se di
40 centimetri: Tar Brescia 39/2015, Consiglio di Stato
3676/2013), mentre se il vincolo è storico-artistico, genera
immodificabilità assoluta. A seconda quindi del tipo di
vincolo e della percezione che si vuole garantire, i giudici
ritengono necessaria una scala graduata, che non può essere
alterata dalla tecnologia e dai dettagli delle visioni
aeree, nel senso che il paesaggio è un valore complessivo
che non si accresce per la sola migliore osservabilità
consentita dalla tecnologia (articolo Il Sole 24 Ore del
28.04.2016).
--------------
MASSIMA
... per l'annullamento previa sospensione dell'efficacia:
- del provvedimento del responsabile dello Sportello Unico
dell’Edilizia del 24.12.2015, con il quale è stata negata
l’autorizzazione paesistica per un intervento di recupero
del sottotetto di un edificio situato in viale Venezia;
- del parere negativo vincolante della Soprintendenza del
22.12.2015, con il quale è stata dichiarata l’assenza di
compatibilità paesistica ex art. 146, comma 5, del Dlgs.
22.01.2004 n. 42;
...
Considerato a un sommario esame:
1. I ricorrenti hanno chiesto al Comune di Brescia in data
11.05.2015 l’autorizzazione paesistica per un intervento di
recupero del sottotetto in un edificio situato in viale
Venezia. Il progetto prevede anche la realizzazione di due
tasche nella copertura (rispettivamente di metri 5,00x1,70 e
2,40x1,10) allo scopo di assicurare il raggiungimento dei
rapporti aeroilluminanti nei locali del sottotetto.
2. Sull’area grava il vincolo paesistico posto dal DM
07.05.1952.
3. La Commissione comunale per il paesaggio ha espresso
parere favorevole in data 10.09.2015, dopo aver preso atto
di alcune modifiche progettuali che hanno ridimensionato
l’impatto dell’intervento. È stato prescritto il
mantenimento dell’orditura e dei caratteri architettonici
della gronda.
4. La Soprintendenza, in data 22.12.2015, ha invece espresso
parere vincolante negativo ai sensi dell’art. 146, comma 5,
del Dlgs. 22.01.2004 n. 42. Secondo la Soprintendenza vi
sarebbero le seguenti criticità:
(i) le tasche nella copertura non sono elementi architettonici
tradizionali, e provocherebbero la perdita della leggibilità
dell’insediamento storico-paesistico;
(ii) l’innovazione sarebbe visibile dai percorsi pedonali e
carrabili, e in particolare dalla collina sovrastante. Nella
relazione depositata il 23.03.2016 la Soprintendenza
sottolinea che non sarebbe comunque possibile escludere la
visione mediante satelliti, accessibile da ogni parte del
pianeta.
5. Il Comune si è adeguato, e con provvedimento del
responsabile dello Sportello Unico dell’Edilizia del
24.12.2015 ha negato l’autorizzazione paesistica.
6. Il ricorso richiama le valutazioni dell’arch. Au.Lo.,
esposte nella relazione del 12.02.2016. In particolare, la
relazione mette in evidenza i seguenti aspetti:
(i) i percorsi pedonali e carrabili della collina non consentono di
osservare agevolmente la zona in questione;
(ii) l’impatto visivo delle tasche nella copertura è completamente
diluito nella visione d’insieme dai punti panoramici e
dall’alto;
(iii) ben 6 dei 14 edifici che compongono l’isolato sono dotati di
aperture a tasca nella copertura.
7. Sulla vicenda così sintetizzata si possono formulare le
seguenti osservazioni:
(a) la leggibilità del paesaggio urbano
tradizionale presuppone la conservazione di una pluralità di
elementi (forma e orditura della gronda, materiali, colori),
ma non di tutte le caratteristiche storicamente attestate in
un gruppo di edifici. Il giudizio di leggibilità è dato
infatti dall’insieme degli elementi caratterizzanti. La
modifica di uno di questi può essere bilanciata e
riassorbita nell’immagine complessiva grazie alla
persistenza degli altri;
(b) occorre poi sottolineare che le innovazioni
necessarie per garantire gli attuali standard
igienico-sanitari delle abitazioni sono maggiormente
accettabili, in un giudizio estetico aggiornato, rispetto a
innovazioni voluttuarie e frivole;
(c) la presenza di tasche nelle coperture di quasi
la metà degli edifici che compongono l’isolato permette
tuttora di apprezzare il pregio architettonico della zona.
Non sembra quindi ragionevole ritenere che le due nuove
aperture a tasca progettate dai ricorrenti possano alterare
l’equilibrio generale;
(d) al contrario, appare evidente che in una
visione d’insieme, e quindi da lontano, come è necessario
nel giudizio paesistico, le aperture a tasca di modeste
dimensioni sono diluite nel paesaggio e non sono percepibili
come elementi di interruzione o disturbo;
(e) infine,
è verosimile che la visione satellitare possa
affermarsi in un prossimo futuro come la principale forma di
fruizione delle bellezze paesistiche, in considerazione del
numero di persone in grado di accedere alle immagini da ogni
parte del mondo via Internet. Da tale cambiamento nella
composizione del pubblico non deriva però un vincolo di
immodificabilità rafforzato a carico dei luoghi osservabili.
Anche in questo nuovo tipo di visione, infatti, è necessario
individuare una scala alla quale collegare il giudizio
paesistico, che è sempre riferito a un insieme complesso e
non a singoli dettagli messi in primo piano.
8. Sussistono quindi i presupposti per concedere una misura
cautelare sospensiva e propulsiva. Sospesi i provvedimenti
impugnati, vi è l’obbligo per la Soprintendenza di
riesaminare la domanda di autorizzazione paesistica, nel
rispetto delle indicazioni sopra esposte, e garantendo il
contraddittorio con i ricorrenti. Il riesame è diretto in
particolare a definire eventuali misure di mitigazione
dell’intervento edilizio. Il termine ragionevole per tale
adempimento è fissato in 120 giorni dal deposito della
presente ordinanza. |
EDILIZIA PRIVATA:
Tar Sicilia. Il sentiero privato può essere chiuso.
Se il comune vuole impedire a un privato di sbarrare
l'accesso pedonale alla spiaggia deve dimostrare l'esistenza
di una servitù di uso pubblico. Non basta avere iscritto la
strada nella toponomastica locale.
Lo ha evidenziato il TAR
Sicilia-Palermo, Sez. II, con la
sentenza 01.04.2016 n. 836.
Un comune siciliano ha negato la licenza per l'installazione
di un cancello in una stradella utilizzata per l'accesso
alle spiagge pubbliche. Contro questa determinazione gli
interessati hanno proposto con successo ricorso al collegio.
La legge regionale n. 37/1985 che si occupa di ripristino
degli accessi al mare chiusi abusivamente dai privati non è
applicabile trattandosi in questo caso di un'area privata,
specifica innanzitutto la sentenza. E neppure il comune ha
provato l'esistenza di una servitù di uso pubblico sulla
strada in questione.
L'indicazione del tracciato pedonale nella toponomastica
comunale riveste una funzione puramente dichiarativa,
specificano i giudici. Non basta ad accertare l'uso pubblico
(articolo ItaliaOggi del 26.04.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Spetta al comune dimostrare l'uso pubblico della strada di
accesso alla spiaggia che insiste su una proprietà privata.
E’ quasi superfluo precisare che
affinché un qualsiasi bene possa essere destinato a un uso
pubblico è necessario che rientri nel patrimonio pubblico.
Ove l’amministrazione ravvisi la necessità di acquisire un
bene privato nel proprio patrimonio, per la soddisfazione di
un interesse pubblico, la legge predispone gli strumenti
idonei affinché la P.A. possa acquisire quel bene.
---------------
L'asservimento a uso pubblico di una strada privata, in
forza del quale essa diviene soggetta alla normale
disciplina stradale, può derivare o dall'inserimento nella
rete viaria cittadina riconducibile alla volontà del
proprietario che si manifesta nel mutamento della situazione
dei luoghi, come può accadere in occasione di convenzioni
urbanistiche, di nuove edificazioni o di espropriazioni,
oppure da un immemorabile uso pubblico che va inteso come
comportamento della collettività contrassegnato dalla
convinzione -pur essa palesata da una situazione dei luoghi
che non consente di distinguere la strada in questione da
una qualsiasi altra strada della rete viaria pubblica- di
esercitare il diritto di uso della strada.
---------------
Quanto alla identificazione della strada nella toponomastica
comunale va precisato che tale iscrizione non ha natura
costitutiva e portata assoluta, ma riveste funzione
puramente dichiarativa della pretesa del Comune, ponendo una
semplice presunzione di pubblicità dell'uso, superabile con
la prova contraria della natura della strada e
dell'inesistenza di un diritto di godimento da parte della
collettività.
---------------
... per l'annullamento del diniego della domanda di
autorizzazione n. 31930 del 15.11.2013, per la collocazione
di un cancello a chiusura della stradella sul terreno, sito
in C.da San Giorgio, in catasto al foglio 150, p.lla 108.
...
Il ricorso è fondato.
E’ quasi superfluo precisare che, affinché un qualsiasi bene
possa essere destinato a un uso pubblico, è necessario che
rientri nel patrimonio pubblico.
Ove l’amministrazione ravvisi la necessità di acquisire un
bene privato nel proprio patrimonio, per la soddisfazione di
un interesse pubblico, la legge predispone gli strumenti
idonei affinché la P.A. possa acquisire quel bene.
Sulla base di tali principi è evidente che il Comune
resistente può imporre l’apertura al pubblico della
stradella per cui è causa solo in quanto il terreno su cui
insiste rientri nel suo patrimonio; diversamente, ove ne
ravvisi la necessità, dovrà prima espropriare la stradella
ai suoi attuali proprietari.
In questa logica si muove la previsione dell’art. 12 della
legge regionale n. 37/1985, laddove prevede, per un verso
l’apertura al pubblico delle strade di accesso al mare
rientranti nel patrimonio pubblico che sono state
abusivamente chiuse da privati e, per altro verso,
stabilisce che, in sede di pianificazione urbanistica, siano
individuati gli accessi al mare necessari a soddisfare
l’interesse della collettività, al fine di poterne disporre
l’espropriazione e, quindi, trasformarli in accessi pubblici
al mare.
Nel caso in esame, parte ricorrente però afferma che la
stradella per cui è causa rientra nel suo patrimonio
personale e il Comune di Sciacca non è stato in grado di
smentire tale circostanza.
Risulta perciò fondato il secondo motivo di ricorso poiché
il Comune resistente ha negato l’autorizzazione rispetto a
un bene che non è pubblico.
Ove l’amministrazione volesse perseguire il proprio
interesse all’apertura al pubblico della strada per cui è
causa, avrebbe dovuto provarne la natura pubblica
–circostanza neanche affermata nel provvedimento impugnato–
ovvero disporne l’espropriazione nei modi e nei tempi di
legge.
Né il Comune ha provato l’esistenza di una servitù di uso
pubblico sulla strada in questione.
Va, a tal proposito, richiamato l’incontroverso orientamento
giurisprudenziale secondo il quale l'asservimento a uso
pubblico di una strada privata, in forza del quale essa
diviene soggetta alla normale disciplina stradale, può
derivare o dall'inserimento nella rete viaria cittadina
riconducibile alla volontà del proprietario che si manifesta
nel mutamento della situazione dei luoghi, come può accadere
in occasione di convenzioni urbanistiche, di nuove
edificazioni o di espropriazioni, oppure da un immemorabile
uso pubblico che va inteso come comportamento della
collettività contrassegnato dalla convinzione -pur essa
palesata da una situazione dei luoghi che non consente di
distinguere la strada in questione da una qualsiasi altra
strada della rete viaria pubblica- di esercitare il diritto
di uso della strada (ex plurimis Cons. di Stato, V,
09.06.2008, n. 2864; 24.05.2007, n. 2618 e 04.02.2004, n.
373).
Ebbene, sulla stradella per la quale è lite il Comune di
Sciacca non ha dimostrato di avere svolto alcun servizio
pubblico di illuminazione, manutenzione, pulizia viaria e
raccolta di rifiuti.
Tale circostanza costituisce, ad avviso del Collegio, indice
inequivocabile del fatto che la strada non è gravata da uso
pubblico, dovendosi ricondurre il passaggio per l’accesso al
mare alla tolleranza dei proprietari, i quali non hanno mai
inteso rinunziare al loro diritto tant’è che hanno chiesto
di potere collocare il cancello, che, peraltro, potrebbe,
ipoteticamente, anche consentire il passaggio pedonale.
Quanto alla identificazione della stradella nella
toponomastica comunale va precisato che tale iscrizione non
ha natura costitutiva e portata assoluta, ma riveste
funzione puramente dichiarativa della pretesa del Comune,
ponendo una semplice presunzione di pubblicità dell'uso,
superabile con la prova contraria della natura della strada
e dell'inesistenza di un diritto di godimento da parte della
collettività (Cons. Stato, V, 01.12.2006; TAR Sicilia,
Palermo, III, 05.12.2012, n. 2545; Cass. civ., sez. un., n.
1624/2010) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 01.04.2016 n. 836 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
valutazione degli abusi edilizi presuppone una visione
complessiva e non atomistica degli interventi posti in
essere, in quanto il pregiudizio arrecato all’assetto
urbanistico deriva non dal singolo intervento ma
dall'insieme delle opere realizzate nel loro contestuale
impatto edilizio.
---------------
Nel caso all’esame la copertura della pompeiana e l’aggiunta
delle strutture metalliche coperte, hanno creato un autonomo
organismo edilizio di rilevanti dimensioni stabilmente
destinato a sala da pranzo del locale che deve pertanto
essere qualificata come nuova opera per consistenza e
funzione di ampliamento del locale dal punto di vista della
volumetria e della superficie utile commerciale.
Infatti, come è stato osservato proprio con riguardo
all’abusiva copertura di strutture del tipo di quella in
esame:
- dal punto di vista tecnico-giuridico la pompeiana, a
prescindere dai materiali usati e dalle concrete categorie
definitorie (porticato, pergolato, gazebo, berceau, dehor),
è caratterizzata dal dover essere una struttura costruttiva
leggera e aperta, la cui copertura (teli, rampicanti, assi
distanziate) deve consentire di fare filtrare l’aria e la
luce, assolvendo a finalità di ombreggiamento e di
protezione nel passaggio o nella sosta delle persone, in
soluzione di continuità con lo spazio circostante e senza
creare interruzione dimensionale dell’ambiente in cui è
installata;
- l’aspetto tipico di essa risiede nella mancanza di pareti
e di una copertura integrale assimilabile ad un tetto o
solaio, che si viene invece a concretizzare con una
copertura che la faccia configurare come volume edilizio;
- la stabile destinazione funzionale a sala da pranzo
comporta lo snaturamento dei caratteri propri della
pompeiana;
- è da escludersi la possibilità di riscontrare precarietà
dell'opera, ai fini dell'esenzione dal permesso di
costruire, quando la medesima sia destinata a soddisfare
bisogni non provvisori attraverso la permanenza nel tempo
della sua funzione.
---------------
Da quanto esposto emerge che l’intervento edilizio è
qualificabile come nuova opera assoggettata al previo
rilascio di un permesso di costruire, che la medesima era
incompatibile con la destinazione agricola dell’area
prevista dallo strumento urbanistico allora vigente, che era
necessario il previo rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica in quanto si tratta di opera che altera
l’aspetto esteriore dell’edificio cui accede e che pertanto
correttamente il Comune ha sanzionato l’abuso con
un’ordinanza di rimozione e ripristino allo stato originario
ed autorizzato dei luoghi.
---------------
... per l'annullamento del provvedimento del Comune di Abano
Terme, a firma del Dirigente del V Settore 17.06.1999 prot.
n. 16032, con cui si ordina alla Società ricorrente,
relativamente al fabbricato ad uso commerciale-residenziale
in Abano Terme, via ... n. 46, di demolire le opere
pretestamente abusive entro il termine di 90 giorni.
...
Il ricorso è infondato e deve essere respinto.
Le censure proposte, che possono essere valutate
unitariamente, si fondano sull’erroneo presupposto che
l’abuso edilizio dovrebbe essere considerato come
consistente nella mera apposizione di un telo di nylon, come
tale qualificabile come opera amovibile, non soggetta al
previo rilascio di un titolo edilizio, o tutt’al più
qualificabile come intervento di manutenzione straordinaria
non sanzionabile con un’ordinanza di demolizione,
irrilevante da un punto di vista urbanistico ed inoltre non
soggetta al previo rilascio di un’autorizzazione
paesaggistica perché costituente un intervento edilizio
minore.
Tale ordine di idee non può essere condiviso.
Come è noto la valutazione degli abusi edilizi presuppone
una visione complessiva e non atomistica degli interventi
posti in essere, in quanto il pregiudizio arrecato
all’assetto urbanistico deriva non dal singolo intervento ma
dall'insieme delle opere realizzate nel loro contestuale
impatto edilizio (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 06.06.2012 n. 3330; Consiglio di Stato, Sez. VI, 12.06.2014,
n. 2985).
Nel caso all’esame la copertura della pompeiana e l’aggiunta
delle strutture metalliche coperte, hanno creato un autonomo
organismo edilizio di rilevanti dimensioni stabilmente
destinato a sala da pranzo del locale che deve pertanto
essere qualificata come nuova opera per consistenza e
funzione di ampliamento del locale dal punto di vista della
volumetria e della superficie utile commerciale (cfr.
Consiglio di Stato, Sez. I, 06.05.2013, n. 1193).
Infatti, come è stato osservato proprio con riguardo
all’abusiva copertura di strutture del tipo di quella in
esame (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 31.10.2013, n.
5265):
- dal punto di vista tecnico-giuridico la pompeiana, a
prescindere dai materiali usati e dalle concrete categorie
definitorie (porticato, pergolato, gazebo, berceau, dehor),
è caratterizzata dal dover essere una struttura costruttiva
leggera e aperta, la cui copertura (teli, rampicanti, assi
distanziate) deve consentire di fare filtrare l’aria e la
luce, assolvendo a finalità di ombreggiamento e di
protezione nel passaggio o nella sosta delle persone, in
soluzione di continuità con lo spazio circostante e senza
creare interruzione dimensionale dell’ambiente in cui è
installata;
- l’aspetto tipico di essa risiede nella mancanza di pareti
e di una copertura integrale assimilabile ad un tetto o
solaio, che si viene invece a concretizzare con una
copertura che la faccia configurare come volume edilizio;
- la stabile destinazione funzionale a sala da pranzo
comporta lo snaturamento dei caratteri propri della
pompeiana;
- è da escludersi la possibilità di riscontrare precarietà
dell'opera, ai fini dell'esenzione dal permesso di
costruire, quando la medesima sia destinata a soddisfare
bisogni non provvisori attraverso la permanenza nel tempo
della sua funzione (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 22.12.2007, n. 6615).
Da quanto esposto emerge che l’intervento edilizio è
qualificabile come nuova opera assoggettata al previo
rilascio di un permesso di costruire, che la medesima era
incompatibile con la destinazione agricola dell’area
prevista dallo strumento urbanistico allora vigente, che era
necessario il previo rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica in quanto si tratta di opera che altera
l’aspetto esteriore dell’edificio cui accede e che pertanto
correttamente il Comune ha sanzionato l’abuso con
un’ordinanza di rimozione e ripristino allo stato originario
ed autorizzato dei luoghi.
Il ricorso in definitiva deve essere respinto (TAR Veneto,
Sez. II,
sentenza 22.03.2016 n. 297 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
realizzazione di interventi edilizi del tutto priva di
titolo comporta una consapevole deviazione dalle regole che
governano l’uso del territorio, sicché sul semplice decorso
del tempo non può fondarsi alcun affidamento.
Stante la natura permanente dell’illecito edilizio e
l’interesse pubblico alla repressione di esso, la
giurisprudenza ha chiarito che l'affidamento può
configurarsi e rendere necessaria una più estesa motivazione
dei provvedimenti sanzionatori solo in presenza di atti o
comportamenti dell'amministrazione dai quali esso possa
effettivamente e attendibilmente trarre fonte.
----------------
7c. Con il terzo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano la
violazione di varie norme e principi, nonché eccesso di
potere sotto diversi profili, in sostanza dolendosi della
mancanza di una motivazione esaustiva circa il (preteso)
affidamento ingenerato dal lungo periodo di inerzia del
Comune di Lucca.
In realtà, come più volte sottolineato, gli abusi constatati
dal Nucleo di Polizia edilizia nel 2009 risalgono (per
ammissione dei ricorrenti stessi e dei periti da loro
incaricati) al periodo 2001–2004, sicché manca in radice
l’elemento tempo.
Quanto all’affidamento, la realizzazione di interventi
edilizi del tutto priva di titolo comporta una consapevole
deviazione dalle regole che governano l’uso del territorio,
sicché sul semplice decorso del tempo non può fondarsi alcun
affidamento. Stante la natura permanente dell’illecito
edilizio e l’interesse pubblico alla repressione di esso, la
giurisprudenza ha chiarito che l'affidamento può
configurarsi e rendere necessaria una più estesa motivazione
dei provvedimenti sanzionatori solo in presenza di atti o
comportamenti dell'amministrazione dai quali esso possa
effettivamente e attendibilmente trarre fonte (Consiglio di
Stato, IV, 13.06.2013, n. 3182)
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 21.03.2016 n. 515 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Effetto acquisitivo del manufatto abusivo.
L’effetto acquisitivo si ricollega
automaticamente al decorso infruttuoso del termine di
novanta giorni entro il quale le opere abusive devono essere
demolite. Tuttavia, tale effetto, ai sensi dell’art. 31
T.U.ED., presuppone che l’area da acquisire sia stata
individuata.
Ciò deve avvenire nell’atto di avvio del procedimento di
acquisizione gratuita, con assegnazione all’interessato di
un termine per fare le proprie verifiche e valutazioni e per
presentare eventuali osservazioni; deve infatti consentirsi
all’interessato di verificare il rispetto dei limiti
dimensionali dell’acquisizione gratuita fissati dal comma
terzo dell’art. 31 D.P.R. 380/2001, in cui è stabilito che
il provvedimento di acquisizione può avere per oggetto solo
il bene e l’area di sedime, nonché l’area necessaria,
secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla
realizzazione di opere analoghe a quella abusiva.
La disposizione di cui trattasi precisa che l’area acquisita
non può comunque essere superiore a dieci volte la
complessiva superficie utile abusivamente costruita e su
tutti tali aspetti l’interessato deve poter interloquire con
l’amministrazione in sede procedimentale, contribuendo con
opportune osservazioni e/o produzioni documentali
all’esercizio da parte della stessa di un potere connotato
da discrezionalità tecnica.
Per altro, è soltanto grazie all’indicazione dell’area da
acquisire che il privato può effettuare consapevolmente la
scelta tra demolire il manufatto abusivo, sostenendone i
costi ma conservando la proprietà dell’area, oppure
abbandonare definitivamente il fabbricato e l’area di sedime.
----------------
8b. Con la seconda e la terza censura dei motivi aggiunti in
esame si deducono i vizi di violazione del giudicato
cautelare formatosi sull’ordinanza di questo Tar n. 79/2013
e di violazione delle disposizioni in materia di
acquisizione gratuita dell’area al patrimonio comunale.
Come si è già avuto modo di esporre, con la predetta
ordinanza è stata respinta l’istanza cautelare sulla base
della considerazione che il danno grave e irreparabile
(collegato all’acquisizione dell’area) sarebbe derivato,
eventualmente, da successivi atti dell’amministrazione, non
già dall’ordinanza demolitoria che non specificava l’area da
acquisire.
I ricorrenti sostengono che la nota d’avvio del procedimento
di acquisizione –in cui il Comune di Lucca afferma di essere
già proprietario dell’area in quanto il termine assegnato
per ottemperare all’ingiunzione di demolizione è decorso
infruttuosamente– viola il giudicato cautelare (l’ordinanza
più volte richiamata non è stata impugnata) e pertanto deve
considerarsi nullo ai sensi dell’art. 21-septies della legge
n. 241/1990.
Inoltre, le disposizioni che regolano l’acquisizione
gratuita al patrimonio comunale delle opere abusive e
dell’area sarebbero state violate per mancata individuazione
dell’area stessa.
Il Comune resistente osserva, in contrario, che la proprietà
dell’area di sedime dell’opera abusiva viene automaticamente
acquisita per il semplice decorso dei novanta giorni
assegnati per l’esecuzione dell’ingiunzione di demolizione
dell’opera stessa; l’atto dell’amministrazione volto a
quantificare la misura dell’area ha carattere soltanto
ricognitivo e dichiarativo e l’unica contestazione possibile
in tale fase riguarda la misura dell’area acquisita.
Con riguardo alla violazione del giudicato cautelare si
osserva che l’ordinanza n. 79/2013 ha rilevato soltanto
l’assenza del pregiudizio grave e irreparabile, essendo
questo da ricollegare a successive determinazioni
dell’amministrazione volte a individuare l’area da acquisire
e ad accertare l’inottemperanza all’ingiunzione di
demolizione. Tuttavia, una valutazione complessiva del
secondo e del terzo motivo di ricorso induce a ritenere
illegittimo l’operato dell’amministrazione per le ragioni
che saranno subito esposte.
È infatti indubbiamente da condividere la tesi secondo cui
l’effetto acquisitivo si ricollega automaticamente al
decorso infruttuoso del termine di novanta giorni entro il
quale le opere abusive devono essere demolite. Tuttavia,
tale effetto, ai sensi dell’art. 31 T.U.ED., presuppone che
l’area da acquisire sia stata individuata.
Ciò deve avvenire nell’atto di avvio del procedimento di
acquisizione gratuita, con assegnazione all’interessato di
un termine per fare le proprie verifiche e valutazioni e per
presentare eventuali osservazioni; deve infatti consentirsi
all’interessato di verificare il rispetto dei limiti
dimensionali dell’acquisizione gratuita fissati dal comma
terzo dell’art. 31 D.P.R. 380/2001, in cui è stabilito che
il provvedimento di acquisizione può avere per oggetto solo
il bene e l’area di sedime, nonché l’area necessaria,
secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla
realizzazione di opere analoghe a quella abusiva (TAR
Piemonte, I, n. 107/2013).
La disposizione di cui trattasi precisa che l’area acquisita
non può comunque essere superiore a dieci volte la
complessiva superficie utile abusivamente costruita e su
tutti tali aspetti l’interessato deve poter interloquire con
l’amministrazione in sede procedimentale, contribuendo con
opportune osservazioni e/o produzioni documentali
all’esercizio da parte della stessa di un potere connotato
da discrezionalità tecnica (TAR Lazio-Roma, I, 04.04.2001,
n. 2918).
Per altro, è soltanto grazie all’indicazione dell’area da
acquisire che il privato può effettuare consapevolmente la
scelta tra demolire il manufatto abusivo, sostenendone i
costi ma conservando la proprietà dell’area, oppure
abbandonare definitivamente il fabbricato e l’area di sedime
(in tal senso, TAR Lecce, sez. III, 03.02.2010, n. 435; TAR
Piemonte, sent. su menzionata).
È chiaro che nel caso in esame nulla di tutto ciò è
accaduto. E quindi, se è senz’altro vero che l’ordinanza di
demolizione è legittima anche in mancanza di individuazione
dell’area da acquisire e che l’accertamento
dell’inottemperanza ha carattere meramente ricognitivo, è
altrettanto vero che presupposto dell’automatico effetto
acquisitivo è la regolarità del procedimento, anche sotto il
profilo partecipativo.
In altri termini, il destinatario della sanzione demolitoria
deve essere posto nelle condizioni di scegliere a ragion
veduta fra l’ottemperanza e l’inottemperanza
all’ingiunzione, con piena consapevolezza delle conseguenze
dell’una e dell’altra opzione; ed è evidente che tale
consapevolezza non può ravvisarsi nelle situazioni in cui
l’individuazione dell’area da acquisire non sia avvenuta né
al momento dell’ordinanza di demolizione né successivamente.
In conclusione, la nota impugnata è illegittima per le
assorbenti ragioni testé indicate e va di conseguenza
annullata
(tratto da www.lexambiente.it - TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 21.03.2016 n. 515 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
È ammissibile l'affidamento diretto di un
servizio a una società mista.
Il Consiglio di Stato, nella pronuncia in commento, affronta
l’annoso tema della differenza tra la società in house e la
società mista.
Nello specifico i giudici di Palazzo Spada stabiliscono
l'ammissibilità dell'affidamento di un servizio pubblico
(nel caso di specie per l'affidamento del servizio di igiene
urbana) ad una società mista a condizione che si sia svolta
in un'unica gara per la scelta del socio e per
l'individuazione del determinato servizio da svolgere.
La differenza tra la società in house e la società mista
consiste, secondo i giudici amministrativi, nel fatto che la
prima agisce come un vero e proprio organo
dell'amministrazione dal punto di vista sostanziale, mentre
la diversa figura della società mista a partecipazione
pubblica, in cui il socio privato è scelto con una procedura
ad evidenza pubblica, presuppone la creazione di un modello
nuovo, nel quale interessi pubblici e privati trovino
convergenza.
In quest'ultimo caso, l'affidamento di un servizio ad una
società mista è ritenuto ammissibile a condizione che si sia
svolta una unica gara per la scelta del socio e
l'individuazione del determinato servizio da svolgere,
delimitato in sede di gara sia temporalmente che con
riferimento all'oggetto.
La Corte di Giustizia ha, infatti, ritenuto l'ammissibilità
dell'affidamento di servizi a società miste, a condizione
che si svolga in unico contesto una gara avente ad oggetto
la scelta del socio privato (socio non solo azionista, ma
soprattutto operativo) e l'affidamento del servizio già
predeterminato con obbligo della società mista di mantenere
lo stesso oggetto sociale durante l'intera durata della
concessione.
La chiave di volta del sistema è rappresentato dal fatto che
l'oggetto sia predeterminato e non genericamente descritto,
poiché altrimenti, è evidente, sarebbe agevole l'aggiramento
delle regole pro-competitive a tutela della concorrenza.
L'affidamento diretto di un servizio a una società mista non
è incompatibile con il diritto comunitario, a condizione che
la gara per la scelta del socio privato della società
affidataria sia stata espletata nel rispetto dei principi di
parità di trattamento, di non discriminazione e di
trasparenza.
Inoltre, i criteri di scelta del socio privato si devono
riferire non solo al capitale da quest’ultimo conferito, ma
anche alle capacità tecniche di tale socio e alle
caratteristiche della sua offerta in considerazione delle
prestazioni specifiche da fornire, così da potersi inferire
che la scelta del concessionario risulti indirettamente da
quella del socio medesimo (commento tratto da
www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 15.03.2016 n. 1028 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Con
riguardo alla risalenza nel tempo della situazione di
pericolo, il Consiglio di Stato ha optato per l'orientamento
secondo cui non è opportuno distinguere tra i tipi di
urgenza, a seconda che la stessa consista in una situazione
preesistente oppure in un evento nuovo e imprevedibile, dato
che una simile distinzione appare indifferente ai fini della
tutela dell’interesse pubblico (cfr. Cons. di Stato, Sez. V,
29.04.1991, n. 700, a tenore della quale “il fatto che non
si sia ancora provveduto non vuol dire necessariamente che
l’urgenza non ci sia, ma piuttosto che si doveva provvedere
prima o che la situazione si è aggravata», di tal che
«escludere in radice, in questi casi, l’emanabilità di
ordinanze di necessità e urgenza può significare esporre
l’interesse pubblico ad un’ulteriore, forse definitiva,
compromissione”, fermo restando ovviamente il sindacato
giurisdizionale sull’eccesso di potere in cui potrebbe
incorrere l’Amministrazione).
Anche le Sezioni unite della Corte di Cassazione, nello
stesso senso, ammettono che le ordinanze contingibili e
urgenti possono essere adottate anche al solo scopo,
preventivo, di attenuare le probabilità del verificarsi di
pregiudizi ulteriori, in relazione ad una situazione di
pericolo preesistente, anziché per scongiurare incombenti
pericoli derivanti da eventi eccezionali.
---------------
I provvedimenti contingibili ed urgenti del tipo di quelli
in esame rispondono alla necessità di far fronte ad una
situazione di pericolo non altrimenti fronteggiabile, senza
che possa rilevare l’esatta individuazione delle cause che
hanno determinato la situazione su cui occorre intervenire,
potendo al più queste ultime rilevare ai fini della
allocazione delle responsabilità nelle sedi deputate
all’espletamento di tale accertamento.
---------------
Con il primo
motivo parte ricorrente afferma che la problematica delle
infiltrazioni sarebbe risalente e riconducibile a
comportamenti inerti e negligenti proprio della resistente
parte comunale che avrebbe omesso di svolgere le attività di
manutenzione e ripristino più volte sollecitate dalla -OMISSIS--OMISSIS-
e incombenti sull’Amministrazione comunale
Il motivo è infondato.
Giova rammentare che con riguardo alla risalenza nel tempo
della situazione di pericolo, sono venuti a delinearsi due
orientamenti: secondo una prima impostazione, il
carattere contingibile delle ordinanze presuppone che esse
si riferiscano ad una situazione nuova e imprevedibile,
l’altra impostazione, invece, ritiene irrilevante la
circostanza che la situazione di fatto esista già da tempo,
considerato che anzi il ritardo può soltanto accentuare
l’urgenza, anziché escluderla (cfr: da ultimo, TAR Puglia,
Lecce, sez. II, 22.12.2015, n. 3673).
Il Consiglio di Stato ha optato per il secondo orientamento,
sostenendo che non è opportuno distinguere tra i tipi di
urgenza, a seconda che la stessa consista in una situazione
preesistente oppure in un evento nuovo e imprevedibile, dato
che una simile distinzione appare indifferente ai fini della
tutela dell’interesse pubblico (cfr. Cons. di Stato, Sez. V,
29.04.1991, n. 700, a tenore della quale “il fatto che
non si sia ancora provveduto non vuol dire necessariamente
che l’urgenza non ci sia, ma piuttosto che si doveva
provvedere prima o che la situazione si è aggravata», di tal
che «escludere in radice, in questi casi, l’emanabilità di
ordinanze di necessità e urgenza può significare esporre
l’interesse pubblico ad un’ulteriore, forse definitiva,
compromissione”, fermo restando ovviamente il sindacato
giurisdizionale sull’eccesso di potere in cui potrebbe
incorrere l’Amministrazione).
Anche le Sezioni unite della Corte di Cassazione, nello
stesso senso, ammettono che le ordinanze contingibili e
urgenti possono essere adottate anche al solo scopo,
preventivo, di attenuare le probabilità del verificarsi di
pregiudizi ulteriori, in relazione ad una situazione di
pericolo preesistente, anziché per scongiurare incombenti
pericoli derivanti da eventi eccezionali (Cass. civ., Sez.
un., 17.01.2002, n. 490).
Deve quindi concludersi che, nel caso di specie, la
circostanza che la ricorrente avesse formulato nel tempo
diverse doglianze concernenti la problematica delle
infiltrazioni non vale di per sé stessa ad escludere la
sussistenza dei presupposti per l’adozione dell’ordinanza
impugnata.
Considerazioni sostanzialmente analoghe possono essere
ribadite con riguardo alla seconda censura secondo cui le
infiltrazioni d’acqua che hanno dato origine all’ordinanza
di sgombero sarebbero dipendenti dall’inerzia
dell’Amministrazione.
Tale circostanza deve ritenersi irrilevante ai fini
dell’esercizio del contestato potere extra ordinem,
atteso che i provvedimenti contingibili ed urgenti del tipo
di quelli in esame rispondono alla necessità di far fronte
ad una situazione di pericolo non altrimenti fronteggiabile
(cfr: Consiglio Stato, sez. VI, 16.04.2003, n. 1990), senza
che possa rilevare l’esatta individuazione delle cause che
hanno determinato la situazione su cui occorre intervenire,
potendo al più queste ultime rilevare ai fini della
allocazione delle responsabilità nelle sedi deputate
all’espletamento di tale accertamento (TAR Molise,
sentenza 11.03.2016 n. 122 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Lottizzazione senza condono.
Il condono copre le opere edilizie contro legge e non anche
la lottizzazione abusiva. È così che se il reato è
prescritto ma la confisca risulta confermata, il comune
ordina al proprietario di consegnargli l'immobile: la
sanatoria delle opere, infatti, è compatibile con la misura
ablativa penale ma soltanto con l'eventuale autorizzazione a
lottizzare concessa in sanatoria l'ente locale può
rinunciare ad acquisire le aree al patrimonio indisponibile
comunale.
È quanto emerge dalla
sentenza
10.03.2016 n. 668, pubblicata
dal TAR Sicilia-Palermo, Sez. II.
L'amministrazione si convince a non
demolire i fabbricati. È evidente che l'autorizzazione a
lottizzare in sanatoria non può estinguere il reato, ma
dimostra soltanto ex post la conformità della lottizzazione
agli strumenti urbanistici.
E nella specie non conta che sia
intervenuta nelle more la concessione in sanatoria per le
opere edilizie realizzate sui singoli lotti: il titolo
abilitativo che è sopravvenuto, infatti, legittima soltanto
il manufatto interessato, ma non comporta alcuna valutazione
di conformità di tutta la lottizzazione rispetto alle scelte
generali di pianificazione urbanistica; la revocabilità del
provvedimento ablatorio consegue invece soltanto
all'adozione di un provvedimento esplicito che «legittima»
la lottizzazione, emesso dall'autorità amministrativa
competente.
Nel nostro caso il comune rispetta l'articolo 19 della legge
47/1985 che vincola l'ente ad acquisire al proprio
patrimonio le opere realizzate in assenza di concessione
edilizia e a seguito di lottizzazione abusiva, benché
oggetto di condono
(articolo ItaliaOggi del 30.04.2016).
---------------
MASSIMA
Nel merito, re melius perpensa rispetto alla fase
cautelare, ritiene però il Collegio che il ricorso sia
infondato.
Invero, per come emerge da un più attento esame della
documentazione in atti, nel caso di specie il reato
contestato ai ricorrenti era quello di lottizzazione abusiva
e non di mera costruzione di opere abusive.
La confisca disposta dal giudice penale è quindi
disciplinata dall’art. 19 l. n. 47/1985, applicabile
ratione temporis, a norma del quale: “La sentenza
definitiva del giudice penale che accerta che vi è stata
lottizzazione abusiva, dispone la confisca dei terreni
abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente
costruite. Per effetto della confisca i terreni sono
acquisiti di diritto e gratuitamente al patrimonio del
Comune nel cui territorio è avvenuta la lottizzazione
abusiva. La sentenza definitiva è titolo per la immediata
trascrizione nei registri immobiliari.”
Secondo il prevalente orientamento della giurisprudenza, che
il Collegio ritiene di condividere:
- in tema di lottizzazione abusiva, la
sanatoria per condono edilizio delle costruzioni abusive
eseguite non è incompatibile con il provvedimento di
confisca delle aree lottizzate, esplicando influenza a tali
effetti solo l'eventuale autorizzazione a lottizzare
concessa in sanatoria. Invero, solo questa, pur non
estinguendo il reato di lottizzazione abusiva, dimostra ex
post la conformità della lottizzazione agli strumenti
urbanistici e la volontà dell'amministrazione di rinunciare
all’acquisizione delle aree al patrimonio indisponibile
comunale;
- il rilascio della concessione in sanatoria per le opere
edilizie realizzate sui singoli lotti non è incompatibile
con la confisca del terreno lottizzato, poiché il titolo
abilitante sopravvenuto legittima soltanto l'opera edilizia
che ne costituisce l'oggetto, ma non comporta alcuna
valutazione di conformità di tutta la lottizzazione alle
scelte generali di pianificazione urbanistica;
- la revocabilità del provvedimento ablatorio consegue solo
all'adozione di un provvedimento esplicito da parte della
competente Autorità amministrativa autorizzatorio della
lottizzazione
(cfr., in termini, da ultimo, Cass. pen. 29/10/2015, n.
43591).
Nel caso di specie risulta che il Comune ha concesso la
sanatoria per le opere abusive, ma non per la lottizzazione.
Segue da ciò che l’Amministrazione ha operato legittimamente
in base al disposto di cui all’art. 19 l. n. 47/1985 che lo
vincolava ad acquisire al proprio patrimonio le opere
realizzate in assenza di concessione edilizia e a seguito di
lottizzazione abusiva, ancorché oggetto di sanatoria.
Il ricorso va quindi rigettato. |
VARI:
L'esame patente non è da rifare.
Restituzione del titolo dopo tre anni.
All'automobilista è restituita la patente ma il ministero
dei Trasporti ordina che l'interessato debba rifare l'esame.
E invece no: il provvedimento è annullato perché
l'amministrazione non spiega il motivo che impone la
revisione. Il fatto che l'interessato sia rimasto per tre
anni senza poter guidare, e dunque potrebbe avere perso
molto smalto al volante, emerge solo dalla relazione
depositata in sede istruttoria per ordine del Tar. E di per
sé non basta per rimandare a scuola guida il titolare della
licenza.
Così la
sentenza
18.02.2016 n. 2113 della Sez. III-ter del TAR
Lazio-Roma.
La comunicazione con cui la prefettura restituisce la
patente ritirata non fa cenno ad alcun dubbio sulle residue
capacità tecniche di conduzione dei veicoli in capo
all'interessato. Ed è stato il giudice a ordinare che fosse
depositata la nota dell'ufficio del governo oltre che la
dettagliata relazione sulle circostanze che hanno portato
alla revisione della patente.
Si configura il difetto di motivazione nel provvedimento che
ha appiedato l'automobilista: la necessità di rifare l'esame
è indicata rispetto all'idoneità tecnica alla guida e non
anche ai requisiti psico-fisici; se l'amministrazione avesse
comunicato l'avvio del procedimento l'automobilista avrebbe
potuto difendersi meglio in giudizio; non conta che la
commissione medica locale abbia dichiarato l'interessato non
idoneo per tutte le categorie di patenti: il titolare della
patente conserva l'interesse a impugnare il provvedimento
perché potrebbe comunque ricevere l'ok in seguito
(articolo ItaliaOggi del 28.04.2016). |
EDILIZIA PRIVATA: Sebbene
a seguito della presentazione della DIA non si formi alcun
provvedimento tacito, una volta spirato il termine per
l’esercizio del potere inibitorio, l’amministrazione può
ancora intervenire per contrastare l’attività edilizia non
conforme alla vigente normativa, esercitando un potere di
autotutela sui generis (sui generis proprio perché non ha ad
oggetto un provvedimento di primo grado) che condivide con
l’ordinario potere di autotutela i principi che ne governano
l’esercizio.
E’ pertanto indispensabile, affinché tale potere possa dirsi
legittimamente esercitato, che, ai sensi dell’art. 21-nonies
della legge n. 241 del 1990, l’autorità amministrativa invii
all’interessato la comunicazione di avviso di avvio del
procedimento, che l’atto di autotutela intervenga
tempestivamente, e che in esso si dia conto delle prevalenti
ragioni di interesse pubblico concrete ed attuali, diverse
da quelle al mero ripristino della legalità violata, che
depongono per la sua adozione, tenendo in considerazione gli
interessi dei destinatari e dei controinteressati.
---------------
28. La giurisprudenza ritiene che, sebbene a seguito della
presentazione della DIA non si formi alcun provvedimento
tacito, una volta spirato il termine per l’esercizio del
potere inibitorio, l’amministrazione possa ancora
intervenire per contrastare l’attività edilizia non conforme
alla vigente normativa, esercitando un potere di autotutela
sui generis (sui generis proprio perché non ha ad oggetto un
provvedimento di primo grado) che condivide con l’ordinario
potere di autotutela i principi che ne governano l’esercizio
(cfr. Consiglio di Stato, ad. plen., 29.07.2011 n. 15).
29. E’ pertanto indispensabile, affinché tale potere possa
dirsi legittimamente esercitato, che, ai sensi dell’art.
21-nonies della legge n. 241 del 1990, l’autorità
amministrativa invii all’interessato la comunicazione di
avviso di avvio del procedimento, che l’atto di autotutela
intervenga tempestivamente, e che in esso si dia conto delle
prevalenti ragioni di interesse pubblico concrete ed
attuali, diverse da quelle al mero ripristino della legalità
violata, che depongono per la sua adozione, tenendo in
considerazione gli interessi dei destinatari e dei
controinteressati
(TAR Lombardia-Milano, sez. II,
sentenza 18.02.2016 n. 355 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
costruttore, quale diretto responsabile dell'opera, prima di
iniziare i lavori ha il dovere di controllare che siano
state richieste e rilasciate le prescritte autorizzazioni.
L’art. 29, primo comma, del D.P.R.
06.06.2001, n. 380 dispone che: <<Il titolare del permesso
di costruire, il committente e il costruttore sono
responsabili, ai fini e per gli effetti delle norme
contenute nel presente capo, della conformità delle opere
alla normativa urbanistica, alle previsioni di piano nonché,
unitamente al direttore dei lavori, a quelle del permesso e
alle modalità esecutive stabilite dal medesimo. Essi sono,
altresì, tenuti al pagamento delle sanzioni pecuniarie e
solidalmente alle spese per l'esecuzione in danno, in caso
di demolizione delle opere abusivamente realizzate, salvo
che dimostrino di non essere responsabili dell'abuso>>.
Coerentemente con la finalità di assicurare il rispetto
della normativa edilizia (coinvolgendo nella responsabilità
i vari soggetti che vengono in rilievo), la definizione
legislativa di costruttore è rivolta ad ogni soggetto che,
attraverso la propria opera, abbia concorso alla
realizzazione dell’opera abusiva.
In tal senso, la legge ha riguardo all’assuntore dei lavori
(ossia a colui che ha assolto all’incarico di costruire il
manufatto o di eseguirvi opere edili), tenuto a verificare
la conformità del proprio operato alle disposizioni di legge
e regolamentari in materia.
Tale evidenza è stata rimarcata in giurisprudenza laddove:
“Secondo quanto disposto dal D.P.R. n. 380 del 2001, art.
29, anche l'assuntore dei lavori, indicato come costruttore,
è responsabile della conformità delle opere alla normativa
urbanistica, alle previsioni di piano nonché, unitamente al
direttore dei lavori, a quelle del permesso e alle modalità
esecutive stabilite dal medesimo. Si è pertanto specificato
che il costruttore, quale diretto responsabile dell'opera,
prima di iniziare i lavori, ha il dovere di controllare che
siano state richieste e rilasciate le prescritte
autorizzazioni, (…) perché la responsabilità del costruttore
trova il suo fondamento nella violazione dell'obbligo,
imposto dalla legge, di osservare le norme in materia
urbanistica-edilizia".
---------------
... per l'annullamento dell'ingiunzione di demolizione del
Responsabile del Settore Urbanistica n. 144 del 18.12.2008,
nei confronti della Società ricorrente nonché degli
ulteriori soggetti individuati in essa e nel contestuale
diniego di condono.
...
1.- Con l’impugnato provvedimento sono state respinte tre
domande di condono edilizio del 15/11/2014 ed è stata
ingiunta “la demolizione dell’intero fabbricato composto
da 4 piani oltre il terrapieno, delle ulteriori tettoie e
gazebi realizzati sui terrazzi e dei garage lungo Via C.,
realizzati in totale difformità dall’autorizzazione n. 81/99
ed in assenza di permesso di costruire e di nulla osta
BB.AA., sopra dettagliatamente descritti, sull’area sita
alla Via C. n. 102, individuati in catasto al foglio di
mappa n. 21 particella n. 308, 792 e 793”.
L’ingiunzione di demolizione è stata formulata (oltre che
nei confronti dei committenti dei lavori e comproprietari
del bene) anche nei riguardi della Società ricorrente, “nella
qualità di impresa esecutrice” (ed, altresì, dei
direttori dei lavori).
1.1- Ciò posto, deve essere disattesa la censura con cui la
Società ricorrente sostiene che non poteva essere
considerata destinataria dell’ordine di demolizione.
Si fa leva sulla considerazione secondo cui il T.U. edilizia
pone in rilievo la figura del “costruttore”, senza
ulteriore specificazione e non potendo ricomprendervi
l’imprenditore nel campo dell’edilizia, che va più
propriamente definito appaltatore (si afferma quindi che,
per “costruttore”, deve intendersi il soggetto che
prometta in vendita un immobile da costruire, secondo
l’accezione adoperata dall’art. 1, primo comma, lett. b),
del d.lgs. n. 122/2005).
La tesi è priva di pregio.
L’art. 29, primo comma, del D.P.R. 06.06.2001, n. 380
dispone che: <<Il titolare del permesso di costruire, il
committente e il costruttore sono responsabili, ai fini e
per gli effetti delle norme contenute nel presente capo,
della conformità delle opere alla normativa urbanistica,
alle previsioni di piano nonché, unitamente al direttore dei
lavori, a quelle del permesso e alle modalità esecutive
stabilite dal medesimo. Essi sono, altresì, tenuti al
pagamento delle sanzioni pecuniarie e solidalmente alle
spese per l'esecuzione in danno, in caso di demolizione
delle opere abusivamente realizzate, salvo che dimostrino di
non essere responsabili dell'abuso>>.
Coerentemente con la finalità di assicurare il rispetto
della normativa edilizia (coinvolgendo nella responsabilità
i vari soggetti che vengono in rilievo), la definizione
legislativa di costruttore è rivolta ad ogni soggetto che,
attraverso la propria opera, abbia concorso alla
realizzazione dell’opera abusiva.
In tal senso, la legge ha riguardo all’assuntore dei lavori
(ossia a colui che ha assolto all’incarico di costruire il
manufatto o di eseguirvi opere edili), tenuto a verificare
la conformità del proprio operato alle disposizioni di legge
e regolamentari in materia.
Tale evidenza è stata rimarcata in giurisprudenza [cfr., di
recente, Cass. pen., Sez. III, 22.04.2015 n. 16802: “Secondo
quanto disposto dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 29, anche
l'assuntore dei lavori, indicato come costruttore, è
responsabile della conformità delle opere alla normativa
urbanistica, alle previsioni di piano nonché, unitamente al
direttore dei lavori, a quelle del permesso e alle modalità
esecutive stabilite dal medesimo. Si è pertanto specificato
che il costruttore, quale diretto responsabile dell'opera,
prima di iniziare i lavori, ha il dovere di controllare che
siano state richieste e rilasciate le prescritte
autorizzazioni, (…) perché la responsabilità del costruttore
trova il suo fondamento nella violazione dell'obbligo,
imposto dalla legge, di osservare le norme in materia
urbanistica-edilizia (così Sez. 3, n. 860 del 25/11/2004
(dep. 2005), Cima, Rv. 230663)”].
Nella specie, non è contestato che la Società ricorrente
avesse assunto l’incarico di eseguire i lavori, portandoli a
compimento, in virtù della comunicazione d’inizio lavori
prot. n. 18652 del 14/12/2000, richiamata nel provvedimento
impugnato (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 18.11.2015 n. 5306 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' consolidata in giurisprudenza l’affermazione
per cui dall’abusività dell’opera scaturisce con carattere
vincolato l’ordine di demolizione, che in ragione di tale
sua natura non esige una specifica motivazione o la
comparazione dei contrapposti interessi, senza che assuma
rilievo il lasso di tempo intercorso, non potendo ammettersi
la conservazione di una situazione “contra legem”.
---------------
... per l'annullamento dell'ingiunzione di demolizione del
Responsabile del Settore Urbanistica n. 144 del 18.12.2008,
nei confronti della Società ricorrente nonché degli
ulteriori soggetti individuati in essa e nel contestuale
diniego di condono.
...
1.2- Anche le ulteriori censure vanno respinte.
Giova premettere che il ricorso promosso da alcuni dei
proprietari avverso lo stesso provvedimento è stato respinto
da questa Sezione con sentenza del 21.07.2015 n. 3829.
Alla stregua di quanto già statuito in quella pronuncia,
vanno disattesi i rilievi critici formulati dalla ricorrente
in ordine all’applicazione, nella specie, dell’art. 31 del
D.P.R. n. 380/2001.
L’accertamento compiuto dal Comune ha infatti verificato
che: “Dal confronto dei grafici e dei rilievi fotografici
allegati all’autorizzazione 81/99, con un esame visivo
dell’attuale stato dei luoghi si rileva una totale
difformità del fabbricato realizzato rispetto alla predetta
autorizzazione edilizia” (cfr. pag. 2 del
provvedimento).
Nello stesso provvedimento sono di seguito descritte le
modifiche apportate, riguardanti:
- i prospetti di via C. e via Suor L.R. (che presentano,
rispettivamente, 4 piani oltre il terrapieno e 3 livelli
fuori terra), da cui “è rilevabile la modifica delle
quote dei solai d’interpiano”;
- un ulteriore piano in ampliamento al vano preesistente in
copertura e un aumento di superficie e volume al lato sud al
secondo impalcato;
- l’aumento di unità abitative;
- un manufatto in c.a. lungo via C. con quattro aperture,
adibito presumibilmente a deposito/garage;
- la completa modifica dei prospetti e della sagoma in
conseguenza delle variazioni delle quote dei solai e
dell’ulteriore piano realizzato in copertura;
- la presenza di tettoie in legno e ferro su vari lati;
- la sistemazione dell’area di pertinenza e di quella
adiacente, con percorsi pavimentati, scale di collegamento
tra le quote e arredo giardino per le unità abitative.
Risulta da ciò palese la realizzazione di un organismo
totalmente diverso dal fabbricato preesistente (per il quale
era stata rilasciata l’autorizzazione n. 81/99, per
interventi di manutenzione straordinaria e restauro
conservativo), tenendo conto che:
- l’edificio era “composto da terrapieno di altezza 3.00
mt, piano terra e primo piano, nonché un vano di circa 30
mq. sul lato nord ovest prospiciente via Capodivilla al
piano secondo” (cfr. il provvedimento impugnato);
- i lavori di cui alla citata autorizzazione n. 81/99
consistevano “principalmente nella demolizione e
ricostruzione dei solai, senza modifiche dei prospetti,
senza aumenti di volumetrie, superficie e numero delle unità
immobiliari” (cfr. ancora il provvedimento impugnato).
La veridicità dell’accertamento (debitamente effettuato
dall’U.T.C., dotato di specifiche competenze) non è scalfita
dalle deduzioni della parte ricorrente, mostrandosi aderente
alla realtà delle cose ed immune dai vizi di legittimità
dedotti la ricostruzione dei presupposti di fatto, compiuta
dal Comune resistente ed ampiamente illustrata nella congrua
motivazione che correda il provvedimento impugnato.
In particolare, si palesa l’avvenuta realizzazione di due
sopraelevazioni a fini residenziali, di mq. 138 e mq. 135,
con incremento dunque dei volumi e variazione della sagoma e
dei prospetti, visibili dall’esterno ai fini della verifica
della difformità.
Ciò giustifica l’ingiunzione di demolizione delle opere
abusivamente realizzate, concernente l’intero fabbricato che
si connota quale un organismo edilizio integralmente diverso
dal precedente, assoggettato perciò nella sua interezza alla
sanzione demolitoria, ai sensi dell’art. 31 del D.P.R. n.
380/2001 (che riunisce nell’unica disposizione le
fattispecie dell’assenza del permesso di costruire e della
totale difformità dal titolo rilasciato).
Quanto all’asserito difetto di motivazione in ordine
all’interesse pubblico e alla rilevanza del decorso del
tempo, è consolidata in giurisprudenza l’affermazione per
cui dall’abusività dell’opera scaturisce con carattere
vincolato l’ordine di demolizione, che in ragione di tale
sua natura non esige una specifica motivazione o la
comparazione dei contrapposti interessi, senza che assuma
rilievo il lasso di tempo intercorso, non potendo ammettersi
la conservazione di una situazione “contra legem”
(cfr., per tutte, Cons. Stato – Sez. V, 28.04.2014 n. 2196).
2.- Conclusivamente, il ricorso va dunque respinto (TAR
Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 18.11.2015 n. 5306 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI: PROCESSO VERBALE D’AGGIUDICAZIONE E VINCOLO
CONTRATTUALE PRIMA E DOPO L’AVVENTO DEL CODICE
DEI CONTRATTI PUBBLICI.
Sino all’entrata in vigore dell’art. 11 del D.Lgs. n.
163/2006, nei contratti stipulati dalla P.A. con il sistema
dell’asta pubblica o della licitazione privata, il processo
verbale di aggiudicazione definitiva equivaleva a ogni
effetto al contratto, con forza immediatamente vincolante
per entrambe le parti (art. 16, R.D. n. 2440/1923;
artt. 88, 89, 97, R.D. n. 827/1924), salvo che dal verbale
stesso non emergesse la volontà della P.A. di rinviare la
costituzione del vincolo al momento successivo della
stipulazione del contratto la quale, in tal caso, non assume
il valore di un mero atto formale e riproduttivo,
ma rappresenta la vera ed unica fonte del rapporto per
entrambe le parti.
Un’impresa convenne al Tribunale civile una società
interportuale
marittima dolendosi di avere subito -quale aggiudicataria
provvisoria di un ingente appalto di lavori, malgrado
la tempestiva trasmissione di ogni documento necessario
per la sottoscrizione del contratto- una revoca
dell’affidamento
per non avere dimostrato la propria capacità economico-
finanziaria.
Nella domanda era chiesto l’accertamento
della valida formazione del vincolo contrattuale, oltre
alla condanna per lucro cessante ai sensi dell’art. 345,
L. n. 2248/allF/1865, in allora vigente, ovvero a una
maggiore
somma a titolo di responsabilità contrattuale.
La convenuta eccepiva, in priorità, il difetto di
giurisdizione
del G.O. e deduceva nel merito l’infondatezza della pretesa.
Il Tribunale riteneva sussistente la giurisdizione e,
ravvisando
nella specie un’ipotesi di recesso ad nutum del committente,
riconosceva all’appaltatore il diritto a ricevere il 10%
del prezzo dell’appalto secondo il dettato dell’art. 345,
cit.
La sentenza era gravata dalla stazione appaltante,
censurando
anzitutto la ritenuta giurisdizione del G.O. in ragione
del fatto che -avendo in precedente occasione il Consiglio
di Stato affermatane la natura di ente pubblico- ne
discendeva
la presenza di un interesse pubblico nell’azione da essa
svolta, pur senza la necessità che fossero posti in essere
atti amministrativi.
Ancora, l’appellante poneva censure di
merito alla sentenza resa, deducendo che la società aveva
partecipato alla gara producendo documentazione attestante
una solidità economica che, invece, non sussisteva:
per il che l’appellante -che tramite la revoca
dell’aggiudicazione
aveva legittimamente esercitato, per fini di pubblico
interesse, il proprio potere autoritativo- non poteva
essere
destinataria di condanna.
La Corte territoriale rigettava l’appello.
Contro la sentenza ricorre per cassazione l’interporto,
contestando
la sussistenza di giurisdizione ordinaria, in favore
di quella amministrativa, in ragione del fatto che la
controversia,
promossa nel 1998 dall’aggiudicatario di un contratto
d’appalto di lavori pubblici, mira a ottenere la condanna
della Stazione appaltante -ente pubblico- al risarcimento
derivato dall’esercizio del potere di revoca legittimamente
esercitato, perché la committente dopo l’aggiudicazione
provvisoria ma prima della definitiva e della stipula del
contratto
aveva disposto, in via di autotutela, la revoca della
stessa per ragioni di interesse pubblico adeguatamente
esplicitati nella motivazione del relativo atto
amministrativo
assunto.
Non essendo, a dir della ricorrente, giunti alla
sottoscrizione
del contratto dopo l’aggiudicazione, non era
sorto alcun diritto soggettivo in capo all’impresa, versante
ancora in mera situazione di interesse legittimo a fronte
del
provvedimento di revoca.
La Corte non condivide l’assunto, osservando che alla data
dell’aggiudicazione (17.02.1997) ancora vigeva il
modello
poggiante sul combinato disposto degli artt. 16, R.D.
n. 2440/1923; 88, 89, 97 del R.D. n. 827/1924, applicabili
agli enti locali per il richiamo contenuto all’art. 140 del
R.D.
n. 383/1934 e all’art. 56 della L. n. 142/1990. Sicché,
osserva
la Suprema Corte, il vincolo contrattuale si è formato tra
le parti per il solo effetto della comunicazione
dell’aggiudicazione
sicché la decisione della stazione appaltante di
sciogliersi dal vincolo deve considerarsi recesso
intervenuto
nell’ambito di una vicenda contrattuale retta dal regime
civilistico, con conseguente sussistenza della giurisdizione
del giudice ordinario.
Questo anche in base alla giurisprudenza consolidata su
tale disciplina, per la quale nei contratti stipulati dalla
P.A.
con il sistema dell’asta pubblica o della licitazione
privata,
il processo verbale di aggiudicazione definitiva equivale
per
ogni effetto legale al contratto, con forza immediatamente
vincolante, sia per l’ente che per l’altro contraente, salvo
che dal verbale stesso non risulti la volontà della P.A. di
rinviare
la costituzione del vincolo al momento successivo
della stipulazione del contratto la quale, in tal caso, non
assume
il valore di un mero atto formale e riproduttivo, ma
rappresenta la vera ed unica fonte del rapporto per entrambe
le parti (ex plurimis, Cass. nn. 7481/2007; 1103/2004,
9366/2003, 8420/2000, 5807/1998, 11513/1997,
5771/1990, 2938/1984, 5702/1981, 5404/1981, 1695/1979,
5295/1977, 4781/1977; Cons. Stato, Sez. 5, 2331/2001;
Cons. Stato, Sez. 4, n. 16/1996).
Il predetto sistema normativo non è stato modificato neppure
dalla L. n. 109/1994, che non ha in alcun modo reso
obbligatorio il successivo contratto per l’insorgenza del
vincolo
negoziale (Cass. n. 5217/2011). A tale proposito è stato
osservato che il successivo D.Lgs. n. 490/1994 che ha
introdotto la necessità di fornire in sede di appalto
documentazioni
di prevenzione da infiltrazioni mafiose, ha disposto
che il relativo accertamento sfavorevole può sopravvenire
alla conclusione del contratto e comportarne l’invalidità,
senza perciò interferire sui fatti generatori del
contratto (Cass. n. 5217/2011).
Neppure il d.P.R. n.
554/1999 (artt. 45 ss. e 110 ss.) ha fatto determinato
l’effetto
“costitutivo dell’accordo” in capo al provvedimento di
aggiudicazione: infatti l’art. 109, comma 3, d.P.R., cit. ha
lasciato impregiudicata la facoltà della stazione appaltante
di prevedere “la stipula del contratto o la sua
approvazione”
ed ha significativamente attribuito alla impresa, qualora
la stipulazione non avvenga nei termini stabiliti, il
diritto
di “sciogliersi da ogni impegno o recedere dal contratto”.
Dal che si deduce che il contratto, anche nel regime di
questa normativa, può trarre origine direttamente ed
immediatamente
dal provvedimento di aggiudicazione (Cass.
n. 5217/2011).
La modifica di questo modello si è avuta solo con l’art. 11
del D.Lgs. n. 163/2006 (Codice dei contratti pubblici),
giusta
quale tal separazione è divenuta “regola”: ivi si stabilisce
che l’aggiudicazione definitiva non equivale a accettazione
dell’offerta che è irrevocabile, per l’impresa, fino al
termine, stabilito nel comma 9 (pari a 60 giorni o al
diverso
termine previsto dalla legge di gara, decorrenti
dall’aggiudicazione
provvisoria, salva la possibilità di dar esercitare il
potere di autotutela nei casi stabiliti dalla legge). Solo
alla
loro scadenza, l’operatore economico è legittimato a
svincolarsi
o a recedere dal contratto, senza altro indennizzo
che non siano le spese contrattuali documentate.
Il Codice
dei contratti pubblici, quindi, disciplina diversamente
termini
e modalità per la stipula del contratto e le relative
vicende
che peraltro, a differenza di quelle dell’aggiudicazione,
per le quali è stata introdotta una nuova ipotesi di
giurisdizione
esclusiva, restano attribuite alla giurisdizione ordinaria
(Cass. n. 5217/2011) (Corte
di
Cassazione, SS.UU. civili,
sentenza 13.07.2015 n. 14555
- Urbanistica e appalti
n. 10/2015). |
URBANISTICA: EFFETTI DEL VINCOLO DI INEDIFICABILITÀ E CONSEGUENZE
SUL PROCEDIMENTO ESPROPRIATIVO.
I vincoli d’inedificabilità -sia per risalente
giurisprudenza
di legittimità quanto, ora, per espressa previsione
dell’art. 37, comma 4, d.P.R. n. 327/2001- non hanno
valenza espropriativa.
Alcuni privati convennero avanti la Corte d’appello
un’Amministrazione
comunale opponendosi alla stima definitiva,
espressa dalla competente Commissione Provinciale, per
l’occupazione e la successiva espropriazione di un’area per
la realizzazione di una Residenza Sanitaria Assistita.
La Corte distrettuale, all’esito di CTU, con sentenza
determinava
le indennità d’espropriazione, d’occupazione e di
soprassuolo, oltre agli interessi legali decorrenti dalla
domanda
per tutte le suddette indennità, nei termini di cui in
motivazione. Disponeva, inoltre, che il Comune depositasse
gli importi differenziali presso la Cassa Depositi e
Prestiti.
La determinazione della Corte era motivata sul presupposto
che al momento dell’apposizione del vincolo preordinato
all’esproprio - avvenuta con la delibera giuntale di
approvazione
del progetto esecutivo - l’intera area, poi espropriata
con decreto del 18 dicembre 1999, era già inserita
dal PRG al tempo vigente in zona F (aree destinate agli
impianti
pubblici ed attrezzature civili gestiti da Enti Pubblici)
e destinata a servizi sanitari.
Ancora, che l’edificazione
era
avvenuta ad opera di un soggetto privato, in regime di
finanziamento
di progetto, in base ad una convenzione; che
il terreno, posto all’interno della perimetrazione del
centro
urbano e in zona dotata d’ogni opera d’urbanizzazione, fu
espropriato per la realizzazione d’una struttura di
interesse
pubblico, destinata a servizio dell’intero Comune, sì da
integrare
la previsione dell’art. 4, D.M. n. 1444/1968 secondo
cui gli spazi per le attrezzature pubbliche d’interesse
generale
-quando ne fosse risultata l’esigenza di prevederle-
dovevano essere previste in misura non inferiore in rapporto
alla popolazione del territorio servito; che le aree in zona
F costituivano, nella previsione degli strumenti
urbanistici,
non già un corpo separato rispetto alle altre zone (A, B, C,
D, alla cui destinazione edificatoria erano funzionali) ma
concorrevano con esse a determinare l’indice edilizio
territoriale
dell’area di cui si trattava, giacché esse erano il corredo
necessario e l’elemento costitutivo della edificabilità
della zona specifica a cui inerivano secondo una proporzione
necessaria per volontà legislativa, sicché erano piena mente
partecipi di tutti i parametri edificatori che le
caratterizzavano.
La determinazione dell’indennizzo, per conseguenza, non
doveva essere fatta tenendo conto del valore venale dei
fondi agricoli ma facendo applicazione dei criteri stabiliti
per i terreni edificabili.
La costruzione della residenza per anziani era destinata a
servizio dell’intero Comune, cosicché nella determinazione
dell’indice di edificabilità non doveva farsi riferimento al
valore
di 1,5 mc/mq, indicato nella variante allo strumento
urbanistico
approvata in previsione della realizzazione dell’opera
bensì all’indice medio di edificabilità comprensoriale
(vale a dire della parte di territorio che traeva beneficio
dalla
realizzazione dell’opera pubblica) calcolato con riguardo
al rapporto intercorrente tra la superficie di territorio
urbano
limitrofo all’area in questione e la relativa volumetria
che su di esso era edificata. Parimenti erano da
riconoscersi
l’indennità di soprassuolo per un pozzo romano e annesso
complesso in muratura; l’indennità per occupazione
d’urgenza; gli interessi legali sulla somma corrispondente
al valore del terreno, rivalutata annualmente.
Avverso questa sentenza il Comune ha proposto ricorso
per Cassazione, che la Suprema Corte accoglie per la sola
censura involgente la violazione e/o la falsa applicazione
dell’art. 5-bis, comma 3, D.L. n. 333/1992, convertito in L.
n. 359/1992, nonché dei principi in materia di criteri per
l’individuazione dell’edificabilità dei terreni espropriati.
La Cassazione ribadisce che la vocazione edificatoria delle
aree è correlata solo alla destinazione privata
(residenziale,
industriale, commerciale) degli insediamenti che su di esse
abbiano ad essere realizzati, mentre la destinazione
pubblica
dell’insediamento rende irrilevanti od assorbe le modalità
della sua realizzazione, quand’anche gli interventi siano
effettuati
da privati e la gestione sia assicurata da enti od imprese
private. Osserva che, nella specie, la destinazione
attribuita
al terreno dal PRG al tempo vigente (“aree destinate
agli impianti pubblici e attrezzature civili gestiti da Enti
Pubblici”)
era in modo inequivoco d’indole conformativa e comportava
l’inedificabilità legale del terreno oggetto d’occupazione
e successiva espropriazione, indipendentemente dal
vincolo espropriativo derivato dalla sopravvenuta delibera
giuntale che approvava il progetto esecutivo dei servizi
salutari
(Cass. nn. 611/2014; 14840/2013; 15090/2012;
12496,18430 e 19938/2011; 404 e 12862/2010; 17995/2009;
15616/2007; 23028/2004). Ancora, osserva che i vincoli d’inedificabilità
in base alla risalente giurisprudenza di legittimità
e ora all’espressa previsione del T.U. Edilizia di cui al
d.P.R. n. 327 del 2001 (art. 37, comma 4) non sono
espropriativi
e rendono soltanto il terreno inedificabile.
In applicazione degli esposti principi di diritto, dunque,
la Suprema
Corte dispone procedersi alla rideterminazione sia
dell’indennità di espropriazione, commisurandola al valore
di
mercato del terreno (stante la sopravvenuta declaratoria
d’incostituzionalità di cui alla sentenza Corte cost. n.
181/2011) sia dell’indennità di occupazione legittima,
secondo
il noto criterio di relativa quantificazione contemplato
dalla
L. n. 865/1971 per i terreni agricoli, non attinto da
pronunce
del giudice delle leggi e ribadito dal T.U. n. 327/2001
(Corte di
Cassazione, Sez. I civile,
sentenza 15.06.2015 n. 12318
- Urbanistica e appalti n. 8-9/2015). |
EDILIZIA PRIVATA: IPOTESI IN CUI DEVE ESSERE PRODOTTO IL CERTIFICATO DI
DESTINAZIONE URBANISTICA E VALENZA DI DESTINAZIONI
IN ITINERE.
Il certificato di destinazione urbanistica è necessario
soltanto per la valida conclusione del contratto definitivo,
posto che l’art. 18, comma 2, L. n. 47/1985 si riferisce
ai soli contratti che determinano effetti reali e non
anche a quelli con effetti obbligatori, come il preliminare
di compravendita: se ne ha che il c.d.u. va allegato
nel solo primo caso oppure -in ipotesi di azione ex art.
2932 c.c.- va prodotto nel fascicolo di giudizio, attesa la
funzione sostitutiva di tale azione del contratto definitivo
non concluso.
La vocazione agricola o edificatoria del terreno va
scrutinata
con riguardo al momento della conclusione del
contratto, senza che possa avere incidenza la destinazione
urbanistica in itinere, salva l’ipotesi -eccezionale
e non suscettibile d’interpretazione estensiva- prevista
dall’art. 8, comma 2, L. n. 590/1965 che impone di dare
rilievo alle utilizzazioni future laddove lo strumento
urbanistico
in itinere preveda un cambio di destinazione
da agricola ad urbanistica.
Sorge controversia tra alcuni privati, circa un contratto
preliminare
relativo all’acquisto di un appezzamento di terreno
agricolo con entro-stanti fabbricati rurali, condotto in
affitto
per uso agricolo e zootecnico da un terzo soggetto.
Le parti
previdero che -in caso di esercizio della prelazione da
parte dei conduttori, aventi diritto- il preliminare si
sarebbe
risolto con restituzione al promissario acquirente del solo
acconto versato.
Il promittente venditore comunicava che gli affittuari
avevano
manifestavano la volontà di esercitare la prelazione e
di ritenersi perciò sciolto dal preliminare sottoscritto,
manifestando
disponibilità a restituire l’importo ricevuto. Il
promissario
acquirente, ritenendo che il terreno oggetto del
contratto non avesse vocazione agricola, sicché alcun
diritto di prelazione ex lege n. 590/1965, potesse spettare
agli
affittuari, convenne in giudizio il promittente venditore
con
un’azione ex art. 2932 c.c.
Il Tribunale ordinario rigettò la domanda.
La Corte territoriale viceversa accolse il gravame sul
rilievo
che, ai fini della configurabilità o meno del diritto di
prelazione
agraria e in particolare circa il requisito della natura
agricola del terreno oggetto della prelazione e del
riscatto,
occorresse far riferimento al PRG vigente al momento della
conclusione del contratto e non al successivo piano, ancora
in itinere al momento della stipula del preliminare.
Insorge, contro la sentenza della Corte territoriale,
l’originario
convenuto e promittente venditore, con un ricorso che
la Suprema Corte respinge, così confermando la statuizione
finale dei giudici del merito.
In particolare, il Giudice di legittimità, ribadisce che la
vocazione
agricola o edificatoria del terreno va verificata al
momento della conclusione del contratto. Questo, benché
l’art. 8, comma 2, della L. n. 590/1965 -invocato dal
ricorrente- introduca eccezione a tale principio, laddove impone
di dare rilievo alle utilizzazioni future nel solo caso in
cui
lo strumento urbanistico in itinere preveda un cambio di
destinazione. Tuttavia, osserva la Suprema Corte, non rileva
a tal fine un qualsiasi cambio di destinazione, ma la sola
ipotesi del cambio di destinazione da agricola ad
urbanistica.
È questa un’eccezione al principio generale, che trova
la sua ratio nella necessità di evitare speculazioni,
realizzabili
laddove - attraverso l’apparenza di voler realizzare unità
produttive agricole - si miri in realtà a lucrare il
prossimo incremento
di valore del bene, allorché questo passerà da
una utilizzazione agricola a quella edilizia.
In ragione del fatto che la norma in questione ha carattere
eccezionale, essa non è suscettibile d’interpretazione
estensiva sicché non può applicarsi al caso inverso,
caratterizzato
da un assetto di interessi del tutto differente, in
mancanza di un’espressa disposizione normativa che preveda
che ai fini della individuazione della natura del terreno
si debba in ogni caso aver riguardo alle previsioni dello
strumento urbanistico in itinere.
Attraverso l’eccezione
contenuta
nella norma in commento, si ripristina il principio
della libera disponibilità del fondo da parte del suo
proprietario,
la cui compressione (che consegue alla previsione
del diritto di prelazione in favore del proprietario
coltivatore
diretto del fondo confinante e dell’affittuario) si
giustifica in
virtù della particolare tutela assicurata al mantenimento e
all’incentivazione delle attività agricole dalla L. n.
590/1965. Quindi, se il fondo è coltivato ma in base alle
disposizioni
del PRG vigente esso non ha vocazione pienamente
agricola, non sussiste il diritto di prelazione e riscatto
in capo all’affittuario coltivatore diretto.
La Suprema Corte respinge anche il terzo motivo, recante
doglianza di violazione, tra gli altri, dell’art. 2932 c.c.,
e dell’art.
40 della L. n. 47/1985 e dell’art. 46, d.P.R. n.
380/2001 (T.U. Edilizia) per la mancanza del c.d.u.
(certificato
di destinazione urbanistica) nel contratto, preliminare,
che avrebbe comportato nullità del medesimo.
Osserva,
sul punto la S.C. che il certificato di destinazione
urbanistico
è necessario solo per la valida conclusione del contratto
definitivo e non anche del preliminare, secondo un principio
ormai consolidato secondo il quale la disposizione dell’art.
18, comma 2, L. 28.02.1985, n. 47, che sancisce
la nullità degli atti tra vivi, aventi a oggetto
trasferimento,
costituzione o scioglimento della comunione di diritti reali
relativi a terreni, quando a essi non sia allegato il
certificato
di destinazione urbanistica contenente le prescrizioni
urbanistiche
riguardanti l’area interessata, si riferisce esclusivamente
ai contratti che determinano l’effetto reale indicato
dalla norma e non anche a quelli con effetti obbligatori,
come
il contratto preliminare di compravendita.
Per l’effetto, il preliminare è valido pur non contenendo la
dichiarazione di cui agli artt. 17 e 40 della legge citata e
l’allegazione del c.d.u., fatta salva l’esigenza di
allegazione
del detto certificato al contratto definitivo o nel caso di
azione ex art. 2932 c.c., attesa la funzione sostitutiva del
contratto definitivo non concluso da essa spiegata (inter
alias, Cass. n. 24460/2007) (Corte
di
Cassazione, Sez. III civile,
sentenza 12.06.2015 n. 12230
- Urbanistica
e appalti n. 8-9/2015). |
EDILIZIA PRIVATA: PERMANENZA DEL REATO DI COSTRUZIONE ABUSIVA ED
INDIVIDUAZIONE DEL MOMENTO DI CESSAZIONE DELLA
PERMANENZA.
Il reato di costruzione abusiva ha natura permanente
per tutto il tempo in cui continua l’attività edilizia
illecita,
ed il suo momento di cessazione va individuato o
nella sospensione di lavori, sia essa volontaria o imposta
“ex auctoritate”, o nella ultimazione dei lavori per il
completamento dell’opera o, infine, nella sentenza di
primo grado ove i lavori siano proseguiti dopo
l’accertamento
e sino alla data del giudizio.
Il tema affrontato dalla Corte di Cassazione con la sentenza
in esame attiene all’esatta individuazione della natura
giuridica
del reato di costruzione abusiva edilizia nonché al momento
di cessazione della permanenza del medesimo.
La
vicenda processuale segue alla sentenza di condanna,
confermata
anche in appello, per il reato previsto dal d.P.R. n.
380 del 2001, art. 44, lett. c), contestato all’imputato per
aver demolito e ricostruito alcuni fabbricati preesistenti
in
assenza di autorizzazione paesaggistica.
Contro la sentenza
proponeva ricorso l’imputato, sostenendo in particolare
che la Corte d’appello avrebbe dovuto pervenire a ritenere
prescritto il reato in relazione alle opere di cui in
contestazione,
limitandosi ad accertare che l’unica attività da
considerarsi
come attuale al momento del sopralluogo era costituita
da un evidente scavo con cumulo di terra e di pietre,
situazione non sovrapponibile a quella di demolizione e
ricostruzione
di fabbricati preesistenti.
La Cassazione, nel dichiarare inammissibile il ricorso, ha
affermato
il principio di cui in massima, in particolare osservando,
con riferimento al caso in esame, che la cessazione
della permanenza della condotta antigiuridica è
individuabile
nel momento in cui venne eseguito il sequestro dell’area
e che, in ogni caso, il sopralluogo che ebbe ad accertare
che i lavori di cui si discute erano in corso, venne
eseguito
in data 01.05.2010, donde la motivazione della
sentenza dava atto -difformemente da quanto sostenuto
dalla difesa- che gli unici interventi in corso di
esecuzione
al momento del sopralluogo non erano certamente l’esecuzione
dello scavo con cumulo di terra e di un cumulo di
pietre.
Trattasi, con riferimento all’individuazione della
natura
giuridica del reato di costruzione abusiva e del correlato
momento di cessazione della permanenza, di principio
ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità,
avendo
affermato la Cassazione in più occasioni che la permanenza
del reato di edificazione abusiva termina, con conseguente
consumazione della fattispecie, o nel momento in
cui, per qualsiasi causa volontaria o imposta, cessano o
vengono sospesi i lavori abusivi, ovvero, se i lavori sono
proseguiti anche dopo l’accertamento e fino alla data del
giudizio, in quello della emissione della sentenza di primo
grado (v., da ultimo: Cass. pen., Sez. III, n. 29974 del 06.05.2014 - dep.
09.07.2014, P.M. in proc. S., in CED,
n. 260498) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.05.2015 n. 23267
- Urbanistica e appalti n.
8-9/2015). |
EDILIZIA PRIVATA: CONDIZIONI PER QUALIFICARE UNA TETTOIA COME
SOTTRATTA AL REGIME DEL PERMESSO DI COSTRUIRE.
Ove la tettoia costituisca un’opera nuova esclude che la
sua realizzazione possa essere qualificata come intervento
di manutenzione ordinaria o straordinaria, di restauro
e risanamento conservativo, o di ristrutturazione
edilizia, come definiti dall’art. 3, comma 1, lett. a), b),
e)
e d), d.P.R. n. 380 del 2001.
Se, peraltro, la stessa non è
destinata al soddisfacimento di esigenze meramente
temporanee ne rende irrilevanti le caratteristiche
tipologiche
ed esclude che possa essere inclusa tra quelle dirette
a soddisfare obiettive esigenze contingenti e temporanee
e ad essere immediatamente rimosse al cessare
della necessità e, comunque, entro un termine non
superiore a novanta giorni, e soggette, a norma del
d.P.R. n. 380 del 2001, art. 6, comma 2, lett. b), a regime
di attività edilizia libera.
Il tema affrontato dalla Corte di Cassazione con la sentenza
in esame attiene alla necessità o meno del preventivo
rilascio
del permesso di costruire in caso di realizzazione di
una tipologia di manufatto abbastanza comune nella pratica
corrente, rappresentata dalla c.d. tettoia.
La vicenda
processuale segue alla sentenza di condanna, confermata
anche in appello, nei confronti di due imputati, ritenuti
responsabili,
nelle rispettive qualità di amministratore della
CC, committente dei lavori, e di presidente della COG, ditta
esecutrice dei lavori, di aver realizzato, senza permesso di
costruire, una tettoia estesa mq. 65, costituita da una
struttura
in metallo stabilmente ancorata al parapetto perimetrale
del piano di copertura di uno stabile.
Tale tettoia era
ricoperta
in parte con cristallo di sicurezza stratificato, in
parte con tessuto plastificato, ed era chiusa sui due lati
maggiori con tende a rullo ed aperta sui lati minori. La
tettoia
era stata realizzata per destinare il lastrico solare a
locale
destinato alla ristorazione ed a servizio del quale era
stato anche ricavato, da un preesistente torrino, un locale
WC. Nel superare i rilievi difensivi, la Corte di appello,
condividendo
sul punto il giudizio già espresso dal Tribunale,
ha qualificato l’opera come nuova costruzione, sottratta a
regime di libera edificabilità e soggetta a permesso di
costruire.
Ha poi ritenuto il colpevole coinvolgimento dell’esecutore
dei lavori, non ritenendo credibile la versione difensiva
volta ad accreditare la tesi dell’ignoranza dei lavori ai
quali, a dire dell’imputato, erano stati addetti i suoi soli
dipendenti.
Contro la sentenza proponevano ricorso per cassazione
ambedue gli imputati, in particolare sostenendo
che l’intervento edilizio di che trattasi, se non proprio
classificabile
come attività edilizia libera ai sensi del d.P.R. n.
380 del 2001, art. 6, comma 2, lett. d), non è soggetto a
permesso di costruire ma, al più, a regime di segnalazione
certificata di attività, ai sensi della L. n. 241 del 1990,
art.
19, lett. m).
La Cassazione, sul punto, ha dichiarato inammissibile il
ricorso
affermando il principio di cui in massima, rilevando
come la struttura, diversamente da quanto sostenuto dalla
difesa, non era destinata ad una migliore utilizzazione
dello
spazio del terrazzo ma ad un suo diverso uso (la
ristorazione),
non era di modeste dimensioni e non era utilizzabile
autonomamente (come, sul punto, convengono gli stessi
ricorrenti). Il che esclude che possa essere considerata sia
alla stregua di un “elemento di arredo” di area pertinenziale
(di cui all’art. 6, comma 2, lett. d, cit. d.P.R.), sia come
“intervento pertinenziale”.
La tettoia in questione,
infatti,
costituisce ampliamento esterno alla sagoma del manufatto
preesistente ed era destinata non già ad una migliore
fruizione della parte di edificio cui accedeva o a servizio
ed ornamento
dell’edificio stesso, bensì ad un diverso uso del
lastrico solare, stabilmente trasformato in vero e proprio
locale
di ristorazione, dotato anche di un angolo cottura e di
servizi igienici, che costituiva parte integrante del
sottostante
edificio al quale era collegato mediante una scala
esterna ed un montacarichi.
Si trattava, dunque, per gli
Ermellini,
di nuova costruzione, avente natura non pertinenziale,
per la cui realizzazione era necessario il permesso di
costruire.
La sentenza di inserisce nel solco di un
orientamento
ormai consolidato, che ritiene integri il reato previsto
dall’art. 44, lett. b), del d.P.R. n. 380 del 2001 la
realizzazione,
senza il preventivo rilascio del permesso di costruire,
di una tettoia di copertura che, non rientrando nella
nozione
tecnico-giuridica di pertinenza per la mancanza di
una propria individualità fisica e strutturale, costituisce
parte
integrante dell’edificio sul quale viene realizzata (v., da
ultimo: Cass. pen., Sez. III, n. 42330 del 26.06.2013 -
dep. 15.10.2013, S. e altro, in CED, n. 257290) (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 28.05.2015 n. 22474
- Urbanistica e appalti n. 8-9/2015). |
EDILIZIA PRIVATA: L’IMPUTATO CHE ECCEPISCE LA PRESCRIZIONE DEL REATO
EDILIZIO AD OPERA TROVATA “ULTIMATA” NE DEVE
FORNIRE PROVA RIGOROSA.
In tema di prescrizione, grava sull’imputato, che voglia
giovarsi di tale causa estintiva del reato a fronte di opera
apparentemente già ultimata, l’onere di allegare gli
elementi in suo possesso dai quali poter desumere la
data di inizio del decorso del termine, diversa da quella
risultante dagli atti; a ritenere diversamente, infatti,
nessun abuso edilizio potrebbe mai essere contestato, perché
ogni opera trovata terminata dovrebbe essere
fatta risalire all’ultimo accertamento effettuato su quella
porzione di territorio, o addirittura, se nessun
accertamento
di tal genere vi fosse stato, a tempo immemorabile.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame,
sul tema, invero assai comune nella prassi
giurisprudenziale,
relativo alla individuazione delle condizioni in presenza
delle quali un’opera abusiva possa ritenersi ultimata prima
della data dell’accertamento e, quindi, prescritto il
relativo
reato edilizio.
La vicenda processuale trae origine dalla
ordinanza
con la quale il tribunale del riesame aveva respinto
la richiesta degli indagati proposta avverso il
provvedimento
del G.I.P. con cui era stato disposto il sequestro
preventivo
di alcuni immobili.
Avverso detta ordinanza proponevano
impugnazione gli interessati, in particolare rilevando di
aver eccepito, in sede di riesame, che tutti i reati avevano
natura istantanea seppure con effetti permanenti le cui
condotte, però, cessavano con l’ultimazione dell’opera; le
opere in sequestro, al momento dell’accertamento, si
presentavano
completamente ultimate e rifinite, risultando già
da tempo abitate; la completa ultimazione dovrebbe, perciò,
farsi risalire al luglio 2009, in quanto l’ultimo
sopralluogo,
citato nel verbale di sequestro, risaliva al 23.07.2009, ciò in quanto, non essendovi traccia di lavori in
corso
o di recente esecuzione, in applicazione del principio, in
dubio pro reo, la data di ultimazione non poteva che
individuarsi
nel luglio 2009; pertanto ad oggi, sostenevano, andrebbe
affermata la ampiamente maturata prescrizione dei
reati in contestazione e, in ogni caso, anche a voler
ritenere
le opere realizzate nel 2010, la prescrizione sarebbe
comunque
maturata; i giudici del riesame avrebbero errato limitandosi
ad affermare che l’onere di dimostrare una diversa
decorrenza del termine di prescrizione, rispetto a quella
risultante dagli atti, graverebbe sull’imputato;
diversamente,
gli stessi avrebbero dovuto rinvenire in atti elementi
concreti ed attuali posti a giustificazione e fondamento
allo
stato del disposto sequestro, e, in ogni caso, la data della
provvisoria contestazione non sarebbe riferibile, e
probabilmente
nemmeno attribuita, alla data di consumazione dei
reati, ma si riferirebbe soltanto alla data di accertamento
ciò perché in occasione dell’accertamento le opere erano
completamente ultimate, rifinite, arredate e funzionali, non
vi era traccia di lavori nemmeno recenti, e l’unico
precedente
accesso in zona risaliva al luglio 2009; lo stesso
esposto che dava origine al procedimento penale, faceva
riferimento all’utilizzo delle opere nel corso degli anni.
La Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso e,
nell’affermare
il principio di cui in massima, ha puntualizzato
che alla data dell’ultimo accesso la Guardia di Finanza
aveva
riscontrato immobili, realizzati in difetto di qualsivoglia
autorizzazione, già completati, essendo tuttavia onere
dell’imputato
dimostrare che gli stessi erano tali ad una data
antecedente a quella dell’accertamento.
La sentenza si
inserisce
in un filone giurisprudenziale ormai consolidato, secondo
cui anche in materia edilizia, in base al principio generale
per cui ciascuno deve dare dimostrazione di quanto
afferma, grava sull’imputato che voglia giovarsi della causa
estintiva della prescrizione, in contrasto o in aggiunta a
quanto già risulta in proposito dagli atti di causa, l’onere
di
allegare gli elementi in suo possesso, dei quali è il solo a
potere concretamente disporre, per determinare la data di
inizio del decorso del termine di prescrizione ed in
particolare,
trattandosi di reato edilizio, la data di esecuzione
dell’opera
incriminata (Cass. pen., Sez. III, n. 10585 del 23.05.2000 - dep. 11.10.2000, M. C., in CED, n.
217091; Id., Sez. III, n. 19082 del 24.03.2009 - dep. 07.05.2009, C., in CED, n. 243765; Id., Sez. III, n. 27061
del 05.03.2014 - dep. 23.06.2014, L., in CED, n.
259181) (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 27.05.2015 n. 22117
- Urbanistica e appalti n. 8-9/2015). |
APPALTI: EFFETTI DELL’AGGIUDICAZIONE PROVVISORIA E DIVERSITÀ DI ESSA RISPETTO A QUELLA DEFINITIVA.
In tema di pubblici appalti, secondo alcune sequenze
procedimentali adottate dalle stazioni appaltanti e le
conseguenti previsioni del bando di gara, l’aggiudicazione
provvisoria -che ha natura di atto endoprocedimentale- anche se fa nascere tra le parti talune situazioni
giuridiche preliminari tutelabili in sede giurisdizionale,
non fa conseguire l’instaurazione del rapporto
contrattuale finale, intercorrente tra la stazione
appaltante
e l’aggiudicatario, potendolo solo l’aggiudicazione
definitiva, che non è atto meramente confermativo o
esecutivo ma è provvedimento autonomo e diverso rispetto
all’aggiudicazione provvisoria, sia pure nel caso
in cui recepisca interamente i risultati all’esito di una
nuova valutazione, condotta anche da organi diversi
dell’Amministrazione.
Un Istituto autonomo case popolari (IACP) invitò un’impresa
a partecipare a una licitazione privata per la scelta del
contraente e l’aggiudicazione dei lavori di progettazione e
costruzione di alcuni complessi di edilizia residenziale
pubblica.
Secondo la legge di gara, l’autore dell’offerta più
vantaggiosa
sarebbe stato il destinatario di un provvedimento di
aggiudicazione soltanto provvisoria. Quella definitiva,
infatti,
era subordinata al realizzarsi di alcune condizioni, ossia:
a) il rilascio della concessione edilizia; b) la
disponibilità
dell’area; c) la permanenza di alcune condizioni d’idoneità
tecnico-economica dell’offerta.
Ad avvenuta aggiudicazione provvisoria, l’impresa così
titolata
ricevette una richiesta di variante finalizzata allo
sfruttamento
di alcune caverne esistenti nell’area, al fine di
realizzarvi
locali di rimessa di veicoli.
Tale area, oggetto d’intervento aggiuntivo, non era però
disponibile
giacché occupata da costruzioni e ancora preclusa
nel proprio accesso al punto che l’aggiudicataria -per
poter adempiere a quest’ulteriore richiesta- avrebbe dovuto
acquistare, a proprie spese, un altro punto di accesso.
In ogni caso, l’aggiudicataria (ancor provvisoria) richiese
e
ottenne il titolo abilitativo edilizio, previo espletamento
d’indagini
geognostiche, presentò un progetto di variante,
contestualmente
sollecitando -senza riscontro- la committente
alla sottoscrizione del contratto.
Nelle more, per effetto di una variante nella disciplina
urbanistica,
il Comune revocò le cubature per le edificazioni sicché
IACP denegò l’aggiudicazione definitiva, assumendosi
gli oneri della progettazione e delle spese sostenute
dall’impresa
per il rilascio della concessione.
L’impresa -ritenendo essere così intervenuto un recesso
del committente dal contratto- chiese al Tribunale di esser
tenuta indenne, ex art. 1671 c.c., da ogni spesa sostenuta,
con pagamento dei lavori eseguiti e del mancato utile. In
via graduata, chiese l’accertamento della responsabilità del
committente per il tardivo recesso, con la sua condanna al
pagamento delle stesse somme prima richieste.
Il Tribunale, con una prima sentenza non definitiva
parzialmente
accolse la domanda dell’impresa, condannando
l’Ente al pagamento di una somma offerta da IACP banco
judicis, quale credito incontestato ex art. 186-bis c.p.c.
Con
sentenza definitiva, il Tribunale confermò la sentenza
parziale tuttavia respingendo ogni altra domanda e
condannando
l’attrice al pagamento delle spese processuali.
La sentenza di prime cure costituì oggetto d’appello
dell’impresa,
censurandosi di aver disconosciuto l’esistenza di
un vincolo contrattuale in forza del quale era ribadita la
richiesta
della condanna al pagamento di quanto dovuto ai
sensi dell’art. 1671 c.c., o per responsabilità
precontrattuale.
Lo IACP propose a sua volta gravame incidentale, chiedendo
che la sentenza non definitiva fosse riformata nei sensi,
ritenuti erronei, ivi indicati.
Detto appello incidentale fu accolto dalla Corte
distrettuale,
nella parte in cui riconosceva l’avvenuta stipulazione del
contratto di appalto, in tal modo rigettando la domanda di
pagamento di ulteriori somme rispetto a quelle riconosciute.
Respinse l’appello principale verso la sentenza definitiva,
compensando le spese del grado. A motivazione del
proprio convincimento il giudice di appello osservò che la
sentenza non definitiva avrebbe affermato l’avvenuta
costituzione
di un vincolo contrattuale tra le parti. Siffatta
ricostruzione
sarebbe tuttavia errata perché -secondo l’insegnamento
del Giudice di legittimità- solo con l’aggiudicazione
definitiva viene a crearsi il rapporto contrattuale mentre
quella provvisoria, specie se dovuta a necessità di
controlli
relativi a elementi sopravvenuti e determinanti per
l’instaurazione
del sinallagma, non avrebbe un tale effetto.
Nella specie, una pluralità di fatti (tra questi: la
difficoltà
d’acquisizione piena dell’area; la revoca delle cubature)
giustificano l’impossibilità dell’aggiudicazione definitiva
dell’appalto. Per il che non potevano accogliersi le domande
fondate sull’art. 1671 c.c., stante l’insussistenza del
vincolo
contrattuale e la subordinata (e astratta) proponibilità
di quelle per responsabilità precontrattuale o
extracontrattuale,
la prima neppur presenti nella domanda di prime cure.
La sentenza è oggetto di gravame per Cassazione da parte
dell’impresa, che rigetta il ricorso.
In disparte i motivi in rito (attinenti l’efficacia di
giudicato
interno della sentenza parziale e la completezza dei quesiti
allora dovuti ex art. 366-bis c.p.c.) merita attenzione la
terza
censura, con la quale il ricorrente lamenta che la Corte
d’Appello avrebbe errato nel distinguere un’aggiudicazione
provvisoria dell’appalto da una sua aggiudicazione
definitiva
e, per l’effetto, la mancanza di un vincolo nascente dalla
prima.
Questo, sia per il contrasto tra le disposizioni normative
richiamate;
quanto per l’erronea interpretazione della lettera
d’invito del contraente inviata da IACP, ove si prevedeva
un’apposita via d’uscita, ossia l’esercizio della facoltà di
recesso
previo pagamento della progettazione già realizzata
e dalle ulteriori prestazioni rese. In particolare, a dir
della ricorrente,
occorreva porsi sguardo al comportamento complessivo
delle parti (art. 1362 c.c.) all’interpretazione complessiva
delle clausole della lettera d’invito (art. 1363 c.c.)
e del canone ermeneutico di buona fede (art. 1366 c.c.).
In violazione di queste chiavi di lettura, la Corte
territoriale
avrebbe dovuto ritenere sussistente il vincolo negoziale a
prescindere dall’aggiudicazione definitiva dell’appalto,
peraltro
mai avvenuta. Al definitivo, si sarebbe al cospetto di
un vincolo di contenuto diverso da quello nascente
dall’aggiudicazione
definitiva ma non legittimante l’interpretazione
di una responsabilità aquiliana o precontrattuale da parte
dell’Ente.
La doglianza è respinta dalla Suprema Corte facendosi
richiamo
alla costante giurisprudenza amministrativa, secondo
cui l’aggiudicazione provvisoria di una gara di appalto
ha natura di atto endo-procedimentale, inidoneo a produrre
la definitiva lesione dell’interesse dell’impresa che
non è diventata vincitrice. Tale lesione, di contro, si
realizza
solo con l’aggiudicazione definitiva, che non è per nulla un
atto meramente confermativo o esecutivo, ma è provvedimento
del tutto autonomo e diverso rispetto all’aggiudicazione
provvisoria (anche quando ne recepisce interamente
i risultati), al punto che esso deve essere impugnato
indipendentemente
dall’impugnazione della aggiudicazione
provvisoria.
In ragione di questi pacifici presupposti, non v’è alcuna
contraddizione ad affermare, come ha fatto la Corte
territoriale,
la regula iuris secondo cui la prima aggiudicazione ha
comportato la nascita di un primo vincolo giuridico sol che
si consideri, razionalmente, che quel primo vincolo altro
non è che una limitata produzione di effetti giuridici i
quali,
per avere pieno spiegamento devono attendere la produzione
del fatto giuridico ulteriore della definitiva approvazione
-ossia la definitiva aggiudicazione- propedeutica alla
stessa stipulazione del contratto di appalto (Corte
di
Cassazione, Sez. I civile,
sentenza 25.05.2015 n. 10750
- Urbanistica e appalti n. 8-9/2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
RIENTRANO NELLE VARIANTI LEGGERE O MINORI LE
VARIANTI A PERMESSI DI COSTRUIRE NON INCIDENTI SUI
PARAMETRI URBANISTICI E SULLE VOLUMETRIE.
Rientrano nella nozione di “varianti leggere o minori” -soggette al rilascio di mera denuncia di inizio
dell’attività
da presentarsi prima della dichiarazione di ultimazione
dei lavori- le varianti a permessi di costruire che
non incidono sui parametri urbanistici e sulle volumetrie,
non modificano la destinazione d’uso e la categoria
edilizia, non alterano la sagoma dell’edificio e non violano
le prescrizioni eventualmente contenute nel permesso
a costruire.
Il tema affrontato dalla Corte di Cassazione con la sentenza
in esame attiene all’esatta individuazione del titolo
abilitativo
necessario per l’esecuzione della c.d. varianti leggere o
minori.
La vicenda processuale segue alla iniziale accusa
mossa all’imputato di avere violato il d.P.R. n. 380 del
2001, art. 44, lett. b), perché, nella sua qualità di
amministratore
della società C., proprietaria dell’immobile, nonché
di progettista e direttore dei lavori, aveva realizzato un
immobile
in totale difformità da quello assentito con il permesso
di costruire in variante, mediante la realizzazione di
un secondo piano sottotetto di circa 174 mq lordi ed un
volume
di 320 m., nonché quella di 5 lucernai (ai posto dei 4
previsti) le cui misure risultavano eccedenti di mq 0,40
quelle di cui all’art. 48, comma 1, del Regolamento edilizio
comunale ed, infine, mediante la realizzazione di 4 bucature
di forma trapezoidale sui timpani, in numero maggiore
rispetto a quelli di progetto e la cui superficie era
eccedente
quella prevista dal Regolamento Edilizio Comunale.
Con
la sentenza oggetto di ricorso per cassazione, il Tribunale
aveva derubricato il fatto come violazione del d.P.R. n. 380
del 2001, art. 44, lett. a), condannando l’imputato alla
sola
pena dell’ammenda. Contro la sentenza proponeva ricorso
l’imputato, sostenendo in particolare che il giudice non
avrebbe tenuto conto che le opere erano ancora in corso e,
quindi, rientravano nelle varianti in corso d’opera sicché
il
reato non poteva dirsi sussistente in concreto; inoltre,
proseguiva
l’imputato, a mente del d.P.R. n. 380 del 2001, art.
22, sono realizzabili a mezzo d.i.a. le varianti a permessi
di
costruire che non incidono sui parametri urbanistici e sulle
volumetrie, sicché, essendo pacifico che non si tratta di
varianti
essenziali, si versava nell’ipotesi di varianti leggere o
minori in corso d’opera per le quali l’imputato aveva
presentato
prima della conclusione dei lavori la richiesta di
permesso di costruire in variante.
La Cassazione, nell’accogliere il ricorso così annullando
senza rinvio la sentenza impugnata, ha affermato il
principio
di cui in massima, in particolare osservando, con
riferimento
al caso in esame, come la stessa sentenza, riqualificando
il fatto come violazione del d.P.R. n. 380 del 2001,
art. 44, lett. a), aveva dato atto che le opere contestate
al
ricorrente erano qualificabili come variazioni non
essenziali
rispetto al titolo abilitativo. Nel fare, ciò, tuttavia,
aveva tralasciato
di considerare che, a mente del d.P.R. n. 380 del
2001, art. 22, gli interventi inquadrabili tra le cosiddette
varianti
“leggere o minori” sono soggetti a mera denuncia di
inizio attività. Tale profilo non risultava essere stato
preso
in considerazione pur risultando incontestata la natura e
l’entità dei lavori edilizi in variante posti in essere
dall’imputato.
Come riportato da un teste, infatti, in occasione del
sopralluogo, era no stati riscontrati, rispetto al progetto
grafico, solo degli aumenti di superficie, peraltro in
misura
decisamente esigua (pari, cioè all’1,7%) e, comunque, la
presenza di un maggior numero di bucature nonché un
lucernaio
in più rispetto a quelli autorizzati. Essendo, quindi,
di tutta evidenza l’assenza di incremento volumetrico, vale
il principio consolidato di questa S.C., richiamato nella
massima, e già oggetto di precedenti e conformi pronunce
(v., tra le tante: Cass. pen., Sez. III, n. 24236 del 24.03.2010 - dep. 24.06.2010, M. e altro, in CED, n.
247687) (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 22.05.2015 n. 21461
- Urbanistica e
appalti n. 8-9/2015). |
EDILIZIA PRIVATA: SOGGETTA ALLA NORMATIVA ANTISISMICA LA
REALIZZAZIONE DI UN BAGNO PER DISABILI.
Neppure il d.P.R. n. 380 del 2001, art. 6, sottrae gli
interventi
di edilizia libera al rispetto delle norme antisismiche
ed alle altre disposizioni di settore, come si ricava
dalla testuale formulazione del comma 1, che fa salve
“le prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali, e
comunque nel rispetto delle altre normative di settore
aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia e,
in
particolare, delle norme antisismiche. di sicurezza,
antincendio,
igienico-sanitarie, di quelle relative all’efficienza
energetica nonché delle disposizioni contenute
nel codice dei beni culturali e del paesaggio”.
Il tema affrontato dalla Corte di Cassazione con la sentenza
in esame attiene alla necessità o meno del preventivo
rispetto
della normativa antisismica per la realizzazione di
interventi
edilizi rientranti nella c.d. attività edilizia libera,
disciplinata
dall’art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001.
La vicenda
processuale segue all’ordinanza con cui il Tribunale ha
parzialmente
accolto la richiesta di riesame, presentata nell’interesse
di D.M.L., avverso il decreto di sequestro preventivo
emesso dal Giudice per le indagini preliminari e concernente
alcune strutture abusive, ubicate all’interno di uno
stabilimento balneare, in relazione ai reati di cui agli
artt.
54, 55 e 1161 c.n., d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett.
c),
artt. 93 e 95, D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181 e L. 394 del
1991, art. 30, disponendo la restituzione all’avente diritto
di
un’area adibita a sala ristorante e confermando invece il
vincolo reale relativamente alla tamponatura di una tettoia
adibita a sala ristorante, un gazebo, un bagno per disabili
ed un collegamento tra locale lavapiatti e cucina, ma con
riferimento al solo reato sanzionato dal d.P.R. n. 380 del
2001, art. 95, concernente il mancato deposito del progetto
strutturale per le opere suddette.
Contro l’ordinanza
proponeva ricorso per cassazione l’interessato, sostenendo,
per quanto qui di interesse, che il bagno per disabili
rientrerebbe
tra le opere di edilizia libera per l’abbattimento di
barriere architettoniche di cui al d.P.R. n. 380 del 2001,
art.
6 e, dunque, non sarebbe soggetto alla normativa
antisismica.
La Cassazione, sul punto, ha dichiarato inammissibile il
ricorso
affermando il principio di cui in massima, rilevando
come, proprio in base alla normativa richiamata
dall’interessato,
l’esecuzione di tale intervento edilizio, pur potendo
rientrare astrattamente nella attività edilizia libera,
resta comunque
soggetto alla disciplina antisismica, nella specie
non rispettata.
Sul punto, va qui ricordato che, già in
precedenza,
la Cassazione aveva affermato che, per l’esecuzione
delle opere dirette a favorire il superamento e
l’eliminazione
delle barriere architettoniche negli edifici privati
vanno rispettate le disposizioni della legge antisismica con
esclusione dell’obbligo dell’autorizzazione (Cass. pen.,
Sez.
III, n. 11605 dell’11.11.1993 - dep. 18.12.1993, F., in CED, n. 196070) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 11.05.2015 n. 19362
- Urbanistica
e appalti n. 8-9/2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
LA SISTEMAZIONE DI UN’INSEGNA O TABELLA
PUBBLICITARIA RICHIEDE IL RILASCIO DEL PERMESSO DI
COSTRUIRE SE LE SUE DIMENSIONI COMPORTANO
MUTAMENTO TERRITORIALE.
La sistemazione di un'insegna o tabella pubblicitaria
richiede
il rilascio del preventivo permesso di costruire
quando per le sue rilevanti dimensioni comporti mutamento
territoriale, atteso che soltanto un sostanziale
mutamento del territorio nel suo contesto preesistente,
sia sotto il profilo urbanistico che edilizio, fa assumere
rilevanza penale alla violazione del regolamento edilizio,
con conseguente integrazione del reato di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 1, lett. b).
Interessante la decisione della S.C. che contribuisce a
delineare
il perimetro applicativo della disciplina sanzionatoria
edilizia rispetto a disposizioni solo apparentemente
regolanti
il medesimo oggetto, con particolare riferimento
all’installazione
di insegne pubblicitarie.
La vicenda processuale
segue alla sentenza, resa a seguito di giudizio abbreviato,
con il Tribunale ha condannato l’imputato alla pena di
trecento
Euro di ammenda in relazione al reato di cui al d.P.R.
n. 380 del 2001, art. 95, a lui contestato per aver eseguito
i
lavori di installazione di un sostegno metallico circolare
per
un impianto di cartellonistica pubblicitaria avente
un’altezza
di 6 m. e un diametro di circa 0,6 m. in zona sismica,
senza notificarne preavviso scritto al competente ufficio
tecnico regionale e omettendo la contestuale presentazione
del relativo progetto.
Avverso la sentenza proponeva ricorso
per cassazione l’imputato, in particolare deducendo
l’erronea applicazione del D.Lgs. n. 507 del 1993, del
D.Lgs. n. 285 del 1992, del d.P.R. n. 495 del 1992. Secondo
la ricostruzione difensiva, spetta ai Comuni determinare,
con proprio regolamento e piano particolareggiato, la
quantità e la tipologia degli impianti pubblicitari che
possono
essere installati nel territorio comunale, nonché le
modalità
e le procedure per ottenere l’autorizzazione
all’installazione.
Il sistema sanzionatorio per l’inosservanza delle
disposizioni
del D.Lgs. n. 507 del 1993, del regolamento comunale
e del piano generale degli impianti è contenuto nell’art.
24 di tale D.Lgs. A tale regime si aggiunge quello previsto
dall’art. 23 C.d.S. (D.Lgs. n. 285 del 1992) e art. 53
relativo
reg. att. (d.P.R. n. 495 del 1992).
Per la difesa, il
regolamento
e il piano sono gli strumenti attraverso i quali
l’amministrazione
comunale esprime le scelte compiute al fine
di garantire un’equilibrata protezione della variegata trama
di molteplici interessi, di natura urbanistica, edilizia,
economica,
culturale, viaria, tra loro interferenti, che in diversa
misura vengono in rilievo nell’attività pubblicitaria. Ne
conseguirebbe
che detta normativa avrebbe carattere speciale
rispetto a quella generale in materia edilizia contenuta nel
d.P.R. n. 380 del 2001, ivi compresa la disciplina
antisismica.
La difesa giunge a tale interpretazione in considerazione
del disposto del D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 168 il quale
prevede che la collocazione di cartelli o mezzi pubblicitari
in violazione delle disposizioni a tutela del paesaggio è
punita
con le sanzioni amministrative previste dal richiamato
art. 23 del codice della strada. A tali considerazioni la
difesa
aggiunge che, con deliberazione del 22.07. 2011, la
giunta regionale della Calabria ha catalogato gli impianti
pubblicitari come opere minori, sottraendoli alle leggi
nazionali
e regionali in materia di edilizia sismica.
La Cassazione ha, sul punto, respinto il ricorso, e,
nell’affermare
il principio di cui in massima, ha ricordato che non
vi è rapporto di specialità tra la disciplina sanzionatoria
penale
dettata in materia urbanistica e antisismica dal d.P.R.
n. 380 del 2001 e quella, amministrativa pecuniaria, dettata
dal D.Lgs. n. 507 del 1993, in materia di imposta comunale
sulla pubblicità e pubbliche affissioni, in quanto si tratta
di
sanzioni poste a tutela di interessi giuridici diversi,
presidiando
la prima la pubblica incolumità e l’altra il controllo
sulle pubbliche affissioni, in relazione al loro contenuto,
alla
loro natura commerciale, all’applicazione dell’imposta sulla
pubblicità.
Né a tale ricostruzione vale obiettare che il
D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 168 richiama, per l’apposizione
di cartelli con mezzi pubblicitari in violazione delle
disposizioni
poste a tutela del paesaggio, le stesse sanzioni
amministrative
previste dal codice della strada, perché la tutela
del paesaggio rappresenta un interesse diverso e ulteriore
rispetto al corretto assetto del territorio e, soprattutto,
alla
tutela dell’incolumità pubblica nelle zone sismiche (ex plurimis:
Cass. pen., Sez. III, n. 39796 del 10.04.2013 - dep.
25.09.2013, M., in CED, n. 257677; Id., Sez. III, n.
43249 del 22.10.2010 - dep. 06.12.2010, B., in
CED, n. 248724). Né, per gli Ermellini, può valere ad
escludere
la sussistenza del reato il riferimento alla Delib. Giunta
Regione Calabria 22.07.2011, n. 330 (Approvazione elenco
opere dichiarate “minori”.
Indirizzi interpretativi in
materia
di sopraelevazione di edifici esistenti). Si tratta infatti,
a ben
vedere, di una delibera che viene ritenuta dalla Corte
illegittima
perché crea ex novo la categoria delle “opere minori”
che non sarebbero soggette alla disciplina antisismica, in
aperta violazione del disposto del d.P.R. n. 380 del 2001,
art. 83 il quale prevede che tutte le costruzioni la cui
sicurezza
possa comunque interessare la pubblica incolumità
sono soggette alla normativa antisismica, senza consentire
alle Regioni di adottare in via amministrativa deroghe per
particolari categorie di opere.
E l’illegittimità della
deliberazione
regionale emerge -concludono i Supremi Giudici-
dalla sua stessa formulazione laterale, laddove nel
preambolo
si riconosce espressamente che “le norme legislative
nonché quelle tecniche in vigore non dettano, espressamente,
alcuna particolare limitazione o esclusione delle
opere da assoggettare alle discipline di cui sopra”
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
08.05.2015 n. 19185 - Urbanistica e appalti n. 8-9/2015). |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: IL MOMENTO PERFEZIONATIVO DEL REATO DI ABUSO
D’UFFICIO OMISSIVO COINCIDE CON LA CESSAZIONE
DELL’OMISSIONE DEI CONTROLLI DA PARTE DEL P.U..
La circostanza che la denuncia di inizio attività diviene
pienamente operativa trascorso il termine di 30 giorni
dalla data della sua presentazione non influisce sul momento
consumativo del reato di abuso d’ufficio.
Ed invero,
il d.P.R. n. 380 del 2001, art. 23 riguarda semplicemente
l’operatività della denuncia di inizio attività, ma
non impedisce alla pubblica amministrazione di svolgere
in ogni tempo i controlli di sua competenza, con la
conseguenza che il momento perfezionativo del reato
di abuso d’ufficio commesso mediante omissione deve
essere ritenuto coincidente con la cessazione dell’omissione
di tali controlli.
La Corte di Cassazione si occupa, nella interessante
sentenza
qui esaminata, della individuazione del momento
consumativo del delitto di abuso d’ufficio commesso mediante
omissione, precisando che lo stesso coincide con il
momento in cui il pubblico ufficiale “cessi” la propria
inerzia.
La vicenda processuale che ha fornito l’occasione alla
Corte per occuparsi della questione segue alla sentenza di
condanna con cui gli imputati erano stati condannati per il
reato di cui agli artt. 110, 117 e 323 c.p. perché, S., in
qualità di rappresentante di un consorzio e B., in qualità di
dirigente
del settore urbanistica del Comune di C., determinavano
a favore del primo l’ingiusto vantaggio conseguente
all’edificazione di un immobile difforme rispetto alle
vigenti
disposizioni di legge.
In particolare, B. sottoscriveva la
nota
del 07.01.2002, nella quale attestava che l’intervento,
rappresentato da due edifici ad uso commerciale e una
strada, in realtà incompatibili con la destinazione
urbanistica
della zona a verde pubblico attrezzato, era compatibile
con il piano regolatore e il regolamento edilizio; tale nota
era posta alla base della Delib. Giunta comunale 10.05.2002, con la quale si rilasciavano i permessi di costruire
e si omettevano i controlli circa le d.i.a. presentate.
Contro
la sentenza gli stessi proponevano ricorso per cassazione
sostenendo, per quanto qui di interesse, che la Corte
d’appello
avrebbe erroneamente ancorato la decorrenza dei termini
prescrizionali alla condotta contestata alla data in cui
B. aveva disposto l’abbattimento dei manufatti in precedenza
assentiti; a tale conclusione la Corte d’appello era
giunta ritenendo che nella fattispecie si versasse in
un’ipotesi
di abuso d’ufficio caratterizzato da comportamenti sia
commissivi che omissivi; la condotta omissiva sarebbe
cessata con l’omesso controllo sulle d.i.a. presentate
dall’interessato.
Secondo la difesa tali d.i.a. sarebbero solo
l’ulteriore espressione di un’attività illecita già
verificatasi in
precedenza, ma, in ogni caso, il potere di intervento della
pubblica amministrazione sarebbe limitato a 30 giorni, con
la conseguenza che il momento consumativo del reato potrebbe
al più individuarsi al momento, antecedente, di
presentazione
dell’ultima d.i.a.
La Cassazione ha respinto sul punto il ricorso degli
interessati,
affermando il principio di cui in massima, in particolare
osservando che correttamente la Corte d’appello aveva
richiamato la violazione del d.P.R. n. 380 del 2001, art.
27,
il quale impone al pubblico ufficiale (nel caso in esame,
nella sua qualità di dirigente del competente ufficio
comunale),
di esercitare la vigilanza e il controllo sull’attività
urbanistico-edilizia nel territorio. Si noti che, sulla questione,
non constano precedenti in termini (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 08.05.2015 n. 19182
- Urbanistica
e appalti n. 8-9/2015). |
EDILIZIA PRIVATA: LA REALIZZAZIONE DI UN VOLUME INFERIORE AL 20%
DEL FABBRICATO PRINCIPALE DI PER SÉ NON È
INTERVENTO PERTINENZIALE DOVENDO SODDISFARE
QUATTRO REQUISITI.
Il requisito della volumetria non superiore al 20%
dell’edificio
principale è solo uno degli elementi che concorre
a definire l’intervento come “pertinenziale”, essendo
comunque necessario che si tratti di un intervento che
accede ad un immobile preesistente legittimamente
realizzato, che abbia ridotte dimensioni, che sia
insuscettibile
di destinazione autonoma e che non si ponga
in contrasto con gli strumenti urbanistici vigenti.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame,
sul tema della qualificazione come interventi pertinenziali
di quelli che determinano un aumento di volumetria non
superiore al 20% dell’edificio principale.
La vicenda
processuale
segue dell’ordinanza del Tribunale di Firenze che ha
respinto l’istanza di riesame del decreto con il quale il
Giudice
per le indagini preliminari aveva ordinato il sequestro
preventivo di un immobile di proprietà della società “L.C.
S.r.l.”.
Il decreto era stato emesso sulla ritenuta
sussistenza
indiziaria, per quanto di interesse, del reato di cui al d.P.R.
n. 380 del 2001, art. 44, lett. b), perché, dopo aver
proceduto,
in forza di permesso di costruire, ad effettuare la
demolizione
e ricostruzione non fedele di una casa colonica e
di un fienile, trasformando la prima in un fabbricato
residenziale
composto da più unità immobiliari e articolato su
due piani, il secondo in un fabbricato residenziale composto
anch’esso da più unità immobiliari e articolato parte su
un piano fuori terra, parte su due piani fuori terra; dopo
aver altresì ripristinato la natura tecnica di fondazione
del
volume costituito dal piano interrato comune alle unità
abitative
sovrastanti, demolendone tutti i muri di tamponamento
non perimetrali, ripristinava l’uso residenziale del
suddetto interrato mediante lavori che interessavano anche
i piani primo e terreno.
Contro l’ordinanza, per quanto
rileva
in questa sede, proponeva ricorso per cassazione il legale
rappresentante della società, sostenendo che i lavori
eseguiti sarebbero stati realizzabili mediante SCIA, giusta
la L.R. Toscana 03.01.2005, n. 1, art. 75, secondo il
quale “gli interventi pertinenziali che comportano la
realizzazione,
all’interno del resede di riferimento, di un volume
aggiuntivo non superiore al 20 per cento del volume
dell’edificio
principale”: ne conseguirebbe che i volumi ottenuti,
ancorché non previsti nell’originario permesso di costruire,
sarebbero comunque conformi a quanto prevede la L.R. n.
1 del 2005, art. 75.
La Corte, nel respingere il ricorso, ha affermato il
principio
di cui in massima, osservando come la norma della predetta
L.R. si raccorda a quanto prevede il d.P.R. n. 380 del
2001, art. 3, comma 1, lett. e.6), secondo il quale non sono
considerati “interventi di nuova costruzione quelli pertinenziali
che comportino la realizzazione di un volume non superiore
al 20% dell’edificio principale”.
Il requisito della
volumetria
non superiore al 20% dell’edificio principale, però,
chiariscono gli Ermellini, è solo uno degli elementi che
concorre
a definire l’intervento come “pertinenziale”, essendo
comunque necessario che si tratti di un intervento che
accede
ad un immobile preesistente legittimamente realizzato,
che abbia ridotte dimensioni, che sia insuscettibile di
destinazione autonoma e che non si ponga in contrasto
con gli strumenti urbanistici vigenti (Cass. pen., Sez. III,
n.
37257 del 11.06.2008, A., in CED, n. 241278; Id., Sez.
III, n. 25669 del 30.05.2012, Z., in CED, n. 253064).
Sicché, concludono i Supremi Giudici, la realizzazione di un
volume inferiore al 20% del fabbricato principale non può
essere di per sé considerato intervento pertinenziale se non
soddisfa anche gli altri requisiti sopra indicati e, tra
questi,
la preesistenza dell’edificio principale e la sua legittima
realizzazione.
Nel caso in esame è evidente che i lavori in questione
non accedevano ad un fabbricato né preesistente,
né legittimamente edificato ma risultavano volti a
ripristinare
una destinazione dei locali non consentita dal titolo
originario
e a reiterare il reato per il quale l’imputata era già stata
condannata in primo grado e poi assolta in secondo per
prescrizione del reato (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
06.05.2015 n. 18670
- Urbanistica e
appalti n. 7/2015). |
LAVORI PUBBLICI:
TARDIVA STIPULAZIONE DEL CONTRATTO E CONSEGUENZE
RISARCITORIE.
L’art. 10, d.P.R. n. 1063/1962 -come oggi l’art. 11, comma
9, D.Lgs. n. 163/2006- detta una disciplina derogatoria
di quella comune in materia di appalto e che, pur
non escludendo la configurabilità del ritardo nella consegna
come inadempimento di un obbligo posto a carico
dell’Amministrazione committente, vi ricollega effetti
diversi rispetto a quelli previsti dal diritto comune, in
particolare attribuendo all’appaltatore -in luogo del
diritto
di chiedere la risoluzione del contratto- la facoltà
di provocare lo scioglimento del rapporto mediante
proposizione di un’istanza di recesso e limitando, in caso
di accoglimento della stessa, il risarcimento del danno
al rimborso delle sole somme ivi indicate.
Un’impresa convenne in giudizio il proprio committente
Istituto autonomo case popolari per sentirlo condannare al
risarcimento dei danni cagionati dal ritardo nella consegna
dei lavori.
A presupposto della propria domanda si assumeva
che -a fronte di un’aggiudicazione del marzo 1989 e
d’una sottoscrizione del contratto del marzo 1990- la
consegna
dei lavori (fissata per il marzo 1990) non aveva potuto
aver luogo a causa della sopravvenuta indisponibilità
dell’area prescelta. Per questo, non essendo possibile
l’acquisizione
di un’area alternativa ove eseguire le opere, nel
gennaio 1991 l’appaltatore aveva dichiarato di voler
recedere
dal contratto chiedendo il rimborso delle spese sostenute
e il risarcimento dei danni subiti.
Costituitasi in giudizio, l’Amministrazione committente
evocò
in giudizio il Comune, nei confronti del quale propose
domanda di rivalsa assumendo essere riconducibili alla
condotta di questo i fatti determinanti la domanda attorea.
Il Tribunale accolse solo parzialmente la domanda,
condannando
lo IACP di una somma ridotta.
La sentenza fu appellata dall’impresa in via principale e
dalla committenza in via incidentale, ma entrambi gli
appelli
furono reietti dalla Corte di merito. Ritenne la Corte
che la fattispecie fosse riconducibile all’allora vigente
Capitolato
generale per le opere pubbliche (d.P.R. n.
1063/1962) il cui art. 10, in questa fattispecie, limitava
il
rimborso alle sole spese derivanti dal recesso iniziale
(art. 9
d.P.R., cit.), non potendosi applicare -nel recesso
dell’appaltatore- l’art. 41 d.P.R. cit., riferibile alla differente ipotesi
di scioglimento del contratto per recesso unilaterale
dell’Amministrazione
committente.
Fu parimenti esclusa la sussistenza di una genetica
responsabilità
comunale, per non avere il Comune messo a disposizione
dell’Istituto autonomo i sedimi sui quali compiere
l’intervento: questo, osserva la Corte d’Appello, perché il
procedimento non si sarebbe potuto avviare se non a seguito
dell’acquisizione della disponibilità delle aree
interessate.
Per il che, l’unico responsabile per il danno lamentato,
a giudizio della Corte territoriale, era individuabile
dell’Istituto,
il quale aveva avendo indetto la gara d’appalto seppur
consapevole dell’indisponibilità dell’area.
Contro questa decisione l’appaltatore propone ricorso per
Cassazione, al quale resistono le controparti
interponendosi,
da parte del solo IACP (divenuto, nelle more, ATER), ricorso
incidentale. La Suprema Corte respinge il ricorso
principale e dichiara l’incidentale inammissibile per
ragioni
di rito (esorbitanti la materia trattata da questa Rivista).
A fondamento del proprio ricorso, l’appaltatore deduce che
la Corte di merito -riduttivamente riconducendo la
fattispecie
all’art. 10 d.P.R. cit.- non ha considerato che nel
giudizio
era stato fatto valere un inadempimento di IACP tale da
giustificare, oltre alla pronuncia di risoluzione del
contratto,
la condanna dell’ente al risarcimento dei danni, la quale è
una statuizione indipendente rispetto all’esercizio della
facoltà
di recesso dal contratto e per la quale si sarebbe dovuta
statuire una responsabilità risarcitoria. Questo, nella
specie, perché l’art. 10 in parola non escluderebbe
l’applicabilità
della disciplina generale dell’inadempimento, limitandosi
a subordinare la proposizione della domanda alla
presentazione dell’istanza di recesso, che -a dir del
ricorrente- ne rappresenterebbe una mera condizione di proponibilità.
La Suprema Corte ritiene infondato il motivo, osservando
che sin dall’iniziale domanda di primo grado era stata
richiesta
la condanna al rimborso delle spese sostenute per
l’esecuzione dell’appalto e il risarcimento dei danni
derivati dalla mancata consegna dei lavori da parte di IACP,
a seguito
della quale era stata proposta una istanza di recesso
dal contratto, in conformità all’art. 10 del d.P.R. n.
1063/1962.
Tale disposizione, osserva il Giudice di
legittimità,
detta una disciplina speciale e derogatoria di quella comune
in materia di appalto e che, pur non escludendo la
configurabilità del ritardo nella consegna come
inadempimento
di un obbligo posto a carico dell’Amministrazione
committente, vi ricollega effetti diversi da quelli previsti
dal
codice civile.
Questo, in particolare, attribuendo
all’appaltatore
-in luogo del diritto di chiedere la risoluzione del
contratto- la facoltà di provocare lo scioglimento del rapporto
mediante la proposizione dell’istanza di recesso e
limitando,
in caso di accoglimento dell’istanza, il risarcimento del
danno al rimborso delle spese indicate dall’art. 9, d.P.R.
n.
1063/1962, ossia a quelle sostenute per la stipulazione del
contratto e al pagamento delle relative imposte, nonché alle
spese sostenute per l’esecuzione dell’appalto, in misura
non superiore a determinate percentuali dell’importo netto
dei lavori (cfr. Cass., Sez. I, 05.03.2008, n. 5951; 11.11.2004, n. 21484; 14.04.2004, n. 7069).
Osserva la Cassazione che la portata dell’art. 10, d.P.R. n.
1062/1963 porta a escludere la fondatezza della tesi
sostenuta
dal ricorrente, secondo cui la predetta disposizione
non inciderebbe sulla disciplina generale dell’appalto (che
pone a carico del committente la responsabilità per mancata
o tardata consegna dei lavori) ma si limita a subordinare
la risarcibilità del danno subìto all’avvenuta proposizione
dell’istanza di recesso. Se pure è vero che la consegna
tempestiva dei lavori da parte della P.A. costituisce, al
pari
di quella effettuata dal committente privato, espressione di
quel dovere di leale cooperazione che discende dall’art.
1374 c.c., è anche vero che l’art. 10 in parola regola in
modo
completo i diritti dell’appaltatore.
Da un lato,
sottraendogli
la facoltà di scelta tra richiesta d’adempimento e
risoluzione
(in funzione dell’interesse pubblico alla sollecita
esecuzione del contratto) e, dall’altro, circoscrivendo con
precisione gli effetti economici dello scioglimento del
rapporto,
sì da consentire all’appaltatore di avanzare l’istanza
di recesso sulla base d’una piena cognizione delle sue
conseguenze
e alla P.A. di valutare anticipatamente gli effetti
del ritardo e l’opportunità di mantenere in vita il
rapporto,
ovvero di adottare una diversa determinazione in vista
dell’eventuale
superamento degli originari limiti di spesa
(Cass., Sez. I, 14.04.2004, n. 7069).
È quindi errato pretendere l’applicazione del differente
canone
legislativo (art. 41, d.P.R. n. 1063/1962) che, nel
determinare
le modalità di calcolo della percentuale delle
opere non eseguite dovuta all’appaltatore in aggiunta
all’importo
dei lavori eseguiti ed al valore dei materiali utili
esistenti in cantiere, si riferisce alla sola ipotesi in cui
lo
scioglimento del contratto abbia avuto luogo ai sensi della
L. n. 2248/all.F/1865 (oggi si veda l’art. 134, D.Lgs. n.
163/2006, Codice dei contratti pubblici) ossia per volontà
della P.A.: sicché non è applicabile al caso di mancata o
ritardata
consegna dei lavori (Corte
di
Cassazione, Sez. I civile,
sentenza 30.04.2015 n. 8842
- Urbanistica
e appalti n. 7/2015). |
ESPROPRIAZIONE: ANNULLAMENTO DEGLI ATTI DELLA PROCEDURA
ESPROPRIATIVA E RESPONSABILITÀ DA OCCUPAZIONE.
L’annullamento, da parte del giudice amministrativo,
degli atti della procedura espropriativa fa sì che
l’occupazione,
anche parziale, di terreni da parte della P.A. assuma
le connotazioni di un illecito permanente, mentre
il privato rimane proprietario dei terreni medesimi, sicché
di questo illecito deve rispondere la pubblica
amministrazione
committente, non l’impresa appaltatrice.
La Corte d’Appello, in riforma della sentenza di primo
grado,
rigettò la domanda proposta da alcuni privati volta alla
condanna di un Comune al risarcimento dei danni cagionati
a un fondo di loro proprietà in occasione dell’esecuzione di
opere pubbliche (una scuola e due strade) realizzate su
altra porzione finitima dello stesso fondo, contestualmente
occupata e già acquisita in precedenza dallo stesso Comune
convenuto.
Ritenne la Corte di merito che la responsabilità
dei danni lamentati non potesse essere addebitata al
Comune committente delle opere, ma all’appaltatore che
nel corso dei lavori aveva depositato sul fondo degli attori
il
materiale risultante dagli sbancamenti, causando una
sopraelevazione
del piano di campagna e seppellendo una
sorgente e una vasca di raccolta dell’acqua.
Contro la sentenza d’appello i privati ricorrono per
Cassazione,
che cassa con rinvio.
Osserva la Suprema Corte che -come risulta dalla stessa
sentenza impugnata- il Comune “in forza di decreti
prefettizi
poi annullati dal giudice amministrativo”, aveva occupato
l’intera estensione di mq. 7.900 del fondo degli attori.
Ne consegue che, come dedotto dai ricorrenti, non può
addebitarsi
all’appaltatore l’occupazione della porzione di fondo
non acquisita al patrimonio comunale, benché dal Comune
contestualmente occupata.
Infatti, l’occupazione dell’intero
fondo avvenne in forza di un decreto prefettizio poi
annullato, non per iniziativa dell’impresa appaltatrice,
alla
quale il Comune consegnò l’intera superficie di mq. 7.900
già occupata e che dunque, in ogni caso può considerarsi
soltanto corresponsabile dell’illecita opposizione.
Fondatamente pertanto gli attori hanno chiesto la condanna
del Comune alla restituzione del loro fondo ancor
abusivamente
occupato, oltre al risarcimento dei danni derivanti
dall’illecita occupazione.
La Corte richiama, in proposito, la propria
giurisprudenza
secondo la quale "l’annullamento, da parte del
giudice amministrativo, degli atti della procedura
espropriativa
fa sì che l’occupazione, anche parziale, di terreni
da parte della P.A. assuma le connotazioni di un illecito
permanente, mentre il privato rimane proprietario dei
terreni
medesimi” (Cass., Sez. I, 21.06.2010, n. 14940) e di
questo illecito deve rispondere la pubblica amministrazione,
non l’impresa appaltatrice (Corte di Cassazione, Sez. I
civile,
sentenza 27.04.2015 n. 8466
- Urbanistica e
appalti n. 7/2015). |
EDILIZIA PRIVATA: REQUISITI VALUTABILI DA PARTE DEL GIUDICE
DELL’ESECUZIONE A SEGUITO DELLA RICHIESTA DI REVOCA
O SOSPENSIONE DELL’ORDINE DI DEMOLIZIONE.
In tema di reati edilizi il giudice dell’esecuzione
investito
della richiesta di revoca o di sospensione dell’ordine
di demolizione delle opere abusive di cui al d.P.R. n. 380
del 2001, art. 31, in conseguenza della presentazione di
una istanza di condono o sanatoria successiva al passaggio
in giudicato della sentenza di condanna, è tenuto
a esaminare i possibili esiti ed i tempi di conclusione
del procedimento amministrativo e, in particolare:
a) il
prevedibile risultato dell’istanza e la sussistenza di
eventuali cause ostative al suo accoglimento;
b) la durata
necessaria per la definizione della procedura, che
può determinare la sospensione dell’esecuzione solo
nel caso di un suo rapido esaurimento, non essendo
consentito paralizzare in modo indefinito il ripristino
dell’assetto urbanistico violato.
La Corte Suprema torna a pronunciarsi, con la sentenza in
esame, sul tema delle condizioni e dei requisiti che il
giudice
dell’esecuzione è chiamato a valutare in presenza di
un’istanza di revoca o sospensione dell’ordine di
demolizione.
La vicenda processuale trae origine dall’ordinanza con
cui, il Tribunale rigettava l’istanza con la quale si
chiedeva
la revoca o la sospensione dell’ingiunzione a demolire un
immobile principale ed un fabbricato secondario, oggetto
di sanzione penale; secondo il Giudice, infatti, gli stessi
non potevano esser condonati poiché non rispettavano i
limiti
-volumetrici e non- fissati dalla L. 23.12.1994,
n. 724 e dalla L. 24.11.2003, n. 326.
Contro la
sentenza
proponeva ricorso per Cassazione l’interessato, dolendosi
del fatto che il Giudice avrebbe erroneamente ritenuto
il fabbricato principale come immobile unico, anziché
due immobili distinti, si che avrebbe sommato i volumi di
entrambi (nell’ottica dei limiti di cui alle leggi citate),
anziché
considerarli autonomamente; errore dimostrato dall’intera
documentazione esibita, comprese le integrazioni,
nonché dagli importi versati a titolo di oblazione (al
riguardo,
il ricorrente sviluppa diffusi calcoli circa le superfici in
oggetto).
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha dichiarato inammissibile il ricorso, osservando che il
Tribunale
di Napoli aveva fatto buon governo di questi principi,
rilevando -con riguardo sia all’immobile principale che al
fabbricato secondario- la completa assenza dei requisiti
di cui alle L. n. 47 del 1985 e L. n. 724 del 1994 e,
quindi, il
prevedibile esito negativo delle relative istanze; in ordine
ad entrambi i beni, infatti, il Giudice aveva sottolineato
che
gli ampliamenti realizzati eccedevano il consentito
suscettibile
di condono, sia in termini assoluti che in percentuale
rispetto
alla volumetria della costruzione originaria.
Ciò, peraltro,
con ulteriori precisazioni:
1) quanto al manufatto
principale, le due domande di condono si riferivano, in
effetti,
ad un unico immobile;
2) quanto al fabbricato secondario,
il vincolo paesaggistico che grava sull’intera isola di
Ischia avrebbe comunque impedito un intervento della
tipologia
di quello realizzato, invero insuscettibile di condono;
3) l’ordine di demolizione concerne anche opere successive
a quelle oggetto di iniziale abuso, anch’esse prive
di ogni titolo.
Orbene, a fronte di una motivazione,
l’interessato
introduceva soltanto valutazioni di mero fatto (circa
l’“unicità” o meno del fabbricato principale o la natura del
vincolo paesaggistico sulla specifica area) e calcoli
aritmetici
(circa le volumetrie), sollecitando alla Cassazione una
nuova e diversa lettura, alternativa e più favorevole di
quella
compiuta dal Tribunale.
Quel che, però, non è consentito
in sede di legittimità (v., nella giurisprudenza della
Cassazione,
in senso conforme: Cass. pen., Sez. III, n. 47263 del
17.11.2014, R., in CED, n. 261212; Sez. III, n.
13746 del dep. 22.03.2013, F. e altro, in CED, n.
254752) (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.04.2015 n. 17135
- Urbanistica e appalti n.
7/2015). |
EDILIZIA PRIVATA: SEQUESTRO PREVENTIVO IN ZONA VINCOLATA SEMPRE
ESEGUIBILE INDIPENDENTEMENTE DALL’ULTIMAZIONE
DELL’OPERA ABUSIVA.
In tema di violazioni edilizie, ai fini della legittimità
del
provvedimento di sequestro preventivo, la sola esistenza
di una struttura abusiva, realizzata senza autorizzazione
e in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, integra
il requisito dell’attualità del pericolo, indipendentemente
dall’essere l’edificazione ultimata o meno, posto
che l’offesa al territorio e gli effetti lesivi
all’equilibrio
urbanistico perdurano e sono, anzi, aggravati
dall’utilizzazione
della costruzione ultimata.
La questione giuridica oggetto di esame da parte della
Suprema
Corte verte, in particolare, sulla eseguibilità del
sequestro
preventivo di un’opera abusivamente realizzata pur
in presenza di intervento edilizio ultimato.
La vicenda
processuale
trae origine dall’ordinanza con la quale il Tribunale,
quale giudice del riesame, ha accolto le istanze degli
indagati
(nelle rispettive qualità di committente e progettista
dei lavori) nei cui confronti si procedeva per i reati di
cui al
D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, comma 1-bis (costruzione
su area boschiva soggetta a vincolo paesaggistico senza
autorizzazione della competenze autorità) e d.P.R. n. 380
del 2001, art. 44, lett. c) (realizzazione di una
lottizzazione a
scopo edificatorio), annullando il decreto di sequestro
preventivo
emesso dal G.I.P. sulle opere edilizie realizzate dai
detti indagati.
Nell’annullare il provvedimento cautelare il
Tribunale, per quanto qui di interesse, escludeva la
sussistenza
del periculum in mora in relazione alla avvenuta
pressoché totale ultimazione delle opere edilizie. Avverso
la detta ordinanza ricorre il Procuratore della Repubblica,
sostenendo, quanto al profilo attinente al periculum in
mora,
che le opere edilizie non erano ultimate (essendo state
definite solo quelle strutturali), e i rilievi fotografici
costituivano
la prova -ritenuta superata dal Tribunale- della necessità
di svolgere ulteriori lavori mediante i macchinari
esistenti in loco e raffigurati nelle fotografie allegate;
inoltre,
anche a voler considerare ultimate le opere, in ogni caso
il Tribunale non avrebbe tenuto conto dell’impatto sul
territorio e sull’ambiente circostante della costruzione e
degli
effetti perduranti collegati alla natura permanente del
reato.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha accolto il ricorso, osservando che, trattandosi di reato
di
natura permanente, essa legittima il sequestro preventivo
delle opere edilizie realizzate in zona sottoposta a vincolo
anche nel caso di ultimazione dei lavori, perché
l’esecuzione
di interventi edilizi in zona vincolata ne protrae nel tempo
e ne aggrava le conseguenze, determinando e radicando
il danno all’ambiente ed al quadro paesaggistico che il
vincolo ambientale mira a salvaguardare; senza dire che
nessun rilievo assume una eventuale ultimazione delle opere,
in quanto il rischio di offesa al territorio ed
all’equilibrio
ambientale, a parte l’effettivo danno al paesaggio, perdura
in stretta connessione con l’utilizzazione della costruzione
ultimata (per tali concetti, v.: Cass. pen., Sez. II, n.
23681
dell’11.06.2008, C., in CED, n. 240621; Sez. III, n.
30932 del 24.07.2009, T., in CED, n. 245207; Sez. III,
n.
42363 del 15.10.2013, C., in CED, n. 257526)
(Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 24.04.2015 n. 17129
- Urbanistica e appalti n. 7/2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
LA FINALITÀ DELL’OPERA DISTINGUE L’ATTIVITÀ DI
SPIANAMENTO LIBERA DA QUELLA VINCOLATA AD UNA
PREVENTIVA AUTORIZZAZIONE.
Le opere di scavo, di sbancamento e di livellamento del
terreno, finalizzate ad usi diversi da quelli agricoli, in
quanto incidenti sul tessuto urbanistico del territorio,
sono assoggettate a titolo abilitativo edilizio; ed invero,
ciò che connota l’attività di spianamento libera da quella
vincolata ad una preventiva autorizzazione è, dunque,
la finalità dell’opera, nel senso che solo una migliore
sistemazione di un terreno per uso agricolo al fine di
una più adeguata coltivazione esula dalla norma urbanistica.
Il tema affrontato dalla Corte di Cassazione con la sentenza
in esame attiene alla necessità o meno di un titolo
abilitativo
edilizio in presenza di interventi consistenti nella
movimentazione
del terreno.
La vicenda processuale trae origine
dalla sentenza con cui la Corte di Appello, in parziale
riforma
della sentenza del tribunale, condannava l’imputato,
cui erano stati contestati i reati di cui al D.P.R. n. 380
del
2001, art. 44, lett. c), D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181 e
del
D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 256, comma 1, lett. a).
In
particolare,
si contestava al medesimo, nella sua qualità di
amministratore
unico della impresa B. s.p.a. “di avere ... con
più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso,
realizzato opere edilizie di seguito indicate in assenza del
permesso di costruire e più precisamente per avere
realizzato
su area di proprietà della società citata (di cui ai mappali
10852, 2154, 3941) un piazzale dell’estensione di circa
3.000 mq. utilizzando per la realizzazione dello stesso
materiale
litoide proveniente dalla foce del fiume O. a L. d’I.,
nonché due baracche in lamiera zincata ed un container su
basamento di calcestruzzo”.
Al medesimo veniva poi
contestato
il reato di cui al D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181
(sanzionato
dal d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. c) “per avere,
nella rispettiva qualità di cui sopra, eseguito opere
indicate
al capo a) in zona sottoposta a vincolo paesaggistico
e ambientale in assenza della preventiva autorizzazione
prevista dal D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 146”. Contro la
sentenza
proponeva ricorso per cassazione l’imputato, in particolare
sostenendo che detti reati non erano configurabili,
trattandosi di attività non soggette a preventiva
autorizzazione.
La Cassazione, respingendo il ricorso dell’imputato, ha
affermato
il principio di cui in massima, evidenziando il piazzale
è stato realizzato per scopi chiaramente industriali
(stoccaggio dei rifiuti provenienti dall’attività
estrattiva),
sottolineando come il livellamento fosse avvenuto su un’area
già oggetto di discarica abusiva, aggiungendosi che “il
Piano di caratterizzazione del sito non prevedeva la
realizzazione
di alcun piazzale ma solo interventi di indagini integrative
concernenti il torrente O. al fine di dell’adozione del
successivo piano di bonifica”.
Ciò è valso per disattendere
la tesi difensiva, riproposta con il ricorso, secondo la
quale
tale piazzale costituiva una sorta di operazione
propedeutica
alla bonifica, in quanto, essendo ancora in corso l’iter
amministrativo per la predisposizione di tale piano,
qualsiasi
intervento da effettuare in quel sito doveva essere
preventivamente
autorizzato.
Peraltro, nessuna autorizzazione
era stata poi rilasciata a posteriori ed, anzi, era stata
ordinata
la rimessione in pristino dell’area con relativo ordine
di bonifica. La sentenza da continuità ad un indirizzo
giurisprudenziale
consolidato (v., tra le tante: Cass. pen., Sez.
III, n. 4722 del 23.04.1994, G., in CED, n. 198730)
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.04.2015 n. 17114
- Urbanistica e appalti n. 7/2015). |
LAVORI PUBBLICI: CONDIZIONI PER LA PROROGA LEGALE DEI TERMINI
D’OCCUPAZIONE D’URGENZA E DELLE DICHIARAZIONI DI
P.U..
Costituisce sedimentato principio giurisprudenziale
quello per cui -in deroga alla regola dell’indipendenza
dei termini della dichiarazione di p.u. da quelli indicati
nel decreto di occupazione temporanea- i termini delle
occupazioni d’urgenza e delle dichiarazioni di pubblica
utilità in corso alla data di entrata in vigore delle LL. 01.03.1985, n. 42, 29.02.1988, n. 47, L. 20.05.1991, n. 158, sono stati da dette leggi prorogati, con
effetto
retroattivo, ai sensi dell’art. 4 della L. 01.08.2002, n. 166, automaticamente, di cinque anni.
Una Corte di Appello, in riforma della sentenza resa in
prime
cure dal Tribunale, con sentenza parziale condannava
un Comune al risarcimento dei danni in favore di alcuni
privati
per l’occupazione illegittima e l’irreversibile
trasformazione
di un terreno di proprietà degli originari attori, sul
quale era stata realizzata un’opera pubblica.
In
particolare,
la Corte di Appello osservava che nella specie era decorso
il termine quinquennale per il compimento
dell’espropriazione,
con cui la Giunta municipale aveva dichiarato la pubblica
utilità dell’opera: per l’effetto, era divenuta illegittima
l’occupazione d’urgenza, indipendentemente dal fatto che i
relativi termini fossero ancora in corso, e doveva
considerarsi
emesso in carenza di potere il decreto di esproprio
emesso.
Pertanto, considerata l’originaria validità della
dichiarazione
di pubblica utilità, si era realizzata una fattispecie di
accessione invertita e il danno subito dagli attori doveva
essere liquidato secondo i criteri dettati dal D.L. n.
333 del 1992 (art. 5-bis, comma 7-bis, introdotto dalla L.
n.
662 del 1996).
Con sentenza definitiva, successivamente intervenuta, la
Corte di Appello stabiliva l’ammontare del risarcimento dei
danni dovuto agli attori, avendo riguardo all’intero valore
venale del terreno. In proposito, la Corte richiamava la
sentenza
Corte cost., n. 349/2007 che aveva dichiarato l’illegittimità
del criterio riduttivo previsto dall’art. 5-bis, comma 7-bis, cit., ed affermava che sul punto si doveva escludere la
formazione di un qualsiasi giudicato, la cui portata era
limitata
alla condanna al risarcimento dei danni e non investiva
il relativo criterio di determinazione che rispetto a detta
condanna rappresentava non un prius, ma un posterius.
Il Comune propone ricorso per Cassazione, che la Corte
accoglie.
Merita osservarsi come -alla sintesi di tutte le doglianze-
la Suprema Corte richiami con fermezza la propria costante
giurisprudenza per la quale i termini di cui alla L. n.
2359/1865, previsti per il compimento delle espropriazioni
e dei lavori, ed i termini fissati dal decreto di
occupazione,
ai sensi dell’art. 20 della L. n. 865/1971, assolvono
diverse
funzioni nell’ambito della procedura espropriativa: i primi
segnando il limite per la giuridica esistenza e validità
della
dichiarazione di pubblica utilità, condizione di validità
della
potestà espropriativa; i secondi -relativi all’occupazione
temporanea- riguardando l’apprensione del bene per l’inizio
dei lavori ed il completamento delle procedure di
espropriazione
e dell’opera pubblica, con la conseguenza che l’inutile
decorso del termine, non prorogato né modificato,
previsto dalla dichiarazione di pubblica utilità comporta la
sopravvenuta inefficacia del relativo provvedimento, anche
indipendentemente dalla presenza di un più lungo termine
previsto per l’occupazione temporanea e dalle successive
proroghe di esso (Cass., SS.UU., nn. 10024/2007 e
20459/2005).
Sennonché il legislatore, in vista
dell’emanazione
di una nuova definitiva normativa sulla indennità di
espropriazione in conseguenza delle note declaratorie di
incostituzionalità
contenute nelle decisioni nn. 233/1983 e
5/1980 della Corte Costituzionale, aveva disposto una serie
di proroghe obbligatorie dei termini per il compimento del
procedimento espropriativo (a partire dal D.L. n. 901/1984).
Di dette proroghe, quella recata dall’art. 4 della L. n.
166/2002, ha ribadito il collegamento necessario per
raggiungere
la finalità perseguita in relazione non soltanto alle
occupazioni temporanee, ma anche alle dichiarazioni di
p.u. che del provvedimento di occupazione costituiscono il
presupposto indefettibile (Cass. n. 4202/2009; Cass.,
SS.UU., n. 3569/2011).
Di conseguenza la giurisprudenza
di questa Corte e quella amministrativa hanno affermato il
principio che -in deroga alla regola della indipendenza dei
termini della dichiarazione di p.u. da quelli indicati nel
decreto
di occupazione temporanea- i termini delle occupazioni
d’urgenza e delle dichiarazioni di pubblica utilità in
corso alla data di entrata in vigore delle LL. 01.03.1985,
n. 42; 29.02.1988, n. 47; L. 20.05.1991, n. 158;
sono stati da dette leggi prorogati, con effetto
retroattivo,
ai sensi dell’art. 4 della L. 01.08.2002, n. 166,
automaticamente,
di cinque anni (Cass. 21.06.2012, n. 10394;
Cass., SS.UU., 08.02.2006, n. 2630).
Nella specie, il
termine quinquennale della dichiarazione di pubblica utilità
-resa con Delibera del 19.07.1980- era ancora in corso
alla data di entrata in vigore della citata L. n. 42/1985 e,
pertanto, è stato da essa prorogato, con conseguente
tempestività
del decreto di esproprio emesso il 21.11.1986, atteso che a tale data era ancora in corso, per essere
stato a sua volta prorogato dalle medesime leggi, anche il
...
(Corte di
Cassazione, Sez. I civile,
sentenza 23.04.2015 n. 8315
- Urbanistica e appalti n. 7/2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
LA REALIZZAZIONE DI TETTOIE RILEVA SOTTO IL PROFILO
URBANISTICO E RICHIEDE IL PERMESSO DI COSTRUIRE OVE
DIFETTI DEI REQUISITI RICHIESTI PER LE PERTINENZE E PER
GLI INTERVENTI PRECARI.
La realizzazione di tettoie assume comunque rilevanza
sotto il profilo urbanistico, richiedendo quindi il permesso
di costruire, allorché difetti dei requisiti richiesti
per le pertinenze e per gli interventi precari, come
peraltro
avviene con riferimento a tutte le tipologie di manufatti;
ed invero, le tettoie sono state sempre considerate
come parti di un edificio preesistente o autonomamente
valutate come interventi di nuova costruzione.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame,
sull’individuazione delle condizioni e dei requisiti in
presenza
dei quali la realizzazione di una “tettoia” richiede il
preventivo
rilascio di un titolo abilitativo edilizio.
La vicenda
processuale segue alla sentenza con la quale la Corte di
Appello ha subordinato alla demolizione dell’opera abusiva
la sospensione condizionale della pena, in quanto l’imputata
era stata riconosciuta responsabile dei reati di cui al
d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. e), artt. 65, 72, 93,
94 e
95 e D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181 per aver realizzato,
sul
piano attico di un preesistente edificio insistente in zona
sismica,
sottoposta a vincolo paesaggistico, in assenza dei
necessari titoli abilitativi, una tettoia in materiale
ligneo e
laterizi, a due spioventi, avente una superficie di circa 40
mq, comportante modifica strutturale e di sagoma del
preesistente edificio.
Contro la sentenza proponeva ricorso
per cassazione l’imputata, in particolare denunciando la
violazione di legge ed il vizio di motivazione con
riferimento
alla ritenuta necessità del permesso di costruire,
trattandosi,
nella fattispecie, di intervento avente natura meramente
pertinenziale.
La Corte, nel respingere il ricorso, ha affermato il
principio
di cui in massima, ricordando che l’opera precaria, per la
sua stessa natura e destinazione, non comporta effetti
permanenti
e definitivi sull’originario assetto del territorio tali
da richiedere il preventivo rilascio di un titolo
abilitativo.
Secondo
la giurisprudenza della Cassazione, la precarietà di
un’opera non può essere desunta dalla temporaneità della
destinazione soggettivamente datale dall’utilizzatore, non
rilevano le sue caratteristiche costruttive, i materiali
impiegati
e l’agevole amovibilità, mentre risulta determinante
l’intrinseca destinazione materiale ad un uso realmente
precario per fini specifici, contingenti e limitati nel
tempo
con destinazione ad una sollecita eliminazione alla
cessazione
dell’uso (cfr. Cass. pen., Sez. III, n. 966 del 13.01.2015, M., in CED, n. 261636; Id., Sez. III, n. 22054 del
27.05.2009, F., in CED, n. 243710).
Parimenti, per ciò
che concerne le pertinenze, si è precisato (Sez. III, n.
25669 del 30.05.2012, Z. e altro, in CED, n. 253064)
che, affinché un manufatto presenti il carattere della
pertinenza,
si richiede che abbia una propria individualità, che
sia oggettivamente preordinato a soddisfare le esigenze di
un edificio principale legittimamente edificato, che sia
sfornito
di autonomo valore di mercato, che abbia ridotte dimensioni,
che sia insuscettibile di destinazione autonoma e
che non si ponga in contrasto con gli strumenti urbanistici
vigenti (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 22.04.2015 n. 16806
- Urbanistica e appalti n.
7/2015). |
URBANISTICA:
IL C.D. FRAZIONAMENTO INTEGRANTE LA LOTTIZZAZIONE
VIETATA DALLA LEGGE PUÒ ANCHE REALIZZARSI MEDIANTE
OGNI ALTRA FORMA DI SUDDIVISIONE DI FATTO.
Il c.d. frazionamento integrante attività lottizzatoria
vietata
dalla legge non deve necessariamente avvenire attraverso
un’apposita operazione catastale che preceda
le vendite o, comunque, gli atti di disposizione, potendosi
anche realizzare mediante ogni altra forma di suddivisione
di fatto, atteso che il termine “frazionamento”
deve ritenersi utilizzato dal legislatore in modo atecnico
e, pertanto, riferito a qualsiasi attività giuridica che
abbia
per effetto la suddivisione in lotti di una più ampia
estensione territoriale, comunque predisposta od attuata
ed anche se avvenuta in forma non catastale, attribuendone
la disponibilità ad altri al fine di realizzare
una non consentita trasformazione urbanistica o edilizia
del territorio.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame,
sulla disciplina lottizzatoria e, più specificamente, di
quell’attività,
prevista dalla legge, consistente nel c.d. frazionamento
catastale.
La vicenda processuale segue alla sentenza
con la quale la Corte di appello ha dichiarato non doversi
procedere nei confronti degli imputati, in ordine ai
reati loro ascritti concernenti ipotesi di lottizzazione
abusiva
e connessi abusi edilizi e violazioni paesaggistiche perché
estinti per prescrizione, confermando la confisca del
terreno.
Contro la sentenza proponevano ricorso per cassazione gli
interessati, in particolare sostenendo, in relazione alla
ritenuta
sussistenza della lottizzazione abusiva, che dall’istruzione
dibattimentale non sarebbe emersa la sussistenza
dei presupposti per la configurabilità del reato nella forma
della lottizzazione negoziale, né risulterebbero
trasformazioni
irreversibili del fondo attraverso la realizzazione di
opere di urbanizzazione.
Non sarebbe stata, inoltre,
considerata
la effettiva natura e consistenza delle opere realizzate;
la dedotta insussistenza della lottizzazione abusiva, poi,
avrebbe dovuto comportare la restituzione dell’area agli
aventi diritto e non anche la confisca.
La Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso e,
nell’affermare
il principio di cui in massima, ha ricordato come
si abbia una lottizzazione negoziale quando la
trasformazione
di un’area venga attuata attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti che, per
le loro
caratteristiche, quali la dimensione in relazione alla
natura
del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti
urbanistici, il numero, l’ubicazione o la eventuale
previsione
di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi
riferiti
agli acquirenti, denuncino in modo non equivoco la
destinazione
a scopo edificatorio.
Come emerge dalla descrizione
medesima dell’art. 30, d.P.R. n. 380 del 2001, la
lottizzazione negoziale si configura sulla base di situazioni che la
giurisprudenza amministrativa e quella penale indicano come
elementi indiziari. L’elencazione di tali indici rivelatori
dell’intento lottizzatorio non è tassativa e, secondo la
giurisprudenza,
essi non devono necessariamente coesistere,
ritenendosi sufficiente che lo scopo edificatorio emerga
anche
da un solo indizio (v., nella giurisprudenza amministrativa:
Cons. Stato, Sez. V, n. 3136 del 14.05.2004;
Cons. Stato, Sez. IV, n. 2004 del 31.03.2009; Cass.
pen., Sez. III, n. 39078 del 13.07.2009, A., non massimata
sul punto).
Può configurarsi, perciò, lottizzazione
negoziale
anche nell’ipotesi in cui venga stipulato un solo atto
di trasferimento a più acquirenti, i quali pervengano nella
disponibilità e/o nel godimento di quote di un terreno
indiviso
e questo, anzi, è un meccanismo al quale si è fatto
frequentemente
ricorso proprio con l’intento di aggirare, attraverso
una forma stipulatoria “mascherata”, il divieto di
lottizzazione posto dal legislatore (Cass. pen., Sez. III,
n.
6080 del 07.02.2008, C. e altri, in CED, n. 238978;
Id.,
Sez. VI, n. 48472 del 28.11.2013, P.M. in proc. D’A.
e altri, in CED, n. 257457) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 22.04.2015 n. 16803
- Urbanistica
e appalti n. 7/2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
IL COSTRUTTORE PUÒ RISPONDERE INDIFFERENTEMENTE
PER DOLO O PER COLPA IN CASO DI COSTRUZIONE
ABUSIVA.
Il costruttore, quale diretto responsabile dell’opera, prima
di iniziare i lavori, ha il dovere di controllare che siano
state richieste e rilasciate le prescritte autorizzazioni,
con la conseguenza che risponderà a titolo di dolo,
se darà inizio alle opere nonostante l’accertamento
negativo,
ed a titolo di colpa, nell’ipotesi in cui ometta tale
accertamento, perché la responsabilità del costruttore
trova il suo fondamento nella violazione dell’obbligo,
imposto dalla legge, di osservare le norme in materia
urbanistico-edilizia.
Il tema oggetto di attenzione da parte della Suprema Corte
con la sentenza in esame è quello, assai frequente nella
prassi di legittimità, della possibilità di individuare come
responsabile
dei lavori edilizi il c.d. costruttore.
La vicenda
processuale trae origine dalla sentenza con cui la Corte di
Appello ha confermato l’affermazione di responsabilità
penale
di due imputati per il reato di cui al d.P.R. n. 380 del
2001, art. 44, lett. b), loro attribuito, nelle rispettive
qualità
di proprietario committente e legale rappresentante
dell’impresa
esecutrice dei lavori, per la realizzazione, in assenza
di titolo abilitativo, di un edificio con tetto a capanna
delle dimensioni di m. 11,03 e 6,02, con altezza di gronda
pari a m. 2,60 ed al colmo 3,82, per un volume complessivo
di circa mc 172,65, suddiviso in tre ambienti: ampio locale,
angolo cottura e bagno.
Contro la sentenza, per quanto
qui di interesse, proponeva ricorso per cassazione il
costruttore,
in particolare sostenendo che i giudici di merito
avrebbero ignorato la sua particolare posizione in seno alla
società F. S.r.l., della quale egli era co-amministratore con
poteri disgiunti per l’ordinaria amministrazione,
nell’ambito
della quale certamente rientrerebbe l’intervento edilizio
oggetto
di imputazione, non considerando che solo l’altro
amministratore era presente in cantiere all’atto
dell’accertamento del reato che, pertanto, non poteva essere
attribuito
anche a lui.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha osservato che secondo quanto disposto dal d.P.R. n.
380 del 2001, art. 29, anche l’assuntore dei lavori,
indicato
come costruttore, è responsabile della conformità delle
opere alla normativa urbanistica, alle previsioni di piano
nonché, unitamente al direttore dei lavori, a quelle del
permesso
e alle modalità esecutive stabilite dal medesimo.
Come correttamente rilevato dalla Corte d’appello,
indipendentemente
dal regime di amministrazione disgiuntiva
adottata dalla società, l’imputato rivestiva comunque la
posizione
di legale rappresentante della società che l’obbligava
a vigilare sulla regolarità degli interventi da eseguire. La
sentenza da continuità ad un indirizzo giurisprudenziale
consolidato (v., tra le tante: Cass. pen., Sez. III, n. 860
del
18.01.2005, C., in CED, n. 230663)
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 22.04.2015 n. 16802
- Urbanistica e appalti n. 7/2015). |
EDILIZIA PRIVATA: LA DISCIPLINA DEGLI IMPIANTI DI PRODUZIONE DI ENERGIA
DA FONTI RINNOVABILI NELLE ZONE AGRICOLE NON RILEVA
AI FINI DELLA DEROGA SULLA REALIZZABILITÀ SUI
SOPRASSUOLI PERCORSI DAL FUOCO.
Il D.Lgs. n. 387 del 2003, art. 12, comma 7, limitandosi a
prevedere la possibilità di ubicare gli impianti di
produzione
di energia da fonti rinnovabili anche nelle zone
classificate come agricole, peraltro con determinati
obblighi,
non assume rilievo ai fini dell’applicabilità della
deroga di cui alla L. n. 353 del 2000, art. 10, che consente
la realizzazione di edifici, strutture ed infrastrutture
finalizzate ad insediamenti civili ed attività produttive
nei soprassuoli percorsi dal fuoco nei casi in cui la
realizzazione
sia stata prevista in data antecedente all’incendio
dagli strumenti urbanistici vigenti a tale data.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame,
sul tema dei rapporti intercorrenti tra la disciplina in
materia
di realizzazione di impianti di produzione di energia da
fonti rinnovabili e quella che consente la realizzazione di
edifici, strutture ed infrastrutture finalizzate ad
insediamenti
civili ed attività produttive nei soprassuoli percorsi dal
fuoco
nei casi in cui la realizzazione sia stata prevista in data
antecedente all’incendio dagli strumenti urbanistici vigenti
a tale data.
La vicenda processuale segue alla ordinanza
con la quale il Tribunale ha confermato il decreto di
sequestro
preventivo emesso dal Giudice per le indagini preliminari
avente ad oggetto un parco eolico, composto da nove
generatori e tre cabine elettriche, dalle opere di
urbanizzazione
asservite e dai terreni limitrofi, ipotizzandosi nei
confronti
dell’amministratore della “A.W. s.r.l.”, i reati di cui al
D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b) e c).
Contro
l’ordinanza
quest’ultimo proponeva ricorso per cassazione, in
particolare lamentando, da un lato, che il Tribunale avrebbe
erroneamente escluso la possibilità di fare ricorso alla
procedura semplificata di cui all’art. 12, comma 5, D.Lgs.
n. 387/2003, per la realizzazione dell’impianto eolico, in
quanto lo stesso sarebbe stato artificiosamente frazionato,
censurando l’erronea individuazione, da parte dei giudici
del riesame, dei “punti di connessione” nelle cabine di
trasformazione
invece che nei contatori collegati a ciascuna
turbina, come precisato nell’art. 1, comma 1, lett. ee), e
art. 5 dell’Allegato A della deliberazione ARG/eIt 99/88
dell’Autorità
dell’Energia: da ciò conseguirebbe che i nove aerogeneratori
costituirebbero singoli impianti mini-eolici, ciascuno
di potenza inferiore a 60 Kw, soggetti, pertanto, a
procedura abilitativa semplificata.
Dall’altro, deduceva la
violazione della L. n. 353 del 2000, art. 10, evidenziando
che la contravvenzione di cui del d.P.R. n. 380 del 2001,
art. 44, lett. c), sarebbe stata contestata in relazione al
fatto
che parte delle turbine erano state realizzate su aree
percorse
da incendio, non considerando che la zona è classificata
come “agricola”, ove è prevista la possibilità di installare
pale eoliche; l’esistenza di vincoli sull’area non risultava
nota neppure agli uffici competenti per la definizione
delle pratiche, tanto che non sarebbe stata menzionata nei
certificati di destinazione urbanistica, cosicché non poteva
ipotizzarsi, nei suoi confronti, alcuna negligenza.
La Corte, nel respingere il ricorso, ha affermato il
principio
di cui in massima, ricordando che la L. n. 353 del 2000,
art. 10, laddove consente la realizzazione di edifici,
strutture
ed infrastrutture finalizzate ad insediamenti civili ed
attività
produttive nei soprassuoli percorsi dal fuoco nei casi in
cui la realizzazione sia stata prevista in data antecedente
all’incendio dagli strumenti urbanistici vigenti a tale
data, si
riferisce alla specifica localizzazione dell’area riservata
all’intervento
da parte dello strumento urbanistico e non anche
alla previsione di zona, con la conseguenza che non rileva,
ai fini della speciale deroga, la generica compatibilità
dell’intervento con la destinazione dell’area, essendo al
contrario richiesto che l’area medesima sia già riservata
dallo strumento urbanistico alla realizzazione delle
predette
opere (Cass. pen., Sez. III, n. 16592 del 31.03.2011, S.,
in CED, n. 250154.; Id., Sez. III, n. 32807 del 23.04.2013, P.M. in proc. T., in CED, n. 255905).
A ciò non
sopperisce
certo -secondo gli Ermellini- il D.Lgs. n. 387 del
2003, art. 12, comma 7, il quale si limita a prevedere la
possibilità di ubicare gli impianti di produzione di energia
da fonti rinnovabili anche nelle zone classificate come
agricole,
peraltro con l’obbligo di tenere conto “delle disposizioni
in materia di sostegno nel settore agricolo, con parti
colare riferimento alla valorizzazione delle tradizioni
agroalimentari
locali, alla tutela della biodiversità, così come del
patrimonio culturale e del paesaggio rurale di cui alla L. 05.03.2001, n. 57, artt. 7 e 8, nonché del D.Lgs. 18.05.2001, n. 228, art. 14” (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 21.04.2015 n. 16624
- Urbanistica e
appalti n. 7/2015). |
EDILIZIA PRIVATA: IL REGIME DEI TITOLI ABILITATIVI EDILIZI NON PUÒ ESSERE
ELUSO ATTRAVERSO LA SUDDIVISIONE DELL’ATTIVITÀ
EDIFICATORIA FINALE NELLE SINGOLE OPERE CHE
CONCORRONO A REALIZZARLA.
Il regime dei titoli abilitativi edilizi non può essere
eluso
attraverso la suddivisione dell’attività edificatoria finale
nelle singole opere che concorrono a realizzarla,
astrattamente
suscettibili di forme di controllo preventivo più
limitate per la loro più modesta incisività sull’assetto
territoriale; ed invero, l’opera deve essere infatti
considerata
unitariamente nel suo complesso, senza che sia
consentito scindere e considerare separatamente i suoi
singoli componenti e ciò ancor più nel caso di interventi
su preesistente opera abusiva.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame,
sulla questione, assai ricorrente nella pratica, della
“elusione”
normativa della disciplina edilizia in tema di titoli
abilitativi,
attraverso la presentazione di richieste per interventi
apparentemente inquadrabili in tipologie per le quali è
richiesto
un titolo abilitativo “leggero”, ma che in realtà celano
l’esecuzione di più importanti edificazioni.
La vicenda
processuale segue alla ordinanza con la quale il Tribunale
ha annullato il decreto di sequestro preventivo, emesso dal
Giudice per le indagini preliminari, di un manufatto
costituto
da una tettoia in legno di circa 100 mq, successivamente
tamponata, asservita ad un preesistente locale adibito a
bar ristorante e realizzata in area sismica, soggetta a
vincolo
idrogeologico, in assenza di validi titoli abilitativi e
rispetto
alla quale risulta indagato il proprietario committente,
unitamente ad altri, per i reati di cui al d.P.R. n. 380 del
2001, art. 44, lett. b), artt. 93 e 95; art. 110 c.p., art.
61
c.p., n. 2, art. 81 e 481 c.p.; art. 110 e 323 c.p..
Contro
l’ordinanza
proponeva ricorso per Cassazione il P.M., rilevando
che i giudici del riesame, pur ritenendo sussistente il
fumus
dei reati ipotizzati, si sarebbero adagiati, quanto alla
valutazione del periculum, sulle tesi della difesa, senza
tenere
in alcun conto le contestazioni formulate e gli elementi
emersi in corso di indagine e compiutamente evidenziati
nella richiesta di sequestro preventivo accolta dal G.I.P.,
il
provvedimento del quale ben poteva essere integrato dal
Tribunale, nonché della concreta incidenza delle opere
realizzate
sul carico urbanistico.
La Corte, nell’accogliere il ricorso, ha affermato il
principio
di cui in massima, osservando come, la descrizione della
vicenda sintetizzata dal Tribunale poneva in evidenza una
serie di comportamenti la cui particolarità non può essere
ignorata.
Ci si riferisce, in primo luogo, alle modalità con
le
quali si è proceduto alla realizzazione delle opere
attraverso
la frammentazione degli interventi, assentiti con d.i.a.,
per
giungere al risultato finale della creazione di nuovi volumi
e
la successiva richiesta di un permesso di costruire in
sanatoria,
titolo abilitativo, quest’ultimo, che sarebbe stato dunque
necessario fin dall’inizio per la realizzazione del
manufatto.
Una simile evenienza, che nel caso in esame risultava
ancor più rilevante, avendo l’ufficio di Procura ipotizzato
la
falsità delle asseverazione che accompagnavano le d.i.a. e
l’abuso d’ufficio nel rilascio del titolo abilitativo
sanante,
non poteva essere ignorata, perché si poneva in palese
contrasto con il principio di cui in massima, espressione di
un consolidato orientamento della Cassazione (v., da ultimo:
Cass. pen., Sez. III, n. 5618 del 14.02.2012, F., in
CED, n. 252125) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 21.04.2015 n. 16622
- Urbanistica e appalti
n. 7/2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
LE DEROGHE PREVISTE DALLA NORMATIVA SUL RISPARMIO
ENERGETICO PER LA REALIZZAZIONE DI EDIFICI DI NUOVA
COSTRUZIONE NECESSITANO DI ESPRESSO
RICONOSCIMENTO DA PARTE DELL’ENTE COMUNALE.
Le deroghe previste dalla normativa sul risparmio energetico
per la realizzazione di edifici di nuova costruzione
non possono essere considerate in maniera autonoma
da parte dei proprietari e dei committenti l’opera
edilizia, ma necessitano di espresso riconoscimento da
parte dell’ente comunale attraverso le procedure
autorizzatorie
disciplinate dalla legge.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame,
sulla questione dei rapporti intercorrenti tra la disciplina
in
materia di risparmio energetico per la realizzazione di
edifici
di nuova costruzione e la necessità di titoli abilitativi.
La
vicenda processuale segue alla sentenza con cui il Tribunale
di Nola dichiarava l’imputata colpevole della
contravvenzione
di cui al d.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 44, lett. a);
alla stessa era ascritto di aver apportato variazioni
essenziali
(sagoma, altezza, volume e superficie) al permesso di
costruire in sanatoria rilasciato dal Comune. Contro la
sentenza
l’imputata proponeva ricorso per Cassazione, deducendo
l’erronea applicazione del D.L. 13.05.2011, n.
70, art. 5, comma 2, e d.P.R. n. 380 del 2001, art. 34, comma
2-ter, in quanto, il Tribunale, pur ritenendo le violazioni
di lieve entità, avrebbe omesso di valutare in concreto
l’effettiva
portata delle stesse, non procedendo ad apposita
misurazione.
La Corte, nel respingere il ricorso, ha affermato il
principio
di cui in massima, osservando in particolare, quanto
all’invocato
D.Lgs. n. 115 del 2008, come il Tribunale aveva evidenziato
che l’imputata aveva subito il diniego del permesso
di costruire in sanatoria in ordine alle difformità
riscontrate
(anche) perché “tale adeguamento tecnico non era
stato richiesto, né previsto nel progetto”.
Trattasi, per i
giudici
di legittimità, di una motivazione sintetica, ma del tutto
adeguata, atteso che l’art. 11, comma 1, D.Lgs. in oggetto
(oggi sostituito dal D.Lgs. 04.07.2014, n. 102, art. 14,
comma 6), prevede espressamente che “è permesso derogare,
nell’ambito delle pertinenti procedure di rilascio dei
titoli
abitativi di cui al titolo 2° del d.P.R. 06.06.2001, n.
380, a quanto previsto dalle normative nazionali, regionali
o dai regolamenti edilizi comunali, in merito alle distanze
minime tra edifici, alle distanze minime di protezione del
nastro stradale, nonché alle altezze massime degli edifici”;
con l’effetto -come già affermato dalla stessa Cassazione
(Cass. pen., Sez. III, n. 28048 del 26/01/2011, R., in CED,
n.
250593)- che le deroghe previste dalla normativa sul
risparmio
energetico per la realizzazione di edifici di nuova
costruzione non possono essere considerate in maniera
autonoma da parte dei proprietari e dei committenti l’opera
edilizia, ma necessitano di espresso riconoscimento da parte
dell’ente comunale attraverso le procedure autorizzatorie
disciplinate dalla legge (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 20.04.2015 n. 16326
- Urbanistica
e appalti n. 7/2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
ATTENUANTE DELLA RIPARAZIONE DEL DANNO
RICONOSCIBILE SOLO SE LA DEMOLIZIONE DELL’OPERA
ABUSIVA È SPONTANEA MA NON SE COSTITUISCE
ADEMPIMENTO DI UN OBBLIGO.
L’attenuante della riparazione del danno non può essere
riconosciuta se la demolizione dell’opera abusiva
non è spontanea ma costituisce adempimento all’ordine
di demolizione per evitare l’acquisizione del bene e
dell’area di sedime al patrimonio comunale.
La Corte di Cassazione si occupa, nella sentenza qui
esaminata,
del tema della possibilità di riconoscere all’imputato
l’attenuante della c.d. riparazione del danno in caso di
demolizione dell’opera abusiva.
La vicenda processuale
che ha fornito l’occasione alla Corte per occuparsi della
questione segue alla sentenza di condanna, confermata
anche in grado d’appello, nei confronti di due imputati,
condannati per il reato continuato di cui agli artt. 110 e
81
cpv. c.p., d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. c), e art.
95,
D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, art. 181.
La Corte di
Appello,
in particolare, aveva ritenuto non ancora prescritta
l’abusiva
realizzazione, in zona sismica e sottoposta a vincolo
paesistico, del fabbricato ad un vano che era risultato
privo
di copertura (e dunque non ancora ultimato). Contro la
sentenza
i medesimi proponevano ricorso per cassazione, in
particolare sostenendo l’omessa valutazione, ai fini
dell’invocata
applicabilità dell’art. 62 c.p., n. 6), della integrale
demolizione dei manufatti, effettuata in epoca anteriore
alla
prima udienza.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha respinto sul punto il ricorso, in particolare osservando
che la circostanza attenuante di cui all’art. 62 c.p., n.
6), è
applicabile anche ai reati edilizi limitatamente però alla
previsione
di cui alla seconda parte, trattandosi di reati che
non offendono il patrimonio (Cass. pen., Sez. III, n. 10169
del 04.10.1993, P., in CED, n. 161444).
Proprio per
questo,
concludono gli Ermellini, l’attenuante in questione non
può essere riconosciuta se la demolizione dell’opera abusiva
non è spontanea ma costituisce adempimento all’ordine
di demolizione (viepiù per evitare l’acquisizione del bene
e
dell’area di sedime al patrimonio comunale: v., da ultimo,
Cass. pen., Sez. III, n. 29991 del 13.07.2011, C., in
CED,
n. 251025; cfr. anche, Sez. III, n. 41518 del 22.10.2010, B., in CED, n. 248745) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 20.04.2015 n. 16319
- Urbanistica
e appalti n. 7/2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
LA TEMPORANEITÀ DELL’ESIGENZA NON VA CONFUSA CON
LA SUA STAGIONALITÀ, CHE NON VALE A FAR RITENERE
PRECARIA L’OPERA PUR FACILMENTE AMOVIBILE E MAI
RIMOSSA.
La oggettiva inamovibilità dell’opera non può essere
soverchiata dalla temporaneità delle esigenze che l’opera
intende soddisfare; quand’anche le esigenze siano
temporanee, un immobile saldamente ancorato al suolo
e mai più rimosso non può certamente ritenersi sottratto
a permesso di costruire.
Vi ostano, infatti, le
caratteristiche
strutturali che oggettivamente incidono in modo
non reversibile sull’assetto del territorio e che lo
stesso legislatore ha inteso valorizzare a tal fine (il non
stabile ancoraggio al suolo di cui all’art. 3, comma 3,
lett. e.5, la speculare necessità della effettiva rimozione
dell’opera di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 6, comma
2, lett. b).
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame,
sul tema dei rapporti intercorrenti tra la temporaneità
dell’esigenza
che l’opera edilizia intende soddisfare e il diverso
concetto della stagionalità dell’opera medesima.
La vicenda
processuale segue alla sentenza con cui la Corte di appello
ha confermato la condanna inflitta agli imputati, dichiarati
responsabili del reato di cui all’art. 81 c.p., comma
1, D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, artt. 142 e 181, e d.P.R.
n. 380 del 2001, art. 44, lett. c), perché, in concorso fra
loro,
nelle rispettive qualità di legali rappresentanti della
società
“L.P. S.r.l.”, società committente dei lavori, i primi
due, di esecutore dei lavori il terzo, avevano realizzato,
in
zona sottoposta a vincolo paesaggistico ed in assenza di
qualsiasi titolo abilitativo, un plinto di calcestruzzo
delle dimensioni
di mt. 5x5, sul quale era stata montata una struttura
prefabbricata, nonché una struttura triangolare in legno
e copertura con canne, adibita a barbecue.
Contro la
sentenza gli stessi proponevano ricorso per cassazione, in
particolare eccependo che i manufatti realizzati
costituiscono
interventi di natura precaria, essendo oggettivamente
destinati a soddisfare esigenze improvvise e transeunti.
Non rilevano, secondo la difesa, la natura dei materiali
adottati e la facile amovibilità dell’opera ma le esigenze,
nel caso di specie stagionali, che quest’ultima soddisfa: ai
fini della qualificazione dell’opera come precaria, dunque,
non avrebbe rilevanza il dato strutturale, ma quello
funzionale.
La Corte, nel dichiarare inammissibile il ricorso, ha
affermato
il principio di cui in massima, osservando come la
oggettiva destinazione dell’opera a soddisfare bisogni non
provvisori, la sua conseguente attitudine ad una
utilizzazione
non temporanea, né contingente, è criterio da sempre
utilizzato dalla giurisprudenza per distinguere l’opera
assoggettabile
a regime concessorio (oggi permesso di costruire)
da quella realizzabile liberamente, a prescindere
dall’incorporamento al suolo o dai materiali utilizzati (v.,
tra
le tante: Cass. pen., Sez. III, sentenza n. 22054 del 25.02.2009, quest’ultima con richiamo ad ulteriori precedenti
conformi di questa Corte e del Consiglio di Stato).
Nemmeno il carattere stagionale dell’attività implica di per
sé la precarietà dell’opera (Cass. pen., Sez. III, sentenza
n.
34763 del 21.06.2011). Tali principi sono maturati, sono
stati espressi e sono stati fatti propri dal legislatore nei
termini indicati dal d.P.R. n. 380 del 2001, art. 3, per
superare
le obiezioni volte a identificare la precarietà dell’opera
con la natura dei materiali utilizzati, con il fatto che
l’opera
non fosse stabilmente incorporata al suolo o con la natura
stagionale del servizio cui essa è preposta.
Mai però,
concludono
i giudici di Piazza Cavour, è stato messo in discussione
il principio secondo il quale la oggettiva inamovibilità
dell’opera potesse essere soverchiata dalla temporaneità
delle esigenze che l’opera intende soddisfare (v., da
ultimo:
Cass. pen., Sez. III, n. 34763 del 26 settembre 2011, B., in
CED, n. 251243) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 20.04.2015 n. 16316
- Urbanistica e
appalti n. 7/2015). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: CIRCA IL MOMENTO DI VERIFICA DELLA REGOLARITÀ
URBANISTICA ED EDILIZIA DELL’IMMOBILE
COMPRAVENDUTO.
La verifica circa l’adempimento delle obbligazioni poste
a carico del promittente venditore va compiuta con
riferimento
al momento della data di conclusione del contratto
definitivo, anche in relazione alla regolarità urbanistica
dell’immobile, dovendo in quel momento sussistere le
condizioni per la commerciabilità del bene promesso.
Due privati convennero in Tribunale un altro privato,
esponendo
che quest’ultimo si era impegnato a vendere loro, a
un prezzo predeterminato, un’unità immobiliare ricevendo
a titolo di caparra la somma di trenta milioni di lire.
Quest’ultimo,
di contro, esponeva di aver notificato una diffida
-pena la risoluzione del contratto- al pagamento della
somma di 100 milioni di lire a fronte della quale gli attori
avevano chiesto chiarimenti circa la conformità del
fabbricato
alla normativa vigente, comunicando la loro dichiarazione
di recesso in ragione di talune irregolarità urbanistiche
a loro emerse. Sulla scorta di ciò, chiesero la condanna
al pagamento del doppio della caparra versata al venditore.
Instauratosi il contraddittorio, parte convenuta eccepiva
l’infondatezza della domanda deducendo, fra l’altro, che
erano stati gli attori a rendersi inadempienti per non aver
effettuato il richiesto pagamento dell’acconto e pertanto
chiedeva che, dichiarata l’avvenuta risoluzione del
contratto,
fosse accertato il proprio diritto a trattenere la caparra.
Il Tribunale rigettava la domanda, escludendo in particolare
l’inadempimento della promittente venditrice al momento
d’invio della diffida, posto che nel contratto preliminare
era
stata prevista la soluzione taluni aspetti inerenti alla
situazione
del fabbricato (sotto il profilo urbanistico e del regime
dell’edilizia popolare) entro la data di stipulazione del
contratto
definitivo.
La Corte di appello, in riforma della decisione impugnata,
dichiarava legittimo il recesso dal contratto, rigettando le
domande proposte dalla convenuta che condannava al pagamento
del doppio della caparra.
La questione -su iniziativa dell’originaria parte attrice-
approda
all’esame della Suprema Corte, che accoglie il ricorso
cassando la sentenza con rinvio.
Osserva il Giudice di legittimità che secondo la
ricostruzione
compiuta dai Giudici del merito, il contratto preliminare,
con cui era fissata la data per la conclusione del
definitivo,
prevedeva ad un’anteriore scadenza l’obbligo -per i
promissari
acquirenti- del versamento della rata di lire
100.000.000 che non venne versata. Pertanto, la promittente
venditrice inviò diffida ad adempiere, al quale seguì
richiesta da parte degli acquirenti di chiarimenti sulle
condizioni
dell’immobile e, poi, la dichiarazione di recesso da
parte degli stessi.
La sentenza d’appello ha ritenuto
l’inadempimento
della parte promittente venditrice che nel contratto
preliminare si era impegnata: a) a riscattare l’immobile
dal Comune, assumendo che lo stesso sarebbe stato costruito
in base a diritto di superficie; b) a rendere tutte le
dichiarazioni
necessarie comprese quelle relative alla regolarità
urbanistiche.
Contrariamente a quanto dichiarato nel contratto
preliminare,
secondo i Giudici, l’immobile era stato costruito su
suolo ceduto in piena proprietà e non con concessione del
diritto di superficie, per cui sarebbe stata necessaria
l’autorizzazione
del Comune previo pagamento di una somma di
denaro e soprattutto l’assunzione da parte degli acquirenti
delle obbligazioni di cui alla convenzione da stipulare con
il
Comune con l’impegno di rispettare le condizioni e le
sanzioni
che l’Ente avrebbe deliberato: il che emergeva dalla
Delibera comunale n. 131/2000, dall’autorizzazione
provvisoria
rilasciata alla convenuta nonché dalle obbligazioni assunte
dai successivi acquirenti con la compravendita
successivamente
conclusa dalla convenuta.
Inoltre l’immobile
presentava irregolarità urbanistiche che la convenuta
chiedeva
di sanare soltanto in seguito, rispondendo -alla richiesta
di chiarimenti formulata dagli acquirenti- di essersi
immediatamente azionata incaricando un tecnico di fiducia.
Ciò posto, occorre innanzitutto considerare che gli art. 31,
commi 45 e 46, L. n. 448/1998, consentivano la sostituzione
della convenzioni stipulate ai sensi dell’art. 35 della L.
n.
865/1971, art. 35 anche con riferimento degli immobili
ceduti
in proprietà, di guisa che era possibile giungere alla
convenzione disciplinata dall’art. 8, L. n. 10/1977, da
stipulare
con il Comune, previo pagamento del corrispettivo.
Peraltro,
come si è detto, la condizione giuridica dell’immobile
era stata dichiarata nel preliminare dalla promittente che
aveva edotto gli acquirenti della natura dell’immobile
promesso
in vendita e dei relativi vincoli.
Al fine di stabilire l’adempimento delle obbligazioni poste
a
carico della promittente, osserva la Cassazione che la
verifica
andava compiuta con riferimento al momento della data
di conclusione del contratto definitivo, anche in relazione
alla regolarità urbanistica dell’immobile, dovendo in quel
momento sussistere le condizioni per la commerciabilità
del bene promesso.
La promittente aveva assicurato le
controparti di svolgere le attività necessarie, rendendo le
relative dichiarazioni di conformità in sede di stipula del
definitivo:
pertanto, sarebbe stato allora necessario di verificare
se, al momento del termine di scadenza fissato per la
stipula del definitivo, fosse o meno intervenuta la
concessione
in sanatoria degli abusi, alla quale la ricorrente ha fatto
riferimento: tale verifica non è stata in alcun modo
compiuta
dai Giudici che, pur dando atto della sanatoria intervenuta
successivamente al recesso dichiarato dai promissari
acquirenti, si sono soffermati su presunte dissimulazione
dello stato di fatto dell’immobile che, come si è detto
erano contraddette da quanto risultava dichiarato nel
contratto
preliminare.
Ed evidentemente, soltanto all’esito della
verifica dell’inadempimento di non scarsa importanza
della promittente, si sarebbe dovuto accertare, con
valutazione
comparativa, se fosse stato improntato a buona fede
il mancato pagamento della rata del prezzo alla scadenza
prevista e il recesso dal contratto dichiarato dagli attori.
Per questo motivo, la sentenza è cassata in relazione ai
motivi accolti, con rinvio, anche per le spese della
presente
fase, ad altra sezione della Corte di Appello di Bologna
(Corte di
Cassazione, Sez. II civlle,
sentenza 16.04.2015 n. 7819
- Urbanistica e appalti n. 7/2015). |
APPALTI:
LA CASSAZIONE FA IL PUNTO SUL CONCETTO DI
“SUBAPPALTO”.
L’art. 21, L. n. 646/1982, nel vietare il subappalto non
autorizzato, si riferisce esclusivamente a quella
particolare
forma di contratto derivato o subcontratto configurabile
quando l’appaltatore affidi a un terzo il compimento,
in tutto o in parte, di lavori relativi “all’opera
stessa” o delle attività inerenti “al servizio stesso” che
egli si è impegnato a compiere direttamente nei confronti
del committente pubblico, in armonia con l’espressione
“compresi nel contratto di appalto” contenuta
nell’art. 118, D.Lgs. n. 163/2006: sicché non vi è
subappalto
quando l’oggetto del contratto non coincida,
nemmeno in parte, con l’oggetto del contratto di appalto.
Un privato evocò in giudizio un’impresa -mandataria di
un’ATI- chiedendone la condanna al pagamento del
corrispettivo
dovutogli per l’attuazione dell’incarico, conferito
con regolare contratto, di compiere le procedure d’esproprio
necessarie per la realizzazione di un impianto d’irrigazione
per conto di un Consorzio di Bonifica Integrale.
La domanda - inizialmente accolta dal Tribunale - fu
respinta
dalla Corte d’Appello in accoglimento del motivo, proposto
dall’ATI, per il quale il rapporto sarebbe invalido perché
in contrasto con l’art. 21 della L. n. 646/1982, norma
imperativa
che vieta il subappalto di opere e servizi riguardanti
la P.A. se non autorizzato. Tale norma, per quanto relativa
agli appalti di lavori è stata dalla Corte territoriale
ritenuta
applicabile anche agli appalti di servizi, quale era quello
intercorso,
in quanto strumentale al rapporto principale tra il
Consorzio e l’ATI, appunto inerente un appalto di lavori.
Il professionista ricorre per la cassazione di tale
Sentenza,
con un ricorso articolato in due motivi che la Suprema Corte
accoglie cassando con rinvio la sentenza impugnata.
È anzitutto dedotta la falsa applicazione dell’art. 21 della
L.
n. 646/1982 applicabile, per il ricorrente, solo agli
appalti di
lavori, ossia aventi ad oggetto attività di costruzione,
demolizione,
recupero e manutenzione di opere e impianti.
A
conferma di ciò, osserva il ricorrente, l’art. 18 della L.
n.
55/1990 (intrinsecamente collegata all’art. 21, L. n. 646
cit.) nel limitare il subappalto, si riferisce
esclusivamente a
opere e lavori compresi nel contratto principale e ne
subordina
la possibilità alla condizione che il subappaltatore sia
in possesso che non possono essere propri di un libero
professionista. Infatti, conclude il ricorrente, il
contratto
con l’ATI ha ad oggetto un’attività libero professionale per
svolgimento di rilievi tecnici necessari per le pratiche
amministrative
di occupazione ed espropriazione delle aree
occorrenti per la realizzazione dell’impianto di
irrigazione.
La Suprema Corte condivide la censura, osservando che -al fine di giudicare dell’esistenza in concreto del diritto
azionato in giudizio- si deve verificare se la fonte
costitutiva
(cioè il contratto) sia valido o, come eccepito dall’ATI,
contrario alla norma imperativa. Ove esso sia qualificabile
non come subappalto di servizi ma in termini diversi (ad
esempio, come contratto di mandato o d’opera professionale),
va esclusa l’applicabilità della norma assunta dalla
Corte territoriale a ragione di nullità del contratto (che,
infatti,
riguarda i soli contratti di subappalto) mentre a diversa
soluzione si dovrebbe pervenire se si trattasse di
subappalto
di servizi, in conformità all’orientamento prevalente
nella giurisprudenza penale (Cass. pen., Sez. V, n.
35057/2009) che ripudia un’interpretazione letterale
dell’art.
21, L. n. 646/1982, volta a restringerne la portata ai
soli subappalti di opere (orientamento confortato da
disposizioni
succedutesi alla L. n. 646/1982, quali l’art. 18, comma
3, D.Lgs. 17.03.1995, n. 157 e l’art. 118 del Codice
del codice dei contratti pubblici).
Il problema può essere quindi risolto solo considerando e
confrontando l’oggetto dei due contratti (principale e
secondario
o derivato).
L’art. 21 della L. n. 646/1982, nel vietare a chiunque abbia
in appalto “opere riguardanti la pubblica amministrazione”
di concederle in subappalto a terzi “in tutto o in parte”
senza
l’autorizzazione dell’autorità competente, si riferisce
esclusivamente a quella particolare forma di contratto
derivato
o subcontratto che è il subappalto (d’opera o servizi
che sia), il quale è configurabile quando l’appaltatore
affidi
a un terzo il compimento, in tutto o in parte, dei lavori
relativi
“all’opera stessa”, o delle attività inerenti al servizio
stesso, che egli si è impegnato a compiere direttamente
nei confronti del committente. A conforto di tale
conclusione
si può rilevare come, in modo analogo per gli appalti
dei privati, sia disposto dall’art. 1656 c.c. che vieta
all’appaltatore
di dare in subappalto l’esecuzione dell’opera o
del servizio, se non è stato autorizzato dal committente.
Del resto, anche per l’art. 118 del Codice dei contratti
pubblici,
sono subappaltabili le opere o i lavori, i servizi, le
forniture
“compresi nel contratto di appalto” che l’appaltatore
è tenuto “ad eseguire in proprio”. Pertanto, non può
configurarsi
un subappalto quando il suo oggetto non coincida,
nemmeno in parte, con l’oggetto del contratto di appalto.
Né può rilevare il fatto che il contratto, stipulato
dall’appaltatore
con terzi, preveda prestazioni strumentali o accessorie
a quelle del contratto di appalto, perché ad esempio
necessarie
per l’esecuzione dell’opera o del servizio cui l’appaltatore
si è obbligato nei confronti del committente (nel
senso che è subappalto solo quello che ha lo stesso oggetto
del contratto di appalto, di cui fa necessariamente parte,
non rilevando l’esistenza di prestazioni di natura
accessoria
e strumentale al contratto principale, cfr. Cass. n.
6481/1990). In tal caso, il divieto previsto dal citato art.
21
è inapplicabile, posto che esso si riferisce esclusivamente
ai subappalti di opere o servizi, non a ogni contratto
genericamente
derivato, sebbene avente ad oggetto prestazioni
strumentali o accessorie all’opera o al servizio cui
l’appaltatore
si è obbligato in proprio nei confronti del committente.
Una diversa interpretazione avrebbe l’effetto di limitare
eccessivamente
e ingiustificatamente l’ambito applicativo del
subappalto, in contraddizione con la normativa comunitaria
che lo ritiene strumento idoneo a favorire la concorrenza
(si vedano, in proposto, i consideranda n. 43, Dir. CE n.
17/2004 e n. 32 della dir. CE n. 18/2004, i quali
stabiliscono
che “per favorire l’accesso delle piccole e medie imprese
agli appalti pubblici, è necessario prevedere disposizioni
in
materia di subappalto”).
Erroneamente la sentenza impugnata ha qualificato il
contratto
come subappalto di servizi, sul presupposto che l’attuazione
delle procedure di esproprio costituisse un servizio
accessorio o strumentale all’esecuzione dell’opera appaltata
alla stessa impresa, omettendosi di verificare in
concreto se l’attività fosse stata prevista come dovuta
dall’appaltatrice
nei confronti del committente sulla base del
contratto di appalto e, soprattutto, senza considerare che
normalmente il reperimento dell’area necessaria per
l’esecuzione
dell’opera pubblica rappresenta un onere della
P.A. committente, da compiersi mediante espropriazione
per pubblica utilità.
Per l’adempimento di detto onere (per
il quale, peraltro, l’appaltatore non dispone di pubblici
poteri)
la P.A. committente può stabilire nel capitolato d’appalto
che sia quest’ultimo a curare il compimento delle
procedure di espropriazione in nome e per conto
dell’amministrazione,
a norma dell’art. 324 della L. 20.03.1865, n. 2248, all. F (nonché dell’art. 350, n. 8, R.D. n.
350/1895): a tal fine stipulando un contratto di mandato
che accede a quello di appalto (cfr., T.S.A.P., 27.11.1995, n. 96) ma che resta logicamente distinto da questo
proprio per l’oggetto, come del resto dimostra la formula
per cui, qualunque sia l’ampiezza della delega, il
compimento
degli atti della procedura ablativa non può che avvenire
in nome e per conto dell’Amministrazione delegante
(così anche l’art. 16, comma 3, D.M. n. 145/2000).
In tal caso, se l’appaltatore intende affidare a un altro
soggetto
il compimento delle procedure di esproprio, vi è una
coincidenza oggettiva tra il contenuto del primo e del
secondo
contratto che è elemento sufficiente per qualificare
il secondo non come subappalto di servizi, ma come
submandato
o contratto d’opera professionale, che in quanto
tale è estraneo all’ambito applicativo del divieto previsto
per il subappalto dall’art. 21 della L. n. 646/1982.
Del
resto,
la prestazione di servizi avente come base la legge o un
contratto di lavoro (o anche d’opera professionale) già
esulava
dal campo d’applicazione della Dir. CEE n. 92/50 sugli
appalti di servizi: è una conclusione coerente con la natura
giuridica dell’attività commissionata al terzo (che è il
compimento
di atti giuridici, quali sono quelli espropriativi) e
con l’ambito contenutistico della categoria degli appalti di
servizi, come definito negli allegati alla Dir. CE n.
18/2004 e
al D.Lgs. n. 157 del 1995 (art. 3) e D.Lgs. n. 163 del 2006
(art. 3, comma 10) i quali non contengono riferimenti
all’attività
espropriativa.
Sulla scorta di ciò, in accoglimento del primo motivi e con
assorbimento del secondo, la sentenza è cassata con rinvio
(Corte di
Cassazione, Sez. I civile,
sentenza 16.04.2015 n. 7752
- Urbanistica e appalti n. 7/2015). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: ASSENZA DEL CERTIFICATO DI ABITABILITÀ E SUE
CONSEGUENZE.
L’esistenza dei requisiti di abitabilità e agibilità deve
essere
attuale al momento del contratto, non già meramente
futura, ipotetica o condizionata, poiché è obbligo
del venditore il trasferire la proprietà di un bene immobile
che, per la sua destinazione a uso abitativo, già presenti
all’atto della vendita i requisiti indispensabili ai fini
della piena realizzazione della funzione socio-economica
del contratto da stipulare: la carenza comporta ricadute
sulla valutazione di adempimento del promittente
venditore, in relazione all’interesse del promissario
acquirente a ottenere la proprietà di un immobile
idoneo a soddisfare i bisogni che lo inducono all’acquisto,
ossia la fruibilità e la commerciabilità del bene, per
i quali il certificato di abitabilità deve ritenersi
essenziale.
La promissaria acquirente di un immobile convenne al
Tribunale
civile i promittenti venditori assumendo, tra l’altro,
che il bene era affetto da varie anomalie, fra le quali la
mancanza del certificato di abitabilità. Era perciò chiesta
la
condanna dei convenuti al pagamento del doppio della caparra
corrisposta e alla restituzione dell’importo dato in acconto
sul prezzo, oltre interessi legali.
I convenuti, nel costituirsi, contestavano il fondamento
della
domanda di cui chiedevano il rigetto, a loro volta avanzando
riconvenzionale per la risoluzione del contratto preliminare
determinato da fatto e colpa della promissaria acquirente,
con richiesta di sua condanna al risarcimento dei
danni e, in subordine, ponendo domanda di accertamento
circa la legittimità del loro recesso contrattuale, con
declaratoria
del diritto a trattenere l’importo ricevuto a titolo di
caparra.
Il Tribunale adito dichiarava la legittimità del recesso
dell’attrice
e condannava i convenuti a corrispondere all’attrice
tanto l’importo degli acconti, quanto quello pari al doppio
della caparra.
L’appello, proposto dagli originari convenuti, fu respinto
della Corte territoriale assumendosi tra l’altro che i
venditori
non avevano presentato domanda per il rilascio del
certificato
di abitabilità per la parte dell’edificio di loro proprietà
esclusiva sicché la venditrice non poteva invocare in suo
favore, per la parte dell’edificio oggetto di compravendita,
il silenzio assenso del Comune del luogo, non potendo
operare tal silenzio circostanziato in dipendenza di una
domanda
non presentata o presentata da soggetto terzo (il
costruttore, per le parti condominiali) non proprietario
della
parte d’edificio di proprietà esclusiva dei venditori. Al
definitivo,
la Corte territoriale escluse che tale porzione
dell’immobile
potesse intendersi dotata di abitabilità ai fini della
stipulazione tra le parti del contratto definitivo di
compravendita.
Pertanto, mancando il certificato di abitabilità, la
diffida ad adempiere inviata dall’acquirente ricadeva nel
periodo durante il quale l’abitabilità -da intendersi
“attestata”
per silenzio-assenso- ancora mancava.
Tra l’altro, la Corte territoriale non mancò di rilevare che
il
Comune aveva dichiarato in seguito addirittura la non
abitabilità
dell’edificio compromesso in vendita, per la carenza
di requisiti minimi a tale scopo in ispecie quelli fognari.
In definitiva all’esito del giudizio di merito si è ritenuto
che
l’esistenza dei requisiti dell’edificio per essere
abitabile, essendo
soggetta a verifica preventiva, deve essere attuale al
momento del contratto, e non già meramente futura, ipotetica
ed eventuale, come prospettato gli appellanti
condizionandola
al verificarsi di un evento in fieri ed incerto, in
quanto compete al venditore trasferire la proprietà di un
bene immobile che, per la sua destinazione ad uso abitativo,
già presenti all’atto della vendita i requisiti
indispensabili
ai fini della piena realizzazione della funzione socio-economica del contratto da stipulare. Sicché, legittimamente
la promittente acquirente aveva esercitato il recesso
dal contratto preliminare e aveva fatto valere il suo
diritto
al versamento in proprio favore del doppio della caparra
confirmatoria.
Per la cassazione di tale sentenza i promissari venditori,
soccombenti nel doppio grado di merito, ricorrono per
Cassazione,
con mezzi che la Suprema Corte respinge.
Tra le enunciazioni contenute nella sentenza in commento,
alcune meritano attenzione per la materia oggetto della
presente Rivista.
La ratio della produzione documentale -effettuata dai
venditori
per mettere la P.A. nelle condizioni di verificare
l’esistenza
degli elementi necessari perché la costruzione sia
abitabile e considerato che in materia ricorre la
fattispecie
di assenso delineata dall’art. 4, d.P.R. n. 425/1994-
presuppone
tanto che il proprietario, all’atto della presentazione
della domanda d’abitabilità offra tutta la documentazione
richiesta dal primo comma di detta norma, quanto il decorso
del tempo idoneo a integrare il silenzio circostanziato
dalla norma come “assenso”.
Detta documentazione è
necessaria
ai fini della formazione del silenzio-assenso per
l’attestazione della sussistenza dei requisiti urbanistici e
igienici dell’immobile (con ricadute sull’adempimento o
meno del promittente venditore di un immobile destinato a
civile abitazione a corredare il bene del certificato di
abitabilità,
in relazione all’interesse del promissario acquirente a
ottenere la proprietà di un immobile idoneo ad assolvere la
sua funzione economico-sociale e a soddisfare i bisogni
che inducono all’acquisto, ovvero la fruibilità e la
commerciabilità
del bene, per i quali il certificato di abitabilità deve
ritenersi essenziale).
Per tale ragione, la Suprema Corte ritiene pienamente da
condividersi il convincimento del Giudice di appello, con la
conseguenza che, in mancanza del certificato di abitabilità,
la diffida ad adempiere inviata ricadeva logicamente nel
periodo di tempo durante il quale l’abitabilità ancora
mancava
per la parte dell’edificio compromesso (Corte
di
Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 14.04.2015 n. 7472
- Urbanistica
e appalti n. 6/2015). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: ATTESTARE IL FALSO IN UNA DICHIARAZIONE SOSTITUTIVA DI ATTO NOTORIO PER OTTENERE LA SANATORIA INTEGRA
IL REATO DI FALSITÀ IDEOLOGICA.
La falsa attestazione in dichiarazione sostitutiva di atto
notorio integra il reato di falsità ideologica commessa
dal privato in atto pubblico perché ha valenza probatoria
con riferimento al contenuto dell’atto pubblico.
La questione giuridica oggetto di esame da parte della
Suprema
Corte verte, in particolare, sulla configurabilità o
meno del reato di falsità ideologica, previsto dall’art. 483
c.p., nel caso in cui il privato, al fine di ottenere una
sanatoria
edilizia, attesti in una dichiarazione sostitutiva di atto
notorio notizie false.
La vicenda processuale trae origine
dalla condanna della proprietaria di un immobile per il
reato
di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 1, lett.
b), per l’edificazione di strutture edilizie in ferro e
pilastri di
cemento armato senza titolo abitativo, ancora in corso di
realizzazione al momento dell’accertamento, nonché per il
reato di cui all’art. 483 c.p., per avere dichiarato,
contrariamente
al vero, in autocertificazione, che i lavori di cui al
precedente capo erano stati ultimati nel 1981.
Contro la
sentenza proponeva ricorso per cassazione l’interessata, in
particolare sostenendo che la falsa attestazione contenuta
in una dichiarazione sostitutiva di atto notorio resa ai
fini
della concessione in sanatoria ai sensi del d.P.R. n. 445
del
2000, art. 47, non integrerebbe il reato di cui all’art. 483
c.p.; richiamava, in particolare, il d.P.R. n. 445 del 2000,
art. 76, comma 1, il quale descrive la condotta penalmente
rilevante come quella di chiunque rilascia dichiarazioni
mendaci, forma atti falsi o ne fa uso nei casi previsti dal
presente testo unico, rimandando per la sanzionabilità della
condotta al codice penale e alle leggi speciali in materia.
Secondo la tesi difensiva, da tale disposizione si evince
che
le dichiarazioni mendaci rese ai sensi dello stesso d.P.R.
n.
445, artt. 46 e 47, costituirebbero reato solo in presenza
di
espresse disposizioni in tal senso del codice penale o delle
leggi speciali.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha dichiarato inammissibile il ricorso, osservando che
il d.P.R. n. 445 del 2000, art. 76, comma 3, dispone che le
dichiarazioni sostitutive di certificazioni, rese ai sensi
degli
artt. 46 e 47 del predetto d.P.R., si considerano come fatte
a pubblico ufficiale e che esse sono destinate a essere
trasfuse in atto pubblico, costituendo il presupposto delle
circostanze di fatto che le stesse autocertificazioni e,
dunque,
l’atto pubblico hanno la funzione di provare (Cass.
pen., Sez. V, 02.04.2014, n. 18279, in CED Cass., n.
259883; Id., Sez. V, 01.12.2011, n. 12133/2012, in
CED Cass., n. 252163).
Con specifico riferimento alla
fattispecie
esaminata, peraltro, ha dunque ribadito che integra
il reato di falsità ideologica commessa dal privato in
atto pubblico la condotta di colui che, in sede di
dichiarazione
sostitutiva di atto notorio allegata a domanda di
concessione edilizia in sanatoria, attesti falsamente la
data
di ultimazione dell’opera da sanare, considerato che
l’ordinamento attribuisce a detta dichiarazione valenza
probatoria privilegiata -con esclusione di produzioni
documentali
ulteriori- e, quindi, di dichiarazione destinata a
dimostrare la verità dei fatti cui è riferita, e destinata
ad
essere trasfusa in atto pubblico (v., in precedenza: Cass.
pen., Sez. V, 26.11.2009, n. 2978/2010, in CED
Cass., n. 245839) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 27.03.2015 n. 13009
- Urbanistica e
appalti n. 6/2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
SIA L’ORDINE DI DEMOLIZIONE CHE QUELLO DI
RIMESSIONE IN PRISTINO DELLO STATO DEI LUOGHI VANNO
REVOCATI SE I REATI SONO PRESCRITTI.
Nel caso in cui la sentenza di condanna venga annullata
in grado di appello con conseguente proscioglimento
per qualsivoglia causa dell’imputato (ivi compresa la
declaratoria di estinzione del reato per prescrizione),
l’ordine di demolizione e quello di rimessione in pristino
emesso dal primo giudice deve essere rimosso dal
giudice dell’impugnazione in quanto non più ricollegato
ad una sentenza di condanna.
Il tema oggetto di attenzione da parte della Suprema Corte
con la sentenza in esame è quello, assai frequente nella
giurisprudenza di legittimità, della sussistenza o meno di
revocare gli ordini conseguenti ex lege all’irrogazione
della
sanzione penale, quando tuttavia, nei successivi gradi
di giudizio, i relativi reati siano dichiarati prescritti.
La vicenda
processuale trae origine dalla sentenza con cui la
Corte d’Appello, in riforma della sentenza emessa dal
Tribunale
nei confronti di D.R.V. (imputato dei reati di cui al
d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. c, artt. 64, 65, 71,
72,
83 e 95, nonché del reato di cui all’art. 734 c.p., e,
infine,
del reato di cui al D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, comma
1-bis), dichiarava non doversi procedere nei confronti del
predetto imputato in ordine ai reati suddetti perché estinti
per prescrizione, contestualmente revocando l’ordine di
demolizione.
Contro la sentenza proponeva ricorso per
cassazione il condannato, in particolare nella parte in cui
la Corte di appello si era limitata alla revoca dell’ordine
di
demolizione e non anche alla revoca dell’ordine di
rimessione
in prestino, tenuto conto che tale ordine poteva essere
mantenuto solo in presenza di una sentenza di condanna.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha osservato come la Corte d’appello avesse ritenuto,
erroneamente, di non revocare l’ordine di remissione in
pristino dello stato dei luoghi a cura e spese del
condannato.
Diversamente, osservano gli Ermellini, posto che da parte
del primo giudice erano stati emessi, all’esito della
sentenza di condanna, tanto l’ordine di demolizione del
manufatto abusivo che l’ordine di riduzione in pristino
dello
stato dei luoghi a cura e spese dell’imputato, il giudice
di appello, avendo dichiarato l’estinzione di tutti i reati
per
prescrizione, era incorso in violazione di legge, nella
misura
in cui si è limitato alla revoca dell’ordine di demolizione
nulla disponendo sull’ordine di rimessione in pristino dello
stato originario dei luoghi.
Ciò in quanto, sia per quanto
concerne la prima che per quanto concerne la seconda, si
tratta di sanzioni amministrative di tipo ablatorio che
trovano
la propria giustificazione giuridica nella accessorietà
alla sentenza di condanna, sicché se il reato si estingue,
tale giustificazione viene meno, fermo restando, ovviamente,
l’autonomo potere-dovere dell’autorità amministrativa
(v. in tal senso: Cass. pen., Sez. III, 24.10.2013, n. 51010, C., in CED Cass., n. 257916; Cass. pen.,
Sez. III, 06.02.2003, n. 4798, B., in CED Cass., n.
229346) (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 27.03.2015 n. 13003 - Urbanistica e appalti
n. 6/2015). |
EDILIZIA PRIVATA: QUALSIASI TRASFORMAZIONE RILEVANTE DEL TERRENO
COMPORTA LA NECESSITÀ DI UNA PREVENTIVA
CONCESSIONE URBANISTICA E NON DI UNA SEMPLICE
AUTORIZZAZIONE.
In tema di trasformazione dei suoli, versandosi nella
materia urbanistica, le opere di scavo, di sbancamento
e di livellamento del terreno, finalizzate ad usi diversi
da quelli agricoli, in quanto incidenti sul tessuto
urbanistico
del territorio, sono assoggettate a titolo abilitativo
edilizio.
Il tema affrontato dalla Corte di Cassazione con la sentenza
in esame attiene alla possibilità di eseguire interventi
edilizi in senso lato (quali, in particolare, sbancamenti,
scavi e livellamenti del terreno), in base a titolo
edilizio semplificato.
La vicenda processuale trae origine
dalla sentenza con cui la Corte d’Appello confermava la
sentenza emessa dal Tribunale nei confronti di M.M.,
M.P. e S.A. imputati, ciascuno, del reato di cui agli artt.
110 e 81, cpv., c.p., d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett.
c), artt. 64, 65, 71, 72, 93 e 95; D.Lgs. n. 42 del 2004,
art. 181, comma 1-bis, sentenza con la quale ciascuno
dei detti imputati era stato condannato alla pena,
condizionalmente
sospesa, di mesi otto di reclusione oltre alla
rimessione in pristino dello stato dei luoghi.
Contro la
sentenza avevano proposto ricorso i tre condannati, in
particolare sostenendo che la decisione della Corte
d’Appello si poneva in contrasto con il disposto dell’art.
13 della L.R. Sardegna 11.10.1985, n. 23, secondo
il quale è sufficiente la semplice autorizzazione edilizia,
tra gli altri, per i lavori di demolizione, reinterri e
scavi finalizzati
ad attività edilizia (art. 13, lett. i, della L.R. citata).
La Cassazione, nel respingere la tesi difensiva, ha
affermato
il principio di cui in massima, così dando continuità
all’indirizzo giurisprudenziale secondo cui le opere di
scavo, di sbancamento e di livellamento del terreno,
finalizzate
ad usi diversi da quelli agricoli, in quanto incidenti
sul tessuto urbanistico del territorio, sono assoggettate
a titolo abilitativo edilizio (Cass. pen., Sez. III, 02.12.2008, n. 8064/09, P.G. in proc. D. ed altri, in
CED Cass., n. 242741; nello stesso senso, Cass. pen.,
Sez. III, 22.12.1999, n. 3107, A. ed altro, in CED
Cass., n. 216521).
Siffatto orientamento muove dalla
rilevata,
profonda differenza tra la materia urbanistica considerata
nel suo significato globale e la materia urbanistica
circoscritta ad interventi edilizi, dalla quale deriva
la reale finalità delle norme urbanistiche miranti ad una
generale disciplina dell’uso del territorio con specifico
riguardo
a tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali
di salvaguardia e di trasformazione del suolo, nonché
alla protezione dell’ambiente.
Proprio per tali ragioni
qualsiasi trasformazione rilevante del terreno comporta
la necessità di una preventiva concessione urbanistica, e
non di una semplice autorizzazione. Ma nel caso in esame,
al di là della mancanza di concessione edilizia valevole
solo per la edificazione, era carente anche l’autorizzazione
preventiva paesaggistica, posto che quella rilasciata
riguardava opere del tutto diverse e di minima
consistenza ritenute compatibili con l’ambiente circostante (Corte
di
Cassazione penale, Sez. III penale,
sentenza 27.03.2015 n. 12998 - Urbanistica e appalti n. 6/2015). |
ESPROPRIAZIONE: LA REGOLARITÀ URBANISTICA È IL PRESUPPOSTO
NECESSARIO PER L’OTTENIMENTO DELL’INDENNITÀ
ESPROPRIATIVA O DI OCCUPAZIONE.
Il diritto dell’affittuario di fondo rustico all’indennità
espropriativa o di occupazione per miglioramenti (apportati
prima dell’entrata in vigore della L. n. 11/1971 e
della L. n. 203/1982) è disciplinato dalle norme
codicistiche:
sicché, per i miglioramenti apportati con il consenso
del concedente, dagli artt. 1591, 1632 e 1633 c.c. e,
per quelli non autorizzati né concordati con il locatore,
dall’art. 1651 c.c.: tuttavia, è condizione necessaria per
il riconoscimento dell’indennizzo la regolarità urbanistica
dell’immobile.
Un Ente religioso convenne in giudizio, avanti la Sezione
specializzata agraria di un Tribunale ordinario, un proprio
affittuario per ottenere il rilascio di un fondo rustico
dallo
stesso condotto, deducendo che il contratto era da molto
tempo scaduto e che, in subordine, il contratto stesso
dovesse
dichiararsi risolto per grave inadempimento dell’affittuario
stesso.
Il convenuto propose domanda riconvenzionale
per il pagamento dell’indennità per le migliorie realizzate
in epoca antecedente all’anno 1971, quantificandola
in oltre 200 mila euro.
Il Tribunale ordinò il rilascio del fondo, dichiarando
risolto il
contratto per naturale scadenza e accolse solo in parte (per
il minore importo di euro 6.600 euro) la riconvenzionale.
La Corte d’Appello confermò l’importo per indennità,
aggiungendovi
i soli interessi legali. Osservò la Corte territoriale
che, essendo mancata in primo grado qualsiasi contestazione
circa l’an debeatur, la controversia riguardava la
sola quantificazione dell’indennità per miglioramenti
spettante
all’affittuario. Sulla scorta di ciò affermò che ai fini
del calcolo della stessa, andasse applicata la normativa in
vigore alla data della cessazione del rapporto e, dunque,
l’art. 17 della L. n. 203/1982, trattandosi di contratto
scaduto
nel 1992 e precisando che occorresse “calcolare la
differenza
tra il valore di mercato del fondo alla data di cessazione
del rapporto ... e il valore del medesimo fondo, alla
stessa data, ove non fosse stato trasformato”.
I giudici del
merito hanno peraltro escluso che si potesse tener conto
del fabbricato a uso abitativo realizzato dall’affittuario,
perché
eccedente rispetto ai normali fabbisogni del fondo e
non proporzionato alle esigenze dello stesso, rapportando
la superficie utile del fabbricato (111 mq) a quella del
fondo
all’epoca della cessazione del contratto (pari a circa 1207
mq) e ancora considerato il fatto che il privato non aveva
dimostrato la regolarità amministrativa della costruzione.
La questione è sottoposta dall’affittuario all’esame della
Suprema Corte, che cassa con rinvio la decisione.
Lamenta il ricorrente la violazione del canone di cui
all’art.
11 Preleggi (tempus regit actum) oltre che degli artt. 1592,
1593, 1632, 1633, 1651 e 2909 c.c., nonché falsa
applicazione
dell’art. 17 della L. n. 203/1982. Nella specie, si deduce
che la Corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto
applicabile la disciplina dell’art. 17, L. n. 203/1982,
mentre
l’unica applicabile era quella codicistica. Ancora, che
erroneamente
la Corte di merito abbia escluso dal computo
dell’indennità spettante al fittavolo il fabbricato eretto
dal
medesimo, ritenendolo “eccedente” rispetto ai normali
fabbisogni
del fondo e non proporzionato alle esigenze dello
stesso.
La Suprema Corte condivide le censure svolte, alla luce del
proprio consolidato indirizzo secondo cui il diritto
dell’affittuario
di un fondo rustico all’indennità espropriativa o di
occupazione per miglioramenti apportati prima dell’entrata
in vigore della L. n. 11/1971 e della L. n. 203/1982, è
disciplinato
dalle norme codicistiche: sicché, per i miglioramenti
apportati con il consenso del concedente, dalle norme di
cui agli artt. 1591, 1632 e 1633 c.c., riferibili tanto al
contratto
di affitto a non coltivatore diretto, quanto a quello di
affitto a coltivatore diretto (Cass. n. 8071/2001) e, per
quelli
che non siano stati autorizzati né concordati con il
locatore,
in forza dell’art. 1651 c.c. (Cass. n. 25050/2013).
Parimenti cassata è la valutazione circa la “eccedenza o la
superfluità” dell’opera in relazione alla pretesa di
indennizzo.
Osserva la Corte di Cassazione che l’eccedenza o superfluità
dell’opera -per comportare l’esclusione dell’indennizzo
ablativo (Cass. n. 405/2002)- dev’essere valutata con
riferimento
alla situazione del fondo al momento dell’esecuzione
dell’intervento, non potendo tenersi conto di eventuali
modifiche qualitative o quantitative del fondo medesimo
che siano intervenute successivamente. Nel caso di specie
(in cui il ricorrente assume che, all’epoca della
ristrutturazione
del rudere, il terreno affittato aveva un’estensione di
circa 8.500 mq, poi ridotta a seguito di occupazione
d’urgenza),
dovrà dunque valutarsi se, in relazione alla estensione
effettiva del fondo all’epoca della realizzazione del
fabbricato, lo stesso risultasse o meno proporzionato
rispetto
alle esigenze di conduzione.
Del resto, va rimarcato
che nella valutazione dell’eventuale “eccedenza” o
“superfluità”,
occorre seguire il criterio secondo cui il fabbricato
destinato ad abitazione del coltivatore deve comunque
rispondere
agli standards urbanistici minimi di abitabilità
(considerato anche il rapporto persone/spazi abitabili), non
potendosi far discendere automaticamente dalla ridotta
estensione del fondo un dimensionamento del fabbricato
al di sotto dei limiti di abitabilità.
Infine, la Corte rimarca il concetto per cui la condizione
necessaria
per il riconoscimento dell’indennizzo è la regolarità
urbanistica dell’immobile: nessun indennizzo può -infatti-
essere preteso da chi abbia realizzato, sul fondo altrui,
opere
in violazione della normativa edilizia, in quanto
“quell’indennizzo
sarebbe in contrasto con i principi generali
dell’ordinamento
ed in particolare con la funzione dell’amministrazione della
giustizia” (Cass. n. 26853/2011), tanto più
che le opere non sanabili non sono idonee ad integrare un
effettivo aumento di valore del fondo (Corte
di
Cassazione, Sez. III civile,
sentenza 27.03.2015 n. 6252
- Urbanistica
e appalti n. 6/2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
IL DIRETTORE DEI LAVORI HA IL DOVERE DI VIGILARE
SULL’ESECUZIONE DELLE OPERE IN CONFORMITÀ ALLA
RILASCIATA AUTORIZZAZIONE.
Sul direttore dei lavori grava una posizione di garanzia
circa la regolare esecuzione dei lavori, con la conseguente
responsabilità per le ipotesi di reato in materia
edilizia, dalle quali questi può andare esente soltanto
ottemperando agli obblighi di comunicazione e
rinuncia all’incarico previsti prima dalla L. 28.02.1985, n. 47, art. 6 ed oggi dal d.P.R. n. 380 del 2001,
art. 29.
La Corte di Cassazione torna ad occuparsi, nella sentenza
qui esaminata, del tema della responsabilità penale
del direttore di lavori, in particolare con riferimento al
reato di occupazione arbitraria di terreno appartenente
ad un ente pubblico.
La vicenda processuale che ha fornito
l’occasione alla Corte per occuparsi della questione
segue alla sentenza di condanna, confermata anche in
grado d’appello, nei confronti di P.V. (in concorso con T.
G. e D.G.F.) ritenuto colpevole del reato di cui agli artt.
633 - 639-bis c.p. perché, in concorso tra loro, quale
direttore
dei lavori, in difformità da un’autorizzazione rilasciata
per la recinzione di un lotto di terreno antistante
l’abitazione dei committenti, occupavano arbitrariamente
anche una striscia di marciapiede di mq 10 di proprietà
comunale, inibendo il libero passaggio, delimitando il tutto
con una recinzione in conci di tufo e la messa in posa
di un cancello.
Contro la sentenza proponeva ricorso per
cassazione il direttore dei lavori, in particolare
osservando
che l’autorizzazione prescriveva, quale condizione di
efficacia, che prima dell’inizio dei lavori, venisse
trasmessa
all’U.T.C. la comunicazione di inizio lavori, a firma
congiunta
del proprietario e del direttore dei lavori, oltre al
DURC relativo alla ditta esecutrice.
Sennonché le suddette
incombenze amministrative non erano mai state eseguite
in quanto i committenti avevano eseguito i lavori
abusivi per proprio conto senza metterne al corrente il
direttore
dei lavori il quale, non appena venuto a conoscenza
dell’abuso, rinunciò formalmente all’incarico: da qui,
la carenza dell’elemento psicologico non tenuto in alcun
conto dalla Corte d’appello.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha respinto il ricorso, in particolare osservando che sulla
persona del direttore dei lavori, incombeva, in conseguenza
dall’accettazione dell’incarico, un preciso dovere di
vigilanza
sull’esecuzione delle opere in conformità alla rilasciata
autorizzazione (v., tra le tante: Cass. pen., Sez. III, 10.05.2005, n. 34376, in CED Cass., n. 232475; Id., Sez.
III, 23.06.2009, n. 34879, in CED Cass., n. 244927).
Da
qui, dunque, la correttezza della sentenza di appello che
aveva, ragionevolmente, considerato il direttore dei lavori
come compartecipe, oltre che della fase della progettazione,
anche della fase di esecuzione dei lavori, dai quali era
scaturita l’arbitraria occupazione del marciapiede pubblico,
non potendo da ciò esonerarlo la tardiva rinuncia
all’incarico,
effettuato solo dopo che era stata accertata la difformità
delle opere eseguite rispetto al progetto in precedenza
elaborato (Corte
di
Cassazione, Sez. II penale,
sentenza 25.03.2015 n. 12613 - Urbanistica e appalti
n. 6/2015). |
EDILIZIA PRIVATA: OPERE IN CEMENTO ARMATO E RESPONSABILITÀ DEL
TITOLARE DELL’IMPRESA ESECUTRICE DEI LAVORI.
In materia edilizia, sia l’esecuzione di opere in cemento
armato in assenza di progetto esecutivo redatto da tecnico
abilitato, sia la realizzazione di opere edili senza la
direzione di un tecnico abilitato che l’omessa denuncia
delle opere in conglomerato cementizio armato, sono
reati ascrivibili al titolare della impresa esecutrice dei
lavori.
La questione giuridica oggetto di esame da parte della
Suprema
Corte verte, in particolare, sull’individuazione delle
responsabilità gravanti in capo al titolare dell’impresa
esecutrice
dei lavori con particolare riguardo alla disciplina in
materia di cemento armato.
La vicenda processuale trae
origine dal provvedimento con cui il Tribunale -per quanto
di interesse in questa sede- ha affermato la colpevolezza
di M.V., quale titolare della ditta esecutrice dei lavori,
per
violazione della legge antisismica e sulle opere in cemento
armato in relazione a interventi eseguiti su un immobile.
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione
l’imputato,
in particolare sostenendo che un reato (l’esecuzione
di opere in cemento armato in assenza di progetto esecutivo
redatto da tecnico abilitato) aveva ad oggetto violazioni
a cui era estranea la ditta esecutrice dei lavori; stesse
considerazioni svolgeva in ordine agli altri reati (la
realizzazione
di opere edili senza la direzione di un tecnico abilitato;
l’omessa denuncia delle opere in conglomerato cementizio
armato), per i quali non era neppure contestato il concorso,
richiamando in proposito le dichiarazioni rese dal
tecnico comunale circa i soggetti tenuti ai relativi
adempimenti.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima
(v., per un precedente: Cass. pen., Sez. III, 30.09.2014, n. 40341, in CED Cass., n. 260752), ha respinto il
ricorso,
in particolare, osservando, da un lato, che il reato di
omessa denuncia della realizzazione di opere in conglomerato
cementizio armato con deposito del relativo progetto,
di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 71 è ascrivibile
unicamente
al committente e alla società esecutrice e, quanto ai
residui reati, che, anzitutto, la realizzazione di opere
edili
senza la direzione di un tecnico abilitato (d.P.R. n. 380
del
2001, art. 53, art. 64, comma 3 e art. 71 in relazione alla
L.
n. 1086 del 1971, artt. 1, 2, 3 e 13) vede come soggetto
attivo
anche il costruttore che esegue le opere in violazione
dell’art. 64, comma 3, come si evince dal chiaro dato
testuale;
in secondo luogo, infine, che la contravvenzione di
omessa denuncia delle opere in conglomerato cementizio
armato (d.P.R. 06.06.2001, n. 380, artt. 65 e 72), è un
reato omissivo proprio del costruttore (v., per un
precedente:
Cass. pen., Sez. III, 31.05.2011, n. 21775, in CED
Cass., n. 250377) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 25.03.2015 n. 12533
- Urbanistica e
appalti n. 6/2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
SANATORIA EDILIZIA POSSIBILE SOLO IN CASO DI “DOPPIA
CONFORMITÀ”, MA NON SE SONO NECESSARI ULTERIORI
INTERVENTI EDILIZI.
In tema di reati edilizi, sussistono i presupposti per
attribuire
efficacia estintiva dell’illecito penale al permesso
in sanatoria, ai sensi del d.P.R. n. 380 del 2001, art.
36, solo se le opere abusive risultano, per quanto difformi
dal titolo abilitativo, in sé non contrastanti con gli
strumenti urbanistici vigenti sia al momento della loro
realizzazione che al momento della presentazione della
domanda, con la conseguenza che detta vicenda non
può prodursi se sia necessario procedere ad ulteriori
interventi
che riconducano i lavori realizzati a tale doppia
conformità.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame,
sull’individuazione dei limiti in presenza dei quali è
possibile
il prodursi dell’effetto estintivo in caso di rilascio del
permesso
di costruire in sanatoria.
La vicenda processuale
che ha fornito l’occasione alla Corte per affrontare la
questione
segue alla sentenza di condanna emessa nei confronti
di alcuni imputati, ritenuti colpevoli del reato di cui
all’art.
110 c.p., d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b).
Contro
la sentenza, proponevano ricorso per Cassazione gli
imputati,
dolendosi per aver prodotto in giudizio dinanzi alla
Corte d’appello un permesso di costruire in sanatoria,
ritenuto
dal giudice di secondo grado inidoneo ad estinguere
il reato di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett.
b), sul
presupposto che esso fosse subordinato a delle prescrizioni
e quindi privo della cosiddetta “doppia conformità”; ad
avviso degli stessi ciò deriverebbe dalla deposizione
confusa
di un teste, ma tale doppia conformità vi sarebbe stata
e lo si poteva agevolmente dedurre da quanto sostenuto
dallo stesso dirigente dell’ufficio tecnico; la Corte
d’Appello
avrebbe, dunque, dovuto -secondo gli imputati- dichiarare
estinto il reato loro contestato ai sensi del d.P.R. n. 380
del
2001, artt. 36 e 45, in virtù del rilascio del permesso a
costruire
in sanatoria: il titolo, infatti, era conforme alla
disciplina
urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della
realizzazione dello stesso, sia al momento della
presentazione
della domanda.
La Corte, nel respingere il ricorso, ha affermato il
principio
di cui in massima, confermando la sentenza di condanna
ed escludendo l’effetto estintivo del reato urbanistico. In
particolare, hanno osservato gli Ermellini che la Corte
d’Appello, proprio per chiarire l’aspetto della sussistenza
o meno della “doppia conformità” rispetto al permesso
per costruire rilasciato, aveva ritenuto di sentire il
responsabile
dell’UTC del Comune, il quale, dopo una prima parte
della deposizione confusa e generica, aveva effettivamente
chiarito che trattavasi di una “doppia conformità”
c.d. “postuma”.
Del resto, puntualizzano i Supremi Giudici,
gli stessi imputati riconoscevano che il permesso per
costruire era stato rilasciato sulla scorta di un progetto
allegato
alla domanda che prevedeva la riduzione di 70 cm.
del piano seminterrato. E nello stesso permesso per
costruire
si faceva riferimento alla necessità che vengano rispettate
integralmente tutte le condizioni e/o prescrizioni
contenute nell’accertamento di compatibilità paesaggistica
(in precedenza, nel senso che va negato l’effetto istintivo
del permesso per costruire in ragione del fatto che lo
stesso sia subordinato a delle prescrizioni: Cass. pen.,
Sez. III, n. 19081 del 24.03.2009, in CED Cass., n.
243724) (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.03.2015 n. 12229
- Urbanistica e appalti
n. 6/2015). |
EDILIZIA PRIVATA: NOZIONE DI “CREAZIONE DI SUPERFICIE UTILE” AI FINI
DELL’OPERATIVITÀ DELLA SPECIALE SANATORIA
PAESAGGISTICA.
La “creazione di superficie utile”, indicata nell’art. 181,
comma 1-ter, D.Lgs. n. 42/2004, pur non definita dal
legislatore,
deve essere intesa come una immutazione
stabile dell’assetto territoriale attuata a discapito della
vincolata conformazione originaria, dalla quale nettamente
prescinde, non integrandone alcuna specie di
manutenzione.
La questione affrontata dalla Suprema Corte con la sentenza
in esame concerne un tema ricorrente nell’esegesi
giurisprudenziale di legittimità, rappresentato dalla
qualificazione
della nozione di “creazione di superficie utile”
nella speciale procedura di sanatoria paesaggistica prevista
dall’art. 181, D.Lgs. n. 42 del 2004.
La vicenda processuale
trae origine dall’impugnazione contro la sentenza
con cui la Corte d’Appello confermava la pronuncia
emessa dal Tribunale, con la quale P.E. era stato
condannato per il reato di cui al D.Lgs. 22.01.2004,
n. 42, art. 181, comma 1, d.P.R. 06.06.2001, n. 380,
art. 44, lett. c); allo stesso era ascritto di aver
realizzato -su beni sottoposti a vincolo paesaggistico- lavori in
sostanziale
difformità dall’autorizzazione rilasciata dal Comune,
ed in particolare interventi di rimodellamento
morfologico a mezzo disboscamento abusivo, così aumentando
la superficie coltivabile di 1868 mq.
Contro la
sentenza proponeva ricorso per Cassazione l’interessato,
in particolare sostenendo che erroneamente la Corte
d’Appello avrebbe definito “non minore” la tipologia di
intervento soltanto con riferimento alla superficie, che
però, di per sé, non può costituire parametro unico per
stabilire il rilievo delle opere; ciò soprattutto alla luce
della successiva autorizzazione paesaggistica, che dimostra
come non vi fosse stata alcuna lesione del bene paesaggio.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha respinto la tesi difensiva, ricordando che il D.Lgs.
n. 42 del 2004, art. 181 -in tema di opere eseguite in
assenza
di autorizzazione o in difformità da essa- stabilisce,
al comma 1-ter, che “ferma restando l’applicazione
delle sanzioni amministrative pecuniarie, qualora l’autorità
amministrativa competente accerti la compatibilità
paesaggistica secondo le procedure di cui al comma 1-quater, le sanzioni di cui al comma 1 non si applicano, a
fronte di un sopravvenuto accertamento di compatibilità,
soltanto…” per interventi da qualificare come minori,
poiché caratterizzati da un impatto sensibilmente più
modesto sull’assetto del territorio vincolato rispetto agli
altri considerati nella medesima disposizione di legge.
In
particolare, con riferimento al caso in esame, l’importanza
dell’intervento (1869 mq. disboscati, pari al doppio di
quanto autorizzato, tali da creare quattro terrazzamenti
ed una banchina) e l’impatto paesaggistico dello stesso,
definito non secondario, impediscono per gli Ermellini di
qualificare l’opera come minore, essendosi invece verificata
una percepibile modificazione dell’aspetto geomorfologico
del versante, pur in presenza di successiva
rinaturalizzazione.
Per quanto, poi, concerne la normativa
applicabile, i giudici di legittimità chiariscono che la
nozione
di superficie utile va “individuata, in mancanza di
specifica definizione, con riferimento alla finalità della
disposizione
che la contempla e, per quanto riguarda la disciplina
paesaggistica … considerando l’impatto dell’intervento
sull’originario assetto paesaggistico del territorio,
cosicché deve escludersi la speciale sanatoria stabilita
dall’art. 181 in tutti qui casi in cui la creazione di
superfici
utili o di volumi o l’aumento di quelli legittimamente
realizzati siano idonei a determinare una compromissione
ambientale”).
In quest’ottica, conclusivamente,
la realizzazione di un disboscamento abusivo di 1869
mq., con creazione di quattro terrazzamenti ed una banchina
in luogo del precedente declivio, correttamente
per i Supremi Giudici è stata qualificata come un incisivo
e stabile mutamento dell’assetto territoriale; e senza
che, pertanto, risulti necessario qualsivoglia collegamento
a fabbricati, costruzioni o manufatti di sorta (sul punto,
con riferimento alla realizzazione di una strada, anche
dove già preesisteva un sentiero, v. in senso conforme:
Cass. pen., Sez. III, 13.01.2005, n. 3725, B., in CED
Cass., n. 230679) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.03.2015 n. 12029 - Urbanistica e
appalti n. 6/2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
I REATI DI OMESSA DENUNCIA DEI LAVORI E
PRESENTAZIONE DEI PROGETTI E DI INIZIO ABUSIVO DEI
LAVORI HANNO NATURA DI REATI PERMANENTI.
In tema di legislazione antisismica, i reati di omessa
denuncia dei lavori e presentazione dei progetti e di
inizio dei lavori senza preventiva autorizzazione scritta
dell’ufficio competente hanno natura di reati permanenti,
la cui consumazione si protrae sino a quando il
responsabile non presenta la relativa denuncia con
l’allegato progetto ovvero non termina l’intervento
edilizio.
Ormai consolidata la giurisprudenza della Corte di
Cassazione
sulla questione giuridica oggetto di esame da parte
dei giudici di legittimità con la sentenza in esame, in cui
viene ad essere nuovamente affrontata la questione della
natura permanente od istantanea dei reati antisismici di
omessa denuncia dei lavori e presentazione dei progetti
e di inizio dei lavori senza preventiva autorizzazione
scritta
dell’ufficio competente.
La vicenda processuale traeva
origine dalla sentenza con cui la Corte d’Appello -per
quanto qui rileva- confermava la sentenza emessa dal
Tribunale con la quale gli imputati erano stati dichiarati
colpevoli dei reati loro ascritti (artt. 110 e 81, cpv.,
c.p.,
d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. c, artt. 64, 65, 71,
72,
93 e 95; 181, comma 1, D.Lgs. n. 42/2004) nonché alla
rimessione
in pristino dello stato dei luoghi.
Contro la sentenza
proponeva ricorso per Cassazione uno degli imputati,
in particolare per avere la Corte omesso di dichiarare
l’estinzione del reato di cui agli artt. 93, 94 e 95 del
cit.
d.P.R. per maturata prescrizione già prima della sentenza
di condanna, versandosi in tema di reato istantaneo con
effetti permanenti.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha confermato la sentenza, così facendo applicazione di un
principio, ormai da ritenersi consolidato nella
giurisprudenza della Cassazione. Ed infatti, dopo un
iniziale
orientamento che aveva affermato la natura istantanea
del reato di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, artt. 93 e
95 (omessa presentazione della denuncia dei lavori
all’Ufficio
del Genio Civile: Cass. pen., Sez. III, 13.06.2011, n. 23656; Cass. pen., Sez. III,
07.11.2008, n.
41858; Cass. pen., SS.UU., 23.07.1999, n. 18, Lauriola)
si è profilato un orientamento di segno opposto che
ha ritenuto la natura permanente del reato in parola (tra
le più recenti v.: Cass. pen., Sez. III, 04.06.2013, n.
29737, V.; Cass. pen., Sez. III, 11.02.2014, n.
12235, P.; Cass. pen., 04.05.2011, n. 17217, G.).
Orbene,
nel caso in esame, gli Ermellini hanno ritenuto di
aderire all’orientamento sostenuto dalle più recenti
decisioni,
dovendo ritenersi corretta l’esegesi normativa dalle
stesse condotta. Invero, la più recente giurisprudenza,
nel discostarsi consapevolmente dall’orientamento
consolidato
enunciato dalle Sezioni Unite, afferma che “ciò
che non appare condivisibile nella sentenza Lauriola è la
logica che sottende tutto il ragionamento e che è
applicabile
sia ai sistemi fondati sull’autorizzazione preventiva
sia a quelli basati sul controllo successivo all’inizio dei
lavori.
Questa logica finisce per confondere il criterio della
persistenza dell’offesa al bene giuridico tutelato ... col
diverso
criterio desunto dalla apertura formale di un procedimento
amministrativo e comunque dalla possibilità di
un controllo postumo, attivate dall’adempimento tardivo
del contravventore”, discendendone, dunque, secondo
l’orientamento più recente che, che “in realtà, la
persistenza
della condotta antigiuridica e la connessa protrazione
della lesione all’interesse pubblico di vigilare sulla
regolarità tecnica di ogni costruzione in zona sismica,
sussistono anche se (anzi proprio perché) l’amministrazione
competente non ha aperto un procedimento formale
o non ha attivato alcun controllo”.
Alla stregua delle
predette considerazioni, la giurisprudenza più recente
conclude affermando che “atteso che sono istantanei
solo quei reati in cui la condotta tipica esaurisce la
lesione
del bene tutelato, e sono permanenti quelli in cui la
condotta volontaria del soggetto protrae nel tempo la
lesione
del bene, i reati di cui al d.P.R. n. 380 del 2001,
artt. 93, 94 e 95 devono ritenersi permanenti nel senso
anzidetto” (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 20.03.2015 n. 11645 - Urbanistica e
appalti n. 6/2015). |
URBANISTICA:
LOTTIZZAZIONE ABUSIVA PUNIBILE ANCHE SE L’ILLECITO
LOTTIZZATORIO CONSEGUE ALLA VIOLAZIONE DEL VINCOLO
IDROGEOLOGICO.
In tema di lottizzazione abusiva, se è vero che all’art.
44, lett. c), d.P.R. n. 380/2001, seconda parte, non si
fa riferimento alla violazione dei vincoli idrogeologici,
ciò però significa soltanto che tale violazione resterà
sottratta al relativo trattamento sanzionatorio e alla
confisca prevista dal medesimo art. 44, comma 2, se
e in quanto costituisca effetto di interventi edilizi che
di per sé non comportino lottizzazione abusiva, ossia
di interventi isolati e comunque di dimensioni tali da
non determinare trasformazione urbanistica o edilizia
dei terreni.
In caso contrario, ove cioè si configuri
una lottizzazione abusiva, ciò è sufficiente a giustificare
comunque la riconduzione della fattispecie alle
prospettive sanzionatorie suddette, e dunque anche
il sequestro preventivo strumentale alla confisca
urbanistica,
anche se la qualificazione delle opere in
termini di lottizzazione abusiva nasca dalla ravvisata
violazione di norme a tutela dell’equilibrio idrogeologico.
La questione giuridica oggetto di esame da parte della
Suprema Corte verte, in particolare, sull’applicabilità del
regime sanzionatorio previsto dall’art. 44, lett. c), d.P.R.
n. 380/2001 per la c.d. lottizzazione abusiva nel caso in
cui venga ravvisata la violazione del solo vincolo
paesaggistico.
La vicenda processuale trae origine dal decreto
con cui il G.I.P. del Tribunale aveva disposto il sequestro
preventivo di diversi immobili e strutture connesse, facenti
parte del c.d. “Villaggio C. del G.”, ravvisando il
fumus
del reato di lottizzazione abusiva (d.P.R. 06.06.2001, n.
380, art. 30) in capo a diversi indagati, rappresentanti
legali
delle società C. e C. del G. S.p.a., autrici dell’intervento
edilizio. La cautela era applicata ai sensi dell’art. 321
c.p.p., comma 2, in quanto funzionale alla confisca
urbanistica
(prevista dal d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma
2, quale sanzione accessoria per il reato di lottizzazione
abusiva); veniva, altresì, palesata anche l’esigenza di
tutela, ex art. 321 c.p.p., comma 1, per l’incolumità
pubblica
con riferimento ai rischi di carattere geologico (caduta
di massi et similia).
Dopo un primo annullamento, da
parte della Cassazione, del provvedimento con cui il
tribunale
aveva respinto la richiesta di riesame, i medesimi indagati
avevano nuovamente proposto ricorso per Cassazione
contro il provvedimento con cui, in sede di rinvio, il
tribunale del riesame aveva nuovamente confermato il
precedente provvedimento del GIP, in particolare contestando
che erroneamente l’ipotesi di reato era stata ricondotta
alla previsione di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art.
44, comma 1, lett. c), dovendo essa piuttosto essere
ricondotta
alla previsione di cui alla lett. b), per la quale
non è prevista la confisca: ciò in quanto, come evidenziato
in alcuni precedenti della Suprema Corte, il vincolo
idrogeologico non è ricompreso tra quelli tassativamente
elencati dalla lett. c) dell’art. 44 cit., come tali
insuscettibili
di estensione analogica (v., in particolare: Cass. pen.,
Sez. III, 24.09.2009, n. 43731, N., in CED Cass., n.
245208).
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha respinto il ricorso degli indagati, in particolare
evidenziando
come gli indagati avevano omesso di considerare
che l’art. 44, lett. c), d.P.R. n. 380/2001, si compone di
due
periodi, aventi ciascuno una diversa e autonoma portata
precettiva.
Nel primo si prevede “l’arresto fino a due anni
e
l’ammenda da 30.986 a 103.290 euro, nel caso di
lottizzazione
abusiva di terreni a scopo edilizio, come previsto dall’art.
30, comma 1”, la quale ultima disposizione -è utile
rammentare- al comma 1, primo periodo, definisce
lottizzazione
abusiva (nella ipotesi, che qui viene in rilievo, di
lottizzazione
c.d. materiale o reale) quella determinata dalle
opere, anche solo “iniziate” “che comportino trasformazione
urbanistica od edilizia dei terreni stessi in violazione
delle
prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o
adottati,
o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza
la prescritta autorizzazione”.
Nel secondo, si estende la
stessa pena anche alla distinta fattispecie integrata da
“interventi
edilizi nelle zone sottoposte a vincolo storico, artistico,
archeologico, paesistico, ambientale, in variazione
essenziale, in totale difformità o in assenza del permesso”:
ciò sull’implicito ma ovvio presupposto che si tratti di
interventi
edilizi diversi della lottizzazione abusiva, già di per sé
soggetta, senza alcuna ulteriore specificazione, al predetto
trattamento sanzionatorio in forza del primo periodo: una
diversa interpretazione -per li Ermellini- renderebbe la
norma
priva di senso e darebbe luogo a un’intrinseca insanabile
contraddizione tra la prima e la seconda parte della
disposizione.
È ben vero, dunque, secondo i giudici di Piazza Cavour,
che in quest’ultima non si fa riferimento alla violazione
dei vincoli idrogeologici, ciò però può significare soltanto
che tale violazione resterà sottratta al trattamento
sanzionatorio suindicato e alla confisca prevista dal
comma 2 del medesimo art. 44 se e in quanto costituisca
effetto di interventi edilizi che di per sé non comportino
lottizzazione abusiva, ossia di interventi isolati e
comunque
di dimensioni tali da non determinare trasformazione
urbanistica o edilizia dei terreni.
In caso contrario,
ove cioè si configuri -come nella specie- una
lottizzazione
abusiva nei termini predetti, ciò è sufficiente a
giustificare comunque la riconduzione della fattispecie
alle prospettive sanzionatorie suddette, e dunque anche
il sequestro preventivo strumentale alla confisca
urbanistica,
anche se la qualificazione delle opere in termini di
lottizzazione abusiva nasca dalla ravvisata violazione di
norme a tutela dell’equilibrio idrogeologico.
Conferma di
tale interpretazione si trae anche da alcuni precedenti
(oltre a Cass. pen., Sez. III, 14.01.1993, n. 1590,
D.M., in CED Cass., n. 193049, può rammentarsi anche
Cass. pen., Sez. III, 24.09.2009, n. 43731, P., non
mass.), i quali infatti attengono a singoli e specifici
interventi
edilizi (si parla infatti in esso non di lottizzazione
abusiva ma di costruzione abusiva) posti in violazione
del vincolo idrogeologico al di fuori di un piano di
lottizzazione.
Ragione giustificativa di un tale distinto trattamento
va vista nel fatto che l’interesse protetto dalla lettera
dall’art. 44, lett. c), T.U.E. ha, ad un tempo, una natura
urbanistica e culturale-ambientale, identificando,
nella pienezza dei suoi attributi, l’oggetto sul quale va ad
incidere la condotta trasgressiva, cioè il luogo di vita, di
lavoro e di benessere psichico e fisico della collettività,
vale a dire, l’habitat, con riguardo alla complessa
personalità
dell’abitante, secondo una ampiezza di concezione
che corrisponde al contenuto prescrittivo degli strumenti
urbanistici (Cass. pen., Sez. VI, 10.03.1994, n. 6337,
S., in CED Cass., n. 198510).
Tant’è che la giurisprudenza
successiva (Cass. pen., Sez. III, 13.10.1997, n.
10392, M., in CED Cass., n. 209415) non ha mancato di
sottolineare come, nello specifico ambito dell’illecito
lottizzatorio,
la violazione del vincolo -integrante o meno
una fattispecie penale incriminatrice concorrente con il
reato di lottizzazione (sul concorso materiale di reati, v.:
Cass. pen., Sez. III, 24.02.2011, n. 9307, S., in CED
Cass., n. 249763)- incida in modo rilevante non soltanto
sull’assetto del territorio, ma sull’intero ambiente, nella
misura in cui una tale trasgressione, pregiudicando
l’interesse
collettivo all’ordinato assetto territoriale, produce
al tempo stesso un vulnus alle condizioni di vita della
popolazione ivi residente, della quale altera le condizioni
soggettive ed oggettive di vita.
Si tratta di concezioni, ormai del tutto pacifiche, che
coniugano,
al massimo livello, le norme penali urbanistiche
con i beni di rilevanza costituzionale, legittimando anche
la funzione anticipata di tutela affidata al diritto penale
in
tale nevralgico settore della vita della comunità,
attraverso
il preciso riconoscimento della valenza costituzionale
attribuita al bene ambiente - territorio secondo una
concezione
dinamica del paesaggio (art. 9 Cost., comma 2),
la cui tutela esige perciò il controllo e la direzione degli
interventi che, ricadendo sul territorio stesso, influiscono
sul paesaggio che non può essere assolutamente confinato
in forma statica, quale mera conservazione del visibile.
Logico corollario di tale impostazione è -dunque, per la
Cassazione- che, in considerazione dell’oggetto della
tutela
penale in relazione all’incriminazione ravvisata ed
all’individuato
pericolo, l’esigenza cautelare, di cui all’art. 321
c.p.p., comma 1, non richiede necessariamente un
collegamento
con un delitto contro la pubblica incolumità, essendo
diverso il livello di tutela penale predisposto con le
differenti
incriminazioni (quelle cioè a protezione della incolumità
pubblica e quelle a tutela dell’ambiente-territorio).
Sicché
in presenza di un illecito lottizzatorio e di un pericolo
concreto ed attuale per la collettività derivante
dall’accertamento
del reato urbanistico che, quanto alla lottizzazione,
ha natura permanente e si segnala per essere progressivo
nell’evento, il sequestro preventivo presenta connotati che
lo inseriscono, nell’ambito processuale, negli istituti
intesi
ad evitare la probabilità del verificarsi di un evento
antigiuridico
in maniera da impedire che una cosa pertinente al
reato possa essere utilizzata per estendere nel tempo od in
intensità le conseguenze del reato stesso.
Va, infatti,
ricordato
come le conseguenze che il legislatore intende neutralizzare
mediante il sequestro preventivo possano essere
aggravate o protratte anche dopo la consumazione del reato
medesimo, sicché le conseguenze antigiuridiche che il
sequestro preventivo tende ad evitare si configurano come
diverse ed ulteriori rispetto a quelle ordinarie della
fattispecie
criminosa già eventualmente realizzata in tutti i suoi
elementi
(Cass. pen., Sez. III, 29.01.2014, n. 15960, P. e
a., non massim.) (Corte
di
Cassazione, Sez. IV penale,
sentenza 19.03.2015 n. 11631 - Urbanistica e
appalti n. 6/2015). |
LAVORI PUBBLICI:
LIMITI ALL’INVARIABILITÀ DEL PREZZO NEI CONTRATTI
D’APPALTO “A CORPO”.
In un appalto di opere pubbliche “a corpo”, il prezzo
convenuto è fisso e invariabile sicché grava
sull’appaltatore
il rischio dipendente dalla maggiore quantità di
lavoro necessaria rispetto a quella prevedibile: questo,
a condizione che sia correttamente rappresentato nella
legge di gara (anche per il generale canone di buona fede
- art. 1175 c.c.) ogni elemento idoneo a influire sulla
stima della prestazione, solo in tal caso potendosi ritenere
che la maggiore onerosità dell’opera rientri nell’alea
normale del contratto, diversamente verificandosi
un’alterazione della struttura e della funzione che sono
proprie di questo tipo contrattuale, rendendolo un contratto
aleatorio.
Un consorzio d’imprese convenne in giudizio
un’Amministrazione
comunale committente per la condanna al pagamento
di un’ingente somma risultata da ventidue riserve
iscritte nel corso dell’esecuzione di contratti d’appalto
per
la realizzazione di una linea tramviaria urbana.
Il Tribunale ordinario riconobbe la fondatezza di solo
quattro
delle riserve iscritte e, per l’effetto, condannò
l’Amministrazione
convenuta al pagamento dell’importo in esse riportato:
nella sostanza, la domanda era accolta per circa
un settimo dell’importo in origine preteso.
La sentenza fu appellata in via principale
dall’Amministrazione
e incidentale dal Consorzio.
La Corte di merito riformò totalmente la sentenza e rigettò
tutte le domande dell’originario attore, escludendo così
anche
la fondatezza delle quattro riserve riconosciute dal
Tribunale.
La questione approda all’esame della Suprema Corte, che
rigetta totalmente il ricorso confermando la sentenza resa
dalla Corte d’appello.
Rileva, in questa sentenza, l’affermazione per cui alcuni
mezzi di gravame -recanti censure alle motivazioni con cui
i giudici di appello respinsero le riserve- sono dichiarati
inammissibili perché attinenti al merito della decisione
impugnata,
non censurabili in sede di legittimità anche se
contrastanti con le conclusioni del consulente di ufficio,
che il giudice può motivatamente disattendere (Cass., Sez.
I, 03.03.2011, n. 5148) anche sulla base di “proprie
personali
cognizioni tecniche” (Cass., Sez. lav., 07.08.2014,
n. 17757, m. 631903).
Ancora, con riguardo ad altre riserve, la Suprema Corte
afferma
il principio che in tema di appalto di opere pubbliche
“a corpo” il prezzo convenuto è fisso e invariabile (fin
dall’art.
326 della L. 20.03.1865, n. 2248, all. F) sicché grava
sull’appaltatore il rischio dipendente dalla maggiore
quantità di lavoro resasi necessaria rispetto a quella
prevedibile:
ma tale principio è applicabile quando siano correttamente
rappresentati nella legge speciale di gara tutti gli
elementi che possano influire sulla previsione di spesa
dell’appaltatore,
solo in tal caso potendosi ritenere che la
maggiore onerosità dell’opera rientri nell’alea normale del
contratto, tenuto conto che, a norma dell’art. 1175 c.c., le
parti del rapporto obbligatorio devono comportarsi secondo
buona fede (Cass., Sez. I, 09.09.2011, n. 18559;
Cass., Sez. I, 07.06.2012, n. 9246).
Sotto questo profilo la Suprema Corte osserva che l’appalto
pubblico non si sottrae alla regola, desumibile dall’art.
1664 c.c., dell’adeguamento del corrispettivo ai mutamenti
imprevedibili delle condizioni di esecuzione del contratto
(Cass., Sez. I, 10.03.2006, n. 5277). È però indiscusso
che il caso di appalto “a forfait” o “a corpo” comporti una
deroga all’art. 1664 c.c., benché non alteri la struttura o
la
funzione dell’appalto nel senso di renderlo un contratto
aleatorio ma ne allarghi soltanto il rischio in capo
all’impresa,
senza che questo, pur così ulteriormente allargato,
esorbiti dall’alea normale di questo tipo contrattuale
(Cass.,
Sez. I, 15.07.1996, n. 6393), ben potendo anche le parti
rinunciare alla clausola di salvaguardia di cui al citato
art.
1664 c.c. (Cass., Sez. II, 21.01.2011, n. 1494) purché
con ciò non vengano a trasmutare l’appalto in un contratto
aleatorio (Cass., Sez. II, 21.02.2014, n. 4198).
Sicché, al definitivo, nell’appalto “a corpo o a forfait”
l’allargamento
del rischio accollato all’appaltatore non deve
spingersi a relegare a situazioni del tutto marginali la
rilevanza
dell’imprevedibilità delle condizioni di maggior difficoltà
nell’esecuzione delle opere, potendo qui rilevare solo
situazioni che finiscano per incidere sulla natura stessa
della
prestazione.
Con riferimento ad un altro motivo di ricorso attinente ad
altra delle riserve non riconosciute nella sentenza gravata,
la Cassazione afferma che con il contratto d’appalto
l’appaltatore
assume un’obbligazione di risultato (Cass., Sez.
III, 12.04.2005, n. 7515; Cass., Sez. II, 18.05.2011,
n. 10927) e, quando si tratti di appalto a corpo o a
forfait, il
prezzo finale è vincolante per l’appaltatore
indipendentemente
dal computo metrico, che risulta meramente indicativo
delle modalità di formazione del prezzo globale (Cass.,
Sez. I, 07.06.2012, n. 9246).
Sicché -fermo il risultato- non rilevano le possibili
variazioni
nelle opere necessarie per realizzarlo
(Corte di
Cassazione, Sez. I civile,
sentenza 17.03.2015 n. 5262
- Urbanistica e appalti n. 6/2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
LA REALIZZAZIONE DI UNA TETTOIA DI COPERTURA DI UN
TERRAZZO DI UNA ABITAZIONE RICHIEDE IL PERMESSO DI
COSTRUIRE.
La realizzazione di una tettoia di copertura di un terrazzo
di una abitazione non può qualificarsi quale intervento
di manutenzione straordinaria, né si configura quale
pertinenza, atteso che costituendo parte integrante
dell’edificio
ne costituisce ampliamento, con conseguente
integrabilità, in difetto del preventivo rilascio del
permesso
di costruire, del reato di cui all’art. 44 del d.P.R.
n. 380 del 2001.
Il tema affrontato dalla Corte di cassazione con la sentenza
in esame attiene alla necessità o meno del “massimo” titolo
abilitativo per la realizzazione di un intervento edilizio
invero
assai diffuso nella pratica corrente, ossia la c.d. tettoia
di copertura del terrazzo di un’abitazione.
La vicenda
processuale
trae origine dall’ordinanza di rigetto di istanza di
revoca di sequestro preventivo emessa dal Giudice per le
indagini preliminari del Tribunale presentata nell’interesse
di A.F., indagato del reato di cui al d.P.R. n. 380 del
2001,
art. 44 e concernente una struttura lignea, sita all’ultimo
piano di un preesistente fabbricato, avente una superficie
di circa mq 20 ed un’altezza di m. 3,00, una tettoia in
scatolari
in ferro sita sul solaio di copertura con superficie di
mq 40 e altezza di m. 2,70, di un piccolo vano WC in
aderenza
al torrino scale.
Ricorrendo in Cassazione, l’indagato
aveva sostenuto che i giudici avevano erroneamente ritenuto
le opere realizzate come soggette a permesso di costruire,
trattandosi di interventi ormai completati ed aventi
natura pertinenziale, equivocando pertanto sui presupposti
di applicabilità della misura cautelare reale.
La Cassazione, accogliendo il ricorso dell’indagato per
ragioni
diverse, hanno, sul punto di interesse, chiarito però
che il Tribunale, con motivazione puntuale e giuridicamente
corretta, aveva fornito una descrizione delle opere che,
di per sé, astrattamente esclude ogni ipotesi alternativa a
quella della necessità del permesso di costruire,
trattandosi,
all’evidenza, di un intervento edilizio al quale,
valutandolo
nel suo complesso, non può attribuirsi natura pertinenziale.
La Corte Suprema ha così inteso dare continuità ad
un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, secondo
cui è vietata la realizzazione, senza il preventivo rilascio
del permesso di costruire, di una tettoia di copertura
che, non rientrando nella nozione tecnico-giuridica di
pertinenza
per la mancanza di una propria individualità fisica e
strutturale, costituisce parte integrante dell’edificio sul
quale
viene realizzata (v., tra le tante, da ultimo: Cass. pen.,
Sez. III, n. 42330 del 15.10.2013, S. e altro, in CED,
n.
257290; Cass. pen., Sez. III, n. 40843 del 10.11.2005, D., in CED, n. 232363) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
06.03.2015 n. 9812 - Urbanistica
e appalti n. 5/2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
PRINCIPIO DEL “FAVOR REI” E DECORRENZA DEL TERMINE DI PRESCRIZIONE DEL REATO URBANISTICO.
Il principio del “favor rei”, per cui, nel dubbio sulla data
di decorrenza del termine di prescrizione, il momento
iniziale va fissato in modo che risulti più favorevole
all’imputato,
va applicato solo in caso di incertezza assoluta
sulla data di commissione del reato o, comunque,
sull’inizio del termine di prescrizione, ma non quando
sia possibile eliminare tale incertezza, anche se attraverso
deduzioni logiche, del tutto ammissibili.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame,
sulla questione dell’applicabilità al reato urbanistico del
c.d. principio del “favor rei”, principio secondo cui, in
caso
di incertezza, l’inizio del termine di decorrenza della
prescrizione
dev’essere fissato in data antecedente, essendo ciò
più favorevole per l’imputato.
La vicenda processuale trae
origine dall’ordinanza con cui il tribunale del riesame ha
accolto
l’impugnazione del P.M. contro il provvedimento con
cui il Giudice per le indagini aveva disposto il
dissequestro
dell’immobile ubicato in (Omissis) in favore di C.C.C. e,
conseguentemente, ordinato il sequestro preventivo dei tre
appartamenti siti all’ultimo livello dell’edificio in
relazione ai
reati di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44 e art. 349
c.p.,
concretatisi nel completamento, mediante suddivisione in
tre unità, delle opere di sopraelevazione di un preesistente
piano per circa mq 200 in assenza di permesso di costruire,
previa violazione dei sigilli precedentemente apposti.
Contro l’ordinanza proponeva ricorso per cassazione
l’indagato,
in particolare sostenendo che il reato urbanistico era
ormai prescritto, poiché all’epoca del primo sequestro,
nell’anno
2006, l’immobile si presentava già completo nella
volumetria, mentre l’attività edilizia successiva avrebbe
riguardato
soltanto l’esecuzione di opere interne, la cui
realizzazione,
sulla base del contratto di fornitura di energia
elettrica e di dichiarazioni testimoniali, sarebbe
temporalmente
collocabile negli anni 2006 e 2007; il medesimo aveva
osservato che, in ogni caso, opererebbe il principio del favor rei, stante l’incertezza sulla data effettiva di
ultimazione
degli interventi abusivi.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha rigettato il ricorso, osservando che, se è ben vero che
in
caso di incertezza nella determinazione del “tempus commissi
delicti”, il termine di decorrenza della prescrizione va
computato nel modo che risulti più vantaggioso per
l’imputato,
posto che il principio “in dubio pro reo” trova applicazione
anche in tema di cause di estinzione del reato (Cass.
pen., Sez. IV, n. 37432 del 02.10.2003, M. e altri, in
CED, n. 225990), è però altrettanto vero che tale principio
va applicato solo in caso di incertezza assoluta sulla data
di commissione del reato o, comunque, sull’inizio del
termine
di prescrizione, ma non quando sia possibile eliminare
tale incertezza, anche se attraverso deduzioni logiche,
del tutto ammissibili (Cass. pen., Sez. III, n. 1182 dell’11.01.2008, C. e altro, in CED, n. 238850)
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
06.03.2015 n. 9810 - Urbanistica e appalti n. 5/2015). |
EDILIZIA PRIVATA: CONDIZIONI PER LA “LEGITTIMITÀ” DELLA C.D. CESSIONE DI CUBATURA PER REALIZZARE UN MANUFATTO DI
MAGGIORE AMPIEZZA SUL FONDO CESSIONARIO.
In assenza delle condizioni di legge (essere i terreni se
non precisamente contermini, quanto meno dotati del
requisito della reciproca prossimità; essere i medesimi
caratterizzati sia dalla omogeneità urbanistica, avere
cioè tutti la medesima destinazione, sia dalla medesimezza
dell’indice di fabbricabilità originario), attraverso
l’utilizzazione del c.d. contratto di cessione di cubatura,
non è consentito realizzare scopi del tutto estranei e
confliggenti con le esigenze di corretta pianificazione
del territorio.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame,
sull’individuazione delle condizioni in presenza delle quali
può ritenersi legittima la realizzazione di un manufatto di
maggiore ampiezza sul fondo cessionario, attraverso il
ricorso
alla c.d. cessione di cubatura.
La vicenda processuale
segue alla sentenza con cui il tribunale aveva assolto gli
imputati in relazione ad alcuni illeciti edilizi,
applicandosi l’istituto
dell’asservimento di terreno per scopi edificatori
(detto anche cessione di cubatura), attraverso il quale era
stato possibile trasferire da altri terreni a quello ove
insistevano
le costruzioni oggetto di imputazione le volumetrie
edificabili proprie di quegli altri terreni.
Contro la
sentenza
aveva proposto ricorso per Cassazione il P.M., in
particolare
per avere erroneamente il tribunale ritenuto consentita
la cessione di cubatura fra terreni non contigui aventi
indici
di edificabilità non coincidenti, essendo quello del terreno
cedente più favorevole di quello del terreno cessionario.
La Cassazione, nell’accogliere il ricorso, ha affermato il
principio di cui in massima, soffermandosi in particolare
sulla corretta applicazione nel caso di specie
dell’istituto,
creato dalla prassi negoziale ma oggetto di riconoscimento
anche in sede giurisprudenziale, della cessione di cubatura
edificabile da un fondo ad un altro, cosiddetto asservimento
di terreno per scopi edificatori, onde consentire, nel
rispetto
dei volumi massimi complessivamente edificabili, la
realizzazione di un manufatto di maggiore ampiezza sul
fondo cessionario.
Sul punto, precisano gli Ermellini,
trattasi
di istituto di fonte negoziale, la cui legittimità è stata
ripetutamente
avallata in sede giurisprudenziale (per tutte si
veda: Cons. Stato, Sez. V, 28.06.2000, n. 3636), in
forza
del quale è consentita, a prescindere dalla comune
titolarità
dei due terreni, la “cessione” della cubatura edificabile
propria di un fondo in favore di altro fondo, cosicché,
invariata
la cubatura complessiva risultante, il fondo cessionario
sarà caratterizzato da un indice di edificabilità superiore
a quello originariamente goduto.
Tale meccanismo,
tuttavia, puntualizza la Cassazione, onde evitare la facile
elusione dei vincoli posti alla realizzazione di manufatti
edili
in funzione della corretta gestione del territorio, è
soggetto
a determinate condizioni, illustrate nella massima. È,
infatti,
evidente che in assenza delle predette condizioni,
attraverso
l’utilizzazione di questo strumento, astrattamente del tutto
legittimo, sarebbe possibile realizzare scopi del tutto
estranei ed anzi confliggenti con le esigenze di corretta
pianificazione
del territorio.
Ciò, a mero scopo esemplificativo,
si potrebbe verificare laddove si ritenesse legittima la
“cessione
di cubature” fra terreni fra loro distanti, potendosi in
tal modo realizzare per una verso una situazione di
“affollamento
edilizio” in determinate zone (quelle ove sono ubicati
i fondi cessionari) e di carenza in altre (ove sono situate
i
terreni cedenti), con evidente pregiudizio per l’attuazione
dei complessivi criteri di programmazione edilizia contenuti
negli strumenti urbanistici; pregiudizio ancora più
manifesto
ove fosse consentita la “cessione di cubatura” fra terreni
aventi diversa destinazione urbanistica ovvero diverso
indice
di edificabilità; è, infatti, evidente che ove fosse
consentito
l’asservimento di un terreno avente un indice di
fabbricabilità
più vantaggioso di quello proprio del terreno asservente,
ovvero avente una diversa destinazione, le esigenze
di pianificazione urbanistica che avevano presieduto
alla scelta amministrativa di differenziare gli indici di
edificabilità
dei due fondi, ovvero la loro stessa destinazione,
rimarrebbero
inevitabilmente insoddisfatte.
Nel caso di specie,
concludono i Supremi Giudici, si trattava di fondi fra loro
non adiacenti, tutti tipizzati come agricoli, che
presentavano
indici di fabbricabilità fra loro difformi. Era, pertanto,
evidente che attraverso l’asservimento dei primi ai secondi
si è conseguito l’effetto di violare il rapporto di
edificabilità
proprio di questi ultimi, con palese compromissione delle
finalità urbanistiche che siffatta previsione perseguiva
(sulla
questione, nella giurisprudenza, v.: Cass. pen., Sez. III,
n.
21177 del 20.05.2009, G. e altri, in CED, n. 243623)
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 27.02.2015 n. 8635 - Urbanistica e appalti n. 5/2015). |
URBANISTICA: GLI STRUMENTI URBANISTICI NON POSSONO DISCIPLINARE
L’UTILIZZAZIONE DEL TERRITORIO SENZA RISPETTARE IL
D.M. 02.04.1968, N. 1444.
Anche la individuazione delle destinazioni di zona e del
rapporto tra le varie destinazioni d’uso insediabili è
compito attribuito al D.M. n. 1444 del 1968, non potendosi
ritenere che la fonte disciplinatrice delle destinazioni
d’uso e delle loro quantità insediabili negli ambiti
per i quali è previsto l’obbligo dello strumento urbanistico
preventivo sia lo strumento stesso.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame,
sulla questione del rapporto intercorrente tra il c.d.
decreto
sugli standard urbanistici (D.M. n. 1444/1968) e gli
strumenti
urbanistici territoriali.
La vicenda processuale segue
all’ordinanza con cui il Tribunale ha rigettato richiesta di
riesame presentata da C.A. s.c. a r.l. avverso il decreto
con
cui il G.I.P. aveva disposto il sequestro preventivo
finalizzato
a confisca di un manufatto in relazione a indagini per il
reato di lottizzazione abusiva in cui è indagato il legale
rappresentante
di tale cooperativa.
Contro il provvedimento
proponeva ricorso per Cassazione l’indagato, in particolare
denunciando l’erronea applicazione del D.M. n. 1444 del
1968, quale norma extrapenale di cui occorre tener conto
dell’applicazione del d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma
1, lett. c, essendo le destinazioni d’uso disciplinate non
da
tale decreto bensì dallo stesso strumento urbanistico e non
sussistendo nel caso in esame la violazione del piano di
lottizzazione.
La Cassazione, nel respingere il ricorso, ha affermato il
principio di cui in massima, precisando in particolare che
non è condivisibile la lettura “neutralizzante” del ruolo
che
il D.M. 02.04.1968, n. 1444 avrebbe nella questione in
esame, come se gli strumenti urbanistici, in sostanza,
potessero
disciplinare l’utilizzazione del territorio senza
inquadrarsi
comunque negli standard urbanistici dettati dal decreto.
Invero, il decreto è diretto proprio a regolare -che
significa
predeterminare in una certa misura- il contenuto
degli strumenti urbanistici, perché stabilisce i “Limiti
inderogabili
di densità edilizia, di altezza, di distanza tra i
fabbricati
e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti
residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle
attività
collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare
ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o
della revisione di quelli esistenti, ai sensi della L. 06.08.1967, n. 765, art. 17”; esso è stato emesso su delega
prevista
nel L. 18.08.1942, n. 1150, art. 41-quinquies ed essendo
stato quest’ultimo inserito proprio dalla L. 06.08.1967, n. 765, art. 17 gli è stata riconosciuta efficacia di
legge
dello Stato, per cui gli strumenti urbanistici non possono
discostarsene, prevalendo il decreto anche sui regolamenti
locali nella determinazione appunto degli standard
urbanistici (Cass. pen., Sez. III, n. 10431 del 16.03.2012, P. e altri, in CED, n. 252247; Cass. pen., Sez. III,
n.
6599 del 17.02.2012, S., in CED, n. 252016; Cass.
pen., Sez. III, n. 36104 del 05.10.2011, P.M. in proc.
A.,
in CED, n. 251251; Cass. civ., Sez. II, sentenza n. 3199
dell’11.02.2008, in CED, n. 601619; Cass. civ.,
SS.UU., sentenza n. 14953 del 07.07.2011, in CED, n.
617949; Cons. Stato, Sez. IV, 22.01.2013, n. 354; Corte
cost., sentenza n. 232/2005) (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 19.02.2015 n. 7425 - Urbanistica
e appalti n. 5/2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’ESTINZIONE DEL REATO IN CASO DI RIMESSIONE
SPONTANEA IN PRISTINO VALE SOLO PER LA
CONTRAVVENZIONE E NON PER IL DELITTO PAESAGGISTICO.
L’art. 181, comma 1-quinquies, D.Lgs. n. 42 del 2004,
prevede un’ipotesi di estinzione del reato paesaggistico
per il caso di rimessione in pristino delle aree o degli
immobili prima che venga disposta d’ufficio dall’autorità
amministrativa, e comunque prima che intervenga la
condanna; detta ipotesi -giusta il tenore letterale- è
limitata
però alla sola contravvenzione di cui al comma
1, non anche al successivo delitto di cui al comma 1-bis.
La questione affrontata dalla Suprema Corte con la sentenza
in esame concerne un tema oggetto di frequente esegesi
giurisprudenziale di legittimità, rappresentato
dall’applicabilità
della speciale causa di estinzione del reato paesaggistico
contemplata dal D.Lgs. n. 42 del 2004.
La vicenda
processuale trae origine della sentenza di condanna con la
quale D.G. era stato ritenuto responsabile, tra l’altro,
del
delitto di cui al D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, art. 181,
comma 1-bis; allo stesso -nella qualità di legale
rappresentante
della “D’A. s.r.l.”- era ascritto di aver iniziato ed
eseguito
lavori edili in assenza del permesso di costruire
(realizzazione
di un capannone di 20x40 mt.), in area sottoposta
a vincolo paesaggistico e sismica, senza denuncia al Genio
civile e direzione lavori da parte di un tecnico competente,
nonché di aver distrutto od alterato le bellezze
paesaggistiche
e, infine, di aver -quale custode giudiziario
dell’immobile,
poi sottoposto a sequestro- ripetutamente violato i
sigilli.
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione
l’imputato, in particolare sostenendo di aver pacificamente
ripristinato lo stato dei luoghi, quel che -giusta il D.Lgs. n.
42 del 2004, art. 181, comma 1-quinquies- doveva comportare
l’estinzione del delitto di cui all’art. 181, comma 1-bis contestato, analogamente a quanto disposto per la
contravvenzione
di cui al comma 1 del medesimo articolo.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha così fatto applicazione del principio di diritto,
tradizionalmente
ribadito in giurisprudenza, per il quale il citato art.
181, al comma 1-quinquies, prevede un’ipotesi di estinzione
del reato per il caso di rimessione in pristino delle aree
o degli immobili prima che venga disposta d’ufficio
dall’autorità
amministrativa, e comunque prima che intervenga la
condanna; ipotesi -giusta tenore letterale- limitata però
alla
sola contravvenzione di cui al comma 1, non anche al
successivo delitto. Tale disparità di trattamento, peraltro,
appare pienamente giustificata.
Ed invero, la stessa
Cassazione
ha già affermato (Cass. pen., Sez. III, n. 13736 del 26.02.2013, M., in CED, n. 254762; Cass. pen., Sez. III,
n. 7216 del 17.11.2011, Z., in CED, n. 249527) che
“il legislatore ha ritenuto di sanzionare più severamente
quelle condotte, che sono state ritenute maggiormente
offensive
del bene tutelato dell’integrità ambientale, consistenti
o in lavori di qualsiasi genere eseguiti su immobili o
aree tutelate già in precedenza con apposito provvedimento
di dichiarazione di notevole interesse pubblico, ovvero in
lavori di consistente entità (come determinata con i
parametri
richiamati dalla lett. b del citato comma) che ricadono
su immobile o aree tutelate per legge ai sensi dell’art.
142 dello stesso corpus normativo. Occorre richiamare,
quindi, i principi stabiliti dalla Corte Costituzionale in
base
ai quali la discrezionalità in materia di disciplina delle
condizioni
di estinzione del reato o della pena spetta in via esclusiva
al legislatore e -quindi- l’estensione di una disciplina
(...) è possibile solo quando risulti piena identità fra le
discipline che vengono confrontate”.
Quel che non è consentito nel caso del delitto, anche alla
luce del dato letterale, di stretta interpretazione,
trattandosi
per l’appunto di situazioni non omogenee, in relazione alle
quali non risulta irragionevole una disciplina normativa
diversa (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 19.02.2015 n. 7401
- Urbanistica e appalti
n. 5/2015). |
EDILIZIA PRIVATA: ESCLUSA LA DISAPPLICAZIONE DA PARTE DEL GIUDICE PENALE DEL PROVVEDIMENTO DI DINIEGO DELLA C.D.
SANATORIA EDILIZIA.
Non è “disapplicabile” il diniego del rilascio della
sanatoria
edilizia, visto che, anche ad ipotizzare l’esplicazione
di un potere di “disapplicazione”, la situazione resterebbe
immutata perché il potere di supplenza del giudice
penale non potrebbe giungere al punto di “sostituirsi”
alla P.A. rilasciando quell’atto che sia stato ingiustamente
negato.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame,
su una inusuale questione, rappresentata dalla possibilità o
meno per il giudice penale di esercitare il potere di
“disapplicazione”
dell’atto amministrativo illegittimo costituito dal
diniego del rilascio della c.d. sanatoria edilizia.
La
vicenda
processuale trae origine dalla sentenza d’appello che ha
confermato la condanna inflitta a due imputati in quanto
accusati di avere edificato, senza autorizzazione, in zona
sottoposta a vincolo paesistico e senza preavviso
all’Ufficio
del Genio Civile né acquisizione della prescritta
autorizzazione
da parte di quest’ultimo.
Contro la sentenza gli stessi
proponevano ricorso per cassazione, in particolare
sostenendo
la violazione della L. n. 2248 del 1865, art. 5, relativa
al potere di disapplicazione, da parte del giudice penale
dell’atto amministrativo illegittimo. Gli stessi, in altri
termini,
sostenevano che, di fronte al chiaro errore in cui è incorsa
la P.A., il giudice penale non avrebbe potuto che
disapplicare
il provvedimento di diniego del titolo abilitativo. Nella
specie, si tratta di sanatoria ex art. 36, vale a dire, di
quell’istituto per la cui applicazione è prevista la c.d.
“doppia
conformità”.
In pratica, si tratta di una sorta di
legalizzazione
di un’opera in sé lecita ma realizzata in difetto del
prescritto titolo e si è, quindi, al cospetto di un mero
provvedimento
formale che, nella specie, non avrebbe potuto,
né dovuto, essere negato sul presupposto (irrilevante, visto
che la legge contempla tale eventualità) che difettasse la
qualità di proprietario.
A fronte di tale erronea
statuizione,
quindi, l’evocazione della disciplina sul condono sarebbe
inappropriata perché quell’istituto riguarda le opere
illegittime
per difetto dei requisiti e si atteggia come vero e proprio
atto di clemenza che il legislatore ha deliberato di
concedere
una tantum al di là degli strumenti urbanistici vigenti
e/o dei regolamenti edilizi.
Esso è un provvedimento
eccezionale,
limitato nel tempo e volto a regolarizzare gli interventi,
non solo, formalmente, ma anche, sostanzialmente
abusivi. Ciò posto, nel caso in esame, secondo gli imputati,
l’accertamento di conformità, ingiustamente negato,
determina (come affermato anche dalla Corte costituzionale
n. 370/1988) l’affermazione della mancanza ex tunc di
antigiuridicità dell’opera realizzata dagli imputati ed essa
non può essere negata solo perché la disciplina concessoria
postuma è stata istruita erroneamente dal Comune.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha respinto il ricorso, correttamente evidenziando che non
esiste una norma che imponga alla pubblica amministrazione
di accogliere detta istanza ed, anche a voler ipotizzare
che la P.A., nel respingerla, abbia commesso un errore,
di certo, esso non può essere emendato in questa sede penale
ricorrendo ad un istituto, la disapplicazione, che -ontologicamente- presuppone un provvedimento rilasciato, e
non, negato. Ed infatti, la parola stessa, disapplicazione,
implica il concetto di non applicazione di qualcosa che
esiste.
Come noto, tra l’altro, la disapplicazione costituisce
una ipotesi eccezionale di “invasione”, da parte del giudice
penale, nella sfera della P.A. e trova le sue premesse nel
fatto che il giudice penale abbia ravvisato nell’atto
amministrativo
dei vizi che consentono di considerarlo tamquam
non esset. Orbene, siffatta eventualità è praticamente
inimmaginabile
nel caso, opposto, in cui il “vizio” sia rappresentato
da un diniego visto che, anche ad ipotizzare l’esplicazione
di un potere di “disapplicazione”, la situazione resterebbe
immutata perché il potere di supplenza del giudice
penale non potrebbe giungere al punto di “sostituirsi”
alla P.A. rilasciando quell’atto che sia stato ingiustamente
negato.
Ciò significa, in altri termini, che il
provvedimento
di sanatoria può essere disapplicato quando sia stato
concesso
illegittimamente, sicché il giudice di merito può non
tenerne conto e non è comunque obbligato a rendere una
pronuncia di disapplicazione incidenter tantum (così, ad es.
Cass. pen., Sez. III, n. 26144 del 01.07.2008, P., in
CED,
n. 240728).
Quando, però, il provvedimento sia negativo,
l’eventuale verifica di illegittimità non può avere effetto
estintivo del reato. Diversamente, si dovrebbe assistere ad
un vero e proprio “volo pindarico” in cui, non solo, il
giudice
penale ignora il provvedimento amministrativo
illegittimamente
negato ma, arriva ad escludere il reato (ammesso
che questa ne sia la conseguenza) sulla base di un
provvedimento
inesistente (come se l’illegittimità del diniego lo
rendesse equipollente ad un rilascio) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 19.02.2015 n. 7388 - Urbanistica
e appalti n. 5/2015). |
PUBBLICO IMPIEGO: IL TERMINE DI PRESCRIZIONE DEL TENTATO ABUSO DI
UFFICIO DECORRE DAL MOMENTO IN CUI È STATO POSTO
IN ESSERE L’ULTIMO ATTO DEL TENTATIVO.
Ai fini della decorrenza del termine di prescrizione del
delitto tentato ha rilievo non il giorno in cui la condotta
illecita viene scoperta o comunque il reato non può essere
più consumato per cause indipendenti dalla volontà
dell’agente, bensì il giorno in cui il reo ha compiuto
l’ultimo atto integrante la fattispecie tentata.
Di particolare interesse la questione affrontata dalla Corte
di cassazione sul problema giuridico oggetto di esame da
parte dei giudici di legittimità con la sentenza in esame,
in
cui viene ad essere affrontato il tema del momento di
decorrenza
iniziale del reato di tentato abuso di ufficio collegato
alla violazione della disciplina edilizia.
La vicenda
processuale
traeva origine dalla sentenza con cui la Corte
d’Appello confermava la sentenza del tribunale, con cui gli
imputati (un pubblico ufficiale ed un privato) erano stati
condannati in quanto ritenuti responsabili del reato di
abuso
d’ufficio tentato in concorso, per aver compiuto atti idonei
diretti in modo non equivoco a far rilasciare alla società
R.T. s.r.l. due permessi di costruire in sanatoria
illegittimi,
sia quanto ai presupposti di fatto che a quelli di diritto,
non
riuscendo nel loro intento per cause indipendenti dalla
propria
volontà e specificamente a causa dell’intervento e degli
accertamenti effettuati dal responsabile dell’U.T. comunale
e dalla polizia municipale. Contro la sentenza gli stessi
proponevano ricorso per cassazione, dolendosi, per quanto
qui di interesse, della ritenuta configurabilità del reato
contestato,
sia sotto il profilo oggettivo che soggettivo.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha annullato la sentenza per intervenuta estinzione del
reato
per prescrizione, osservando come l’imputazione ascritta
-consistente nell’aver redatto attestazione di regolarità
tecnica in cui si affermava la corretta definizione delle
pratiche
e che si erano verificate tutte le condizioni per il
rilascio
del permesso di costruire in sanatoria, nonché predisponendo
materialmente il permesso di costruire in sanatoria-, rendeva corretta la richiesta degli imputati secondo cui
il dies a quo da cui far decorrere il termine di prescrizione
sarebbe
quello, contestato, individuabile nella data della
formazione
delle false attestazioni di regolarità tecnica,
conseguendone
la intervenuta prescrizione prima della sentenza
d’appello.
La eccezione è stata considerata come corretta
in diritto dai Supremi Giudici, atteso che, nella
fattispecie
configurata in forma tentata, al fine del computo del
termine
prescrizionale, ha rilievo il momento in cui il reo ha
compiuto
l’ultimo atto integrante la fattispecie tentata (Cass.
pen., Sez. II, n. 16609 del 29.04.2011, C., in CED, n.
250112; Cass. pen., Sez. II, n. 313 del 13.01.1999, G.,
in CED, n. 212201).
Ne discende, pertanto, che detto dies a
quo non può essere individuato in quello coincidente con
la data in cui è intervenuto il rigetto dell’istanza di
condono,
poiché in tal momento si verificherebbe la cristallizzazione
degli effetti della condotta finalizzata al conseguimento
dell’ingiusto vantaggio patrimoniale (come affermato
da Cass. pen., Sez. VI, n. 10230 del 27.08.1999, C.,
in CED, n. 214376), principio, questo, tuttavia applicabile
solo nel caso di fattispecie consumata e non nel caso, come
quello esaminato, di fattispecie tentata, per il quale trova
invece applicazione il diverso principio sopra illustrato
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 19.02.2015 n. 7384 - Urbanistica e appalti n. 5/2015). |
EDILIZIA PRIVATA:
IL GIUDICE DELL’ESECUZIONE NON È COMPETENTE AD
ORDINARE LA DEMOLIZIONE O LA RIMESSIONE IN PRISTINO
DELLO STATO DEI LUOGHI NON DISPOSTE DAL GIUDICE
DELLA COGNIZIONE.
In caso di condanna per reato urbanistico, che ometta
di ordinare la demolizione delle opere abusive, o di
condanna
per reato paesaggistico, che ometta di ordinare
la rimessione in pristino dello stato dei luoghi,
trattandosi
di sanzioni amministrative accessorie a contenuto
predeterminato:
a) è possibile rimediare alla omissione
attraverso la procedura di correzione dell’errore materiale,
ex art. 130 c.p.p.;
b) competente al riguardo è il
giudice che ha emesso la sentenza di condanna, nonché
il giudice della impugnazione, quando questa non sia
inammissibile, ma non il giudice della esecuzione, che
non ha una competenza specifica in materia.
La questione giuridica oggetto di esame da parte della
Suprema
Corte verte, in particolare, sulla possibilità, per il
giudice
dell’esecuzione, di porre rimedio all’omessa statuizione
del giudice della cognizione di una delle sanzioni
amministrative
accessorie tipiche in materia edilizia o paesaggistica.
La vicenda processuale trae origine dalla sentenza
con cui il Tribunale applicava all’imputato la pena di
giorni
20 di arresto ed € 22.000,00 di ammenda, in relazione ai
reati di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. c),
93, 94
e 95, D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181 e art. 734 c.p.,
perché,
quale proprietario e committente dei lavori, in difetto di
titolo
abilitativo, aveva realizzato una tettoia con struttura in
legno e soprastanti tegole a coppi siciliani, nonché un
manufatto
in muratura, chiuso da porta in legno con rialzamento
del muro di confine, destinato a cucina.
A seguito di
richiesta di correzione di errore materiale, avanzata
dall’imputato,
lo stesso Tribunale, quale giudice della esecuzione,
in accoglimento della predetta istanza, ha disposto
l’inserimento
nella sentenza di patteggiamento dell’ordine di demolizione
dell’opera abusivamente edificata. Contro la sentenza
proponeva ricorso per cassazione l’imputato, in particolare
sostenendo che la correzione non poteva essere disposta
dal giudice dell’esecuzione, non essendo lo stesso
competente a pronunciarsi in materia.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha accolto il ricorso dell’imputato, in particolare
ammettendo
l’applicabilità della procedura correttiva, disciplinata
dall’art.
130 c.p.p. anche alla omessa statuizione relativa a
sanzioni amministrative accessorie di natura obbligatoria
ed a contenuto predeterminato, tra le quali rientrano
l’ordine
di demolizione del manufatto abusivo e quello di rimessione
in pristino dello stato dei luoghi, perché, in ragione
della loro natura, non consentono margine di discrezionalità
per il decidente. Va, però, rilevato -aggiungono gli
Ermellini- che è da escludere una eventuale competenza del
giudice dell’esecuzione nella materia in esame, rilevando
come l’art. 676 c.p.p., in quanto derogatorio al principio
generale della irrevocabilità delle sentenze e dei decreti
penali
definitivi, di cui all’art. 648 c.p.p., sia di stretta
interpretazione
e non possa essere applicato al di fuori delle materie
in esso specificatamente previste.
Sul punto si evidenzia
che dopo il passaggio in giudicato del provvedimento
giurisdizionale
spetta al giudice della esecuzione la competenza
a conoscere di tutte le questioni attinenti alla esecuzione
del provvedimento stesso, ex art. 666 c.p.p., nonché delle
questioni specificamente attribuitegli dall’art. 676 c.p.p.,
fra le quali soprattutto rilevano, per il tema di cui
trattasi,
quelle relative alle pene accessorie, alla confisca e alla
restituzione
delle cose sequestrate.
In nessun modo, però,
possono rientrare tra queste competenze specifiche, proprio
per il divieto di interpretazione analogica, quelle relative
ad alcune sanzioni amministrative accessorie, come l’ordine
di demolizione delle opere abusive o l’ordine di rimessione
in pristino dopo una condanna (o una pronuncia resa
ex artt. 444 ss. c.p.p.) rispettivamente per reato
urbanistico
o per reato paesaggistico, sanzioni che, secondo la
giurisprudenza
costante della Cassazione, da una parte sono tipicamente
diverse dalle pene accessorie e dall’altra divergono
strutturalmente e funzionalmente dalla confisca (v.,
per il principio di diritto già affermato, da ultimo: Cass.
pen., Sez. III, n. 10067 del 06.03.2009, P.G. in proc. G.,
in CED, n. 244017) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 18.02.2015 n. 7048
- Urbanistica
e appalti n. 5/2015). |
EDILIZIA PRIVATA: NECESSARIO IL PERMESSO DI COSTRUIRE PER LE
IMBARCAZIONI GALLEGGIANTI IN ACQUA.
Anche le imbarcazioni galleggianti in acqua, per effetto
del d.P.R. n. 380 del 2001, art. 3, comma 1, lett. e) sono
da considerarsi “interventi di nuova costruzione”,
trattandosi
di trasformazione edilizia e urbanistica del territorio
non rientrante nelle categorie definite alle lettere
precedenti, dovendosi considerare, a titolo esemplificativo,
tali “l’installazione di manufatti leggeri, anche
prefabbricati,
e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes,
camper, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati
come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come
depositi, magazzini e simili, e che non siano diretti a
soddisfare esigenze meramente temporanee” (comma
5); ne consegue che, dovendosi le imbarcazioni galleggianti
in acqua considerare installate, la loro “installazione”
richiede il permesso di costruire.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame,
su una interessante questione, relativa alla necessità o
meno
del permesso di costruire per le c.d. imbarcazioni
galleggianti
in acqua.
La vicenda processuale trae origine dal
provvedimento con cui il Tribunale rigettava la richiesta di
riesame proposta da G.O. avverso il decreto di sequestro
preventivo emesso dal G.I.P. del Tribunale; premetteva il
Tribunale che il G. era indagato per i reati di cui al d.P.R. n.
380 del 2001, art. 44, lett. c) e D.Lgs. n. 42 del 2004,
art.
181 nonché per il reato di cui alla L. n. 171 del 1973, art.
9
e che il sequestro, disposto dal G.I.P., aveva ad oggetto
due imbarcazioni da diporto, ormeggiate in (omissis) ed
adibite ad attività alberghiera.
Tanto premesso, riteneva il
Tribunale che sussistesse sia il fumus dei reati ipotizzati
che il periculum in mora. La collocazione di un’imbarcazione
in un certo luogo poteva determinare una trasformazione
urbanistica del territorio (come per i manufatti leggeri
anche prefabbricati ed altre strutture quali roulottes,
camper
e case mobili), ai sensi del d.P.R. n. 380 del 2001, art.
3, lett. e, comma 5), in presenza di determinate condizioni.
Risultava pacificamente che le imbarcazioni venivano
utilizzate
come strutture ricettive e che l’attività in questione era
stata avviata l’anno precedente al sequestro ed era
proseguita
fino al momento del sequestro medesimo, per cui si
era in presenza di una utilizzazione con carattere di
stabilità.
Quanto al requisito della installazione, l’interpretazione
restrittiva prospettata dal ricorrente non era
condivisibile,
dal momento che una imbarcazione non potrebbe mai
considerarsi
installata e si perverrebbe ad una sostanziale
abrogazione della previsione normativa. Nel caso di specie
risultava che le imbarcazioni si trovavano da mesi
all’ormeggio
ed erano destinatarie di un’erogazione continua di
energia elettrica ed acqua; la riprova dello snaturamento
della natura di imbarcazione si ricavava dal fatto che a
bordo
il personale non era certo qualificato per svolgere mansioni
nautiche.
Contro l’ordinanza proponeva ricorso per
cassazione l’indagato, in particolare sostenendo che
difettavano
i requisiti per ritenere che le imbarcazioni siano
equiparabili ai beni immobili o anche ai beni mobili d.P.R.
n. 380 del 2001, ex art. 3, lett. e), comma 5. La
giurisprudenza
di legittimità ha da tempo chiarito che può parlarsi
di installazione soltanto quando i manufatti siano
stabilmente
appoggiati al suolo (il che non è ipotizzabile per le
imbarcazioni calate in mare). La norma quindi troverebbe
applicazione soltanto nell’ipotesi di imbarcazioni che siano
installate, con carattere di stabilità e permanenza, sul
suolo
e che quindi come tali siano idonee a modificare il
paesaggio
circostante e ad integrare quindi una trasformazione
urbanistica.
Ritenere che le imbarcazioni fossero stabilmente
installate al suolo solo perché non avevano navigato con
continuità ed avessero allacciamenti di acqua e luce,
costituisce
una erronea applicazione analogica della norma, per di più
in malam partem. A nulla rileva quindi la destinazione
data all’imbarcazione calata in mare. Peraltro il D.Lgs. n.
171 del 2005, art. 47, che disciplina la nautica da diporto,
prevede che le imbarcazioni da diporto possano essere
utilizzate
non solo ai fini di navigazione, ma anche come mere
imbarcazioni ormeggiate e ferme. Il semplice collegamento,
tramite un cavo, alla terra ferma non può certo essere
ritenuto sufficiente per configurare il fumus del reato di
cui
all’art. 44.
La Cassazione, nel rigettare il ricorso, ha affermato il
principio
di cui in massima, in particolare precisando come la
norma considera come interventi di nuova costruzione,
necessitanti
quindi di permesso di costruire, anche quelli relativi
ad imbarcazioni “insistenti” in acque territoriali. Ne
discende,
quindi, che bisogna verificare se ricorrano gli altri
requisiti richiesti e cioè l’installazione, l’utilizzazione
come
abitazioni o come ambienti di lavoro o depositi, ed il
soddisfacimento
di esigenze non meramente temporanee.
Quanto alla nozione di installazione, è indubitabile che non
si richieda che l’opera sia “infissa”. Il riferimento
contenuto
nella norma anche a campers e case mobili è inequivocabile
in proposito: è sufficiente, quindi, che essa sia
“stabilmente
appoggiata”. Non si richiede, però, che tale appoggio
debba necessariamente avvenire al “suolo”, sia perché
la norma non fa alcun espresso riferimento a tale parola
(richiamando
piuttosto quella di “territorio”), sia perché la
prospettata interpretazione restrittiva porterebbe alla
sostanziale
abrogazione della norma nella parte in cui fa riferimento
ad imbarcazioni, che, per la loro naturale destinazione,
galleggiano nelle acque e non sono appoggiate al
suolo.
A meno di non ipotizzare, irragionevolmente ed in
contrasto con la lettera e la ratio della norma, che il
legislatore
abbia inteso riferirsi ad imbarcazioni trasportate a terra
ed appoggiate al suolo. Senza alcuna interpretazione in malam partem può, quindi, dirsi -puntualizzano gli
Ermellini- che anche le imbarcazioni galleggianti in acqua debbano
considerarsi installate. Né si richiede che esse siano
agganciate
in modo stabile al fondo marino o alla terraferma.
È pacifico, invero (Cass. pen., Sez. III, n. 25015 del 22.06.2011, D.R., in CED, n. 250601), che sia configurabile il
reato di costruzione edilizia abusiva nell’ipotesi di
installazione,
senza permesso di costruire, di strutture mobili quali
camper, roulotte e case mobili, sia pure montate su ruote e
non incorporate al suolo, aventi una destinazione duratura
al soddisfacimento di esigenze abitative.
Quanto agli
ulteriori
requisiti, infine, da un lato, l’utilizzazione delle due
imbarcazioni
per attività ricettiva presentava i caratteri della
stabilità; dall’altro, infine, del tutto non pertinente è
stato ritenuto
dalla Cassazione il richiamo al D.Lgs. 18.07.2005, n. 171, che disciplina la normativa della nautica da
diporto, che prevede sì l’utilizzo da parte della clientela
di
imbarcazioni ormeggiate e ferme, ma per esigenze temporanee
e non come abitazioni o strutture ricettive con il carattere
della stabilità (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 18.02.2015 n. 7047 - Urbanistica e appalti
n. 5/2015). |
LAVORI PUBBLICI: PRESUPPOSTI PER IL RICONOSCIMENTO DI SOMME
MAGGIORI RISPETTO A QUELLE CONTRATTUALI.
I presupposti per il riconoscimento di pretese economiche
aggiuntive o revisionali non possono essere desunti
dal pagamento di SAL liquidati, occorrendo, di contro,
che il Giudice accerti la sussistenza di una specifica
autorizzazione o di una delibera per gli stessi.
Un imprenditore convenne in giudizio al Tribunale civile
un’Amministrazione comunale per sentirla condannare al
pagamento del saldo di lavori stradali al medesimo affidati,
oltre a interessi per ritardato pagamento.
Chiese, inoltre,
il
riconoscimento della revisione dei prezzi contrattuali e il
risarcimento
dei danni subiti derivatigli dal tardato saldo del
corrispettivo, circostanza che -a suo dire e pur non
essendo
la capital somma dovuta elevata (circa un centinaio di
migliaia di euro)- lo aveva costretto a liquidare l’impresa
e
a cessare ogni attività.
Il Comune si costituì eccependo, nell’opera, la presenza di
vizi e incompletezze tanto gravi da determinare l’apertura
di un procedimento penale per frode in capo all’impresa
attrice.
Deduceva, comunque, il pagamento di ogni importo
dovuto in base ai SAL deliberati e l’assenza di
autorizzazioni
per l’esecuzione dei lavori suppletivi per i quali è
domanda;
contestava altresì -quanto alla revisione prezzi- la
sussistenza
di giurisdizione ordinaria. In via riconvenzionale, il
Comune chiedeva la risoluzione del contratto per
inadempimento
e frode ai sensi dell’allora vigente art. 340 della L.
20.03.1865, n. 2248, all. F, e la condanna al
risarcimento
danni.
Con sentenza non definitiva, il Tribunale condannava il
Comune
al pagamento delle somme dovute in esecuzione del
contatto, come quantificate dalle relazioni tecniche del
direttore
dei lavori, comprese le variazioni in corso d’opera
disposte dal direttore dei lavori stesso ai prezzi, variati,
esposti dall’impresa. Disponeva, con separata ordinanza, la
prosecuzione del giudizio per la determinazione del quantum
e dell’eventuale risarcimento danni dovuto all’attrice.
All’esito della CTU per la quantificazione delle somme
dovute
a tale titolo, il Tribunale con sentenza definitiva
condannava
il Comune al pagamento delle stesse, oltre a interessi
moratori; danni, patrimoniali e non; spese di giudizio
e di CTU.
La sentenza era appellata dal Comune, con svariati motivi,
tanto riferiti alla sentenza parziale, quanto alla
definitiva. In
particolare, evidenziò che dalla stessa CTU erano emersi
lavori
non eseguiti; che le opere suppletive in variante non
erano state autorizzate ed erano prive delle necessarie
autorizzazioni amministrative, eseguite senza ordine scritto
del direttore dei lavori, e che neppure vi fosse
un’accettazione
o un riconoscimento di utilità da parte della P.A..
Il
Comune ribadiva, poi, le eccezioni di tardività e di mancata
coltivazione della riserva per i lavori aggiuntivi, oltre a
quella
di difetto di giurisdizione del G.O. per la domanda di
revisione
prezzi, insistendosi per la riconvenzionale di risoluzione
del contratto. La sentenza definitiva era, a propria volta,
gravata da altri motivi: di ultra-petizione ed errata
liquidazione
della somma per “ulteriore danno patrimoniale e
non” senza specifica motivazione al riguardo.
L’impresa, nel costituirsi, proponeva appello incidentale
per la parte di ridotta liquidazione della domanda.
La Corte territoriale, in parziale accoglimento del gravame,
condannava il Comune al pagamento di una somma parzialmente
ridotta e dichiarava sussistere la giurisdizione
amministrativa sulla domanda revisionale.
La questione giunge all’esame della Suprema Corte, con
ricorso
principale del Comune e incidentale dell’impresa.
La sentenza è cassata con rinvio, nei termini che si
diranno.
Quanto al ricorso principale, osservano i Supremi giudici
che i presupposti per il riconoscimento delle richieste
dell’appaltatore
circa pretese aggiuntive e revisionali non possono
essere desunti dal pagamento di SAL liquidati, occorrendo
di contro accertarsi della sussistenza di specifica
autorizzazione e delibera e, in caso negativo, verificare se
tale mancanza comportasse la non riconoscibilità del
credito,
anche in relazione alla dedotta mancata iscrizione a riserva
per tali lavori: sotto tale profilo, la Cassazione ritiene
affetta da carenza motivazionale la sentenza impugnata,
che è rinviata al giudice di merito.
Viceversa, la domanda
di risoluzione contrattuale è respinta osservandosi che,
anche
se alcuni lavori non erano stati realizzati, tuttavia, nel
complesso, l’inadempimento non rivestiva carattere di
gravità (Corte di
Cassazione, SS.UU. civili, sentenza
13.07.2013 n. 14556 - Urbanistica e appalti n.
10/2015). |
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