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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di MAGGIO 2016

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aggiornamento al 27.05.2016

aggiornamento al 18.05.2016

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 27.05.2016

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IN EVIDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI: Ordinanze contingibili e urgenti.
Non ricorre la contravvenzione di cui all'art. 650 c.p. nella ipotesi in cui il provvedimento amministrativo violato, in questo caso l'ordinanza sindacale di cui alla contestazione, difettando dei requisiti di legittimità, in quanto emesso da autorità amministrativa privo di legittimazione a farlo (per vizio della competenza) debba essere incidentalmente disapplicato in sede penale.
---------------
Nel caso in esame ricorre l'ipotesi di condotta caratterizzata dalla l'inosservanza di ordinanza della pubblica amministrazione nello specifico sanzionata in via amministrativa, in particolare ai sensi dell'art. 7-bis, commi 1 ed 1-bis, d.lgs. 18.08.2000, n. 267, cit., di guisa che, anche per tale ragione, non è ravvisabile nella concreta fattispecie in scrutinio la contravvenzione prevista dall'art. 650 cod. pen., figura di reato quest'ultima applicabile ove vengano in considerazione provvedimenti adottati in relazione a situazioni non prefigurate da alcuna specifica ipotesi normativa.

---------------
1. Il Tribunale di Cuneo, in composizione monocratica, con sentenza pronunciata il 07.06.2013, condannava alla pena di duecento euro di ammenda ciascuno Bo.Fa.Gi., Bo.Di. e Bo.Vi., accusati del reato di cui all'art. 650 c.p. perché, quali amministratori delle aziende agricole meglio indicate in atti, non ottemperavamo all'ordinanza con la quale il Sindaco di Monterosso Grana, per ragioni di igiene e sanità pubblica, in data 29.12.2009, aveva imposto di contenere il numero dei bovini all'interno della loro stalla nel numero di 85; fatti accertati il 15.04.2011.
...
3.1 L'ordinanza sindacale che si assume violata da parte del giudice di merito si appalesa all'evidenza illegittima, giacché adottata dal sindaco e non dal funzionario amministrativo, figura apicale del settore municipale competente, come previsto ed imposto dal d.lgs. 18.08.2000, n. 267, recante T.U. delle leggi sull'ordinamento degli enti locali delle leggi comunali e provinciali, art. 107, co. 3, lett. f) co. 5., disciplina, quella appena richiamata, che consente al Sindaco l'adozione di ordinanze esclusivamente di natura contingibile ed urgente, ipotesi non ricorrente nel caso di specie.
Su questa premessa poggia quindi la conclusione del sillogismo decisionale secondo cui
non ricorre la contravvenzione di cui all'art. 650 c.p. nella ipotesi in cui il provvedimento amministrativo violato, in questo caso l'ordinanza sindacale di cui alla contestazione, difettando dei requisiti di legittimità, in quanto emesso da autorità amministrativa privo di legittimazione a farlo (per vizio della competenza) debba essere incidentalmente disapplicato in sede penale (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 11448 del 07/02/2012, Rv. 252916).
3.2 Ritiene il Collegio inoltre, per completezza motivazionale, di rilevare altresì, essendogli consentito di ufficio la valutazione circa la sussistenza o meno del reato comunque contestato difensivamente, che
nel caso in esame ricorre l'ipotesi di condotta caratterizzata dalla l'inosservanza di ordinanza della pubblica amministrazione nello specifico sanzionata in via amministrativa, in particolare ai sensi dell'art. 7-bis, commi 1 ed 1-bis, d.lgs. 18.08.2000, n. 267, cit., di guisa che, anche per tale ragione, non è ravvisabile nella concreta fattispecie in scrutinio la contravvenzione prevista dall'art. 650 cod. pen., figura di reato quest'ultima applicabile ove vengano in considerazione provvedimenti adottati in relazione a situazioni non prefigurate da alcuna specifica ipotesi normativa.
Resta invece estranea alla sfera di applicazione di tale norma penale l'inottemperanza ad ordinanze municipali, ancorché concernenti la materia dell'igiene pubblica, se volte le stesse a dare applicazione, come nel caso in esame, a leggi o regolamenti che prevedono per detta violazione specifica sanzione amministrativa (Cass., Sez. 1, n. 1200 del 15/11/2012, Rv. 254247; Cass., 7883/2007) e questo in applicazione del principio di specialità di cui all'art. 9 l. 24.11.1981, n. 689 (cfr. Cass., sez. I, 14.10.2015, ric. Abagnale) (Corte di Cassazione, Sez. I penale, sentenza 19.04.2016 n. 15993).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U. 24.05.2016 n. 120 "Regolamento recante disposizioni relative al funzionamento e ottimizzazione del sistema di tracciabilità dei rifiuti in attuazione dell’articolo 188 -bis , comma 4 -bis , del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto 30.03.2016 n. 78).

ATTI AMMINISTRATIVI: G.U.U.E. 04.05.2016 n. L 119 "REGOLAMENTO (UE) 2016/679 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del 27.04.2016 relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (regolamento generale sulla protezione dei dati)".

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 21 del 25.05.2016 "Modulistica per l’attività agrituristica e la fattoria didattica ai sensi della lr. 31/2008 e del relativo regolamento di attuazione" (decreto D.S. 20.05.2016 n. 4503).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 21 del 23.05.2016 "Approvazione delle «Linee ed azioni regionali di educazione ambientale»" (deliberazione G.R. 16.05.2016 n. 5177).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 21 del 23.05.2016 "Terzo aggiornamento 2016 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (deliberazione G.R. 18.05.2016 n. 4360).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 20 del 20.05.2016, "Aggiornamento Albo delle imprese boschive (l.r. 31/2008 – art. 57)" (decreto D.S. 13.05.2016 n. 4207).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 20 del 19.05.2016 "Disposizioni in merito al nuovo sistema informativo integrato per la gestione informatica delle pratiche sismiche di cui all’art. 3, comma 2, legge regionale 33 del 12.10.2015 «Disposizioni in materia di opere o di costruzioni e relativa vigilanza in zone sismiche»" (decreto D.U.O. 03.05.2016 n. 3809).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: Oggetto: Normativa nazionale - conto termico (Decreto 16.02.2016): promemoria circa la prossima entrata in vigore del provvedimento (ANCE di Bergamo, circolare 20.05.2016 n. 117).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: art. 9, D.Lgs. n. 124/2004 – coincidenza delle ferie programmate con permessi per assistenza al congiunto disabile (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, interpello 20.05.2016 n. 20/2016).

SICUREZZA LAVORO: Oggetto: art. 12, d.lgs. n. 81/2008 e successive modifiche ed integrazioni – risposta al quesito relativo all’ambito di applicazione della normativa in tema di gestione dell’amianto negli edifici, con riferimento alla Legge 27.03.1992 n. 257 ed al DM 06.09.1994 (Commissione per gli Interpelli, interpello 12.05.2016 n. 10/2016).
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... Tutto ciò premesso la Commissione fornisce le seguenti indicazioni.
La legge n. 257/1992 e le relative precisazioni amministrative, ivi compreso il riferimento agli “impianti tecnici in opera all’interno che all’esterno” è diretta ai soli edifici, ed è da intendersi riservata ai soli impianti posti a servizio dell’edificio (ad es. impianti termici, idrici, elettrici).
Pertanto, atteso che in ogni caso si vuole garantire la salubrità dell’ambiente e la salute dei lavoratori, la Commissione ritiene che eventuali materiali contenenti amianto debbano essere gestiti:
mediante l’applicazione delle disposizioni del DM 06.09.1994 da parte del proprietario/conduttore e del d.lgs. n. 81/2008 da parte del datore di lavoro che opera nell’immobile, nel caso di materiali contenenti amianto presenti in impianti funzionali all’immobile;
attraverso le previsioni normative del d.lgs. n. 81/2008 a cura del Datore di Lavoro, nel caso di materiali contenenti amianto presenti in impianti produttivi strettamente correlati all’attività imprenditoriale e per questo non funzionali all’esercizio dell’immobile.

INCARICHI PROGETTUALI: OGGETTO: Aggiornamento indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata (INI-PEC) - nota del Ministero dello Sviluppo Economico del 29/04/2016 - sollecito urgente (Consiglio Nazionale degli Ingegneri, circolare 11.05.2016 n. 728).
---------------
Professionisti senza Pec, il Mise richiama gli ordini.
L'omessa pubblicazione dell'elenco in cui sono registrati gli indirizzi di posta elettronica dei professionisti, ovvero il rifiuto reiterato di comunicarlo alle pubbliche amministrazioni, costituiscono motivo di scioglimento e di commissariamento del collegio o dell'ordine inadempiente. Con queste parole si apre la lettera che il ministero dello sviluppo economico ha deciso di inviare nella giornata di ieri a tutti gli ordini professionali italiani.
Infatti a quasi quattro anni dall'istituzione dell'indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata (Ini-Pec), si riscontrano ancora gravi irregolarità, da parte di professionisti iscritti ad alcuni ordini o collegi, riguardante l'obbligo di dotarsi di una casella di posta elettronica certificata (Pec).

Questa, infatti, dal 29.11.2009 deve essere necessariamente comunicata al proprio Ordine di appartenenza il quale deve provvedere a renderla pubblica grazie alla registrazione nella banca dati dell'Ini–Pec. L'obiettivo è quello di dare l'opportunità, a chi ne ha necessità, di contattare un professionista o un'impresa operante sul territorio italiano attraverso la semplice consultazione di una banca dati pubblica e gestita dallo stato.
Secondo il Mise, però, molti ordini e collegi sia nazionali sia territoriali continuano a non volersi adeguare alle non più recenti direttive poiché: non provvedono da molto tempo a effettuare l'invio degli aggiornamenti all'Ini-Pec, non confermano l'assenza di aggiornamenti degli indirizzi pec di propria competenza e alcuni dei loro professionisti iscritti nell'Ini-Pec per una determinata categoria professionale, risultano facenti parte di ordini o collegi territoriali diversi.
Da qui la decisione di intimare il commissariamento o lo scioglimento di quegli ordini o collegi che non si aggiorneranno in tempi rapidi l'indice Ini-Pec il quale, secondo decreto ministeriale, doveva essere fatto con cadenza prima mensile e poi quotidiana (articolo ItaliaOggi del 13.05.2016).

APPALTI: Nuovi modelli di acquisto dei Comuni, anche a seguito dell’entrata in vigore del nuovo Codice degli Appalti (decreto legislativo n. 50/2016 pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 19.04.2016) (ANCI, nota informativa maggio 2016).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: Nota interpretativa sulla quantificazione del fondo risorse decentrate e sull’impatto contabile dei rinnovi contrattuali (ANCI Piemonte, nota 21.04.2016 n. 55/2016 di prot.).

COMPETENZE PROGETTUALI: Oggetto: nota di commento alla sentenza n. 460/2016 della Corte d'Appello di Torino - conferma del divieto per le società di ingegneria di operare nel settore privato (Consiglio Nazionale degli Ingegneri, circolare 15.04.2016 n. 716).

SINDACATI & ARAN

PUBBLICO IMPIEGO: Part-time verticale, assenze vincolate ai giorni lavorati. Aran. Calcoli su ferie, festività e malattie.
Il tetto delle assenze deve essere riproporzionato per il personale in part-time verticale in relazione alla durata della attività lavorativa. Per questi dipendenti le giornate non lavorative comprese tra periodi di assenza vanno conteggiate: questi principi si applicano ai dipendenti pubblici dei vari comparti, in quanto discendono direttamente dalle regole dettate in modo analogo dai contratti collettivi nazionali di lavoro.
In questa direzione si è di recente espressa l’Aran.
Occorre ricordare che il vincolo del riproporzionamento non si applica ai dipendenti in part-time orizzontale, in quanto essi svolgono la prestazione per tutte le giornate lavorative. Lo si deve ritenere invece estensibile anche ai dipendenti in part-time misto (quelli che prestano la loro attività contemporaneamente non in tutte le giornate lavorative e per una quantità ridotta di ore).
Il vincolo del riproporzionamento si applica a tutte le forme di assenza previste dai contratti, quindi sia alle ferie e alle connesse festività soppresse, sia alla malattia e al connesso calcolo del periodo di comporto. Si deve aggiungere che questo principio va applicato anche per i permessi.
Con riferimento all’istituto del comporto (cioè al periodo di conservazione del posto di lavoro in caso di assenze per malattia), l’Aran sottolinea che l’applicazione di questo principio produce conseguenze su tutti e tre i suoi aspetti costitutivi: la durata, il triennio di riferimento e i periodi di retribuzione intera e ridotta.
Nel comparto regioni ed enti locali la durata del comporto è di 18 mesi, che possono su richiesta del lavoratore e in casi particolarmente gravi prolungarsi per un periodo massimo di altri 18 mesi. Viene ridotto anche il triennio entro cui calcolare le giornate di assenza per malattia. Vengono ridotti infine anche i periodi in cui spetta la retribuzione intera e quelli in cui la stessa viene ridotta.
Nel comparto regioni ed enti locali la retribuzione fissa mensile (ad esclusione del salario accessorio) spetta interamente per i primi nove mesi; viene ridotta al 90% per i successivi tre mesi; è ridotta al 50% per gli altri sei mesi e non viene corrisposta per i periodi di eventuale prolungamento oltre i 18 mesi.
L’Aran detta infine due importanti principi sul calcolo dei periodi di assenza. In primo luogo, viene chiarito che ai fini del «superamento del periodo di comporto, vengono presi in considerazione esclusivamente i giorni di malattia coincidenti con quelli in cui il dipendente avrebbe dovuto rendere la prestazione lavorativa». L’altro principio è che ai giorni non lavorativi e a quelli festivi compresi tra giornate di assenza per malattia «si ritiene applicabile la medesima presunzione di continuità, alla quale si ricorre per calcolare il periodo di comporto del personale con rapporto di lavoro a tempo pieno».
Conclusione a cui si deve pervenire sulla base delle indicazioni consolidate della giurisprudenza lavoristica
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.05.2016).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI: G. Veltri, Il contenzioso nel nuovo codice dei contratti pubblici: alcune riflessioni critiche (26.05.2016 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA - APPALTI: Appalti - Scheda di tracciamento delle attività (art. 9, comma 2, dpr 62/2013; articolo 99, comma 4, d.lgs. 50/2016) (25.05.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

SEGRETARI COMUNALI: Dove si fermano i confini dei pareri (della Corte dei Conti) e della soft law (24.05.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Modello di ordine di esecuzione (forniture/servizi) (24.05.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Modello lettera-contratto per affidamento diretto di fornitura/servizio inferiore ai 40.000 euro (24.05.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTI: Tipologie di contratti (22.05.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTI: Appalti, attenzione alla trappola del frazionamento degli importi (21.05.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTI: Appalti: scadenzario fasi procedura informale => 40.000 < soglie comunitarie per forniture/servizi (15.05.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTI: Appalti: il rinnovo di diritto interno non è ammesso (15.05.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Quel pasticciaccio brutto degli incentivi alla progettazione (14.05.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Incarico al direttore dell'esecuzione di forniture-servizi (12.05.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

INCARICHI PROFESSIONALIModello determina di incarico ad Avvocati e ipotesi di modulo di negoziazione (12.05.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

SEGRETARI COMUNALI: Diritti di rogito: paradosso dei parerifici (11.05.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Modello di lettera di invito a procedure informali (articolo 36, comma 2, lettere a e b, del d.lgs. 50/2016) (09.05.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZIModello di atto formale di incarico al Rup (per servizi e forniture) (04.05.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Modello di Invito a manifestazione di interesse per procedure negoziate ex art. 36, comma 2, lettera b) (03.05.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZIModello di verbale/proposta di aggiudicazione a seguito di gara informale ex art. 36, comma 2 lettere a) e b) (02.05.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTIQuando può dirsi perfezionata giuridicamente l’obbligazione ai fini dell’impegno di spesa? (02.05.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTIQuella soft law “soft” con le lobby, hard con la PA (02.05.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTI: M. Alesio, Nuovo codice contratti pubblici - Prospetto sintetico delle principali novità (02.05.2016 - tratto da www.upel.va.it).

LAVORI PUBBLICI: M. Alesio, La lettera di invito nelle procedure negoziate alla luce del nuovo codice dei contratti pubblici - Appalti di lavori (Il modello di lettera di invito, oggetto di redazione, riguarda l'ipotesi di un appalto di lavori, di importo sino ad € 1.000.000,00, da aggiudicare con il criterio del prezzo più basso) (02.05.2016 - tratto da www.upel.va.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIl mostro giuridico dell’articolo 1, comma 557, della legge 311/2004 (01.05.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).
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Tra le tante mostruosità di un ordinamento giuridico sempre più vulnerato da norme mal concepite ed interpretazioni di esse troppo volte alla creazione di diritto, piuttosto che al chiarimento applicativo, spicca la fattispecie aberrante del cosiddetto “scavalco di eccedenza”.
Inutile provare a cercare in un qualsiasi database di leggi questo istituto. Esso non esiste, se non nella fervida (troppo fervida) fantasia di alcune sezioni regionali di controllo della Corte dei conti, che l’hanno desunto nell’interpretare la previsione contenuta nell’articolo 1, comma 557, della legge 311/2004.
Il testo della norma è il seguente: “I comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti, i consorzi tra enti locali gerenti servizi a rilevanza non industriale, le comunità montane e le unioni di comuni possono servirsi dell'attività lavorativa di dipendenti a tempo pieno di altre amministrazioni locali purché autorizzati dall'amministrazione di provenienza”. (...continua).

APPALTIEliminato lo scorporo della spesa di personale dalle offerte al ribasso (01.05.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTIDeterminazione a contrattare per forniture/servizi => 40.000 euro e inferiore alla soglia comunitaria (01.05.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZICodice dei contratti: ipotesi di lettera-contratto per forniture/servizi di importo inferiore ai 40.000 euro (29.04.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTICodice appalti: dichiarazioni ai fini della salvaguardia dal conflitto di interessi (28.04.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZICodice dei contratti: determina di approvazione della proposta di aggiudicazione in appalto di importo inferiore ai 40.000 euro (28.04.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTIL’anomalia del sistema di individuazione dell’offerta anomala (27.04.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZICodice dei contratti; modello di determina di acquisizione di beni o servizi di importo inferiore a 40.000 euro. Non chiamatela semplificazione (27.04.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTICodice contratti. Schema della caotica griglia di classificazione delle stazioni appaltanti (24.04.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTINuovo codice dei contratti: criteri di gara. In particolare: il massimo ribasso (18.04.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOFondo decentrato senza ritardi. Va costituito subito per vincolare le risorse variabili. Corte conti Veneto: in sua assenza solo la parte stabile va in avanzo vincolato.
In caso di mancata costituzione del fondo per la contrattazione decentrata entro la fine dell'esercizio, nel risultato di amministrazione vincolato confluisce la sola quota obbligatoriamente dalla contrattazione collettiva nazionale, ovvero la parte stabile, mentre tutte le risorse di natura variabile ivi incluse quelle da «riportare a nuovo» vanno a costituire vere e proprie economie di spesa.
Lo ha chiarito la Corte dei conti –sezione regionale di controllo per il Veneto– con il parere 04.05.2016 n. 263.
La pronuncia fornisce molti utili spunti in ordine al raccordo (tutt'altro che semplice) tra la disciplina dei fondi e le nuove regole dell'armonizzazione contabile.
Essa richiama le tre casistiche contemplate dai nuovi principi.
In quella che dovrebbe rappresentare l'ipotesi fisiologica, ovvero allorché entro il termine dell'esercizio di competenza sia stato costituito il fondo e sia anche sottoscritto il contratto collettivo decentrato, le risorse esigibili nell'esercizio successivo (in particolare, quelle legate alla performance) confluiscono nel fondo pluriennale vincolato.
Laddove il fondo sia costituito entro il termine dell'esercizio, ma il contratto venga sottoscritto successivamente, le risorse confluiscono nella quota vincolata del risultato di amministrazione, immediatamente applicabile anche in caso di esercizio provvisorio.
Se, infine, entro la fine dell'esercizio non è neppure stato costituito il fondo, come detto, va in avanzo vincolato solo la parte stabile, mentre quella variabile genera un'economia «libera».
Si conferma, quindi, la necessità di procedere tempestivamente, all'inizio dell'esercizio, alla formale di costituzione del fondo, che assume rilievo quale atto costitutivo per attribuire il vincolo contabile alle risorse e prodromico alla procedura di sottoscrizione del contratto. La relativa competenza, chiarisce il parere in commento, è prettamente dirigenziale.
La firma del contratto deve possibilmente avvenire entro la fine dell'anno, sia per evitare problemi legati alla disciplina del pareggio di bilancio (che peraltro si porranno comunque, se il fondo pluriennale vincolato non verrà stabilmente inserito nel saldo), sia, soprattutto, perché i giudici contabili censurano la prassi della c.d. contrattazione tardiva (articolo ItaliaOggi del 20.05.2016).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPersonale, deroga ai mini-enti. Non devono ridurre l'incidenza dei costi sulle spese correnti. La sezione autonomie ha confermato il regime speciale per gli enti non soggetti al Patto.
Ai comuni fino a 1.000 abitanti, alle unioni di comuni e in generale agli enti che fino al 2015 non erano soggetti al Patto di stabilità interno non si applicano gli obblighi relativi alla riduzione dell'incidenza della spesa di personale rispetto alle spese correnti.

Lo ha chiarito in modo definitivo la sezione delle autonomie della Corte dei conti con la deliberazione 04.05.2016 n. 16 (si veda anche ItaliaOggi del 07/05/2016), confermando quanto già sostenuto dalla Sezione regionale di controllo per l'Abruzzo (deliberazione n. 57/2016/Par).
Come noto, ai fini dell'individuazione dei limiti alla spesa di personale, si distingue da tempo fra enti soggetti e non soggetti al Patto. Ai primi si applica la disciplina dei commi 557 e seguenti della legge 296/2006, su cui si è concentrata nella più recente pronuncia la sezione autonomie, riaffermando la piena cogenza dell'obbligo non solo di ridurre le uscite per stipendi rispetto alla media del triennio 2011-2013, ma anche la loro incidenza rispetto al coacervo della spesa corrente.
Per gli enti non soggetti al Patto, invece, si applica il comma 562 della stessa legge 296, che prevede come limite di spesa di personale il corrispondente ammontare dell'anno 2008, al lordo degli oneri riflessi a carico delle amministrazioni e dell'Irap, e non fa alcun cenno alla necessità di agire anche sul rapporto spesa di personale/spesa corrente.
Questo doppio binario è stato confermato anche dal comma 762 della legge 208/2015 che, malgrado il superamento del Patto (sostituito dal pareggio di bilancio), ha confermato la piena vigenza del comma 562 e delle altre disposizioni in materia di spesa di personale riferite agli enti che nell'anno 2015 non erano sottoposti alla relativa disciplina. Si tratta, come detto, dei comuni fino a 1.000 abitanti, delle unioni di comuni e delle comunità montane ed isolane, ma anche, ad esempio, dei comuni istituti mediante fusione dal 2012.
Ovviamente, la distinzione fra enti soggetti e non soggetti al Patto vale, oltre che per i limiti alla spesa, anche per quelli al turnover: nel primo caso, esso è limitato al 25% della spesa dei cessati dell'anno precedente (oltre agli eventuali resti), mentre nel secondo segue la regola «per teste».
Per le unioni di comuni, peraltro, il comma 229 della stessa legge 208 ha previsto anche la possibilità di procedere a nuove assunzioni nella misura del 100 per cento della spesa relativa al personale di ruolo cessato dal servizio nell'anno precedente, per cui in tal caso è possibile scegliere il regime più favorevole. Se questo è il quadro, pare sempre più urgente un sua drastica razionalizzazione e semplificazione, visto che esso sembra ormai avere perso qualsiasi organicità (articolo ItaliaOggi del 13.05.2016).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOSpesa di personale senza correttivi. Corte dei conti. I calcoli per il rispetto dei tetti di spesa non possono essere depurati dalle somme relative a fatti «straordinari».
Gli enti locali devono contenere la spesa di personale nel limite di quella media del triennio 2011-2013 e devono considerare immediatamente precettivo anche l'obbligo di ridurre ogni anno l’incidenza percentuale delle spese di personale rispetto alle spese correnti (articolo 1, comma 557, lettera a della legge 296/2006), che quindi non può essere ritenuto un principio programmatorio.
Nel calcolo del rapporto il parametro da prendere a riferimento è il triennio 2011-2013, da intendersi in senso statico. Il denominatore del rapporto non può essere depurato delle spese di natura eccezionale o, comunque, non ricorrenti che siano dovute a scelte discrezionali degli enti. L’accantonamento al fondo crediti di dubbia esigibilità non è oggetto di impegno, per cui non assume rilevanza nel computo della spesa corrente.

Sono i criteri operativi da rispettare per l’applicazione delle disposizioni in materia di contenimento della spesa di personale dettati dalla Sezione Autonomie della Corte dei conti (deliberazione 04.05.2016 n. 16, su cui si veda anche Il Sole 24 Ore di venerdì).
In particolare, è stato chiesto ai magistrati se sia possibile riconoscere natura programmatoria e non immediatamente precettiva al comma 557, lettere a), b) e c) della legge 296/2006, con la conseguenza di ritenere possibile assumere nell’ipotesi di aver conseguito una riduzione della spesa di personale, con riferimento al valore medio del triennio 2011-2013 (comma 557-quater), non accompagnata da una riduzione del rapporto tra questa spesa e quella corrente, sempre con riferimento al valore di questo rapporto nel triennio 2011-2013.
In caso di risposta negativa, le sezioni remittenti chiedono se sia ipotizzabile considerare il riferimento contenuto nel comma 557-quater in senso dinamico e non statico e se sia possibile neutralizzare gli effetti derivanti dall’applicazione dei diversi criteri di contabilizzazione dei fatti gestionali. All’attenzione della Corte è poi stata posta la questione relativa all’esclusione dai conteggi dell’accantonamento a fondo crediti dubbia esigibilità.
Dopo aver affermato che sussiste l’obbligo di riduzione della spesa previsto dal comma 557, secondo il parametro individuato dal comma 557-quater, i giudici sostengono che l’attuale assetto normativo non consente di sterilizzare dal rapporto determinate poste di spesa corrente (di natura eccezionale e non ricorrente). Si fa riferimento, in particolare, alle ipotesi di riduzione della spesa corrente in misura maggiore alla contrazione della spesa di personale, all’affidamento all’esterno del servizio idrico prima gestito in economia, all’affidamento a terzi di una farmacia comunale e del servizio di refezione scolastica.
Al riguardo, i magistrati ricordano le disposizioni recate dall’articolo 6-bis del Dlgs 165/2001, che impone alle amministrazioni, al momento di assumere la decisione di esternalizzare un servizio, di adottare le conseguenti misure di riduzione e rideterminazione della dotazione organica. Ne deriva che l’esternalizzazione di un servizio deve essere attuata dall’ente nel quadro di misure di programmazione e organizzazione in grado di assicurare, nell’ambito della generale riduzione della spesa corrente, anche la riduzione delle spese di personale. In assenza di esplicito intervento normativo, non è pertanto possibile depurare il denominatore del rapporto spesa di personale/spesa corrente dalle spese di natura eccezionale o, comunque, non ricorrenti che siano dovute a scelte discrezionali degli enti.
Il rispetto dell’intero precetto normativo porta a concludere che permane, a carico degli enti territoriali, l’obbligo di riduzione della spesa di personale secondo il parametro individuato dal comma 557-quater, da intendere in senso statico, con riferimento al triennio 2011-2013.
L’accantonamento al fondo crediti di dubbia esigibilità, infine, non è oggetto di impegno e genera un’economia di bilancio che confluisce nel risultato di amministrazione come quota accantonata e conseguentemente non assume rilevanza nella determinazione del denominatore del rapporto spesa del personale/spesa corrente
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.05.2016).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Niente sconti sulla spesa per il personale degli enti.
Niente sconti sulla spesa di personale agli enti territoriali, che devono ridurre il peso degli stipendi sulla spesa corrente complessiva senza poter scorporare dal parametro le uscite una tantum e senza tenere conto delle somme accantonate a fondo crediti di dubbia esigibilità.

È questo il chiarimento più importante fornito dalla Corte dei conti - sezione autonomie, che nella deliberazione 04.05.2016 n. 16 ha fornito, in risposta alle questioni di massima sollevate da diverse Sezioni regionali di controllo, alcuni rilevanti indirizzi interpretativi delle vigenti disposizioni vincolistiche in materia di spesa del personale (si veda anche ItaliaOggi di ieri). La pronuncia conferma che il parametro per verificare il rispetto dell'obbligo di riduzione del rapporto spesa di personale/spesa corrente è rappresentato «in modo statico» dalla media registrata nel triennio 2011-2013.
È stato quindi respinta l'opzione favorevole a interpretare lo stesso parametro in modo dinamico, per tenere conto del fatto che la spesa corrente si è fisiologicamente ridotta nel corso degli ultimi anni a causa dei ripetuti cicli di spending review e tagli. Tale lettura rischia di penalizzare ingiustamente molte amministrazioni virtuose. Per capirlo, basta fare un semplice esempio numerico.
Ipotizziamo che un ente abbia registrato nel periodo 2011-2013 una spesa corrente media di 100 e una spesa di personale media di 50, con un rapporto pari al 50%. Se oggi la sua spesa corrente si è ridotta a 80 ma le uscite per stipendi sono calate solo a 45, il suo rapporto è oggi superiore al parametro, assestandosi al 56,25%. Ma possiamo considerare questo ente non virtuoso, visto che ha ridotto entrambe le voci di costo e che di norma la spesa di personale è la voce più rigida degli oneri di funzionamento?
La lettura dei giudici contabili, inoltre, pone altre rilevanti criticità: se negli anni benchmark si sono sostenute spese di natura eccezionale o non ricorrente e poi le uscite sono tornate al loro livello fisiologico, rispettare l'obiettivo può essere complicato. E la stessa cosa accade se un ente decide (magari per migliorare efficacia ed efficienza) di esternalizzare un servizio prima svolto in forma diretta.
Comune a tutte le amministrazioni è invece il problema (nato con l'armonizzazione contabile) del fondo crediti di dubbia esigibilità: esso non è oggetto di impegno e genera un'economia di bilancio che confluisce nel risultato di amministrazione come quota accantonata e conseguentemente non assume rilevanza nella determinazione del denominatore del rapporto spesa del personale/spesa corrente.
La delibera della sezione autonomie ammette tali distonie, ma evidenzia che per correggerle occorre un intervento del legislatore, che a questo punto pare sempre più urgente (articolo ItaliaOggi del 07.05.2016).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAssunzioni bloccate se il Comune non taglia le spese di personale. Corte dei conti. La sezione delle Autonomie.
L’addio al Patto di stabilità e l’armonizzazione contabile non cambiano i limiti alla spesa del personale di Regioni ed enti locali, che deve continuare a ridurre la propria incidenza sulle uscite correnti rispetto alla media del 2011-2013.
Questo principio, fissato dalla deliberazione 04.05.2016 n. 16 dalla sezione Autonomie della Corte dei conti, rischia di mettere in crisi parecchie amministrazioni, che in caso di mancato rispetto incappano del blocco delle assunzioni a qualsiasi titolo (compresi i rinnovi dei contratti a tempo determinato).
A certificare l’importanza della questione è la pioggia di quesiti arrivati alla sezione Autonomie dalle diverse corti dei conti regionali. Tutte, in pratica, ruotano intorno ai problemi generati dall’armonizzazione contabile, che imponendo di accantonare nel fondo crediti di dubbia esigibilità una somma proporzionale alle mancate riscossioni riduce la spesa corrente “impegnabile” dall’amministrazione locale.
Se il vincolo alla spesa di personale è misurato nel rapporto con le uscite correnti, quando queste ultime si riducono il cerchio si stringe e quindi impone di alleggerire in modo ancora più drastico il peso degli stipendi. Siccome questo effetto dipende dalla riforma della contabilità e non dalla dinamica effettiva delle uscite per il personale, molti enti hanno premuto per correggere il limite, oppure per considerarlo implicitamente superato, e i magistrati contabili impegnati nelle regioni hanno riportato la questione alla sezione delle Autonomie.
La risposta arrivata da Roma chiude su tutta la linea. Il parametro che chiede la riduzione progressiva del peso degli stipendi sul complesso delle uscite correnti, scritto nella Finanziaria per il 2007 (commi 557 e seguenti della legge 296/2006), è perfettamente in vigore. Come sempre accade quando si trova a esaminare limiti di spesa, la Corte punta quindi a una lettura “rigida”, tanto più dopo che la Corte costituzionale (nella sentenza 218/2015) ha ribadito l’importanza strategica del freno alla spesa di personale.
La conseguenza di queste premesse è nei cinque principi di diritto fissati dalla nuova delibera: la riduzione del rapporto fra spese di personale e spese correnti è obbligatoria, il riferimento è fisso al 2011-13, la riforma contabile non permette di “sterilizzare” alcuna voce perché servirebbe una norma, la spesa di personale va contabilizzata come prevede l’armonizzazione (principio contabile allegato 4/2 al Dlgs 118/2011) e il fondo crediti non è un impegno di spesa e quindi non va calcolato al denominatore.
Dopo la botta arrivata mercoledì sull’obbligo di dimezzamento delle spese per i contratti a termine calcolato anche sui dirigenti a tempo (si veda Il Sole 24 Ore di ieri), su cui già ieri i sindaci hanno sollecitato «chiarimenti» in Conferenza Unificata, è da scommettere che anche questa delibera accenderà il confronto con gli enti
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.05.2016).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPersonale, taglio costi costante. Obbligatorio ridurre l'incidenza sulla spesa corrente. La sezione autonomie della Corte conti: si tratta di norme cogenti, non di principio.
Obbligatorio ridurre il rapporto della spesa di personale rispetto alla spesa corrente anno per anno, in applicazione dell'articolo 1, comma 557, lettera a), della legge 296/2006, che va considerato norma avente natura cogente.

La Corte dei conti, sezione autonomie, con la deliberazione 04.05.2016 n. 16, ritiene sostanzialmente ininfluente l'abolizione dell'articolo 76, comma 7, del dl 112/2008, convertito in legge 133/2008, operato dall'articolo 3, comma 5, del dl 90/2014, convertito in legge 114/2014, il quale disponeva il divieto agli enti nei quali l'incidenza delle spese di personale fosse pari o superiore al 50% delle spese correnti di procedere ad assunzioni di personale a qualsiasi titolo e con qualsivoglia tipologia contrattuale.
La gran parte degli interpreti aveva inteso l'abolizione di questa previsione come il segnale dell'eliminazione dall'ordinamento giuridico della necessità di assicurare una riduzione costante del rapporto spesa di personale/spesa corrente, considerando che esso sarebbe risultato inutile ai fini di un divieto alle possibilità assunzionali.
Del resto, sempre l'articolo 3, comma 5-bis, del dl 90/2014 aveva introdotto nell'articolo 1 della legge 296/2006 il seguente comma 557-quater: «Ai fini dell'applicazione del comma 557, a decorrere dall'anno 2014 gli enti assicurano, nell'ambito della programmazione triennale dei fabbisogni di personale, il contenimento delle spese di personale con riferimento al valore medio del triennio precedente alla data di entrata in vigore della presente disposizione».
In molti, quindi, avevano tratto la conclusione che l'unico riferimento posto ad assicurare un processo virtuoso di gestione della spesa del personale fosse il tetto della spesa media incontrata nel triennio 2011-2013. Non così parte della magistratura contabile, secondo la quale il dl 90/2014 avrebbe, al contrario, ridato vita all'articolo 1, comma 557, lettera a), della legge 296/2006.
Tale norma dispone che gli enti soggetti al rispetto degli obiettivi di finanza pubblica debbono ridurre il complesso della spesa del personale «con azioni da modulare nell'ambito della propria autonomia e rivolte, in termini di principio» ad alcuni ambiti prioritari di intervento e, segnatamente, la «riduzione dell'incidenza percentuale delle spese di personale rispetto al complesso delle spese correnti, attraverso parziale reintegrazione dei cessati e contenimento della spesa per il lavoro flessibile».
Secondo alcune sezioni regionali di controllo tale norma, però, sarebbe stata da considerare solo un principio non cogente. La sezione autonomie ha ritenuto, invece, di aderire alla testi più restrittiva: dunque, oltre all'obbligo di contenere la spesa nel tetto di quella media del triennio 2011-2013, gli enti locali debbono anche ridurre annualmente il rapporto della spesa di personale su quella corrente, anche se non esiste più un rapporto superato il quale scatti la sanzione del divieto di compiere assunzioni.
Le indicazioni della sezione autonomie sono autorevoli e porteranno gli enti ad orientare l'azione verso una gestione molto rigorosa della spesa del personale, ma non appaiono convincenti. Con la deliberazione 14/2016 a proposito della ricomprensione della spesa per i dirigenti a contratto nel tetto della spesa del personale flessibile, la magistratura contabile ha dimostrato di essere capace di modificare precedenti interpretazioni, anche alla luce di letture «costituzionalmente orientate», che pare non aver posto in essere nel caso della delibera 16/2016.
Non si deve dimenticare, allora, la sentenza della Corte costituzionale 417/2004, la quale dichiarò incostituzionali norme contenenti «vincoli che, riguardando singole voci di spesa, non costituiscono princìpi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica, ma comportano una inammissibile ingerenza nell'autonomia degli enti quanto alla gestione della spesa», ledendo la specifica tutela costituzionale assicurata agli enti locali.
L'articolo 1, comma 557, della legge 296/2006 venne a suo tempo approvato proprio per superare i vincoli puntuali alla spesa del personale posti dalla legge 266/2005: ecco perché detto articolo 1, comma 557, stabilisce esplicitamente di regolare solo «in termini di principio» gli ambiti di intervento posti a ridurre la spesa di personale.
La lettura fornita dalla Sezione autonomie con la delibera 16/2016, pertanto, per quanto rigorosa, appare non fondata proprio perché finisce per contrastare con le indicazioni della Corte costituzionale (articolo ItaliaOggi del 06.05.2016).
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MASSIMA
La Sezione delle autonomie della Corte dei conti, sulle questioni di massima rimesse dalle Sezioni regionali di controllo per la Lombardia e per il Veneto con le deliberazioni n. 78/2016/QMIG, n. 82/2016/QMIG, n. 97/2016/QMIG, n. 101/2016/QMIG e n. 246/2016/QMIG, pronuncia i seguenti principi di diritto:
“1. Alla luce della normativa introdotta dalla legge di stabilità 2016 e del nuovo sistema di armonizzazione contabile, deve confermarsi la vigenza e la cogenza delle disposizioni dettate dall’art. 1, comma 557 e ss., l. n. 296/2006, in materia di riduzione delle spese di personale.
2. Secondo la vigente disciplina in materia di contenimento della spesa del personale permane, a carico degli enti territoriali, l’obbligo di riduzione di cui all’art. 1, comma 557, l. n. 296/2006, secondo il parametro individuato dal comma 557-quater, da intendere in senso statico, con riferimento al triennio 2011-2013.
3. Con riferimento al parametro dell’art. 1, comma 557, lett. a), l. n. 296/2006, non è possibile, in mancanza di norme espresse, depurare il denominatore del rapporto spesa di personale/spesa corrente dalle spese di natura eccezionale o, comunque, non ricorrenti che siano dovute a scelte discrezionali degli enti.
4. Il principio contabile di cui all’allegato n. 4/2 al d.lgs. n. 118/2011, punto 5.2, disciplina compiutamente la corretta imputazione degli impegni per la spesa del personale per effetto del passaggio al nuovo sistema di armonizzazione contabile.
5. L'accantonamento al fondo crediti di dubbia esigibilità non è oggetto di impegno e genera un'economia di bilancio che confluisce nel risultato di amministrazione come quota accantonata e conseguentemente non assume rilevanza nella determinazione del denominatore del rapporto spesa del personale/spesa corrente.”

ENTI LOCALI: Autovelox, incassi da dividere al netto delle spese.
Anche se manca il decreto richiesto dalla legge i comuni possono già dividere a metà gli accertamenti autovelox con l'ente proprietario della strada. Tolte però tutte le spese di accertamento e di incasso.

Lo ha evidenziato la Corte dei conti dell'Emilia-Romagna, con il parere 03.05.2016 n. 44.
La questione della ripartizione a metà delle multe autovelox e della rendicontazione periodica sull'impiego del denaro incassato vede la luce con la legge n. 120/2010 che ha previsto, tra l'altro, che per tutte le violazioni dei limiti di velocità i proventi devono essere ripartiti in misura uguale fra l'ente dal quale dipende l'organo accertatore e l'ente proprietario della strada.
Le nuove disposizioni impongono inoltre agli enti locali di trasmettere in via informatica a Roma, entro il 31 maggio, una composita relazione in cui devono essere indicati, con riferimento all'anno precedente, l'ammontare complessivo dei proventi con la specificazione degli oneri sostenuti per ciascun intervento. Ma in assenza del sistema informatico ad hoc e di regole chiare su quanto e come dividere i proventi si naviga a vista e si procede con grande approssimazione.
Per questo motivo l'Associazione dei comuni è intervenuta nuovamente, il 28.02.2016, specificando che resta in vigore il comma 3 dell'art. 25 della legge 120/2010 il quale dispone l'applicabilità della novella a far data dall'esercizio successivo a quello di emanazione del decreto fantasma. In buona sostanza anche per il 2016 l'Anci raccomanda la massima attenzione circa l'obbligo di destinazione dei proventi, in conformità alle indicazioni diramate dalla Corte dei conti dell'Emilia-Romagna (si veda ItaliaOggi del 13/02/2016).
Che però con quest'ultima deliberazione sembra disporre concretamente per il via libera alla materiale ripartizione degli importi incamerati in questi anni dai comuni. Specificano infatti i giudici contabili che la ripartizione dovrà essere fatta al netto delle spese per il noleggio dell'autovelox, per la notifica delle multe e la loro gestione informatica. Ma anche degli importi necessari per procedere materialmente alla riscossione coattiva della sanzione (articolo ItaliaOggi del 20.05.2016).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOI dirigenti «pesano» sulla spesa. Personale Pa. La Corte dei conti include gli incarichi dirigenziali a tempo determinato nei limiti sui dipendenti.
Anche gli incarichi dirigenziali a tempo determinato entrano nei limiti complessivi della spesa di personale, in base ai quali ai contratti a termine non può essere destinata una somma superiore al 50% di quella sostenuta allo stesso titolo nel 2009.
L’indicazione arriva dalla sezione Autonomie della Corte dei conti, che con la deliberazione 03.05.2016 n. 14 cambia rotta rispetto alle istruzioni date sulla stessa norma quattro anni fa, nella delibera 12/2012.
Più che di un cambio, si tratta in realtà di un’inversione di rotta, dal momento che la delibera del 2012 aveva decretato l’esclusione di queste spese dai vincoli generali, e costringe quindi le amministrazioni locali a rifare i calcoli, con il rischio di trovarsi improvvisamente ad aver sforato i limiti e quindi ad essere costrette a rientrare. La novità, però, nasce dall’evoluzione del quadro delle regole di riferimento, che in questi mesi aveva alimentato un doppio filone nelle sezioni regionali ora risolto dalle Autonomie.
A motivare l’esclusione, nel 2012, era il fatto che gli incarichi dirigenziali degli enti locali erano disciplinati da un limite “su misura”, scritto nel testo unico del pubblico impiego (articolo 19, comma 6-quater, del Dlgs 165/2001), che agli occhi della Corte giustificava il mancato inserimento di questa voce nel limite complessivo. Ora però, dopo il decreto Madia del 2014, quella norma si applica solo agli enti di ricerca.
Una norma su misura per gli incarichi in Comuni, Province e Città metropolitane c’è ancora, ed è migrata nel Testo unico degli enti locali dove si fissa un limite più alto rispetto al passato: le amministrazioni locali non possono coprire con incarichi a tempo determinato più del 30% dei posti previsti in dotazione organica.
Questo limite, però, non basta secondo il nuovo orientamento della Corte dei conti a superare il vincolo generale, rafforzato anche dal fatto che un successivo intervento della Corte costituzionale, con la sentenza 173/2012, ha ribadito che il tetto complessivo scritto nel 2010 ha «l’obiettivo generale di contenimento della spesa relativa ad un vasto settore del personale». Di qui l’impossibilità di sottrarre al vincolo gli incarichi dirigenziali negli enti locali
(articolo Il Sole 24 Ore del 05.05.2016).
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MASSIMA
La Sezione delle autonomie della Corte dei conti sulla questione di massima rimessa dalla Sezione regionale di controllo per la Lombardia con deliberazione n. 41/2016/QMIG, pronuncia il seguente principio di diritto:
“Le spese riferite agli incarichi dirigenziali conferiti ex art. 110, primo comma, del decreto legislativo n. 267 del 2000 devono essere computate ai fini del rispetto del limite di cui all’art. 9, comma 28, del decreto legge n. 78 del 2010, convertito con modificazioni dalla legge n. 122 del 2010”.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOP.a., retromarcia sui dirigenti. La spesa nel tetto per i contratti a tempo e flessibili. CORTE DEI CONTI/ Deliberazione sulle assunzioni ex art. 110 del dlgs 267/2000.
Va computata nel tetto della spesa per i contratti a tempo determinato e flessibili la spesa connessa alle assunzioni di dirigenti a tempo determinato «a contratto», in applicazione dell'articolo 110, comma 1, del dlgs 267/2000.

La Corte dei Conti, Sezione autonomie, con la deliberazione 03.05.2016, n. 14, modifica il proprio precedente orientamento e aderisce alla tesi secondo la quale l'articolo 9, comma 28, del d.l. 78/2010, convertito in legge 122/2010, vale anche per gli incarichi dirigenziali a contratto e risolve alcuni contrasti interpretativi insorti in merito tra diverse sezioni regionali della magistratura contabile.
Come detto sopra, in effetti, la Sezione autonomie corregge anche se stessa: infatti, con la deliberazione 12/2012/Inpr aveva enunciato il principio di diritto opposto, secondo il quale gli incarichi a contratto di cui all'articolo 110, comma 1, del Tuel dovevano considerarsi sottratti ai vincoli di spesa imposti dal citato articolo 9, comma 28.
In sintesi, tale precedente ricostruzione della Sezione autonomie si basava sulla considerazione che sarebbe stato incongruo ritenere imposti alle assunzioni dei dirigenti a contratto degli enti locali sia il tetto di spesa previsto dall'articolo 9, comma 28, sia anche i limiti numerici alle assunzioni molto restrittivi, previsti dall'articolo 19, comma 6-quater, nel testo precedente alla riforma apportata dall'articolo 11, comma 2, del d.l. 90/2014.
Oggettivamente, l'interpretazione fornita nel 2012 dalla Sezione autonomie non appariva del tutto soddisfacente: nulla impediva, a ben vedere, al legislatore di disporre stringenti limiti, sia numerici, sia finanziari, ad assunzioni extra ordinem, come quelle disciplinate dall'articolo 110, comma 1, del Tue.
Lealmente, la delibera 14/2016 riconosce che il precedente orientamento della Sezione autonomie era implicitamente in contrasto con la chiave di lettura dell'articolo 9, comma 28, del d.l. 78/2010 fornita dalla Corte costituzionale con la sentenza 173/2012, la quale precisa che il tetto alla spesa del personale flessibile «pone un obiettivo generale di contenimento della spesa relativa a un vasto settore del personale e, precisamente, a quello costituito da quanti collaborano con le pubbliche amministrazioni in virtù di contratti diversi dal rapporto di impiego a tempo indeterminato».
Dunque, una lettura costituzionalmente orientata dell'articolo 9, comma 28, avrebbe dovuto indurre da sempre a considerare gli incarichi a contratto ricompresi nel tetto di spesa per lavoro flessibile. Sta di fatto che il revirement della Sezione autonomie è molto netto.
Secondo la delibera 14/2016 non vi è ragione di ritenere che la disciplina speciale della dirigenza a contratto contenuta nell'articolo 110, comma 1, per ciò solo consenta di derogare ai principi generali. Di particolare pregio è la distinzione che la delibera propone tra il concetto di specialità e quello di deroga. La specialità consente ad una specifica disciplina di interagire con aspetti particolari «in funzione della realizzazione di una disciplina compiuta».
Tuttavia, una norma speciale non è di per sé derogatrice, specie se la deroga non è espressamente disposta dal legislatore e finisca per incidere negativamente su obiettivi generali, come il risparmio delle risorse pubbliche relative al personale.
Poiché il legislatore, che ben avrebbe potuto derogare espressamente alle previsioni dell'articolo 9, comma 28, in tema di incarichi a contratto, se ne è astenuto, per la Sezione autonomie resta unicamente la conclusione che la spesa per gli incarichi a contratto va computata ai fini del relativo tetto disposto appunto dal citato articolo 9, comma 28 (articolo ItaliaOggi del 05.05.2016).
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MASSIMA
La Sezione delle autonomie della Corte dei conti sulla questione di massima rimessa dalla Sezione regionale di controllo per la Lombardia con deliberazione n. 41/2016/QMIG, pronuncia il seguente principio di diritto:
“Le spese riferite agli incarichi dirigenziali conferiti ex art. 110, primo comma, del decreto legislativo n. 267 del 2000 devono essere computate ai fini del rispetto del limite di cui all’art. 9, comma 28, del decreto legge n. 78 del 2010, convertito con modificazioni dalla legge n. 122 del 2010”.

A.N.AC. (già AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI)

APPALTICodice appalti non retroattivo. 20 aprile spartiacque: vecchie regole per rinnovi contrattuali. Le indicazioni dell'Anticorruzione alle stazioni appaltanti. Settori speciali senza Avcpass.
Il nuovo Codice degli appalti pubblici si applica ai bandi pubblicati dal 20.04.2016 in poi e non ai bandi trasmessi alla Gazzetta Ufficiale prima di questa data. Seguono le regole del vecchio codice i rinnovi contrattuali, i servizi complementari, le modifiche contrattuali e le proroghe tecniche concernenti procedure affidate prima del 20 aprile, oltre alle procedure negoziate affidate dopo il 20 aprile se conseguenti a gare affidate prima ma andate deserte. Il sistema Avcpass (per la comprova online dei requisiti di partecipazione richiesti agli operatori economici, ndr) non applicabile ai settori speciali.

Sono queste le principali indicazioni operative che l'Autorità nazionale anticorruzione (Anac) ha dato alle stazioni appaltanti con due comunicati siglati dal presidente Raffaele Cantone.
Nel primo comunicato del Presidente del 11.05.2016, emesso in relazione a «numerose richieste di chiarimenti» si affronta il tema del periodo transitorio relativo al passaggio dal vecchio al nuovo Codice.
Si conferma che il codice De Lise (e il dpr 207/2010) si applica a tutti gli avvisi pubblicati entro il 19.04.2016 nella Gazzetta Ufficiale dell'Ue, nella Gazzetta italiana o, laddove previsto, nell'Albo pretorio o sul profilo del committente; con ciò si esclude che i bandi inviati alla Gazzetta prima dell'entrata in vigore del codice (sulla base del decreto del 2006) ma usciti sulla Gazzetta dopo il 19 aprile possano essere ritenuti validi (e quindi andranno riavviate le procedure con le nuove norme del decreto 50).
L'Anac ha chiarito che «le disposizioni previgenti» si continuano ad applicare agli affidamenti aggiudicati prima della data di entrata in vigore del nuovo Codice, per i quali la stazione appaltante ha proceduto al «rinnovo del contratto o a modifiche contrattuali derivanti da rinnovi già previsti nei bandi di gara, a consegne, lavori e servizi complementari, a ripetizione di servizi analoghi, a proroghe tecniche, purché limitate al tempo strettamente necessario per l'aggiudicazione della nuova gara, a varianti per le quali non sia prevista l'indizione di una nuova gara».
In questo casi, ha chiarito l'Anac, non è importante che sia stato richiesto un nuovo Cig (codice identificativo gara). Vengono salvate anche le procedure negoziate indette, a partire dal 20.04.2016, ma conseguenti a precedenti gare bandite con il vecchio codice e andate deserte o senza offerte regolari. In questi casi occorre che «la procedura negoziata sia tempestivamente avviata».
Stesso regime per le procedure negoziate che conseguono ad avvisi esplorativi (indagini di mercato) avviate (o con bandi pubblicati) prima del 20 aprile; si richiede però «certezza della data di pubblicazione dell'avviso». Stesso discorso per gli affidamenti diretti o per le procedure negoziate in attuazione di accordi quadro aggiudicati prima del 20 aprile e per adesioni a convenzioni stipulate prima della stessa data.
Marcia indietro sul divieto di rilascio dei Cig (Codice identificativo gara) ai comuni: rettificando i comunicati Anac del 10.11.2015 e dell'08.01.2016, si potrà rilasciare il Cig a tutti i comuni per servizi e forniture di importo inferiore a 40 mila euro e per lavori di importo inferiore a 150 mila.
Nel secondo comunicato del Presidente 04.05.2016, messo in linea ieri sul sito dell'Autorità, si chiarisce invece un profilo relativo al sistema di verifica dei requisiti (Avcpass), trasferito con il nuovo codice al ministero delle infrastrutture.
In particolare, si precisa che, nonostante l'art. 133 del nuovo Codice richiami l'art. 81 (verifica tramite Avcpass) tra le norme applicabili ai settori speciali, trattandosi di norma «programmatica del nuovo sistema», si può sostenere «l'estensione ai settori speciali riguardi il nuovo sistema di verifica dei requisiti di partecipazione alle gare d'appalto ma non anche l'attuale sistema Avcpass» (articolo ItaliaOggi del 13.05.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZIVia al controllo incrociato su forniture e servizi p.a.. Le procedure per la vigilanza collaborativa Anac-Consip.
Al via la vigilanza collaborativa fra Anac e Consip; verranno controllati da Anac cinque rilevanti procedure di appalto; al vaglio dei tecnici di Cantone tutti gli atti di gara compresa la nomina dei commissari e l'aggiudicazione degli appalti.

È quanto si prevede nel protocollo di vigilanza collaborativa siglato il 05.05.2016 dal presidente dell'Anac, Raffaele Cantone, e dall'amministratore delegato di Consip, Luigi Marroni.
Si tratta di un protocollo che riguarda alcune iniziative di particolare complessità che Consip porrà in essere e che richiedono una particolare attenzione sia per la rilevanza tecnica ed economica, sia per la peculiare impostazione giuridica, oltre che per il loro impatto su particolari aree del territorio nazionale a rischio di infiltrazione.
La vigilanza collaborativa di Anac avrà ad oggetto cinque interventi, di rilevante importo economico, anche relativi a procedure negoziate e a procedure relative a merceologie rientranti nell'ambito del Dpcm 24.12.2015, e concernenti settori a particolare rischio di corruzione.
Gli interventi oggetto del protocollo individuati di comune accordo sono quelli riguardanti la procedura per la fornitura di servizi per la gestione delle apparecchiature elettromedicali (Sigae), la procedura per la fornitura di servizi integrati per la gestione e la manutenzione da eseguirsi negli immobili, adibiti prevalentemente ad uso ufficio (fm uffici), la procedura per la fornitura di servizi di pulizia per le scuole e due procedure negoziate per la fornitura di licenze sw. Per queste procedure Anac effettuerà la verifica preventiva tutti gli atti della procedura di affidamento, ivi inclusi gli schemi contrattuali (quali schema di convenzione e accordo quadro).
In particolare, si comincerà con l'analisi della determina a contrarre (o atto equivalente), per poi passare ai bandi di gara o alle lettere di invito o inviti a presentare offerta nel caso di procedura negoziata; ai disciplinari di gara; ai capitolati, agli schemi di contratto e convenzione, ai provvedimenti di nomina dei commissari e di costituzione della commissione giudicatrice (per i quali la Consip potrà utilizzare gli elenchi speciali previsti dal decreto 50/2016), ai verbali del subprocedimento di verifica e di esclusione delle offerte anormalmente basse; e infine ai provvedimenti di aggiudicazione, provvisoria e definitiva.
Il procedimento di verifica prevede che Consip trasmetta gli atti all'Autorità preventivamente alla loro formale adozione; a quel punto l'Autorità esprimerà un parere, anche formulando eventuali osservazioni.
Se dovessero essere individuate irregolarità o non conformità alle vigenti disposizioni normative, o alle pronunce dell'Autorità, l'Anac formulerà un rilievo motivato e lo trasmetterà a Consip. In tale ipotesi, Consip avrà due opzioni: se riterrà fondato il rilievo, si adeguerà, modificando o sostituendo l'atto in conformità al rilievo e mandando all'Anac copia del documento rettificato; se, invece, non dovesse ritenere fondato il rilievo, presenterà le proprie controdeduzioni all'Autorità e assumerà gli atti di propria competenza.
In ogni caso, Consip potrà sempre segnalare all'Autorità particolari o ricorrenti criticità tali da determinare un possibile avvio di attività di vigilanza speciale o ordinaria (articolo ItaliaOggi del 13.05.2016).

APPALTIAppalti, altre deroghe al nuovo codice. Nella fase transitoria proroghe e alcune varianti riescono a «evitare» la riforma.
Contratti pubblici. Ulteriori istruzioni Anac sull’applicazione ai bandi pubblicati a ridosso del 18 aprile.

Ultimi colpi di coda del vecchio Codice. Risolta la questione più rilevante, relativa al momento esatto di entrata in vigore del Dlgs 50 del 2016, l’Anac ritorna sul tema della fase transitoria, con il comunicato del Presidente del 11.05.2016, licenziato ieri dal Consiglio dell’Autorità.
Vengono, così, regolati i casi speciali nei quali possono ancora sopravvivere le regole del Dlgs 163 del 2006. Accadrà per i rinnovi dei contratti, per le proroghe tecniche, per alcune varianti. Ma anche per le procedure negoziate andate deserte a causa di offerte irregolari o per gli accordi quadro avviati in pendenza del vecchio sistema.
In questo modo, l’Authority risponde alle «numerose richieste di chiarimenti in relazione alla normativa da applicare», giunte in questi giorni da diverse pubbliche amministrazioni italiane. E non sarà l’ultima volta, come spiega il consigliere Anac, Michele Corradino: «Penso ci saranno altri comunicati simili in futuro. Laddove si presentino richieste degli operatori, cercheremo di trarne indicazioni utili a tutto il mercato».
Il comunicato conferma che le disposizioni del vecchio Codice si applicano a tutti gli avvisi pubblicati entro il 19 aprile, con una delle forme obbligatorie, come la Gazzetta ufficiale italiana o quella europea. Si tratta di un passaggio rilevantissimo, perché da più parti era arrivata all’Authority la richiesta di far valere la data di invio dei bandi alla Gazzetta europea per la pubblicazione. Un’interpretazione che, tra le altre cose, avrebbe fatto salvi diversi bandi pubblicati dalle centrali di committenza regionali oltre i termini. Nulla da fare: gli aggregatori dovranno rifare tutto da capo.
Ci sono, invece, una serie di casi particolari nei quali l’Anac ha aperto a interpretazioni più morbide. In queste situazioni, secondo il comunicato, potranno essere utilizzate ancora le vecchie regole. Si tratta, ad esempio, degli affidamenti aggiudicati prima della data di entrata in vigore del nuovo Codice, per i quali venga disposto il rinnovo del contratto. E, ancora, della ripetizione di servizi analoghi, delle proroghe tecniche, delle varianti per le quali non sia necessario indire una nuova gara. A nulla rileva, in tutte queste ipotesi, il fatto che si debba acquisire un nuovo codice identificativo di gara per avviare la procedura.
Stesso discorso per le procedure negoziate indette in base al vecchio Codice, ma andate deserte a causa di offerte irregolari o inammissibili: le nuove convocazioni restano nel perimetro delle vecchie regole. Il Dlgs 163 del 2006 potrà essere applicato anche per i contratti sotto la soglia comunitaria, per i quali la stazione appaltante abbia pubblicato un avviso esplorativo, finalizzato a reperire operatori interessati, in vigenza del vecchio Codice. Ancora, il vecchio sistema dovrà essere usato anche per gli affidamenti diretti e le procedure negoziate in attuazione di accordi quadro aggiudicati prima dell’entrata in vigore del Dlgs 50 del 2016 e per le adesioni a convenzioni stipulate prima del 20 aprile.
Due precisazioni importanti riguardano, invece, aspetti più tecnici. La prima è relativa alle regole da applicare ai Comuni: tutti quelli che bandiscono lavori sotto i 150mila euro e servizi e forniture sotto i 40mila euro potranno farlo in autonomia, senza passare da una centrale di committenza. Con il vecchio sistema esisteva una soglia unica a 40mila euro.
Indicazioni arrivano anche sulle comunicazioni obbligatorie all’Osservatorio dei contratti pubblici. Tutti gli atti avviati in vigenza del vecchio sistema continuano a seguire le vecchie regole
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.05.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTILinee guida Anac, ultime limature. In arrivo i prontuari sui rating di impresa e le cause di esclusione.
Appalti. Lunedì si conclude la consultazione - Osservazioni su procedure negoziate e progettazione.
Regole più dettagliate sugli inviti e i sorteggi, per evitare abusi nelle procedure negoziate. Una disciplina specifica per alcune materie, come la contabilizzazione dei lavori. Qualche limatura sul tema dei requisiti nella progettazione. E interventi di aggiustamenti sulle commissioni giudicatrici e i concorsi.
Sono solo alcuni dei passaggi delle linee guida di attuazione del Codice appalti sui quali associazioni di imprese, stazioni appaltanti e professionisti si preparano a inviare all’Anac le loro richieste. Avranno tempo fino al 16 maggio per farlo ma, a pochi giorni dalla scadenza del termine, ormai i temi sul piatto sono chiari.
Una volta completato il quadro delle osservazioni, i tempi di lavorazione dell’Anac saranno stretti: «Contiamo -spiega il consigliere dell’Autorità, Michele Corradino- di pubblicare tutto entro fine mese». Intanto, sono già in rampa di lancio altre tre linee guida. Affronteranno passaggi molto importanti: rating di impresa, partenariato pubblico privato e cause di esclusione degli operatori.
Per l’Ance, come spiega il vicepresidente con delega alle Opere pubbliche, Edoardo Bianchi «è in primo luogo positivo che queste linee guida siano uscite in tempi così stretti». Sarebbe, però, necessaria qualche integrazione sulle procedure negoziate, sotto il milione: «L’Anac dovrebbe dettagliare -dice Bianchi- i criteri per il sorteggio delle ditte e le regole per le rotazioni degli inviti». Un invito per una gara da 100mila euro e per una da mezzo milione non possono, ad esempio, essere messi sullo stesso piano. Ma l’intervento più sostanzioso servirebbe per rivedere i documenti su Rup e direttore lavori.
Prosegue Bianchi: «Alcune questioni, come le regole per contabilizzare i lavori o i verbali di consegna e sospensione lavori, andrebbero disciplinate a parte, con linee guida specifiche, per ridurre la discrezionalità e rendere chiara la situazione per tutti».
Spostando l’attenzione sulla progettazione, il giudizio generale è positivo, anche se non mancano le richieste di integrazioni. Per Andrea Mascolini, direttore generale dell’Oice, l’associazione che riunisce le società di ingegneria, esiste una questione di fondo legata all’inquadramento delle linee guida: «Tra i nostri iscritti c’è il timore che con l’abrogazione del vecchio regolamento siano dati troppi poteri discrezionali alle Pa. In questo senso, non è chiaro quanto le linee guida saranno cogenti. Sul punto bisognerebbe dare qualche spiegazione».
Qualche chiarimento servirebbe anche sulla materia dei requisiti: i fatturati non dovrebbero essere calcolati su base triennale e l’organico medio annuo andrebbe chiesto non solo alle società, ma anche ai professionisti.
Architetti e ingegneri vedono la questione in modo diverso. Per il presidente del Cni, Armando Zambrano «i documenti individuano soluzioni che avevamo discusso e che sono positive». Il capitolo sui requisiti non va modificato, se non distinguendo meglio le caratteristiche da dimostrare per gli affidamenti sopra i 100mila euro e sopra i 209mila: adesso le linee guida mettono tutto insieme.
Un’aggiunta importante potrebbe, invece, arrivare in materia di polizze: «Chiederemo -spiega il consigliere tesoriere del Cni, Michele Lapenna- che il requisito del fatturato possa essere sostituito dal possesso di una copertura assicurativa». Il vicepresidente del Consiglio nazionale degli architetti, Rino La Mendola chiede, invece, un’integrazione sui concorsi: «Presenteremo un documento specifico che solleciterà maggiori indicazioni in tema di concorsi, puntando molto sulle procedure elettroniche». Inoltre, sull’offerta economicamente più vantaggiosa, «chiederemo una griglia di riferimento più restrittiva».
Mentre le Regioni, attraverso il tavolo costituito presso Itaca, presenteranno rilievi su tutti i documenti. Con un’attenzione particolare su due passaggi. Il primo riguarda le commissioni giudicatrici: non piace la scelta di coinvolgere in modo così massiccio ordini professionali e università nella gestione degli elenchi. Il secondo è relativo agli affidamenti diretti: il dubbio è che l’Anac abbia irrigidito troppo una procedura che dovrebbe restare leggera
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.05.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIContratti, pronte le linee guida. La verifica dei requisiti affidata a ordini e università. Bozza dell'Anac su commissari di gara e gestione dell'albo, in consultazione fino al 16 maggio.
Verifica dei requisiti dei commissari di gara affidata agli ordini professionali e alle università; settori speciali esclusi dall'obbligo di scelta tramite l'albo Anac; nomina dei commissari interni da limitare ai casi al di sotto del milione di euro e da evitare se vi siano stati fenomeni degenerativi per precedenti aggiudicazioni.

Sono questi alcuni degli elementi di maggiore rilievo contenuti nella bozza di linea guida Anac (in consultazione pubblica fino al 16 maggio) sulla scelta dei commissari di gara e sulla gestione dell'albo che il nuovo codice dei contratti pubblici prevede in capo all'Autorità nazionale anticorruzione.
Il nuovo codice subordina l'entrata in vigore del nuovo sistema delineato all'articolo 78 all'adozione delle linee guida. Fino a quando non saranno emesse le stazioni appaltanti potranno continuare a scegliere i commissari interni. La nuova disciplina non si applicherà ai cosiddetti settori speciali (acqua, energia e trasporti) e alle gare gestire da Consip, Invitalia e dai soggetti aggregatori della domanda (centrali di committenza); in questi casi è prevista una sezione speciale dell'albo Anac cui questi soggetti potranno attingere per scegliere i commissari quando non abbiano le professionalità interne.
Sull'obbligo di nominare i commissari esterni va detto che se da un lato il codice prevede l'obbligo per le gare oltre la soglia europea (ad esempio 5,2 milioni per i lavori) e per quelle gestite con procedure telematiche. L'Anac però sottolinea l'opportunità che la nomina dei commissari interni sia limitata ad alcuni ridotti casi «ad esempio al di sopra del milione di euro, limite oltre il quale si applicano le procedure ordinarie (e, per i lavori, si deve aggiudicare con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa). Nelle linee guida si invita inoltre ad evitare la nomina di commissari interni quando vi siano stati fenomeni degenerativi quali tentativi di corruzione, gravi errori accertati da parte della commissione giudicatrice, e altro».
Dopo avere precisato che i commissari devono occuparsi soltanto della valutazione delle offerte tecniche ed economiche (e quindi gli altri adempimenti spettano al responsabile unico del procedimento), l'Anac conferma il principio della assoluta autonomia della commissione rispetto alla stazione appaltante.
Dal punto di vista dei requisiti l'Anac rinvia ai commi 4 e 5 dell'art. 77 (le incompatibilità vanno dichiarate in relazione a situazioni specifiche al momento della scelta dei commissari da parte dell'Autorità anticorruzione, comunicata alla stazione appaltante.
Le linee guida allargano anche le fattispecie di reato che incidono sulla onorabilità (esempio, anche truffa, estorsione, associazione a delinquere), accomunando alle sentenze di condanna anche i patteggiamenti. Per l'esperienza nella specifica materia si richiama la classificazione Cpv (vocabolario comune degli appalti pubblici) indicata nei documenti di gara.
Potranno essere iscritti all'albo i professionisti con almeno cinque anni di iscrizione all'albo con esperienza comprovata nel settore documentata dal numero di incarichi ricevuti o dalla costanza di svolgimento dell'attività; docenti universitari di ruolo con cinque anni di esperienza e pubblici dipendenti laureati iscritti a un ordine o abilitati. Questi soggetti dovranno presentare la candidatura all'ordine di appartenenza o all'università dichiarando il possesso dei requisiti e su questo saranno verificati. Gli ordini e le università comunicano poi all'Anac l'elenco e effettuate le verifiche formali l'Autorità inserisce i nominativi nell'albo.
La materiale nomina dei commissari deve avvenire dopo la scadenza della presentazione delle offerte e l'Anac avrà cinque giorni per comunicare la lista; la stazione appaltante sorteggia i commissari e subito dopo i sorteggiati dovranno accettare l'incarico o dichiarare l'incompatibilità (articolo ItaliaOggi del 06.05.2016).

APPALTISalvi i bandi di gara pubblicati fino al 19 aprile. Comunicato dell'anac sul nuovo codice dei contratti pubblici.
Salvi i bandi di gara pubblicati fino a tutto il 19.04.2016 con le norme del decreto 163/2016; il nuovo codice dei contratti pubblici applicabile dopo il 20 aprile, compreso.

Lo ha precisato l'Anac (l'Authority anticorruzione) con il comunicato 03.05.2016, correggendo quanto già detto con il precedente avviso emesso unitamente al ministero delle infrastrutture e dei trasporti il 22.04.2016.
Nel comunicato di dieci giorni fa ministero e Autorità avevano precisato che la nuova disciplina in materia di contratti pubblici contenuta nel decreto 50/2016 dovesse applicarsi alle procedure e ai contratti per i quali i bandi e gli avvisi con cui si indice la procedura di scelta del contraente fossero stati pubblicati a decorrere dal 19.04.2016, data di entrata in vigore del nuovo Codice dei contratti pubblici.
Analoga sorte era stata prevista, nei casi di contratti senza pubblicazione di bandi o avvisi, per le procedure di selezione in relazione alle quali occorreva però fare riferimento alla data di invio degli inviti a presentare offerta (anche in questo caso era stato stabilito che facesse fede la data del 19.04.2016). Il comunicato del 22 aprile chiudeva stabilendo che gli eventuali atti di gara già adottati dalle amministrazioni dovevano essere «riformulati in conformità al nuovo assetto normativo recato dal decreto legislativo n. 50 del 2016».
Adesso arriva però il nuovo comunicato, emesso questa volta soltanto dall'Autorità, a precisare meglio la portata del regime transitorio del nuovo codice dei contratti pubblici (articoli 216, comma 1, e 220). La precisazione dettata il 3 maggio risponde alle diverse segnalazioni inviate da stazioni appaltanti che hanno fatto rilevare come il nuovo codice «fosse stato pubblicato, nella versione on line della Gazzetta Ufficiale (n. 91) del 19.04.2016, dopo le 22 e, quindi, solo da quel momento reso pubblicamente conoscibile».
Alla luce delle segnalazioni pervenute, l'Autorità, dopo avere sentito l'Avvocatura generale dello Stato, ha considerato che «tale accertata evenienza imponga, in base al principio generale di cui all'art. 11 delle preleggi al codice civile e all'esigenza di tutela della buona fede delle stazioni appaltanti, una diversa soluzione equitativa con riferimento ai soli bandi o avvisi pubblicati nella giornata del 19 aprile». Pertanto l'Anac ha precisato che per i bandi pubblicati il 19 aprile «continua a operare il pregresso regime giuridico, mentre le disposizioni del dlgs 50/2016 riguarderanno i bandi e gli avvisi pubblicati a decorrere dal 20.04.2016».
Non pochi sono stati i bandi pubblicati in limine dell'entrata in vigore del nuovo codice, proprio il 19 aprile. Senza questa precisazione i bandi pubblicati già nella giornata del 19 aprile stesso, contenenti previsioni in contrasto con le norme introdotte dal dlgs 50/2016, dovevano essere revocati e ripubblicati dopo averli resi coerenti con le nuove norme del decreto 50.
Adesso, con la precisazione del comunicato, si salvano almeno quelli emessi il 19 aprile. Non quelli, e ce ne sono stati, usciti in Gazzetta dopo il 20 anche se spediti alla Gazzetta Ufficiale ben prima (articolo ItaliaOggi del 05.05.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTICodice appalti, l’Anac «salva» gare per cento milioni. Regole. Scudo per i bandi del 19 aprile.
Si sposta in avanti di 24 ore la data di applicazione delle regole del nuovo codice appalti ai bandi per l’assegnazione di nuove opere o incarichi di progettazione.
Con un nuovo comunicato l’Anticorruzione fa slittare dal 19 al 20 aprile la data-spartiacque per l’applicazione del Dlgs 50/2016 che ha mandato in pensione il codice del 2006. La soluzione (anticipata su questo giornale il 30 aprile) fa salvi i bandi pubblicati in Gazzetta il 19 aprile, stendendo una rete di sicurezza su gare che -tra lavori e progettazioni- valgono poco più di 100 milioni.
Il comunicato 03.05.2016 corregge la rotta scelta con il precedente intervento interpretativo sull’entrata in vigore del codice, contenuta nel comunicato congiunto Anac-Mit del 22 aprile, che faceva scattare la tagliola del nuovo codice il 19 aprile, cioè lo stesso giorno della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.
Una scelta che rendeva in qualche modo retroattiva l’applicazione delle nuove regole, visto che la pubblicazione nell’edizione on-line della Gazzetta Italiana è arrivata soltanto nella tarda serata (dopo le 22.00) del 19 aprile. Lo slittamento è stato avallato anche dall’Avvocatura dello Stato, cui l’Anac ha chiesto un parere. E si basa sul principio dell'irretroattività della legge, sancito, come ricorda il comunicato, dall’articolo 11 delle preleggi del codice civile.
Va detto peraltro che la «soluzione equitativa» non incide sulla data di entrata in vigore del codice -che resta fissata al 19 aprile come specificato dall’articolo 220 del Dlgs 50/2016- ma prende atto della pubblicazione “tardiva” in Gazzetta, chiarendo che le nuove «disposizioni del d.lgs. 50/2016 riguarderanno i bandi e gli avvisi pubblicati a decorrere dal 20.04.2016».
Tutto nasce dalla corsa scatenata da molte stazioni appaltanti alla pubblicazione di bandi prima che il nuovo codice modificasse istituti chiave come l’appalto integrato di progetto e lavori (radicalmente ridimensionato), la possibilità di assegnare le gare al massimo ribasso (ora consentite solo per gli interventi sotto al milione) e il subappalto (tetto al 30% esteso a tutto il contratto).
Lo slittamento getta una ciambella di salvataggio ad almeno nove gare di lavori pubblicate sulla Guce del 19 aprile per un controvalore di 92,3 milioni. Tra queste un appalto integrato da 29 milioni delle Ferrovie Sud Est per un deposito a Bari, e due gare per progettare e realizzare edifici a servizio delle università di Napoli e Roma da 12,5 e 14,7 milioni. Salve anche diverse gare di progettazione con riferimenti quantomeno da aggiornare.
Restano in fuori gioco tutte le gare con gli stessi “vizi” pubblicate dopo il 19 aprile. E si tratta di appalti rilevanti, per un controvalore di circa 465 milioni (senza contare le gare per beni e servizi dei soggetti aggregatori). Ora non resta che il ritiro in autotutela e la riformulazione delle gare. A meno di non voler rischiare un ricorso e lasciare l’ultima parola al giudice di turno
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.05.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

QUESITI & PARERI

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: La clausola di revisione prezzi.
DOMANDA:
L'art. 115 del D.Lgs. 163/2006, oggi abrogato, prevedeva l'inserimento obbligatorio nei contratti della clausola di revisione periodica dei prezzi. Di contro, l'art. 106, lettera a), del D.Lgs. n. 50/2016 sembrerebbe configurare la clausola di revisione -da inserirsi già negli atti di gara, e poi nel contratto- come una facoltà, e non un obbligo.
Nel chiedere conferma di questa interpretazione, si domanda altresì se sia opportuno inserire tale clausola nelle procedure di gara di prossima emanazione.
RISPOSTA:
L'art. 106, lettera a), del D.Lgs. 50/2016 prevede che i contratti di appalto nei settori ordinari e nei settori speciali possono essere modificati senza una nuova procedura di affidamento (…) “se le modifiche, a prescindere dal loro valore monetario, sono state previste nei documenti di gara iniziali in clausole chiare, precise e inequivocabili, che possono comprendere clausole di revisione dei prezzi”.
L’apposizione della clausola, da parte dell’amministrazione, è facoltativa, in linea con l’orientamento espresso dalla giurisprudenza amministrativa secondo cui l’istituto della revisione è preordinato, nell’attuale disciplina (si faceva riferimento all'art. 115 del D.Lgs. 163/2006, oggi abrogato), alla tutela dell’esigenza, propria dell’Amministrazione, di evitare che il corrispettivo del contratto di durata subisca aumenti incontrollati, nel corso del tempo, tali da sconvolgere il quadro finanziario sulla cui base è avvenuta la stipulazione del contratto (Cons. St., sez. V, 23.04.2014, n. 2052).
Solo in via mediata l’istituto in esame tutela l’interesse dell’impresa a non subire l’alterazione dell’equilibrio contrattuale conseguente alle modifiche dei costi che si verifichino durante l’arco del rapporto e che potrebbero indurla ad una surrettizia riduzione degli standards qualitativi delle prestazioni (Consiglio di Stato (sez. III 01/04/2016 n. 1309).
Si ricorda inoltre che la norma fa salve le disposizioni di cui all'articolo 1, comma 511, della legge 208/2015 (Legge stabilità 2016), che prevede la facoltà per l’appaltatore o il committente di chiedere una revisione nel caso di contratti di servizi e forniture ad esecuzione continuata o periodica che prevedono una clausola di revisione dei prezzi indicizzata al valore di beni indifferenziati, quando tale indicizzazione abbia determinato un aumento o una diminuzione del prezzo indicato al momento dell’offerta superiore al 10% e tale da alterare significativamente l'originario equilibrio contrattuale; in alternativa sono possibili la risoluzione del contratto o il recesso, senza che sia dovuto alcun indennizzo.
La revisione contrattuale:
– deve essere operata sulla base di una istruttoria condotta dai dirigenti responsabili dell’acquisizione di beni e servizi;
– deve essere basata sui c.d. costi standard e parti possono chiedere all’ANAC che provvede all'accertamento di fornire le indicazioni utili per il ripristino dell'equilibrio contrattuale o, in caso di mancato accordo, per la definizione di modalità attuative della risoluzione contrattuale finalizzate a evitare disservizi.
A tutt'oggi i costi standard non sono ancora stati determinati. Nelle more di tale determinazione, il comma 7 dell’articolo 9 del d.l. 66/2014 ha incaricato l’ANAC di fornire, a partire dal 01.10.2014, attraverso la banca dati nazionale dei contratti pubblici, un’elaborazione dei prezzi di riferimento alle condizioni di maggiore efficienza di beni e servizi, tra quelli di maggiore impatto in termini di costo a carico della pubblica amministrazione, nonché di pubblicare sul proprio sito web i prezzi unitari corrisposti dalle pubbliche amministrazioni per gli acquisti di tali beni e servizi.
L’apposizione di una clausola di revisione dei prezzi può essere opportuna per evitare il rischio che il corrispettivo del contratto di durata subisca aumenti incontrollati nel corso del tempo tali da sconvolgere il quadro finanziario su cui è avvenuta la stipula del contratto e il rischio per l’impresa di subire l’alterazione dell’equilibrio contrattuale conseguente alle modifiche dei costi che si verifichino nell'arco dell’esecuzione, che potrebbero indurla ad una surrettizia riduzione degli standard qualitativi delle prestazioni (
link a www.ancirisponde.ancitel.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOsservatorio Viminale/ Il vicesindaco è necessario e va nominato tempestivamente.
In un comune si può omettere di procedere alla nomina del vicesindaco, nonostante sia trascorso quasi un anno dalla data di revoca del precedente vicesindaco?

L'art. 46 del decreto legislativo n. 267/2000, al comma 2 prevede che il sindaco nomina i componenti della giunta, tra cui un vicesindaco e ne dà comunicazione al consiglio nella prima seduta successiva all'elezione, mentre il successivo art. 53 stabilisce che il sindaco sia sostituito, nei casi ivi indicati, tra cui l'assenza o l'impedimento temporaneo, dal solo vicesindaco.
Pertanto, sebbene l'ordinamento non contenga riferimenti espressi a un termine entro il quale l'organo di vertice deve procedere alla sostituzione del vicesindaco dimissionario, deve reputarsi insita nel sistema la necessità che l'adempimento sia effettuato tempestivamente, trattandosi di una figura necessaria, che assicura l'esercizio delle funzioni del sindaco nei casi in cui quest'ultimo venga meno, ricorrendo taluna delle ipotesi previste dal citato art. 53, commi 1 e 2. La necessità della nomina del vicesindaco è stata ribadita, peraltro, anche con la circolare ministeriale n. 2379 del 16/02/2012, proprio per l'esercizio delle indefettibili funzioni sostitutive del sindaco impedito o assente.
In merito, il Consiglio di stato, sez. I, con parere n. 501/2001, ha evidenziato che «l'esigenza di continuità nell'azione amministrativa dell'ente locale postula che in ogni momento vi sia un soggetto giuridicamente legittimato ad adottare tutti i provvedimenti oggettivamente necessari nell'interesse pubblico».
Pertanto, resta ferma l'assoluta necessità di ottemperare al disposto normativo che richiede l'esplicita designazione del vicesindaco da parte del sindaco (articolo ItaliaOggi del 20.05.2016).

CONSIGLIERI COMUNALI: Incompatibilità di un consigliere comunale.
Non può ricoprire la carica di consigliere comunale colui che riveste la carica di Presidente di una associazione locale che ha ottenuto dall'amministrazione comunale un contributo finanziario per lo svolgimento di una propria manifestazione qualora la sovvenzione concessa dal Comune abbia, cumulativamente:
- i caratteri della continuità (nel senso che l'erogazione non deve essere saltuaria od occasionale);
- della facoltatività, in tutto o in parte, (nel senso che l'intervento finanziario dell'ente deve rientrare nella sua discrezionalità);
- della notevole consistenza (nel senso che l'apporto della sovvenzione deve essere, per la parte facoltativa, superiore al dieci per cento del totale delle entrate annuali dell'ente sovvenzionato).

Il Comune chiede un parere in merito all'esistenza di una causa di incompatibilità per un consigliere comunale che riveste la carica di Presidente di una associazione locale che ha fatto richiesta all'amministrazione comunale sia di patrocinio sia di ottenimento di un contributo finanziario di carattere straordinario per lo svolgimento di una propria manifestazione.
In relazione alla fattispecie prospettata, ed alla luce delle indicazioni fornite dal Comune, potrebbe venire in rilievo la norma di cui all'articolo 63, comma 1, numero 1), seconda parte, del TUEL, laddove prevede che non possa ricoprire la carica di consigliere comunale l'amministratore di ente, istituto o azienda che riceva dal comune, in via continuativa, una sovvenzione in tutto o in parte facoltativa, quando la parte facoltativa superi nell'anno il dieci per cento del totale delle entrate dell'ente.
Innanzitutto si osserva come, secondo autorevole dottrina,
[1] il termine 'ente' deve essere inteso in senso lato e, pertanto, vi rientrano anche gli organismi privi di personalità giuridica. In questo senso si è pronunciata anche la Corte di Cassazione [2] che ha inteso comprendere nella nozione di ente sovvenzionato le persone giuridiche pubbliche, private e le associazioni non riconosciute che, pur non dotate di personalità giuridica, abbiano autonomia amministrativa e patrimoniale.
Per quanto riguarda la specificazione del concetto di sovvenzione, essa deve consistere in un'erogazione continuativa a titolo gratuito, avente, cumulativamente, i seguenti tre caratteri:
- continuità, nel senso che la sua erogazione non deve essere saltuaria od occasionale;
- facoltatività (in tutto o in parte): l'intervento finanziario dell'ente non deve cioè derivare da un obbligo, ovvero può essere in parte obbligatorio e in parte facoltativo;
- notevole consistenza: l'apporto della sovvenzione deve essere, per la parte facoltativa, superiore al dieci per cento del totale delle entrate annuali dell'ente sovvenzionato.
In particolare, mentre non paiono sussistere dubbi circa la ricorrenza del requisito della facoltatività
[3], né pare creare problemi interpretativi quello della 'notevole consistenza', che l'Ente dovrà valutare se sia esistente o meno, si ritiene di fornire alcune precisazioni circa l'ulteriore presupposto richiesto dalla norma per l'insorgenza dell'indicata causa di incompatibilità e consistente nella 'continuità' della contribuzione corrisposta.
Secondo la dottrina, per rivestire il carattere della continuità l'erogazione deve essere effettuata almeno per due o più anni.
[4]
Al contempo, tuttavia, la medesima dottrina precisa che non rilevano, ai fini dell'insorgenza dell'indicata causa di incompatibilità, le erogazioni aventi carattere straordinario, qualificabili propriamente non quali sovvenzioni ma, piuttosto, come contributi di natura complementare (cum tribuere). Significativa, al riguardo, risulta essere anche una sentenza della Cassazione civile
[5] la quale ha affermato che: «Difetta anzitutto, per la 'pro loco' di [...] la natura di ente sovvenzionato, in quanto detto ente ha solo ricevuto dal comune (che non aveva alcun obbligo in proposito) la somma di L. 2.000.000 nell'anno 1980 e altre L. 2.000.000.= nell'anno 1982; le quali somme, pur rappresentando nei bilanci consuntivi dell'ente per quelle annate oltre il 10% delle entrate, all'evidenza difettavano del carattere della continuità (di modo che l'ente potesse programmare la sua attività, facendo sicuro affidamento sul denaro che andrebbe a ricevere a titolo di 'sovvenzione'), e altra dignità non potevano avere che quello di mere, occasionali contribuzioni per far fronte alle spese di una contingente e specifica, determinata attività (ad es. le prime L. 2.000.000 furono date dal Comune a copertura delle spese sostenute dalla pro Loco per l'organizzazione delle 'ferie di mezza estate')».
Benché nel caso affrontato dalla sentenza in oggetto le somme risultino essere state corrisposte con l'intervallo di un anno tra l'una e l'altra, pur tuttavia, risulta interessante sottolineare la motivazione addotta dal Supremo giudice civile che non rimarca tale scansione temporale
[6] bensì il fatto che si trattava di sovvenzioni occasionali necessarie per fare fronte a 'spese di una contingente e specifica, determinata attività'. Tale ricostruzione, parrebbe, inoltre, coerente con quanto sostenuto da altra giurisprudenza che ha affermato costituire sovvenzione rilevante ai fini di cui all'articolo 63, comma 1, num. 1), TUEL, 'l'erogazione continuativa a titolo gratuito di somme di denaro rivolta a consentire all'Ente sovvenzionato di raggiungere, con l'integrazione del proprio bilancio, le finalità in vista delle quali è stato costituto' [7]: finalità, questa, che è propria delle contribuzioni ordinarie eventualmente richieste all'amministrazione comunale. [8]
Tutto ciò premesso, valuti l'Ente se sussistono tutti i presupposti richiesti dall'articolo 63, comma 1, num. 1), TUEL per l'insorgenza della causa di incompatibilità in riferimento. A tale riguardo si ricorda che è compito del consiglio comunale la valutazione della sussistenza delle cause di ineleggibilità o di incompatibilità dei consiglieri. È, infatti, principio di carattere generale del nostro ordinamento che gli organi collegiali elettivi debbano esaminare i titoli di ammissione dei propri componenti.
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[1] Cfr. P.Virga, Diritto amministrativo, Amministrazione locale, 3, ed. Giuffrè, II ed. 1994, pag. 78 e segg.; R.O. di Stilo - E. Maggiora, Ineleggibilità e incompatibilità alle cariche elettive, ed. Maggioli, 1985, pag. 73; E. Maggiora, ineleggibilità, incompatibilità, incandidabilità nell'ente locale, 2000, pagg. 136-137.
[2] Corte di Cassazione, sentenza del 22.06.1972, n. 2068.
[3] Non paiono sorgere dubbi sul fatto che la concessione del contributo rientri nel concetto di facoltatività atteso che la sua attribuzione è rimessa alla valutazione discrezionale della giunta comunale. In tal senso depone il regolamento comunale per la concessione di finanziamenti, contributi e benefici economici ad enti, associazioni e soggetti privati che, all'articolo 8 recita: 'Entro 30 giorni dalla richiesta, previa istruttoria a cura dell'ufficio competente, la giunta comunale, compatibilmente con le disponibilità di bilancio, può concedere un contributo/sovvenzione, nel rispetto del presente regolamento, a fronte di attività o singole manifestazioni da svolgersi nell'ambito del territorio comunale. [...]'.
[4] Cfr. E. Maggiora, op.cit., pag. 141 e seg.; R.O. Di Stilo, Gli organi regionali, comunali e circoscrizionali, 1982, pag. 139 e segg. Nello stesso senso V. Italia, E. Maggiora, 'Manuale del consigliere', Gruppo 24ore, 2011, pag. 28.
[5] Cassazione civile, sez. I, sentenza del 27.06.1986, n. 4260.
[6] Si sarebbe potuto affermare che la continuità in senso stretto mancava stante l'interruzione di un anno tra una elargizione e l'altra.
[7] Cassazione civile, sentenza del 16.05.1972, n. 1479.
[8] A sostegno di un tanto depone l'articolo 5 del regolamento comunale per la concessione di finanziamenti, contributi e benefici economici ad enti, associazioni e soggetti privati il quale, al comma 1, recita: 'Le domande intese ad ottenere l'assegnazione di contribuzioni o sovvenzioni ai sensi del presente Regolamento, possono essere di carattere straordinario o ordinario, a seconda che le stesse siano destinate al finanziamento di specifiche iniziative, attività o manifestazioni non ricorrenti o ad assicurare l'ordinaria attività che l'associazione, comitato o soggetto richiedente espleta nel corso di un intero anno'
(11.05.2016 -
link a www.regione.fvg.it).

APPALTI: D.Lgs. 14.03.2013, n. 33, art. 37. Obblighi di pubblicazione concernenti i contratti pubblici di lavori, servizi e forniture.
L'art. 37, comma 1, del D.Lgs. 33/2013 stabilisce che le pubbliche amministrazioni sono tenute alla pubblicazione di una serie di dati ed informazioni relativi alle procedure di affidamento ed esecuzione di opere e lavori pubblici, servizi e forniture.
Come chiarito dall'ANAC, la pubblicazione dei dati e delle informazioni nella sezione Amministrazione trasparente del profilo internet dell'ente riguarda tutte le procedure di affidamento, indipendentemente dal valore dell'appalto.
Per l'individuazione degli atti oggetto di pubblicazione e per le tempistiche è utile fare ricorso alla tabella che costituisce l'allegato 1 alla delibera ANAC n. 50/2013 ove, per ciascuna sotto-sezione di Amministrazione trasparente, vengono indicati la denominazione del singolo obbligo, i suoi contenuti, il livello di aggiornamento ed il riferimento normativo.

Il Comune chiede un parere con riferimento agli obblighi di cui all'articolo 37, comma 1, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33, 'Riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni'. In particolare, chiede di sapere:
- se gli obblighi di pubblicazione indicati dalla norma riguardano tutte le procedure di appalto relative ai lavori, servizi e forniture, indipendentemente dal valore dell'appalto;
- entro quanto tempo si devono pubblicare i dati, vista la natura informativa degli stessi, posto che la pubblicità legale è garantita dalla pubblicazione all'Albo pretorio degli avvisi;
- se per 'informazioni relative alle procedure per l'affidamento e l'esecuzione di opere e lavori pubblici, servizi e forniture' sono da intendersi i bandi e gli inviti completi di tutti gli allegati, e se per l'esito di gara si deve pubblicare il verbale o se è sufficiente una scheda riassuntiva di appalto aggiudicato.
Come noto, il D.Lgs. 33/2013 è stato adottato in attuazione della delega contenuta nella legge 06.11.2012, n. 190, recante 'Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione'.
Al fine di rendere pubblici tutti i dati concernenti l'organizzazione e l'attività delle pubbliche amministrazioni, ciascun ente si è dotato, sul proprio sito internet istituzionale, di una sezione denominata Amministrazione trasparente, in cui vengono raccolti, tra gli altri, i dati relativi all'organizzazione, al personale, agli enti controllati, ai procedimenti ed all'attività contrattuale dell'amministrazione.
Con una serie di provvedimenti successivi, sono state fornite dettagliate istruzioni in merito ai dati soggetti a pubblicazione e alle modalità di compilazione per ciascuna sotto-sezione. La CiVIT
[1], con deliberazione n. 50 del 04.07.2013, ha emanato le 'Linee guida per l'aggiornamento del Programma triennale per la trasparenza e l'integrità 2014-2016'.
Altre indicazioni utili, in particolare per l'ambito dei contratti, si possono poi rinvenire nella Deliberazione AVCP n. 26 del 22.05.2013, contenente le 'Prime indicazioni sull'assolvimento degli obblighi di trasmissione delle informazioni all'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, ai sensi dell'art. 14, comma 32, della legge n. 190/2012', nelle FAQ 'Art. 1 L. 190/2012 adempimenti nei confronti AVCP' (aggiornate a gennaio 2015) e nelle 'FAQ in materia di trasparenza sull'applicazione del D.Lgs. n. 33/2013', tutte disponibili sul sito internet dell'Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) cui ora competono, tra le altre, la vigilanza e il controllo dell'effettiva applicazione e del rispetto delle regole sulla trasparenza dell'attività amministrativa.
Per quanto qui di interesse, l'art. 37, comma 1, del D.Lgs. 33/2013, recita: 'Fermi restando gli altri obblighi di pubblicità legale e, in particolare, quelli previsti dall'articolo 1, comma 32, della legge 06.11.2012, n. 190, ciascuna amministrazione pubblica, secondo quanto previsto dal decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, e, in particolare, dagli articoli 63, 65, 66, 122, 124, 206 e 223, le informazioni relative alle procedure per l'affidamento e l'esecuzione di opere e lavori pubblici, servizi e forniture.'
L'art. 1, comma 32, della L. 190/2012 stabilisce che 'Con riferimento ai procedimenti di cui al comma 16, lettera b), del presente articolo, le stazioni appaltanti sono in ogni caso tenute a pubblicare nei propri siti web istituzionali: la struttura proponente; l'oggetto del bando; l'elenco degli operatori invitati a presentare offerte; l'aggiudicatario; l'importo di aggiudicazione; i tempi di completamento dell'opera, servizio o fornitura; l'importo delle somme liquidate. (...) Entro il 31 gennaio di ogni anno, tali informazioni, relativamente all'anno precedente, sono pubblicate in tabelle riassuntive rese liberamente scaricabili in un formato digitale standard aperto che consenta di analizzare e rielaborare, anche a fini statistici, i dati informatici (...).'
Ne deriva che gli obblighi di pubblicità relativi all'attività contrattuale delle pubbliche amministrazioni sottostanno sia all'art. 37, comma 1, del D.Lgs. 33/2013, sia all'art. 1, comma 32, della legge 190/2010, oltre alle altre norme di settore (ad esempio il Codice degli appalti).
Con specifico riguardo alle domande poste dall'Ente instante, che si riferiscono alle informazioni oggetto di pubblicazione nella sezione Amministrazione trasparente del proprio sito internet, alla luce dei chiarimenti forniti nei sopracitati documenti dall'ANAC, la quale ha l'esclusiva competenza a dare indicazioni in materia, si esprimono in via meramente collaborativa le seguenti considerazioni.
Con riferimento al primo quesito del Comune, si osserva che secondo l'Autorità sono soggetti a pubblicazione anche i dati relativi ad affidamenti diretti o espletati in modo informale, inclusi quelli con importi di spesa minimi, 'non risultando allo stato la presenza di soglie normative per la pubblicazione'
[2]. In considerazione dell'esplicito riferimento alla mancanza di soglie ai fini della pubblicazione, ne dovrebbe conseguire che questa riguardi tutte le procedure di affidamento di lavori, servizi e forniture, indipendentemente dal valore dell'appalto.
Per quanto attiene, invece, alle altre questioni poste dall'Ente, pare utile rinviare alla tabella che costituisce l'allegato 1 alla delibera ANAC n. 50/2013. Il prospetto infatti indica, per ciascuna sotto-sezione di Amministrazione trasparente, la denominazione del singolo obbligo, i suoi contenuti, il livello di aggiornamento ed il riferimento normativo.
Nel dettaglio, per la sotto-sezione 'Bandi di gara e contratti' si distingue fra gli adempimenti ex D.Lgs. 33/2013, art. 37, commi 1 e 2, che sono quelli specificati dal Codice degli appalti, e quelli di cui all'art. 1, comma 32, della Legge 190/2012. In ottemperanza agli obblighi di cui all'art. 37, commi 1 e 2, è necessario pubblicare l'avviso di preinformazione, la delibera a contrarre
[3], tutti gli avvisi, i bandi e gli inviti, gli avvisi sui risultati della procedura di affidamento e gli avvisi relativi al sistema di qualificazione per i bandi nei settori speciali. Per la diffusione di queste informazioni occorre fare riferimento alle modalità e alle specifiche indicate nel D.Lgs. 163/2006 [4]. Come specificato dall'ANAC la pubblicazione di questi dati deve essere tempestiva.
Per quanto attiene agli obblighi di pubblicazione previsti dall'art. 1, comma 32, della L. 190/2012, si rinvia all'articolo 3 della citata deliberazione 26/2013 dell'AVCP. In questo caso si ricorda che la pubblicazione ha cadenza annuale e deve essere effettuata entro il 31 gennaio di ogni anno.
Con particolare riguardo all'obbligo di pubblicare anche i vari documenti allegati, non si rinvengono indicazioni precise da parte dell'ANAC, che si limita a menzionare, genericamente, 'avvisi, bandi e inviti'
[5]. Pertanto, qualsiasi chiarimento in merito non potrà che venire dall'Autorità, a cui si consiglia di rivolgersi per ulteriori delucidazioni.
Invece, con riferimento all'esito della gara, è la stessa tabella allegata alla delibera 50/2013 ad indicare che risultati della procedura di affidamento vanno resi noti attraverso un avviso, conformemente a quanto disposto dagli articoli 65 e 66 del D.Lgs. 163/2006.
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[1] La legge 190/2012 ha stabilito, all'art. 1, comma 2, che la CiVIT (Commissione per la valutazione, la trasparenza e l'integrità delle amministrazioni pubbliche) opera quale Autorità nazionale anticorruzione. Successivamente, dal 31.10.2013 (con l'entrata in vigore della legge n. 125 del 2013, di conversione del decreto legge del 31.08.2013, n. 101), la CiVIT ha assunto la denominazione di "Autorità Nazionale Anticorruzione e per la valutazione e la trasparenza delle amministrazioni pubbliche" (ANAC).
[2] FAQ n. 17.1 in materia di trasparenza sull'applicazione del D.Lgs. 33/2013
[3] Quando l'amministrazione affidi lavori, servizi o forniture in assenza di gara pubblica: in questi casi, infatti, la delibera a contrarre sostituisce il bando di gara.
[4] In particolare gli articoli 63, 65, 66, 122, 124, 206, 223, per le rispettive tipologie di bandi. Si ricorda, tuttavia, che dal 19 aprile scorso è entrato in vigore il decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, 'Attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture.' I richiamati articoli del D.Lgs. 163/2006 trovano corrispondenza negli articoli 70 e seguenti del nuovo Codice, alle cui disposizioni bisognerà attenersi per le procedure future. Si segnala, inoltre, l'art. 29, relativo alle modalità di applicazione dei principi di trasparenza.
[5] In realtà, nell'allegato 1.1, che costituisce la nota esplicativa dell'allegato 1 già citato, si afferma che 'laddove ritenuta opportuna, è proposta la pubblicazione dei dati in tabelle (...)' utilizzando 'formati di tipo aperto (...) e nel caso in cui nelle tabelle occorra inserire atti o documenti, è possibile riportare direttamente i documenti o, in alternativa, i link agli stessi'
(09.05.2016 -
link a www.regione.fvg.it).

NEWS

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il permesso della 104 sospende le ferie. Assistenza. L’indicazione del ministero.
La necessità di assistenza al disabile congiunto, da parte del lavoratore, sospende la fruizione delle ferie programmate.
Il ministero del Lavoro risponde con l'interpello 20.05.2016 n. 20/2016 a un quesito posto da una organizzazione sindacale teso a conoscere l'esatta interpretazione dell’articolo 33, comma 3, della legge 104/1992, nella parte in cui prevede il diritto, da parte del lavoratore, di fruire tre giorni di permesso mensile retribuito per assistere il familiare in disabilità con handicap grave.
In particolare viene chiesto se il datore di lavoro possa negare l'utilizzo dei permessi nel periodo di ferie programmate anche nel caso di chiusura dello stabilimento, nel rispetto delle disposizioni contrattuali in materia.
La risposta del ministero parte dalle diverse finalità dei due istituti. I permessi ai lavoratori che assistono propri familiari portatori di handicap nonché gli stessi lavoratori con disabilità hanno il fine di tutelare i diritti fondamentali della persona diversamente abile, bisognosa di una adeguata assistenza morale e materiale.
Diversamente, l'istituto delle ferie, garantito direttamente dall'articolo 36 della Costituzione, ha la finalità di garantire al lavoratore di recuperare le energie psico-fisiche impiegate nello svolgimento dell'attività lavorativa corrispondendo altresì, come riconosciuto dalla giurisprudenza,ad esigenze di carattere ricreativo, personali e familiari. Proprio come norma di tutela si tratta di un diritto irrinunciabile.
Stabilita la norma di principio, la legge (Dlgs 66/2003) e la stessa contrattazione collettiva, fissata la durata delle ferie, danno la possibilità al datore di lavoro che, per garantire le esigenze produttive, possa prevedere una programmazione della fruizione delle ferie dei propri dipendenti, nonché la chiusura dello stabilimento durante un periodo predeterminato (ferie collettive), mediante la sospensione totale o parziale dell'attività produttiva.
Attese le diverse finalità dei due istituti e, tuttavia, dovendo applicare il principio della prevalenza delle improcrastinabili esigenze di assistenza e di tutela del diritto del disabile, rispetto alle esigenze aziendali, ne consegue la necessità di collocare le ferie non godute dal lavoratore in un diverso periodo, previo accordo tra lavoratore e datore di lavoro
(articolo Il Sole 24 Ore del 21.05.2016).

APPALTI SERVIZI: Gas, canone anche nel periodo transitorio. Servizi. Gli obblighi del concessionario.
Il concessionario del servizio del gas deve corrispondere all’ente locale il canone di distribuzione anche nel periodo fra la scadenza del vecchio affidamento e l’avvio del nuovo, periodo transitorio durante il quale è proprio il gestore «uscente» a proseguire il servizio.
Il chiarimento arriva dall’Autorità per l’energia elettrica, il gas e il sistema idrico (comunicato 19.05.2016 - Chiarimenti in relazione alla sussistenza dell’obbligo di pagamento del canone per il servizio di distribuzione del gas naturale da parte del concessionario del servizio nel periodo di prosecuzione del servizio - ai sensi dell’articolo 14, comma 7, del decreto legislativo 23.05.2000, n. 164), condiviso con il ministero dello Sviluppo economico, a conferma di quanto segnalato da Anci.
L’Authority parte dall’articolo 14, comma 7, del decreto legislativo 164/2000 secondo cui «il gestore uscente resta comunque obbligato a proseguire la gestione del servizio, limitatamente all’ordinaria amministrazione, fino alla data di decorrenza del nuovo affidamento».
La norma si limita, dunque, a stabilire l’obbligo di prosecuzione del servizio in capo al distributore uscente. L’assenza di previsioni specifiche sul canone basta all’Autorità per affermare che la gestione del servizio continua come prima e quindi secondo le previsioni della concessione scaduta, «rispettando l’equilibrio giuridico-economico ivi stabilito».
L’Authority richiama anche l’articolo 46-bis del Dl 159/2007 che disciplina le gare per il nuovo affidamento. Se la norma consente un aumento del canone in questa fase, si può ritenere che il pagamento possa essere previsto anche nel tempo necessario all’espletamento della gara d’ambito, senza escludere il periodo di prosecuzione
    (articolo Il Sole 24 Ore del 21.05.2016).

PUBBLICO IMPIEGODirigenti, patrimoni a nudo. Di difficile comprensione la novità del decreto foia.
Obbligo di pubblicare la situazione patrimoniale nella sezione trasparenza dei siti delle amministrazioni di appartenenza esteso anche ai dirigenti pubblici.

A stabilirlo (l'obbligo è già vigente per i pubblici amministratori) il nuovo decreto sulla trasparenza, il cosiddetto Freedom of information act (Foia) all'italiana, approvato dal consiglio dei ministri in via definitiva. Va ricordato che già oggi i dirigenti pubblici depositano presso le rispettive amministrazioni, aggiornandole annualmente, se cambiate, le loro situazioni patrimoniali che però non sono pubblicate.
Diverso è per gli amministratori eletti perché diverso è il loro status in quanto quello della classe politica è un «patto» con i cittadini elettori compatibile con l'esigenza di questi ultimi anche di conoscere la situazione patrimoniale dei candidati alle cariche pubbliche, sia eligendi che eletti. Completamente diverso è il caso dei dirigenti pubblici i cui compensi, erogati dalla amministrazione di appartenenza (ma vale anche per i compensi derivanti da rapporti professionali autorizzati e occasionali con altri soggetti) sono già pubblici e presenti nella sezione trasparenza dei siti delle relative amministrazioni.
I dirigenti pubblici non hanno «patti» con gli elettori ma contratti individuali di diritto privato stipulati con le relative amministrazioni dopo il superamento di concorsi pubblici (art. 97, c. 3, Cost.) ed entro la cornice dei rispettivi Ccnl (art. 2, c. 2, dlgs 165/2001). Non risulta che normalmente nei Ccnl o nei contratti individuali sia stato previsto che l'amministrazione datore di lavoro possa imporre, invadendo la sfera della vita privata del lavoratore, che questi pubblichi la propria situazione patrimoniale sul sito internet del datore di lavoro medesimo.
È il caso di ricordare che l'art. 8 dello Statuto dei lavoratori vieta al datore di lavoro, sia ai fini dell'assunzione che nel corso dello svolgimento del rapporto, di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi, su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell'attitudine professionale del lavoratore. A maggior ragione se si pretende di acquisire e divulgare tali fatti o condizioni tramite il sito internet dell'amministrazione datore di lavoro.
È infatti pacifico che nulla ha a che fare con la natura della prestazione professionale del dirigente pubblico la sua situazione patrimoniale personale. Non si comprende quale attinenza possa esservi infatti fra l'esercizio della funzione dirigenziale e le eventuali proprietà immobiliari o mobiliari del medesimo. Ma soprattutto, mentre si comprende benissimo che i titolari di cariche elettive possano e debbano essere sottoposti ad un «controllo sociale» anche molto penetrante nascente dal «patto» con gli elettori stipulato preventivamente, non si comprende invece a quale controllo sociale debba esser sottoposto il dirigente pubblico che il «patto», attraverso il contratto di lavoro, lo ha stipulato con la persona giuridica dell'amministrazione da cui è dipendente.
Quale il fine di questa disciplina, visto che il dirigente pubblico non è né deve essere sottoposto a giudizio elettorale ma solo professionale da parte degli organi di valutazione a tal fine deputati e già ben presenti nell'ordinamento? Probabilmente, vellicare curiosità e voyeurismi. E forse qualche consenso per la classe politica che l'ha partorita (articolo ItaliaOggi del 21.05.2016).

EDILIZIA PRIVATAScia unificata, ma in due tempi. Prima la riforma normativa, poi nuovi moduli e scadenze. Dopo la bocciatura del dlgs da parte del Consiglio di stato arriverà un nuovo decreto.
La Scia unificata si farà, ma in due tempi. Tenendo conto della mole di lavoro in corso con le regioni e le autonomie locali, la riforma della Scia unificata si attuerà in due step. Il primo step servirà a coordinare le regole della nuova Scia con la normativa vigente, il secondo step servirà a introdurre un termine per l'assolvimento degli obblighi di pubblicazione dei moduli sui siti istituzionali. Operativamente, i due step saranno definiti da un nuovo decreto legislativo, a cui seguiranno provvedimenti attuativi.

Lo ha deciso la commissione per la semplificazione della Camera con il parere adottato il 17.05.2016.
Il governo è già al lavoro sul decreto [Atto del Governo n. 291 - Schema di decreto legislativo recante attuazione della delega in materia di segnalazione certificata di inizio attività (SCIA)] per individuare in modo preciso i procedimenti soggetti a segnalazione certificata di inizio attività, i casi di silenzio assenso o in cui è invece necessaria una autorizzazione espressa e i casi in cui è richiesta una comunicazione preventiva.
Per la definizione di questi temi la commissione ha invitato il Governo ad un attento coordinamento con la legge n. 241/1990 e all'indicazione dei termini entro cui le amministrazioni devono pubblicare sui propri siti i modelli unificati. Questo per evitare che, una volta definite le regole omogenee sul territorio nazionale, l'inerzia di alcune amministrazioni possa compromettere il processo di semplificazione e ritardare l'avvio delle attività edilizie.
Ricordiamo che il consiglio di stato con parere del 15.03.2016 aveva espresso parere negativo sullo schema di dlgs relativo alla Scia approvato lo scorso 20.01.2015 dal Consiglio dei ministri (si veda ItaliaOggi del 02.04.2016). Da qui la necessità del governo di elaborare un nuovo articolato per la Scia unificata.
Principio cardine del nuovo decreto Scia. La Scia non è un mero modulo di semplificazione procedimentale che consente al privato di conseguire un titolo abilitativo di matrice provvedimentale, ma rappresenta, uno strumento di liberalizzazione imperniato sulla diretta abilitazione legale all'immediato esercizio di attività affrancate dal regime autorizzatorio.
La principale caratteristica dell'istituto risiede, infatti, nella sostituzione dei tradizionali modelli provvedimentali autorizzatori «a regime vincolato» con un nuovo schema, ispirato alla liberalizzazione delle attività economiche private, consentite «direttamente dalla legge» in presenza dei presupposti normativamente stabiliti.
L'attività dichiarata può, quindi, essere intrapresa senza il bisogno di un consenso «a monte» dell'amministrazione, poiché esso è surrogato dall'assunzione di auto-responsabilità del privato, insita nella segnalazione certificata, costituente, a sua volta, atto soggettivamente e oggettivamente privato.
La liberalizzazione dei settori economici interessati dalla segnalazione certificata, con il relativo principio di auto-responsabilità, si accompagna alla persistenza del potere amministrativo di verifica dei presupposti richiesti dalla legge per lo svolgimento dell'attività segnalata, potere destinato ad esaurirsi con la mancata adozione di atti inibitori, repressivi o conformativi entro un certo termine.
Le attività interessate dalla segnalazione non sono, infatti, caratterizzate da una libertà incondizionata di iniziativa economica, ma sono pur sempre subordinate dalla legge al possesso di «requisiti e presupposti», la cui sussistenza garantisce, di per sé, la tutela dell'interesse pubblico e l'armonizzazione della situazione soggettiva del denunciante con gli interessi potenzialmente configgenti (articolo ItaliaOggi del 21.05.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATAModuli standard al Suap La ditta paga tutto online. L'intesa Anci-Unioncamere per favorire il rapporto con le Cdc.
Rafforzata l'alleanza tra comuni italiani e camere di commercio per un maggiore utilizzo dello sportello unico per le attività produttive da parte delle Pmi. Le imprese o i loro intermediari possono compilare e inviare le pratiche al Suap di riferimento utilizzando la modulistica standardizzata adottata da tutti i comuni. L'azienda può assolvere on-line al pagamento di tutti gli oneri connessi alla pratica collegandosi al nodo PagoPa.

È questa la finalità del protocollo d'intesa siglato il 27.04.2016 aprile dall'Anci e dal presidente di Infocamere e dal presidente di Unioncamere con la finalità di divulgare tra comuni e cciaa l'utilizzo omogeneo dello sportello unico attività produttive (si veda ItaliaOggi del 28/04/2016).
La piattaforma «impresainungiorno» deve essere utilizzata dal maggior numero di comuni italiani, affinché gli adempimenti svolti dagli imprenditori per l'avvio e l'esercizio della propria attività siano non solo interamente digitali ma anche omogenei e standardizzati. La piattaforma digitale www.impresainungiorno.gov.it costituisce il punto unico di contatto a livello nazionale per consentire all'utenza di accedere ai servizi degli sportelli unici per le attività produttive.
Il Suap telematico, che tra l'altro offre anche informazioni e assistenza diretta all'utenza, ha ottenuto in 5 anni di operatività ottimi risultati e rappresenta un esempio di buona pratica amministrativa: 250 mila visitatori al mese, 600 mila i procedimenti digitali completati dai 3.390 Comuni (il 40% del totale) che, sulla base di un rapporto di delega o di convenzione con le Camere di commercio, hanno adottato la piattaforma digitale.
Il protocollo prevede quindi un impegno di Anci, di Infocamere e di Unioncamere per promuovere l'utilizzo dei servizi di «impresainungiorno» da parte di quei comuni che finora hanno adottato differenti soluzioni digitali affinché considerino l'opzione di adesione al portale nazionale per uniformare il servizio offerto agli imprenditori del territorio.
Il portale impresa in un giorno ha un'utenza oramai fidelizzata, ha raggiunto una media mensile di un milione di visualizzazioni di pagina circa, per oltre 200 mila visitatori unici. Il 57% di questi è composto da visitatori abituali.
Infocamere provvede alla gestione e manutenzione del portale per conto di Unioncamere. Nei territori in cui i comuni cooperano con le camere di commercio sono stati raggiunti risultati importanti in ottica di standardizzazione dell'operatività per le imprese da un lato e di contenimento dei costi per i Suap dall'altro (articolo ItaliaOggi del 21.05.2016).

APPALTICodice alla prova dell’attuazione. Le imprese critiche su subappalto, procedure negoziate, opere di urbanizzazione.
Appalti. Al convegno di Confindustria sotto esame il nuovo codice e la fase transitoria - Prime risposte interpretative da Cantone.
Procedura negoziata, subappalto, offerta economicamente più vantaggiosa. Senza dimenticare le opere di urbanizzazione a scomputo. E, soprattutto, la grande incognita della fase di attuazione, entrata nel vivo con le prime linee guida dell’Anac ormai a un passo dalla pubblicazione.
A un mese esatto dall’entrata in vigore del Codice degli appalti (Dlgs n. 50 del 2016), ieri i diversi segmenti del mondo produttivo coinvolto nella filiera dei contratti pubblici hanno ragionato, nel corso di un convegno organizzato da Confindustria, sull’impatto che le nuove norme hanno iniziato a produrre sul mercato. Evidenziando queste cinque grandi aree problematiche sulle quali intervenire, sia con le linee guida dell’Anticorruzione che con il decreto correttivo che sarà pubblicato entro un anno.
La prima questione è legata alla fase di attuazione. Della sua importanza ha parlato Marcella Panucci, direttore generale di Confindustria: «Molto dipenderà da come gli uomini e le donne impegnati sul mercato faranno funzionare le nuove regole. Siamo convinti che la “messa a terra” delle norme potrà determinare il loro successo». Sul punto, il presidente dell’Anac, Raffaele Cantone, ha sottolineato quanto sia importante, in questi mesi, lavorare con spirito positivo: «Sono molto preoccupato di come sta avvenendo nei fatti l’attuazione. Io credo che il Dlgs n. 50/2016 sia come un ospite: se lo accogliamo con la “faccia storta”, il fallimento è sicuro».
Perché nel merito ci sono diversi punti nei quali le imprese hanno seri dubbi sulle soluzioni individuate dal testo. Ne ha parlato, anzitutto, il presidente del Comitato tecnico Infrastrutture, logistica e mobilità di Confindustria, Vittorio Di Paola, sollevando la questione della trattativa privata: «Le procedure negoziate saranno ammesse fino al milione. Vuol dire che l’80% dei lavori non avrà una vera gara. Noi avremmo preferito una soglia inferiore, magari a 500mila euro».
Ma il punto sul quale sono arrivati gli affondi più duri è il subappalto. Ancora Di Paola: «Per usare un eufemismo, possiamo dire che la nuova disciplina è molto restrittiva. Mi riferisco al tetto massimo, che sarà pari al 30% dell’importo totale dei lavori, mentre prima si parlava della sola categoria prevalente, ma anche all’obbligo di indicare una terna di subappaltatori».
Su questo passaggio l’affondo più duro è, però, arrivato dal presidente dell’Ance, Claudio De Albertis: «Mi chiedo in quale Paese al mondo il legislatore dice alle imprese come governare i fattori della produzione. È inaccettabile». E non è il solo elemento critico per il presidente dei costruttori: «Tra le criticità inseriamo anche le regole sulle opere di urbanizzazione a scomputo e l’offerta economicamente più vantaggiosa, che noi vorremmo fosse seriamente governabile».
Il timore è che con la soglia attuale, per la quale si usa questa procedura sempre sopra il milione, il sistema non regga. Bisognerebbe elevare il limite. Ancora, Maria Antonietta Portaluri, direttore generale di Anie, spiega che nel quadro del Codice «è mancato e non è più rinviabile un confronto per rivedere le declaratorie della attuali categorie di lavorazioni».
Su queste osservazioni sono arrivate le risposte di Cantone. Sulle procedure negoziate «abbiamo provato a introdurre delle limitazioni con le linee guida, regolando gli albi fornitori e le indagini di mercato». Sul subappalto le cose sono più difficili, «perché ci sono indicazioni normative precise». Mentre sulle offerte economicamente più vantaggiose, «con le linee guida confermiamo le nostre scelte e puntiamo a utilizzare le commissioni esterne sempre sopra il milione di euro»
(articolo Il Sole 24 Ore del 20.05.2016).

ATTI AMMINISTRATIVITrasparenza al via ma l’accesso civico parte dopo sei mesi. Riforma Madia. Il testo definitivo del decreto «Foia».
I nuovi obblighi di trasparenza introdotti dal primo decreto attuativo della riforma Madia arrivato al traguardo dell’approvazione definitiva si applicano anche alle società controllate dalla pubblica amministrazione e alle partecipate, in questo caso solo per le attività di pubblico interesse. La riforma interessa poi, oltre agli enti pubblici economici e agli ordini professionali, le associazioni, fondazioni e più in generale gli enti di diritto privato che abbiano un bilancio superiore a 500mila euro, un’attività finanziata per la maggior parte da fondi pubblici e tutti i componenti degli organi di amministrazione o di indirizzo designati dalle pubbliche amministrazioni.
A indicare la platea, ampia, investita dai nuovi obblighi di trasparenza è il testo definitivo del Freedom of Information Act («Foia»), che ha terminato a Palazzo Chigi il lavoro di coordinamento formale e ora attende la «bollinatura» della Ragioneria generale prima della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.
Le novità più significative del testo finale riguardano la definizione della platea di soggetti interessati direttamente dal «Foia». Per quanto riguarda le società partecipate, che entrano nel raggio di applicazione delle nuove regole di trasparenza solo in relazione «ai dati e ai documenti inerenti all’attività di pubblico interesse», il decreto ospita la definizione più ampia, che rimanda al nuovo testo unico delle partecipate in corso di approvazione sempre nell’ambito della delega sulla Pa, e non prevede l’esclusione esplicita delle aziende per le quali sia già stata deliberata l’alienazione della quota pubblica. La delibera, insomma, non basterà da sola a uscire dal Foia, che di conseguenza escluderà solo le società diventate private a tutti gli effetti.
Su associazioni, fondazioni ed enti di diritto privato in genere, invece, la scelta di stringere il campo si spiega con l’obiettivo di non caricare di obblighi soggetti troppo piccoli. Per questa ragione le nuove regole scatteranno solo quando il bilancio supera i 500mila euro, e quando si verificheranno entrambe le condizioni considerate alternative dalle prime ipotesi: il finanziamento pubblico «maggioritario» (per due esercizi consecutivi negli ultimi tre) e la designazione totalitaria da parte della pa dei titolari o dei componenti degli organi di amministrazione o di indirizzo.
Per il resto, rimangono confermate tutte le scelte di fondo annunciate dal consiglio dei ministri, a partire dallo stop al silenzio-rifiuto e dalla «gratuità» delle risposte fornite dagli uffici pubblici con la sola eccezione del «effettivamente sostenuto e documentato dall’amministrazione per la riproduzione su supporti materiali».
Con l’arrivo del «Foia» in Gazzetta Ufficiale partirà la fase transitoria, non breve, riconosciuta alle Pubbliche amministrazioni per riorganizzarsi. In pratica, la trasparenza anglosassone approderà da noi in tre fasi. Da subito, i cittadini potranno “costringere” gli uffici pubblici a pubblicare i dati (per esempio le indennità dei politici) già imposti dai decreti Severino quando sono trascurati dagli enti pubblici.
L’«accesso civico», cioè la possibilità di chiedere dati e informazioni ulteriori, debutterà invece sei mesi dopo. Bisognerà invece aspettare un anno per la pubblicazione integrale delle banche dati tenute dalle varie amministrazioni: si tratta, per esempio, dei database sugli incarichi pubblici tenuti dalla Presidenza del Consiglio, di quello sui dipendenti gestito dalla Ragioneria generale, e della nuova banca dati sui bilanci delle amministrazioni pubbliche che sta decollando con la riforma della contabilità di regioni ed enti locali
(articolo Il Sole 24 Ore del 20.05.2016).

ATTI AMMINISTRATIVIFoia, accesso civico a ostacoli. Fino a 8 passaggi per conoscere gli atti della p.a.. Nonostante l'eliminazione del silenzio-rifiuto, il dlgs disegna una procedura molto complessa.
Accesso civico non più depotenziato dal silenzio rigetto, ma l'iter necessario affinché un cittadino acquisisca i dati e le informazioni è piuttosto complesso e articolato. E saranno alte le probabilità che l'accoglimento della domanda di accesso civico sia adottato ben oltre i 30 giorni, previsti solo in linea tendenziale.

La riscrittura dell'articolo 5 del dlgs 33/2013, nel testo novellato dal decreto legislativo attuativo della riforma Madia approvato in consiglio dei ministri lo scorso 16 maggio, innesca una procedura molto complessa, a ben vedere poco compatibile con i principi di linearità e trasparenza che pur dovrebbero conformare la normativa.
Senza considerare i ricorsi, il procedimento, se si verificano tutte le eventualità (peraltro piuttosto probabili) previste, richiederà fino a otto passaggi.
Vediamoli.
1. Istanza. Ovviamente, si tratta di un procedimento a iniziativa del cittadino, che dovrà presentare la domanda di accesso civico, dalla ricezione della quale inizierà a decorrere il termine teorico di 30 giorni per decidere.
2. Istruttoria e valutazione dell'esistenza di controinteressati. A seguito dell'istanza, i soggetti competenti dovranno valutare il merito della richiesta e soffermarsi in particolare sulla valutazione se vi siano o meno controinteressati. Si tratta esclusivamente di coloro che (ai sensi del nuovo articolo 5-bis, comma 2, del dlgs 33/2013) potrebbero subire pregiudizio concreto alla protezione dei dati personali, in conformità con la disciplina legislativa in materia, oppure alla libertà e alla segretezza della corrispondenza o, infine, agli interessi economici e commerciali di una persona fisica o giuridica, ivi compresi la proprietà intellettuale, il diritto d'autore e i segreti commerciali.
3. Comunicazione ai controinteressati. Se il soggetto competente rinvenga controinteressati, deve comunicare loro l'istanza di accesso mediante raccomanda a/r o per via telematica per coloro che abbiano acconsentito (non si sa con quali modi e forme) a tale sistema. La comunicazione sospende il termine di 30 giorni entro il quale accogliere o denegare l'accesso civico.
4. Decisione dei controinteressati. I controinteressati entro 10 giorni dalla ricezione della comunicazione di cui sopra possono tacere o acconsentire all'accesso. In questo caso, il procedimento riprende dal giorno in cui si era fermato senza problemi. Oppure, possono opporsi e di ciò occorrerà ovviamente tenere conto nella decisione finale, che, comunque, resta responsabilità esclusiva dell'organo competente. Il termine di 10 giorni a disposizione dei controinteressati dovrebbe considerarsi perentorio.
5. Decisione finale. Entro i 30 giorni, tenendo conto dell'eventuale sospensione di cui ai precedenti punti, il soggetto competente adotta il provvedimento di accoglimento o rigetto dell'istanza di accesso civico.
6. Comunicazione. Il provvedimento di accoglimento o rigetto deve essere comunicato al richiedente e agli eventuali controinteressati. Ai sensi dell'articolo 21-bis della legge 241/1990 il provvedimento di diniego potrebbe essere considerato atto recettizio, che diviene efficace solo con la comunicazione al richiedente.
7. Trasmissione documenti, dati o informazioni. L'amministrazione deve trasmettere i dati al richiedente (o se da pubblicare obbligatoriamente, inserirli nel sito) «tempestivamente». Non si sa cosa si intende per trasmissione tempestiva. Di certo, laddove il provvedimento accolga l'istanza di accesso nonostante l'opposizione di uno o più controinteressati i documenti, dati o informazioni non possono essere trasmessi al richiedente prima che siano trascorsi 15 giorni dalla ricezione di questi soggetti della comunicazione di cui al precedente punto.
8. Richiesta di riesame. Il richiedente l'accesso civico può presentare richiesta di riesame nel caso di diniego all'accesso o superamento del termine di 30 giorni (tenendo conto delle eventuali sospensioni) al responsabile della prevenzione della corruzione, che deve decidere entro i successivi 20 giorni, a loro volta soggetti a eventuali sospensioni: di 15 giorni, se richiede pareri all'Anac; di 10 giorni, se richieda il parere obbligatorio al garante della privacy, nell'ipotesi che il diniego riguardi questioni sul diritto alla riservatezza (non è chiaro se superati i detti termini di sospensione si formi il silenzio-assenso per Anac e garante).
Ma la richiesta di riesame può essere presentata anche dal controinteressato che si sia opposto al provvedimento di accoglimento. Tuttavia, non è specificato entro quali termini debba essere richiesto il riesame. Per chi abbia chiesto l'accesso non è dato cogliere nessun termine decadenziale: si deve ritenere, tuttavia, che la richiesta di riesame debba pervenire entro i 30 giorni utili per presentare ricorso al Tar.
Per i controinteressati che si siano opposti all'accoglimento potrebbe affermarsi che debbano chiedere il riesame entro il termine dei 15 giorni prima del decorso dei quali le amministrazioni non possono trasmettere al richiedente l'accesso i dati, i documenti o le informazioni richieste. Tuttavia, non essendo prevista una decadenza espressa, si potrebbe ritenere che anche per i controinteressati il riesame va presentato prima che scada il termine per la presentazione del ricorso al Tar (articolo ItaliaOggi del 20.05.2016).

SEGRETARI COMUNALIAumenta la confusione sui diritti di rogito.
Aumenta ancora la confusione sui diritti di rogito dei segretari comunali. Un recente parere della Ragioneria generale dello stato, infatti, conferma la tesi della Corte dei conti, ribadendo che l'emolumento spetta solo agli appartenenti alla fascia C.

Rimane quindi isolata la tesi sostenuta dalla Corte costituzionale, la quale ne ha invece affermato la spettanza a tutti coloro che operano in enti privi di dirigenza, indipendentemente dalla fascia professionale.
Dubbi che si riflettono anche sul tema collegato del riconoscimento dei diritti di rogito ai vicesegretari, su cui vi sono opinioni contrastanti fra il Mef e la stessa magistratura contabile.
Come noto (si veda ItaliaOggi del 22.04.2016), la questione nasce dall'art. 10, comma 2-bis, del dl 90/2014: esso dispone che i diritti di rogito spettano «negli enti locali privi di dipendenti con qualifica dirigenziale, e comunque a tutti i segretari comunali che non hanno la qualifica dirigenziale», in misura comunque non superiore a un quinto dello stipendio in godimento
Tale norma ha dato luogo a due interpretazioni diverse: da un lato, si è affermato che l'emolumento competerebbe esclusivamente ai segretari di enti di piccole dimensioni collocati in fascia C, dall'altro lato si è argomentato che negli enti privi di personale con qualifica dirigenziale i diritti spettano a prescindere dalla fascia professionale in cui è inquadrato il segretario.
Mentre la sezione delle autonomie, con la deliberazione n. 21/2015, ha condiviso la prima e più restrittiva lettura, la Corte costituzionale, nella recente sentenza n. 75/2016, ha sposato la seconda.
Sull'argomento è intervenuta da ultimo la Ragioneria generale dello stato, che nel parere (nota 25.03.2016 n. 26297 di prot.) rilasciato in risposta al quesito posto da un comune, ha richiamato solo la pronuncia delle autonomie, configurandola alla stregua di «diritto vivente».
Ciò sembra confermare l'irrilevanza erga omnes della presa di posizione della Consulta, in quanto contenuta in una sentenza di rigetto, che tipicamente ha effetto solo inter partes. Per di più, tale pronuncia riguarda un regione a statuto speciale (il Trentino-Alto Adige) e l'inciso in cui è contenuta la precisazione è un mero «obiter dictum», privo di qualsiasi forza vincolante, e quindi non avente valore di «precedente».
Tali incertezze, che stanno generando comportamenti difformi e anche spiacevoli contenziosi fra segretari e responsabili del servizio finanziario, si riflettono, come accennato, anche sul riconoscimento dei diritti di rogito ai vicesegretari.
Sul punto, la Corte dei conti, sezione regionale di controllo per le Marche, con la deliberazione n. 90/2016/Par, ha affermato che le somme sono ancora dovute anche nei comuni ove presta servizio un segretario di fascia A o B. Ciò in quanto la debenza dei diritti di rogito ai segretari e ai loro vice trova il proprio fondamento in fonti normative tra loro differenti (rispettivamente, art. 41, comma 4, della legge 312/1980 e art. 30, comma 2, della legge 734/1973 per i primi, art. 11 Ccnl del 09.05.2006, per i secondi).
Di avviso diverso la Rgs, la quale, nel citato parere, sostiene che l'emolumento spetta al sostituto solo se il sostituito ne ha diritto. Il che, come abbiamo già evidenziato, per i tecnici ministeriali accade solo se il secondo è in fascia C. Insomma, un vero caos che a questo punto può essere risolto solo dal legislatore (articolo ItaliaOggi del 20.05.2016).

LAVORI PUBBLICISoa, la sede legale potrà essere anche all'estero. Ok del senato alla norma che mette l'Italia in regola con la Ue.
Eliminato l'obbligo per le società organismo di attestazione (Soa) di avere la sede legale in Italia; una Soa con sede legale all'estero potrà operare in Italia.

È quanto prevede l'articolo 6 della legge di delegazione europea per il 2015 approvata in prima lettura dal Senato (Atto Senato n. 2228).
La norma del governo consentirà di sanare gli effetti della procedura di infrazione 2013/4212 avviata dalla Commissione europea nei confronti dell'Italia e giunta allo stato di messa in mora ex art. 258 Tfue.
La vicenda prende le mosse dal ricorso al Tar presentato da Rina services spa che aveva contestato la norma del dpr n. 207/2010 che impone che la sede legale della società organismo di attestazione (Soa) debba essere nel territorio italiano. Il Tar del Lazio aveva accolto il ricorso affermando che il dpr n. 207/2010 (il regolamento del codice dei contratti pubblici), nella parte in cui impone che la sede legale delle Soa debba essere nel territorio italiano, introduce una prescrizione ingiustificata, gravosa e in contrasto con i preminenti interessi della tutela della concorrenza.
I giudici romani avevano precisato anche che la disposizione regolamentare integra un'ipotesi di requisito discriminatorio ai fini dell'applicazione dei principi di stabilimento e libera prestazione dei servizi, in violazione della direttiva 2006/123/Ce.
Su richiesta di pronuncia pregiudiziale del Consiglio di stato, il giudice europeo (causa pregiudiziale C-593/13) con pronuncia del 16.06.2015 stabilì che l'obbligo di sede legale sul territorio di uno stato membro contrasta con i principi del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea relativi alla libertà di stabilimento (articolo 49 Trattato Ue) e alla libera prestazione di servizi (articolo 56 Trattato Ue).
In particolare, la Corte affermò che non è possibile applicare alle Soa l'articolo 51, primo comma, Trattato Ue il quale esclude dalle norme sulla libertà di stabilimento le attività in cui si faccia esercizio di pubblici poteri, e che l'articolo 14 della direttiva 2006/123/Ce, relativa ai servizi nel mercato interno, deve essere interpretato nel senso che «esso osta ad una normativa di uno stato membro in forza della quale è imposto alle società aventi la qualità di organismi di attestazione di avere la loro sede legale nel territorio nazionale».
La disposizione approvata dal senato risolve la questione modificando l'articolo 64, comma 1, del decreto del presidente della repubblica 05.10.2010, n. 207, al fine di prevedere per le Soa l'obbligo di avere in Italia una sede (qualsiasi), anche solo operativa, senza l'obbligo che sia quella legale.
Le Soa dovranno quindi sempre essere costituite nella forma delle società per azioni e la loro denominazione sociale deve espressamente comprendere la locuzione «organismi di attestazione»; ma la sede legale potrà essere anche all'estero.
Nonostante il dpr 207/2010 sia stato abrogato, questa norma risulta però ancora applicabile in base all'articolo 216, comma 14, del nuovo Codice (decreto 50/2016) che prevede la salvezza di questa norma finché non saranno emanate le linee guida Anac in materia di revisione della disciplina Soa (articolo ItaliaOggi del 20.05.2016).

ENTI LOCALISindaci in pressing sui revisori. Sulle cause di inconferibilità i comuni sono troppo rigidi. Le norme sulla trasparenza tagliano fuori anche i condannati in via non definitiva. Il Tuel no.
Sempre più comuni chiedono ai revisori dei conti, al momento del conferimento dell'incarico, unitamente all'accettazione della carica e all'attestazione di rispetto del limite di affidamenti, la dichiarazione di cui all'articolo 20 del dlgs 08.04.2013 n. 39, sull'insussistenza di cause d'inconferibilità e il suo aggiornamento annuale.
La dichiarazione viene, poi, pubblicata sul sito della pubblica amministrazione conferente. In particolare, i revisori dei conti sono chiamati ad attestare di non aver subito una condanna (anche non definitiva o a seguito di patteggiamento) per uno dei reati contro la pubblica amministrazione, non aver svolto incarichi o ricoperto cariche nei due anni precedenti in enti di diritto privato regolati o finanziati dal comune; non aver esercitato nei due anni precedenti attività professionale in proprio (lavoro autonomo), regolata, finanziata o retribuita dal comune.
La dichiarazione è condizione per l'acquisizione di efficacia dell'incarico e il revisore si dichiara consapevole che, in caso di conferimento in violazione del dlgs n. 39/2013, l'incarico è nullo. In effetti, la normativa richiamata attiene agli incarichi di responsabilità amministrativa di vertice, sia elettivi sia di nomina, conferiti dalle pubbliche amministrazioni e non parla di componenti dell'organo di revisione contabile né di altri organi di controllo o di collaboratori (ad esempio: componenti dell'organo indipendente o del nucleo di valutazione).
Il Tuel si limita a negare la possibilità di svolgere le funzioni di revisore a chi sia stato condannato a una pena che importa l'interdizione, anche temporanea, dai pubblici uffici o l'incapacità ad esercitare uffici direttivi. Il dlgs n. 39/2013, invece, sancisce l'inconferibilità dell'incarico a chi è stato condannato, anche con sentenza non definitiva, per uno dei reati contro la pubblica amministrazione.
Si tratta, evidentemente, di due fattispecie differenti. Il problema riguarda la legittimità di un'eventuale deliberazione consiliare di decadenza di un revisore condannato in primo grado, con sentenza non definitiva, per uno dei reati contro la pubblica amministrazione, con la sospensione della pena accessoria prevista dall'art. 28 del codice penale.
Il presupposto oggettivo per determinare l'applicabilità del dlgs n. 39/2013 è che l'incarico, di nomina o elettivo, sia conferito dalla pubblica amministrazione, al proprio interno o in organismi pubblicisti strumentali privi di autonoma personalità giuridica.
In effetti, la dichiarazione prevista dall'art. 20 del dlgs n. 39/2013 è stata richiesta anche dai ministeri dell'interno e della giustizia, per i componenti degli organismi indipendenti di valutazione.
La dichiarazione sull'insussistenza di cause di inconferibilità è vista come attuazione del principio costituzionale di adempiere agli incarichi pubblici con disciplina e onore (art. 54 Cost.) ed è per questo che molti comuni fanno rientrare anche l'incarico di revisore nelle fattispecie sottoposte alle disposizioni del dlgs n. 39/2013.
Sicuramente i revisori dei conti sono ricompresi tra i soggetti per i quali devono essere pubblicati i dati relativi all'art. 15 del dlgs n. 33 del 14.03.2013. La norma sulla trasparenza, però, riguarda gli obblighi di pubblicazione concernente sia i dirigenti sia, espressamente, i collaboratori e consulenti.
Le amministrazioni pubblicano e aggiornano le informazioni relative ai titolari d'incarichi amministrativi di vertice e d'incarichi dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti, nonché di collaborazione o consulenza, relativamente agli estremi dell'atto di conferimento, al curriculum vitae, ai dati relativi allo svolgimento d'incarichi o la titolarità di cariche in enti di diritto privato regolati o finanziati dalla pubblica amministrazione o lo svolgimento di attività professionali, i compensi, comunque denominati, relativi al rapporto di lavoro, di consulenza o di collaborazione.
Le amministrazioni pubblicano e mantengono aggiornati sui rispettivi siti istituzionali gli elenchi dei propri consulenti indicando l'oggetto, la durata e il compenso dell'incarico.
Gli incarichi di revisione contabile rientrano sicuramente nell'obbligo di trasparenza, mentre rimangono dubbi sull'applicazione del dlgs n. 39/2013.
Giova ricordare che con la sottoscrizione della dichiarazione di cui all'art. 20 del dlgs n. 39/2013, fermo restando ogni altra responsabilità anche di natura penale, la mendacità di quanto affermato, se accertata dalla stessa amministrazione conferente, comporta l'inconferibilità di qualsiasi incarico previsto dal dlgs n. 39/2013, per un periodo di cinque anni.
All'incaricato responsabile di avere prodotto una dichiarazione mendace deve essere garantito il diritto di difesa e di contraddittorio (articolo ItaliaOggi del 20.05.2016).

TRIBUTI: Riscossione fai-da-te, vantaggi per gli enti. Sempre più comuni internalizzano il processo.
Stiamo in questi anni assistendo a una inarrestabile inversione di tendenza dell'Ufficio tributi, che vuole sempre più gestire in proprio i tributi di loro competenza.
A gettare le basi per questa rivoluzione sono state le nuove modalità di pagamento con i modelli F24, riscossi unicamente dall'Agenzia delle entrate. Questo primo passaggio ha reso sostenibile per i comuni la gestione in proprio dell'intero ciclo di gestione dei tributi locali.
Oggi l'Ufficio tributi deve gestire le proprie entrate in una situazione di grande complessità, ma la nostra personale esperienza, di persone 'in trincea' a fianco degli uffici comunali, è quella di un Ufficio tributi che ha pienamente raccolto questa sfida. Oggi l'Ufficio tributi interviene, in prima persona, in molte fasi del processo: dalla stesura dei regolamenti alla definizione delle tariffe, dal tempestivo sollecito dei mancati pagamenti alla costante richiesta di migliori e sempre più raffinati strumenti di indagine destinati all'emersione delle aree di evasione.
In questo, il contributo di partner che possano supportare la crescita dell'ente con una serie di servizi e soluzioni software, in sinergia con gli Uffici tributi dell'ente, risulta spesso determinante nel raggiungimento dell'incremento del gettito, attraverso la lotta all'evasione e all'elusione.
Occorre, inoltre, sottolineare come il nuovo ruolo che gli operatori degli uffici tributi stanno ritagliandosi nella gestione diretta del servizio restituisce dati molto positivi.
Primo fra tutti, gli elevati risparmi dei costi del servizio, rispetto all'affidamento totalmente esternalizzato a soggetti esterni, e il miglioramento del rapporto con il cittadino/contribuente; due aspetti fondamentali anche alla luce della valutazione complessiva dell'azione amministrativa.
Non da meno, anche il costante monitoraggio del territorio e delle politiche fiscali ad esso legate, l'immediatezza dell'efficacia delle istanze del contribuente per il quale tutto inizia e finisce in comune (parole come suppletivo e discarico sembrano appartenere a un secolo fa), la puntuale e immediata rendicontazione senza l'applicazione dell'aggio, la maggior efficacia delle attività di recupero derivante dalla conoscenza del territorio, rappresentano elementi distintivi di un rapporto non più vessatorio, ma capace di intercettare e contemperare rigore e servizio al cittadino (articolo ItaliaOggi del 20.05.2016).

APPALTIAffidamenti diretti da motivare. Vanno giustificate la procedura e la scelta del contraente. Il nuovo Codice degli appalti impone una duplice motivazione per i contratti sotto soglia.
Doppia motivazione per gli affidamenti diretti di contratti di importo inferiore alle soglie comunitarie e alle soglie che permettono le procedure semplificate.

L'articolo 36 del dlgs 50/2016 nell'introdurre un sistema semplificato, rispetto alle procedure ordinarie di selezione del contraente (procedure aperte o ristrette), affida in particolare alla motivazione del provvedimento il compito di attuare i principi indicati dall'articolo 30 e specificamente quelli di libera concorrenza, non discriminazione, trasparenza e pubblicità.
La motivazione, dunque, serve a dimostrare che non si sta ponendo in essere un affidamento discriminatorio, rivolto «per via fiduciaria» ad un solo operatore economico, ma che la scelta ha comunque tenuto conto della presenza di altri operatori nel mercato ed è stata svolta in modo trasparente e verificabile nelle ragioni e nella procedura. L'articolo 36 del codice, però, impone due motivazioni.
Prima ancora di specificare le ragioni che portano alla selezione dello specifico contraente, il provvedimento a contrattare che avvia la procedura deve spiegare per quale ragione si utilizza il sistema semplificato e non quello ordinario. Infatti, ai sensi del comma 2 dell'articolo 36, la modalità semplificata prevista dalla successiva lettera a) del medesimo comma 2 è attivabile «salva la possibilità di ricorrere alle procedure ordinarie». Tale precisazione indica che per le amministrazioni le procedure semplificate disciplinate dall'articolo 36 non sono né obbligatorie, né automatiche.
Dunque, è il provvedimento a contrattare che deve dare conto della scelta di avvalersi effettivamente della procedura semplificata invece di quella ordinaria. Non si tratta di una questione meramente formale. Si deve tenere presente che le acquisizioni sotto i 40 mila euro di forniture e servizi e sotto i 100 mila euro di lavori pubblici non sono oggetto di programmazione.
In particolare per i contratti di forniture e servizi questo può essere un rischio amministrativo: occorre, infatti, considerare che il tetto dei 40 mila euro è valido per l'ente nel suo complesso. Per essere più chiari, immaginando che un ente di una certa dimensione debba acquisire nuovi arredi sia nell'ambito del settore contabile, sia in quello del settore amministrativo, per importi massimi, nell'uno e nell'altro settore, di 25 mila euro.
Apparentemente, i dirigenti o responsabili di servizio di entrambi i settori potrebbero avvalersi della procedura di affidamento diretto motivato prevista dall'articolo 36, comma 2, lettera a). Ma, la somma delle due identiche procedure di acquisto per arredi supererebbe i 40 mila euro. Il che richiederebbe la ricomprensione dell'appalto nella programmazione biennale e l'utilizzo quanto meno della procedura negoziata di cui all'articolo 36, comma 2, lettera b), del codice.
Laddove quell'amministrazione non si sia avveduta che due o più propri settori stessero programmando acquisizioni entro una medesima categoria merceologica per importi superiori, nell'ambito dell'ente, ai 40 mila euro, si determinerebbe di fatto un illegittimo frazionamento della base di gara di un appalto, sì da sottrarlo alle regole della programmazione o a specifiche procedure di acquisto (per gli enti locali, si pensi anche agli effetti sulla necessità di avvalersi delle centrali di committenza).
Con la motivazione obbligatoria sulla scelta della procedura semplificata piuttosto che di quella ordinaria, si inducono i dirigenti o responsabili di servizio a dover dare conto e dimostrare, tra l'altro, che si rispetta la soglia dei 40 mila euro come tetto complessivo che riguarda l'amministrazione nel suo complesso e non come limite solo settoriale, insufficiente a garantire il rispetto del divieto artificioso di frazionamento dei contratti.
Dunque, la motivazione anche sulla scelta della procedura semplificata, invece che ordinaria, è uno strumento fondamentale non solo per rispettare formalmente le indicazioni dell'articolo 36, comma 2, del codice, ma anche e forse soprattutto per mettersi al riparo da problemi di legittimità scaturenti da imprecisa o insufficiente programmazione degli acquisti e dalla violazione del divieto di frazionare gli appalti, allo scopo di abusare delle procedure semplificate o anche sotto soglia (articolo ItaliaOggi del 20.05.2016).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALIFirma elettronica, sul valore continua a decidere il giudice. Riforma Pa. Cambia il decreto sul Codice dell’amministrazione digitale.
Dal nuovo Codice dell’amministrazione digitale dovrebbe uscire il valore giuridico automatico della firma elettronica, la cui valutazione sarebbe quindi lasciata caso per caso al giudice come accade oggi; in via di modifica è anche la soglia di capitale (5 milioni di euro) imposta ai «gestori dell’identità digitale» aderenti allo Spid, che potrebbe essere graduata in base «al livello di sicurezza offerto dal gestore», mentre l’obbligo di anonimizzare tutte le sentenze prima della loro pubblicazione potrebbe semplicemente scomparire.
Dopo il confronto innescato dal “parere interlocutorio” con cui il Consiglio di Stato l’aveva di fatto bocciato in una serie di passaggi, il governo ha aperto a una serie di modifiche sul decreto attuativo della riforma Madia che rinnova il Codice dell’amministrazione digitale.
Il botta e risposta fra governo e giudici amministrativi sfocia nel parere 17.05.2016 n. 1204 diffuso ieri (Schema di decreto legislativo recante “modifiche e integrazioni al Codice dell’Amministrazione Digitale di cui al decreto legislativo 07.03.2005, n. 82, ai sensi dell’articolo 1 della legge 07.08.2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle Amministrazione pubbliche), con il quale il Consiglio di Stato dà il via libera con osservazioni al nuovo testo e chiude il lavoro sul primo pacchetto di decreti attuativi della riforma Madia. Con l’eccezione del provvedimento sulla trasparenza, approvato in via definitiva lunedì, ora i provvedimenti sono tutti in parlamento per l’esame delle commissioni prima del via libera finale in consiglio dei ministri.
Sul piano delle regole che dovranno guidare l’amministrazione digitale, la novità più è in realtà una conferma della situazione presente. Il decreto approvato in prima lettura assegnava infatti in automatico un valore giuridico ai documenti sottoscritti con «firma digitale semplice», ma i giudici avevano obiettato che nel quadro attuale la «firma digitale» indica tante cose diverse, con differenti gradi di sicurezza sull’identità di chi la mette, e che di conseguenza la previsione avrebbe potuto avere effetti collaterali importanti.
Per questa ragione, dopo le audizioni con una serie di esperti, il governo sta ora valutando di cancellare la novità, mantenendo quindi la situazione attuale.
Stesso orientamento riguarda l’obbligo di anonimizzare le sentenze prima della loro pubblicazione (altrettanto obbligatoria). Oggi i nomi vengono tolti quando a chiederlo è una delle parti, oppure quando la sentenza affronta temi “sensibili” come la salute, i rapporti famigliari o l’identità dei minori, mentre in base al provvedimento approvato in prima lettura a gennaio l’anonimizzazione sarebbe stata sempre necessaria.
Per il Consiglio di Stato il rischio di questo intervento, peraltro sganciato dalle previsioni della delega, sarebbe quello di ingolfare le cancellerie di un lavoro sostanzialmente inutile, con la conseguenza di abbassare ulteriormente i ritmi della macchina della giustizia, e il governo si dice disponibile a togliere la novità.
Sulle soglie di capitale per i gestori dell’identità digitale che aderiscono allo Spid, il «sistema pubblico di identità digitale», le posizioni restano invece distanti. Un’apertura dalla Funzione pubblica, come accennato, è arrivata, e prospetta soglie graduali per i diversi operatori, superando il limite unico di 5 milioni di euro.
I giudici amministrativi, però, ricordano che il Tar Lazio, nella sentenza 9951/2015, era stato tranchant nel giudicare «sproporzionato» il limite minimo di capitale, preso di peso da quello imposto da Bankitalia nella circolare 285/2013 alle banche di credito cooperativo.
Anche se graduali, limiti troppo alti rischierebbero di accendere nuove battaglie di carta bollata con gli operatori: tocca ora a parlamento e governo risolvere il problema
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.05.2016).

EDILIZIA PRIVATA: Abusi, demolizioni accelerate. I comuni possono avvalersi pure di privati o dell'esercito.
EDILIZIA/ Dalla Camera il via libera al ddl sugli abbattimenti. che torna al Senato.
Acceleratore premuto per la demolizione degli abusi edilizi. Da censire in una banca dati nazionale. La spinta propulsiva riguarda sia le demolizioni da eseguire a cura della procura della repubblica (se l'ordine è contenuto in una sentenza) sia quelle di competenza amministrativa.
I comuni possono avvalersi anche di imprese private e dell'esercito. E vengono messi a disposizione 50 milioni (finanziamenti da restituire in dieci anni) per passare all'opera.

È quanto prevede il disegno di legge (Atto Camera n. 1994) sulle priorità nelle demolizioni di manufatti abusivi, che ha superato l'esame della camera e ora passa al senato.
Il provvedimento sembra ormai essere destinato al rush finale, dopo un percorso parlamentare molto lento: è stato approvato dal senato, in prima lettura nel gennaio 2014, e ora, licenziato con modifiche dalla camera, torna a palazzo Madama per il prevedibile varo finale. Ma vediamo che cosa dispone il provvedimento in itinere.
Doppio binario. L'ordinamento italiano prevede il sistema a doppio binario. Se c'è una condanna definitiva del giudice per reati di abusivismo edilizio, se l'immobile è ancora in piedi, il compito di demolire spetta alla procura della repubblica.
Fuori da questa ipotesi, sono le autorità amministrative (Comuni, Regioni e Prefetture) a dare corso alla procedura, secondo quanto previsto dal testo Unico per l'edilizia.
Compiti delle procure. Il disegno di legge assegna al procuratore il compito di determinare i criteri di priorità per l'esecuzione degli ordini di demolizione delle opere abusive.
Come avvisa però la scheda dei lavori parlamentari, l'individuazione di alcuni criteri di priorità costituisce una prassi operativa già in uso presso alcune procure della repubblica.
In ogni caso bisogna considerare se c'è un rilevante impatto ambientale o su area demaniale o su area vincolata; bisogna tenere conto dell'eventuale pericolo per la pubblica o privata incolumità. Altro criterio di priorità riguarda gli immobili nella disponibilità di soggetti condannati per reati di associazione mafiosa o di soggetti colpiti da misure prevenzione.
Ci sono, poi, criteri di priorità interni alle singole ipotesi. Bisogna dare la precedenza agli immobili in corso di costruzione o comunque non ancora ultimati e agli immobili on stabilmente abitati.
Demolizioni amministrative. Per le demolizioni di competenza di regioni, comuni e prefetture, la procedura in corso di revisione è la seguente.
Entro il dicembre di ogni anno il responsabile dell'ufficio comunale deve trasmettere al prefetto, ma anche alle altre amministrazioni statali e regionali preposte alla eventuale tutela di vincoli, l'elenco delle opere non sanabili e ancora non demolite spontaneamente. La norma aggiunge che deve essere anche scaduto il termine di 270 giorni, entro il quale il comune è tenuto a concludere la demolizione. Si conferma la competenza del prefetto per le demolizioni e si estende al comune la possibilità di avvalersi di avvalersi di imprese private o di strutture operative del ministero della difesa.
Fondi. Per le demolizioni da parte dei comuni vengono stanziati 50 milioni di euro, da erogare a titolo di finanziamenti, da restituire in 10 anni.
Data base. Il disegno di legge costituisce presso il Ministero delle infrastrutture la Banca dati nazionale sull'abusivismo edilizio.
Tutte le autorità e gli uffici competenti dovranno condividere e trasmettere le informazioni sugli illeciti alla banca dati.
Il tardivo inserimento dei dati nella banca dati comporta una sanzione pecuniaria di mille euro per il dirigente o funzionario inadempiente (articolo ItaliaOggi del 19.05.2016).

APPALTICodice degli appalti, è il momento dell'errata corrige. Lo ha annunciato il capo legislativo di palazzo chigi al convegno ance sul decreto 50/2016.
In arrivo un copioso errata corrige sul nuovo codice degli appalti pubblici; servirà invece più tempo per il primo correttivo perché seguirà ad una attenta verifica sull'impatto delle nuove regole; l'Ance paventa il blocco degli appalti pubblici.

È quanto emerso nel seminario organizzato ieri dall'Ance, l'associazione dei costruttori edili, su «Il nuovo codice degli appalti: applicazioni ed effetti sul mercato dei lavori pubblici», cui ha partecipato il capo ufficio legislativo della presidenza del Consiglio dei ministri, Antonella Manzione, che ha annunciato che «è ormai pronto un errata corrige, che uscirà nei prossimi giorni con il quale abbiamo sistemato alcuni errori e richiami non corretti contenuti nel nuovo codice dei contratti pubblici».
L'intervento toccherà numerose norme del decreto 50/2016, ivi compreso l'articolo 216 sulla disciplina transitoria, espressamente citato da Antonella Manzione come norma «dove c'è un errore di richiamo». Invece, alle richieste di intervento nel merito del testo del codice, il capo ufficio legislativo di Palazzo Chigi ha per adesso risposto negativamente precisando che «il governo ha due anni di tempo per correggere e il Consiglio di stato ci ha detto di prenderci tutto questo tempo; vedremo quali effetti pratici avrà la riforma e poi interverremo, ma non a seguito di consultazioni con gli stakeholder, bensì in base ad una seria e attenta verifica di impatto delle norme. Solo allora potremo anche deciderci di muoverci in senso diametralmente opposto rispetto a quanto deciso con il codice».
Richieste di inversione di rotta non sono certo mancate, visto che l'Ance, sia con la relazione di apertura del presidente Claudio De Albertis sia con quella del vicepresidente Edoardo Bianchi, ha sottolineato più punti critici da modificare anche per evitare il blocco delle gare, la cui causa è da ricercarsi anche nella «brusca» disciplina transitoria prevista dal decreto 50 e dall'elevato livello di discrezionalità affidato alle stazioni appaltanti.
L'Ance ha chiesto modifiche alla disciplina delle procedure negoziate e ha sottolineato, fra le altre cose, come sia oggettivamente difficile aggiudicare appalti con l'offerta economicamente più vantaggiosa sun un progetto esecutivo e improprio prevedere tale criterio per un appalto semplice da poco più di un milione di euro. A fronte di queste critiche Manzione ha però difeso le scelte operate con il decreto delegato, a partire dall'attribuzione di una maggiore discrezionalità alle stazioni appaltanti perché «si punta su una loro maggiore responsabilizzazione e qualificazione», per arrivare alla disciplina dell'appalto integrato: «Non siamo andati oltre la delega della legge 11 perché con l'articolo 59 abbiamo previsto che di regola si appalta sul progetto esecutivo ma che ci sono casi in cui ciò può non avvenire; sull'offerta economicamente più vantaggiosa la scelta è stata quella di valorizzare la progettazione».
In precedenza Alessandro Botto, ex consigliere dell'Avcp, l'authority di vigilanza sui contratti pubblici, aveva messo l'accento sulla collocazione delle linee guida Anac (Autorità nazionale anti-corruzione) nell'ambito delle fonti di diritto e efficacia vincolante (articolo ItaliaOggi del 19.05.2016).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICADdl consumo del suolo, correzioni migliorative. Apprezzamento di Confindustria per le modifiche apportate.
Dopo il sì della Camera. Limature su definizioni di suolo agricolo e fase transitoria.

Non sarà un percorso facile quello del Ddl sul consumo di suolo (Atto Camera n. 2039). Dopo il via libera di Montecitorio, la legge approda in Senato, dove la seconda lettura si annuncia ad alto rischio.
Il passaggio in Aula alla Camera, in realtà, ha portato correzioni che hanno allargato il consenso su un provvedimento contestassimo fin dalla prima ora per il suo impianto fortemente vincolistico. Soprattutto due limature, volute dai relatori Chiara Braga e Massimo Fiorio, sono destinate ad ammorbidire i vincoli del testo: la revisione della definizione di suolo agricolo e la correzione della fase transitoria, con la possibilità di fare salvi gli interventi per i quali sia stata semplicemente presentata un’istanza.
Correzioni su cui anche Confindustria, che pure è stata da sempre critica, esprime apprezzamento, sottolineando il lavoro e il confronto degli ultimi mesi. E ieri un apprezzamento per la correzione di rotta è arrivato anche dal presidente dell’Ance, Claudio De Albertis: «Un Ddl equilibrato che siamo pronti a sostenere».
Un primo miglioramento è arrivato sul fronte delle esclusioni. In sostanza, nell’economia del Ddl è fondamentale la definizione di suolo agricolo: le aree che ricadono nei limiti indicati dall’articolo 2 sono sottoposte ai vincoli della legge. Durante i lavori parlamentari, però, sono state previste alcune eccezioni che fanno salve, tra le altre, le «aree funzionali all’ampliamento delle attività produttive esistenti» e «i lotti interclusi e le aree ricadenti nelle zone di completamento».
Questa doppia correzione, da un lato, riduce il rischio di veti nella localizzazione e nell’ampliamento degli impianti produttivi e delle infrastrutture. Dall’altro permette di valorizzare, in chiave di rigenerazione, le aree libere con funzioni di “ricucitura”.
Il secondo aggiustamento è intervenuto sull’articolo 11. Qui si prevede una fase transitoria di tre anni, durante la quale si applicherà un regime speciale per limitare il consumo di suolo. Con due emendamenti sono stati fatti salvi gli interventi e i programmi di trasformazione, previsti nei piani attuativi, «per i quali i soggetti interessati abbiano presentato istanza per l’approvazione prima della data di entrata in vigore della legge, nonché le varianti» che non comportino modifiche di dimensionamento dei piani attuativi e il cui procedimento sia attivato prima della partenza della legge.
Questa misura rivede l’assetto originario, che faceva salvi solo gli interventi e i programmi di trasformazione inseriti nei piani attuativi adottati. In questo modo, si tutelano gli interessi maturati da chi ha effettuato investimenti in aree trasformabili. Alla stessa maniera, le opere pubbliche saranno consentite, previa valutazione delle alternative di localizzazione che evitino il consumo di suolo.
Sul tavolo resta, però, ancora qualche problema. La Camera, infatti, in diversi passaggi dove sono previste eccezioni alle regole generali ha sostituito il riferimento agli insediamenti e alle infrastrutture strategiche e di preminente interesse nazionale con quello alle infrastrutture e agli insediamenti prioritari di cui alla parte V del nuovo Codice appalti. Un coordinamento formale con effetti sostanziali.
Il Dlgs 50/2016, infatti, individua un ambito più circoscritto rispetto alla vecchia definizione. Di fatto alcune infrastrutture potrebbero restare escluse. E non è il solo problema. L’altro obiettivo chiave sarà il potenziamento degli incentivi alle operazioni di rigenerazione
(articolo Il Sole 24 Ore del 18.05.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIAppalti, pubblicazioni a pioggia. Più oneri di trasparenza per i siti delle amministrazioni. Le previsioni del decreto Madia appena varato si incrociano con il codice dei contratti.
Diluvio di pubblicazioni per gli appalti in applicazione della normativa sulla trasparenza. La combinazione tra le previsioni del dlgs 50/2016, nuovo codice dei contratti, e la riforma del dlgs 33/2013 (approvata in via definitiva dal governo il 16 maggio, si veda ItaliaOggi di ieri) amplia a dismisura gli oneri di pubblicità a carico delle stazioni appaltanti.
Se la riforma della normativa sulla trasparenza poteva essere l'occasione per coordinarne le regole di pubblicità con quelle fissate dalla normativa sugli appalti, occorre prendere atto che non si è colto l'obiettivo.
Il testo finale dell'articolo 37 del dlgs 33/2013, così come riformato dal decreto di attuazione della riforma Madia, apre, infatti, la stura per una valanga di atti da pubblicare nella sezione «Amministrazione trasparente», che ogni amministrazione appaltante deve gestire sul proprio sito istituzionale.
Il nuovo comma 1 dell'articolo 37 del dlgs 33/2013 novellato dispone che «Fermo restando quanto previsto dall'articolo 9-bis e fermi restando gli obblighi di pubblicità legale, le pubbliche amministrazioni e le stazioni appaltanti pubblicano: a) i dati previsti dall'articolo 1, comma 32, della legge 06.11.2012, n. 190; b) gli atti e le informazioni indicati nel decreto legislativo 18.04.2016, n. 50».
Dunque, da un lato si conferma l'elenco dei sette elementi conoscitivi che la legge anticorruzione richiede già dal 2012. Dall'altro, però, in termini molto generici la lettera b) del nuovo testo dell'articolo 37 si limita a rinviare alla necessità di pubblicare le informazioni previste dal nuovo codice dei contratti.
Tale rinvio in sostanza crea oneri di pubblicità davvero enormi. Infatti, occorrerà fare riferimento alle previsioni dell'articolo 29 del codice dei contratti, il cui comma 1 dispone che devono essere pubblicati e aggiornati sul profilo del committente, nella sezione «Amministrazione trasparente»: «Tutti gli atti delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori relativi alla programmazione di lavori, opere, servizi e forniture, nonché alle procedure per l'affidamento di appalti pubblici di servizi, forniture, lavori e opere, di concorsi pubblici di progettazione, di concorsi di idee e di concessioni».
La norma si riferisce, come visto, a «tutti» gli atti, senza elencarli. Né a questo compito ha assolto la riforma della normativa sulla trasparenza. La conseguenza è che le amministrazioni appaltanti dovranno redigere un elenco molto accurato degli atti tipici delle procedure, come quello che si propone nella tabella in pagina, ed assicurarsi che le varie pubblicazioni siano effettuate.
Il testo dell'articolo 37 del dlgs 33/2013 riformato inizialmente varato dal governo indicava in modo più specifico gli atti da pubblicare e comprendeva anche l'obbligo di pubblicare le varianti ai contratti ed eventuali transazioni o accordi bonari. Seguendo alla lettere la combinazione tra il testo definitivo dell'articolo 37 del «decreto trasparenza» e l'articolo 29 del codice dei contratti, tali pubblicazioni non dovrebbero considerarsi necessarie, perché gli obblighi paiono riferirsi solo alle procedure di programmazione e di individuazione dell'appaltatore e non all'esecuzione del contratto.
Ma, probabilmente le linee guida dell'Anac evidenzieranno oneri di pubblicità anche per le fasi di gestione dei rapporti contrattuali (articolo ItaliaOggi del 18.05.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

ATTI AMMINISTRATIVICittadini e Pa, gratis gli atti pubblici telematici. Ok definitivo al primo decreto della riforma Madia sul Freedom of information act - Cancellato il silenzio-rifiuto.
Con il via libera ottenuto ieri in consiglio dei ministri dal decreto sul «Foia», il Freedom of Information Act che supera il nostro vecchio diritto di accesso agli atti pubblici in nome della trasparenza a tutto tondo sul modello anglosassone, arriva la prima approvazione definitiva per un decreto attuativo della riforma della Pubblica amministrazione.
«La Pa diventa una casa di vetro», rilancia il sottosegretario alla Pubblica amministrazione e innovazione Angelo Rughetti, ma oltre che sul piano politico, la riforma arrivata ieri al traguardo promette di avere un forte impatto pratico, sulla base di un cambio di modello: al diritto di accesso tradizionale, che permette a cittadini e imprese di conoscere gli atti pubblici su cui hanno un «un interesse diretto, concreto e attuale», si affianca la nuova trasparenza, in cui il diritto a conoscere atti e informazioni diventa la regola e la mancata diffusione dei provvedimenti è l’eccezione motivata dalla tutela di interessi precisi, dal segreto di Stato alla privacy passando per le tutele commerciali.
Tradotto in pratica, per conoscere le procedure di valutazione utilizzate in un appalto o in un concorso non sarà necessario essere nella platea dei concorrenti, e i cittadini avranno diritto a conoscere i finanziamenti concessi dal Comune, lo stato effettivo di attuazione dei provvedimenti sui servizi pubblici, dalla sanità ai trasporti, i tempi reali per lo smaltimento delle pratiche e così via.
Ma non sempre ci sarà bisogno di chiedere, perché il nuovo provvedimento prova a rilanciare gli obblighi “automatici” di pubblicazione finora sparsi in tante normative: le Pa dovranno mettere online tutti i pagamenti effettuati, in forma puntuale e aggregata, per permettere di tenere davvero sotto controllo il fenomeno dei debiti commerciali nei confronti dei fornitori, e Stato, regioni ed enti locali dovranno pubblicare anche per i titolari di incarichi dirigenziali a qualsiasi titolo i dati che oggi devono fornire per i politici, dalle indennità alla situazione patrimoniale. Pubblici, inoltre, dovranno essere i criteri con cui si formano le liste di attesa nella sanità.
Passare dalle intenzioni alle realizzazioni non è semplice, come dimostra lo stesso cammino che il decreto attuativo di questo capitolo della delega Madia ha compiuto dalla prima approvazione al via libera finale. Quello licenziato ieri dal consiglio dei ministri è un testo diverso in molti punti rispetto a quello iniziale, e accoglie tante correzioni sollecitate dal Parlamento, dal Consiglio di Stato e da Foia4Italy, il “cartello” delle associazioni che aveva promosso lo sbarco anche in Italia di una regola sulla trasparenza totale, già presente in 90 paesi, e aveva manifestato la propria delusione per il primo testo.
I correttivi decisi ieri sono sostanziali. Prima di tutto, vengono abbattute le barriere indirette alle iniziative dei cittadini. Come regola generale, si prevede che le Pubbliche amministrazioni rilascino i documenti in forma gratuita, soprattutto quando l’invio è telematico, e possano chiedere ai richiedenti solo il rimborso del costo «effettivamente sostenuto e documentato» per la riproduzione del documento «su supporti materiali».
Insieme alla barriera del costo, viene cancellata anche quella del silenzio-rifiuto, paradossalmente spuntata nella versione originale del decreto sulla trasparenza totale: la Pa dovrà rispondere sempre entro 30 giorni e, se vorrà negare le informazioni richieste, dovrà farlo con «provvedimento espresso e motivato». Contro l’eventuale «no» dell’ufficio pubblico, chi fa la richiesta potrà appellarsi al responsabile anti-corruzione o, negli enti locali, al difensore civico, evitando così la via più costosa del ricorso al Tar, unica strada prospettata dal primo testo del decreto.
Per negare i dati e i documenti richiesti, quindi, la pubblica amministrazione dovrà dimostrare che la risposta pregiudicherebbe in modo «concreto» (altra precisazione del nuovo testo) gli interessi da tutelare, divisi in due gruppi: gli interessi dello Stato, dalla sicurezza nazionale alle questioni militari, dallo svolgimento delle indagini alla «stabilità finanziaria ed economica», e quelli dei privati, cioè i dati personali, la segretezza della corrispondenza e gli interessi economici e commerciali.
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Ma la salvaguardia della privacy può allungare i tempi di risposta. Il meccanismo. Niente ricorso al Tar: contro il no appello a difensore civico o responsabile anticorruzione.
Una volta in Gazzetta Ufficiale, il decreto sulla trasparenza creerà per i cittadini un “nuovo” diritto con possibili implicazioni a tutto campo. Ma come si farà a esercitarlo?
Per le informazioni che la Pubblica amministrazione non è obbligata a diffondere in modo automatico, dalle indennità dei politici agli stipendi dei dirigenti (in larga parte già obbligatori per i decreti anticorruzione del 2013) il primo passo è naturalmente la domanda.
Chi vuole conoscere un’informazione ha tre uffici a cui rivolgersi: quello che ha materialmente i documenti, se lo conosce, oppure l’ufficio per le relazioni con il pubblico oppure una terza struttura, che però va indicata su Internet dall’ente interessato. Se invece vuole conoscere dati che non sono pubblici nonostante gli obblighi fissati dai decreti Severino, come spesso accade, può fare richiesta al responsabile anti-corruzione. La domanda deve contenere le informazioni o i documenti richiesti, e ovviamente non ha bisogno di motivazione.
L’arrivo dell’istanza fa scattare i 30 giorni entro i quali l’ufficio pubblico interpellato deve rispondere, fornendo i dati richiesti oppure motivando la decisione di tenerseli per sé. Attenzione, però, perché i tempi possono allungarsi e il cronometro potrà fermarsi parecchie volte.
Il meccanismo scritto nell’ultimo testo, in queste ore sottoposto al coordinamento finale sotto la guida del sottosegretario di Palazzo Chigi Claudio De Vincenti, cancella infatti il silenzio-rifiuto, che avrebbe fatto decadere la richiesta dopo 30 giorni di silenzio da parte della Pa, ma al suo posto introduce un meccanismo piuttosto complicato per tutelare i «controinteressati».
Ricevuta la domanda, l’ufficio pubblico può individuare i titolari di dati personali o commerciali che potrebbero essere danneggiati dalla pubblicazione. In questo caso, la Pa avvisa questi «controinteressati», che hanno tempo 10 giorni per opporsi alla pubblicazione e la clessidra dei 30 giorni si blocca. Non è detto, però, che le obiezioni alla diffusione dei dati da parte dei soggetti “avvisati” della richiesta siano accolte dall’ufficio, che rimane il responsabile ultimo della decisione: se sceglie di rispondere nonostante l’opposizione degli altri interessati, deve comunicarlo a questi ultimi, e può effettuare la pubblicazione dopo 15 giorni dalla comunicazione. I tempi effettivi, in pratica, possono raddoppiare.
È lo stesso decreto, comunque, a fissare i criteri guida per decidere se rispondere o meno, perché le obiezioni dei «controinteressati» hanno chance di successo solo se la risposta determina un pregiudizio «concreto» alla privacy oppure a segreti commerciali, diritto d’autore e così via.
Su questi parametri andranno fondate anche le decisioni in caso di contenzioso. Il cittadino che chiede un’informazione al Comune, alla Regione o a un’altra Pa e si vede negare il dato ha infatti diverse strade da percorrere per ritentare il successo. Nella versione licenziata in prima lettura, l’unica alternativa era il Tar, con i costi e i tempi che comporta il ricorso alla giustizia amministrativa, per cui il provvedimento finale amplia parecchio il ventaglio delle opzioni.
La prima porta a cui bussare è quella del responsabile anti-corruzione, che deve essere presente in ogni pubblica amministrazione, mentre nel caso di Regioni, Province, Città metropolitane e Comuni il ricorso va presentato al difensore civico
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.05.2016).

SICUREZZA LAVORORegole differenziate per la protezione dal rischio amianto. Salute e sicurezza. Per gli edifici o gli impianti.
La protezione dal rischio dell’esposizione all’amianto segue due strade: una se è diretta alla protezione civile, cioè della collettività in quanto il materiale è già presente negli edifici, l’altra se riguarda i lavoratori in quanto operanti su impianti tecnici con presenza di amianto.
Lo precisa la Commissione ministeriale per gli interpelli sulla sicurezza (interpello 12.05.2016 n. 10/2016) istituita presso il Ministero del Lavoro.
Il quesito formulato da Confindustria è stato posto per chiarire il campo di applicazione della legge 257/1992 -relativa alle disposizioni riguardanti la cessazione dell’amianto– con il relativo Dm del 06.09.1994, riguardante le metodologie tecniche di applicazione dell’articolo 6 della legge, rispetto alla circolare 7/1995 del ministero della Salute nella parte in cui precisa che la normativa contenuta nel Dm si applica anche agli «impianti tecnici sia in opera all’interno di edifici che all’esterno», nei quali siano presenti componenti contenenti amianto.
È comunque lo stesso decreto a prevedere che tale normativa si applica a strutture edilizie a uso civile, commerciale o industriale aperte al pubblico o comunque di utilizzazione collettiva in cui sono in opera manufatti e/o materiali contenenti amianto dai quali può derivare un’esposizione a fibre disperse nell’aria.
Con l’interpello 12.05.2016 n. 10/2016 la Commissione, nel formulare la risposta al quesito, allarga il campo di osservazione chiamando in causa anche il Dlgs 81/2008 (testo unico sulla salute e sicurezza sui luoghi di lavoro).
Quest’ultima disposizione, fermo restando quanto previsto dalla legge 257/1992, individua il proprio campo di applicazione per tutte le altre attività lavorative che possono comportare un’esposizione ad amianto, quali manutenzione, rimozione dello stesso o dei materiali che lo contengono, smaltimento e trattamento dei relativi rifiuti, nonché bonifica delle aree interessate.
Tenendo pertanto conto delle due disposizioni, l’una destinata all’ambiente (protezione civile), l’altra alla sicurezza sul lavoro, la Commissione ha ritenuto che eventuali materiali contenenti amianto debbano essere gestiti:
- mediante l’applicazione delle disposizioni del Dm 06.09.1994 da parte del proprietario/conduttore dell’edificio e dal Dlgs 81/2008 da parte del datore di lavoro che opera nell’immobile, nel caso di manutenzione di materiali contenenti amianto presenti in impianti funzionali all’immobile (termici, idrici, elettrici, per esempio);
- mediante la previsione normativa delle citate disposizioni del Dlgs 81/2008, a cura del datore di lavoro, nel caso di materiali contenenti amianto presenti in impianti produttivi strettamente correlati all’attività imprenditoriale e per questo non funzionali all’esercizio dell’immobile
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.05.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAUna guida per gli impianti elettrici. Lo strumento. Pubblicata la nuova edizione Cei (la precedente è del 2007) per amministratori, condòmini e tecnici.
La nuova edizione 2016-03 della Guida Tecnica Cei (Comitato elettrotecnico italiano) 64-50 «Edilizia ad uso residenziale e terziario –Guida per l’integrazione degli impianti elettrici utilizzatori e per la predisposizione delle infrastrutture per gli impianti di comunicazioni e impianti elettronici negli edifici– Criteri generali» sostituisce completamente la precedente edizione del 2007 ed è aggiornata agli ultimi sviluppi legislativi, normativi e tecnologici.
Rispetto alla precedente edizione, la nuova guida ha l’obiettivo di fornire all’utilizzatore, al progettista e all’amministratore di condominio un supporto pratico utile alla sua professione. Essa offre le informazioni di carattere generale per la realizzazione degli impianti elettrici utilizzatori, per la predisposizione edile ed impiantistica degli impianti di comunicazione elettronica, elettronici (telefoni, trasmissione dati, tv, citofoni, bus), negli edifici destinati ad uso residenziale e terziario, con particolare riferimento alla loro integrazione nella struttura edile e alla loro coesistenza con gli altri impianti tecnologici.
Fornisce le indicazioni per la compilazione della documentazione tecnica necessaria per determinare le caratteristiche e la consistenza degli impianti, con l’obiettivo di offrire le indicazioni utili a realizzare impianti elettrici ed elettronici che assicurino agli utenti un servizio sicuro e confortevole.
Gli impianti progettati e costruiti in accordo con le prescrizioni della legislazione tecnica e delle Norme Cei sono considerati realizzati a regola d’arte. La guida riporta un allegato in cui sono elencate le principali leggi e i principali decreti e circolari ministeriali in vigore riguardanti gli impianti elettrici e di comunicazioni, e gli impianti elettronici negli edifici per uso residenziale e per uso terziario, indicazioni indispensabili per l’amministratore condominiale.
La Guida si applica agli «edifici ad uso residenziale», intendendo per essi quegli edifici destinati ad abitazione civile e che contengano anche locali destinati ad altri usi (uffici, studi professionali, negozi eccetera) e agli “edifici per uso terziario”, ovvero gli edifici destinati ad una specifica funzione o attività, come uffici, attività commerciali, scuole, alberghi, depositi, impianti sportivi ed in genere a finalità di pubblica utilità.
La nuova Guida fornisce infine gli elementi utili per garantire la «predisposizione delle infrastrutture per gli impianti di comunicazioni elettroniche e gli impianti elettronici» intendendo per essa l’insieme –a partire dai rispettivi punti di ingresso nell’edificio o nel locale– delle tubazioni, scatole e cassette.
La guida è disponibile presso tutti i punti vendita Cei e su Cei webstore per l’acquisto online, sia in formato cartaceo che elettronico, al prezzo di 96 euro (per i soci 77 euro)
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.05.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

ATTI AMMINISTRATIVIP.a., sapere ora è un diritto. Accesso gratuito ai dati anche senza un interesse diretto. Approvato il primo dei dlgs Madia. Controllo diffuso sulla pubblica amministrazione.
Sapere come agisce la p.a. sarà un diritto per i cittadini. Ciascuno potrà richiedere gratuitamente alla pubblica amministrazione dati e documenti a prescindere da un interesse diretto. Il diritto di accesso, già riconosciuto dalla legge, ma legato all'esistenza di una situazione giuridica tutelabile (diritto soggettivo o interesse legittimo), si amplia al punto da essere sempre attivabile, realizzando così un controllo sociale diffuso, «il controllo di 60 milioni di cittadini».

È il «Freedom of information act», ossia il sistema generale di pubblicità e trasparenza, già radicato nei paesi anglosassoni, e introdotto nel nostro ordinamento dal decreto legislativo approvato ieri in via definitiva dal consiglio dei ministri.
Si tratta del primo degli 11 dlgs attuativi della riforma Madia (legge n. 124/2015), varati in blocco dal governo a gennaio, a diventare legge. E forse non è un caso, visto che si tratta di un provvedimento dall'alto valore simbolico che fa della trasparenza non più un adempimento burocratico, o peggio ancora, una concessione ai cittadini, ma una «grande politica pubblica che serve a combattere la zona grigia che va dall'illecito allo spreco», come si legge nel parere licenziato da Montecitorio il 19 aprile scorso (si veda ItaliaOggi del 20/04/2016).
La camera, nell'accendere il semaforo verde sul testo, aveva però posto una serie di condizioni che sono state integralmente accolte nella versione varata dal cdm. A cominciare dall'eliminazione del meccanismo del silenzio-rifiuto, previsto nel testo originario del dlgs, che avrebbe comportato il rigetto dell'istanza decorsi inutilmente 30 giorni dalla presentazione della stessa. Come osservato dalla commissione affari costituzionali della camera, questo meccanismo avrebbe comportato effetti «paradossali» rischiando di vanificare la ratio stessa del decreto.
E così nel testo definitivo si stabilisce che il rigetto da parte della p.a. debba essere sempre espresso e motivato. Contro il diniego (parziale o totale) da parte della pubblica amministrazione, o in caso di mancata risposta, il rimedio non sarà più il ricorso al Tar (che avrebbe comportato dispendiose spese legali in grado di rappresentare un freno a ricorrere per gli interessati). Il richiedente potrà presentare richiesta di riesame al responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza che deciderà con provvedimento motivato, entro il termine di venti giorni, prorogabile di quindici giorni se il responsabile chiede il parere dell'Autorità nazionale Anticorruzione.
Se l'accesso è stato negato o differito per ragioni di tutela della riservatezza (pubblica o privata) o di segreto di stato, il responsabile della prevenzione della corruzione provvederà sentito il Garante privacy che si pronuncerà entro 10 giorni dalla richiesta. Qualora si tratti di atti delle amministrazioni delle regioni o degli enti locali, il richiedente potrà presentare ricorso al difensore civico competente per territorio.
L'Anac elaborerà apposite linee guida per disciplinare in modo certo tutte le fattispecie derogatorie al diritto generalizzato di accesso. E individuerà i casi in cui la pubblicazione integrale dei dati è sostituita dalla pubblicazione di informazioni riassuntive «elaborate per aggregazione». Spetterà sempre all'Authority anticorruzione individuare modalità semplificate di pubblicazione dei dati per i comuni sotto i 15 mila abitanti, gli ordini e i collegi professionali.
Tra le altre condizioni poste nel parere dei deputati c'era l'eliminazione dell'obbligo di definire «chiaramente» nell'istanza di accesso i dati, le informazioni o i documenti richiesti. Anche in questo caso i deputati sono stati accontentati in quanto la norma originaria sarebbe stata «facilmente interpretabile quale obbligo per il cittadino richiedente di identificare con precisione assoluta i dati o i documenti richiesti».
La domanda potrà essere inviata alternativamente a uno dei seguenti uffici:
• all'Ufficio relazioni con il pubblico;
• ad altro ufficio indicato dall'amministrazione nella sezione «Amministrazione trasparente» del sito istituzionale;
• al responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza, ove l'istanza abbia a oggetto dati, informazioni o documenti oggetto di pubblicazione obbligatoria.
Il diritto di accesso, come detto, sarà gratuito. Il cittadino non dovrà pagare nulla per il rilascio di dati o documenti in formato elettronico o cartaceo, salvo il rimborso del costo effettivamente sostenuto e documentato dall'amministrazione per la riproduzione su supporti materiali.
Il diritto di accesso sarà escluso tutte le volte in cui sia necessario evitare un pregiudizio concreto alla tutela di uno degli interessi pubblici inerenti a:
• sicurezza pubblica;
• sicurezza nazionale;
• difesa e questioni militari;
• relazioni internazionali;
• politica e stabilità finanziaria ed economica dello Stato;
• conduzione di indagini sui reati;
• regolare svolgimento di attività ispettive.
L'accesso sarà altresì rifiutato se il diniego è necessario per evitare un pregiudizio concreto alla tutela di uno dei seguenti interessi privati:
• protezione dei dati personali;
• libertà e segretezza della corrispondenza;
• interessi economici e commerciali di una persona fisica o giuridica, compresi la proprietà intellettuale, il diritto d'autore e i segreti commerciali.
Il decreto si applica anche alle autorità portuali, alle autorità amministrative indipendenti e, ove compatibile, alle società partecipate (non a quelle quotate), agli enti pubblici economici, agli ordini professionali.
Gli altri provvedimenti approvati in cdm. Il cdm ha approvato un dlgs di attuazione dello statuto speciale per la regione Sardegna in materia di determinazione e attribuzione delle quote di gettito delle entrate erariali. Si stabilisce la devoluzione alla regione della raccolta di tutti i giochi con vincita in denaro sia di natura tributaria sia di natura non tributaria in quanto costituite da utile erariale. Il nuovo regime di compartecipazione al gettito erariale decorre dal 01.01.2010. Alla luce dell'accordo, il saldo per il maggior gettito spettante alla regione per gli anni 2010-2015, in conseguenza del nuovo regime tributario, sarà erogato in quattro annualità costanti a decorrere dal 2016.
In via preliminare palazzo Chigi ha approvato un dlgs che reca la disciplina dei consigli giudiziari per i magistrati onorari e disposizioni per la conferma nell'incarico dei giudici di pace, dei giudici onorari di tribunale e dei vice procuratori onorari in servizio. Si tratta del primo decreto legislativo di attuazione della legge 28.04.2016 n. 57 di delega al Governo per la riforma organica della magistratura onoraria (articolo ItaliaOggi del 17.05.2016).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPiù facile licenziare i furbetti del cartellino pubblico Il senato accelera sulle nuove procedure disciplinari.
Decreto all'esame di palazzo madama. pesano i rilievi del consiglio di stato: eccesso di delega.

È iniziato nella giornata di martedì 03.05.2016, nelle commissioni riunite del Senato I (Affari costituzionali, della Presidenza del Consiglio e interni) e XI (Lavoro pubblico e privato), l'esame dello schema del decreto legislativo recante proposte di modifiche all'art. 55-quater del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, nel testo aggiunto dall'art. 69, comma 1, del decreto legislativo 27.10.2009, n. 150 (Atto del Governo n. 292 - Schema di decreto legislativo recante modifiche all'articolo 55-quater del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, sul licenziamento disciplinare).
L'art. 55-quater enuclea i casi nei quali si applica comunque la sanzione disciplinare del licenziamento nei confronti dei dipendenti pubblici:tra gli altri, la falsa attestazione della presenza in servizio, mediante l'alterazione dei sistemi di rilevamento; la giustificazione dell'assenza dal servizio mediante certificazione medica falsa; l'assenza dal lavoro priva di valida giustificazione, la mancata ripresa del servizio, in caso di assenza ingiustificata, entro il termine fissato dall'amministrazione; le falsità documentali o dichiarative connesse ai fini o in occasione dell'instaurazione del rapporto di lavoro; la reiterazione nell'ambiente di lavoro di gravi condotte aggressive o minacciose o ingiuriose o comunque lesive dell'onore e della dignità personale altrui.
Lo schema di decreto legislativo in esame allarga notevolmente le fattispecie di comportamenti sanzionabili, un allargamento chiaramente giustificato, se non addirittura imposto, dalle sempre più frequenti notizie sulla scoperta di dipendenti che vengono pizzicati a porre in essere comportamenti fraudolenti o comunque contrari alle norme di legge e a quelle contrattuali.
Dispone infatti che costituisce falsa attestazione della presenza in servizio, oltre all'alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza, «qualunque modalità fraudolenta posta in essere, anche avvalendosi di terzi», per far risultare il dipendente in servizio o trarre in inganno l'amministrazione presso la quale il dipendente presta servizio circa il rispetto dell'orario di lavoro dello stesso. Della violazione dovrà rispondere anche chi abbia agevolato con la propria condotta attiva o omissiva la condotta fraudolenta.
La falsa attestazione della presenza, se accertata in flagranza ovvero mediante strumenti di sorveglianza o di registrazione degli accessi o delle presenze, determina l'immediata sospensione cautelare senza stipendio del dipendente e senza obbligo di preventiva audizione dell'interessato.
Tra le altre modifiche all'art. 55-quater indicate nello schema di decreto del governo meritano di essere sottolineate: una decisa accelerazione del procedimento disciplinare; il pagamento di un risarcimento all'amministrazione di un danno di immagine il cui ammontare è stabilito dalla procura regionale della Corte dei Conti; l'omessa attivazione da parte del dirigente del procedimento disciplinare e l'omessa adozione del provvedimento di sospensione cautelare costituiscono fattispecie disciplinare, oltre che omissione di atti di ufficio, punibile con il licenziamento.
Le proposte di modifica potranno diventare operative dopo il parere favorevole delle due commissioni, atteso per l'11 giugno, e dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Nella circostanza il condizionale appare tuttavia d'obbligo tenuto conto che dovranno essere prima superate le perplessità sollevate dal Consiglio di Stato.
I giudici amministrativi sostengono infatti che la previsione del danno di immagine e l'estensione dei reato di omissione di atti d'ufficio nei confronti dei dirigenti pubblici che non sanzionano i dipendenti pizzicati a porre in essere comportamenti fraudolenti eccedano i limiti della legge delega 07.08.2015, n. 124.
Ritengono anche che i termini iniziali del procedimento disciplinare (immediatamente dopo la conoscenza dei fatti contestabili) e finali (entro 30 giorni) potrebbero comprimere i termini di difesa del dipendente, con la conseguenza che l'eventuale sanzione comminata possa essere annullata da un giudice (articolo ItaliaOggi del 17.05.2016).

SEGRETARI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Vicesegretari, è caos sui diritti di rogito. Compensi. La Ragioneria generale blocca i compensi - Corte conti in ordine sparso.
Per la Ragioneria generale dello Stato, nel parere 25.03.2016 n. 26297 di prot., i vicesegretari titolari di posizione organizzativa che sostituiscono segretari di fascia A e B assenti non possono percepire i diritti di rogito.
In questo modo viene radicalmente smentita la tesi sostenuta dalla sezione regionale di controllo della Corte dei Conti delle Marche (parere 90/2016) per la quale i vice segretari titolari di posizione organizzativa possono percepire questi compensi indipendentemente dalla fascia di inquadramento dei segretari. Che dire? A pochi giorni di distanza si registrano letture diametralmente opposte provenienti da soggetti che sono istituzionalmente abilitati a supportare le amministrazioni locali nella soluzione dei problemi interpretativi posti dalle nuove disposizioni di legge. È evidente che in questo modo si determina una condizione di marcata incertezza nell’applicazione delle norme.
Va ricordato peraltro che sulla stessa possibilità per i segretari inquadrati nelle fasce A e B, cioè quelli che sono assimilati ai dirigenti e che svolgono la loro attività in Comuni privi di dirigenti, di percepire i compensi per i rogiti effettuatati ci sono tesi molto diverse.
La sezione Autonomie della Corte dei Conti, con la deliberazione 21/2015, sciogliendo i contrasti interpretativi nati in particolare tra le sezioni di controllo della Lombardia e del Lazio si è pronunciata in senso negativo. Mentre la Corte Costituzionale, nella sentenza 75/2016, interpretando la disposizione nazionale contenuta nel Dl 90/2014, ha ritenuto che la percezione dei diritti di rogito da parte dei segretari sia da considerare esclusa solo nei Comuni in cui vi sono i dirigenti, a prescindere dalla loro fascia di inquadramento. Occorre inoltre ricordare che sulla materia si attendono a breve le prime sentenze della magistratura del lavoro.
Per la Ragioneria generale dello Stato i vicesegretari titolari di posizione organizzativa che rogano atti in sostituzione dei segretari di fascia A e B non hanno diritto a percepire i diritti perché una volta che, sulla base della delibera della sezione autonomie della Corte dei Conti, è «venuto meno il riconoscimento dei diritti di rogito per il segretario di fascia A e B, deve ritenersi che viene a mancare il presupposto per potere continuare a riconoscere tali diritti» al vicesegretario che lo sostituisce.
Si aggiunge, a corollario, che «in via generale, se a un soggetto non è più riconosciuto un emolumento per una specifica prestazione resa anche al suo sostituto, corrispondentemente non potrà essere più riconosciuto alcun emolumento per lo svolgimento della medesima prestazione». Un ragionamento che sembra lineare con riferimento a principi di carattere generale.
Per la sezione di controllo della Corte dei Conti delle Marche, invece, «i diritti di rogito dovuti ai vicesegretari continuano a essere dovuti in forza di specifiche norme contrattuali mai abrogate e tutt’ora vigenti che continuano ad esplicare i propri effetti in favore del personale che è destinatario, in base all’ordinamento interno di ciascun ente, dell’incarico di vice segretario».
Una tesi che, se pure appare per molti aspetti basata su un presupposto acclarato, conduce a conseguenze paradossali, per cui il sostituto percepisce il compenso e il sostituito, che è titolare in via ordinaria dell’attività, non riceve alcun compenso a questo titolo
(articolo Il Sole 24 Ore del 16.05.2016).

INCARICHI PROFESSIONALI: Per gli incarichi agli avvocati serve la «mini-gara» pubblica. Codice appalti. L’effetto sugli affidamenti nei servizi legali.
L’affidamento della gestione del contenzioso giudiziale e stragiudiziale deve avvenire nel rispetto dei principi dell’ordinamento comunitario e impone alle amministrazioni la revisione delle procedure fino ad oggi adottate.
Il nuovo Codice dei contratti pubblici, con l’articolo 17, inserisce nel novero dei contratti esclusi in tutto o in parte dalla sua applicazione le attività di rappresentanza legale di un cliente da parte di un avvocato negli arbitrati o nelle conciliazioni, e nei procedimenti giudiziari dinanzi a organi giurisdizionali o autorità pubbliche.
A questi servizi si associano quelli di consulenza legale forniti in preparazione del contenzioso stragiudiziale o se c’è un indizio concreto e una probabilità elevata che la questione su cui verte la consulenza divenga oggetto del procedimento. Il nuovo Codice impone lo svolgimento di queste attività da parte di un avvocato, esplicitando il riferimento all’articolo 1 della legge 31/1982, che regola la prestazione di attività forensi in Italia da parte degli avvocati di Paesi Ue.
Prima della riforma, in ambito nazionale l’affidamento di attività di gestione del contenzioso urgente era stato configurato come una particolare forma di incarico dal Consiglio di Stato, che (sentenza 270/2012) ne aveva stabilito una procedura di affidamento semplificata.
Da questa attività veniva distinta quella di gestione complessiva e programmata del contenzioso nell’ambito dei servizi legali, anche allora compresi tra i servizi esclusi in base alla loro catalogazione nell’allegato IIB e, per questo, assoggettati all’affidamento nel rispetto dei principi comunitari (in base all’articolo 27 del Dlgs 163/2006). L’attività di consulenza specifica, tradotta in studi e in pareri pro veritate, era invece annoverata nell’ambito delle attività di consulenza pura, peraltro assoggettata ai limiti previsti dall’articolo 6, comma 7, della legge 122/2010.
La nuova disposizione propone una formulazione molto più specifica delle prestazioni riportate fra i servizi esclusi, identificandola chiaramente come attività di gestione del contenzioso, indipendentemente dalla contestualizzazione (urgenza o gestione programmata) entro la quale si è generato, portando quindi al superamento della differenziazione presente nel previgente quadro normativo.
Peraltro, gli altri servizi legali riferibili alle prestazioni di un avvocato e non connessi al contenzioso sono inclusi nell’allegato IX, per il quale il nuovo Codice prevede l’affidamento con l’applicazione integrale delle regole del Dlgs 50/2016, salvo una limitata facilitazione nella fase di pubblicità preventiva.
L’affidamento dei servizi legali di gestione del contenzioso, quindi, va effettuata nel rispetto dei principi dell’ordinamento comunitario, secondo l’espressa previsione contenuta nell’articolo 4 del codice, che vale per tutti i contratti esclusi. Le amministrazioni sono quindi tenute a definire una procedura che consenta il rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità e pubblicità.
Gli enti possono organizzare la scelta degli avvocati prestatori di servizi legali mediante la costituzione di elenchi, l’iscrizione ai quali deve essere pubblicizzata con avviso. Le modalità di affidamento devono essere ricondotte a procedure selettive adeguabili all’eventuale urgenza della costituzione in giudizio e possono essere sviluppate con criteri valutativi volti a sollecitare la dimostrazione della capacità di gestione del contenzioso specifico da parte del professionista
(articolo Il Sole 24 Ore del 16.05.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIASistri, prove di semplificazione. Upload più rapidi. Sconti per le adesioni volontarie. In via di definizione il decreto ministeriale sul tracciamento telematico dei rifiuti.
Snellimento della tempistica per la comunicazione telematica dei dati, riduzione dei contributi per le imprese che pur non avendone l'obbligo aderiscono volontariamente al Sistri e riduzione degli oneri di dotazione informatica per i trasportatori di rifiuti.

Appaiono essere queste le principali novità promesse dal decreto Minambiente in corso di definizione che mira a sostituire il c.d. «Testo unico» Sistri (dm 52/2011).
In base alla bozza del regolamento all'esame delle competenti istituzioni dallo scorso aprile 2016 molte delle innovazioni non saranno però immediatamente esecutive, ma agganciate all'adozione di ulteriori decreti ministeriali ed alla individuazione (ad oggi ancora in corso) del nuovo gestore del servizio di tracciamento telematico dei rifiuti.
Procedure operative per accesso, inserimento e trasmissione dati. Diversamente dal dm 52/2011, il nuovo «regolamento recante disposizioni relative al funzionamento e all'ottimizzazione» del Sistri non le disciplinerà nel dettaglio, ma ne affiderà la definizione ad ulteriori decreti Minambiente.
Pedissequamente all'attuale disciplina, le specifiche istruzioni tecniche continueranno invece a essere predisposte dal concessionario del servizio e pubblicate, previo visto di approvazione del dicastero, sotto forma di manuali e guide sul già noto portale sistri.it.
Soggetti obbligati all'iscrizione. A differenza dell'uscente «T.u. Sistri», il nuovo decreto non ne riprodurrà il novero, ma si limiterà ad effettuare un secco rinvio ai soggetti individuati dall'articolo 188-ter del dlgs 152/2006 (confermando dunque anche la validità delle deroghe sancite con dm 24/4/2014 per alcune imprese).
Utile precisazione recata dal dm in itinere è quella relativa ad imprese ed enti che provvedono a raccolta e trasporto dei propri rifiuti (iscritti nella categoria 2-bis dell'Albo gestori ambientali) laddove appare essere chiarito che l'obbligo di adesione al Sistri è unicamente quello discendente dalla loro posizione di produttori di rifiuti.
Contributo Sistri. Il dm in corso di definizione ripropone termini, modalità ed entità del contributo dovuto all'atto dell'iscrizione e poi con cadenza annuale. Tuttavia, con ulteriore dm Minambiente se ne prevede una riduzione per i soggetti che, pur non essendo obbligati, aderiscono volontariamente al Sistri.
Dispositivi elettronici. Pur confermando a monte l'attuale sistema che impone agli operatori l'utilizzo di «chiavette Usb» e «black box» (rispettivamente, per accedere al sistema e monitorare i percorsi dei mezzi di trasporto dei rifiuti) si promette un alleggerimento della dotazione quantomeno per i trasportatori.
Tramite futuro dm Ambiente arriverà infatti la sospensione degli obblighi di installazione e utilizzo dei suddetti strumenti di monitoraggio dei mezzi di trasporto rifiuti ed eventualmente (ove sostenibile dal punto di vista tecnico-economico) anche dei connessi dispositivi Usb.
Trasmissione informazioni al Sistri. Il flusso informativo disegnato dal nuovo dm ricalcherà il regime «ordinario» previsto dall'uscente dm 52/2011. Questo introducendo però uno snellimento sulla micro-tempistica, laddove non verrà più imposto a produttori e trasportatori di rifiuti pericolosi (fermo restando il termine massimo generale) l'invio dei dati al Sistri entro (rispettivamente) le 4 e 2 ore precedenti alla movimentazione, essendo sufficiente che l'inoltro delle informazioni di rito avvenga prima di procedere alla stessa.
Con futuri e altri regolamenti del dicastero arriveranno invece nuove regole di dettaglio su modalità operative, così come per attività di microraccolta e gestione di particolari categorie di rifiuti (tra cui i Raee, rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche), attestazione dell'assolvimento degli obblighi da parte dei produttori di rifiuti non obbligati al Sistri.
La transizione. Fino all'adozione degli ulteriori e citati regolamenti di dettaglio dettati dallo stesso dicastero, il dm in itinere imporrà dalla data della sua entrata in vigore, per quanto da esso non direttamente disciplinato, di continuare a far riferimento alle procedure indicate nei manuali e nelle linee guida disponibili sul sito sistri.it.
La vera e propria semplificazione del sistema con la riduzione, come sancito a livello programmatico dallo stesso decreto in itinere, degli oneri anche informatici a carico degli operatori (tra cui la compilazione off-line delle schede, la trasmissione asincrona dei dati, la garanzia di interoperatività con i software di terze parti) arriverà dunque solo in un secondo momento (articolo ItaliaOggi Sette del 16.05.2016).

AMBIENTE-ECOLOGIAIl Sistri resta sui rifiuti pericolosi. Stop all'obbligo di installare e utilizzare token e black box. Arriva il nuovo Testo unico. Il contributo 2016 va pagato. Esonero con meno di 10 dipendenti.
Le imprese della filiera dei rifiuti pericolosi saranno ancora tenute a pagare il contributo annuale Sistri. In futuro si procederà a una revisione dell'entità dei contributi ma la copertura degli oneri derivanti dalla costruzione e dal funzionamento del Sistri sarà ancora a carico degli operatori mediante il pagamento del contributo annuale.
Al Sistri continueranno a essere assoggettate le sole imprese e i soli enti, entrambi definiti come «produttori iniziali di rifiuti pericolosi», che hanno più di 10 dipendenti e operano in uno più settori tra industria, artigianato, commercio e servizi.

Queste alcune delle novità contenute in una bozza di Dm di cui ItaliaOggi anticipa i contenuti contenente il regolamento del ministero dell'ambiente che apre il percorso di semplificazione del Sistri per tutti gli operatori interessati.
Le imprese e gli enti che producono rifiuti speciali pericolosi e hanno meno di dieci dipendenti continueranno a non doversi iscrivere al Sistri, ne dovranno rispettarne gli obblighi. All'articolo 23, comma 3, della bozza di regolamento si legge della soppressione degli obblighi di installazione e dell'utilizzo di token e black box in attuazione delle semplificazioni previste quali obiettivo del bando Consip (articolo 11, comma 9-bis, della legge n. 101/2013).
Comunicazione quantità rifiuti. Gli operatori iscritti al Sistri comunicano le quantità e le caratteristiche qualitative dei rifiuti oggetto della loro attività mediante la scheda Sistri – area registro cronologico. I produttori di rifiuti iscritti inseriscono le relative informazioni entro dieci giorni lavorativi dalla produzione dei rifiuti stessi e comunque prima della movimentazione degli stessi.
Le informazioni relative allo scarico effettuato a seguito della presa in carico dei rifiuti stessi da parte del trasportatore , sono compilate e firmate elettronicamente entro dieci lavorativi dal completamento del trasporto. I commercianti , gli intermediari e i consorzi inseriscono le informazioni relative alle transazioni effettuate entro dieci giorni lavorativi dalla conclusione della transazione stessa.
L'inserimento delle informazioni nel sistema non è obbligatorio nel periodo di attesa della consegna dei dispositivi in fase di iscrizione e nei sette giorni successivi alla consegna dei dispositivi stessi. Nel caso di rifiuti prodotti in cantiere, la cui attività lavorativa non si protragga oltre i sei mesi e che non disponga di tecnologie adeguate di tecnologie adeguate per l'accesso al sistema Sistri, le schede Sistri sono compilate dal delegato della sede legale o dell'unità locale dell'impresa.
Nel caso di cantiere complessi comportanti l'intervento di diversi soggetti, l'attività del cantiere è calcolata per ciascuno di essi con riferimento al contratto del quale è titolare.
Compiti trasportatore rifiuti pericolosi. Il trasportatore che aderisce al Sistri deve accedere al sistema e inserire i propri dati relativi al trasporto prima dell'operazione di movimentazione , salvo giustificati motivi di emergenza da indicare nella parte della scheda da compilare disponibile per le annotazioni.
Durante il trasporto i rifiuti sono accompagnati dalla copia cartacea della scheda Sistri – area movimentazione relativa ai rifiuti movimentati, stampata dal produttore nel momento della presa in carica dei rifiuti da parte del conducente dell'impresa di trasporto.
I soggetti produttori e trasportatori, che aderiscono al Sistri, cui spetta la responsabilità delle informazioni inserite nel sistema, possono adempiere agli obblighi previste dal nuovo regolamento, tramite le rispettive associazioni rappresentative imprenditoriali sul piano nazionale o società di servizi di diretta emanazione delle stesse. A tal fine i soggetti aderenti al Sistri, dopo la loro iscrizione possono delegare o incaricare le suddette associazioni o società di servizi, che sono tenute a iscriversi per la specifica categoria di appartenenza.
I soggetti che producono rifiuti in quantità non superiore a duecento chilogrammi o litri, sono tenuti alla compilazione trimestrale della scheda Sistri – area registro cronologico, che deve essere comunque compilata prima della movimentazione dei rifiuti prodotti (articolo ItaliaOggi del 14.05.2016).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: In parlamento. La Camera approva le norme per limitare il consumo del suolo.
La Camera ha licenziato ieri in prima lettura il disegno di legge per il contenimento del consumo del suolo.

Il Ddl
(Atto Camera n. 2039) definisce per la prima volta nel nostro ordinamento il concetto di consumo del suolo, cioè la sua copertura e impermeabilizzazione, e punta a ridurre la cementificazione del territorio e a salvaguardare paesaggio e attività agricole, con l’obiettivo di azzerare entro il 2050 il consumo del suolo. Il Ddl passa ora al Senato.
In Italia dagli anni 50 sono stati impermeabilizzati 1,5 milioni di ettari, una superficie pari all’intera Calabria. Il principio base della nuova norma è che il consumo del suolo è consentito solo quando non ci sono alternative di riuso. Il Ddl impone una moratoria di tre anni per tutte le trasformazioni che comportino nuovo consumo di suolo, salvo quelle già inserite nei piani urbanistici.
In questi tre anni, il ministero delle Politiche agricole, assieme a quelli dell’Ambiente, dei Beni culturali e delle Infrastrutture, dovrà emanare un decreto che indichi come ridurre progressivamente il consumo del suolo, fino a eliminarlo del tutto nel 2050, come prevede la Ue. Spetterà alle Regioni fissare i criteri attuativi per i Comuni. Questi ultimi dovranno censire edifici ed aree dismesse, per verificare se le nuove costruzioni possono essere realizzate riqualificando aree degradate
(articolo Il Sole 24 Ore del 13.05.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICAConsumo suolo, enti vincolati. Costruire sarà l'eccezione. Censimento degli immobili sfitti. Alla camera primo sì al ddl. Oneri di urbanizzazione inutilizzabili per la spesa corrente.
Costruire sarà l'eccezione. I comuni, nelle scelte di pianificazione, dovranno motivare le ragioni per cui autorizzano nuovo consumo del suolo che sarà consentito solo in assenza di alternative di riuso e rigenerazione delle aree già urbanizzate. Gli enti dovranno censire gli edifici sfitti, inutilizzati o abbandonati per verificare se la costruzione di nuovi immobili, che comportino ulteriore consumo del suolo, sia davvero essenziale.
E ogni anno dovranno inviare una comunicazione al prefetto segnalando le proprietà fondiarie in stato di abbandono e suscettibili, per questo, di arrecare danni al paesaggio o alle attività produttive. Fino a quando le regioni non avranno legiferato in materia e comunque non oltre il termine di 3 anni, non sarà consentito consumo di suolo fatta eccezione per i lavori e le opere inseriti negli strumenti di programmazione delle amministrazioni aggiudicatrici, ossia nei programmi triennali dei lavori pubblici, e per quelli per i quali sia stata presentata istanza prima dell'entrata in vigore della legge.
Con 256 voti a favore, 140 contrari e 4 astenuti il ddl sul consumo del suolo e il riuso del suolo inedificato
(Atto Camera n. 2039) ha tagliato alla camera dei deputati il traguardo della prima approvazione. Non senza polemiche, vista la protesta dei deputati del M5S al momento del voto.
Secondo i Pentastellati il provvedimento sarebbe un'occasione persa che, prevedendo una lunga serie di deroghe al divieto di consumo del suolo, rappresenta l'ennesimo favore alle lobby. Di diverso avviso il Pd secondo cui l'approvazione del ddl segna una «giornata importante per chi vuole bene all'Italia, al suo paesaggio, al suo ambiente», come ha dichiarato Chiara Braga, responsabile ambiente del Partito democratico e relatrice del ddl.
«L'obiettivo è azzerare entro il 2050 il consumo di suolo, così come ci invita a fare l'Europa, e al stesso tempo dare un forte impulso agli interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente, pur senza paralizzare l'attività di pianificazione dei comuni e gli interventi già in corso», ha proseguito.
Soddisfatto anche il ministro per le politiche agricole, Maurizio Martina al cui ministero il ddl assegna (di concerto con i dicasteri dell'ambiente, dei beni culturali e turismo e delle infrastrutture e trasporti) il compito di indicare con un apposito decreto la riduzione progressiva vincolante di consumo del suolo a livello nazionale. «L'Italia ha bisogno di questa legge», ha affermato Martina, «anche per colmare un gap rispetto ad altri Paesi, tutelando la nostra agricoltura, conservando il paesaggio e stimolando anche l'edilizia di riuso e la rigenerazione urbana con il recupero di aree già occupate e strutture già esistenti».
Le associazioni ambientaliste, tuttavia, non si lasciano contagiare dall'entusiasmo e chiedono già correttivi per il passaggio del testo al senato. «Il provvedimento contiene norme innovative, ma ancora molti punti contraddittori e pericolosi», affermano in una nota congiunta Fai - Fondo ambiente italiano, Legambiente, Slow Food, Touring Club italiano e WWF Italia. Per questo, dicono, il ddl «deve essere modificato al senato perché sia fatto un vero passo in avanti per chiudere definitivamente nel nostro Paese l'epoca dei piani urbanistici sovradimensionati, degli abusi edilizi e dei successivi condoni e della sub-urbanizzazione che fa scempio del territorio».
Le associazioni ambientaliste apprezzano il divieto di utilizzo degli oneri di urbanizzazione per finanziare la spesa corrente e il divieto di mutamento di destinazione d'uso per le superfici agricole che hanno beneficiato di aiuti dall'Unione europea. Ma tra gli aspetti critici denunciano la presenza di «troppi spazi e deroghe che rischiano di rendere meno incisiva la tutela della risorsa suolo».
A cominciare dall'emendamento alle norme transitorie (art. 11), approvato in aula, con cui vengono fatti salvi i piani urbanistici attuativi per i quali i soggetti interessati abbiano anche solo presentato istanza prima dell'entrata in vigore della legge. «Dotare il Paese di una norma innovativa ed efficace sul consumo di suolo è indispensabile», ribadiscono le associazioni, «che si ripromettono, dopo l'approvazione alla camera, di incalzare i senatori perché questo accada».
I dati degli ultimi 40 anni del resto parlano chiaro. Dagli anni 70 la superficie coltivata in Italia è diminuita del 28%. Si tratta di 5 milioni di ettari di superficie agricola persa, pari a oltre 80 campi da calcio al giorno. Una superficie equivalente a Lombardia, Liguria ed Emilia-Romagna messe insieme. Un incremento del consumo del suolo che, in verità, non sembra giustificato dalla crescita demografica visto che dal 1950 ad oggi la popolazione italiana è aumentata del 28%, ma la cementificazione del 166%. Al primo posto nella classifica delle regioni più «consumate», secondo i dati 2015 dell'Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), ci sono Lombardia e Veneto con il 10%. Mentre alcuni comuni delle province di Napoli, Caserta, Milano e Torino oltrepassano il 50%, raggiungendo anche il 60%.
«L'ultima generazione è responsabile della perdita in Italia del 28% della terra coltivata per colpa della cementificazione e dell'abbandono», osserva la Coldiretti. «Su un territorio meno ricco e più fragile per il consumo di suolo si abbattono i cambiamenti climatici con le precipitazioni sempre più intense e frequenti che il terreno non riesce ad assorbire. Il risultato è che sono saliti a 7.145 i comuni italiani, ovvero l'88,3% del totale, che sono a rischio frane e/o alluvioni
» (articolo ItaliaOggi del 13.05.2016).

PUBBLICO IMPIEGOVigili, braccio di ferro tra stato e sindaci. La riforma della polizia locale non può più attendere.
La nuova legge sulla sicurezza urbana dovrà identificare meglio anche il ruolo e le funzioni della polizia locale, sempre più impegnata su nuovi fronti di prevenzione e controllo del territorio senza peraltro esserne all'altezza. Per questo scopo servono strumenti e risorse, ma anche un nuovo ordinamento, in modo tale da consentire alla polizia municipale di lavorare in piena sicurezza.

Lo ha evidenziato il sindaco di Pisa Marco Filippeschi, intervenuto ieri nella sua città a un evento organizzato dall'Anci e dedicato alla legge di riforma della sicurezza urbana.
Dal 5 maggio la commissione affari costituzionali della Camera ha iniziato l'esame congiunto di alcune proposte di legge che hanno per oggetto il coordinamento delle politiche integrate della sicurezza e la riforma della disciplina della polizia locale (C. 1825 Naccarato, C. 1895 Polverini, C. 1935 Sandra Savino, C. 2020 Guidesi, C. 2406 Lombardi e C. 3164 Cirielli), oppure soltanto la disciplina dei corpi di polizia locale (C. 1529 Rampelli) o la delega al governo per l'equiparazione tra i corpi di polizia locale e le forze di polizia dello Stato (C. 3396 Greco).
Gli argomenti contenuti nelle diverse proposte di legge sono strettamente connessi. Da una parte i sindaci reclamano maggiori poteri di gestione dell'ordine e della sicurezza pubblica. E la polizia municipale rappresenta il braccio forte dei primi cittadini per gestire sul territorio queste politiche. A monte però lo Stato non ha nessuna intenzione di perdere la centralità della gestione dell'ordine e della sicurezza pubblica.
Questo braccio di ferro che dura ormai da parecchi anni risulta però superato dai numerosi accordi che le prefetture sono costrette a siglare sul territorio con gli enti locali. Ma anche dalla determinazione ostinata dei sindaci e delle polizie locali, che nonostante la mancanza di un ordinamento adeguato continuano a svolgere attività proprie di organi di polizia veri e propri, pur non avendone i requisiti.
E neppure i riconoscimenti e le tutele necessarie. Se da una parte non è più rinviabile una riforma della sicurezza urbana dall'altra, senza un accordo ben definito sui ruoli dei sindaci e della polizia locale in previsione di una sicurezza sempre più partecipata, il rischio è quello di una riforma peggiorativa. Ovvero del trasferimento in capo ai vigili e ai comuni di ulteriori delicate incombenze senza una sostanziale modifica dei ruoli.
Per fare attività «vera» di polizia locale occorre sciogliere il dubbio principale, cioè se i vigili urbani siano semplici impiegati oppure agenti utilizzati dal sindaco in attività di polizia. L'Anci dal canto suo ha già da tempo avviato un tavolo tecnico sulla sicurezza urbana individuando un testo finale composto di 21 articoli. E contemporaneamente ha evidenziato la necessità di riformare la legge quadro 65/1986 che compie trent'anni.
Nel frattempo proprio oggi a Roma, l'Ospol ha organizzato uno sciopero generale della polizia municipale. Sono attese migliaia di operatori da tutta Italia, per sollecitare una riforma che ormai non può più attendere (articolo ItaliaOggi del 13.05.2016).

APPALTIAppalti anche a causa mista. Le gare riservate si aprono ai lavoratori svantaggiati. La previsione è contenuta nella riforma (dlgs 50/2016) per favorire l'inserimento.
Gli appalti riservati si aprono anche ai lavoratori svantaggiati. L'art. 112 del dlgs 50/2016 introduce importanti novità in merito alla possibilità di attivare appalti a «causa mista», il cui scopo, cioè, non sia solo l'acquisizione della prestazione del bene, servizio o lavoro, ma anche la possibilità di favorire l'inserimento socio-lavorativo delle persone.
Fino ad oggi, gli scopi di inserimento socio-lavorativo sono stati perseguiti fondamentalmente attraverso l'opera della cooperazione sociale, applicando le disposizioni degli articolo 4 e 5 della legge 381/1991, ai sensi delle quali sono possibili affidamenti aventi valore inferiore alla soglia comunitaria a cooperative sociali di tipo B, aventi scopo di inserimento lavorativo, mediante procedure semplificate, in tutto compatibili con quelle disciplinate, oggi, dall'articolo 36, del nuovo codice degli appalti.
L'art. 112 del codice si premura di confermare esplicitamente l'applicabilità di questa normativa speciale rivolta alle cooperative sociali: è, dunque, da concludere che il dlgs 50/2016 non ha comportato l'abolizione delle previsioni della legge 381/1991. Restano, quindi, in piedi le possibilità degli affidamenti a cooperative sociali, per altro recente oggetto delle linee guida espresse dall'Anac con la determinazione 32/2016.
In aggiunta a questa disciplina, l'art. 112 contiene un'altra importante precisazione: lascia operante anche la disciplina dei cosiddetti «appalti riservati», cioè gare per l'affidamento soprattutto di servizi, che le stazioni appaltanti possono riservare alla partecipazione o all'esecuzione solo di operatori economici, e ovviamente anche cooperative sociali e loro consorzi, a condizione che il loro scopo principale sia l'integrazione sociale e professionale delle persone con disabilità o svantaggiate.
L'articolo consente a che la riserva dell'esecuzione ai medesimi soggetti nel contesto di «programmi di lavoro protetti», se almeno il 30% dei lavoratori dei suddetti operatori economici sia composto da lavoratori con disabilità o da lavoratori svantaggiati.
L'importante novità consiste nell'estensione dell'elenco dei lavoratori in condizione di svantaggio. Fino al dlgs 50/2016 si consideravano esclusivamente i soggetti elencati dall'articolo 4 della legge 381/1991. L'art. 112 però, parlando esplicitamente di «lavoratori svantaggiati» e «persone svantaggiate» si riferisce indirettamente in modo chiaro a quella categoria di lavoratori caratterizzati da particolari condizioni soggettive tali da limitarne fortemente l'accesso al mercato del lavoro, elencati, oggi, dal Regolamento (Ue) n. 651/2014 della Commissione del 17.06.2014.
Dunque, gli appalti riservati potranno prendere in considerazione anche chi non abbia un impiego regolarmente retribuito da almeno sei mesi, o i disoccupati di età compresa tra i 15 e i 24 anni, o chi non possieda un diploma di scuola media superiore o professionale (livello Isced 3); o, ancora chi abbia completato la formazione a tempo pieno da non più di due anni e non abbia ancora ottenuto il primo impiego regolarmente, nonché i disoccupati over 50, gli adulti che vivono da soli con una o più persone a carico, gli occupati in professioni o settori caratterizzati da un elevato tasso di disparità uomo-donna, gli appartenenti a minoranze etniche degli stati membri della Ue che necessitino di migliorare la propria formazione linguistica e professionale o la propria esperienza lavorativa per aumentare le prospettive di accesso a un'occupazione stabile.
Per le p.a. e i comuni in particolare, quindi, gli appalti riservati alla cooperazione sociale e agli operatori economici ispirati alla tutela delle esigenze sociale possono diventare una leva molto importante, allo scopo di creare un «quasi mercato», nel quale agevolare vere e proprie esperienze lavorative dei lavoratori svantaggiati.
Con l'evidente beneficio di attivare le persone verso un lavoro concreto e di sostituire all'intervento assistenziale puro e semplice un progetto di autonomia lavorativa che favorisca un ingresso il più possibile forte nel mercato del lavoro per persone che altrimenti resterebbero escluse e dipendenti dalla sola assistenza (articolo ItaliaOggi del 12.05.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

TRIBUTIGoogle maps per le verifiche. Accesso all'applicazione per i controlli immobiliari. L'indicazione per l'utilizzo dello strumento informatico arriva dalla circolare dell'Agenzia.
Accertamenti immobiliari anche con Google Maps. Al posto del sopralluogo diretto, i funzionari dell'Agenzia delle entrate potranno acquisire informazioni sull'immobile oggetto di verifica utilizzando gli strumenti informatici disponibili in ufficio e accedendo a Internet. Ovviamente, al preciso fine di «rafforzare» la motivazione di un tale accertamento sarà opportuno procedere ad allegare all'avviso di rettifica l'immagine dell'immobile appositamente stampata attraverso la funzione di «street view» dell'applicativo.

È quanto si legge nella recente circolare 28.04.2016 n. 16/E (si veda ItaliaOggi del 04/05/2016) relativamente alle attività di controllo finalizzate ad accertare eventuali occultamenti nei corrispettivi degli atti di trasferimento immobiliari, soprattutto in tema di imposte sui trasferimenti (registro, ipotecaria e catastale).
In effetti, testualmente, la circolare in commento evidenza che, per quanto concerne i controlli relativi ai valori dichiarati, particolare attenzione deve essere prestata alla fase di selezione degli atti da sottoporre a controllo, concentrando le «risorse disponibili» (addetti) sulle fattispecie più significative e con più elevati profili di rischio evasione e/o elusione, anche mediante costituzione di «gruppi di lavoro» che facilitino l'interscambio di dati e/o informazioni.
L'uso delle recenti tecnologie informatiche per le attività di accertamento non è certo una novità (si veda ItaliaOggi del 12/02/2016); colpisce però che il ricorso a una tale metodologia grezza di accertamento sia contenuta in una circolare nella quale la stessa Agenzia delle entrate raccomanda alle sue strutture periferiche un corretto utilizzo delle presunzioni di legge e, più in generale, dei poteri istruttori, onde evitare il risalto mediatico che accertamenti basati esclusivamente su presunzioni, tipico caso quello dei valori immobiliari, hanno recentemente scatenato.
L'Agenzia, subito dopo aver evidenziato la necessità, prima dell'emissione dell'avviso di rettifica, di sviluppare sempre un contraddittorio con il contribuente, al fine di valutare situazioni peculiari, ma anche con l'obiettivo di rafforzare la maggiore quantificazione della pretesa tributaria, concede ai suoi funzionari una via intermedia, estremamente semplificata di accertamento virtuale del valore dell'immobile.
In alternativa all'esecuzione di sopralluoghi, di rilievi sul posto, di foto dell'immobile e della zona ove lo stesso è ubicato, al fine di rendersi davvero conto della realtà dei luoghi, per i verificatori è possibile lasciarsi tentare dall'utilizzo della famigerata applicazione del più conosciuto motore di ricerca al mondo, soprattutto quando per l'immobile in questione è attivabile la funzione «street view».
Così facendo con pochi e semplici click del mouse e partendo dall'inserimento dell'indirizzo ove l'immobile è ubicato, il funzionario preposto alla verifica dei valori indicati nell'atto di trasferimento dalle parti si troverà a video la rappresentazione «virtuale» dell'immobile e della zona ove lo stesso è situato.
Il funzionario, inoltre, potrà spostarsi, sempre virtualmente, avanti e indietro o aggirare l'immobile esplorando lo stesso da tutti i lati visibili censiti nel data base di Google.
Dopo avere effettuato questa visita virtuale, stando alle prescrizioni contenute nella circolare, che detta gli indirizzi operativi per le attività di contrasto all'evasione per l'anno 2016, il funzionario in questione potrà esprimere un giudizio sul valore dell'immobile in oggetto e passare alla contestazione di quanto dichiarato in atto dalle parti, allegando, a sostegno della propria valutazione le immagini riprodotte dal sistema.
Che un tale modus operandi sia estremamente più semplice e veloce è inconfutabile e permette ai verificatori di risparmiare energie, sviluppando ulteriori e consueti accertamenti «a tavolino».
Peccato, però, che nell'applicazione in esame, o nelle altre analoghe, la realtà dei luoghi che viene a evidenza è una realtà virtuale che spesso risale a due o tre anni addietro rispetto al momento dell'accesso.
Potrebbe pertanto accadere che sia l'immobile oggetto di ispezione virtuale sia l'intero contesto nel quale esso viene visualizzato sia in realtà profondamente diverso dalla realtà.
L'utilizzo delle applicazioni virtuali dovrebbe essere utilizzato, in alternativa al sopralluogo diretto, anche per «evidenziare meglio le analogie e le differenze tra l'immobile da valutare e quelli presi come riferimento, sulla base delle principali caratteristiche che influenzano i prezzi di mercato della tipologia di immobile in esame».
Se davvero dovessero essere queste le future attività istruttorie, propedeutiche all'emissione degli avvisi di rettifica dei prezzi di trasferimento degli immobili da parte dei funzionari del fisco, è difficile, anche soltanto ipotizzare, che su questo fronte si avranno accertamenti più equi, con un sicuro aumento dei contenziosi con i contribuenti (articolo ItaliaOggi del 10.05.2016).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICAOra costruire sarà l'eccezione. Obbligatorio verificare alternative al consumo del suolo. Le novità del ddl al voto della camera. Nei comuni censimento degli immobili sfitti.
I comuni dovranno censire gli edifici sfitti, inutilizzati o abbandonati per verificare se ci sono alternative alla costruzione di nuovi immobili che comportino ulteriore consumo del suolo inedificato. E ogni anno dovranno inviare una comunicazione al prefetto segnalando le proprietà fondiarie in stato di abbandono e suscettibili, per questo, di arrecare danni al paesaggio o alle attività produttive.
I municipi, che adegueranno i propri strumenti urbanistici alle norme regionali di riduzione del consumo di suolo, verranno iscritti in un apposito registro tenuto dal ministero delle politiche agricole. L'iscrizione all'elenco darà diritto alla priorità nella concessione dei finanziamenti, statali e regionali, finalizzati a realizzare interventi di rigenerazione urbana, bonifiche dei siti contaminati, ripristino delle colture nei terreni agricoli incolti, abbandonati o inutilizzati.

Sono alcune delle principali novità per le amministrazioni locali contenute nel disegno di legge sul consumo del suolo (Atto Camera n. 2039) che giovedì dovrebbe andare al voto dell'aula della camera. Un testo dalla lunga gestazione parlamentare, iniziata più di due anni fa con una serie di proposte di legge a cui è stato abbinato un ddl governativo per iniziativa dell'ex ministro delle politiche agricole Nunzia De Girolamo.
Dopo un lungo periodo di stand by, i lavori sul provvedimento sono ripresi con l'adozione di un nuovo testo base approvato con emendamenti dalle commissioni riunite ambiente e agricoltura di Montecitorio.
L'obiettivo del ddl (che ha come relatori Chiara Braga e Massimo Fiorio, entrambi del Pd) è chiaro e condivisibile: promuovere e tutelare l'attività agricola, il paesaggio e l'ambiente contenendo il consumo del suolo anche allo scopo di prevenire il dissesto idrogeologico e mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici. Per questo viene stabilito che il consumo del suolo (da intendersi come l'incremento della superficie agricola soggetta a interventi di impermeabilizzazione) è consentito solo quando non è possibile riutilizzare aree già urbanizzate. E va motivato in modo specifico e puntuale da parte dei comuni.
Tutti nobili principi che però, come talvolta accade, si scontrano con la vita quotidiana dei comuni, soprattutto quelli più piccoli, che non fanno salti di gioia per l'imminente approvazione del provvedimento.
A preoccupare i sindaci è soprattutto l'art. 11 del ddl (quello sulle norme transitorie) secondo cui, a decorrere dalla data di entrata in vigore della legge, e fino all'adozione dei provvedimenti volti alla riduzione del consumo del suolo, e comunque non oltre il termine di tre anni, «non è consentito il consumo di suolo tranne che per i lavori e le opere inseriti negli strumenti di programmazione delle amministrazioni aggiudicatrici». Una norma che i comuni giudicano troppo restrittiva, oltre che pericolosa, perché aprirebbe la strada a possibili ricorsi da parte degli operatori che hanno già acquisito aree.
Per questo nei mesi scorsi (si veda ItaliaOggi del 27/02/2016) Anci e Anpci avevano scritto ai ministri competenti (Gian Luca Galletti, Maurizio Martina, Graziano Delrio ed Enrico Costa) chiedendo correttivi. A cominciare dall'eliminazione dei limiti all'utilizzo dei proventi dei titoli edilizi per la manutenzione ordinaria e straordinaria delle opere di urbanizzazione già realizzate.
Secondo i sindaci, inoltre, il divieto triennale di consumo di suolo rischia di essere troppo penalizzante, soprattutto per i piccoli comuni, perché renderebbe illegittima la rivendicazione dell'Imu su diritti edificatori previsti, ma non più attivabili. Prospettiva questa «dalle conseguenze economiche insostenibili soprattutto per i mini-enti che si vedrebbero coinvolti in contenziosi fiscali infiniti, destinati a produrre mancate entrate per cifre esorbitanti».
Per scongiurare questo scenario, in occasione del voto finale sul testo, verrà approvato un emendamento che fa salvi gli interventi per i quali «i soggetti interessati abbiano presentato istanza per l'approvazione prima della data di entrata in vigore» della legge.
A chiedere modifiche, in prospettiva del passaggio del testo al senato, è anche l'Uncem in rappresentanza degli enti montani, i veri assenti del disegno di legge. «In nessuna parte del testo si fa riferimento alla montagna, dove il problema non è certo il consumo bensì l'abbandono del suolo», lamenta l'Unione degli enti montani in una nota. «Bisogna privilegiare chi crea aziende, artigianali, turistiche, agricole e genera nuovi posti di lavoro in montagna», scrive l'Uncem.
«Costoro devono poter costruire e ampliare immobili esistenti. Bloccare in montagna come in pianura tutti i nuovi interventi non ha senso, in particolare per comuni ad alta vocazione turistica dove vi possono essere investimenti strategici capaci di portare nuovi posti di lavoro» (articolo ItaliaOggi del 10.05.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIGli acquisti in autonomia inciampano sulle soglie. Appalti. Le nuove regole del Codice non hanno abrogato le vecchie.
Il nuovo Codice degli appalti consente ai Comuni di affidare autonomamente i lavori entro il valore di 150mila euro, ma in sede di acquisizione del Codice identificativo gara (Cig) gli enti scontano il dilemma della confliggenza con la disposizione che limita la loro operatività a 40mila euro.
Il problema nasce dalla stratificazione normativa che si era prodotta rispetto al precedente sistema di centralizzazione degli acquisti per i Comuni non capoluogo, nell’ambito della quale l’articolo 23-ter della legge 114/2014 ha previsto al comma 3 che i Comuni possono procedere autonomamente per gli acquisti di beni, servizi e lavori di valore inferiore a 40mila euro.
Questo limite determinava che, per valori superiori, gli stessi enti dovessero utilizzare uno tra i modelli aggregativi previsti dall’articolo 33, comma 3-bis, del Dlgs 163/2006 (tra cui le centrali di committenza organizzate su base convenzionale): diversamente, non era possibile acquisire il Cig presso il sistema gestito dall’Anac.
Proprio il divieto espressamente previsto dalla normativa ha portato l’autorità a predisporre un passaggio dichiarativo, nell’ambito del quale il Comune richiedente è tenuto a specificare se intende procedere all’acquisizione con il modello aggregativo (e in tal caso la stazione appaltante deve essere uno dei soggetti indicati dall’articolo 33, comma 3-bis del vecchio Codice) oppure nell’ambito del limite dei 40mila euro previsto dall’articolo 23-ter della legge 114/2014.
Con l’entrata in vigore del Dlgs 50/2016, il vecchio sistema dei modelli aggregativi è stato sostituito dalle previsioni dell’articolo 37, comma 4, ma soprattutto la disciplina delle acquisizioni in forma aggregata ha chiarito (commi 1 e 4 dello stesso articolo 37) che i singoli Comuni possono procedere autonomamente, per l’acquisizione di lavori, fino a 150mila euro, dovendo effettuare nella fascia tra 40mila e 150mila la mini-gara con invito ad almeno cinque operatori.
Tutto nasce dalla mancata abrogazione dell’articolo 23-ter, comma 3, della legge 114/2014, in quanto l’articolo 217 del Dlgs 50/2016, alla lettera qq) abroga del 23-ter solo i commi 1 e 2, lasciando in vigore il terzo.
Nell’acquisire il Cig per lavori di valore superiore a 40mila euro e entro i 150mila (con procedure che possono essere gestite autonomamente dai Comuni non capoluogo in base alla combinazione tra l’articolo 36 e l’articolo 37, comma 1, del nuovo Codice dei contratti) le amministrazioni si trovano in difficoltà, poiché la “schermata” del sistema dell’Anac prevede ancora la vecchia disciplina, che tuttavia faceva riferimento al solo limite dei 40mila euro.
Il potenziale conflitto tra il limite dei 40mila euro per i lavori, scritto all’articolo articolo 23-ter, comma 3, della legge 114/2014 e la nuova disciplina dei modelli aggregativi dell’articolo 37 del Dlgs 50/2016 è facilmente risolvibile nell’interpretazione combinata: la soglia dei 40mila euro è ora esplicitamente collegata all’utilizzo dell’affidamento diretto, in base all’articolo 36, comma 2, lettera a) del Codice, mentre i commi 1 e 4 dell’articolo 37 ampliano la possibilità dei Comuni non capoluogo di acquisire autonomamente i lavori (e solo questi) fino a 150mila euro.
Ne consegue la necessità di un adeguamento della schermata del sistema Anac per l’acquisizione del Cig, considerando peraltro che la scelta dell’opzione da parte dei Comuni non capoluogo deve essere effettuata come dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.05.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAAlbo gestori con il bollino blu. In arrivo nuove regole per la verifica della formazione. Razionalizzati i requisiti per i responsabili tecnici di imprese di commercio rifiuti.
Semplificazione dei titoli professionali d'ingresso per i responsabili tecnici di alcune imprese che gestiscono rifiuti, con la prospettiva di dover però sottostare a un severo regime di verifiche periodiche dell'Albo gestori ambientali sulla propria formazione, una volta a regime la nuova disciplina prevista dal dm Ambiente 120/2014.

La razionalizzazione dei titoli. Con deliberazione 20.04.2016 n. 2, il Comitato nazionale dell'Albo nazionale gestori ambientali ha stabilito, intervenendo sul precedente omonimo provvedimento del 15.12.2010 (n. 2), che per l'assunzione dell'incarico di responsabile tecnico nelle imprese di intermediazione e commercio dei rifiuti è ora sufficiente un qualsiasi diploma di scuola secondaria di secondo grado, e questo in luogo degli specifici titoli alternativi prima richiesti di geometra e perito, industriale o chimico.
La novità, finalizzata ad armonizzare gli attuali requisiti previsti per le diverse tipologie di imprese, arriva (come ricordato dalla stessa delibera) nelle more dell'adozione da parte del Comitato nazionale dei provvedimenti attuativi del dm Ambiente 120/2014, decreto che prevede un'ampia riforma su requisiti professionali e formazione della peculiare figura che le imprese di gestione rifiuti hanno l'onere di nominare per poter adempiere all'obbligo di iscriversi all'Albo in base al dlgs 152/2006.
Requisiti professionali e formazione, il regime transitorio. Fino all'emanazione delle nuove disposizioni attuative degli articoli 12 e 13 del dm 120/2014 (il nuovo regolamento dell'Albo gestori ambientali in vigore dal 07/09/2014) continuano, infatti, in base all'articolo 26 dello stesso decreto, ad applicarsi le regole dell'uscente dm 406/1998 (e relative delibere attuative) su titoli professionali e formazione del soggetto responsabile delle azioni dirette ad assicurare corretta organizzazione nella gestione dei rifiuti e vigilanza sul rispetto delle sottese norme.
Ai sensi dell'articolo 11, comma 1, lettera a), del dm 406/1998 i requisiti di idoneità del responsabile tecnico, lo ricordiamo, devono attualmente essere dimostrati mediante apposite certificazioni e consistono (tra le altre) nella «qualificazione professionale» risultante da idoneo titolo di studio (come declinato, per le imprese di commercio/intermediazione rifiuti, dalla citata delibera 2/2010, iscritte nella categoria 8 dell'Albo) e dall'esperienza maturata in settori di attività afferenti o conseguita tramite appositi corsi di formazione.
E proprio in relazione a tali corsi con circolare 14.03.2016 n. 227 il Comitato nazionale ha confermato la validità e gli effetti degli eventi formativi svolti in ossequio alla delibera 16.07.1999, ma solo fino (appunto) all'adozione dei nuovi provvedimenti dell'Albo che, in attuazione del citato dm 120/2014, daranno il via a nuovi percorsi di qualifica professionale.
Formazione, le nuove regole in arrivo. Il dm Ambiente 120/2014 prevede, infatti, a monte una riformulazione delle norme sulla formazione professionale del responsabile tecnico, riformulazione che acquisterà efficacia dalla data di emanazione da parte dell'Albo gestori delle relative delibere che ne disegneranno i dettagli.
Una volta a regime la riforma, in base all'articolo 13 del dm Ambiente 120/2014, l'idoneità dovrà essere dimostrata direttamente all'Albo con il superamento di verifiche sulla competenza professionale sia in fase iniziale che in itinere, sulla base di materie, contenuti, criteri e modalità di svolgimento degli esami decisi dallo stesso Comitato nazionale.
Dispensati da tali verifiche, secondo il tenore dello stesso dm 120/2014, saranno solo i responsabili tecnici coincidenti con i legali rappresentanti delle imprese aventi provata esperienza nei settore di attività oggetto d'iscrizione, secondo criteri comunque stabiliti dall'Albo.
Esonerati invece, in base allo stesso dm 120/2014, dalla sola verifica iniziale saranno esclusivamente i soggetti che già svolgono il ruolo di responsabile tecnico alla data di entrata in vigore della futura nuova disciplina definita dall'Albo (e non dunque quelli che, alla stessa data, risulteranno essere solo titolari di attestati di partecipazione a corsi svoltisi in base alla pregressa normativa).
Gli altri requisiti (già) esigibili. Nuove regole su formazione e titoli professionali a parte (legati dunque alle specifiche e future delibere dell'Albo), ai sensi dell'articolo 10, comma 4, del dm 120/2014 i responsabili tecnici (anche se soggetti esterni) di Enti e imprese che si iscrivono all'Albo dal 07/09/2014 devono comunque avere i requisiti dettati dal comma 2, lettere c), d), f) e i) dello stesso articolo, relativi sostanzialmente al loro status civile e penale.
Tali requisiti, in parziale riforma di quelli previsti dalla pregressa disciplina ex dm 406/1998, coincidono con l'assenza di: interdizioni o inabilitazioni; condanne penali passate in giudicato (anche per patteggiamento o con estinti effetti o condonato, ma senza considerare quelle risalenti a oltre dieci anni o oggetto di estinzione del reato) a pene detentive per reati in materia di ambiente, salute, edilizia, urbanistica o alla reclusione superiore a un anno per delitti non colposi; misure preventive antimafia; falsificazioni nei confronti dell'Albo (articolo ItaliaOggi Sette del 09.05.2016).

ENTI LOCALI: Incidenti rilevati dai vigili pure se avvengono di notte.
Spetta alla polizia municipale organizzare le pattuglie di infortunistica stradale nell'arco dell'intera giornata. In particolare nei fine settimana è necessario garantire anche il turno serale e notturno.

Lo ha chiarito il Capo della Polizia con la circolare 26.01.2016 n. 300/A/485/16/124/62 di prot. indirizzata ai prefetti.
L'accertamento e i rilievi dei sinistri stradali rappresentano da tempo una competenza tipica della polizia municipale che nelle città accerta praticamente la totalità degli incidenti. Ma non basta assicurare questo importante servizio nelle fasce orarie ordinarie.
Per permettere alle forze di polizia dello stato di occuparsi tempestivamente delle questioni prioritarie in materia di ordine e sicurezza occorre che il servizio di infortunistica comunale sia assicurato anche in orario serale e notturno, specifica il ministero dell'interno. Almeno durante i fine settimana.
Per questo motivo i rappresentanti governativi «avranno cura di promuovere ogni utile iniziativa, anche di carattere negoziale, affinché le polizie locali garantiscano, con un'ulteriore presenza sul territorio urbano nell'arco dell'intera giornata e in particolare in coincidenza dei fine settimana, il proprio intervento in caso di sinistro».
Ora la palla passa ai sindaci che dovranno reperire le risorse per finanziare questo nuovo impegno. E non sarà facile visto che di assunzioni non se ne parla e lo straordinario è bloccato da anni. E gli 80 euro non spettano alla polizia locale (articolo ItaliaOggi Sette del 09.05.2016).

INCARICHI PROFESSIONALILa difesa in giudizio è appalto. La singola attività di rappresentanza legale è un servizio. Il dlgs 50 interviene a fare chiarezza su una questione interpretativa di lunga data.
La difesa in giudizio è un appalto di servizi. Il dlgs 50/2016 interviene su una questione interpretativa di lunghissima data, togliendo qualsiasi ulteriore incertezza.
L'articolo 17, comma 1, lettera d), del nuovo codice dei contratti include tra i servizi esclusi dal proprio campo applicativo i servizi legali.
E qui non vi sarebbe alcuna novità rispetto al passato, visto che anche ai sensi del dlgs 163/2006 e del suo allegato IIB i servizi legali erano annoverati tra gli «appalti esclusi».
Il nuovo codice dei contratti cambia passo, quando specifica esattamente cosa si intenda per «servizi legali», elencando una serie di specificazioni, tra le quali spicca quella secondo la quale è appalto di servizi la «rappresentanza legale di un cliente da parte di un avvocato ai sensi dell'articolo 1 della legge 09.02.1982, n. 31, e successive modificazioni», sia in un arbitrato, sia «in procedimenti giudiziari dinanzi a organi giurisdizionali o autorità pubbliche di uno stato membro dell'Unione europea o un paese terzo o dinanzi a organi giurisdizionali o istituzioni internazionali».
Viene, dunque, a cadere la, per altro discutibile, interpretazione fornita da parte della giurisprudenza e, in particolare, dal Consiglio di stato, sezione V, con la sentenza 11.05.2012, n. 2730, secondo la quale potrebbero essere considerati appalti di servizi solo in presenza di un servizio strutturato in una serie di attività legali, che non si esaurisca in un'isolata prestazione di difesa in giudizio. Secondo tale teoria, l'isolata funzione di difesa in giudizio sarebbe, per altro, una mera prestazione di lavoro autonomo, che fuoriuscirebbe dalla sfera di regolazione degli appalti.
Tale assunto del Consiglio di stato era in chiaro contrasto con la normativa europea, che non distingue i servizi tra prestazioni d'opera intellettuali e appalti, né si pone il problema di qualificare l'appaltatore come tale solo se qualificabile come «imprenditore», nozione utile solo nel diritto interno; infatti, ai sensi della normativa europea, è operatore economico o appaltatore anche una persona fisica, purché essa offra servizi nel mercato aperto. Definizione, questa, presente tanto nell'articolo 3, comma 1, lettera p), del dlgs 50/2016, quanto nell'articolo 3, comma 1, n. 19, del dlgs 163/2006.
D'altra parte, il Consiglio di stato aveva anche ritenuto che «l'attività di selezione del difensore dell'ente pubblico, pur non soggiacendo all'obbligo di espletamento di una procedura comparativa di stampo concorsuale, è soggetta ai principi generali dell'azione amministrativa in materia di imparzialità, trasparenza e adeguata motivazione onde rendere possibile la decifrazione della congruità della scelta fiduciaria posta in atto rispetto al bisogno di difesa da appagare».
Affermazione, questa, del tutto contraddittoria: se un affidamento è fiduciario, ovviamente non può darsi conto della circostanza che essa derivi da una procedura trasparente e adeguatamente motivata, perché l'incarico fiduciario si assegna solo in ragione della fiducia nella persona. Il che si contrappone a qualsiasi processo motivazionale razionale, che non sia meramente accertativo appunto della fiducia riposta nella persona e nel curriculum di questa.
Col dlgs 50/2016, comunque, questo filone interpretativo cade del tutto, perché si stabilisce in maniera evidentissima che anche la singola attività di rappresentanza legale è un servizio (per quanto ciò dovesse risultare chiaro da sempre).
A nulla vale osservare, come pure in molti sostengono, che è possibile continuare con gli incarichi intuitu personae, visto che si tratta di servizi esclusi dall'applicazione del codice. Intanto, occorre evidenziare che il dlgs 50/2016 qualifica espressamente come appalto la difesa in giudizio. Si tratta di un appalto escluso, certo; ma non nel senso che allora si procede come si trattasse di una negoziazione tra privati, bensì nel senso che non si devono rispettare pedissequamente le norme di dettaglio del codice, bensì, ai fini della gara, i principi generali indicati dall'articolo 4; in particolare economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità; inconciliabili con l'affidamento fiduciario.
Esattamente come avviene per tutti gli altri contratti esclusi, elencati dal nuovo allegato IX, che sostituisce l'allegato IIB al dlgs 163/2006.
Nel caso in cui gli enti dovessero ricevere atti di precetto o dovessero costituirsi in giudizio rispettando emergenze e ristrettezze di termini processuali, un affidamento diretto potrebbe essere ammesso, semplicemente applicando l'articolo 63, comma 2, lettera c), del codice, che lo consente quando «per ragioni di estrema urgenza derivante da eventi imprevedibili dall'amministrazione aggiudicatrice, i termini per le procedure aperte o per le procedure ristrette o per le procedure competitive con negoziazione non possono essere rispettati» (articolo ItaliaOggi del 06.05.2016).

APPALTIAlle stazioni appaltanti ampia discrezionalità nell'imporre i nuovi obblighi assicurativi.
Alla stazione appaltante ampia discrezionalità nell'imporre i nuovi obblighi assicurativi. Con l'emanazione del decreto legislativo 50/2016 si apre un nuovo ciclo anche per quanto riguarda gli obblighi assicurativi negli appalti pubblici.
Questo per due ragioni. Cambiano le modalità di presentazione sia di alcune garanzie fideiussorie (quella per la risoluzione di cui all'articolo 104 è proprio una new entry) sia della polizza per i progettisti interni (scompare infatti l'obbligo per i verificatori).
La seconda novità non è meno importante: pur resistendo il principio della tassatività delle cause di esclusione (introdotto all'ultimo minuto su indispensabile spinta del Consiglio di stato) si afferma la massima discrezionalità della stazione appaltante per quanto concerne le garanzie fideiussorie.
Si tratta:
• della determinazione dell'importo della garanzia provvisoria che può variare dell'1% del prezzo base al 4%;
• della possibilità di escussione della garanzia provvisoria, prevista solo per dolo o colpa grave;
• della verifica dei requisiti dei fideiussori sia per la garanzia provvisoria che per quella definitiva ma anche per la nuova di cui all'articolo 104;
• dell'integrazione dei bandi nel caso in cui il concorrente preferisca presentare la garanzia definitiva come cauzione (senza quindi rivolgersi a un terzo garante);
• dell'applicazione del nuovo soccorso istruttorio sanzionato (vedi articolo 83, comma 9) in caso di mancanza o irregolarità nella presentazione della garanzia provvisoria (si ricorda che non è stata riportata la disposizione di cui al vecchio comma 1-ter dell'articolo 46 del codice del 2006).
Si prevede, inoltre, che è facoltà dell'amministrazione non richiedere una garanzia per gli appalti da eseguirsi da operatori economici di comprovata solidità nonché per le forniture di beni che per la loro natura, o per l'uso speciale cui sono destinati, debbano essere acquistati nel luogo di produzione o forniti direttamente dai produttori o di prodotti d'arte, macchinari, strumenti e lavori di precisione, l'esecuzione dei quali deve essere affidata a operatori specializzati.
L'esonero dalla prestazione della garanzia deve essere adeguatamente motivato ed è subordinato ad un miglioramento del prezzo di aggiudicazione (articolo 103, comma 11).
Per il contraente generale si prevede che egli presti «una volta istituita, la garanzia per la risoluzione di cui all'articolo 104, che deve comprendere la possibilità per il garante, in caso di fallimento o inadempienza del contraente generale, di far subentrare nel rapporto altro soggetto idoneo in possesso dei requisiti di contraente generale, scelto direttamente dal garante stesso» (articolo 194, comma 18).
Altre polizze. Per quanto riguarda le altre polizze, scomparendo l'obbligo di seguire gli schemi tipo per la polizza dei progettisti (articolo 24, comma 4), sono a carico delle stazioni appaltanti le polizze assicurative per la copertura dei rischi di natura professionale a favore dei dipendenti incaricati della progettazione. Nel caso di affidamento della progettazione a soggetti esterni, le polizze sono a carico dei soggetti stessi.
Se ben consigliate, le stazioni appaltanti potrebbero includere questa copertura nelle proprie polizze già in essere, con un notevole risparmio di denaro pubblico e di tempo dei propri collaboratori (fermo restando che comunque la copertura per i danni erariali, anche delle altre figure tecniche, deve essere pagata dalla singola persona assicurata, mai dall'ente di appartenenza).
Per quanto concerne i comuni, anche l'istituto del baratto amministrativo (articolo 190) deve portare ad una riflessione sulle responsabilità e quindi sulla copertura delle persone che aderiscono.
Questo solo per dare un'idea della complessità di interpretazione della nuova normativa, anche in campo assicurativo (articolo ItaliaOggi del 06.05.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

INCARICHI PROGETTUALIIngegneri, formazione continua rivista. Aumentano le opzioni per il riconoscimento crediti.
Nuove regole per la formazione continua degli ingegneri. Per ottenere l'esonero per paternità o maternità, malattia grave, o per lavoro all'estero, le istanze devono essere presentate entro il 31 gennaio dell'anno solare successivo a quello di inizio del periodo di esonero. Sono riconosciuti, poi, ai fini del conferimento di crediti formativi, i master, i brevetti, gli stage e i tirocini.
Anche in questo caso, le istanze di riconoscimento devono essere inviate al proprio ordine di appartenenza entro il 31 gennaio dell'anno successivo a quello in cui il corso è terminato.

Lo ha stabilito il Consiglio nazionale degli ingegneri con le linee di indirizzo n. 4 trasmesse agli ordini territoriali tramite la circolare 29.04.2016 n. 722.
Esoneri. In generale, il periodo di esonero dalla formazione deve consistere in un numero intero di mesi ed esclude il giorno di fine periodo. Nel caso di esoneri che si intendono su due annualità consecutive, i 2,5 crediti previsti per singolo mese saranno attribuiti solo per i mesi con un numero di giorni di esonero superiore a 15. Non è possibile, inoltre, chiedere la revoca di un esonero già concesso.
L'esonero per paternità/maternità può essere richiesto una sola volta per singolo figlio e deve essere inferiore a 12 mesi, non è frazionabile in più periodi salvo in caso di entrambi i genitori iscritti all'albo. L'esonero per malattia cronica grave o assistenza a persone malate, è concesso senza una scadenza e si intende automaticamente rinnovato all'inizio di ogni anno fino a richiesta di revoca da parte del professionista.
Crediti. Sono riconosciuti i master di primo e secondo livello universitario svolti in Italia e all'estero e per tutti i master sono attribuiti 30 crediti alla data di superamento dell'esame finale. Inoltre, sono concessi crediti per brevetti sia al titolare che all'inventore, purché sia indicato nel brevetto.
Al termine dello svolgimento di stage formativi attinenti all'ingegneria di durata minima di tre mesi e frequenza di almeno 20 ore settimanali, possono essere riconosciuti cinque crediti per stage; massimo uno stage per anno solare; nel caso di stage svolti all'estero è possibile assegnare cinque crediti per stage di durata minima di due mesi.
Ai fini del riconoscimento dei crediti per stage e tirocini, occorre inviare, entro il 31 gennaio dell'anno successivo in cui si è terminato lo stage, una richiesta all'ordine con: descrizione del tirocinio; lettera di attestazione a firma del legale rappresentante dell'azienda che ha ospitato il professionista; relazione del tutor assegnato (articolo ItaliaOggi del 06.05.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI: Il parlamento ci riprova: accordo per una legge sui piccoli comuni.
Semplificazione amministrativa, snellimento delle procedure, salvaguardia dei servizi postali e delle attività scolastiche, banda ultralarga, riqualificazione dei centri storici. E ancora, recupero di case cantoniere Anas e stazioni ferroviarie dismesse, contrasto all'abbandono di terreni e fabbricati. E un fondo di 100 milioni di euro per finanziare progetti e interventi per lo sviluppo strutturale, economico e sociale delle aree montane.

È un ricco pacchetto di interventi quello contenuto nel progetto di legge sui piccoli comuni e la montagna (Atto Camera n. 65) che ha l'arduo compito di riuscire là dove nelle precedenti legislature tutti hanno fallito, ossia dare delle norme ad hoc alle zone più svantaggiate del paese in modo da favorirne la sopravvivenza e la ripresa.
«Siamo a una svolta. Dopo tre anni di lavoro, siamo finalmente giunti a un testo base condiviso anche con il governo», ha commentato Enrico Borghi (Pd), presidente dell'Uncem e dell'Intergruppo parlamentare per lo sviluppo della montagna, che è anche co-relatore del progetto di legge alla camera assieme ai deputati Tino Iannuzzi e Antonio Misiani.
Dopo aver ottenuto l'assenso del governo, l'obiettivo dei deputati proponenti è arrivare a una rapida approvazione del testo. L'ok in commissione potrebbe arrivare entro la fine di maggio e il sì di Montecitorio entro l'estate.
«Ci sono due elementi chiave sui quali abbiamo lavorato», spiega Borghi. «Il primo è il tema dello sviluppo: se non creiamo le condizioni per la crescita e l'impiego delle risorse di questi territori, non ci possono essere prospettive di insediamento per il futuro ed è concreto il rischio dell'assorbimento da parte delle aree metropolitane, che offrono lavoro, cultura, servizi e innovazione in maggiore quantità. Il secondo è il tema dei servizi: senza assicurare certezze nel campo dei servizi di base (scuole, servizi postali, trasporti, sanità) vengono meno i diritti di cittadinanza» (articolo ItaliaOggi del 06.05.2016).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOContratti, incognita rinnovi. Gli enti devono accantonare risorse ma non sanno come. Anci Piemonte suggerisce un metodo empirico: stanziare il 70% del costo dell'Ivc.
Incognita rinnovi contrattuali per gli enti locali. Al momento mancano parametri certi per quantificare l'impatto finanziario dei nuovi contratti, che per la prima volta dal 2010 dovrebbero tornare ad aumentare (sia pure di poco) gli stipendi dei dipendenti. Un aiuto arriva, però, da una recente nota dell'Anci Piemonte (nota 21.04.2016 n. 55/2016 di prot. - Oggetto. Nota interpretativa sulla quantificazione del fondo risorse decentrate e sull’impatto contabile dei rinnovi contrattuali).
Come noto, a seguito sentenza della Corte costituzionale n. 178/2015, la legge 208/2015 ha definito il periodo di vigenza al triennio 2016-2018 ed ha fissato l'entità massima dell'onere a carico dello Stato in 300 milioni annui (di cui 219 per il personale contrattualizzato). Ai sensi dell'art. 48, comma 2, del dlgs 165/2001, per gli enti locali l'onere relativo al rinnovo è a carico dei rispettivi bilanci (comma 469). La definizione dei criteri per la determinazione del costo a carico delle amministrazioni locali è demandato ad un dpcm che avrebbe dovuto essere emanato entro il 31.01.2016, ma che finora non è stato emanato.
In base alle nuove regole contabili, peraltro, non è possibile impegnare nessuna somma fino alla sottoscrizione dei contratti, perché solo in quel momento si concretizza il requisito dell'obbligazione giuridicamente perfezionata. Nelle more, è però possibile (e anche opportuno) accantonare già quest'anno le risorse necessarie, in modo da ripartirne l'onere sui diversi esercizi. Ma come quantificarlo? In mancanza di indicazioni ufficiali, può essere utilizzato il metodo suggerito da una recente nota dell'Anci Piemonte.
Quest'ultima confronta lo stanziamento di 219 milioni per il rinnovo 2016-2018 del personale statale contrattualizzato con lo stanziamento per l'indennità di vacanza contrattuale (Ivc) attualmente erogata allo stesso personale (art. 9, comma, 18 lett. a), del dl 78/2010), che è pari a 313 milioni. Dunque, per lo stato il rapporto percentuale tra il costo preventivato per il nuovo contratto e il costo sostenuto per l'Ivc è pari al 70%.
Lo stesso rapporto percentuale si può ritenere che, grosso modo, valga anche per gli enti locali che per il rinnovo contrattuale sosterranno un costo coerente con quanto stabilito per lo Stato ed erogano ai propri dipendenti l'Ivc nella stessa misura fissata nel 2010 per i dipendenti statali, applicando le tabelle di conversione elaborate dal Mef. In sostanza, secondo Anci Piemonte, si può ritenere con buona approssimazione che per ciascun ente lo stanziamento annuo necessario per finanziare il rinnovo sia pari a circa il 70% del costo (certo e conosciuto) che l'ente stesso sostiene per erogare ai suoi dipendenti l'Ivc.
La stessa nota evidenzia, peraltro, due ulteriori problemi. In primo luogo, se si dovesse consolidare la tesi già sostenuta dalle sentenze di alcuni tribunali del lavoro (Reggio Emilia n. 51/2016 e Parma n. 114/2016) che hanno riconosciuto ai dipendenti pubblici il diritto al rinnovo contrattuale dal 30.07.2015, occorrerà reperire ulteriori risorse necessarie per coprire il periodo in questione.
In secondo luogo, il nuovo modo di contabilizzare gli oneri per i rinnovi farà registrare nell'anno del rinnovo un incremento delle spese di personale impegnate, creando difficoltà nel rispetto il pareggio di bilancio e di alcuni parametri di virtuosità imposti alla spesa di personale (articolo ItaliaOggi del 06.05.2016).

APPALTI SERVIZI: Spl, in house e gestione diretta vanno considerati l'ultima spiaggia.
Prevedere l'affidamento in house o la gestione diretta dei servizi pubblici locali come «ultima spiaggia», da utilizzare nei soli casi in cui non sia possibile il ricorso al mercato.

È quanto il Consiglio di Stato, Commissione speciale, suggerisce al governo nel parere 03.05.2016 n. 1075, (Schema di decreto legislativo recante: “Testo unico sui servizi pubblici locali di interesse economico generale), con il quale i giudici di palazzo Spada hanno elencato i punti sui quali lo schema di decreto legislativo di riforma della materia in attuazione della legge Madia necessita di una messa a punto.
In base al testo predisposto dall'esecutivo, le p.a. possono utilizzare quattro differenti forme di gestione:
1) affidamento mediante procedura di evidenza pubblica secondo le disposizioni in materia di contratti pubblici;
2) affidamento a società mista il cui socio sia scelto con procedura di evidenza pubblica in ossequio alla disciplina comunitaria e a quella contenuta nel decreto delegato sulle società partecipate di cui all'art. 18, legge 124/2015;
3) affidamento in house nel rispetto della disciplina comunitaria e di quella in materia di contratti pubblici e di società partecipate;
4) nel caso di servizi diversi da quelli a rete, gestione in economia o mediante azienda speciale.
La scelta deve indicare le motivazioni che fanno propendere per una delle tipologie sopra specificate. Ebbene, il Cds propone di prevedere che il provvedimento debba motivare progressivamente in ordine all'impossibilità di utilizzare lo strumento dell'affidamento mediante procedura di evidenza pubblica, ovvero quello di affidamento a società mista o ancora quello di affidamento in house, secondo una logica di preferenza via via decrescente, che metta in luce le ragioni che conducono ad un'eventuale limitazione del ricorso al mercato.
Qualora l'amministrazione scelga di non ricorrere al mercato ovvero di utilizzare il modello dell'affidamento in house, o quello della gestione diretta, questa dovrà indicare le ragioni per le quali il ricorso al mercato comparativamente non sia vantaggioso. L'impossibilità di ricorso al mercato deve essere valutata anche alla luce di suddividere in lotti il servizio, in modo tale da consentire l'attività di più imprese. In caso di mancato ricorso al mercato, inoltre, il provvedimento dovrà essere sottoposto alle valutazioni dell'Antitrust, dinanzi alla quale può aprirsi un contraddittorio.
Al riguardo, il Cds sollecita un'ulteriore modifica per ribadire che il contraddittorio con l'Antitrust non esclude che quest'ultima possa utilizzare il potere normato dall'art. 21-bis, legge 287/1990, in modo da non dare adito a dubbi in ordine al fatto che l'intervento dell'Autorità possa verificarsi anche a valle del provvedimento adottato dall'amministrazione (articolo ItaliaOggi del 06.05.2016).

APPALTI: Acquisti centralizzati, dall'Anci le linee guida per i municipi.
Dal 9 agosto i comuni dovranno obbligatoriamente fare ricorso alle procedure di acquisto centralizzato tramite soggetti aggregatori (Consip, città metropolitane, regioni) se il fabbisogno annuo per le categorie merceologiche di interesse è superiore alle soglie previste dal dpcm 24.12.2015 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 9 febbraio e in vigore appunto dal 09.08.2016).
Per i servizi di vigilanza e guardiania, ad esempio, si dovrà far ricorso agli acquisti centralizzati se il fabbisogno annuo supera i 40 mila euro. Mentre per la pulizia e manutenzione di immobili e la manutenzione degli impianti non si dovrà superare la soglia comunitaria (209 mila euro).

A richiamare l'attenzione delle amministrazioni sulle nuove modalità d'acquisto centralizzato, anche a seguito dell'entrata in vigore del nuovo Codice appalti (dlgs n. 50/2016) è l'Anci che ha messo a punto una nota informativa (maggio 2016) per fare chiarezza sul groviglio di regole in materia. A cominciare proprio dal citato dpcm, attuativo del dl 66/2014, che chiamerà gli enti a una ricognizione dei fabbisogni annui di beni e servizi per verificare che non superino le soglie indicate nel provvedimento.
Per energia elettrica, gas, carburanti, combustibili per riscaldamento e telefonia, valgono invece regole diverse. Per queste categorie merceologiche, ricorda l'Anci, vi è l'obbligo di approvvigionarsi attraverso convenzioni o accordi quadro, ma è fatta salva la possibilità di far ricorso agli affidamenti a condizione che si realizzino risparmi di almeno il 10% per la telefonia fissa e mobile e del 3% per le altre categorie, rispetto ai prezzi praticati da Consip e dalle centrali di committenza regionali.
Per i beni e i servizi informatici si potrà derogare alle centrali di committenza su autorizzazione del segretario/direttore generale dell'ente e solo per «casi di necessità ed urgenza funzionali ad assicurare la continuità della gestione amministrativa» (articolo ItaliaOggi del 06.05.2016).

TRIBUTITerreni incolti con esonero Imu. Niente prelievo in montagna - In pianura beneficio solo per coltivatori diretti e Iap.
Tributi locali. La risposta del Mef in commissione Finanze alla Camera: per aree non coltivate e orti valgono le regole generali.
I terreni incolti e gli orti rientrano nel novero dei « terreni agricoli», e quindi seguono le stesse regole dell’esenzione Imu, riscritte per l’ennesima volta dall’ultima legge di Stabilità (comma 13 della legge 208/2015).
Suonano così le indicazioni fornite ieri dal viceministro all’Economia Enrico Zanetti nel corso del question-time in commissione Finanze alla Camera (INTERROGAZIONE A RISPOSTA IMMEDIATA IN COMMISSIONE 5/08570), in risposta a Gian Mario Fragomeli (Pd) che chiedeva lumi sul destino fiscale dei «terreni non condotti da imprenditori agricoli, come quelli incolti e gli orti». Quando si parla di Imu agricola, però, l’intreccio delle regole è ormai inestricabile, e anche le indicazioni arrivate dall’Economia si muovono con cautela tra le tante variabili e hanno bisogno del solito sforzo interpretativo.
Per capire i termini del problema non si può evitare di addentrarsi nello slalom fra le norme. L’ultima manovra, nel tentativo di rimediare al pasticcio creato nel 2014 e ancora sotto esame alla Corte costituzionale dopo un dibattito infinito al Tar del Lazio, ha riesumato la circolare del 1993 per distinguere i Comuni montani da quelli «parzialmente montani» e dai pianeggianti, assicurando l’esenzione Imu a tutti i terreni montani e, in pianura, a quelli «posseduti e condotti dai coltivatori diretti e dagli imprenditori agricoli professionali».
Il panorama fiscale, quindi, prevede in sintesi queste tre situazioni: nei Comuni montani sono esenti tutti i terreni, nei Comuni «parzialmente montani» l’esenzione è riservata ai terreni inclusi sempre nella circolare del 1993, e in pianura l’Imu evita tutti i terreni posseduti e condotti da coltivatori diretti e imprenditori agricoli professionali.
Su queste basi, l’interrogazione ha chiesto di capire il trattamento fiscale previsto per i «terreni non condotti da imprenditori agricoli, come quelli incolti e gli orti», ma la risposta ministeriale si è avventurata in una ricostruzione più ampia. Accanto alla legge di Stabilità, il punto di partenza richiamato da Zanetti è una sentenza di Cassazione (la 7369/2012, riferita all’Ici ma ritenuta dal ministero applicabile anche all’Imu), in cui si dice in pratica che per essere definito «agricolo» è sufficiente che il terreno sia «suscettibile di essere destinato a tale utilizzo», mentre non è indispensabile «l’effettivo esercizio» dell’attività agricola. Di conseguenza, chiude la risposta ministeriale, terreni incolti e gli orti «devono essere considerati nel novero dei terreni agricoli, e sono esclusi dall’applicazione dell’Imu nei termini declinati dal comma 13» dell’ultima manovra.
Se questa è la situazione, il caleidoscopio dell’Imu sui terreni muta ancora, e contempla un’altra esenzione: nei Comuni montani, l’Imu evita tutti gli orti e i terreni incolti, nei Comuni di pianura invece l’esenzione è limitata ai terreni dei coltivatori diretti e degli imprenditori agricoli professionali. Ergo: i terreni incolti e gli orti di proprietari che non hanno la qualifica di coltivatore diretto o di Iap continuano a pagare. In questo senso, infatti, andrebbe intesa la precisazione finale secondo cui anche negli orti e nei terreni incolti l’esenzione funziona «nei termini declinati dal comma 13» dell’ultima legge di Stabilità.
Le indicazioni dell’Economia non fanno piacere ai Comuni, che sull’Imu dei terreni incolti hanno da tempo ingaggiato una battaglia interpretativa con l’amministrazione finanziaria. L’Ifel, in particolare, nel 2012 aveva sostenuto l’imponibilità di tutti i terreni incolti, anche in montagna, sulla base di un orientamento opposto rispetto a quello poi indicato dalla Cassazione richiamata ora dal Governo: in quello stesso 2012, con la circolare 3 del dipartimento Finanze, il ministero aveva escluso dall’imposta i terreni incolti collinari e montani, e con la risposta di ieri il beneficio scende in pianura, ma solo per una parte dei proprietari.
Questa moltiplicazione delle “fonti” e la scarsa fondatezza logica di alcune di queste distinzioni mostrano che servirebbe una regola chiara e definitiva
(articolo Il Sole 24 Ore del 05.05.2016).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICADdl consumo suolo, si cerca deroga salva-costruzioni. Ambiente. Verso il via libera in prima lettura alla Camera: in arrivo un emendamento per ampliare le eccezioni alla nuova disciplina.
Sarà sufficiente, per mettersi al riparo, avere presentato un’istanza per l’approvazione del proprio intervento di costruzione prima dell’entrata in vigore della legge.
È con questa deroga, al voto con ogni probabilità giovedì prossimo, che la maggioranza prova a chiudere la polemica con i Comuni e a mandare in porto il Ddl sul consumo di suolo (Atto Camera n. 2039), in prima lettura alla Camera. L’aula di Montecitorio, nel corso di una mattinata di discussione, ieri ha completato il voto su dieci degli undici articoli del testo. Anche se tra gli operatori, Comuni in testa, restano forti dubbi sui troppi vincoli posti dalle nuove norme.
Insomma, siamo alle battute decisive. Così, il ministro dell’Ambiente, Gian Luca Galletti auspica: «Mi auguro si possa tagliare al più presto alla Camera e poi rapidamente nella lettura al Senato un traguardo straordinariamente importante per il nostro Paese». All’appello adesso mancano solo le correzioni sull’articolo 11, relativo alla fase transitoria, il tassello più contestato del provvedimento. Qui i relatori (Chiara Braga e Massimo Fiorio, entrambi del Pd) hanno in programma di inserire solo una modifica. Saranno, così, fatti salvi gli interventi per i quali «i soggetti interessati abbiano presentato istanza per l’approvazione prima della data di entrata in vigore» della legge.
In questo modo, secondo quanto spiega proprio la responsabile Ambiente del Pd, Chiara Braga, «abbiamo risposto alle osservazioni che ci erano arrivate dall’Anci sul rischio di ricorsi e contenziosi con operatori che avevano già acquisito delle aree. La riformulazione fa salvi gli interventi su cui è stata già presentata un’istanza». Ma non solo. Si stabilisce anche che tutte le opere pubbliche o di pubblica utilità sono consentite, «previa obbligatoria valutazione» delle alternative di localizzazione che non determinino consumo di suolo. Insomma, arrivano forti aperture. «Mi sembra –spiega Fiorio- che siano state appianate le divergenze delle scorse settimane, andando incontro alle richieste che ci erano arrivate. Non si può certo dire che questa legge blocca l’edificazione».
Stefano Lo Russo, assessore all’Urbanistica di Torino e presidente della commissione Urbanistica dell’Anci è d’accordo: «Siamo contenti che siano state recepite le nostre richieste, la vecchia impostazione avrebbe prodotto un blocco e un contenzioso a cascata». Anche se tiene a precisare che «noi avremmo preferito un’impostazione diversa, nella quale dare maggiore peso al tema della rigenerazione, partendo dal basso e dalla necessità di semplificazioni amministrative, premialità e incentivi fiscali». Insomma, il testo che uscirà dalla Camera potrebbe creare troppi vincoli.
Tornando alle modifiche votate ieri, quella principale è arrivata in seguito a una proposta della maggioranza Pd. Stabilisce che «allo scopo di favorire la sicurezza e l’efficienza energetica del patrimonio edilizio esistente, per gli edifici residenziali in classe energetica E, F o G, o inadeguati dal punto di vista sismico o del rischio idrogeologico», sono consentiti interventi di demolizione con ricostruzione, all’interno della stessa proprietà. Questi interventi, che dovranno portare a una prestazione energetica di classe A o superiore, potranno beneficiare di uno sconto sugli oneri da versare per il permesso di costruire. Saranno le Regioni a dover quantificare questo bonus. Un emendamento che fa il paio con un’altra modifica, che istituisce uno sconto anche per gli interventi di recupero.
In caso di ristrutturazioni, «i Comuni provvedono a modulare la determinazione dei costi di costruzione in modo da garantire un regime di favore». Insomma, gli sconti sui costi di costruzione potranno essere applicati anche alle ristrutturazioni
(articolo Il Sole 24 Ore del 05.05.2016).

ATTI AMMINISTRATIVIPrivacy con regole europee. Provvedimento in guue, ora due anni di tempo.
L'Ue ha il suo regolamento per la privacy, unico per tutti gli stati dell'Unione.

È stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dell'Unione Europea del 04.05.2016 il Regolamento (Ue) 2016/679 del parlamento europeo e del consiglio del 27.04.2016.
Tra le novità: l'obbligo di nomina del responsabile della protezione dei dati (data protection officer), nuove misure di sicurezza (valutazione di impatto privacy) e nuovi diritti per le persone (oblio, portabilità dei dati).
Il provvedimento entra formalmente in vigore il ventesimo giorno dalla pubblicazione, ma si apre ora una finestra di due anni per prepararsi all'applicazione. L'articolo 99 del provvedimento prevede, infatti, l'inizio della decorrenza effettiva a partire dal 25.05.2018. Sembra un termine molto lungo, ma in realtà c'è molto da fare, soprattutto per le imprese, le pubbliche amministrazioni e professionisti, per il legislatore e il garante.
In questo biennio bisogna verificare lo stato della nostra legislazione e dei provvedimenti del garante, per verificare quali continueranno e in che misura a rimanere in piedi in un contesto totalmente cambiato. I due anni di vacatio serviranno a testare il grado di uniformità della legislazione e della normativa italiana ai parametri del regolamento e, soprattutto, per il garante per dare indirizzi su come comportarsi. Quanto a aziende, enti pubblici e professionisti il tempo a disposizione deve essere messo a disposizione per misurare il grado di conformità agli standard, ormai, europei.
Il regolamento impone, infatti, nuovi adempimenti, da conoscere e attuare. Si pensi alla nomina del responsabile della protezione dei dati, obbligatoria per enti pubblici e soggetti privati che trattano dati su larga scala, e alla analisi dei rischi e valutazione di impatto privacy (nuovi adempimenti in materia di sicurezza). Altri adempimenti portati dal regolamento riguardano la tenuta dei registri del trattamento e l'uso di applicazioni e sistemi che hanno la tutela della privacy come impostazione predefinita (privacy by default).
Il regolamento rafforza, poi, la protezione dei dati delle persone fisiche, codificando ed estendendo il diritto all'oblio e alla portabilità dei dati e alla opposizione e alla tutela dei minori in rete. Insieme al regolamento è stato pubblicata anche la direttiva che regola i trattamenti di dati personali nei settori di prevenzione, contrasto e repressione dei crimini. La direttiva è vigente da oggi, 05.05.2016, gli stati membri hanno tempo due anni per recepire le disposizioni nel diritto nazionale.
Secondo Antonello Soro, presidente del garante «il regolamento porta grandi novità sul piano della tutela dei diritti e degli strumenti previsti per responsabilizzare maggiormente le imprese stabilendo, al contempo, significative semplificazioni» (articolo ItaliaOggi del 05.05.2016).

TRIBUTITerreni incolti senza Imu. Anche orti e orticelli non pagano l'imposta. Il chiarimento dell'Economia fornito al question-time alla Camera.
Terreni incolti, orti e orticelli esenti da Imu, alla stessa stregua di quelli posseduti e condotti da coltivatori diretti e imprenditori agricoli professionali (Iap). Non conta, infatti, l'effettivo esercizio delle attività agricole su di essi, ma la potenzialità agricola degli stessi.

Questa la risposta fornita, nell'ambito della VI Commissione finanze della camera, dal sottosegretario all'Economia Pier Paolo Baretta al quesito proposto da Fragomeli e altri (INTERROGAZIONE A RISPOSTA IMMEDIATA IN COMMISSIONE 5/08570), sul tema dell'esenzione dall'applicazione dell'imposta municipale, dopo l'intervento del legislatore avvenuto con il comma 13, dell'art. 1, legge 208/2015 (Stabilità 2016), stante il rischio che la stessa non potesse essere applicata ai terreni posseduti da contribuenti «non» imprenditori agricoli.
Dal 1° gennaio scorso, infatti, grazie alle disposizioni appena richiamate, sono esenti dall'imposta municipale propria (Imu), i terreni agricoli posseduti e condotti dai coltivatori diretti e dagli imprenditori agricoli professionali, se iscritti nella relativa previdenza agricola, i terreni ubicati nei comuni delle isole minori (all. «A», legge 448/2001) e i terreni a immutabile destinazione agro-silvo-pastorale a proprietà collettiva indivisibile e inusucapibile.
In effetti, l'esenzione appena indicata, di cui alla lettera h), comma 1, art. 7, dlgs 504/1992, come richiamato dalla disciplina dell'imposta municipale propria (Imu), a decorrere dal 2016 si applica sulla base dei principi indicati nella circolare 14/06/1993 n. 9 del ministero delle finanze.
L'esenzione appena citata opera per tutti i terreni agricoli posseduti da coltivatori diretti e Iap, ovunque ubicati, mentre, sino al 2015, l'esenzione era limitata ai terreni ubicati nelle zone montane e parzialmente montane, con la conseguente abrogazione della misura ridotta del moltiplicatore (75) e della franchigia (comma 8-bis, art. 13, dl 201/2011).
Sul tema è stata posta la questione se, in conformità a quanto previsto dalla legge di Stabilità 2016, a decorrere dal 2016, dovessero restare esclusi dal tributo anche i terreni «non» propriamente agricoli (o meglio non utilizzati per le dette attività), come quelli incolti e gli orti, posseduti anche da soggetti diversi, rispetto ai tipici imprenditori agricoli.
L'amministrazione finanziaria, ricordando i contenuti appena esplicitati delle disposizioni introdotte dalla legge 208/2015 e, soprattutto, richiamando una recente affermazione dei giudici supremi (Cassazione, sentenza n. 7369/2012), ancorché riferibile all'imposta comunale sugli immobili (Ici), ha precisato che i terreni incolti e gli orti debbano essere considerati nel novero dei terreni agricoli, con l'estensione agli stessi dell'esenzione prescritta, in ossequio a quanto indicato dal citato comma 13, dell'art. 1, legge di Stabilità 2016.
Infatti, ancorché la citata sentenza sia riferibile ad altro tributo locale (Ici) e non all'imposta municipale propria (Imu), è evidente che le definizioni utilizzate per il previgente tributo locale siano ancora valide per il nuovo tributo locale, tenuto conto che il presupposto per l'applicazione è il mero possesso di immobili sul territorio nazionale.
La Cassazione, nella sentenza richiamata, aveva affermato che, per terreno agricolo, si dovesse intendere quello «adibito all'esercizio delle attività indicate nell'art. 2135 del codice civile» e che detta indicazione, in conformità alle disposizioni contenute negli articoli 3 e 53 della carta costituzionale, debba essere intesa anche con riferimento a tutti i terreni suscettibili di essere destinati a detto utilizzo (agricolo) e non soltanto in dipendenza dell'effettivo esercizio delle citate attività agricole su detti fondi (articolo ItaliaOggi del 05.05.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICISenza Durc stop ai lavori edili. Regolarità contributiva. Il ministero del Lavoro risponde a un interpello del Consiglio nazionale ingegneri.
Se non c’è il Durc si fermano i lavori edili nel condominio.
Questa, in sintesi, la risposta all'interpello 21.03.2016 n. 1/2016 in materia di sicurezza sul lavoro fornito dalla commissione istituita presso il ministero del Lavoro.
Il Consiglio nazionale degli ingegneri ha chiesto di conoscere la corretta interpretazione dell’articolo 90, commi 9 e 10, del decreto legislativo 81/2008, anche alla luce delle novità in materia di documento unico di regolarità contributiva contenute nel Dm del 30.01.2015 (il Durc on-line). La norma stabilisce tra l’altro gli obblighi in capo al committente o al responsabile dei lavori, nel caso di lavori privati in edilizia, quali ad esempio una ristrutturazione condominiale.
I chiarimenti forniti dalla Commissione consentono di tracciare una guida chiara per gli amministratori che appaltino dei lavori edili nel condominio. Vediamo gli obblighi e le eventuali sanzioni. Per prima cosa l’amministratore del condominio verifica l’idoneità tecnico-professionale delle imprese affidatarie, delle imprese esecutrici e dei lavoratori autonomi acquisendo:
- certificato di iscrizione alla Camera di commercio;
- Durc;
- autocertificazione in ordine al possesso dei requisiti indicati nell’allegato XVII al Testo unico.
Attualmente, l’amministrazione acquisisce direttamente il Durc e pertanto non è compito del committente inviarlo unitamente alla Dia. È assolutamente necessario, tuttavia, che la regolarità delle imprese che eseguono i lavori edili sia preventivamente verificata. Soprattutto perché, nel caso in cui l’impresa o il lavoratore autonomo che realizzano i lavori non posseggano il Durc (o meglio, non siano regolari nei confronti di Inps, Inail e Cassa edile, perché di per sé il Durc non può essere emesso nel caso di irregolarità), l’efficacia del titolo abilitativo viene sospesa.
Gli uffici comunali, acquisito direttamente il documento, ove non vi sia la regolarità contributiva, imporranno lo stop ai lavori. E lo stesso effetto potrebbe verificarsi nel caso di sopralluogo degli organi di vigilanza (si pensi per esempio alle verifiche degli ispettori del lavoro o a un accertamento congiunto Inail-Inps-Direzione provinciale lavoro e servizi ispettivi delle Asl).
La Commissione ricorda che lo stop ai lavori può far seguito anche a un accertamento ispettivo nel corso del quale emerga l’assenza della regolarità contributiva per un’impresa presente in cantiere: in tal caso, infatti, è obbligo dell’organo vigilante comunicare agli uffici comunali quanto riscontrato al fine della sospensione del titolo abilitativo.
Anche in questo caso, evidentemente, è necessario che l’amministratore presti la necessaria attenzione al fine di evitare sgradite sorprese: in particolare, ovviamente, dovranno accedere al cantiere soltanto le imprese segnalate al Comune e di cui si è preventivamente accertata la regolarità contributiva
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.05.2016).

EDILIZIA PRIVATAArchiviazione. Catasto interamente digitale.
Addio alla carta e spazio al digitale. Da ieri l'Agenzia delle entrate interrompe l'archiviazione cartacea degli atti di aggiornamento catastale a favore di quella informatica nell'ambito del Sistema di Conservazione dei Documenti digitali SCD.

Una novità che attua quanto previsto dal nuovo Codice dell'amministrazione digitale e che porterà vantaggi sia per l'Agenzia sia per le categorie professionali e i cittadini, in un'ottica di trasparenza, efficienza e spending review.
Dal 01.06.2015, la trasmissione telematica degli atti di aggiornamento catastale Pregeo e Docfa è stata resa obbligatoria per i tecnici professionisti.
Da ieri, per il catasto terreni, sono conservati digitalmente gli atti di aggiornamento redatti con la procedura Pregeo, insieme all'eventuale documentazione integrativa, nonché gli attestati di approvazione e di annullamento degli stessi, firmati digitalmente.
Per gli atti del catasto fabbricati, redatti con la procedura Docfa, la conservazione digitale viene, invece, effettuata direttamente dalle applicazioni informatiche (articolo ItaliaOggi del 03.05.2016).

ENTI LOCALIPartecipate, tagli più soft. Anci: soglia minima di fatturato a 500 mila. Molte le proposte di modifica al dlgs pronto per l'esame del senato.
Abbassare da 1 milione a 500 mila euro la soglia di fatturato minimo dell'ultimo triennio al di sotto della quale scatta la procedura obbligatoria di razionalizzazione delle partecipate pubbliche. In modo da tutelare le società operanti in territori svantaggiati, come quelli dei piccoli comuni, dove, pur avendo il bilancio in attivo, è difficile realizzare fatturati a sette cifre.
Niente invio preventivo alla Corte conti delle delibere con cui l'ente pubblico decide di costituire una società o di mantenere una partecipazione. Si tratterebbe infatti di un ripristino dei controlli preventivi di legittimità sugli atti da parte di un organo esterno, spazzati via dalla riforma del Titolo V. E ancora, sarebbe necessario introdurre una clausola di salvaguardia che tuteli i privati, soci degli enti pubblici in società miste, vista l'impossibilità di modificare unilateralmente le condizioni contrattuali già sottoscritte. Infine, il dpcm che definirà il numero dei componenti dei cda dovrà prima passare dalla Conferenza unificata per il necessario parere.

Sono alcuni dei rilievi mossi dall'Anci sullo schema di decreto legislativo che introduce il Testo unico sulle partecipate pubbliche in attuazione della legge delega Madia (n. 124/2015).
Il provvedimento, dopo il via libera (pur tra innumerevoli richieste di modifica) del Consiglio di stato, arrivato il 21 aprile scorso, è stato subito trasmesso a palazzo Madama per l'esame in commissione. Che si annuncia complesso, vista la lunga lista di correzioni richieste da più parti. Anche l'Anci ha dato il suo contributo con un documento e un pacchetto di emendamenti. Al cui accoglimento l'Associazione dei comuni subordina il parere favorevole al testo.
Tra le modifiche ritenute irrinunciabili c'è soprattutto quella relativa al ruolo di controllo della Corte conti. All'Anci, come detto, non piace l'obbligo di inviare la delibera di costituzione (o del mantenimento di una partecipazione) di una società pubblica alla sezione regionale della magistratura contabile per gli opportuni rilievi su cui i giudici dovranno esprimersi in 30 giorni. Per l'Associazione guidata da Piero Fassino tale procedura, «oltre a reintrodurre un controllo preventivo di legittimità sugli atti da parte di un organo esterno, non risulta coerente con gli obiettivi di semplificazione del decreto».
L'Anci chiede correttivi anche sulla disposizione che esclude dal campo di applicazione del T.u. le partecipate dalle società quotate, a meno che le stesse non siano anche controllate o partecipate da amministrazioni pubbliche. Un distinguo che secondo l'Anci «non appare condivisibile» e «genera perplessità».
In materia di personale, infine, là dove si prevede una corsia preferenziale per i dipendenti delle partecipate nel fare ritorno negli enti titolari della partecipazione, i sindaci chiedono che tali processi di reinternalizzazione siano compatibili con la programmazione del fabbisogno di ciascuna amministrazione. Inoltre, dovranno essere individuate modalità non onerose per il ricongiungimento delle posizioni previdenziali del personale interessato dai processi di reinternalizzazione (articolo ItaliaOggi del 03.05.2016).

GIURISPRUDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI: Oscurato sul sito web il nome dell’invalido. Privacy. Sentenza in un ufficio giudiziario.
Viola la privacy la pubblicazione sul sito web di un ufficio giudiziario della sentenza con i dati sulla salute del ricorrente.
La Corte di Cassazione (Sez. I civile, sentenza 20.05.2016 n. 10510) accoglie il ricorso di un pensionato che contestava l’illegittima divulgazione delle notizie sensibili, contenute in una sentenza relativa ad un ricorso in materia pensionistica, pubblicata sulla banca dati, nel sito web della Corte dei conti.
La Suprema corte ricorda che l’articolo 52 del Dlgs 196/2003 che disciplina la diffusione delle sentenze o dei provvedimenti giurisdizionali, finalizzata all’informazione giuridica, prevede la possibilità per l’interessato di depositare una domanda in cancelleria con la quale chiede, per motivi legittimi, di non indicare le generalità riportate nel provvedimento. Nel settore civile poi vanno omessi in automatico, a prescindere da specifiche richieste, tutti i dati che consentono di identificare, anche attraverso informazioni sui terzi, i minori o le parti nei procedimenti in materia di famiglia e stato di persone.
C’è poi l’articolo 22 del Codice Privacy che afferma un principio generale: i dati sensibilissimi, e soprattutto quelli relativi alla salute, non vanno diffusi. Un’indicazione che non sembra ammettere eccezioni e supera il punto di equilibrio dell’articolo 52 tra gli interessi della persona alla privacy, di sicura rilevanza costituzionale e quelli altrettanto importanti all’integrale pubblicazione dei provvedimenti giurisdizionali a scopo informativo.
La Suprema corte cita l’autorizzazione n.7/2008 al trattamento dei dati a carattere giudiziario da parte dei soggetti pubblici del Garante della Privacy nella quale si mette in evidenza la necessità di favorire l’attività di documentazione, studio e ricerca in campo giuridico, ma anche quella di ridurre al minimo i rischi che tali trattamenti potrebbero comportare per i diritti, le libertà fondamentali e la dignità della persona. Per questo ai fini giuridici devono essere trattati solo i dati essenziali.
L’Authority è tornata sul tema con le linee guida (2010) precisando che esiste, anche per i soggetti pubblici, un divieto di diffondere i dati che possono rivelare lo stato di salute. Una salvaguardia dei diritti che deve essere garantita attraverso un oscuramento delle generalità. Operazione che non pregiudica la finalità dell’informazione giuridica ed è necessaria per bilanciare i diversi interessi in gioco, assicurando anche la riservatezza dei soggetti coinvolti
(articolo Il Sole 24 Ore del 21.05.2016).

EDILIZIA PRIVATADistanze tra edifici, la «prevenzione» vince il regolamento edilizio. Sezioni unite. Bocciata l’incompatibilità.
Non vi è alcun motivo di negare a chi costruisce per primo, anche in presenza di norme dei regolamenti edilizi che fissino distanze tra le costruzioni diverse da quelle stabilite dal Codice civile, la possibilità di avvalersi delle facoltà connesse al principio della “prevenzione”. Cioè di decidere se costruire sul confine o a distanza dal confine stesso. Questo, anche se i regolamenti locali prevedano solo una distanza tra costruzioni maggiore da quella stabilità dal Codice civile senza però stabilire espressamente anche una distanza minima dal confine.
Questo il principio fissato dalle Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione con la sentenza 19.05.2016 n. 10318 per porre fine al contrasto esistente tra varie sentenze in merito alla incompatibilità, o meno, del principio della prevenzione con la disciplina delle distanze.
La rilevanza del caso consiste nel fatto che chi costruisce per primo, ovviamente, potendo decidere dove costruire (sul confine o no) finisce per condizionare le possibilità di costruire del vicino, il quale a seconda della scelta operata dal “primo arrivato” si troverà costretto a decidere tra: costruire in aderenza (articolo 877 del Codice civile), chiedere la comunione forzosa del muro sul confine (articolo 874) oppure costruire arretrando il suo edificio in misura pari all’intero «distacco legale».
Il caso esaminato della Sezioni Unite nasceva dalla domanda di arretramento proposta da un proprietario nei confronti del fabbricato del confinante in quanto non rispettoso dei limiti di distanza tra edifici fissati dalla legge 765/1967. La sentenza del Tribunale di Nola stabiliva che si debba applicare non il termine sulla distanza indicato dalla legge 765/1967 ma quello di otto metri previsto viceversa dal regolamento edilizio del Comune (in questo caso quello di Ottaviano).
La Corte d’appello di Napoli riteneva invece che a dover essere arretrato fosse l’edificio del proprietario che aveva avviato la causa in quanto, come era risultato dalla istruttoria del procedimento, era stato costruito “per secondo”. Ma la vicenda andava avanti (ormai sono passati 26 anni!) sino in Cassazione, per poi ritornarvi in quanto il ricorrente sosteneva, appunto, l’inapplicabilità del principio della prevenzione in presenza di norme regolamentari che imponevano distanze differenti da quelle previste dal Codice civile. Così la vicenda veniva affrontata per la seconda volta dalla Cassazione, dove la Sezione II investiva della faccenda le Sezioni unite, ravvisando un contrasto interno alla stessa Sezione
Le Sezioni Unite hanno così chiarito come non vi sia alcuna incompatibilità del principio di prevenzione con la disciplina delle distanze di cui alla legge 765/1967
(articolo Il Sole 24 Ore del 20.05.2016).
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MASSIMA
1) Con il primo motivo i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione degli arti. 873 e 875 cod. civ., nonché dell'art. 26 del regolamento edilizio del comune di Ottaviano.
Deducono che la Corte di Appello, dopo aver correttamente ritenuto l'applicabilità della norma di cui all'art. 26 del regolamento edilizio del Comune di Ottaviano, che impone un distacco di metri otto tra le costruzioni, ha erroneamente ritenuto applicabile alla fattispecie il criterio della prevenzione previsto dagli artt. 873 e 875 cod. civ., e supposto la priorità nel tempo della costruzione Del Giudice rispetto a quella del Guerriero.
Sostengono che, in materia di distanze fra fabbricati o di questi dal confine, stabilite dai regolamenti locali in misura maggiore di quella prevista dal codice civile, il principio della prevenzione trova applicazione solo ove lo strumento urbanistico consenta anche le costruzioni in appoggio o in aderenza, e colui che fabbrica per primo costruisca sul confine o a distanza regolamentare da questo.
Deducono che, al contrario, tale criterio non può mai trovare applicazione, consenta o meno lo strumento urbanistico le costruzioni in appoggio o in aderenza, allorché colui che fabbrica per primo costruisca a distanza dal confine inferiore a quella stabilita dal regolamento, avendo la norma locale che consente costruzioni sul confine la funzione di ripartire in maniera paritetica tra i costruttori confinanti la distanza dal confine, ovvero di eliminarla, ma sempre in modo paritetico, cioè con costruzioni in aderenza od in appoggio erette sulla linea di confine.
Rilevano, pertanto, che, poiché la Del Giudice ha eretto la sua costruzione a meno di quattro metri dal confine (distanza pari alla metà di quella minima prescritta fra edifici), nella specie, indipendentemente dal fatto che il regolamento locale preveda o meno la costruzione sul confine, è da escludere l'applicabilità del criterio della prevenzione.
Con il secondo motivo i ricorrenti lamentano l'omessa o insufficiente motivazione su fatti controversi e decisivi, per avere la Corte di Appello ritenuto applicabile il criterio della prevenzione senza indagare se lo strumento urbanistico locale preveda o meno la facoltà per i proprietari confinanti di costruire in aderenza o in appoggio, e senza rilevare che la Del Gi., come accertato dal C.T.U., ha eretto il suo fabbricato a distanza dal confine inferiore a quella di metri quattro prescritta a suo carico dall'art. 26 del regolamento edilizio comunale.
...
2)
Queste Sezioni Unite sono state chiamate a comporre il contrasto registratosi nella giurisprudenza di legittimità sulla questione -oggetto dei primi due motivi di ricorso- dell'applicabilità o meno del principio di prevenzione nell'ipotesi in cui le disposizioni di un regolamento edilizio locale prevedano esclusivamente una distanza tra fabbricati maggiore di quella codicistica, senza imporre altresì il rispetto di una distanza minima delle costruzioni dal confine.
L'ordinanza interlocutoria del 23.01.2009 della Seconda Sezione Civile della Corte di Cassazione ha preso le mosse dal principio di diritto enunciato da Cass. n. 13338/2006 nella precedente fase di legittimità, secondo cui le limitazioni previste dall'art. 41-quinquies della l. n. 1150 del 1942, introdotto dalla l. n. 765 del 1967, art. 17, riguardanti la distanza tra edifici vicini nei Comuni sprovvisti di piano regolatore o di programma di fabbricazione, si estendono anche ai Comuni dotati di regolamento edilizio, se questo è privo di norme disciplinanti i distacchi tra costruzioni; laddove, qualora il regolamento edilizio contenga tali norme e sia stato approvato anteriormente all'entrata in vigore della legge n. 765 del 1967, prevalgono le norme locali.
Tale è il caso del Comune di Ottaviano, munito di un regolamento edilizio approvato in epoca anteriore all'entrata in vigore della c.d. "legge ponte", il quale all'art. 26 contiene una regolamentazione specifica nella suddetta materia, ponendo un divieto di spazi vuoti inferiori a otto metri "tra casa e casa".
La Seconda Sezione ha rilevato che il giudice del rinvio, nel riesaminare —alla luce del principio di diritto affermato nella sentenza di cassazione- la controversia alla stregua delle previsioni del regolamento edilizio locale, ha disposto l'arretramento del fabbricato del Guerriero a otto metri (invece che a quella di dodici metri stabilita nella sentenza cassata sulla base del disposto del citato art. 17 della c.d. legge ponte) da quello dell'attrice, affermando che, contrariamente a quanto sostenuto dagli appellanti, la documentazione in atti comprovava che era stata la Del Giudice a costruire per prima e a dover essere considerata, pertanto, "preveniente" rispetto al convenuto.
Ha, quindi, osservato che, avendo i ricorrenti censurato l'accertamento della prevenzione, occorreva soffermarsi sul relativo presupposto.
2.1) Nell'ordinanza di rimessione è stato dato atto del concorde orientamento della giurisprudenza di legittimità circa l'inoperatività del criterio della prevenzione allorquando la disciplina regolamentare imponga il rispetto di una distanza inderogabile delle costruzioni dai confini (cfr. Cass. n. 23693/2014, 18728/2005, 627/2003, 12561/2002, 4895/2002, 4366/2001, 10600/1999, 4438/1997, 3737/1994, 7747/1990 e 4737/1987, tutte precedute dall'incipit di S.U. n. 2846/1967).
La Seconda Sezione, al contrario, ha rilevato un contrasto interno alla stessa Sezione per l'ipotesi in cui le disposizioni locali prevedano solo una distanza minima tra costruzioni maggiore di quella codicistica, senza nulla disporre espressamente riguardo alla distanza delle costruzioni dal confine.
L'ordinanza interlocutoria ha richiamato, al riguardo, un primo indirizzo, secondo cui, nel caso in cui il regolamento edilizio determini solo la distanza minima fra le costruzioni, in assenza di qualunque indicazione circa il distacco delle stesse dal confine, il principio della prevenzione deve ritenersi operativo, non ostandovi alcun divieto di costruire in aderenza o sul confine (Cass. 05.12.2007 n. 25401; Cass. 20.04.2005 n. 8283; Cass. 01.06.1993 n. 6101; Cass. 16.05.1991 n. 5474; Cass. 07.06.1988 n. 3859; Cass. 20.11.1987 n. 8543 e Cass. 24.06.1983 n. 4352).
Ha rilevato che, invece, in base ad un diverso orientamento, allorquando i regolamenti edilizi comunali stabiliscano una distanza minima assoluta tra costruzioni maggiore di quella prevista dal codice civile, detta prescrizione deve intendersi comprensiva di un implicito riferimento al confine, dal quale chi costruisce per primo deve osservare una distanza non inferiore alla metà di quella prescritta, con conseguente esclusione della possibilità di costruire sul confine e, quindi, dell'operatività del cosiddetto criterio della prevenzione (Cass. 22.02.2007 n. 4199; Cass. 19.07.2006 n. 16574; Cass. 01.07.1996 n. 5953; Cass. 28.040.1992 n. 5062; Cass. 10.10.1984 n. 5055; Cass. 29.06.1981 n. 4246).
Ha accennato, inoltre, alla posizione intermedia assunta da altra pronuncia (Cass. 16.02.1999 n. 1282), la quale, pur affermando che la prevenzione non opera ove i regolamenti edilizi comunali stabiliscano una distanza minima assoluta tra costruzioni maggiore di quella prevista dal codice civile -detta prescrizione dovendosi intendere comprensiva di un implicito riferimento al confine-, precisa che il metodo di misurazione dei distacchi -metà della distanza dal confine per ciascun proprietario- non è incompatibile con la previsione della facoltà di edificare sul confine ove lo spazio antistante sia libero fino alla distanza prescritta, oppure in aderenza o in appoggio a costruzioni preesistenti, con conseguente applicabilità del criterio della prevenzione.
Nell'ordinanza interlocutoria è stata poi richiamata una risalente pronuncia delle Sezioni Unite di questa Corte, nella quale è stato affermato che, nel caso di norma regolamentare che determini la distanza fra costruzioni non dal confine, ma in via assoluta, commisurandola alla maggiore altezza di uno dei corpi di fabbrica, rimane esclusa la possibilità di costruire sul confine e l'applicabilità del criterio di prevenzione, onde colui che costruisce per primo deve osservare, rispetto al confine, una distanza pari alla metà dell'altezza dell'erigendo fabbricato (Cass. Sez. Un. 27.11.1974 n. 3873).
La stessa ordinanza ha segnalato, peraltro, una più recente pronuncia delle Sezioni Unite, che ha affrontato, risolvendolo in senso affermativo, il problema della compatibilità del principio codicistico della prevenzione con la disciplina sulle distanze tra fabbricati vicini dettata dall'art. 41-quinquies, primo comma, lettera c), della legge 17.08.1942 n. 1150 (aggiunto dall'art. 17 della legge 06.08.1967 n. 765), traendone la conseguenza che, quando il fabbricato del preveniente si trovi ad una distanza dal confine inferiore alla metà del distacco tra fabbricati prescritto dalla citata norma speciale, il prevenuto ha, ai sensi dell'art. 875 cod. civ., la facoltà di chiedere la comunione forzosa del muro allo scopo di costruirvi contro (Cass. Sez. Un. 01.08.2002 n. 11489).
2.2) Prima di affrontare la questione rimessa a queste Sezioni Unite,
occorre rammentare che, nel sistema delineato dagli artt. 873 ss. cod. civ., il principio della prevenzione comporta che il confinante che costruisce per primo viene a condizionare la scelta del vicino che voglia a sua volta costruire. Al preveniente, invero, è offerta una triplice facoltà, potendo egli edificare sia rispettando, una distanza dal confine pari alla metà di quella imposta dal codice, sia sul confine, sia ad una distanza dal confine inferiore alla metà di quella prescritta.
A fronte alla scelta operata dal preveniente, il vicino che costruisce successivamente, nel primo caso, deve costruire anch'esso ad una distanza dal confine pari alla metà di quella prevista, in modo da rispettare il prescritto distacco legale dalla preesistente costruzione. Nel secondo caso, il prevenuto può chiedere la comunione forzosa del muro sul confine (art. 874 cod. civ.) o realizzare la propria fabbrica in aderenza allo stesso (art. 877, primo comma, cod. civ.); ove non intenda costruire sul confine, è tenuto ad arretrare il suo edificio in misura pari all'intero distacco legale. Nella terza ipotesi considerata, il prevenuto può chiedere la comunione forzosa del muro e avanzare la propria fabbrica fino ad esso, occupando lo spazio intermedio, dopo avere interpellato il proprietario se preferisca estendere il muro a confine o procedere alla sua demolizione (art. 875 cod. civ.); in alternativa, può costruire in aderenza (art. 877, secondo comma, cod. civ.) o rispettando il distacco legale dalla costruzione del preveniente.

Così sinteticamente riassunto il meccanismo della prevenzione, va precisato che esula dal quesito posto nell'ordinanza interlocutoria l'ipotesi dei regolamenti locali che, pur imponendo una distanza assoluta tra fabbricati, prevedano espressamente la possibilità di costruire sul confine, ovvero di costruire in appoggio o in aderenza. In una simile evenienza, infatti, è la stessa fonte regolamentare a sancire direttamente, senza necessità di alcuno sforzo interpretativo, l'operatività della regola della prevenzione prevista dal codice civile, con le relative implicazioni riguardo alle facoltà rispettivamente spettanti al preveniente e al prevenuto.
La questione rimessa alle Sezioni Unite, inoltre, si riferisce specificamente alla ipotesi dei regolamenti locali che, come quello in esame, stabiliscano una distanza minima dal confine in una misura fissa, non anche a quella dei regolamenti che prescrivano una distanza minima dal confine non predeterminata, ma commisurata all'altezza di una delle costruzioni.
Ipotesi, quest'ultima, per la quale può farsi riferimento alle indicazioni fornite dalle Sezioni Unite nella menzionata pronuncia n. 11489/2002 in relazione all'analoga previsione di cui alla c.d. legge ponte, per la quale è stata ritenuta -in mancanza di dati di segno contrario emergenti da specifiche disposizioni regolamentari- l'operatività del principio di prevenzione.
2.3) Così delimitato il campo di indagine, si osserva che i precedenti favorevoli all'applicabilità del criterio della prevenzione, citati nell'ordinanza di rimessione, si fondano essenzialmente sul rilievo della natura integrativa dei regolamenti edilizi con riferimento alle previsioni codicistiche in materia di distanze, che comprendono il criterio della prevenzione.
In questo senso, in particolare, le sentenze 07.06.1988 n. 3859 e 16.05.1991 n. 5474 affermano che "
le norme dei regolamenti comunali edilizi che fissano le distanze nelle costruzioni in misura diversa da quelle stabilite dal codice civile sono, per l'espresso disposto dell'art. 873 cod. civ., integrative del codice medesimo, il quale, rinviando ai regolamenti locali per tutto ciò che concerne le distanze nelle costruzioni, comprende tutta la disciplina predisposta da quelle fonti. Ne deriva che le norme dei regolamenti edilizi che si limitino a stabilire una distanza nelle costruzioni superiore a quella del codice civile, senza prescrivere tale distanza in rapporto al confine, non implicano il divieto di costruire in appoggio o in aderenza, ricorrendone i presupposti ai sensi degli artt. 874, 875, 877 cod. civ., e, di conseguenza, non incidono sull'esercizio del diritto di prevenzione, la cui operatività non esige un'espressa previsione ad opera delle norme regolamentari".
Dello stesso tenore la sentenza 01.07.1993 n. 6101, nella quale si afferma che "
le norme dei regolamenti comunali che fissano le distanze nelle costruzioni in misura diversa da quelle stabilite dal codice civile.., hanno natura di norme integrative dell'art. 873 cod. civ. e con esse trova, perciò, applicazione anche il regime del codice civile in tema di distanze nelle costruzioni in fondi finitimi, fra cui quello della prevenzione, che vieta al costruttore prevenuto il quale non possa o non voglia costruire in appoggio o in aderenza, di creare un distacco minore di quello corrispondente all'altezza che ha il suo edificio sul lato fronteggiante il fondo del vicino".
Le successive pronunce citate nell'ordinanza interlocutoria si rifanno sostanzialmente ai medesimi argomenti.
Così, la sentenza del 05.12.2007 n. 25401 si limita ad osservare che "
costituisce principio di diritto ormai consolidato in giurisprudenza di legittimità che il diritto del proprietario confinante di costruire in aderenza al confine non sussiste quando i regolamenti locali fissano solo la distanza minima delle costruzioni dal confine, ritenendosi in questo caso che l'obbligo di arretrare la costruzione è assoluto, come lo è il corrispondente divieto di costruire sul confine. Nel caso, invece, che il regolamento edilizio fissi solo la distanza fra le costruzioni, in assenza di qualunque indicazione circa il distacco delle costruzioni dal confine, il principio della prevenzione deve ritenersi in vigore perché la sua operatività non è ostacolata da alcun divieto di costruire in aderenza o sul confine".
Analoghe considerazioni vengono svolte nella sentenza 20.04.2005 n. 8283.
Non appaiono, invece, particolarmente significative ai fini della soluzione della questione che qui rileva le due ulteriori —e più risalenti- pronunce citate nell'ordinanza interlocutoria (Cass. 20.11.1987 n. 8543 e Cass. 24.06.983 n. 4352), le quali si riferiscono a regolamenti comunali che prevedevano espressamente la possibilità di edificare in aderenza, rendendo per ciò solo salvo il criterio della prevenzione.
L'opzione interpretativa in esame trova un autorevole conforto nella citata decisione a Sezioni Unite n. 11489 del 2002, nella cui motivazione è stata richiamata e ritenuta condivisibile la "
consolidata giurisprudenza di questa Suprema Corte in sede di applicazione dei regolamenti locali che non prescrivono distanze dei fabbricati dai confini, limitandosi a stabilire distacchi tra i fabbricati"; giurisprudenza che, secondo le Sezioni Unite, ha "correttamente" ritenuto che "solo in presenza di una norma regolamentare che prescriva una distanza tra fabbricati con riguardo al confine si ponga l'esigenza di un'equa ripartizione tra proprietari confinanti dell'onere di salvaguardare una zona di distacco tra le costruzioni, con la conseguenza che, in assenza di una siffatta prescrizione, deve trovare applicazione il principio della prevenzione, con la conseguente possibilità, per il prevenuto, di costruire in aderenza alla fabbrica costruita per prima, se questa sia stata posta sul confine od a distanza inferiore alla metà del prescritto distacco tra fabbricati".
2.4) Le pronunce menzionate nell'ordinanza di rimessione a sostegno della tesi contraria all'operatività del criterio della prevenzione fanno perno essenzialmente sul rilievo secondo cui l'assolutezza del distacco previsto dai regolamenti locali non può ripercuotersi in danno di uno solo dei confinanti, ma va equamente ripartita tra le parti interessate.
In tal senso, si legge nella sentenza 22.02.2007 n. 4199 che, "quando i regolamenti edilizi prevedano una distanza minima assoluta tra costruzioni maggiore di quella prescritta dal codice civile senza un riferimento esplicito al confine . la prevista assolutezza della distanza, rapportata ad un'equa ripartizione del relativo onere, è da ritenersi comprensiva di un implicito riferimento al confine, dal quale chi costruisce per primo deve osservare una distanza non inferiore alla metà di quella prescritta, con conseguente esclusione della possibilità di costruire sul confine e, quindi, della operatività del principio della prevenzione".
Dello stesso tenore appaiono le sentenze 29..06.1981 n. 4246 e 10.10.1984 n. 5055.
Non offrono, invece, particolari spunti le ulteriori pronunce menzionate.
La sentenza 28.04.1992 n. 5062 muove, infatti, dall'analisi della disciplina regolamentare applicabile in concreto, ove era prescritta una distanza minima assoluta fra edifici, con la possibilità, peraltro, di costruire in aderenza per una certa categoria di costruzioni; dal che la Corte, con un'opzione ermeneutica circoscritta allo specifico regolamento edilizio, ha desunto che nella generalità dei casi fosse stabilita un'implicita distanza dal confine in misura pari alla metà di quella fra edifici.
La sentenza 19.07.2006 n. 16574 si riferisce, poi, ad un regolamento locale che, seppure stabilendola in rapporto all'altezza degli edifici, prescriveva una distanza minima delle costruzioni dal confine.
L'ultima decisione menzionata (01.07.1996 n. 5953), a ben vedere, si presta ad una interpretazione contraria all'orientamento qui preso in considerazione: in motivazione, infatti, si afferma l'operatività del criterio della prevenzione nel caso in cui i regolamenti locali impongano unicamente una distanza minima fra gli edifici, a meno che l'interpretazione della norma regolamentare non porti ad escludere la facoltà di costruire in aderenza.
2.5)
Le Sezioni Unite ritengono che il contrasto debba essere composto privilegiando l'interpretazione favorevole all'operatività, nella ipotesi considerata, del criterio della prevenzione, non apparendo convincenti le ragioni che nella elaborazione giurisprudenziale e dottrinale sono state addotte a sostegno dell'opposta tesi.
2.6) Un argomento sovente utilizzato ai fini dell'esclusione del criterio della prevenzione poggia sul dato letterale delle disposizioni regolamentari che prescrivono un determinato distacco minimo "assoluto" tra costruzioni, per desumerne, anche in considerazione dell'esigenza di assicurare un'equa ripartizione del relativo onere tra le parti, il carattere "inderogabile" di tale distacco.
Più in generale, a sostegno dell'orientamento contrario alla operatività del criterio di prevenzione, sono state svolte considerazione attinenti alla natura stessa del relativo meccanismo, che si porrebbe in contrasto con la funzione propria della disciplina dei distacchi tra edifici, volta ad assicurare un equo contemperamento degli interessi e dei sacrifici dei proprietari dei fondi confinanti.
E' in tale prospettiva che si è formato l'orientamento giurisprudenziale che ha ravvisato nei regolamenti locali che impongono un distacco assoluto tra costruzioni un implicito riferimento al confine e, quindi, l'obbligo per ciascuna parte di rispettare una distanza minima dal confine pari alla metà di quella complessiva prescritta per i distacchi tra edifici. Solo in tal modo, infatti, secondo i fautori della tesi esposta, potrebbe essere soddisfatta l'esigenza di evitare eccessivi sacrifici a carico di colui che costruisca per secondo; obiettivo che verrebbe frustrato in caso di applicazione del principio di prevenzione, di per sé incompatibile con un'equa ripartizione tra le parti dell'onere imposto dalla previsione del distacco.
In dottrina, poi, alcuni autori hanno rimarcato il carattere di "specialità" della disciplina dettata dai regolamenti edilizi rispetto a quella codicistica, per ravvisare in tale normativa una deroga non solo al dato numerico della distanza, ma all'intero sistema dei rapporti tra proprietari limitrofi delineato dal codice civile.
Un ulteriore argomento invocato a sostegno della inoperatività del criterio della prevenzione è quello che si fonda sul rilievo della natura pubblicistica dei regolamenti locali, connessa al fatto che essi concorrerebbero a comporre la complessiva disciplina urbanistica; a detta natura conseguirebbe la non praticabilità della disciplina codicistica della prevenzione, tipicamente destinata a regolare i rapporti tra privati.
In tale ottica si pone la già citata pronunzia delle Sezioni Unite n. 3873/1974, che ha osservato come
l'intento insito nella norma regolamentare sia quello "di garantire in ogni caso un ampio spazio tra gli edifici onde soddisfare interessi di ordine generale, come quelli igienici, di quiete pubblica e di estetica edilizia.., intento, questo, che rimarrebbe ovviamente frustrato se, nel contempo, venissero consentite costruzioni sul confine e fosse quindi permessa, da parte del vicino, la costruzione in aderenza".
2.7) Gli argomenti sopra richiamati, ad avviso delle Sezioni Unite, non costituiscono un ostacolo all'affermazione dell'operatività in materia dell'istituto codicistico della prevenzione, apparendo agevolmente confutabili.
E invero, al criterio di interpretazione letterale, che si fonda sulla pretesa assimilazione degli attributi "assoluto" e "inderogabile", può opporsi, in conformità di un'autorevole opinione dottrinale, come la normativa edilizia contempli effettivamente la previsione di distanze "inderogabili", come tali destinate a non tollerare in alcun caso la possibilità di costruire sul confine o in aderenza. Al di fuori di tali ipotesi, tuttavia, in presenza di una norma regolamentare che si limiti a prevedere un distacco "assoluto" tra costruzioni, non sembra possibile escludere in radice la possibilità di edificare sul confine o a distanza dal confine inferiore alla metà di quella legale, ferma restando la necessità, nel caso in cui non vengano realizzate costruzioni in appoggio o in aderenza, di rispettare la distanza minima prescritta dal regolamento locale.
Quanto all'ostacolo derivante dalla necessità di assicurare un'equa ripartizione dell'onere tra i proprietari confinanti, è facile obiettare che un equo contemperamento degli interessi delle parti è garantito dalla possibilità, offerta al prevenuto, di chiedere la comunione forzosa del muro o di costruire in aderenza alla fabbrica eretta dal preveniente sul confine o a distanza dallo stesso inferiore alla metà del distacco fissato dalla norma regolamentare. Il meccanismo della prevenzione, come congegnato dal codice civile, pertanto, consente di regolare armonicamente il rapporto di successione temporale tra le costruzioni che sorgono su fondi contigui, senza assicurare posizioni di vantaggio a colui che costruisce per primo in danno di colui che costruisce per secondo: alle facoltà riconosciute al preveniente, infatti, fanno da contrappeso quelle attribuite al prevenuto, alle quali il primo non può opporsi.
All'argomento basato sul carattere di "specialità" dei regolamenti edilizi, poi, può replicarsi che detti regolamenti, proprio in ragione di tale specialità, sono di stretta interpretazione; con la conseguenza che, allorché essi si limitino ad imporre un distacco minimo tra costruzioni, senza prescrivere espressamente altresì una distanza minima dal confine, non pare lecito cogliere negli stessi una deroga al criterio della prevenzione sancito in via generale dal codice civile. I regolamenti locali, infatti, in virtù del rinvio previsto nell'art. 873 c.c., hanno portata integrativa delle prescrizioni del codice civile in tema di distanze tra costruzioni su fondi finitimi; sicché ad essi, salva espressa previsione contraria, deve ritenersi applicabile l'intera disciplina codicistica dettata in materia, compreso il meccanismo della prevenzione.
La tesi che ravvisa la ragione della incompatibilità del principio della prevenzione con la disciplina extracodicistica delle distanze nella natura "pubblicistica" di tale normativa, infine, è stata già considerata insostenibile da queste Sezioni Unite nella sentenza n. 11489/2002, nella quale è stato rilevato che è "evidente la componente pubblicistica, accanto a quella privatistica, di tutta la disciplina, anche codicistica, sulle distanze, volta, com'è noto, ad armonizzare la disciplina dei rapporti intersoggettivi di vicinato con l'interesse pubblico ad un ordinato assetto urbanistico" .
Una simile componente pubblicistica, pertanto, così come non ha impedito la previsione nel codice civile della regola della prevenzione, allo stesso modo non può costituire un serio ostacolo all'estensione della relativa disciplina alla materia regolata dai regolamenti locali.
Né potrebbe sostenersi la natura esclusivamente pubblicistica della normativa extracodicistica in materia di distanze, ove solo si tenga conto della natura tipicamente privatistica della sanzione prevista in caso di violazione delle relative disposizioni, costituita dal rimedio della riduzione in pristino, rimesso all'iniziativa del vicino, il quale potrebbe anche non farvi ricorso.
Ove, poi, si consideri che la ratio delle norme sulle distanze minime tra costruzioni è, secondo l'opinione dominante, quella di evitare il pregiudizio che potrebbe derivare agli edifici dalla creazioni di intercapedini troppo ristrette, appare evidente che una simile finalità non viene frustrata dalla previsione della facoltà di costruire in aderenza o in appoggio, escludendosi in tal modo la possibilità stessa della formazione di intercapedini pericolose tra i due fabbricati.
2.8) In definitiva,
nessuna delle ragioni preclusive evidenziate in giurisprudenza e in dottrina osta all'applicabilità del principio codicistico della prevenzione nell'ipotesi in cui un regolamento locale si limiti a stabilire un distacco minimo tra le costruzioni maggiore rispetto a quello contemplato dall'art. 873 del codice civile, senza prescrivere altresì una distanza minima delle costruzioni dal confine o vietare espressamente la costruzione in appoggio o in aderenza.
Orbene,
se le norme regolamentari, così come in concreto strutturate, postulano solo l'esigenza del rispetto di una distanza minima tra fabbricati, non vi è alcun valido motivo per negare a colui che costruisca per primo la possibilità di avvalersi delle facoltà connesse al principio di prevenzione in base alla disciplina codicistica.
Le norme dei regolamenti edilizi che fissano le distanze tra le costruzioni in misura diversa da quelle stabilite dal codice civile, infatti, in virtù del rinvio contenuto nell'art. 873 cod. civ., hanno portata integrativa delle disposizioni dettate in materia dal codice civile; e tale portata non si esaurisce nella sola deroga alle distanze minime previste dal codice, ma si estende all'intero impianto di regole e principi dallo stesso dettato per disciplinare la materia, compreso il meccanismo della prevenzione, che i regolamenti locali possono eventualmente escludere, prescrivendo una distanza minima delle costruzioni dal confine o negando espressamente la facoltà di costruire in appoggio o in aderenza.
Ne discende che
un regolamento locale che si limiti a stabilire una distanza tra le costruzioni superiore a quella prevista dal codice civile, senza imporre un distacco minimo delle costruzioni dal confine, non incide sul principio della prevenzione, come disciplinato dal codice civile, e non preclude, quindi, al preveniente la possibilità di costruire sul confine o a distanza dal confine inferiore alla metà di quella prescritta tra le costruzioni, ne al prevenuto la corrispondente facoltà di costruire in appoggio o in aderenza, in presenza dei presupposti previsti dagli artt. 874, 875 e 877 cod. civ.
2.9) Alla luce degli esposti principi, nella specie, contrariamente a quanto dedotto dai ricorrenti, deve ritenersi l'operatività della regola della prevenzione, non risultando che il regolamento edilizio del Comune di Ottaviano, che impone un distacco tra costruzioni di metri otto, preveda altresì una distanza minima delle costruzioni dal confine.
I primi due motivi di ricorso, di conseguenza, devono essere disattesi.

INCARICHI PROFESSIONALIScelta Ctu, punito il giudice che concentra gli incarichi. Professionisti. Il magistrato deve rispettare il criterio della rotazione.
Perde un anno di anzianità il giudice che concentra gli incarichi su due o tre consulenti d’ufficio, senza rispettare il criterio della rotazione.
Le Sezioni unite civili della Corte di Cassazione, con la sentenza 18.05.2016 n. 10157, respingono il ricorso di una toga contro la sentenza del Consiglio superiore della magistratura che aveva punito la violazione dell’obbligo di trasparenza nella trattazione degli affari.
L’accusa era di aver “selezionato” una rosa ristretta professionisti ai quali affidare numerosi incarichi in tema di controversie previdenziali. Scelte fatte malgrado la “preferenza” non fosse sfuggita al presidente del Tribunale, che aveva invitato la toga, per ben due anni, a rispettare la rotazione.
Lo stesso presidente aveva sollevato il problema anche in una nota dalla quale emergeva che più del 50% degli incarichi erano stati assegnati a due soli professionisti. Il ricorrente aveva conferito ad una consulente 105 incarichi e ad un altro 71: pari rispettivamente al 24% e al 16% del totale. Il giudice incolpato aveva sottolineato nella sua difesa che il limite del 10%, indicato come tetto di assegnazione degli incarichi, dall’articolo 23 delle disposizioni attuative del Codice civile, doveva essere riferito ai mandati conferiti dall’intero ufficio giudiziario. Una lettura corretta, ma che non serve a scongiurare l’illecito.
La norma in questione prevede che il presidente del Tribunale vigili affinché gli incarichi siano distribuiti equamente tra gli iscritti all’albo, senza danno per l’amministrazione della giustizia, «in modo tale che a nessuno dei consulenti iscritti possano essere conferiti incarichi in misura superiore al 10 per 100 di quelli affidati dall’ufficio». Sarà sempre il presidente a garantire che sia assicurata l’adeguata trasparenza nell’assegnazione degli incarichi anche attraverso gli strumenti informatici.
I giudici sottolineano che la regola fondamentale della norma esaminata è nella frase «gli incarichi siano equamente distribuiti tra gli iscritti all’albo». La successiva precisazione, relativa al limite del 10% (introdotta dall’articolo 52 della legge 69/2009), è un criterio che deve essere applicato dal presidente del Tribunale in relazione a tutti gli incarichi complessivi, conferiti da tutti i magistrati dell’ufficio ad un singolo consulente.
Solo il presidente è, infatti, nella condizione di avere cognizione dell’insieme dei “lavori” attribuiti ad un consulente e, in caso di superamento del tetto, può invitare le toghe dell’ufficio ad astenersi da ulteriori nomine. In tal senso -precisa il collegio- è condivisibile l’interpretazione del ricorrente, ma questo non significa che i suoi motivi siano fondati.
Correttamente la sentenza impugnata ha escluso che il limite del 10%, nell’ipotesi esaminata, fosse applicabile agli incarichi conferiti dai singoli magistrati. È ovvio, infatti, che nei tribunali di dimensioni medio-grandi la percentuale fissata sarebbe talmente alta, che ogni giudice potrebbe concentrare gli incarichi su un unico consulente senza mai raggiungerla.
Il criterio corretto è dunque nell’«equa distribuzione degli incarichi che fa in ogni caso capo ai singoli magistrati e che non è suscettibile di una predeterminazione numerica o percentuale, dovendosene di caso in caso verificare la violazione». La prova è che nel capo di incolpazione non si fa alcun rifermento al tetto del 10%, ma solo alla mancata osservazione del principio di rotazione in violazione del dovere di correttezza e diligenza.
Il problema esaminato dalla Cassazione è sentito dal Csm, che il 4 maggio scorso ha approvato le linee guida sul punto (si veda Il Sole 24 Ore del 05.05.2016), in base alle quali lo stesso professionista non potrà ricevere più del 10% degli incarichi.
La settima sezione dell’organo di autogoverno dei giudici (relatore Francesco Cananzi) ha però chiarito che la nozione di ufficio è flessibile: se in questa rientra il Tribunale, nelle sedi più ampie è evidente che il limite è nei fatti privo di conseguenze
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.05.2016).

ENTI LOCALI - VARIAutovelox non tarato? La multa è nulla. Cassazione. L’effetto della sentenza Consulta sulle rilevazioni automatiche di velocità.
È nulla la multa per eccesso di velocità se il Comune non prova di aver provveduto alla taratura annuale dell’autovelox.
La Corte di Cassazione, Sez. II civile - con la sentenza 16.05.2016 n. 9972, annulla con rinvio la sentenza con la quale il Tribunale aveva confermato l’obbligo per la ricorrente di pagare la multa, che le era stata inflitta per aver superato il limite imposto dalla segnaletica nel tratto stradale.
Una decisione presa dai giudici di merito senza considerare l’effetto della sentenza (113/2015) con la quale la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 45, comma 6, del Dlgs 285/1992 del Codice della strada. Il contrasto con la Carta riguardava la parte in cui la norma bocciata non prevedeva un obbligo periodico di verifica della funzionalità e della taratura per tutte le apparecchiature impiegate nell’accertamento delle violazioni dei limiti di velocità.
In quell’occasione la Consulta aveva sottolineato che «i fenomeni di obsolescenza e deterioramento possono pregiudicare non solo l’affidabilità delle apparecchiature, ma anche la fede pubblica che si ripone in un settore di significativa rilevanza sociale, quale quello della sicurezza stradale».
La Suprema corte ricorda che la pronuncia della Corte costituzionale ha effetto retroattivo ed è applicabile anche ai giudizi pendenti. In virtù del verdetto dei giudici delle leggi dunque si deve ritenere che l’articolo 45 comma 6 del codice della strada prescriva controlli cadenzati degli autovelox, in assenza dei quali la multa va considerata nulla.
Un “particolare” che era sfuggito ai giudici di merito, i quali si erano mossi sul solco della consolidata giurisprudenza precedente la sentenza della Consulta, fino ad allora la Cassazione aveva, infatti, ritenuto non necessaria, ai fini della validità della multa, la prova della verifica periodica. Ora il Comune è invece tenuto a dimostrare di aver fatto i dovuti accertamenti. Non passa invece un secondo motivo di ricorso.
La signora multata si lamentava che il Tribunale aveva sottovalutata la presenza di una seconda macchina nel momento della rilevazione automatica. Un’eccezione che non era stata però sollevata nel ricorso introduttivo. La Suprema corte precisa, che il giudizio di opposizione all’ordinanza-ingiunzione è chiuso e dunque limitato ai soli motivi contenuti nell’opposizione senza alcuna possibilità di integrazione
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.05.2016).

PUBBLICO IMPIEGO - VARIDipendente assente, indagini libere.
Confermata dalla Corte di Cassazione, Sez. lavoro, la legittimità dei controlli sul dipendente assente con un permesso ex lege 104/1992 attraverso agenzie investigative (sentenza 12.05.2016 n. 9749).
Un dipendente di una società ricorreva avverso il licenziamento per giusta causa intimato dal datore di lavoro, intimato per aver utilizzato giornate di permesso ex lege 104/1992 concessi per l'assistenza alla suocera disabile, per dedicarsi a effettuare lavori in alcuni terreni di proprietà.
Tra i motivi di ricorso, il lavoratore sosteneva che gli accertamenti investigativi cui era stato assoggettato, sono invece ammissibili solo quando destinati a tutelare il patrimonio aziendale. La Suprema corte ha ritenuto infondato il motivo. Ha ribadito, in ordine alla portata delle disposizioni (legge n. 300 del 1970, artt. 2 e 3) che delimitano, a tutela della libertà e dignità del lavoratore, in coerenza con disposizioni e principi costituzionali, che la sfera di intervento di persone preposte dal datore di lavoro a difesa dei propri interessi e, cioè, per scopi di tutela del patrimonio aziendale (art. 2) e di vigilanza dell'attività lavorativa (art. 3), non precludono il potere dell'imprenditore di ricorrere alla collaborazione di soggetti (quale, nella specie, un'agenzia investigativa) diversi dalla guardie particolari giurate per la tutela del patrimonio aziendale, né, rispettivamente, di controllare l'adempimento delle prestazioni lavorative e quindi di accertare mancanze specifiche dei dipendenti, ai sensi degli artt. 2086 e 2104 c.c., direttamente o mediante la propria organizzazione gerarchica.
Ciò non esclude che il controllo delle guardie particolari giurate, o di un'agenzia investigativa, non possa riguardare, in nessun caso, né l'adempimento, né l'inadempimento dell'obbligazione contrattuale del lavoratore di prestare la propria opera, essendo l'inadempimento stesso riconducibile, come l'adempimento, all'attività lavorativa, che è sottratta alla suddetta vigilanza, ma deve limitarsi agli atti illeciti del lavoratore non riconducibili al mero inadempimento dell'obbligazione.
Tale principio è stato ribadito ulteriormente, affermandosi che le dette agenzie per operare lecitamente non devono sconfinare nella vigilanza dell'attività lavorativa vera e propria, riservata, dall'art. 3 dello Statuto, direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori, restando giustificato l'intervento in questione non solo per l'avvenuta perpetrazione di illeciti e l'esigenza di verificarne il contenuto, ma anche in ragione del solo sospetto o della mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione. Né a ciò ostano sia il principio di buona fede sia il divieto di cui all'art. 4 dello Statuto dei lavoratori, ben potendo il datore di lavoro decidere autonomamente come e quando compiere il controllo, anche occulto, ed essendo il prestatore d'opera tenuto ad operare diligentemente per tutto il corso del rapporto di lavoro.
Ciò posto si è ritenuto dare continuità all'insegnamento che ha considerato legittimo il controllo finalizzato all'accertamento dell'utilizzo improprio dei permessi ex lege 104 del 1992, art. 33, suscettibile di rilevanza anche penale, essendo stato effettuato al di fuori dell'orario di lavoro e in fase di sospensione dell'obbligazione principale di rendere la prestazione lavorativa. Le motivazioni sono state respinte (articolo ItaliaOggi del 20.05.2016).
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3.3.— Con il terzo mezzo si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 2, 3 e 4 della l. n. 300 del 1970 sostenendo che gli accertamenti investigativi sono ammissibili solo quando destinati a tutelare il patrimonio aziendale.
Il motivo è infondato.
Va ribadito in ordine alla portata delle disposizioni (L. n. 300 del 1970, artt. 2 e 3) che delimitano, a tutela della libertà e dignità del lavoratore, in coerenza con disposizioni e principi costituzionali, la sfera di intervento di persone preposte dal datore di lavoro a difesa dei propri interessi -e cioè per scopi di tutela del patrimonio aziendale (art. 2) e di vigilanza dell'attività lavorativa (art. 3)- che esse non precludono il potere dell'imprenditore di ricorrere alla collaborazione di soggetti (quale, nella specie, un'agenzia investigativa) diversi dalla guardie particolari giurate per la tutela del patrimonio aziendale, né, rispettivamente, di controllare l'adempimento delle prestazioni lavorative e quindi di accertare mancanze specifiche dei dipendenti, ai sensi degli artt. 2086 e 2104 c.c., direttamente o mediante la propria organizzazione gerarchica.
Ciò non esclude che il controllo delle guardie particolari giurate, o di un'agenzia investigativa, non possa riguardare, in nessun caso, né l'adempimento, né l'inadempimento dell'obbligazione contrattuale del lavoratore di prestare la propria opera, essendo l'inadempimento stesso riconducibile, come l'adempimento, all'attività lavorativa, che è sottratta alla suddetta vigilanza, ma deve limitarsi agli atti illeciti del lavoratore non riconducibili al mero inadempimento dell'obbligazione (cfr., in tali termini, n. 9167 del 2003).
Tale principio è stato ribadito ulteriormente, affermandosi che
le dette agenzie per operare lecitamente non devono sconfinare nella vigilanza dell'attività lavorativa vera e propria, riservata, dall'art. 3 dello Statuto, direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori, restando giustificato l'intervento in questione non solo per l'avvenuta perpetrazione di illeciti e l'esigenza di verificarne il contenuto, ma anche in ragione del solo  sospetto o della mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione (v. Cass. n. 3590 del 2011).
Né a ciò ostano sia il principio di buona fede sia il divieto di cui all'art. 4 dello Statuto dei lavoratori, ben potendo il datore di lavoro decidere autonomamente come e quando compiere il controllo, anche occulto, ed essendo il prestatore d'opera tenuto ad operare diligentemente per tutto il corso del rapporto di lavoro (cfr. n. 16196 del 2009).
Ciò posto
occorre dare continuità all'insegnamento che ha considerato legittimo il controllo finalizzato all'accertamento dell'utilizzo improprio dei permessi ex. l. n. 104 del 1992, art. 33, suscettibile di rilevanza anche penale, essendo stato effettuato al di fuori dell'orario di lavoro ed in fase di sospensione dell'obbligazione principale di rendere la prestazione lavorativa (in termini Cass. n. 4984 del 2014).

TRIBUTIGestori di acqua, energia e tlc esenti dal canone concessorio. Servizi a rete. Il Consiglio di Stato ribadisce il recente cambio di giurisprudenza.
Non è dovuto il canone concessorio se l’occupazione dei servizi a rete non impedisce in tutto o in parte la fruizione della strada.
Lo ha deciso il Consiglio di Stato -Sez. V- con la sentenza 12.05.2016 n. 1926, confermando l’annullamento di un regolamento comunale istitutivo del canone concessorio non ricognitorio.
Finisce così l’ampio contenzioso degli ultimi anni tra Comuni e gestori di acqua, gas, energia elettrica e telecomunicazioni. La materia del contendere non riguarda la Tosap (o il Cosap) ma l’applicazione del canone previsto dall’articolo 27 del Codice della strada, che molti Comuni hanno istituito con regolamento, poi impugnato assieme alle richieste di pagamento inviate ai gestori dei servizi a rete.
Per comprendere le dimensioni del fenomeno va considerato che nel 2015 sono state depositate ben 65 sentenze (in particolare dal Tar Milano), in prevalenza negative per gli enti locali, che si sono visti annullare i regolamenti con evidenti ripercussioni sui bilanci. Da qui l’appello al Consiglio di Stato, che si era peraltro già pronunciato a fine 2014, attribuendo al canone in questione la patente di legittimità (sentenza n. 6459/2014).
Ma il vento è cambiato. Una prima avvisaglia si è avuta con l’ordinanza n. 1191 del 7 aprile scorso dello stesso Consiglio di Stato, che dava atto di un orientamento favorevole alla tesi comunale, ma riteneva di pervenire a diverse conclusioni per «prevalenti ragioni testuali e sistematiche». Le stesse parole della sentenza depositata ieri all’esito dell’udienza pubblica tenutasi proprio il 7 aprile insieme a tanti altri appelli sul canone. Si attendono quindi altre sentenze dello stesso tenore, che conferma la decisione del Tar Milano (sentenza n. 1130/2015) sia pure per ragioni in parte diverse.
In particolare i giudici di Palazzo Spada evidenziando che il canone concessorio stradale non può essere richiesto a fronte di qualunque utilizzo della strada, ma solo in caso di utilizzo che impedisca in tutto o in parte la pubblica fruizione. Pertanto la pretesa sarà legittima solo durante la fase di posa in opera dell’infrastruttura a rete, trattandosi di lavori che occupano la sede stradale.
In sostanza, contrariamente a quanto affermato con sentenza n. 6459/2014, il Consiglio di Stato esclude ora la possibilità di esigere il canone non ricognitorio in tutte le ipotesi di utilizzo del sottosuolo stradale che non impediscono o limitano l’uso pubblico della sede viaria, come nel caso delle infrastrutture idriche a rete. Un settore peraltro nel quale vige un principio di tendenziale gratuità della messa a disposizione della rete idrica (articolo 153 Dlgs 152/2006).
Lo stesso dicasi anche per le reti di telecomunicazioni (articolo 93 Dlgs 259/2003), ma in questo caso il nodo interpretativo è stato definitivamente sciolto dal legislatore con l’articolo 12 del Dlgs 33/2016, che vieta l’applicazione di altri oneri. Per tutti gli altri gestori (acqua, gas ed energia elettrica), lo stop al canone è invece arrivato dal Consiglio di Stato
(articolo Il Sole 24 Ore del 13.05.2016).

LAVORI PUBBLICIGara per appalto integrato, esclusione legittima senza Sia.
La mancanza dello studio di impatto ambientale (Sia) e della relazione sulle indagini e sui rilievi legittima l'esclusione di una offerta per un appalto integrato; non è sanabile con il soccorso istruttorio e determina la legittima esclusione dalla gara.

È quanto ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 12.05.2016 n. 1904 in relazione alla gara per un appalto integrato bandita sulla base del progetto preliminare, con richiesta del progetto definitivo in sede di offerta.
In questa procedura, non più ammessa dal nuovo codice dei contratti pubblici, il disciplinare di gara prescriveva la presentazione, tra gli altri, della «relazione sulle indagini e i rilievi effettuati e propedeutici alla progettazione» e dello «studio di impatto ambientale», entrambi previsti come documenti essenziali annessi al progetto definitivo dall'art. 24 dell'abrogato dpr 207/2010.
Nel caso di specie i giudici hanno confermato che non soltanto mancavano i citati documenti, ma non esistevano in altri atti, comunque prodotti, documenti riconducibili a quelli richiesti a pena di esclusione. In realtà, nota la sentenza, in qualche documento potevano rinvenirsi alcuni riferimenti a studi e documenti, ma «non sussisteva invece, anche sotto il profilo sostanziale, una vera e propria relazione propedeutica alla progettazione secondo ciò che è richiesto per tale tipologia di opera, né uno studio di impatto ambientale o altro documento analogo o equivalente».
Il collegio ha confermato la sentenza di primo grado e quindi ritiene legittima l'esclusione disposta per mancanza di documenti indicati dal bando e dal disciplinare di gara, previsti obbligatoriamente a pena di esclusione. Per il Cds si tratta di documenti espressione di specifiche prescrizioni poste dalla legge (dal regolamento sui contratti pubblici) e la loro mancanza integra la fattispecie del «mancato adempimento alle prescrizioni previste dal presente codice e dal regolamento e da altre disposizioni di legge vigenti».
Tale mancanza non è neanche rimediabile con la regolarizzazione documentale postuma ex art. 46 del Codice dei contratti pubblici (cosiddetto soccorso istruttorio) anche perché in un appalto integrato «il progetto definitivo rappresenta una parte integrante e sostanziale della domanda di partecipazione del concorrente» (articolo ItaliaOggi del 20.05.2016).
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2. Passando all’esame dell’appello, si deve rammentare in via generale che
è da ritenersi legittima un’esclusione disposta per mancanza di documenti indicati dalla lex specialis di gara, da produrre obbligatoriamente a pena di esclusione, trattandosi di documenti espressione di specifiche prescrizioni poste dalla legge (o, come nel caso di specie, dal Regolamento sui contratti pubblici ex d.P.R. n. 2017/2010), ciò integrando la fattispecie del “mancato adempimento alle prescrizioni previste dal presente codice e dal regolamento e da altre disposizioni di legge vigenti (cfr. anche Consiglio di Stato, Ad, Plen,, 25.02.2014, n. 9), non rimediabile con la regolarizzazione documentale postuma ex art. 46 del Codice dei contratti pubblici (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. V, 22.10.2015, n. 4869).
Tale principio è ancora più rilevante nelle ipotesi, come quelle in esame, in cui viene in rilievo un cd. appalto integrato ex art. 53, comma 2, lett. b), d.lgs. n. 163 del 2006, nel quale il progetto definitivo rappresenta una parte integrante e sostanziale della domanda di partecipazione del concorrente.
Nel caso in esame, il par. X4 del disciplinare di gara, pedissequamente riproduttivo delle vigenti norme regolamentari, prescriveva la presentazione, tra gli altri, della “relazione sulle indagini e i rilievi effettuati e propedeutici alla progettazione” (par. X4, n. 1, lett. c) del disciplinare di gara) e dello “studio di impatto ambientale” (par. X4, n. 1, lett. f) del disciplinare di gara).
Il primo di tali documenti è previsto quale documento essenziale annesso al progetto definitivo dall’art. 24, comma 2, lett. b), d.P.R. n. 207/2010; il secondo dall’art. 24, comma 2, lett. e), d.P.R. n. 207/2010.
Le prescrizioni documentali contenute nel disciplinare di gara a pena di esclusione corrispondono dunque a specifiche previsioni del Regolamento e risultano, pertanto, legittime in coerenza con l’art. 46, comma 1-bis, d.lgs. n. 163 del 2006.
3. Sotto il profilo sostanziale, oggetto del secondo motivo d’appello della Regione, si deve evidenziare che il verificatore ha avuto l’incarico del TAR, espletandolo fedelmente e accuratamente, di riscontrare controllare non solo la carenza formale della documentazione prodotta, ma anche di verificarne se sostanzialmente esistevano in altri atti, comunque prodotti, i predetti documenti richiesti a pena di esclusione, procedendo all’indagine in concreto di tutta la documentazione prodotta dall’aggiudicatario sulla base delle regole tecniche che presiedono alla redazione dei progetti in gara, nell’esercizio di un corretto potere istruttorio sulla base degli artt. 64 e 66 c.p.a. ( senza alcuna sostituzione delle valutazioni riservate all’Amministrazione).
Il verificatore in primo grado, con valutazioni approfondite e del tutto condivisibili, ha puntualmente accertato che, quand’anche in qualche documento possano rinvenirsi alcuni riferimenti a studi e documenti, non sussiste invece, anche sotto il profilo sostanziale, una vera e propria relazione propedeutica alla progettazione secondo ciò che è richiesto per tale tipologia di opera, né uno studio di impatto ambientale o altro documento analogo o equivalente.
L’appello della Regione deve essere respinto.
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5. Anche il secondo motivo d’appello incidentale è infondato, posto che, in primo luogo, come riconosce anche l’appellante incidentale, non è certamente applicabile al caso di specie (e alle ipotesi risarcitorie come quella in esame) la regola oggi stabilita dall’art. 38, comma 2-bis, d.lgs. n. 163 del 2006, che espressamente prevede che la graduatoria rimanga congelata a prescindere da ogni successiva modifica, anche per via giurisdizionale, della compagine dei concorrenti.
In secondo luogo,
si deve rilevare che il mancato riconoscimento di un’aggiudicazione automatica al RTI Ador.Mare dell’appalto in questione, in quanto seconda graduata, a seguito dell’esclusione del RTI La Dragaggi incide soltanto ed esclusivamente sotto il profilo risarcitorio per verificare la sussistenza della lesione del bene della vita e, conseguentemente, del danno.
E
’ pur vero che è possibile fare applicazione degli ordinari criteri elaborati dalla giurisprudenza, civile ed amministrativa, in tema di accertamento della probabilità per il RTI Ador.Mare di aggiudicarsi la procedura di gara in esame; ma se tale probabilità viene ragionevolmente messa in discussione tanto da non permettere al giudice di raggiungere il pieno convincimento circa l’esistenza nella specie del cd. “più probabile che non (cfr., a contrario, Consiglio di Stato, sez. IV, 20.01.2015, n. 131), è evidente che si aprono due possibili strade, egualmente percorribili: rigettare la domanda risarcitoria, ovvero verificare se, sulla base di un diverso criterio, sia possibile raggiungere un pieno convincimento in ordine a tale elemento della fattispecie aquiliana.
Nel caso in esame, tale criterio è stato riconosciuto nella riedizione della gara, mediante confronto a coppie, con un ragionamento formulato dal TAR con dovizia di argomentazioni non irragionevoli che, in questa sede, non può che trovare conferma, in quanto specificamente calibrato alla gara in oggetto e compatibile con il metodo del confronto a coppie, metodo che produce risultati che non sono ricostruibili ex post, sempre ai soli fini risarcitori, mediante un’operazione logico-ricostruttiva del giudice.
Pertanto,
quando il giudice di primo grado non raggiunga un pieno convincimento in merito all’esistenza del danno risarcibile, anche in base al criterio del cd. “più probabile che non”, è legittimo ricorrere ad altri ed ulteriori, purché ragionevoli, criteri induttivi per verificarne aliunde la sussistenza, così come è avvenuto nel caso in esame.
6. Parimenti infondato è l’ultimo motivo d’appello incidentale, con il quale l’appellata Ador.Mare srl ritiene che il quantum risarcitorio debba ricomprendere: il mancato utile sui lavori non eseguiti; il mancato risparmio delle spese generali; la perdita di chance e il danno curriculare; il danno conseguente alla mancata remunerazione dei costi sostenuti per la progettazione definitiva redatta nonché al mancato utile sulla progettazione.
Ritiene il Collegio che il TAR abbia fatto buon uso dei criteri di matrice giurisprudenziale funzionali alla liquidazione del danno.
Infatti,
il TAR ha liquidato il lucro cessante con riferimento alla percentuale di profitto desumibile dalla concreta offerta presentata dalla medesima ricorrente, così come ritenuto compatibile da questo Consiglio in plurime decisioni (cfr., da ultimo, Consiglio di Stato, sez. III, 10.04.2015, n. 1839).
Lo stesso è a dirsi per quanto riguarda il danno curriculare, poiché nelle gare pubbliche non può trovare accoglimento la richiesta di risarcimento del danno curriculare del quale non sia stata fornita alcuna prova (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 30.11.2015, n. 5396).
Per quanto riguarda il mancato riconoscimento delle spese sostenute dall’appellato, si deve ribadire (da ultimo, Consiglio di Stato, sez. III, 10.04.2015, n. 1839) che
nelle controversie aventi ad oggetto gli atti di gara pubblica non è risarcibile il danno per spese e costi di partecipazione alla gara, per le spese generali e legali e le spese di progettazione atteso che la partecipazione alle gare d'appalto comporta per i partecipanti costi che ordinariamente restano a carico delle imprese medesime, sia in caso di aggiudicazione che in caso di mancata aggiudicazione, a meno di non riconoscere un risarcimento per equivalente superiore alle perdite patrimoniali subite dal danneggiato, violando pertanto un principio fondamentale in tema di risarcimento; con il risultato che l'impresa concorrente illegittimamente pretermessa dalla aggiudicazione percepirebbe, in sede risarcitoria, più di quanto avrebbe avuto se avesse eseguito il contratto, poiché beneficerebbe sia dei vantaggi economici che avrebbe avuto se non avesse stipulato ed eseguito il contratto oggetto di gara, sia del lucro che avrebbe conseguito ove il contratto fosse stato eseguito; in definitiva, si cumulerebbero i danni da lesione dell'interesse negativo con quelli da lesione dell'interesse positivo, il che è da ritenere inammissibile alla luce dei principi in materia di risarcimento del danno.
Infine, il dedotto danno da perdita di chance non si ritiene dovuto, atteso che risulta assorbito dalla corresponsione della piena percentuale di profitto, come sopra indicato.
E’ evidente che il danno liquidato ricomprende interessi e rivalutazione, secondo i noti principi elaborati da questa giurisprudenza, poste di danno pacificamente ricomprese nel quantum liquidato dallo stesso TAR, benché non esplicitate, atteso che la liquidazione è avvenuta solo “per criteria”; tali elementi accessori del credito aquiliano dovranno dunque essere specificati in sede esecutiva

INCARICHI LEGALI: Legali in gara, quantum deciso dalla p.a..
Nel caso di partecipazione di un avvocato a una commissione di gara per un appalto pubblico non vanno applicate le tariffe professionali, bensì il compenso fissato dall'amministrazione.

Questo è quanto ha precisato la Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la sentenza 11.05.2016 n. 9659.
I giudici della Suprema corte, infatti, hanno rilevato come le tariffe professionali degli avvocati siano applicabili solo per quelle attività tecniche, o comunque collegate con prestazioni di carattere tecnico, che siano considerate nella tariffa, oggettivamente proprie della professione legale.
Tali attività devono essere specificamente riferite alla consulenza o assistenza delle parti in affari giudiziari o extragiudiziari e non possono essere, quindi, applicate, solo perché rese da un professionista iscritto all'albo, alle prestazioni svolte nell'ambito di una commissione mista, i cui atti siano imputabili esclusivamente all'organo collegiale.
Alla luce di queste considerazioni ne deriva che, nel caso in esame, in caso di commissione composta dal presidente dell'Ufficio regionale per i pubblici appalti, da tre professionisti ingegneri e/o architetti e da un professionista esperto in materie giuridiche, il compenso di quest'ultimo componente deve essere liquidato, sebbene avvocato, non applicando le tariffe professionali forensi, bensì secondo la misura stabilita dall'assessore regionale per i lavori pubblici, al quale, per legge regionale, spetta provvedere alla relativa determinazione (articolo ItaliaOggi Sette del 16.05.2016).

INCARICHI PROFESSIONALIPareri pure senza motivazione. Discrezionalità al Consiglio dell'Ordine degli avvocati. PARCELLE/ Il Tar Umbria sui compensi contenuti tra minimi e massimi tariffari.
I pareri di congruità espressi dal Consiglio dell'Ordine degli avvocati sulla liquidazione delle parcelle professionali, contenuta tra i minimi ed i massimi tariffari, non richiedono specifica motivazione.

Lo ha precisato il TAR Umbria con la sentenza 10.05.2016 n. 395.
Nel caso in esame era stato chiesto l'annullamento del provvedimento con cui l'Ordine degli avvocati di Perugia aveva disposto la liquidazione di un compenso professionale pari a euro 16 mila per l'attività svolta da un avvocato nel corso di una controversia civile al fine di fare accertare il mancato rispetto delle distanze legali tra costruzioni e di chiedere la conseguente condanna a porre in essere le opere necessarie a eliminare il manufatto illecitamente realizzato.
Il ricorrente, sebbene la causa si fosse conclusa positivamente, a suo favore, aveva lamentato che tale provvedimento di liquidazione impugnato non conteneva alcuna motivazione.
I giudici amministrativi respingono il ricorso.
Il Collegio osserva, infatti, come il parere di congruità sulle parcelle professionali reso dal Consiglio dell'Ordine degli avvocati sia un atto soggettivamente e oggettivamente amministrativo. Tale atto non si esaurisce in una mera certificazione della rispondenza del credito alla tariffa professionale, ma implica una valutazione di congruità della prestazione.
Dal momento che tale valutazione di congruità non si esaurisce in un mero riscontro di conformità alla tariffa delle prestazioni professionali degli avvocati, la liquidazione così effettuata interviene nell'esercizio di un potere ampiamente discrezionale che -secondo i giudici amministrativi- se contenuta tra i minimi e i massimi tariffari non richiede alcuna precisa motivazione (articolo ItaliaOggi Sette del 16.05.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
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Ciò precisato, va ricordato che secondo il costante indirizzo giurisprudenziale,
il parere di congruità sulle parcelle professionali reso dal Consiglio dell’Ordine degli avvocati è atto soggettivamente ed oggettivamente amministrativo, che non si esaurisce in una mera certificazione della rispondenza del credito alla tariffa professionale, ma implica una valutazione di congruità della prestazione.
Non esaurendosi dunque siffatta valutazione di congruità in un mero riscontro di conformità alla tariffa delle prestazioni professionali degli avvocati, la liquidazione così effettuata interviene nell’esercizio di un potere ampiamente discrezionale e, se contenuta tra i minimi ed i massimi tariffari
(il che non è contestato nella fattispecie), non richiede specifica motivazione, spettando al contrario al professionista che lo contesti dedurre e provare che il giudizio stesso si sia tradotto in una determinazione, che finisce con il prescindere dal considerare l’effettiva realtà delle prestazioni professionali rese (in termini Cons. Stato, Sez. IV, 23.12.2010, n. 9352; Sez. IV, 24.12.2009, n. 8749).
La liquidazione della parcella del ricorrente non è dunque inficiata da vizio motivazionale, tanto più che, nella vicenda in esame, vi è stata la nota dell’Ordine degli Avvocati di Perugia in data 11.05.2015 che ha esplicitato al ricorrente come «le valutazioni di merito sono […] da ritenersi incorporate nelle annotazioni e nei depennamenti posti a margine della Sua nota, che prevedeva uno scaglione di riferimento differente rispetto a quanto dichiarato negli atti di causa».
Piuttosto, esaminando le censure del ricorrente, il Consiglio ha legittimamente preso a parametro lo scaglione di valore indeterminabile (alto), mentre il ricorrente aveva applicato quello del valore tra euro 500.000,00 ed euro 1.500.000,00; ed invero la domanda di accertamento della realizzazione di un edificio in violazione delle norme sulle distanze tra le costruzioni non consente di individuare il valore effettivo della controversia, e, del resto, lo stesso ricorrente aveva indicato un valore indeterminato ai fini del contributo unificato.
Il “pro-memoria” esplicativo del valore della causa, ipotizzante un intervento di demolizione e di consolidamento, anche a prescindere dalla sua attendibilità, non ha valore, in quanto attiene alla fase di esecuzione della sentenza.

SICUREZZA LAVORODopo la fine dei lavori edili il cantiere non è chiuso. Resta l’obbligo di vigilare sulla sicurezza dei lavoratori.
Cassazione. La posizione di garanzia del committente e del coordinatore.
Il cantiere non può considerarsi chiuso una volta ultimati i lavori di carpenteria: per gli addetti resta dunque l’obbligo di vigilare sulla sicurezza degli operai.
La Corte di Cassazione - Sez. IV penale, con la sentenza 09.05.2016 n. 19208, accoglie il ricorso del pm contro la decisione del giudice per le indagini preliminari di dichiarare il non luogo a procedere nei confronti del coordinatore per la sicurezza e del committente, accusati di omicidio colposo per la morte di un operaio.
Secondo il pm, il cantiere, al momento dell’incidente non poteva dirsi chiuso, perché erano ancora in corso alcune attività. Ad iniziare dallo “scassero” delle forme utilizzate per i pilastri di cemento armato, tanto più che non c’era stata nessuna rituale comunicazione di fine lavori alla committente da parte della ditta affidataria.
Per la Suprema corte ci sono certamente margini per una lettura alternativa a quella data dal gip, come evidenziato dal consulente tecnico che aveva considerato verosimile la sussistenza di un nesso di causalità tra la condotta degli indagati e l’evento. Molte le irregolarità riscontrate: dall’omessa verifica degli obblighi relativi all’applicazione delle disposizioni sulla sicurezza previste dal Piano di sicurezza e coordinamento, alla mancata verifica della validità del contratto di subappalto, in realtà nullo in origine per l’assenza di dettagli sui costi della sicurezza.
La Cassazione mette l’accento sul primario compito di coordinamento delle attività di più imprese nell’ambito di uno stesso cantiere attribuito al coordinatore dalla legge (Dlgs 89/2008). Secondo la norma, per cantiere temporaneo o mobile si intende qualunque luogo nel quale si effettuino lavori edili: dalla costruzione alla demolizione. Si pone dunque in netto contrasto con la legge l’interpretazione in base alla quale con la fine dei lavori edili si esaurisce la posizione di garanzia del coordinatore per l’esecuzione e del committente.
Per la Cassazione, ciò che mantiene operante tale ruolo non può essere tanto il mancato completamento delle attività inerenti i lavori edili o di ingegneria civile, quanto piuttosto la persistenza di ulteriori fasi di lavorazione tipiche dell’attività di cantiere nel suo complesso.
L’esecuzione di lavori edili o di ingegneria civile -scrivono i giudici- serve, a connotare, in ragione del tipo di attività svolta, il cantiere temporaneo o mobile, ma non è sufficiente a definire anche i suoi limiti spaziotemporali «diversamente correlati al perfezionamento di tutte le fasi di lavorazione anche successive ai lavori edili o di ingegneria civile in senso stretto, funzionali al collaudo e alla consegna dell’opera».
La vicenda, sottolinea la Cassazione, impone, in sede di udienza preliminare, un esame più dettagliato del fatto e del comportamento dei singoli indagati
(articolo Il Sole 24 Ore del 10.05.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
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5.1. Per contro, la vicenda, nella sua delicatezza e peculiarità allo stato delle indagini, presenta sicuramente possibilità di lettura alternativa rispetto a quella esposta dal Giudice, come del resto manifestato dal consulente tecnico del p.m. (ing. Gi.Ru.), il quale ha comunque rappresentato la verosimile sussistenza del nesso di causalità tra la condotta, colpevole, degli imputati Le. e Pr. e l'evento.
Quanto al primo si evidenziava che lo stesso aveva omesso di verificare l'adempimento, da parte del coordinatore per l'esecuzione dei lavori, degli obblighi relativi all'applicazione delle disposizioni sulla sicurezza previste dal Piano di Sicurezza e Coordinamento (PSC), ed, in particolare, di vigilare sulla presenza del Coordinatore in cantiere e, inoltre, non avrebbe assolto ad alcune rilevanti incombenze:
a) non avrebbe verificato la validità temporale del Documento Ufficiale di Regolarità Contributiva dell'impresa affidataria "Or.Co. srl", allegata alla comunicazione d'inizio lavori;
b) non avrebbe eccepito alcunché sulla validità del contratto di subappalto intercorso tra la suddetta e la "Ed.Ve. srl", sebbene lo stesso ne avesse avuto la contezza per averlo preventivamente autorizzato, in quanto viziato, nella sua genesi, dalla mancata specificazione dei costi relativi alla sicurezza ex art. 26, comma 5, D.Lgs. 81/2008, come tale, quindi, da ritenersi nullo ai sensi dell'art. 1418 del codice civile, quindi improduttivo di effetti ab origine.
Quanto al secondo si evidenziava che, oltre ad essere stato autore di incoerenze su taluni dati inseriti nell'iter procedimentale della gara di appalto, aveva omesso di ottemperare alle incombenze a lui prescritte dall'articolo 92, comma 1, D.Lgs. 81/2008.
6. Mette conto, ancora, ricordare che
i compiti e la funzione normativamente attribuiti alla posizione di garanzia del coordinatore per l'esecuzione dei lavori risalgono all'entrata in vigore del D.Lgs. 14.08.1996, n. 494 (di attuazione della Direttiva 92/57/CEE) -nell'ambito di una generale e più articolata ridefinizione delle posizioni di garanzia e delle connesse sfere di responsabilità correlate alle prescrizioni minime di sicurezza e di salute da attuare nei cantieri temporanei o mobili- a fianco di quella del committente, allo scopo di consentire a quest'ultimo di delegare, a soggetti qualificati, funzioni e responsabilità di progettazione e coordinamento, altrimenti su di lui ricadenti, implicanti particolari competenze tecniche.
La definizione dei relativi compiti e della connessa sfera di responsabilità discende, pertanto, da un lato, dalla funzione di generale, alta vigilanza che la legge demanda allo stesso committente, dall'altro dallo specifico elenco, originariamente contenuto nel D.Lgs. 14.08.1996, n. 494, art. 5, ed attualmente trasfuso nel D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 92, a mente del quale
il coordinatore per l'esecuzione è tenuto:
- a verificare, con opportune azioni di coordinamento e controllo, l'applicazione, da parte delle imprese esecutrici e dei lavoratori autonomi, delle disposizioni loro pertinenti contenute nel Piano di Sicurezza e di Coordinamento (P.S.C.) e la corretta applicazione delle relative procedure di lavoro;
- a verificare l'idoneità del Piano Operativo di Sicurezza (P.O.S.), assicurandone la coerenza con il P.S.C., che deve provvedere ad adeguare in relazione all'evoluzione dei lavori ed alle eventuali modifiche intervenute, valutando le proposte delle imprese esecutrici dirette a migliorare la sicurezza in cantiere; a verificare che le imprese esecutrici adeguino, se necessario, i rispettivi P.O.S.;
- ad organizzare tra i datori di lavoro, ivi compresi i lavoratori autonomi, la cooperazione ed il coordinamento delle attività nonché la loro reciproca informazione;
- a verificare l'attuazione di quanto previsto negli accordi tra le parti sociali al fine di realizzare il coordinamento tra i rappresentanti della sicurezza finalizzato al miglioramento della sicurezza in cantiere;
- a segnalare, al committente o al responsabile dei lavori, le inosservanze alle disposizioni cautelari e alle prescrizioni del P.S.C., proponendo la sospensione dei lavori, l'allontanamento delle imprese o dei lavoratori autonomi dal cantiere, o la risoluzione del contratto in caso di inosservanza;
- a dare comunicazione di eventuali inadempienze alla Azienda Unità Sanitaria Locale e alla Direzione Provinciale del Lavoro territorialmente competenti;
- a sospendere, in caso di pericolo grave e imminente, direttamente riscontrato, le singole lavorazioni fino alla verifica degli avvenuti adeguamenti effettuati dalle imprese interessate.

6.1. Ed è proprio in relazione al primario compito di coordinamento delle attività di più imprese nell'ambito di un medesimo cantiere, normativamente attribuito a tale figura professionale, che deve trovare fondamento la definizione della sua posizione di garanzia nel cantiere temporaneo o mobile come positivizzata nel D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 89, comma 1, lett. a).
Secondo tale norma,
per cantiere temporaneo o mobile s'intende qualunque luogo in cui si effettuano lavori edili o di ingegneria civile, ossia qualunque luogo in cui si effettuano lavori di costruzione, manutenzione, riparazione, demolizione, conservazione, risanamento, ristrutturazione o equipaggiamento; la trasformazione, il rinnovamento o lo smantellamento di opere fisse, permanenti o temporanee, in muratura, in cemento armato, in metallo, in legno o in altri materiali, comprese le parti strutturali delle linee elettriche e le parti strutturali degli impianti elettrici, le opere stradali, ferroviarie, idrauliche, marittime, idroelettriche e, solo per la parte che comporta lavori edili o di ingegneria civile, le opere di bonifica, di sistemazione forestale e di sterro; gli scavi, ed il montaggio e lo smontaggio di elementi prefabbricati utilizzati per la realizzazione di lavori edili o di ingegneria civile.
6.2. Come è evidente,
la lettera della legge non autorizza a ritenere che il cantiere temporaneo o mobile debba considerarsi concluso, e che sia correlativamente esaurita la posizione di garanzia del coordinatore per l'esecuzione e del committente, allorché siano terminate le opere edili in senso stretto, ponendosi tale interpretazione in contrasto tanto con la pluralità delle lavorazioni che, ordinariamente, afferiscono ai cantieri in cui si eseguono lavori edili, e che sono agli stessi funzionali, quanto con la necessità di garantire la massima sicurezza dei lavoratori legata al coordinamento delle diverse attività lavorative per tutto il tempo necessario a consentire la completa esecuzione dell'opera, ancorché í lavori edili in senso stretto siano stati terminati in un momento antecedente.
6.3.
Ciò che mantiene operante la posizione di garanzia del coordinatore per l'esecuzione e del committente non può essere tanto il mancato completamento delle attività inerenti ai lavori edili o di ingegneria civile propriamente detti, quanto piuttosto la persistenza di ulteriori fasi di lavorazione proprie dell'attività di cantiere nel suo complesso.
L'esecuzione di lavori edili o di ingegneria civile giova, in altre parole, a connotare, in ragione del tipo di attività che ivi si svolge, il cantiere temporaneo o mobile, ma non è sufficiente a definire anche i limiti spaziotemporali di tale cantiere, diversamente correlati al perfezionamento di tutte le fasi di lavorazione, anche successive ai lavori edili o di ingegneria civile in senso stretto, funzionali al collaudo ed alla consegna dell'opera
(cfr. sez. 4, n. 3809 del 07/01/2015).
6.4. Tanto vieppiù vale se si considera che non vi era stata (e comunque non ve n'è traccia agli atti) alcuna rituale comunicazione di fine lavori alla committente da parte dell'impresa affidataria.

EDILIZIA PRIVATA - VARIIl preliminare è valido anche senza titoli edilizi. Cassazione. Resta l’eseguibilità in forma specifica.
Non è nullo, ed è comunque eseguibile in forma specifica, il contratto preliminare di compravendita immobiliare che non rechi le cosiddette «menzioni urbanistiche», vale a dire quei contenuti, in ordine ai titoli edilizi in forza dei quali l’edificio promesso in vendita è stato costruito o ristrutturato, che è prescritto a pena di nullità per la stipula del contratto definitivo dalla legge 47/1985 e dal Dpr 380/2001.
È quanto deciso dalla Corte di Cassazione, Sez. II civile, nella sentenza 09.05.2016 n. 9318, in riforma della sentenza 195/2011 della Corte d’Appello di Lecce, andata in segno contrario.
Come noto, gli atti traslativi della proprietà di edifici devono contenere, a pena di nullità, talune menzioni o dichiarazioni: ad esempio, la attestazione che l’edificio è stato costruito prima del settembre 1967, la menzione dei titoli edilizi che hanno abilitato le costruzioni post 1967, la menzione delle domande di condono edilizio e dei relativi versamenti di oblazioni e oneri, eccetera.
Quanto poi ai contratti di compravendita di terreni, occorre allegare ad essi il certificato di destinazione urbanistica e attestare, nel corpo del contratto, che le prescrizioni degli strumenti urbanistici non sono variate dalla data di rilascio di detto certificato.
Si pone dunque il tema se tutto questo apparato di dichiarazioni debba essere contenuto anche nel contratto preliminare, e ciò anche in vista del fatto che, in caso di inadempimento all’obbligo di stipula del contratto definitivo assunto con il contratto preliminare, il contraente non inadempiente può domandare al giudice (ai sensi dell’articolo 2932 del Codice civile) l’emanazione di una sentenza la quale tenga luogo del contratto definitivo che non è stato spontaneamente stipulato a causa dell’inadempimento di uno dei contraenti del contratto preliminare.
La risposta è negativa: la mancanza nel preliminare dei contenuti che sono prescritti per la validità del contratto definitivo non inficia la validità del contratto preliminare e la sua eseguibilità in forma specifica, in quanto ben può il contraente non inadempiente integrare, nel corso del giudizio, i dati utili al trasferimento immobiliare e che manchino nel contratto preliminare.
In sede di giurisprudenza di legittimità è stato infatti più volte affermato che, per ottenere la sentenza di esecuzione in forma specifica di cui all’articolo 2932 del Codice civile, non è necessario che nel contratto preliminare siano inserite le dichiarazioni urbanistiche richieste, a pena di nullità del contratto definitivo di compravendita: in tal senso si sono espresse non solo le Sezioni Unite nella sentenza 11.11.2009, n. 23825, ma anche diverse sentenze delle sezioni semplici (a cominciare dalla 628/2003 per giungere alla 15947/2015, passando attraverso la 17028/2012 e la 28456/2013). La ragione è che (per utilizzare le parole delle Sezioni Unite) tali dichiarazioni non costituiscono un «presupposto della domanda, bensì una condizione dell’azione, che può intervenire anche in corso di causa e sino al momento della decisione della lite».
Questo significa, in sostanza, che la sentenza di esecuzione in forma specifica può essere pronunciata anche nel caso in cui le dichiarazioni in questione non siano state inserite fin dall’origine nel testo del contratto preliminare, purché esse siano rese nel corso del giudizio, e comunque prima dell’emissione della sentenza che giudica sulla domanda di esecuzione in forma specifica del contratto preliminare
(articolo Il Sole 24 Ore del 10.05.2016 - tratto da www.fiscooggi.it).

PUBBLICO IMPIEGOPubblico impiego, legittimo lo stop alle ferie «monetizzate». Spending review. Esclusi i casi di cessazione imprevista.
Il divieto di monetizzare le ferie è «una normativa settoriale», nata dall’obiettivo di «arginare un possibile uso distorto della monetizzazione», e quindi non cozza contro il diritto al riposo e l’obbligo di pagare il lavoro aggiuntivo rispetto a quello stabilito dal contratto.

Su questi presupposti, nella sentenza 06.05.2016 n. 95 la Corte costituzionale (presidente Lattanzi, relatore Sciarra) ha salvato il blocco alla traduzione in euro delle ferie dei dipendenti pubblici, imposto dal Governo Monti nella spending review del 2012 (articolo 5, comma 8 del Dl 95/2012) all’interno del pacchetto di misure scritte per frenare la spesa pubblica.
A portare la questione sui tavoli dei giudici delle leggi è stato il Tribunale di Roma, che oltre a giudicare «manifestamente irragionevole» (e quindi contrario all’articolo 3 della Costituzione) lo stop assoluto alla monetizzazione, ha chiamato in causa anche l’articolo 36 della Carta fondamentale, quello che fissa il diritto «al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite».
Per la Consulta, però, questi diritti costituzionali non sono messi a rischio dalla spending review di Monti che anzi riaffermerebbe «la preminenza del godimento effettivo delle ferie».
Il meccanismo applicativo, disciplinato dalle istruzioni a suo tempo diffuse da Inps, Ragioneria generale dello Stato e Funzione pubblica, hanno infatti permesso di trasformare le ferie in euro nel caso più a rischio, cioè quello in cui il rapporto di lavoro con l’amministrazione di riferimento si chiude per ragioni «che non chiamino in causa la volontà del lavoratore e la capacità organizzativa del datore di lavoro».
In tutti gli altri casi, dalle dimissioni al pensionamento, il diritto alle ferie non è messo a rischio, perché se il rapporto di lavoro si chiude per ragioni prevedibili o per la volontà del lavoratore c’è lo spazio per prevedere l’uscita, e quindi programmare il riposo in anticipo
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.05.2016).

CONDOMINIOIl lastrico solare resta comune. Condominio. Bocciata la pretesa di un proprietario che reclamava la proprietà esclusiva dopo aver sbarrato l’accesso agli altri.
Per escludere la natura di «parte comune» del lastrico solare non è sufficiente che chi ne reclama la proprietà esclusiva ne avesse precluso l’accesso agli altri condòmini.
Questo il principio espresso dalla Corte di Cassazione -Sez. II civile- con la sentenza 05.05.2016 n. 9035.
La vicenda prende le mosse da una coppia di coniugi che, dopo aver acquistato alcuni appartamenti, conveniva in giudizio la società venditrice, chiedendo che alla stessa venisse ordinata la remissione in pristino del lastrico solare che aveva riservato a sé.
La causa arrivava alla Cassazione che affermava che la natura comune del bene non potesse essere esclusa in alcun modo dal fatto che la società (ora condòmino) avesse privato da alcuni anni gli altri condòmini dell’accesso diretto al bene tramite le scale.
La Corte ricordava anzitutto come il lastrico solare sia inserito esplicitamente tra le «parti comuni» elencate dall’articolo 1117 del Codice civile, e che, in particolare, già una recente decisione (la 4501/2015) della Cassazione aveva così affermato: «La natura condominiale del lastrico solare, affermata dall’art. 1117 Cod. civ., può essere esclusa soltanto da uno specifico titolo in forma scritta, essendo irrilevante che il singolo condòmino non abbia accesso diretto al lastrico, se questo riveste, anche a beneficio dell’unità immobiliare di quel condòmino, la naturale funzione di copertura del fabbricato comune”.
Quindi è stato ribadito che il diritto di condominio sulle parti comuni (quali appunto il lastrico solare) può essere escluso se per le obbiettive caratteristiche del bene serve in modo esclusivo all’uso al godimento di un solo condòmino.
Nel caso affrontato, invece, il lastrico solare non aveva perso la propria natura condominiale, rimanendo infatti “al servizio” quale copertura del fabbricato comune nonostante un solo condòmino avesse materialmente privato gli altri condomini della possibilità di accedervi.
Secondo la Cassazione, inoltre, per vincere la presunzione di comunione delle parti comuni elencate dall’articolo 1117 del Codice civile occorre verificare se se nel primo atto di trasferimento di un unità immobiliare la proprietà del bene potenzialmente rientrante tra le parti comuni sia stata o meno riservata ad uno solo dei contraenti. Cosa che non era affatto avvenuta in questo caso
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.05.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Legali, niente tetto agli onorari nelle controversie sulle multe.
Il tetto per spese, competenze e onorari dei difensori nelle cause davanti al giudice di pace, introdotto dal decreto Salva Italia non opera nelle controversie di opposizione a ordinanza-ingiunzione, a verbale di accertamento per le violazioni al codice della strada e a cartella di pagamento laddove si denuncia la mancata notifica della multa.
E ciò perché deve ritenersi che la soglia introdotta dal dl 212/2011 operi soltanto nelle liti in cui il giudice di pace decide secondo equità, mentre nelle controversie inerenti le sanzioni amministrative si possono porre questioni complesse che implicano decisioni secondo diritto, anche se la parte opponente e la stessa amministrazione possono stare in giudizio di persona.

È quanto emerge dalla sentenza 05.05.2016 n. 8961 della VI Sez. civile della Corte di Cassazione.
È stato accolto il ricorso del trasgressore, dopo la sconfitta in sede di merito, quanto alla liquidazione di competenze e onorari. Anche secondo il tribunale se si litiga davanti al Gdp per una multa di 73 euro le spese di giustizia non potrebbero essere liquidate in misura superiore a 70. E invece no.
Il Salva Italia ha modificato l'art. 91 cpc introducendo il tetto alle spese di giustizia pari al valore della lite con un rinvio alle «cause previste dall'art. 82, comma 1 cpc»: quest'ultima norma dispone che «davanti al Gdp le parti possono stare in giudizio personalmente nelle cause il cui valore non eccede euro 1.100».
Il legislatore, dunque, ha voluto mettere una soglia solo per le controversie che sono attribuite alla giurisdizione equitativa del Gdp: deve, infatti, ricordarsi l'art. 113 Cpc, comma 2, secondo cui il Gdp decide secondo equità le cause il cui valore non eccede 1.100 euro, salvo quelle derivanti da rapporti giuridici relativi a contratti conclusi secondo le modalità di cui all'articolo 1342 cc.
La limitazione delle spese, quindi, riguarda le controversie nelle quali si può stare in giudizio da soli, mentre nelle cause sulle multe la difesa tecnica non solo è giustificata ma, in certi casi, indispensabile (articolo ItaliaOggi del 06.05.2016).

APPALTIGara: è legittimo escludere l'offerta tecnica non idonea.
È legittima l'esclusione dalla gara di un'impresa autrice di un'offerta giudicata inidonea dal punto di vista tecnico; non sufficiente la sola penalizzazione in termini di punteggio.

Lo ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 05.05.2016 n. 1809 per una procedura di affidamento di una concessione di nove anni del servizio di illuminazione.
In particolare i giudici hanno precisato che le difformità dell'offerta tecnica che pongono in evidenza l'inadeguatezza del progetto proposto dall'impresa offerente, rispetto ai requisiti minimi previsti dalla stazione appaltante per il contratto da affidare, legittimano l'esclusione dalla gara e non già la mera penalizzazione dell'offerta nell'attribuzione del punteggio.
Questo perché tali difformità determinano la mancanza di un elemento essenziale per la formazione dell'accordo necessario per la stipula del contratto. Inoltre, ha detto il Consiglio di stato, nell'ambito di un procedimento di manifestazione di volontà contrattuale scandito da fasi predefinite a livello normativo, l'esclusione dalla gara di un concorrente per difformità essenziali dell'offerta esprime il dissenso dell'amministrazione rispetto a un prodotto o servizio giudicato non rispondente alle caratteristiche tecniche minime previste nel progetto o nel capitolato posto a base della selezione.
A fronte di ciò, l'amministrazione legittimamente può quindi non riconoscere alcun punteggio durante la fase di valutazione tecnica e procedere direttamente all'esclusione dell'impresa dalla gara, manifestando il proprio dissenso impeditivo della conclusione del contratto per mancanza nell'oggetto dei profili qualitativi che la stessa amministrazione si sarebbe attesa dal concorrente.
In particolare, la stazione appaltante aveva evidenziato quattro punti specifici di inadeguatezza dei prodotti offerti per l'adeguamento tecnologico degli impianti di illuminazione, comportanti, secondo la stazione appaltante, una diminuzione qualitativa di questi ultimi. Per il collegio giudicante non vi era quindi alcun dubbio che si potesse procedere all'esclusione dalla gara di un'impresa autrice di un'offerta giudicata inidonea dal punto di vista tecnico (articolo ItaliaOggi del 13.05.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

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MASSIMA
3. Il motivo è infondato.
Secondo la costante giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, le difformità dell’offerta tecnica che rivelano l’inadeguatezza del progetto proposto dall’impresa offerente rispetto ai requisiti minimi previsti dalla stazione appaltante per il contratto da affidare legittimano l’esclusione dalla gara e non già la mera penalizzazione dell’offerta nell’attribuzione del punteggio, perché determinano la mancanza di un elemento essenziale per la formazione dell'accordo necessario per la stipula del contratto (da ultimo: Sez. III, 21.10.2015, n. 4804, 01.07.2015, n. 3275; Sez. V, 17.02.2016, n. 633, 23.09.2015, n. 4460).
Il collegio condivide ed intende dare continuità a questo orientamento, sottolineando che nell’ambito di un procedimento di manifestazione di volontà contrattuale scandito da fasi predefinite a livello normativo l’esclusione dalla gara di un concorrente per difformità essenziali dell’offerta esprime il dissenso dell’amministrazione rispetto ad un prodotto o servizio giudicato non rispondente alle caratteristiche tecniche minime previste nel progetto o nel capitolato posto a base della selezione.
A fronte di ciò, l’amministrazione legittimamente può quindi non riconoscere alcun punteggio all’esito della fase di valutazione tecnica ed escludere l’impresa dalla gara, manifestando il proprio dissenso impeditivo della conclusione del contratto per mancanza nell’oggetto delle qualità attese.

Ciò precisato, in questa ipotesi rientra pacificamente quella oggetto della presente controversia, in cui all’esito dell’attività valutativa la commissione giudicatrice nominata dal Comune di Pisa per l’affidamento del servizio di illuminazione pubblica ha enucleato quattro specifici profili di inadeguatezza dei prodotti offerti dall’odierna appellante per l’adeguamento tecnologico degli impianti di illuminazione, comportanti, secondo la prospettazione della stazione appaltante, una diminuzione qualitativa di questi ultimi. Non vi è pertanto dubbio che la stessa amministrazione potesse disporre l’esclusione dalla gara di un’impresa autrice di un’offerta giudicata inidonea dal punto di vista tecnico.
Inoltre, contrariamente a quanto sostiene la Co.Ge.I., tale causa di esclusione non si pone in contrasto con il principio di tassatività sancito dall’art. 46, comma 1-bis, cod. contratti pubblici atteso che tale norma riguarda il mancato rispetto di adempimenti solo documentali o formali o privi, comunque, di una base normativa espressa, e non già l’accertata mancanza dei necessari requisiti dell’offerta che erano stati richiesti per la partecipazione alla gara (in questo senso si è espresso questo Consiglio di Stato, nelle seguenti sentenze: Sez. III, 17.11.2015, n. 5261; Sez. V, 17.02.2016, n. 633, citata).
Infine, non è conferente il richiamo al principio di equivalenza delle specifiche tecniche sancito dall’art. 68 cod. contratti pubblici, dal momento che esso presuppone la corrispondenza delle prestazioni offerte dal prodotto offerto e non già un’inidoneità di quest’ultimo rispetto alle specifiche indicate dall’amministrazione e poste a base di gara.

PUBBLICO IMPIEGOOrdine rifiutato? Va replicato. Altrimenti il preside non può sanzionare l'insegnante.
Legittimo il rifiuto del docente se il dirigente non replica l'ordine di servizio contestato. Il Tribunale di Treviso ha dato ragione ad un docente che aveva posto un atto di rimostranza a fronte di una disposizione del preside di recarsi in una classe diversa da quella assegnata in orario.

La sentenza 05.05.2106 n. 219 è del giudice del lavoro del TRIBUNALE di Treviso.
La normativa risale allo Statuto del pubblico impiego (d.p.r. n. 3 del 10.01.1957) che, per la parte, è rimasta vigente anche con il nuovo testo unico (il decreto legislativo n. 165/2001) e con i sopravvenuti contratti collettivi di lavoro; va annotato che il significato sotteso alla norma applicata non scardina il principio della dipendenza e subordinazione, ma rende partecipe il lavoratore (entro alcuni limiti, come vedremo) dell'obiettivo di buon andamento dell'attività della pubblica amministrazione, dettato dell'art. 97 della Costituzione.
Nel caso di specie, il dirigente scolastico aveva ordinato ad un insegnante tecnico pratico (itp), in compresenza con il docente di materia, di recarsi a fare supplenza in una classe (seconda) che in quel momento era rimasta scoperta. L'itp contestava l'ordine depositando atto di rimostranza scritta e facendo rilevare il contrasto con il proprio orario che lo vedeva contemporaneamente impegnato in una classe quinta ed in attività programmata di laboratorio per alunni che sarebbe andati incontro all'esame di stato.
Il preside non reiterava la disposizione e, prendendo atto del rifiuto dell'insegnante, comminava la sanzione di sospensione dal servizio e dalla retribuzione per tre giorni. Da qui nasceva il tentativo di conciliazione non andato a buon fine, e successivamente il ricorso in tribunale.
Hanno assunto rilevanza decisiva le limitazioni del dovere verso il superiore poste dall'articolo 17 del dpr n. 3/1957 ove, per l'impiegato al quale venga impartito un ordine che egli ritenga palesemente illegittimo, è fatta possibilità di rimostranza con indicazione delle ragioni.
La norma prosegue obbligando il dipendente a dare esecuzione al comando se esso viene rinnovato per iscritto, istituendo così la figura del «secondo ordine di servizio»; ulteriore e ben più grave limite, qui non relativo al caso, è quello previsto a chiusura della norma: «L'impiegato non deve comunque eseguire l'ordine del superiore quando l'atto sia vietato dalla legge penale». Appare qui evidente come, restando esclusi casi clamorosi (ad esempio, l'ordine di rinchiudere un ragazzo in un'aula) ed ormai lontani dal nostro contesto scolastico, possano tuttavia nascondersi insidie interpretative su casi di più sottile spessore (come prescrivere dei lavori fisici a carico di un discente).
Il preside, nel fatto narrato, però non faceva seguire la reiterazione dell'ordine e procedeva per vie disciplinari. La sospensione è stata impugnata davanti al giudice del lavoro che, nel valutare i presupposti di fatto e di diritto che avrebbero reso applicabile la sanzione, ha viceversa ritenuto corretto il comportamento del dipendente nel porre atto di rimostranza e nell'attendere una rinnovazione dello stesso mai posta in essere dal dirigente scolastico, rendendo così privo di efficacia il primo ordine di servizio. Il tribunale ha finanche precisato che l'art. 17 del dpr n. 3/1957 è rimasto in armonia con il successivo T.U. n. 165/2001 e con i vari contratti.
L'istituto dell'atto di rimostranza è altresì previsto anche per il personale Ata con un peculiare complemento nei relativi contratti collettivi (articolo ItaliaOggi del 17.05.2016).

TRIBUTISocietà comunali senza sconti. Gli immobili posseduti non beneficiano dell'esenzione Imu. La Cassazione considera tassativo l'elenco dei soggetti che non pagano l'imposta.
Un immobile posseduto da una società costituita da più comuni e utilizzato per lo svolgimento dell'attività di smaltimento rifiuti non ha diritto a fruire dell'esenzione Ici.

Il principio è stato affermato dalla Corte di Cassazione, Sez. V civile, con la sentenza 04.05.2016 n. 8872.
Naturalmente, la stessa regola vale per l'Imu.
Secondo la Cassazione, l'elencazione dei soggetti esenti dall'imposta municipale è tassativa e una società di capitali, ancorché costituita tra enti pubblici territoriali, «non può fruire dell'esenzione, non rientrando tra i soggetti esenti e non essendo possibile una interpretazione analogica della norma agevolativa, siccome norma eccezionale. A prescindere dalla ulteriore questione se gli immobili della società siano destinati a scopi istituzionali».
L'interpretazione dei giudici di legittimità è pienamente condivisibile. L'esenzione Ici, ma lo stesso vale per l'Imu, è prevista per gli immobili posseduti, oltre che dallo stato, da regioni, province, comuni ed è condizionata dalla destinazione effettiva che a questi viene data. L'elencazione è tassativa, poiché tutte le norme che prevedono agevolazioni sono di stretta interpretazione e non è ammesso ricorrere all'analogia.
Per il riconoscimento dell'esenzione non è sufficiente la volontà di utilizzare l'immobile per scopi istituzionali. La destinazione deve essere effettiva e concreta. In base all'articolo 7, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 504/1992 non spetta l'esenzione Ici e Imu se l'ente pubblico non fornisce la prova che l'immobile abbia questa destinazione esclusiva.
Gli immobili, dunque, devono essere diretti a soddisfare compiti dell'ente pubblico (sede o ufficio) che ne è proprietario. È indispensabile che l'utilizzo avvenga in forma immediata e diretta, e cioè da soggetti interni alla struttura organizzativo-amministrativa dell'ente, poiché solo in questo caso l'uso può essere caratterizzato da fini istituzionali.
Per esempio la Commissione tributaria provinciale di Terni, prima sezione, con la sentenza 237/2011 ha stabilito che la provincia è tenuta a pagare l'Ici (e dal 2012 anche l'Imu) se gli immobili non sono destinati al soddisfacimento di compiti dello stesso ente pubblico che ne è proprietario. Non è infatti sufficiente che li metta a disposizione di terzi, anche se la provincia è obbligata a darli in uso allo stato per lo svolgimento di attività didattiche (sede universitaria).
Va ricordato che con l'introduzione dell'Imu è stato ristretto l'ambito delle esenzioni prima riconosciute dalla disciplina Ici. Non possono più fruire dell'agevolazione fiscale gli immobili posseduti dalle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura.
Non è stata riproposta l'esenzione neppure per i fabbricati dichiarati inagibili o inabitabili che vengono recuperati per essere destinati a attività assistenziali. Infine, con la modifica dell'articolo 7, lettera a), sono state ridisegnate le agevolazioni anche per gli immobili posseduti dagli enti pubblici territoriali, poiché l'esonero dal pagamento è limitato solo agli immobili siti sul proprio territorio e non compete più per quelli ubicati sul territorio di altri enti (articolo ItaliaOggi del 13.05.2016).

APPALTI: Interdittiva antimafia, conta la «sostanza». Imprese. I dati possono essere in altri provvedimenti.
Il meccanismo dell’interdittiva antimafia, che serve a escludere dai rapporti con la Pa e da sussidi o sovvenzioni le imprese in odore di rapporti con la criminalità organizzata, deve badare alla sostanza, e non è quindi vincolata a «formalismi linguistici né a formule sacramentali».
Per essere efficace, può anche limitarsi a richiamare sinteticamente i risultati scritti nei provvedimenti dell’autorità giudiziaria, negli atti di indagine o negli accertamenti della Polizia, se questi ultimi spiegano in modo sufficiente il rischio di infiltrazioni.

Su queste basi il Consiglio di Stato, con la sentenza 04.05.2016 n. 1743, ha bocciato il ricorso di un’impresa campana che aveva già chiesto senza successo al Tar la revisione dell’interdittiva.
Nella sentenza, però, i giudici amministrativi fanno di più, e sulla base di una puntuale ricostruzione normativa ricostruisce le regole generali dell’interdittiva, e fissa il principio che si può riassumere con la «prevalenza della sostanza sulla forma».
L’interdittiva, spiegano i giudici, serve a evitare alla Pa rapporti con imprenditori con i quali manca la «fiducia imprescindibile sulla loro affidabilità»: a farla cadere può essere un complesso di elementi, da vicende anomale nella struttura o nella gestione dell’impresa a rapporti di parentela, amicizia, «colleganza» tali da indicare un pericolo verosimile di infiltrazione.
Tutti questi fattori possono essere riportati negli atti dell’autorità giuridiziaria, che non sono limitati alle sole sentenze, e negli atti di indagine e di polizia.
Quando ci sono questi elementi, l’interdittiva è efficace, a patto naturalmente che le “fonti” richiamate riportino dati sufficienti a sostenerla. In caso contrario, l’obbligo di motivazione puntuale viene assunto in prima persona dalla Prefettura
(articolo Il Sole 24 Ore del 05.05.2016).

APPALTI: Informativa senza troppi formalismi. ANTIMAFIA/ Sentenza del Cds.
Informativa antimafia senza formalismi linguistici né particolari formule. L'importante è che dalla valutazione si evincano le ragioni sostanziali che giustificano la valutazione di permeabilità mafiosa. E la sussistenza di «relazioni pericolose» è desumibile dai più molteplici e diversi rapporti di parentela, amicizia, colleganza, frequentazione, collaborazione.

I principi ai quali le prefetture devono attenersi nell'emanazione delle cosiddette informative antimafia, ossia quel giudizio emesso in chiave preventiva per interdire le imprese a rischio di infiltrazioni mafiose dall'instaurare o proseguire rapporti con l'amministrazione, sono stati enucleati dal Consiglio di Stato, Sez. III, con la sentenza 04.05.2016 n. 1743.
La sentenza chiarisce le direttive in materia, e, allo stesso tempo, individua gli elementi oggettivi di rilievo così come i criteri posti alla base di tali misure preventive: come per esempio provvedimenti giudiziari, atti di indagine, accertamenti svolti dalle forze di polizia in sede istruttoria.
In sede di valutazione, vanno altresì esplicitate le ragioni in base alle quali, secondo la logica del «più probabile che non», sia ragionevole dedurre il rischio di infiltrazione mafiosa nell'impresa. La sezione ha enucleato, a solo titolo esemplificativo, un'ampia casistica di tali elementi.
Essi non consistono solo nelle circostanze desumibili dalle sentenze di condanna e dalle misure di prevenzione antimafia, ma anche da tutti gli altri provvedimenti giudiziari; dai più molteplici e diversi rapporti di parentela, amicizia, colleganza, frequentazione, collaborazione; da vicende anomale nella formale struttura o nella concreta gestione dell'impresa (articolo ItaliaOggi del 05.05.2016).

APPALTILa decertificazione non toglie l’obbligo dei documenti. Consiglio di Stato. Nelle gare d’appalto.
Per la verifica dei requisiti economico-finanziari e tecnico-organizzativi dei concorrenti in una gara d’appalto, la pubblica amministrazione ha solo la facoltà, ma non l’obbligo di acquisire gli atti direttamente dagli archivi pubblici. Infatti, con la cosiddetta decertificazione «si snaturerebbe», fino alla sua «sostanziale abrogazione», il controllo a sorteggio che precede l’apertura delle buste.
Il Consiglio di Stato –sentenza 03.05.2016 n. 1716, IV Sez.– ha bocciato così il ricorso di due imprese contro l’esclusione da una gara per la progettazione di alloggi per il ministero della Difesa, disposta, in base all’ex Codice appalti (articolo 48, Dlgs 163/2006), per aver presentato in ritardo i certificati sui requisiti dichiarati nella domanda.
Secondo le ricorrenti, avendo richiesto i documenti per posta elettronica certificata, la stazione appaltante aveva violato non solo il disciplinare di gara che le imponeva di utilizzare solo fax o telegrammi, ma le stesse norme generali (comma 5, articolo 77) che la obbligavano a comunicazioni per via elettronica solo se previsto nel bando. Ma, soprattutto, non aveva “semplificato” il controllo degli atti, acquisendoli d’ufficio come dettato dal Testo unico sulla documentazione amministrativa (Dpr 445/2000).
In linea col primo grado (Tar Salerno, sentenza 1319/2015), il collegio ha spiegato che la norma (comma 5, articolo 77) impone l’uso della Pec non quando scelta e “preferita” dagli atti di gara, ma quando la Pa, come in questo caso, è tenuta a rispettare il Codice dell’amministrazione digitale (Dlgs 82/2005); essendo poi norma speciale, essa prevale -«secondo una normale regola di interpretazione della legge» e qui per il «fenomeno di eterointegrazione del bando»- su quella generale (comma 1, articolo 77) pur se questa consente alle stazioni appaltanti di scegliere tra posta, fax, via elettronica o telefono, o una loro combinazione.
In ogni caso, si chiarisce che, anche se lo stesso Consiglio di Stato ha ammesso l’applicabilità del Dpr 445/2000 agli appalti pubblici e che «la norma sulla cd. decertificazione costituisce una nuova regola generale sui rapporti tra privati e Pa» anche per la fase in esame (sentenza 4359/2014), «ciò non comporta né che il concorrente sia per ciò solo dispensato dal presentare la documentazione richiestagli, né che la possibilità di cui si sia eventualmente avvalsa l'amministrazione si trasformi in un obbligo posto dalla legge a carico della medesima».
Al contrario, verrebbe di fatto abrogato il subprocedimento di controllo dei requisiti di chi partecipa alle gare pubbliche, comprese le scadenze e soprattutto le sanzioni non a caso fissate per l’operatore economico che non le rispetti.
Ribadendo la perentorietà dei dieci giorni concessi per la comprova (Adunanza plenaria, sentenza 10/2014), si è quindi stabilito che in questa fase –verifica su almeno il 10% degli offerenti in gara scelti con sorteggio pubblico- «l’amministrazione ben potrà procedere alla verifica di quanto dichiarato consultando gli archivi pubblici (ex artt. 43 e 71 Dpr n. 445/2000), ma certo non può sostituire la propria iniziativa di ufficio a quelli che sono precisi obblighi incombenti ai concorrenti chiamati agli adempimenti di cui al citato art. 48»
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.05.2016).
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2. L’appello è infondato e deve essere, pertanto, respinto, con conseguente conferma della sentenza impugnata.
La presente controversia verte sul fatto che l’amministrazione appaltante ha richiesto alle ditte appellanti, in quanto sorteggiate, la documentazione di comprovazione ex art. 48 d.lgs. n. 163/2006, mediante e-mail inviata all’indirizzo di posta elettronica, e non già –come indicato al punto 11 del “disciplinare di gara per procedura aperta”– “a mezzo fax oppure telegramma”.
Dal che è conseguita l’esclusione dalla gara per non avere la concorrente fornito in tempo utile (calcolato a decorrere dalla ricezione della richiesta via mail) la documentazione richiesta.
2.1. In relazione al primo motivo di appello il collegio evidenzia che
l’art. 77, co. 5, del d.lgs. n. 163/2006, prevede che le amministrazioni pubbliche che sono tenute all’osservanza delle disposizioni del Codice dell’amministrazione digitale (d.lgs. n. 82/2005), operano nel rispetto di tali disposizioni e delle relative norme di attuazione ed esecuzione. E’, inoltre, previsto che “in particolare, gli scambi di comunicazioni tra amministrazioni aggiudicatrici ed operatori economici deve avvenire tramite posta elettronica certificata”.
Benché, dunque, il comma 1 del medesimo art. 77 preveda, in via generale, che “tutte le comunicazioni e tutti gli scambi di informazioni tra stazioni appaltanti e operatori economici possono avvenire, a scelta delle stazioni appaltanti, mediante posta, mediante fax, per via elettronica”, o anche per telefono o “mediante una combinazione di tali mezzi”, qualora ricorra l’ipotesi di una amministrazione pubblica tenuta ad operare nel rispetto delle disposizioni del Codice dell’amministrazione digitale, le comunicazioni stesse non possono che avvenire per il tramite di posta elettronica certificata.

Si tratta, a tutta evidenza, di una normale relazione tra disposizione generale (comma 1), e disposizione speciale (comma 5), che come tale prevale sulla generale, secondo una normale regola di interpretazione della legge.
D’altra parte, lo stesso comma 1 dell’art. 77, nell’indicare in via generale i mezzi utilizzabili per le comunicazioni, indica la “via elettronica ai sensi dei commi 5 e 6”, in tal modo già prevedendo la possibilità che tale forma di comunicazione –lungi dal dipendere dalla scelta volontaria dell’amministrazione esplicitata nel bando– debba essere quella obbligatoriamente seguita sia dall’amministrazione sia dagli operatori economici.
Alla luce di tali presupposti normativi, la sentenza impugnata ha condivisibilmente affermato la presenza di un fenomeno di eterointegrazione del bando (Cons. Stato, sez. VI, 11.03.2015 n. 1250), dovendo intendersi la previsione di legge cogente e dunque integrativa delle previsioni del bando, pur nelle ipotesi di suo omesso richiamo.
Nel caso di specie, peraltro, il punto VI.3 del bando di gara (pagina 8) prevede espressamente che “è obbligo del concorrente, ai fini della partecipazione alla gara, indicare il domicilio eletto per le comunicazioni, l’indirizzo di posta elettronica e il numero di fax al fine dell’invio delle comunicazioni inerenti la procedura di gara...”.
Né, a fronte della cogente disposizione di legge, può assumere valore dirimente quanto previsto al punto 11 del disciplinare di gara, posto che si tratta di disposizione contenuta in un atto amministrativo generale, al quale non può a tutta evidenza accordarsi alcuna possibilità di prevalere su quanto obbligatoriamente disposto dalla legge.
D’altra parte, occorre ricordare che, come sostenuto dalla giurisprudenza (Cons. Stato, sez. III, 11.07.2013 n. 3735; sez. V, 24.01.2013 n. 439),
nelle gare pubbliche il disciplinare di gara deve essere interpretato in conformità a quanto statuito dal bando, atteso che le sue disposizioni sono chiamate ad integrare, e non a modificare, quelle del bando, ed in caso di contrasto prevalgono le previsioni di quest’ultimo.
A maggior ragione dunque, come nel caso di specie,
a fronte dell’assenza nel bando di previsioni espresse in ordine alle modalità di comunicazione (peraltro richiedendosi l’indirizzo di posta elettronica) e in presenza di una cogente disposizione di legge in materia, non può trovare alcuna considerazione quanto previsto dal disciplinare di gara in contrasto con la legge.
Infine, occorre ricordare, quanto alla intervenuta esclusione dalla gara, che la stessa è disposta dall’art. 48, co. 1, d.lgs. n. 163/2006, e, dunque, non è possibile invocare la violazione, nel caso di specie, del principio di tassatività delle cause di esclusione.
In definitiva, una volta accertata, per le ragioni innanzi esposte, la regolarità della richiesta della documentazione di comprovazione per via informatica, le conseguenze derivanti dalla sua mancata (o intempestiva) presentazione sono direttamente previste dalla legge (cfr., in ordine all’obbligo di escussione della cauzione a fronte della mancata prova del possesso di tutti i requisiti previsti dalla legge per le gare disciplinate dal codice dei contratti pubblici ed al conseguente obbligo, d’indole comunque non lesiva, di segnalazione all’A.N.A.C., Ad. Plen. nn. 2 del 2012 e 34 del 2014, cui si rinvia a mente del combinato disposto degli artt. 88, co. 2, lett. d), 99 e 120, co. 10, c.p.a.).
2.2. E’ altrettanto infondato il secondo motivo di appello (sub lett. b) dell’esposizione in fatto), con il quale si ritiene che l’amministrazione avrebbe dovuto procedere ex officio alla acquisizione della documentazione di comprovazione, ai sensi degli art. 40 (nel testo modificato dall’art. 15, l. n. 183/2011) e 43, co. 1, DPR n. 445/2000.
La parte appellante a tal fine richiama la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (sez. V, 27.08.2014 n. 4359; sez. III, 26.09.2013 n. 4785), che ha avuto modo di affermare che “la norma sulla cd. decertificazione (costituisce) una nuova regola generale sui rapporti tra privati e P.A.”, di modo che “non si rinvengono, quindi, ragioni per escludere che questa potesse essere applicata anche alla materia degli appalti pubblici”, ed anche al procedimento di verifica del possesso dei requisiti ex art. 48 d.lgs. n. 163/2006.
Orbene,
in disparte ogni verifica in ordine alla possibilità e agli esatti termini di applicazione della disciplina di cui al DPR n. 445/2000 alle procedure di gara, ciò che occorre chiarire è che, se è possibile affermare, sulla scorta della indicata giurisprudenza, che in fase di verifica ex art. 48 l’amministrazione ben possa procedere ad acquisire documentazione facendo ricorso agli archivi pubblici (ed è questo il caso oggetto della sentenza n. 4359/2014), ciò non comporta né che il concorrente sia per ciò solo dispensato dal presentare la documentazione richiestagli, né che la possibilità di cui si sia eventualmente avvalsa l’amministrazione si trasformi in un obbligo posto dalla legge a carico della medesima.
Così argomentando, per un verso si snaturerebbe il subprocedimento di verifica dei requisiti dei partecipanti alle procedure di affidamento, per altro verso, si perverrebbe ad una sostanziale “abrogazione” dell’art. 48, e, in particolare, dei termini cogenti da questo imposti e delle sanzioni previste per il loro mancato rispetto.
Proprio perché si tratta di un subprocedimento di verifica dei requisiti, incombe al concorrente procedere alla comprova dei requisiti da esso stesso dichiarati; e proprio per questo la legge prevede le sanzioni conseguenti al suo comportamento omissivo.
L’amministrazione ben potrà procedere alla verifica di quanto dichiarato consultando gli archivi pubblici (ex artt. 43 e 71 DPR n. 445/2000), ma certo non può sostituire la propria iniziativa di ufficio a quelli che sono precisi obblighi incombenti ai concorrenti chiamati agli adempimenti di cui al citato art. 48.
In tal senso è la giurisprudenza dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (cfr. n. 10 del 2014 cui si rinvia a mente del combinato disposto degli artt. 88, co. 2, lett. d), 99 e 120, co. 10, c.p.a.).
3. Per le ragioni esposte, l’appello deve essere rigettato, con conseguente conferma della sentenza impugnata.

SICUREZZA LAVORONon si sfugge alla sicurezza. La sentenza della corte di cassazione.
Una qualsiasi prestazione lavorativa, al nero o resa a titolo amichevole, presuppone l'osservanza delle misure di sicurezza sul lavoro.

È la volta, da ultimo, della sentenza 02.05.2016 n. 18208 della Corte di Cassazione, Sez. IV penale.
Il titolare di un'officina ricorreva avverso la sentenza che, riformando quella di primo grado, lo aveva riconosciuto corresponsabile del reato di omicidio colposo aggravato dalla violazione della normativa antinfortunistica in danno altra persona.
L'imputato, nella qualità di titolare di un'impresa esercente la attività di lavorazione in ferro, era stato chiamato a rispondere della morte di un lavoratore che, mentre era impegnato a eseguire lavori di montaggio di una ringhiera in ferro ad un balcone esterno di un fabbricato in costruzione, era precipitato al suolo dall'alto, riportando lesioni mortali.
L'addebito di colpa era stato ravvisato nell'avere l'imputato omesso le adeguate misure precauzionali atte a prevenire le cadute dall'alto: in assenza di impalcati di protezione o parapetti, adeguata cintura di sicurezza. Sostenevano tra l'altro i giudici d'appello che nessun rilievo per escludere la responsabilità poteva farsi discendere dalla mancanza di un formale rapporto lavorativo tra vittima e imputato (la collaborazione della vittima era basata su un rapporto amicale), perché tale circostanza non escludeva l'obbligo del rispetto della normativa cautelare.
Con il ricorso per Cassazione si invocava il proscioglimento pieno, sostenendosi una diversa ricostruzione dell'incidente, e riproponendosi la tesi della collaborazione amicale che escluderebbe l'applicabilità della normativa prevenzionale.
Infondata, a giudizio della Suprema corte, è da ritenersi la doglianza basata sull'assenza di formale rapporto di lavoro, ove si consideri che le norme antinfortunistiche non sono dettate soltanto per la tutela dei lavoratori, ossia per eliminare il rischio che i lavoratori (e solo i lavoratori) possano subire danni nell'esercizio della loro attività, ma sono dettate finanche a tutela dei terzi, cioè di tutti coloro che, per una qualsiasi legittima ragione, accedono nei cantieri o comunque in luoghi ove vi sono macchine che, se non munite dei presidi antinfortunistici voluti dalla legge, possono essere causa di eventi dannosi.
Le disposizioni prevenzionali, infatti, sono da considerare emanate nell'interesse di tutti, finanche degli estranei al rapporto di lavoro, occasionalmente presenti nel medesimo ambiente lavorativo, a prescindere, quindi, da un rapporto di dipendenza diretta con il titolare dell'impresa: non è dubbia quindi l'applicabilità nel caso di interesse, laddove è pacifica l'attività comunque prestata dalla vittima in favore dell'imputato, quale che ne sia stata la «causale» (amicizia o altro). Respinto il ricorso con conferma della condanna (articolo ItaliaOggi del 20.05.2016).
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Infondata è la doglianza basata sull'assenza di formale rapporto di lavoro, ove si consideri che le norme antinfortunistiche non sono dettate soltanto per la tutela dei lavoratori, ossia per eliminare il rischio che i lavoratori (e solo i lavoratori) possano subire danni nell'esercizio della loro attività, ma sono dettate finanche a tutela dei terzi, cioè di tutti coloro che, per una qualsiasi legittima ragione, accedono nei cantieri o comunque in luoghi ove vi sono macchine che, se non munite dei presidi antinfortunistici voluti dalla legge, possono essere causa di eventi dannosi.
Le disposizioni prevenzionali, infatti, sono da considerare emanate nell'interesse di tutti, finanche degli estranei al rapporto di lavoro, occasionalmente presenti nel medesimo ambiente lavorativo, a prescindere, quindi, da un rapporto di dipendenza diretta con il titolare dell'impresa [Sezione IV, 06.11.2009, Morelli]: non è dubbia quindi l'applicabilità nel caso di interesse, laddove è pacifica l'attività comunque prestata dalla vittima in favore dell'imputato, quale che ne sia stata la "causale" [amicizia o altro].

ENTI LOCALI - VARIOspedali. Parcheggi, no giustizia fai-da-te.
Rischia la galera il privato che fa rimuovere i veicoli in divieto di sosta nella zona ospedaliera chiedendo la corresponsione delle spese di custodia e trasporto del mezzo. E non importa se a monte c'è un contratto scritto con l'Azienda sanitaria.

Lo ha evidenziato la Corte di Cassazione, Sez. II penale, con la sentenza 02.05.2016 n. 18127.
All'interno dell'ospedale di Frosinone una ditta è stata incaricata dall'Asl per la rimozione dei veicoli in divieto di sosta. Effettuata la rimozione del mezzo o l'apposizione delle ganasce i veicoli in difetto venivano quindi riconsegnati ai proprietari previo pagamento delle spese.
A seguito di una serie di denunce sono scattate indagini conclusesi col non luogo a procedere a carico degli indagati. Ma per il collegio l'area di pertinenza dell'ospedale è privata ad uso pubblico: si applica il codice della strada.
Solo gli organi di polizia stradale possono pertanto accertare ed elevare verbali (articolo ItaliaOggi del 04.05.2016).

PUBBLICO IMPIEGOInps, danno da risarcire. Indennizzi certi per errati estratti contributivi. L'analisi dell'Ancl in merito alle pronunce della Corte di cassazione.
L'Inps deve rifondere il danno procurato in caso di rilascio di estratto contributivo cui consegue l'errata convinzione di poter essere collocato in pensione.

Così si e pronunciata la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con la sentenza 02.05.2016 n. 8604.
Tribunale e Corte d'appello avevano respinto la domanda di un ex dipendente avente ad oggetto la richiesta di condanna dell'Inps al risarcimento del danno derivatogli dalla mancata percezione del trattamento pensionistico per circa 18 mesi, in conseguenza dell'erronea comunicazione della sua situazione contributiva da parte dell'Istituto circa il numero dei contributi accreditatigli.
«In particolare», osservavano i giudici d'appello, «il prospetto contributivo, sul quale l'assicurato aveva fatto affidamento per ritenere perfezionati i requisiti contributivi necessari per la pensione, non aveva valore certificativo ai sensi dell'art. 54 della legge n. 88/1989, trattandosi di una semplice videata di computer, senza alcuna sottoscrizione da parte dei funzionario responsabile», priva di indicazioni circa la data alla quale, con quel numero di contributi settimanali, il ricorrente avrebbe maturato il diritto alla pensione di anzianità.
Il richiedente, invece, ben avrebbe fatto a richiedere un nuovo estratto contributivo con requisiti certificativi prima di accettare la risoluzione del rapporto di lavoro. Contro questa sentenza il mancato pensionato ha fatto ricorso in Cassazione.
Va premesso che la stessa Corte ha avuto modo di esaminare il caso di lavoratori che avevano rassegnato le dimissioni sul presupposto, poi rivelatosi errato, di avere maturato i requisiti di anzianità necessari per beneficiare della pensione. In tali casi ha affermato che il lavoratore indotto alle dimissioni dal comportamento dell'Inps ha diritto al risarcimento del danno in un importo commisurabile a quello delle retribuzioni perdute fra la data della cessazione del rapporto di lavoro e quella dell'effettivo conseguimento della detta pensione, in forza del completamento del periodo di contribuzione a tal fine necessario (Cass., 10.11.2008, n. 26925, in cui si e statuito che, in caso di erronea comunicazione al lavoratore, da parte dell'Inps, della posizione contributiva utile al pensionamento, l'ente risponde del danno derivatone per inadempimento contrattuale, salvo che provi l'estraneità della causa dell'errore alla sua sfera di controllo e l'inevitabilità del fatto impeditivo nonostante l'applicazione della normale diligenza).
Si è, in particolare, evidenziato l'obbligo che fa carico all'Istituto, ai sensi della legge 09.03.1989, n. 88, art. 54, di comunicare all'assicurato che ne faccia richiesta, i dati relativi alla propria situazione previdenziale e pensionistica. Infatti, gli enti previdenziali sono obbligati a comunicare, a richiesta esclusiva dell'interessato o di chi ne abbia diritto ai sensi di legge, i dati richiesti relativi alla propria situazione previdenziale e pensionistica. Inoltre, la norma dispone che «la comunicazione da parte degli enti ha valore certificativo della situazione in essa descritta». Si e poi qualificata la responsabilità dell'Ente come contrattuale, in quanto si tratta di obbligazione di origine legale attinente ad un rapporto intercorrente tra due parti, con la conseguente applicabilità dell'art. 1218 cod. civ.
Questa norma pone espressamente a carico del debitore la prova che l'inadempimento è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile, prova che esige la dimostrazione dello specifico impedimento che ha reso impossibile la prestazione (articolo ItaliaOggi del 13.05.2016).

INCARICHI PROGETTUALII giovani professionisti possono limitarsi a firmare il progetto. Appalti. L’interpretazione del Consiglio di Stato sui raggruppamenti temporanei.
Spazio ai giovani professionisti nella progettazione degli appalti pubblici, sia che valga il testo unico 163/2006 sia che valgano le norme applicative delle direttive europee (legge 11 e Dlgs 50 del 2016): questo è il principio che si desume dalla sentenza 02.05.2016 n. 1680 del Consiglio di Stato, Sez. VI.
La progettazione di lavori pubblici incentiva i giovani professionisti prevedendo (articoli 253 e 263, Dpr 207/2010) che si possa operare con raggruppamenti temporanei in cui vi sia almeno un professionista laureato abilitato da meno di cinque anni all’esercizio della professione.
Secondo il Consiglio di Stato, la norma non impone una specifica tipologia di rapporto professionale tra il giovane professionista e gli altri componenti del raggruppamento temporaneo di progettisti. Così basta che il raggruppamento temporaneo comprenda un progettista che abbia anche «solo sottoscritto» il progetto. Secondo i giudici, basta la sottoscrizione del progetto, perché essa implica una partecipazione professionale e, quindi, l’esistenza di un rapporto professionale con il raggruppamento temporaneo.
Non sono quindi necessarie indagini ulteriori sul ruolo rivestito dal giovane professionista all’interno del raggruppamento o sulla tipologia specifica di rapporti tra raggruppamento e professionista. Ciò perché la finalità della norma è di promuovere la “presenza” del giovane professionista nell’ambito del raggruppamento temporaneo, consentendogli di maturare un’esperienza adeguata e di poter così arricchire il proprio curriculum.
Diverso è il caso dell’indagine sui requisiti di partecipazione per il personale tecnico (articolo 263, Dpr 207/2010): in materia di requisiti, si chiede alle imprese concorrenti di fornire specifici dati circa le fatturazioni Iva del personale tecnico utilizzato, con possibilità di collaborazione a progetto solo nel caso di soggetti esercenti arti o professioni.
Tra le agevolazioni per i giovani progettisti, c’è anche quella sull’età professionale, poiché (articolo 253, Dpr 207/2010) si rimane «giovani professionisti» all’interno di un quinquennio che decorre dall’iscrizione all’albo (e non col superamento dell’esame di abilitazione). L’abilitazione, infatti, è un requisito necessario per iscriversi, ma non costituisce di per sé titolo all’esercizio della professione: il solo esame di abilitazione non consente al professionista di operare sottoscrivendo progetti, occorrendo l’iscrizione all’albo.
Tutti questi concetti saranno utilizzabili anche nel regime delle nuove direttive sugli appalti pubblici, poiché identica, in più norme (articolo 1, lettera ccc, legge 11/2016; articoli 24, comma 5, 95, comma 13 e 154, comma 3, Dlgs 50/2016) è la logica di avvantaggiare i giovani professionisti con migliori condizioni di accesso.
    (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.05.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).
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5.2. Sul requisito del giovane professionista (v. sopra, pp. 2/a) e 3.2.).
Ad avviso dell'appellante l'articolo 253, comma 5, del d.lgs. n. 163/2006 richiede la sussistenza, tra giovane professionista e RTP, di un rapporto di collaborazione professionale o di dipendenza, condizione che, si afferma nell'atto di appello, non sarebbe stata rispettata nel caso di specie poiché la sottoscrizione del progetto da parte dell'arch. Mo. non sarebbe indicativa della tipologia di rapporto richiesto; anzi, si aggiunge, genererebbe dubbi circa l'effettiva partecipazione del giovane professionista all'attività progettuale.
Inoltre, si afferma nell'atto di appello, il quinquennio di cui all'articolo 253, comma 5, del d.P.R. n. 207/2010 decorrerebbe dalla data del conseguimento dell’abilitazione all'esercizio della professione, e non dall'iscrizione all'albo professionale. E’ inoltre necessario, secondo l'appellante, che la qualità di giovane professionista sia posseduta per tutta la durata della procedura di gara, non potendo ritenersi sufficiente il possesso del requisito di “giovane professionista” solo alla scadenza della presentazione della domanda.
I profili di censura non sono meritevoli di accoglimento.
Diversamente da quanto sostiene l'appellante,
l'art. 253, comma 5, del d.P.R. n. 207/2010, in base al quale “ai sensi dell’art. 90, comma 7, del codice, i raggruppamenti temporanei previsti dallo stesso art. 90, comma 1, lett. g) del codice devono prevedere quale progettista la presenza di almeno un professionista laureato abilitato da meno di cinque anni all'esercizio della professione…”, nel fare riferimento alla “presenza”, quale progettista, di almeno un giovane professionista, non impone una specifica tipologia di rapporto professionale che debba intercorrere tra il giovane professionista e gli altri componenti del raggruppamento temporaneo di progettisti, sicché per integrare il requisito richiesto è sufficiente anche l’avere (solo) sottoscritto il progetto.
L’avvenuta sottoscrizione del progetto implica certamente una partecipazione professionale e, quindi, l’esistenza di un rapporto professionale con il raggruppamento temporaneo, senza la necessità di indagini ulteriori sul ruolo rivestito dal giovane professionista all’interno del raggruppamento, e sulla tipologia specifica di rapporti tra raggruppamento e professionista.
Né può dubitarsi del rispetto della “ratio” della norma in quanto la finalità “promozionale” della previsione concernente la “presenza” del giovane professionista nell’ambito del raggruppamento temporaneo –consentire al progettista di maturare un’esperienza adeguata e di poter così arricchire il proprio “curriculum”– risulta rispettata.

Quanto agli ulteriori profili di censura sul punto, il Collegio non condivide l'interpretazione, prospettata dall'appellante, secondo la quale il termine quinquennale di cui all'art. 253, comma 5, del d.P.R. n. 207/2010 –“professionista laureato abilitato da meno di cinque anni all’esercizio della professione”- decorrerebbe dal momento del superamento dell'esame di abilitazione.
Infatti,
il mero superamento dell'esame di abilitazione non legittima il laureato a fregiarsi del titolo professionale.
Si consideri sul punto quanto dispone l’art. 2229, comma 1, cod. civ.: “la legge determina le professioni intellettuali per l'esercizio delle quali è necessaria l'iscrizione in appositi albi o elenchi”. Da ciò consegue che il titolo di professionista è conseguito solo a seguito dell'iscrizione nell'albo di riferimento, e che l'abilitazione è requisito necessario per l'iscrizione anzidetta ma non costituisce di per sé titolo legittimante all'esercizio della professione.
Il solo esame di abilitazione non consente al professionista di operare come tale, sottoscrivendo progetti, poiché a seguito di esso non risulta attestato il possesso dei requisiti ulteriori occorrenti per l’esercizio della professione; requisiti che invece sono attestati dall’iscrizione all’albo, che costituisce dunque il solo provvedimento “abilitante” in senso proprio all’esercizio della professione.

Bene quindi la sentenza di primo grado ha considerato irrilevante, al fine suindicato, il momento –anteriore- dell’abilitazione, “che costituisce una delle fasi del percorso di abilitazione all’esercizio della professione, percorso che inizia con la laurea e termina con l’iscrizione all’albo”.
E in maniera corretta il Tar ha aggiunto che le vicende successive alla scadenza del termine della presentazione della domanda –“e segnatamente il tempo occorrente all’Amministrazione per la definizione della procedura di gara”– non possono essere imputate alla impresa partecipante alla gara, sicché, diversamente da quanto sostenuto nell’appello, il possesso del requisito di “giovane professionista” non è richiesto per tutta la durata della procedura di gara.
E’ invece sufficiente, come è avvenuto nella specie, che il requisito di “giovane professionista” sia posseduto al momento della presentazione della domanda.
Appare evidente infatti come i requisiti come quello in questione non possano soggiacere all’incertezza della durata delle procedure di gara e dunque al principio di continuità dei requisiti.
Risulta perciò inappropriato il richiamo compiuto nell’appello a Cons. Stato, Ad. plen. n. 8 del 2015, nella parte in cui si sancisce che “nelle gare di appalto per l'aggiudicazione di contratti pubblici i requisiti generali e speciali devono essere posseduti dai candidati non solo alla data di scadenza del termine per la presentazione della richiesta di partecipazione alla procedura di affidamento, ma anche per tutta la durata della procedura stessa fino all'aggiudicazione definitiva ed alla stipula del contratto, nonché per tutto il periodo dell'esecuzione dello stesso, senza soluzione di continuità”.

APPALTISi può valutare l'offerta anche senza scomporla. Stazione appaltante non sindacabile.
In un appalto pubblico la mancata scomposizione degli elementi di valutazione dell'offerta non è causa di indeterminatezza dei criteri di valutazione, censurabile dal magistrato amministrativa.

È quanto ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. III, con la sentenza 02.05.2016 n. 1661.
La questione riguardava un bando di gara per il quale la stazione appaltante non aveva ritenuto necessario procedere alla cosiddetta scomposizione in pesi e sub-pesi.
In particolare, i giudici hanno precisato che la mancata previsione di sub pesi e sub punteggi per ciascun criterio di valutazione qualitativa dell'offerta non costituisce indice di indeterminatezza dei criteri di valutazione e quindi non rappresenta un motivo di censura dell'operato della stazione appaltante, sindacabile da parte del giudice amministrativo.
I giudici hanno chiarito che la possibilità di individuare sub criteri è, infatti, meramente eventuale, com'è palese dall'espressione letterale «ove necessario» che figura all'art. 83, comma 4, del codice dei contratti (dlgs 163/2006). Si tratta di norma replicata all'articolo 95 del nuovo codice (dlgs 50/2016) che prevede che «per ciascun criterio di valutazione prescelto possono essere previsti, ove necessario, sub-criteri e sub-pesi o sub-punteggi».
Per il Consiglio di stato la scelta compiuta dalla stazione appaltante per una procedura di affidamento con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, «relativamente ai criteri di valutazione delle offerte, ivi compreso il peso da attribuire a tali singoli elementi, specificamente indicati nella lex specialis, e ivi compresa anche la disaggregazione eventuale del singolo criterio valutativo in sub-criteri, è espressione dell'ampia discrezionalità che la legge le ha attribuito per meglio perseguire l'interesse pubblico».
La sentenza ricorda che la scelta effettuata dalla stazione appaltante sarebbe sindacabile in sede di legittimità «solo allorché sia macroscopicamente illogica, irragionevole ed irrazionale e i criteri non siano trasparenti e intellegibili, non consentendo ai concorrenti di calibrare la propria offerta» (articolo ItaliaOggi del 06.05.2016).
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MASSIMA
3. - Infondato è il secondo motivo.
3.1. - EBM ha dichiarato, in conformità al capitolato, di non essere competente ad eseguire la manutenzione per una lunga serie di tipologie di apparecchiature (più della metà del valore delle prestazioni contrattuali); ciò, ad avviso delle appellanti, renderebbe l’offerta inammissibile per violazione del divieto di cessione del contratto, ex art. 118, comma 1, D.lgs. n. 163/2006, e del divieto di immodificabilità soggettiva dell’esecutore della commessa pubblica.
Inoltre, sarebbe eclatante lo sforamento del limite del 30% del valore del contratto subappaltabile, limite imposto dall’art. 118, comma 2, cod. appalti.
Neppure potrebbe richiamarsi il comma 12 dell’art. 118, in quanto non si è trattato dell’affidamento di attività specifiche (che esulerebbero dalla quota consentita per il subappalto) ma dell’affidamento delle stesse prestazioni principali.
3.2. - In proposito, il Collegio osserva che:
a) il ricorso per gli interventi manutentivi ai costruttori, o a ditte esclusiviste della manutenzione su delega del costruttore, è consentito dal CSA (art. 3, pag. 7), senza limitazioni quantitative, ed è giustificato dalla necessità di alta specializzazione richiesta dal tipo di prestazioni e apparecchiature;
b) nella dichiarazione resa il 09.04.2014 (doc. 2 allegato all’offerta) EBM ha dichiarato, sotto la propria responsabilità, di possedere il “know-how complessivo che copre una quota maggioritaria delle apparecchiature oggetto di appalto” e, ciò nonostante, per alcune apparecchiature con particolarità tecnologica dichiara di optare per una gestione operata di concerto con i costruttori.
3.3. - Gli interventi in questione non ricadono nella nozione di “subappalto”, ma nell’eccezione di cui al comma 12, lett. a), dell’art. 118 del D.lgs. n.163/2006, trattandosi di “attività specifiche” che richiedono interventi di professionisti ad hoc.
Si potrebbe, tutt’al più, trattare di “fornitura in opera”, comportando la sostituzione di pezzi di ricambio di alto valore, per i quali non si verifica solitamente la condizione che il valore della manodopera supera del 50% del valore dell’intero intervento, ricadendosi così nell’eccezione al contratto di subappalto di cui all’art. 118, comma 11, codice dei contratti pubblici.
3.4. - Va qui, peraltro, ricordato, secondo l’insegnamento da ultimo ribadito da AP n. 9 del 02.11.2015, che “
il subappalto è un istituto che attiene alla fase di esecuzione dell'appalto (e che rileva nella gara solo negli stretti limiti della necessaria indicazione delle lavorazioni che ne formeranno oggetto), di talché il suo mancato funzionamento (per qualsivoglia ragione) dev'essere trattato alla stregua di un inadempimento contrattuale, con tutte le conseguenze che ad esso ricollega il codice (tra le quali, ad esempio, l'incameramento della cauzione).”
Dunque, anche un anomalo ricorso al subappalto non avrebbe determinato l’esclusione dalla gara di EBM.
4. - Infondato è anche il terzo motivo di appello con cui si denuncia l’inammissibilità dell’offerta di EBM perché indeterminata e condizionata: infatti, per un verso, EBM afferma di eseguire in proprio la parte eccedente il 30% del servizio; per altro verso, dichiara di non avere la competenza per oltre il 53% del valore delle prestazioni, in violazione dell’art. 46, comma 1-bis, codice dei contrati pubblici.
4.1. - La censura non è fondata in quanto, per le ragioni già esposte, l’aggiudicataria si è avvalsa delle possibilità consentite a tutte le partecipanti sia dalla legge di gara, che dal codice dei contratti.
5. - Infondato è il quarto motivo di appello con cui si deduce la violazione dell’art. 38 del D.lgs. n. 163/2006 per avere EBM omesso di presentare la dichiarazione dei requisiti di moralità del soggetto cessato dalla carica l’anno antecedente la pubblicazione del bando, Sig. Pi.To., direttore generale con ampi poteri di rappresentanza, assimilabili a quelli di un amministratore, di ITAL TBS & Biomedical service S.p.a., socio di maggioranza della società aggiudicataria.
Osserva il Collegio che
l’obbligo di cui all’art. 38 cit. riguarda esclusivamente gli amministratori muniti di potere di rappresentanza, ossia i soggetti che risultino titolari della funzione rappresentativa derivante dallo statuto, vale a dire il rappresentante legale della società, e non anche chi ricopra la qualifica di direttore generale senza potere di rappresentanza legale (Consiglio di Stato sez. IV, 04.05.2015 n. 2231; Consiglio di Stato, sez. III, 02.03.2015, n. 1020).
Nella specie, non è rinvenibile nei confronti del direttore generale suddetto alcuna attribuzione specifica di potere di rappresentanza e amministrazione, atteso che, per espressa disposizione statutaria (cfr. doc. 12, pag. 5, della visura storica del registro delle imprese C.C.I.A.A. di Trieste), i poteri di ordinaria e straordinaria amministrazione spettano al Consiglio di amministrazione e i poteri di rappresentanza legale spettano al Presidente e agli amministratori delegati.
5.1. - Sotto altro profilo, EBM avrebbe dovuto essere esclusa per non aver prodotto la dichiarazione contenente i nominativi dei “familiari conviventi del socio di maggioranza”, costituente obbligo in presenza di un numero di soci pari o inferiore a quattro (ex art. 85, comma 3, D.lgs. n. 159/2011).
La lettura della norma fatta dall’appellante è frutto di un equivoco: la norma si può riferire solo al concorrente che sia società di cui fanno parte fino a quattro soci “persone fisiche”, non avendo senso logico, altrimenti, il riferimento testuale al “familiare convivente”.
Nella fattispecie, invece, la TBS, socio di maggioranza di EBM non è persona fisica, ma persona giuridica: non è possibile ipotizzare nei suoi confronti un “familiare convivente”.
6.- Con altro gruppo di motivi, le società appellanti deducono, in via subordinata, l’illegittimità integrale della gara.
6.1. - Sotto un primo profilo, le appellanti denunciano l’illegittimità dell’art. 7 del capitolato e della tabella allegata, che fisserebbe criteri di valutazione delle offerte generici e indeterminati, in violazione dell’art. 83 del Codice dei contratti, prevedendo solo il relativo punteggio massimo, ma senza alcuna ripartizione al loro interno mediante l’individuazione di sub criteri, residuando così ampio potere discrezionale in capo alla commissione.
Emblematici sarebbero i criteri n. 2 e n. 5, per ognuno dei quali era prevista l’attribuzione di punti 20.
6.2. - Il motivo è infondato.
La tabella di cui all’allegato 13, “tabella di valutazione delle offerte”, ha indicato con trasparenza i criteri di valutazione e il punteggio massimo riferito a ciascun criterio.
L’art. 7 del capitolato ha previsto l’attribuzione di un coefficiente, compreso tra 0 e 1, da parte di ciascun commissario, sulla base dei criteri elencati nell’allegato; per ciascun elemento di valutazione qualitativo ha previsto che, successivamente all’assegnazione del valore medio, verrà operata la c.d. “riparametrazione”, riportando all’unità il punteggio dell’offerente che ha ottenuto il coefficiente con media maggiore; i coefficienti degli altri offerenti verranno rapportati a questo, per ogni elemento di valutazione, in maniera proporzionale.
Si tratta di una previsione conforme all’art. 120 DPR 207/2010 e all’allegato P, punto II, lett. a) n. 4 che contempla la “riparametrazione”, la quale comporta il calcolo dell’offerta economicamente più conveniente attraverso il sistema dell’attribuzione di coefficienti assoluti agli elementi qualitativi dell’offerta tecnica, e il riposizionamento delle offerte a secondo dei coefficienti riportati, secondo una formula matematica.
6.3. -
La mancata previsione di sub pesi e sub punteggi per ciascun criterio di valutazione qualitativa dell’offerta non è indice di indeterminatezza dei criteri di valutazione.
La possibilità di individuare sub criteri è, infatti, meramente eventuale, com’è palese dall’espressione letterale “ove necessario” che figura all’art. 83, comma 4, del codice dei contratti.
La scelta operata dall'Amministrazione appaltante, in una procedura di aggiudicazione con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, relativamente ai criteri di valutazione delle offerte, ivi compreso il peso da attribuire a tali singoli elementi, specificamente indicati nella lex specialis, e ivi compresa anche la disaggregazione eventuale del singolo criterio valutativo in sub-criteri, è espressione dell'ampia discrezionalità che la legge le ha attribuito per meglio perseguire l'interesse pubblico.
La scelta è sindacabile in sede di legittimità solo allorché sia macroscopicamente illogica, irragionevole ed irrazionale ed i criteri non siano trasparenti ed intellegibili, non consentendo ai concorrenti di calibrare la propria offerta
(Consiglio di Stato, sez. V, 18/06/2015, n. 3105).
6.4. - Nella fattispecie, il bando di gara ha inteso rinunciare alla suddivisione in sub-criteri e sub-punteggi e optare per un'elencazione solo di criteri, senza al contempo scomporre le cinque voci in sub-categorie rigidamente ancorate alla riserva a loro favore di una quota-parte del punteggio complessivo.
La scelta, nell'ottica dell'ente appaltante, di non individuare sotto-voci meritevoli di separata considerazione, giacché contraddistinte le voci principali da profili tutti allo stesso modo rilevanti e coessenziali ad un apprezzamento complessivo, si rivela non illogica, comportando il vantaggio di evitare scomposizioni di punteggio produttive di un disordinato frazionamento dei giudizi e foriere di valutazioni finali disancorate da un esame unitario.
6.5. - Non risulta neppure fondata la censura, collegata alla precedente, secondo cui la mera attribuzione del coefficiente numerico da parte di ciascun commissario sarebbe illegittima in assenza della predefinizione nel bando di sub criteri.
Come si è visto, si tratta di aspetti tra loro non consequenziali:
la fissazione di sub criteri è meramente eventuale e, d’altra parte, l’attribuzione dei coefficienti è prevista dal capitolato in coerenza con il disposto dell’all. P al regolamento al codice dei contratti, di cui al DPR 207/2010.
7. - E’ destituito di fondamento anche il motivo con cui si deduce che la Commissione avrebbe dovuto stabilire i criteri motivazionali che intendeva utilizzare nell’attribuzione dei punteggi prima di avviare il sub procedimento di valutazione delle offerte tecniche.
In difetto, sarebbe impossibile ricostruire l’iter logico seguito; sarebbero anche stati distrutti appunti, note, etc., contenenti la valutazione in itinere.
Invero, i criteri di valutazione e il relativo punteggio, come già detto, sono stati fissati nella lex di gara, per cui nessun’altra attività di predeterminazione di punteggi era richiesta alla Commissione.
Neppure si richiedeva una motivazione di tipo discorsivo, per cui risulta irrilevante la distruzione di appunti di ogni tipo.
In presenza di criteri sufficientemente puntuali, la valutazione può estrinsecarsi mediante l'attribuzione di punteggi numerici senza la necessità di ulteriore motivazione, esternandosi in tal caso il giudizio della Commissione ex se nella graduazione e ponderazione dei punteggi assegnati (Consiglio di Stato, sez. III, 15/01/2016, n. 112).

VARIRinuncia all’eredità impugnabile se causa danno al creditore. Successioni. Anche se c’è buona fede.
Il creditore può contestare che il suo debitore abbia rinunciato a un’eredità la cui accettazione avrebbe incrementato il suo patrimonio, qualora la rinuncia comporti un «danno sicuramente prevedibile» per il creditore «nel senso che ricorrano fondate ragioni per ritenere che i beni personali del debitore possano non risultare sufficienti per soddisfare del tutto i suoi creditori».
Lo ha deciso la Corte di Cassazione, Sez. VI civile, nella ordinanza 29.04.2016 n. 8519.
Nel caso giunto all’esame della Corte, un soggetto, poi fallito, aveva effettuato una rinuncia a un’eredità devolutagli; il curatore del fallimento aveva dunque chiesto al giudice l’autorizzazione ad accettare l’eredità lasciata al rinunciante, ai sensi dell’articolo 524 del Codice civile, il quale sancisce che se taluno rinunzia, benché senza frode, a un’eredità con danno dei suoi creditori, questi possono farsi autorizzare ad accettarla in nome e luogo del rinunziante, al solo scopo di soddisfarsi sui beni ereditari fino alla concorrenza dei loro crediti.
Dato che la rinunzia all’eredità è suscettibile di recare danno al creditore del rinunziante, il quale non può beneficiare dell’incremento del patrimonio del suo debitore per effetto della mancata acquisizione dell’eredità da parte del debitore stesso, la legge autorizza infatti il creditore ad accettare l’eredità in nome e in luogo del rinunziante (senza quindi che il creditore impugnante divenga un erede) al fine di soddisfarsi sui beni ereditari.
All’accettazione dell’eredità rinunciata, il creditore perviene per mezzo di un’autorizzazione giudiziale, che non è un provvedimento di giurisdizione volontaria, ma una vera e propria sentenza in esito a un giudizio di natura contenziosa.
Per la Cassazione, dunque, il sopravvenuto fallimento del rinunciante è circostanza «altamente verosimile» del fatto che «il patrimonio del debitore, dato l’acclarato stato di insolvenza, non sia sufficiente a fare fronte a tutte le pretese creditorie».
Presupposti dell’azione di cui all’articolo 524 del Codice civile sono dunque che, da un lato, la rinunzia all’eredità effettuata dal debitore rappresenti un pregiudizio per i suoi creditori (pertanto essi sono legittimati ad impugnarla solo in quanto si tratti di un’eredità attiva); e, d’altro lato, che la garanzia rappresentata per i creditori dal patrimonio del debitore si riveli insufficiente. In altre parole, il presupposto dell’azione è la sussistenza di un danno prevedibile per il creditore a causa della rinuncia all’eredità da parte del debitore, vale a dire l’esistenza di fondate ragioni circa il fatto che il patrimonio del debitore rinunciante sia sufficiente per il soddisfacimento dei suoi debiti.
È invece irrilevante che il debitore rinunciante abbia un intento fraudolento nel porre in essere la rinuncia all’eredità (è anzi ininfluente la consapevolezza che il debitore o gli ulteriori chiamati all’eredità abbiano del possibile danno per il creditore, causato dalla rinuncia del debitore: Cassazione, sentenza n. 3548/1995). Come del pari è irrilevante che, a seguito della rinuncia, l’eredità sia stata accettata da ulteriori chiamati o sia stata ad essi devoluta per effetto del meccanismo dell’accrescimento che si ha in caso di chiamata in quote eguali
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.05.2016).

AMBIENTE-ECOLOGIACattivi odori. Concimi, il disagio ha un limite.
Chi gestisce un impianto di produzione di concime organico deve prestare attenzione alle esalazioni rilasciate nell'ambiente adottando ogni precauzione per limitare il disagio dei residenti. Diversamente scatteranno prescrizioni tecniche obbligatorie da parte della provincia.

Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 28.04.2016 n. 1633.
Un comune romagnolo da anni convive con un insediamento produttivo che trasforma le deiezioni avicole in concimi. Tante le doglianze dei residenti.
A seguito di una serie di sopralluoghi si è quindi reso necessario adottare una misura limitativa delle emissioni e contro questo provvedimento l'azienda ha proposto ricorso, ma senza successo. Il testo unico ambientale permette di adottare aggiornamenti ad hoc delle autorizzazioni già rilasciate.
Nel caso esaminato dal collegio la negligenza del gestore, unitamente al superamento della soglia di normale tollerabilità degli odori, ha permesso alla provincia di adottare un provvedimento limitativo, ai sensi del dlgs 152/2006 (articolo ItaliaOggi del 04.05.2016).
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MASSIMA
L’appello è infondato.
Il nucleo argomentativo da cui muovono le censure è che la situazione ambientale, scaturente dalle emissioni in atmosfera prodotte dallo stabilimento, presa in considerazione dall’amministrazione resistente, non consentisse, in assenza della richiesta di modifica sostanziale, di imporre nuove prescrizioni rispetto a quelle già contenute nell’autorizzazione prima del decorso del termine quindicennale della sua efficacia.
Tuttavia, a supporto di quanto dedotto, l’appellante richiama solo una parte degli accertamenti effettuati dagli organi tecnici preposti alla vigilanza ed al controllo della salubrità dell’ambiente che, complessivamente considerati, hanno indotto l’amministrazione ad adottare l’atto impugnato.
Dai rilievi effettuati dal Corpo Forestale dello Stato, dalla Polizia municipale e dal Servizio antinquinamento (doc. 10 del fascicolo della Provincia) s’evidenzia una gestione non oculata dell’impianto e delle prescrizioni provinciali contenute nel provvedimento n. 476 del 19.10.2005.
A quelli facevano riscontro le note dell’Arpa (in data 29.05.2006 e 20.07.2006) che ribadivano la necessità di predisporre i congegni necessari ad abbattere le emissioni in atmosfera, nonché il rapporto effettuato dai Carabinieri del nucleo tutela ambientale (datato 18.08.2006) laddove rilevano l’assenza di chiusura della parti dello stabilimento da cui provenivano le emissioni.
L’ASL, nella conferenza di servizi del 28.02.2007, ribadiva la necessità di analoghe prescrizioni.
In definitiva
l’indagine diacronica della vicenda, alla luce degli atti versati in causa, mostra una situazione altra da quella descritta dalla ricorrente, integrante il presupposto previsto dall’art. 269 d.lgs. n. 152 del 2006 per modificare, nel senso dell’aggiornamento, l’autorizzazione già rilasciata mediante l’adozione di nuove prescrizioni necessarie per garantire la salubrità ambientale e rispettare il valore limite di concentrazione di odore.
Del resto
l’art. 269, commi 7 e 8, d.lgs. n. 152 del 2006 parla di “aggiornamento” dell’autorizzazione. Il comma 8 precisa che è cosa diversa dal mero rinnovo, e consiste nell’adeguamento modificativo delle prescrizioni alle mutate situazioni di fatto e di diritto, e che deve inerire alla originaria autorizzazione, costituente espressione del potere esercitato dall’amministrazione.
Il che trae altresì fondamento dall’accordo transattivo qui stipulato dalla società appellante con la Provincia, recepita nella Conferenza dei servizi (in data 07.05.2007), ed infine nell’atto impugnato.
L’accordo transattivo –stipulato durante il procedimento istruttorio– esemplifica e documenta la partecipazione al procedimento della società. Ne segue l’infondatezza delle censure che lamentano il difetto del contraddittorio e di motivazione del provvedimento impugnato.
Da ultimo mette conto rilevare che l’insediamento produttivo, essendosi adeguata la società ricorrente alle prescrizioni per cui è causa, opera attualmente in forza dell’autorizzazione unica ambientale rilasciata dall’amministrazione competente (n. 2043 del 09.07.2014).
Conclusivamente l’appello deve essere respinto.

TRIBUTI: Pertinenze esenti se strettamente asservite.
Affinché un'area sia qualificabile come pertinenza, esente da tassazione Ici, deve sussistere un vincolo d'asservimento durevole delle aree al fabbricato, con il fine di migliorarne le condizioni d'uso e il valore. In materia fiscale, vista l'indisponibilità del rapporto, la prova dell'oggettivo asservimento pertinenziale, che grava sul contribuente, deve essere del resto valutata con maggior rigore rispetto ai rapporti privatistici.

Così si è espressa la Corte di Cassazione, Sez. V civile, con la sentenza 27.04.2016 n. 8367.
Nel caso di specie (che ha riflessi anche sull'Imu) il contribuente aveva impugnato sei avvisi di accertamento, attraverso i quali il comune richiedeva il pagamento dell'Ici relativamente a due aree edificabili, contigue a un edificio di cui i ricorrenti erano proprietari.
I contribuenti non le avevano infatti mai dichiarate, in quanto le utilizzavano come giardino pertinenziale dell'abitazione. Sia la Ctp che la Ctr confermavano la correttezza degli avvisi. Il contribuente proponeva quindi ricorso davanti alla Corte, che però lo riteneva infondato, rilevando che le aree erano censite in catasto autonomamente rispetto all'edificio al quale accedevano ed erano inserite in zona territoriale omogenea B a prevalente destinazione residenziale.
Nel caso di specie dunque la scelta pertinenziale avrebbe avuto l'unica funzione di eludere il prelievo, in contrasto con la reale natura del cespite, laddove la simulazione di un vincolo di pertinenza al fine di ottenere un risparmio fiscale può rappresentare abuso del diritto (articolo ItaliaOggi del 21.05.2016).
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MASSIMA
Il motivo non è fondato.
Infatti, oggetto degli avvisi d'accertamento e liquidazione emessi dal Comune di Ravarino e poi opposti, sono due aree, autonomamente distinte nel catasto del predetto comune, quali aree edificabili, in quanto inserite in zona territoriale omogenea B a prevalente destinazione residenziale, giusta estratti dello strumento urbanistico allegati dalla parte resistente al presente ricorso.
Tali aree, come detto, sono censite in catasto autonomamente, rispetto all'edificio al quale accedono e non sono mai state fatte oggetto di dichiarazione e liquidazione ai fini ICI (la parte contribuente, inoltre, avrebbe potuto impugnare l'attuale classamento presso la competente sede giudiziaria, mentre vi ha inizialmente prestato adesione, ritenendo di beneficiare del maggior valore attribuito, mentre, successivamente e nella presente sede, ha ritenuto più rispondente al proprio interesse, attribuire un diverso utilizzo all'area); questa circostanza, secondo l'orientamento di questa Corte, non consente alla parte contribuente di poter contestare l'atto impositivo, deducendo la sussistenza di un asserito vincolo di pertinenzialità; infatti, secondo l'orientamento che si ritiene di condividere, "
Il rapporto d'ICI s'instaura attraverso la denuncia del contribuente, mediante la quale egli dichiara la sua situazione di possesso rilevante per l'ICI e sulla base di essa egli stesso provvede alla liquidazione periodica dell'imposta. L'impostazione iniziale viene variata, oltre che per l'eventuale intervento accertativo del Comune, ogni volta che nella situazione possessoria del contribuente s'introduca una modificazione e il contribuente rinnovi la dichiarazione adeguatrice...".
Nella odierna vicenda, il rapporto ICI è stato gestito come una specie, del genere rapporto giuridico, fissato inizialmente dal contribuente sul solo presupposto del possesso dell'abitazione, con omissione di ogni riferimento al possesso dei due terreni, sia a titolo di area edificabile che di pertinenza, "
...cosicché, se lo stesso contribuente non ha affermato la sua pertinenzialità in via di specialità, vuoi dire che egli ha voluto lasciarlo nella sua condizione di area fabbricabile, corrispondentemente alla regola generale. A questo proposito, sovviene a rafforzare questa conclusione il doveroso riconoscimento della volontà del privato di valutare liberamente la convenienza dell'applicazione di altre norme sulle aree fabbricabile, come quelle, per esempio, che ne regolano l'espropriazione e la relativa indennità...," (Cass. n. 19638/2009).
Pertanto, volendo fare "buon governo" delle superiori considerazioni,
si deve ribadire che affinché un'area sia qualificabile come "pertinenza" e, come tale, vada esente dalla tassazione ICI, deve sussistere un vincolo d'asservimento durevole, funzionale o ornamentale delle aree al fabbricato, con il fine di migliorarne le condizioni d'uso, la funzionalità e il valore; infatti, in materia fiscale, attesa 'indisponibilità' del rapporto tributario, la prova dell'oggettivo asservimento pertinenziale che grava sui contribuente (quando, come nella specie, ne derivi una tassazione attenuta) deve essere valutata con maggior rigore rispetto alla prova richiesta nei rapporti di tipo privatistico.
Pertanto,
la mera "scelta" pertinenziale non può avere alcuna valenza tributaria, perché avrebbe l'unica funzione di eludere il prelievo fiscale, evitando l'assoggettabilità al precetto che impone la tassazione in ragione della reale natura del cespite. E la possibile simulazione di un vincolo di pertinenza, ai sensi dell'art. 817 c.c., al fine di ottenere un risparmio fiscale, può essere inquadrata nella più ampia categoria dell'abuso del diritto (v. Cass. sez. un. n. 30055 del 2008).
Pertanto, secondo l'insegnamento di questa Corte "
...per qualificare come pertinenza di un fabbricato un'area edificabile, è necessario che intervenga un'oggettiva e funzionale modificazione dello stato dei luoghi che sterilizzi in concreto e stabilmente lo "ius edificandi" e che non si risolva, quindi, in un mero collegamento materiale, rimovibile "ad libitum"..." (Cass. n. 25127 del 2009).

EDILIZIA PRIVATANiente permesso per le tende «a casetta». Consiglio di Stato. L’utilizzo è temporaneo e la struttura in alluminio è un accessorio.
Più elasticità per le strutture che non generano veri e propri volumi, comprese le tende rigide “a casetta”: lo sottolinea il Consiglio di Stato nella sentenza 27.04.2016 n. 1619, che riguarda il Comune di Roma.
Il principio generale (articolo 3, comma 1, lettera e.5, del Dpr 380/2001, Testo unico edilizia) è che le opere precarie non hanno necessità di alcun titolo e ad esse sono assimilati gli interventi di arredo (articolo 6, lettera e, del Dpr).
Per qualificare un’opera come precaria non basta verificare le caratteristiche dei materiali (spessore, resistenza) né le modalità di collegamento al suolo (perni, viti e bulloni, sistemi di ancoraggio). Occorre invece far riferimento alle esigenze (di natura stabile o temporanea) che l’opera sia diretta a soddisfare; in altri termini, occorre tener presente il carattere dell’utilizzo dell’opera, nel senso che se esso non è continuativo si può dedurre una precarietà e quindi la collocabilità senza titolo abilitativo.
Il caso esaminato riguardava due strutture di alluminio anodizzato atte a ospitare una tenda retrattile in materiale plastico comandata elettricamente, su un terrazzo; era quindi dubbia la temporaneità della loro utilizzazione, mentre non era in discussione la circostanza che la struttura garantisse una migliore fruizione dello spazio.
Su questi presupposti, il Consiglio ha precisato che la struttura non realizzava una «trasformazione edilizia e urbanistica del territorio» che rendesse necessario, per il Dpr, uno specifico provvedimento. Infatti, l’opera principale non è la struttura in sé, di plastica o metallo, con parti mobili o fisse, bensì la tenda, quale elemento di protezione da sole e agenti atmosferici, finalizzata ad una migliore fruizione dell’esterno dell’unità abitativa. In un contesto già edificato, quindi, la struttura in alluminio anodizzato è un mero elemento accessorio, necessario al sostegno ed all’estensione della tenda.
I giudici hanno anche escluso che si fosse in presenza di una ristrutturazione edilizia, che (articolo 3, lettera d, del Dpr), richiede «interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere», che «comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione, la modifica e l’inserimento di nuovi elementi e impianti».
Per aversi ristrutturazione, sarebbe stato necessario che le opere avessero consistenza e rilevanza edilizia, fossero cioè tali da poter «trasformare l’organismo edilizio», condividendo pertanto natura e consistenza degli elementi costitutivi di esso.
In sintesi, non occorre il previo rilascio del permesso di costruire nel caso di una tenda retrattile, perché questa si risolve in un mero elemento di arredo del terrazzo su cui insiste. Solo nel caso in cui la struttura sia tamponata sui due lati liberi da lastre di vetro mobili “a pacchetto”, munite di supporti che manualmente scorrano in appositi binari, con un vetro fisso superiore (timpano), il tutto inserito nelle strutture di alluminio anodizzato, si configurerebbe un vero nuovo volume
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.05.2016).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAParcheggi, vendite dal 2005. Resta il vincolo pertinenziale se ultimati prima del 16 dicembre.
Spazi privati. Per la Cassazione cessioni vietate a chi è estraneo al condominio.

Il problema dei parcheggi nelle aree urbane continua ad assumere primaria importanza, se si considera anche il susseguirsi di disposizioni normative riguardanti la materia e le molteplici pronunce da parte dei giudici.
Non possono, in ogni caso, essere autorizzate nuove costruzioni se queste non vengono corredate di aree destinate a parcheggio. La misura dell’area da destinare a parcheggio è quella prevista dall’articolo 41-sexies della legge 1150/1942 (e successive modifiche): un metro quadrato ogni dieci metri cubi di costruito.
Spetta alla pubblica amministrazione accertare la conformità degli spazi così destinati alla misura proporzionale stabilita dalla legge.
Con l’entrata in vigore della legge 246/2005 è venuto meno il vincolo di pertinenzialità tra parcheggi costruiti nell’immobile (o nelle aree a esso pertinenti) e le unità immobiliari site nell’immobile stesso, avendo l’articolo 12 della legge eliminato il diritto reale a favore di queste. Così le aree di parcheggio si possano vendere liberamente anche a soggetti estranei al condominio. Tale disposizione conferma comunque l’obiettivo di imporre ai costruttori di unità immobiliari di realizzare adeguati spazi di parcheggio, senza alcun vincolo soggettivo di destinazione in favore di queste.
La norma non è applicabile alle costruzioni e ai relativi parcheggi realizzati prima del 16.12.2005, data di entrata in vigore della legge, perché alla stessa non può attribuirsi alcune effetto retroattivo. In tal senso si è espressa la recente sentenza 22.04.2016 n. 8220 della Corte di Cassazione, Sez. II civile (relatore Antonio Scarpa), sul presupposto che l’articolo 12 della legge 246/2005 «non ha effetto retroattivo, né natura imperativa; ne consegue che nei casi in cui, al momento dell’entrata in vigore della nuova disciplina risultassero già stipulati gli atti di vendita delle singole unità immobiliari, trova applicazione la disciplina anteriore di cui al citato articolo 41-sexies delle legge 1150 del 1942».
Quest’ultima imponeva, per le nuove costruzioni, un vincolo soggettivo di destinazione fra le unità immobiliari e gli spazi di parcheggio, vincolo che impediva la circolazione libera di questi ultimi: box e spazi di parcheggio già di pertinenza di un appartamento sono destinati a restare così per sempre.
La sentenza, soffermandosi in modo analitico sull’operatività dell’articolo 41-sexies e riprendendo concetti già affermati dalla Suprema Corte, ribadisce che si tratta di una norma imperativa e inderogabile, in correlazione degli interessi pubblicistici da essa perseguiti, che opera non soltanto nel rapporto fra il costruttore o proprietario di edificio e l’autorità competente in materia urbanistica, ma anche nei rapporti privatistici riguardanti questi spazi, nel senso di imporre la loro destinazione a uso diretto delle persone che stabilmente occupano le costruzioni o a esse abitualmente accedono.
Non sono ammesse deroghe mediante atti privati di disposizione degli stessi spazi, le cui clausole difformi sono perciò sostituite di diritto dalla medesima norma imperativa, al punto che nel giudizio intercorrente tra gli acquirenti degli immobili illegittimamente privati del diritto all’uso dell’area a parcheggio e i terzi che abbiano acquistato porzioni di tale area, la nullità di cui all’articolo 1418 del Codice civile dei negozi stipulati dai primi, nella parte in cui ha omessa tale inderogabile destinazione, è rilevabile d’ufficio anche in via incidentale.
Sotto tale profilo però precisa che si può giungere alla nullità solo se, al momento della realizzazione degli edifici, il costruttore ha fatto riserva di una ben determinata e identificata area da destinare a parcheggio e sempre che manchi un successivo trasferimento del medesimo spazio su altre aree comunque idonee a tale utilizzazione al momento del rilascio della nuova concessione in variante.
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Usucapione possibile per le aree di sosta. Il caso. Usi non contestati.
La proprietà delle aree interne e circostanti ai fabbricati di nuova costruzione, su cui grava il vincolo pubblicistico di destinazione a parcheggio, può essere acquistata anche per usucapione. Il principio è confermato dalla sentenza 8820/16 con cui i giudici di legittimità confermano che il «possesso utile ai fini di usucapione decorre in danno del proprietario dal momento dell’atto di acquisto, essendo soltanto a far tempo da esso possibile considerare distintamente il diritto dominicale (trasferito) e quello al parcheggio (non trasferito) sull’area destinata a parcheggio».
Per la Cassazione l’usucapione in favore degli acquirenti ha effetto estintivo anche del vincolo pubblicistico di destinazione, stante l’efficacia retroattiva reale dell’usucapione stessa.
Per gli acquisti «a titolo derivativo» invece opera il principio per cui il vincolo di destinazione impresso alle aree destinate a parcheggio non impedisce che il proprietario dell’area possa riservare a sé, o trasferire a terzi, il diritto di proprietà sull’area o su parti di essa, fermo però il succitato diritto d’uso da parte dei proprietari delle unità immobiliari site nel fabbricato
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.05.2016).
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MASSIMA
IV. E' dapprima infondato il decimo motivo di ricorso.
Basta ribadire, in proposito, come, secondo il costante orientamento di questa Corte,
la Part. 12, comma 9, della legge 28.11.2005, n. 246, che ha modificato l'art. 41-sexies della legge 17.08.1942, n. 1150, ed in base al quale gli spazi per parcheggio possono essere trasferiti in modo autonomo rispetto alle altre unità immobiliari, non ha effetto retroattivo, né natura imperativa; ne consegue che nei casi in cui, come quello in esame, al momento dell'entrata in vigore della nuova disciplina risultassero già stipulati gli atti di vendita delle singole unità immobiliari, trova applicazione la disciplina anteriore, di cui al citato art. 41-sexies della legge n. 1150 del 1942 (Cass. 05.06.2012, n. 9090; Cass. 01.08.2008, n. 21003).
V. Il primo ed il secondo motivo del ricorso principale, la cui trattazione unitaria risulta opportuna per la loro connessione, sono invece fondati, per quanto di ragione.
Entrambi i motivi sono radicati sul presupposto della decisività del riscontro dell'efficacia di giudicato (diretto o riflesso) da attribuire alla sentenza della Corte d'Appello di Roma n. 388/1992 (intervenuta a suo tempo tra gli acquirenti degli appartamenti compresi negli edifici siti in Roma, Via ..., n. 685, Via ..., n. 16, e Via ..., n. 4 e la costruttrice S.r.l. Ed.Eg.), nei confronti degli attuali ricorrenti, i quali avevano a loro volta acquistato i posti auto, box e negozi realizzati nell'area da destinare a parcheggio.
A proposito di tale pronuncia, la Corte di merito ha affermato che la stessa non avesse efficacia in senso stretto di giudicato, ma comunque rivelasse "effetto riflesso nei confronti degli appellati, che, pur essendo rimasti estranei al detto giudizio, sono titolari di diritti ed obblighi, dipendenti dalla situazione giuridica definitiva in quel processo".
Ora, è vero che questa Corte ha più volte affermato che una sentenza passata in giudicato, anche quando non possa avere l'effetto vincolante di cui all'art. 2909 c.c., può avere comunque l'efficacia riflessa di prova o di elemento di prova documentale in ordine alla situazione giuridica che abbia formato oggetto dell'accertamento giudiziale, e che tale efficacia indiretta può essere invocata da chiunque vi abbia interesse, spettando al giudice di esaminare la sentenza prodotta a tale scopo e valutarne liberamente il contenuto, anche in relazione agli altri elementi di giudizio rinvenibili negli atti di causa (da ultimo, Cass. 20.02.2013, n. 4241).
Quel che tuttavia fa difetto nel caso in esame, per ravvisare, come fatto dalla Corte di Roma, un'efficacia riflessa della sentenza n. 388/1992 riguardo alle parti di questo giudizio, che a quello culminato nell'invocata pronuncia non parteciparono, è il presupposto della titolarità in capo a questi ultimi di diritti ed obblighi dipendenti dalla situazione giuridica definita in quel primo processo. L'assunto a base della statuizione qui impugnata evidente postula che solo l'efficacia ultra partes di quella sentenza del 1992 possa rendere opponibile agli attuali ricorrenti l'ivi conseguita declaratoria del diritto reale ex lege all'uso del parcheggio.
Vale, all'opposto, un diverso principio, conforme al consolidato orientamento di questa Corte, e nella sostanza seguito dalla stessa pronuncia qui impugnata, per il quale
il vincolo di destinazione impresso agli spazi per parcheggio dall'art. 41-sexies della legge 17.08.1942, n. 1150, secondo il testo introdotto dalla legge 06.08.1967 n. 765, art. 18, norma di per sé imperativa, non può subire deroghe mediante atti privati di disposizione degli stessi spazi, le cui clausole difformi sono perciò sostituite di diritto dalla medesima norma imperativa. Tale vincolo si traduce in una limitazione legale della proprietà, che può essere fatta valere, con l'assolutezza tipica dei diritti reali, nei confronti dei terzi che ne contestino l'esistenza e l'efficacia.
Pertanto
coloro che abbiano acquistato le singole unità immobiliari dall'originario costruttore-venditore, il quale, eludendo il vincolo, abbia riservato a sé la proprietà di detti spazi, ben possono agire per il riconoscimento del loro diritto reale d'uso direttamente nei confronti dei terzi ai quali l'originario costruttore abbia alienato le medesime aree destinate a parcheggio.
In un tale giudizio (qual è quello in esame), intercorrente tra gli acquirenti degli immobili illegittimamente privati del diritto all'uso dell'area pertinente a parcheggio ex art. 18 della legge 06.08.1967, n. 765, ed i terzi che abbiano acquistato porzioni di tale area, la nullità dei negozi stipulati dai primi, nella parte in cui sia stata omessa tale inderogabile destinazione, con conseguente loro integrazione "ope legis", è rilevabile anche "incidenter tantum", sicché non deve necessariamente correlarsi alla verifica della sussistenza e dell'opponibilità, in via immediata o, appunto, riflessa, di un giudicato conseguito nei confronti dell'originario costruttore-venditore.
Come pure,
in un giudizio così congegnato, non si impone nemmeno che sia convenuto il costruttore-venditore, pur spettando a questo l'eventuale diritto (personale) a conseguire l'integrazione del prezzo di acquisto da coloro che agiscano per ottenere il riconoscimento del loro diritto d'uso sugli spazi vincolati a parcheggio (Cass. 14.11.2000, n. 14731; Cass. 25.03.2004, n. n. 5755).
VI. Può poi passarsi all'analisi congiunta del quarto e dell'ottavo motivo di ricorso, anch'essi in logica connessione.
Questi criticano la sentenza della Corte di Roma, ai sensi dell'art. 360, n. 3, 4 e 5, c.p.c., per non aver dato sufficiente rilievo nel suo ragionamento alle concessioni in variante ed in sanatoria, ed ai conseguenti certificati di abitabilità, che accompagnavano i titoli di acquisto degli attuali ricorrenti, provvedimenti che comprovavano il rispetto della destinazione a parcheggio dell'area riservata; e per aver determinato l'asservimento a parcheggio di un'area di mq. 7.354,90, anziché di mq. 6.354,90.
In particolare, è oggetto di doglianza la frase della pronuncia d'appello secondo la quale l'art. 41-sexies della legge n. 1150/1942 "opera nel rapporto tra il costruttore o proprietario di edificio e l'autorità competente in materia urbanistica", sicché quest'ultima "non può porre nel nulla gli atti d'obbligo, formati col Comune dal costruttore, al fine del rilascio della licenza edilizia". Tali patti d'obbligo, secondo quanto illustra la stessa sentenza impugnata a pagina 32, individuavano in mq. 6.354,90 l'area da destinare a parcheggio. Il Tribunale ha invece determinato in mq. 7.354,90 la stessa area, disponendo il prosieguo istruttorio per individuare tramite CTU consistenza e posizione di quest'area.
I due motivi sono parzialmente fondati, per quanto di ragione.
Non esiste il denunciato vizio di ultrapetizione in quanto la normativa urbanistica, dettata dall'art. 41-sexies della legge n. 1150 del 1942, si limita a prescrivere, per i fabbricati di nuova costruzione, una misura proporzionale alla cubatura totale dell'edificio da destinare obbligatoriamente a parcheggi, pari ad un metro quadrato per ogni venti metri cubi di costruito, secondo i parametri applicabili per l'epoca dell'edificazione. Tale misura proporzionale è imposta dalla legge, sicché l'eventuale metratura prospettata dalla parte con l'atto introduttivo di un giudizio volto al riconoscimento del diritto d'uso a parcheggio ha solo valore indicativo, per cui non incorre in ultrapetizione il giudice che, sulla base delle risultanze processuali, determini l'estensione della relativa area in misura pure diversa e maggiore da quella inizialmente quantificata dall'istante.
Per la concreta attuazione, invece, della costituzione del diritto reale di uso per parcheggio, soltanto in assenza di relativa previsione nell'atto concessorio, o nel regolamento condominiale, o negli atti di acquisto dei singoli appartamenti, è consentito chiedere al giudice tale identificazione (Cass. 11.08.1997, n. 7474). Ai fini del rispetto del vincolo di destinazione impresso agli spazi per parcheggio dall'art. 41-sexies citato, infatti, il rapporto tra la superficie delle aree destinate a parcheggio e la volumetria del fabbricato, così come richiesto dalla legge, va effettivamente verificato a monte dalla P.A. nel rilascio della concessione edilizia.
La rimozione del vincolo a parcheggio sulle aree individuate in sede di rilascio della concessione edilizia come condizione essenziale per lo stesso rilascio, può tuttavia avvenire tramite una nuova concessione in variante, al fine di trasferirlo su altre zone riconosciute idonee. L'art. 41-sexies della Legge urbanistica opera, pertanto, come norma di relazione nei rapporti privatistici e come norma di azione nel rapporto pubblicistico con la P.A., la quale non può autorizzare nuove costruzioni che non siano corredate di dette aree, costituendo l'osservanza della norma condizione di legittimità della licenza (o concessione) di costruzione, e alla quale esclusivamente spetta l'accertamento della conformità degli spazi alla misura proporzionale stabilita dalla legge e della loro idoneità ad assicurare concretamente la prevista destinazione.
Manca, pertanto, nel ragionamento seguito dalla Corte di Roma, la verifica, sollecitata dagli appellanti, dell'eventuale adeguato trasferimento dello spazio destinato a parcheggio, inizialmente fissato coi patti d'obbligo ed impressa nella concessione, su altre aree comunque idonee a tale utilizzazione, il che, come ora ricordato, ben può avvenire mediante il rilascio di una nuova concessione in variante (quali quelle dedotte dagli attuali ricorrenti), non avendo il giudice ordinario il potere di attribuire agli acquirenti di singole unità immobiliari il diritto di impiegare come parcheggio uno spazio, pur se di proprietà del costruttore-venditore, in tutto o in parte diverso da quello destinato a tale uso, secondo la prescrizione della concessione edilizia, originaria o in variante (cfr. Cass. 30.07.1999, n. 6894; Cass. 14.11.2000, n. 14731; Cass. 05.05.2003, n. 6751; Cass. 13.01.2010, n. 378).
Sempre questa Corte ha affermato come
gli spazi che debbono essere riservati a parcheggio ex art. 41-sexies possono essere ubicati indifferentemente nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle stesse, trattandosi di modalità entrambe idonee a soddisfare l'esigenza, costituente la "ratio" della norma, di deflazione della domanda di spazi per parcheggio nelle aree destinate alla pubblica circolazione, non essendo, peraltro, consentito al giudice di sindacare le scelte compiute in proposito dalla P.A. (Cass. 22.02.2006, n. 3961).
Quanto, infine, alla rilevanza da attribuire nella presente lite agli atti d'obbligo intercorsi tra la società costruttrice e il Comune di Roma, torna utile richiamare l'insegnamento espresso reiteratamente da questa Corte, in forza del quale l'atto con il quale un proprietario-costruttore si sia impegnato nei confronti del Comune, ai fini del rilascio della concessione edilizia, a conferire una particolare destinazione a determinate superfici, non è riconducibile alla figura del contratto a favore di terzi, di cui all'art. 1411 c.c., sia perché non costituisce un contratto di diritto privato, sia perché non ha neppure la specifica autonomia e natura di fonte negoziale di un regolamento dei contrapposti interessi delle parti stipulanti, caratterizzandosi, piuttosto, come atto intermedio del procedimento amministrativo volto al conseguimento del provvedimento concessorio finale, dal quale promanano soltanto poteri autoritativi della P.A. e non la possibilità per i terzi privati di accampare diritti sulla sua base.
Ne consegue che,
per il rispetto dell'obbligo di destinazione assunto dal proprietario-costruttore, salva l'ipotesi che esso sia stato trasfuso in una disciplina negoziale all'atto del trasferimento della singola unità immobiliare da lui realizzata, i singoli condomini non hanno alcuna azione, fermo il diritto al risarcimento del danno qualora l'inosservanza dell'obbligo concreti una violazione delle norme urbanistiche (Cass. 20.11.2006, n. 24572; Cass. 23.02.2012, n. 2742).
VII. Sono parzialmente fondati, per quanto di ragione, altresì, il terzo, il sesto ed il settimo motivo di ricorso, da trattare congiuntamente sempre perché connessi.
La Corte d'appello ha, in estrema sintesi e facendo salve le diversità delle singole posizioni scrutinate, riconosciuto in favore degli appellanti principali ed incidentali l'acquisto dei rispettivi beni per usucapione decennale, fermo restando il vincolo di destinazione a parcheggio.
Ora, questa Corte ha effettivamente più volte riconosciuto come "
la proprietà delle aree interne o circostanti ai fabbricati di nuova costruzione, su cui grava il vincolo pubblicistico di destinazione a parcheggio, può essere acquistata per usucapione, non comportandone tale vincolo indisponibilità, inalienabilità e incommerciabilità" (Cass. 15.11.2002, n. 16053; Cass. 07.06.2002, n. 8262).
Tale possesso utile a fini di usucapione decorre in danno del proprietario dal momento dell'atto di acquisto, essendo soltanto a far tempo da esso possibile considerare distintamente il diritto dominicale (trasferito) e quello al parcheggio (non trasferito) sull'area destinata a parcheggio.
Non è stata oggetto di censura la sentenza impugnata nella parte in cui la stessa ha riconosciuto l'usucapione abbreviata ex art. 1159 c.c. in favore degli appellanti. La soluzione adottata avrebbe dovuto indurre, in verità, ad affrontare il profilo della configurabilità dell'usucapione decennale, ai sensi dell'art. 1159 c.c., in favore di colui che abbia acquistato, come nella specie, un'area di parcheggio asseritamente vincolata al diritto d'uso "ex lege", quanto, in particolare, alla sussistenza del requisito del titolo idoneo a trasferire la proprietà, trattandosi di atto nullo per contrarietà a norme imperative (cfr., in senso contrario all'ammissibilità, Cass. 24.05.2013, n. 12996).
La questione è tuttavia sottratta all'esame di questa Corte giacché, come detto, non oggetto di gravame. Ora, è evidente che la ravvisata usucapione in favore dei terzi acquirenti dell'area di parcheggio, a differenza di quanto afferma la sentenza della Corte di Roma, avrebbe effetto estintivo anche del vincolo pubblicistico di destinazione, in forza dell'efficacia retroattiva reale dell'usucapione stessa.
Quanto, viceversa, agli acquisti a titolo derivativo, opera davvero il principio per cui
il vincolo di destinazione impresso alle aree destinate a parcheggio, interne o circostanti ai fabbricati di nuova costruzione, di cui all'art. 41-sexies, legge n. 1150 del 1942, non impedisce che il proprietario dell'area possa riservare a sé, o trasferire a terzi, il diritto di proprietà sull'intera area, o su parti di essa, fermo restando il succitato diritto d'uso da parte dei proprietari delle unità immobiliari site nel fabbricato (Cass. 24.11.2003, n. 17882;  Cass. 27.12.2011, n. 28950).
Tuttavia, nella vicenda oggetto di questo giudizio, perché si possa correttamente affermare la nullità ex art. 1418 c.c. di quella parte dei contratti di compravendita immobiliare nella quale al trasferimento della proprietà sulle singole porzioni dell'edificio non si era accompagnato anche quello della proprietà o, quanto meno, del diritto reale d'uso sulle pertinenziali porzioni dello spazio riservato al parcheggio degli edifici di Via ..., n. 685, Via ..., n. 16, e Via ..., n. 4, occorre accertare:
   1) l'avvenuta riserva, al momento della realizzazione di tali edifici, all'interno degli atti d'obbligo intercorsi tra la società costruttrice e il Comune di Roma, se richiamati dagli atti di trasferimento delle singola unità immobiliari, e della concessione edilizia, di una determinata ed identificata area da destinare a parcheggio, come richiesto dalla Legge urbanistica;
   2) il mancato successivo trasferimento del medesimo spazio destinato a parcheggio nei patti d'obbligo e nella concessione, su altre aree comunque idonee a tale utilizzazione al momento del rilascio della nuova concessione in variante.
Solo, infatti, la determinazione di uno preciso spazio, interno od esterno agli edifici, idoneo ad essere utilizzato a scopo di parcheggio, e la successiva stipulazione d'atti di compravendita delle singole porzioni immobiliari con espressa esclusione o mancata menzione del contestuale trasferimento della proprietà o del diritto reale d'uso sulle pertinenziali porzioni del detto spazio riservato, consentono di pervenire alla dichiarazione di nullità di quegli atti.
Ove sia, diversamente, accertato che, pur previsto negli atti d'obbligo e nella concessione edilizia, lo spazio da adibire a parcheggio non sia stato affatto riservato a tal fine in corso di costruzione e sia stato impiegato, invece, per realizzarvi manufatti od opere d'altra natura (quali, nella specie, negozi) da destinare a diversa utilizzazione (ipotesi, cioè diversa, da quella in cui allo spazio realizzato conformemente al progetto sia stata successivamente data una diversa destinazione in sede di vendita), non può dirsi nemmeno mai costituito il rapporto di pertinenzialità ex lege voluto dalla legge urbanistica, sicché non può ravvisarsi la nullità parziale dei contratti di vendita aventi ad oggetto quei diversi manufatti, né farsi luogo a tutela ripristinatoria per ottenere la realizzazione ex novo dello spazio da destinare a parcheggio non riservato in corso d'edificazione, ammettendosi unicamente una tutela risarcitoria (Cass. 18.04.2003, n. 6329; Cass. 05.05.2009, n. 10341).
Secondo i principi generali di allocazione dell'onere istruttorio, spetta in ogni caso agli attori, i quali deducano la nullità degli atti di acquisto da parte di terzi di un'area di parcheggio vincolata al diritto d'uso ex art. 41-sexies Legge urbanistica, di provare che i beni oggetto di tali alienazioni siano compresi nell'ambito ben delimitato da tale norma (ovvero nell'apposito spazio riservato per parcheggio in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni venti metri cubi di costruzione, concretamente destinato a tal fine in sede di realizzazione del fabbricato), in quanto elemento costitutivo del loro asserito diritto, giacché ogni spazio ulteriore è completamente svincolato da detta disciplina e può, quindi, essere liberamente venduto, locato o costituire oggetto di altri negozi giuridici (Cass. 23.01.2006, n. 1221).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGORecupero dei buoni pasto Non incide sulle tasse.
L'indebito versato a titolo di buoni pasto può essere recuperato, ma senza incidere sulla quota di tassazione esente da prelievo tributario.

Questo è il principio espresso dal TAR Puglia-Bari, Sez. III, con la sentenza 21.04.2016 n. 528.
La vicenda riguardava alcuni dipendenti della Croce rossa italiana, i quali si erano visti richiedere le maggiori somme percepite in passato sui buoni pasto (euro 8,93 anziché euro 4,65), mediante prelievo sui ticket restaurant maturati successivamente ai provvedimenti di recupero.
Il Collegio giudicante ha premesso che «i buoni pasto non possono essere considerati un emolumento in natura, ma un trattamento economico speciale perché incorporano un valore monetario intrinseco, con la conseguenza che essi sono «dei valori assimilabili a mezzi di pagamento, ancorché destinati all'acquisto dei soli beni alimentari».
Inoltre si è puntualizzato che «i buoni pasto sono una quota di reddito imponibile per il valore nominale eccedente l'importo di 5,29, mentre sono esenti entro tale limite, stante la peculiare loro natura di valore non accantonabile che, pertanto, non esprime capacità contributiva, in quanto indirizzato al soddisfacimento di un bisogno primario incomprimibile».
In base a tali elementi i giudici amministrativi baresi hanno ritenuto che la peculiare destinazione di tale risorsa all'acquisto di un pasto non costituisce un ostacolo assoluto alla ripetizione dell'indebito, ma ciò non può avvenire sui ticket futuri di spettanza degli interessanti, benché abbiano valore unitario inferiore al limite di esenzione tributaria.
Infatti dal recupero deve restare esclusa la quota dell'importo nominale dei buoni pasto considerata essenziale per la soddisfazione delle esigenze alimentari del percettore e tale quota, in mancanza di un'espressa previsione normativa, coincide con l'importo esente da imposte sui redditi.
Il Tar pugliese ha poi concluso affermando che «il limite di tassazione previsto per i buoni pasto traduce un principio immanente nell'ordinamento e, dunque, non v'è ragione di escludere che, come il fisco, anche il pubblico datore di lavoro non possa incidere su dette risorse, benché entrambi, di regola, ne abbiano titolo.» (articolo ItaliaOggi Sette del 09.05.2016).

PUBBLICO IMPIEGOIl giudice lumaca resta al palo. È legittimo il non conferimento di incarichi direttivi. Il Tar Brescia sul caso di un magistrato che depositava in grave ritardo le sentenze.
È legittima la decisione di non conferire incarichi direttivi e semidirettivi ad un magistrato motivata con riferimento al fatto che il giudice ha depositato con grave ritardo diverse sentenze.

Lo ha confermato il TAR Lombardia–Brescia, Sez. I con l'ordinanza 21.04.2016 n. 309.
Nel caso in esame il Consiglio giudiziario presso la Corte d'appello di Brescia aveva espresso diversi pareri negativi per il conferimento di uffici direttivi e semidirettivi ad un giudice a causa del susseguirsi di ritardi nel deposito delle sue sentenze.
Tale circostanza era emersa dai precedenti verbali del Consiglio giudiziario e riguardava il biennio precedente. Più precisamente risultava che 49 delle 81 minute redatte dal giudice erano state depositate nell'intervallo temporale tra i 181-365 giorni e 4 minute oltre l'anno. Il magistrato aveva comunque chiesto la sospensione dell'efficacia dei pareri negativi al fine di ottenere un remand nei confronti del Consiglio giudiziario, per la formulazione di una nuova valutazione.
Il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sezione staccata di Brescia (Sezione Prima), respinge la domanda cautelare.
Infatti, secondo il quadro normativo di riferimento (dlgs 160-2006 e successive circolari applicative) per il conferimento delle funzioni direttive e semidirettive assumono rilievo anche gli elementi desunti attraverso le valutazioni di professionalità del magistrato di cui all'art. 11 di detto decreto legislativo. La diligenza costituisce uno dei parametri di tali valutazioni e –ai sensi della lett. c) del comma 2 del citato art. 11– la stessa diligenza è riferita, tra l'altro, «al rispetto dei termini per la redazione e il deposito di provvedimenti».
Ebbene, nel caso specifico risulta una accertata situazione storica nei ritardi e non solo. Risultano indette periodiche riunioni (cinque per l'esattezza) da parte della presidente della Corte d'appello, durante le quali sono state «monitorate le criticità relative ai ritardi nel deposito dei provvedimenti» del magistrato ricorrente e sono stati stabiliti dei piani di rientro che sono stati parzialmente rispettati.
Tali ritardi, secondo i giudici, hanno denotato una difficoltà di gestione del ruolo e di conciliazione della attività non strettamente «giudiziarie» con il ruolo ordinario che ben giustificano i pareri negativi espressi dal Consiglio giudiziario (articolo ItaliaOggi Sette del 16.05.2016).

INCARICHI PROFESSIONALIL'avvocato ha un tris di doveri. Sollecitazione, dissuasione e informazione al cliente. La Corte di cassazione passa in rassegna le modalità operative del professionista.
L'avvocato è tenuto ad assolvere, sia all'atto del conferimento del mandato, sia nel corso dello svolgimento del rapporto, ai doveri di sollecitazione, dissuasione e informazione del cliente, visto che lo stesso avvocato è tenuto a rappresentare all'assistito tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque insorgenti, ostative al raggiungimento del risultato, o comunque produttive del rischio di effetti dannosi.
È quanto ribadito dai giudici della II Sez. civile della Corte di Cassazione con la sentenza 19.04.2016 n. 7708.
Inoltre, secondo una ormai consolidata giurisprudenza della stessa Cassazione (Cass., sez. 2ª, sentenza n. 14597 del 2004), è facoltà dell'avvocato quella di richiedere al cliente gli elementi necessari o utili in suo possesso; di sconsigliarlo dall'intraprendere o proseguire un giudizio dall'esito probabilmente sfavorevole.
I giudici hanno anche osservato che sarà onere dell'avvocato fornire la prova della condotta mantenuta e che al riguardo non potrà considerarsi sufficiente il rilascio da parte del cliente delle procure necessarie all'esercizio dello ius postulandi, «trattandosi di elemento che non è idoneo a dimostrare l'assolvimento del dovere di informazione in ordine a tutte le circostanze indispensabili per l'assunzione da parte del cliente di una decisione pienamente consapevole sull'opportunità o meno di iniziare un processo o intervenire in giudizio».
Secondo gli Ermellini, poi, l'attività del professionista legale tesa a persuadere il cliente al compimento o meno di un atto, ulteriore rispetto all'assolvimento dell'obbligo informativo, sarà concretamente inesigibile, oltre che contrastante, con il principio secondo cui l'obbligazione informativa dell'avvocato è un'obbligazione di mezzi e non di risultato.
Il difensore è tenuto a informare i clienti sui diversi punti della causa, e ciò si configura come dovere di diligenza (articolo ItaliaOggi Sette del 09.05.2016).
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MASSIMA
1.2.2. - La motivazione resa dalla Corte territoriale risulta esente da censura.
Non può ritenersi che il difensore avesse il dovere di insistere per ottenere il consenso della parte alla chiamata in causa del terzo: la diligenza cui era tenuto il difensore nell'esercizio del suo mandato era stata assolta nel momento in cui il cliente era stato informato sul punto (ex plurimis, Cass., sez. 3^, sentenza n. 24544 del 2009).
Vero che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, l'obbligo di diligenza, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 1176, secondo comma, e 2236 cod. civ., impone all'avvocato di assolvere -sia all'atto del conferimento del mandato, sia nel corso dello svolgimento del rapporto- anche ai doveri di sollecitazione, dissuasione ed informazione del cliente, essendo il professionista tenuto a rappresentare a quest'ultimo tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque insorgenti, ostative al raggiungimento del risultato, o comunque produttive del rischio di effetti dannosi; di richiedergli gli elementi necessari o utili in suo possesso; di sconsigliarlo dall'intraprendere o proseguire un giudizio dall'esito probabilmente sfavorevole.
E' vero, di conseguenza, che incombe sul professionista l'onere di fornire la prova della condotta mantenuta, e che al riguardo non è sufficiente il rilascio da parte del cliente delle procure necessarie all'esercizio dello ius postulandi, trattandosi di elemento che non è idoneo a dimostrare l'assolvimento del dovere di informazione in ordine a tutte le circostanze indispensabili per l'assunzione da parte del cliente di una decisione pienamente consapevole sull'opportunità o meno di iniziare un processo o intervenire in giudizio
(Cass., sez. 2^, sentenza n. 14597 del 2004).
Ciò detto,
è altresì vero che l'attività di persuasione del cliente al compimento o non di un atto, ulteriore rispetto all'assolvimento dell'obbligo informativo, è concretamente inesigibile, oltre che contrastante con il principio secondo cui l'obbligazione informativa dell'avvocato è un'obbligazione di mezzi e non di risultato (ex plurimis, Cass., sez. 3^, sentenza n. 10289 del 2015).
1.2.3. - Nel caso di specie la scelta del cliente, di non chiamare in garanzia il terzo, era riconducibile a ragioni fattuali e non giuridiche, non esplicitate dal cliente al difensore, mentre la consapevolezza delle conseguenze giuridiche della mancata chiamata in garanzia, ossia l'impossibilità di  rivalersi sul garante, era contenuta nell'informazione resa in merito alla facoltà di chiamata in causa del terzo.
E del resto, il difensore non poteva prospettare in modo certo al proprio cliente la responsabilità della ditta installatrice dell'impianto di allarme, a fronte della pronuncia di merito che aveva ritenuto non accertato il nesso causale tra inidoneità o malfunzionamento dell'impianto e perpetrazione del furto.
Non sussiste, pertanto, la dedotta violazione di legge.
2. - Con il secondo motivo è dedotto vizio di motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all'art. 360, primo coma, n. 5, cod. proc. civ., per avere la Corte d'appello ritenuto che l'eventualità della chiamata in garanzia del terzo non implicasse la risoluzione di specifiche questioni processuali o di diritto sostanziale, ma fosse rimessa ad una valutazione di opportunità spettante al cliente e non sindacabile dal difensore.
2.1. - La doglianza è infondata.
2.1.1. - Il dovere di informazione del difensore si arrestava dinanzi alla prospettazione della possibilità di chiamare in garanzia la società che aveva installato l'impianto antifurto -peraltro, verificato pochi giorni prima del furto e risultato non manomesso dopo la perpetrazione del furto- e non residuavano altri oneri informativi o di sollecitazione che il difensore avrebbe potuto fornire, alla stregua di specifiche cognizioni giuridiche di cui disponeva, tanto più che la scelta della Sh.Te. di non chiamare in causa l'installatore era riconducibile a ragioni di opportunità, sulle quali il difensore non avrebbe potuto sindacare.

APPALTI: Busta in gara pure non controfirmata.
Forma no, sostanza sì. Non si può estromettere l'impresa dalla gara per i lavori di progettazione soltanto perché la busta con la sua offerta non risulta controfirmata. E ciò anzitutto perché, specie in tempi di addio alla carta nella procedura pubblica, imporre la sottoscrizione ai lembi dell'involucro costituisce un inutile aggravamento dell'iter burocratico; il tutto mentre la stazione appaltante dovrebbe sforzarsi di favorire il più possibile la partecipazione alle procedure pubbliche che pubblica.

È quanto emerge dalla sentenza 19.04.2016 n. 1031, pubblicata dalla Sez. I del TAR Campania-Salerno.
Accolto il ricorso proposto dall'azienda esclusa dalla gara bandita dalla comunità montana soltanto perché «in alcuni punti» della busta «si intravvede in trasparenza una colorazione rossa che potrebbe risultare ceralacca, ma non si evidenzia il timbro con le controfirme».
Per annullare l'estromissione dell'azienda candidata i giudici non hanno bisogno di vagliare il motivo di ricorso che lamenta la clausola di nullità del bando: è la stessa prescrizione di controfirmare i lembi della busta a essere ritenuta «poco utile» dalla giurisprudenza amministrativa perché finisce per appesantire le procedure; la stessa stazione appaltante, peraltro, non solleva questioni di mancata segretezza dell'offerta nel giustificare l'estromissione dalla gara: si tratta insomma di una questione più che altro formale, mentre è lo stesso bando di gara a collegare l'incombente della sottoscrizione alla riservatezza della proposta contenuta nella busta (articolo ItaliaOggi del 21.05.2016).
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MASSIMA
Il ricorso è fondato.
La lex specialis di gara ha espressamente collegato le formalità, di cui alla Sezione X.1 (controfirma e sigillatura sui lembi di chiusura) all’esigenza di assicurare la segretezza dell’offerta.
Ora, la segretezza dell’offerta non è stata, per vero, mai posta in discussione.
La stazione appaltante, nelle sue difese, ha sostenuto che, in realtà, tale previsione capitolare fosse piuttosto volta a garantire la provenienza e la paternità dell’offerta: ma si tratta d’interpretazione, in contrasto con il dato letterale del bando.
Ne consegue che va confermata la conclusione raggiunta in sede di esame della domanda cautelare, nel senso dell’illegittimità dell’esclusione della ricorrente dalla gara ad evidenza pubblica in oggetto, conformemente agli esiti cui è pervenuta, di recente, la giurisprudenza amministrativa.
Possono citarsi, all’uopo, le massime seguenti:
- “
L’apposizione della controfirma sui lembi sigillati della busta che la contiene mira a garantire il principio della segretezza dell’offerta e dell’integrità del plico. La norma di cui all’art. 46, comma 1-bis, d.lgs. n. 163 del 2006 stabilisce che le irregolarità relative alla chiusura dei plichi, diverse dalla non integrità del plico contenente l’offerta o la domanda di partecipazione, sono causa di esclusione solo se sono tali da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato violato il principio di segretezza delle offerte (nel caso di specie, non risulta che tale valutazione in concreto sia stata fatta ma anzi risulta che la busta sia sostanzialmente integra e che la mancanza delle firme sui due lembi è supplita dall’apposizione della ceralacca sui medesimi)” (TAR Milano-Lombardia, Sez. III, 02/04/2015, n. 880);
- “I
n tema di partecipazione a gare per l’affidamento di appalti pubblici, la clausola del disciplinare che prescrive, a pena di esclusione, che tanto il plico esterno che le buste interne debbano essere sigillati con ceralacca, controfirmati e timbrati su tutti i lembi di chiusura, compresi quelli predisposti già chiusi dal fabbricante, va interpretata nel senso che le irregolarità considerate possono determinare l’esclusione solo qualora le modalità di chiusura adoperate dal concorrente siano concretamente idonee a rendere possibile la manomissione del contenuto, sicché essa è nulla e va comunque disapplicata nella parte in cui sancisce l’esclusione per la mancanza di controfirma in presenza della regolare sigillatura del plico, con l’ulteriore conseguenza che la qualificazione legislativa del vizio in termini di nullità esclude che la relativa domanda sia subordinata all’ordinario termine di decadenza” (TAR L’Aquila, Sez. I, 05/07/2013, n. 647 – altra massima, ricavabile dalla stessa sentenza, recita: “In tema di partecipazione a gare per l’affidamento di appalti pubblici, se la sigillatura di tutti i lembi è di per sé misura idonea ad escludere anche la mera possibilità o probabilità che il contenuto della busta possa essere manomesso senza lasciare tracce, l’imposizione anche della controfirma appare misura a tal fine superflua e perciò vietata a norma dell’art. 46, comma 1-bis, d.lgs. 12.04.2006 n. 163”);
- cfr., anche, TAR Catania (Sicilia), Sez. II, 03/12/2009, n. 2023: “
Costituisce senza dubbio un aggravamento del procedimento di gara per l’affidamento di un appalto pubblico richiedere la controfirma sui lembi di chiusura della busta contenente l’istanza. Trattasi infatti di adempimento che non riveste particolare utilità nel corretto svolgimento della pubblica selezione e che dunque si pone in violazione del principio di proporzionalità e ragionevolezza nonché del divieto di inutile aggravamento del procedimento di cui all’art. 1, comma 2, l. n. 241 del 1990”.
In conformità al predetto orientamento giurisprudenziale, che privilegiando l’aspetto sostanzialistico della verifica dell’integrità dell’offerta appare, anche, maggiormente in linea con il principio della salvaguardia della più ampia partecipazione alle gare pubbliche (favor partecipationis), orientamento condiviso dal Tribunale, il ricorso va accolto, con conseguente annullamento dei provvedimenti, gravati in epigrafe sub 1) e 2); laddove, stante l’approccio ermeneutico fatto proprio dal Collegio, non è necessario scendere all’analisi della terza censura dell’atto introduttivo del giudizio, volta al rilievo dell’illegittimità della clausola del bando di gara, ove interpretata in modo difforme da quello patrocinato dalla ricorrente e condiviso dal Tribunale.

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Rinnovazione contratto, si tratta sempre di facoltà.
Anche quando una disposizione normativa o una previsione dei precedenti atti di gara consentano la proroga o la rinnovazione del contratto con il contraente originario, si tratterà sempre di una mera facoltà.

Lo hanno affermato i giudici della III Sez. del Consiglio di Stato con la sentenza 15.04.2016 n. 1532.
E inoltre, secondo un ormai consolidato orientamento dettato dalla giurisprudenza, l'adesione alle convenzioni Consip (applicandosi l'art. 15, comma 13, lettera d), del dl 95/2012, anche alle aziende sanitarie - si vedano: Cons. stato, III, n. 5022/2015 e n. 1486/2014) adempie pienamente all'obbligo nazionale e comunitario di individuare il migliore contraente tramite procedure di evidenza pubblica (si vedano: Cons. stato, III, n. 4081/2014; V, n. 2194/2015).
Pertanto, conseguenza di ciò sarà che, se l'Amministrazione pubblica ritiene non conveniente rinegoziare la prosecuzione del rapporto oltre la scadenza, ben potrà procedere ad espletare una procedura di evidenza pubblica per la scelta del nuovo contraente. I giudici del Consiglio di stato hanno, altresì, evidenziato come la violazione delle regole di correttezza, che presiedono alla formazione del contratto, andrà ad assumere rilevanza solo dopo che la fase pubblicistica abbia attribuito al ricorrente effetti concretamente vantaggiosi, e solo dopo che tali effetti siano venuti meno nonostante l'affidamento ormai conseguito dalla parte interessata (come nel caso di annullamento per illegittimità degli atti della sequenza procedimentale, ovvero di revoca della gara o dell'aggiudicazione, o di rifiuto a stipulare il contratto con l'aggiudicataria).
Alla luce di quanto affermato dalla Cassazione (cfr. Cass. civ., III, n. 7768/2007; Cass. lav., n. 11438/2004), affinché possa ritenersi integrata la responsabilità precontrattuale, è necessario che tra le parti siano in corso trattative; che le trattative siano giunte ad uno stadio idoneo a far sorgere nella parte che invoca l'altrui responsabilità il ragionevole affidamento sulla conclusione del contratto; che la controparte, cui si addebita la responsabilità, le interrompa senza un giustificato motivo; che, infine, pur nell'ordinaria diligenza della parte che invoca la responsabilità, non sussistano fatti idonei ad escludere il suo ragionevole affidamento.
In particolare, nei confronti della p.a., se non è ipotizzabile una responsabilità precontrattuale, per violazione del dovere di correttezza di cui all'art. 1337 c.c. rispetto al procedimento amministrativo strumentale alla scelta del contraente, essa è ammissibile con riguardo alla fase successiva alla scelta, in cui il recesso dalle trattative da parte della p.a. è sindacabile sotto il profilo della violazione del dovere del neminem laedere (articolo ItaliaOggi Sette del 16.05.2016).
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MASSIMA
10. Il Collegio osserva che l’art. 6 comma 2, lettera b), dell’Allegato II, del d.lgs. 115/2008, prevede univocamente una rinegoziazione del contratto di servizio energia, con modifica delle condizioni ai fini del conseguimento di una maggiore efficienza energetica, ed allungamento (in questo senso, proroga) della durata originaria.
Nella sentenza appellata, la qualificazione di detta tipologia contrattuale non costituisce, a ben vedere, una premessa che condiziona le successive statuizioni, non essendo contestato che la proroga (la novazione oggettiva) dei contratti in essere sia in linea di principio vietata dalla normativa e che la predetta disposizione costituisca una deroga al divieto, ed essendo invece controversa l’applicabilità della disposizione al contratto stipulato tra le parti nel 2003.
Tuttavia, la conclusione raggiunta dal TAR non può essere condivisa.
L’art. 6, comma 2, si inserisce in una normativa che mira alla tutela dell’ambiente ed al miglioramento dell’efficienza negli usi finali dell’energia; la sua ratio ha dunque carattere ambientale, ed è legata all’opportunità di conseguire un più rapido adeguamento dei servizi energia ai sopravvenuti parametri di efficienza energetica, senza attendere la naturale scadenza dei contratti e consentendone la rinegoziazione anticipata, incentivandola mediante l’allungamento della durata, con possibilità quindi di spalmare su un periodo più lungo i corrispettivi a fronte degli investimenti necessari per far fronte agli interventi volti al conseguimento dell’efficienza energetica.
Una simile finalità riguarda anzitutto i contratti in essere all’entrata in vigore del d.lgs. 115/2008, per i quali l’opportunità di un efficientamento è maggiore di quelli stipulati in conformità alle previsioni della normativa sopravvenuta, che presuppongono livelli di efficienza superiori.
Non sembra invece corretto collegare la possibilità di rinegoziazione e di allungamento della durata, alla rispondenza dei contenuti del contratto in essere alle previsioni minime del d.lgs. 115/2008, essendo la deroga al divieto di rinnovazione senza gara giustificabile al solo fine di conseguire migliori risultati ambientali, attraverso l’applicazione dei requisiti di cui all’Allegato II, altrimenti da rinviare alla naturale scadenza contrattuale. In questo senso, la interpretazione data dall’Azienda ed accolta dal TAR è proprio quella che esporrebbe l’art. 6, comma 2, lettera b), a più fondati dubbi di compatibilità con il diritto dell’Unione Europea.
Alla luce di tali considerazioni, pur condividendo l’assunto che l’art. 6, cit. costituisce previsione derogatoria e come tale non è suscettibile di interpretazione estensiva o analogica, gli argomenti basati sul tenore letterale delle disposizioni del d.lgs. 115/2008 (e sui quali sembra basarsi la decisione dell’AVCP invocata a sostegno della tesi contraria) non appaiono dirimenti. Infatti:
-
nessuna disposizione prevede espressamente che la possibilità di proroga debba essere prevista nel bando della procedura che ha condotto alla stipula del contratto da rinegoziare/prorogare;
-
la rispondenza alle previsioni (in termini di contenuti e requisiti prestazionali) dell’allegato II, è chiaramente riferita al contenuto del contratto una volta rinegoziato, non a quello da rinegoziare; sembra pertanto non rilevante stabilire se i contenuti del contratto esistente tra le parti fossero o no già sostanzialmente coerenti con le disposizioni sopravvenute;
-
l’art. 16, comma 4, del d.lgs. 115/2008, nel prevedere che tra i contratti che possono essere “proposti” nell’ambito della fornitura di un servizio energetico rientra il contratto di servizio energia di cui all’art. 1, comma 1, lettera p), del d.P.R. 412/1993, “rispondente” a quanto stabilito nell’allegato II, riguarda la tipologia ed i contenuti dei nuovi contratti da stipulare, e non impedisce quindi che la rinegoziazione si applichi anche ad un contratto rientrante nella tipologia secondo la normativa pregressa, in vigore al momento della stipula, e con contenuti ad essa rispondenti;
-
i requisiti previsti dall’Allegato II che il contratto servizio energia deve rispettare, riguardano logicamente i contratti futuri, e la circostanza che tra i requisiti vi sia che il contratto “faccia esplicito e vincolante riferimento al presente atto” non significa che i contratti precedenti non possano essere considerati contratti di servizio energia, ai fini della rinegoziazione, ma soltanto che dopo l’entrata in vigore del d.lgs. 115/2008 il contenuto dei contratti di servizio energia deve univocamente riferirsi alle previsioni della normativa ed in particolare dell’Allegato II, in modo da consentire la possibilità di rinegoziazione (per introdurre contenuti migliorativi) solo ai contratti che risultano stipulati in aderenza alle previsioni di legge pro-tempore vigenti (ed abbiano quindi, dal punto di vista dell’efficienza energetica, un contenuto legittimo).
11. Posto che non sussisteva un impedimento giuridico all’applicazione dell’art. 6, comma 2, lettera b), dell’Allegato II del d.lgs. 115/2008, non per questo l’Azienda era obbligata a seguire tale strada.
Infatti,
anche quando una disposizione normativa o una previsione dei precedenti atti di gara consentano la proroga o rinnovazione del contratto con il contraente originario, proprio in quanto possibilità derogatoria di un divieto generale, si tratta di mera facoltà; con la conseguenza che, se l’Amministrazione ritiene non conveniente rinegoziare la prosecuzione del rapporto oltre la scadenza, ben può procedere ad espletare una procedura di evidenza pubblica per la scelta del nuovo contraente.
E l’adesione alle convenzioni Consip (applicandosi l’art. 15, comma 13, lettera d), del d.l. 95/2012, anche alle aziende sanitarie -cfr. Cons. Stato, III, n. 5022/2015 e n. 1486/2014)- adempie pienamente all’obbligo nazionale e comunitario di individuare il migliore contraente tramite procedure di evidenza pubblica (cfr. Cons. Stato, III, n. 4081/2014; V, n. 2194/2015).
Tanto più nel caso in esame, dato che la prima proposta progettuale era stata presentata all’Azienda pochi mesi prima della scadenza decennale del contratto, e quindi l’opportunità di anticipare, mediante la rinnovazione, l’applicazione dell’Allegato II del d.lgs. 115/2008, era ormai pressoché virtuale.
12. La decisione di non rinegoziare il contratto si sottrae pertanto alle censure dedotte dall’appellante.

PUBBLICO IMPIEGO: Oltraggio a pubblico ufficiale solo se ci sono testimoni.
L’offesa al poliziotto o al vigile deve essere potenzialmente udibile da altre persone, quindi compiuta in luogo pubblico o aperto al pubblico.
Un’offesa a un vigile, un carabiniere, un poliziotto, un dipendente del Comune o qualsiasi altro pubblico ufficiale, se fatta in assenza di testimoni, e quindi “a tu per tu”, in un luogo ove non possa essere udita da altri soggetti presenti, non fa scattare il reato di oltraggio a pubblico ufficiale.
E' quanto chiarito dalla Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza 13.04.2016 n. 15440, sulla scorta dell’interpretazione della norma del codice penale modificata dal 2009.
Il codice penale –è bene ricordarlo– sanziona chiunque, in un luogo pubblico (una strada) o comunque aperto al pubblico (per esempio il parcheggio di un centro commerciale o l’ufficio del Comune), offende l’onore e il prestigio di un pubblico ufficiale.
Ma non è solo il luogo, e quindi la presenza di testimoni, a far scattare il reato. Sono necessari altri due presupposti:
• l’offesa deve essere proferita proprio mentre l’ufficiale compie un atto che gli è proprio, ossia sta svolgendo il proprio lavoro: pertanto non scatta tale reato quando, ad esempio, l’agente in borghese non sta svolgendo la propria missione o in caso di dipendente del Comune durante un giorno non lavorativo;
• l’offesa deve essere proferita proprio a causa dell’esercizio delle funzioni del pubblico ufficiale: per esempio, per via di una multa che l’automobilista ritiene ingiusta, e non perché, ad esempio, la pattuglia gli ha tagliato la strada a un incrocio.
In tutti gli altri casi in cui non ricorrono tali elementi, non si potrà più punire la condotta come oltraggio al pubblico ufficiale, e quindi penalmente, ma tutt’al più andranno verificati i presupposti dell’illecito di ingiuria, illecito che –come noto– è stato ormai depenalizzato e costituisce solo un motivo di risarcimento del danno a seguito di causa civile (il giudice però potrà applicare, a termine del giudizio, anche una multa da pagare allo Stato).
I testimoni
La presenza di persone che, seppur presenti nelle adiacenze, possano aver sentito l’offesa è condizione essenziale perché si possa essere puniti per il reato di oltraggio a pubblico ufficiale. Secondo la Cassazione, è sufficiente che le espressioni offensive rivolte al pubblico ufficiale “possano essere udite dai presenti” perché scatti il penale. Infatti, il bene giuridico fondamentale tutelato dal codice penale è il buon andamento della pubblica amministrazione, per cui “già questa potenzialità costituisce un aggravio psicologico che può compromettere la sua prestazione, disturbandolo –mentre compie un atto del suo ufficio– perché gli fa avvertire condizioni avverse, per lui e per la pubblica amministrazione della quale fa parte, e ulteriori rispetto a quelle ordinarie”.
Non è necessario che i testimoni sentano effettivamente le parole oltraggiose, bastando che abbiano la possibilità di udirle o, comunque, di rendersi conto del comportamento oltraggioso, in quanto la presenza di testimoni è condizione atta a rendere più impegnativa la prestazione del pubblico ufficiale (commento tratto da www.laleggepertutti.it).
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MASSIMA
4. Relativamente al quarto motivo di ricorso, concernente la contestualità delle espressioni ingiuriose usate dall'imputato e il compimento di atto di ufficio da parte della persona offesa, deve registrarsi che nella ricostruzione degli eventi effettuata dalla sentenza impugnata, le condotte di Sa. maturarono dopo che l'assistente Ga. si fu qualificato come appartenente alla Guardia di Finanza e dopo che, in questa veste, si accinse a identificarlo. Lo mostra lo stesso brano di querela riportato dal ricorrente a supporto della sua ricostruzione, dove si legge "prontamente mi identificavo come finanziere e mostravo il mio distintivo, lo straniero non desisteva...".
5. La Corte ha plausibilmente desunto la presenza di più persone dal riferimento (nella querela) agli avventori (più d'uno, quindi almeno due) "che stavano seduti sugli sgabelli", né può trascurarsi che nel locale, all'esterno del quale si consumò l'episodio, stava il gestore ancora attento allo sviluppo degli eventi dopo che, poco prima, contro lui l'imputato aveva inveito. La contiguità spaziale dei presenti rende ragionevole presumere che i presenti abbiano effettivamente udito le frasi pronunciate dall'imputato.
Vale, comunque, osservare quanto segue. La sentenza n. 341 del 1994 della Corte costituzionale (richiamando le precedenti sentenze nn. 109 del 1968, 165 del 1972, 51 del 1980 e le ordinanze nn. 323 del 1988 e 127 del 1989) ha precisato che "
la plurioffensività del reato di oltraggio rende certamente ragionevole un trattamento sanzionatorio più grave di quello riservato all'ingiuria, in relazione alla protezione di un interesse che supera quello della persona fisica e investe il prestigio e quindi il buon andamento della pubblica amministrazione".
Se il bene giuridico fondamentale tutelato dall'art. 341-bis cod. pen. è il buon andamento della pubblica amministrazione, allora è sufficiente a integrare il reato la semplice possibilità che le espressioni lesive possano essere udite dai presenti, perché già potenzialità può compromettere la prestazione del pubblico ufficiale, disturbato -mentre compie un atto del suo ufficio- dall'avvertire condizioni potenzialmente lesive per lui e per la pubblica amministrazione della quale fa parte.
In quest'ottica,
la giurisprudenza formatasi sul punto -relativamente a quella che allora era una circostanza aggravante e ora è elemento costitutivo del reato- e secondo la quale non è necessario che gli astanti sentano effettivamente le parole oltraggiose, bastando che abbiano la possibilità di udirle (Sez. 6, n. 15559 del 07/07/1989, Rv. 182513) o, comunque, di rendersi conto del comportamento oltraggioso (Sez. 6, n. 1223 del 19/11/1980, dep. 1981, Rv. 147653)- può recepirsi nella considerazione che la presenza di astanti è condizione atta a rendere più impegnativa la prestazione del pubblico ufficiale.
Su queste basi può esplicitarsi il seguente principio di diritto:
poiché il bene giuridico fondamentale tutelato dall'art. 341-bis cod. pen. è il buon andamento della pubblica amministrazione, allora è sufficiente che le espressioni offensive rivolte al pubblico ufficiale possano essere udite dai presenti, perché già questa potenzialità costituisce un aggravio psicologico che può compromettere la sua prestazione, disturbandolo -mentre compie un atto del suo ufficio- perché gli fa avvertire condizioni avverse, per lui e per la pubblica amministrazione della quale fa parte, e ulteriori rispetto a quelle ordinarie.
6. Anche il sesto motivo di ricorso è manifestamente infondato. L'assunto che esclude l'oltraggio sul presupposto che le espressioni offensive sarebbero state rivolte a Ga. non in quanto pubblico ufficiale ma in quanto persona, non contenendo riferimenti alla sua qualifica, poggia su una artificiosa distinzione concettuale e trascura che le espressioni aggressive conseguirono all'intervento del finanziere nella sua veste di pubblico ufficiale già palesata all'imputato.
7.
La valutazione di una minaccia come "grave" ex art. 612, comma 2, cod. pen. è apprezzamento di fatto non censurabile nel giudizio di legittimità, se congruamente motivata in relazione alla entità del turbamento psichico che l'atto intimidatorio può determinare sul soggetto passivo (Cass. pen. Sez. 2, n. 277 del 21/02/1966, Rv. 101788).
A tal fine,
non è necessario che la minaccia di morte sia circostanziata perché rilevano l'insieme delle condizioni concrete nelle quali è espressa, particolarmente quelle dell'autore del delitto e della persona offesa (Sez. 6, n. 35593 del 16/06/2015, Rv. 26434; Sez. 1, n. 9314 del 05/04/1990, Rv. 184724; Sez. 5, n. 43380 del 26/09/2008, Rv. 242188).
Nella fattispecie, la Corte ha congruamente osservato (pag. 7-8) che la minaccia di morte per Ga. e i suoi familiari, proveniva da soggetto che aveva reiterato i suoi comportamenti aggressivi nonostante l'intervento del pubblico ufficiale e che potenziò la sua minaccia evidenziando che l'entità della pena che poteva derivargliene non lo dissuadeva.
L'apprezzamento della gravità della minaccia non necessariamente deve collegarsi allo specifico evento prefigurato (nella fattispecie la morte) ma è sufficiente che allarmi il soggetto passivo anche in vista di danni minori eppure gravi. E' palese, inoltre, che il fatto che il oggetto passivo sia in qualche misura esposto per la sua professione a condotte minatorie non lo rende impermeabile agli effetti psicologici delle stesse.

ATTI AMMINISTRATIVI - TRIBUTINiente compensazione per giusti motivi.
In caso di soccombenza di una delle parti, è illegittima la compensazione delle spese di giudizio «per giusti motivi»: le spese, infatti, possono essere compensate dal giudice per «gravi ed eccezionali ragioni», che devono trovare puntuale riferimento in specifiche circostanze o aspetti della controversia decisa e, in ogni caso, devono essere indicate specificamente e non con un generico richiamo.

È quanto ribadisce la Corte di Cassazione, Sez. VI civile, nell'ordinanza 13.04.2016 n. 7345.
Il giudizio di legittimità prendeva le mosse dal ricorso proposto da un notaio che impugnava una sentenza della Ctr del Lazio per la parte della decisione relativa alle spese. Nonostante, infatti, il notaio fosse risultato completamente vittorioso nel giudizio instaurato contro un avviso di liquidazione (vicenda in cui veniva coinvolto come responsabile in solido), il giudice regionale capitolino aveva disposto la compensazione integrale delle spese di giudizio, appoggiando la statuizione sulla frase “per giusti motivi”.
Questo, secondo il contribuente, non era conforme ai dettami dell'articolo 92 del cpc («se vi è soccombenza reciproca o concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti»), norma applicabile al processo tributario e a quello specifico giudizio (instaurato dopo il 04.07.2009). Gli ermellini hanno accolto il ricorso e cassato la sentenza, rinviando ad altra sezione della Ctr del Lazio, chiamata a disporre anche per quanto concerne la liquidazione delle spese del grado di giudizio in Cassazione.
La compensazione delle spese era una possibilità pur prevista dall'allora vigente panorama normativo (art. 92 cpc, richiamato espressamente dall'articolo 15 del dlgs 546/1992); tuttavia, è necessario che il giudice che opti per tale scelta, in presenza di soccombenza di una delle parti, dedichi un congruo spazio alla motivazione specifica sul punto, individuando delle argomentazioni valide a sostenerla. A tal scopo, non può dirsi sufficiente una generica locuzione «per giusti motivi», che non rispetta i parametri fissati dalle norme.
Da precisare che l'attuale versione dell'art. 15 del dlgs 546/1992, comma 2, ha recepito espressamente i precetti di cui al citato art. 92 cpc, disponendo che «le spese di giudizio possono essere compensate in tutto o in parte dalla commissione tributaria soltanto in caso di soccombenza reciproca o qualora sussistano gravi ed eccezionali ragioni che devono essere espressamente motivate».
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] In tema di contenzioso tributario, secondo la testuale previsione dell'art. 15, comma primo, dlgs n. 546 del 1992, la Commissione tributaria può dichiarare compensate le spese processuali in tutto o in parte a norma dell'art. 92, comma secondo, cpc, norma quest'ultima emendata dalla legge 18.06.2009, n. 69, art. 45, comma 11, applicabile alla fattispecie per essere il giudizio di primo grado iniziato dopo il 04/07/2009 (essendo in contestazione il regime di tassazione di un mandato irrevocabile registrato dal professionista in data “18/07/2011” e l'impugnazione del successivo avviso di liquidazione).
Detta norma, com'è noto, prevede che, “se vi è soccombenza reciproca o concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le stese tra le parti".
Sul punto si è consolidato l'orientamento (Cass. 20.04.2012, n. 6279) per il quale le “gravi ed eccezionali ragioni”, da indicarsi esplicitamente nella motivazione e in presenza delle quali -o, in alternativa alle quali, della soccombenza reciproca- il giudice può compensare, in tutto o in parte, le spese del giudizio, devono trovare puntuale riferimento in specifiche circostanze o aspetti della controversia decisa (Cass., ord. 15.12.2011, n. 26987) e comunque devono essere appunto indicate specificamente (Cass., ord. 13.07.2011, n. 15413; Cass. 20.10.2010, n. 21521).
Al riguardo, le Sezioni Unite di questa Corte hanno avuto modo di precisare che “l'art. 92 cp, comma 2, nella parte in cui permette la compensazione delle spese di lite allorché concorrano “gravi ed eccezionali ragioni”, costituisce una norma elastica, quale clausola generale che il legislatore ha previsto per adeguarla ad un dato contesto storico-sociale o a speciali situazioni, non esattamente ed efficacemente determinabili a priori, ma da specificare in via interpretativa da parte del giudice del merito, con un giudizio censurabile in sede di legittimità, in quanto fondato su norme giuridiche” (Gas s. Sez. un., n. 2572/2012).
Erroneamente, pertanto, la Ctr ha disposto la compensazione integrale delle spese di lite “per giusti motivi”, in violazione della normativa vigente ratione temporis, 3. Per tutto quanto sopra esposto, in accoglimento del primo motivo del ricorso, assorbito il secondo, va cassata la sentenza impugnata, con rinvio alla Ctr del Lazio, in diversa composizione. Il giudice del rinvio provvederà anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.
PQM
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata con rinvio, anche in ordine alla liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità, alla Commissione tributaria regionale del Lazio in diversa composizione. [omissis] (articolo ItaliaOggi Sette del 16.05.2016).

ENTI LOCALII tagli di bilancio non cancellano l’equa riparazione. Consiglio di Stato. Dopo la legge di Stabilità.
Il richiamo ai tagli di spesa e ai limiti al bilancio non può far sì che la pubblica amministrazione si sottragga all’obbligo dell’equa riparazione dei danni per l’irragionevole durata di un processo. Ciò vale anche dopo la razionalizzazione dei costi per i risarcimenti dettata dalla legge di Stabilità 2016.
L’ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 13.04.2016 n. 1444, accogliendo solo in parte il ricorso principale del ministero della Giustizia contro la decisione di primo grado (Tar Lazio, 14368/2015) che gli aveva ordinato di eseguire la sentenza di condanna della Corte d’appello al pagamento di un indennizzo di mille euro a un privato in base alla cosiddetta legge Pinto (legge 89/2001).
Il ministero sosteneva che il Tar non avesse verificato i presupposti delle sanzioni di mora (cosiddette “astreintes”), cioè non avesse considerato la limitatezza delle risorse disponibili e l’importo irrisorio della somma dovuta, e che, in base alla disciplina (comma 7, articolo 3), avrebbero costituito nel primo caso una «ragione ostativa» alla condanna e nel secondo l’avrebbero resa «manifestamente iniqua».
Il collegio ha ricordato che sulla questione l’adunanza plenaria (sentenza 15/2014) esige di tener conto anche delle «peculiari condizioni del debitore pubblico, al pari dell’esigenza di evitare locupletazioni eccessive o sanzioni troppo afflittive...», ma che in questo caso non può accogliere del tutto le contestazioni del ministero poiché «una generica allegazione delle ben note ristrettezze finanziarie e limitazioni di bilancio» non può «giustificare una totale esenzione dell’amministrazione inadempiente dalle penalità di mora».
Tali appelli, come precisato nella sentenza, non sono ammissibili nemmeno dopo la riforma della legge Pinto introdotta dalla legge di stabilità 2016 (comma 777, legge 208/2015). Alla norma invocata (comma 7, articolo 3) che riconosce «l’erogazione degli indennizzi agli aventi diritto (...)nei limiti delle risorse disponibili», il legislatore ha infatti aggiunto «nel relativo capitolo, fatto salvo il ricorso al conto sospeso».
«È evidente che, a seguito di tale innovazione normativa, scema di molto, se addirittura non viene del tutto meno, l’effetto impeditivo al pagamento dell’equa riparazione derivante dalla momentanea incapienza del relativo capitolo di bilancio».
In questo caso, però, Palazzo Spada ha ritenuto «eccessivo e non conforme a equità» il parametro scelto dal Tar per la penalità di mora (interesse semplice al tasso dei rifinanziamenti Bce) e l’ha sostituito con quello d’interesse legale previsto dal Codice del processo amministrativo (lettera e, comma 4, articolo 114, Dlgs 104/2010) come ora indicato dopo le modifiche fissate dalla stessa legge di Stabilità (comma 781)
(articolo Il Sole 24 Ore del 05.05.2016).

LAVORI PUBBLICIAppalti, ritardi non sempre con danni. Non è rilevante che il contratto stabilisca alcune opere preliminari.
Corte d’appello di Napoli. Il riconoscimento se l’appaltatore esercita il recesso per consegna fuori tempo dell’area
No al risarcimento del danno causato dalla ritardata consegna dell’area in cui si devono effettuare lavori pubblici, se l’appaltatore non ha esercitato il diritto di recesso dal contratto. È la regola stabilita dall’articolo 10 del Dpr 1063/1962 (oggi articolo 153 del Dpr 207/2010), che si applica anche quando l’appaltatore deve effettuare attività che precedono la consegna del cantiere di lavoro.
Ed è la conclusione a cui è giunta la Corte d’appello di Napoli (presidente Giordano, relatore Cataldi) con la sentenza 13.04.2016.
La controversia è stata promossa da una Srl che si era aggiudicata un appalto di opere pubbliche. In primo grado, la società aveva chiesto il pagamento di 175mila euro come risarcimento dei danni dovuti a maggiori oneri per la ritardata consegna del cantiere. L’ente locale appaltante aveva chiesto il rigetto della domanda, sostenendo che la Srl non aveva esercitato la facoltà di recesso dal contratto e dunque non poteva vantare alcun diritto.
Il Tribunale aveva respinto la richiesta. Il giudice di primo grado osservava che, se l’amministrazione appaltante non consegna i lavori nel termine di legge, l’appaltatore ha diritto di recedere dal contratto in base all’articolo 10 del Dpr 1063/1962. Solo se esercita questa facoltà può chiedere il risarcimento dei danni; se, invece, non dichiara di recedere, ciò significa -affermava il Tribunale- che ha ritenuto ancora eseguibile il contratto senza ulteriori oneri per l’amministrazione.
La società appaltatrice ha presentato appello sostenendo che l’articolo 10 disciplina solo le ipotesi in cui il vincolo giuridico nasce al momento della consegna dei lavori. Nel caso in esame, invece, prima della consegna del cantiere la srl aveva effettuato attività preparatorie. Di conseguenza, la consegna costituiva solo l’osservanza di un obbligo in corso d’opera, successivo all’esecuzione già avviata.
Nel respingere l’impugnazione, la Corte afferma che non è possibile distinguere a seconda che il contratto preveda o meno l’onere dell’appaltatore di eseguire opere anteriormente alla messa a disposizione del cantiere. I giudici napoletani ricordano quindi che, con la sentenza 3801/1992, la Cassazione aveva escluso che la disciplina contenuta nell’articolo 10 del Dpr 1063 sia applicabile quando l’appaltatore deve svolgere attività prima della consegna dei lavori. Per il giudice di legittimità, infatti, tale consegna non costituisce «un mero atto di cooperazione del committente», ma rappresenta piuttosto «un preciso adempimento da attuare nel corso dell’esecuzione» del contratto.
Tuttavia, secondo la Corte campana questa conclusione non è convincente. Innanzitutto, perché l’articolo 10 non lascia spazio a interpretazioni che consentano di effettuare «differenziazioni in ragione delle specificità dei singoli casi». E poi perché la norma dispone che, dopo il recesso, l’appaltatore ha diritto al rimborso non solo delle spese contrattuali (previste dall’articolo 9 dello stesso Dpr 1063), ma anche delle «altre spese da lui effettivamente sostenute».
Dunque, l’articolo 10 considera pure il caso di un recesso avvenuto, «in mancanza di formale consegna, allorché l’appaltatore abbia dovuto sostenere alcune spese finalizzate alla realizzazione dell’opera». Come quelle affrontate dalla Srl per il monitoraggio di qualità e quantità di fibre disperse in aria o depositate negli ambienti in cui si dovevano avviare gli interventi.
Così la Corte conferma la sentenza impugnata e condanna la Srl al pagamento delle spese del grado, che liquida in 10mila euro
(articolo Il Sole 24 Ore del 05.05.2016).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAIl condominio stoppa la Scia. No all'ok al locale hot travestito da circolo culturale. I casi in cui i rapporti di vicinato arrivano davanti al Tar a causa di atti del comune.
Il Tar riporta la pace in condominio. Le liti fra vicini finiscono davanti al giudice amministrativo, invece che ordinario, quando un provvedimento del comune può mettere fine ai litigi nello stabile. Ma può anche darsi che a far scoppiare la guerra sia stato proprio un atto dell'ente, per esempio la Scia troppo frettolosa che dà l'ok a operare nel palazzo a un inquilino davvero scomodo: il night a luci rosse travestito da circolo culturale.
Ecco allora che il condominio fa annullare la verifica di inizio attività del locale perché il sopralluogo dell'amministrazione è stato insufficiente.

È quanto emerge dalla sentenza 12.04.2016 n. 4333, pubblicata della Sez. II-ter del TAR Lazio-Roma.
Interessi delicati. Al piano terra del fabbricato si è installato un vero e proprio sexy night club, con tanto di lap dance. Ma il condominio impugna la Scia di trasferimento del presunto circolo, che nella sede precedente era qualificato anche formalmente come locale pubblico. I residenti sospettano che il tesseramento all'ingresso sia solo un espediente per bypassare il regolamento condominiale e il suo divieto di affittare locali nel palazzo a chi fa spettacoli.
Eppure dopo le verifiche del comune le attività svolte nei locali sono state dichiarate compatibili con la natura di associazione culturale. Il ricorso del condominio è accolto perché l'amministrazione deve accertare se al piano più basso dell'edificio si tengono davvero show senza autorizzazioni e licenze di polizia.
Controlli a sorpresa. Decisive le prove portate dal condominio: è massiccia la campagna pubblicitaria dell'associazione che promuove i numeri di strip tease anche su internet. Sussiste dunque l'offerta al pubblico di un genere di intrattenimento riconducibile alla nozione di pubblico spettacolo, con l'inevitabile corollario di un rumoroso pubblico sgradito ai residenti.
Il comune non riesce a smentire l'attendibilità delle indicazioni provenienti dalla controparte. E invia anche controlli a sorpresa: gli interessi in gioco sono molto delicati per la natura dell'attività che si tiene nei locali e l'intervento dell'amministrazione risulta doveroso perché si tratta di questioni che investono la pubblica sicurezza. All'ente locale non resta che pagare le spese di lite.
Sfera giuridica. Passiamo a un altro vicino sgradito: l'autolavaggio. Fra spazzoloni e lance a spruzzo i residenti non ce la fanno più. Chi vive o lavora in zona ha diritto di verificare se l'impianto è autorizzato a svolgere attività tanto rumorose. E il comune deve mettere a disposizione dei confinanti il titolo in base al quale opera l'impresa che disturba il riposo e le occupazioni: non risulta necessaria l'intenzione di fare causa all'azienda.
È quanto emerge dalla sentenza 01.04.2015 n. 4909, pubblicata dalla Sez. II-bis del TAR Lazio-Roma.
Già in passato si è scoperto che l'autolavaggio fracassone non aveva diritto a utilizzare l'aspirapolvere. Ora i confinanti vogliono sapere se l'impianto ha ricevuto qualche altro permesso o continua a operare nell'illegalità. E non c'è bisogno di scomodare «l'informazione ambientale» di cui al decreto legislativo 195/2005: basta la legge sulla trasparenza così come modificata nel 2009. Chi abita vicino all'impianto ha un interesse qualificato ad accedere ai documenti per evitare un danno alla sua sfera giuridica.
Addio barbecue. Infine: il giudice spegne il barbecue. Stop al forno del confinante che è stato realizzato senza permesso di costruire ma solo con la Scia in sanatoria: il vicino ottiene l'annullamento del provvedimento autorizzatorio mettendo fine ai fumi molesti che invadono casa sua, specie nel weekend.
È quanto emerge dalla sentenza 24.09.2015 n. 900, pubblicata dal TAR Calabria-Reggio Calabria.
In ambito urbanistico il concetto di pertinenza del cespite risulta più restrittivo che in campo civile e non si può invocare quando manca un rapporto di stretta consequenzialità con l'immobile principale: la fornace è una costruzione autonoma che ha bisogno della concessione (articolo ItaliaOggi Sette del 09.05.2016).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAIl posto auto spetta solo se previsto nel progetto edilizio. Contenzioso. I diritti di chi acquista.
Chi compra un appartamento in condominio ha diritto all’area parcheggio solamente se questa esiste nella struttura, altrimenti gli spetta un risarcimento.
La sentenza 11.04.2016 n. 7065, Sez. II civile della Corte di Cassazione, è intervenuta sul caso di due fratelli, convenuti in giudizio da un terzo condòmino, che affermava come –in una compravendita tra gli stessi– essi avessero illegittimamente occupato tutta l’area parcheggio condominiale.
I due proprietari chiamati in giudizio si difendevano specificando come, in base alle leggi, all’acquisto di un immobile in condominio un’area andasse destinata a parcheggio esclusivo, a prescindere dalla sua preesistenza.
La Suprema Corte ha chiarito l’applicabilità al caso concreto della legge 765/1967 che all’articolo 18 afferma che «nelle nuove costruzioni e anche nelle aree di pertinenza delle costruzioni stesse, debbono essere riservati appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore a un metro quadrato per ogni 20 metri cubi di costruzione» e specifica che l’eventuale contratto di compravendita di un immobile in condominio sprovvisto dell’area parcheggio sarebbe stato affetto da nullità parziale.
La disciplina dei parcheggi condominiali prevede svariati oneri: in capo al venditore, quello di prevedere questa pertinenza nel contratto di vendita (Cassazione, sentenza 5755/2004), per il costruttore del palazzo, invece, di dotare il condominio di una serie di parcheggi di metratura sufficiente a servire tutte le abitazioni (Cassazione, sentenza 3961/2006) e –da ultimo– per la pubblica amministrazione, di effettuare un controllo sui progetti di costruzione degli stabili e verificare se essi hanno predisposto parcheggi sufficienti a servire le costruende unità immobiliari (Cassazione, sentenza 378/2010).
In conclusione, quindi, l’acquirente ha diritto a vedersi riconosciuto il diritto all’area parcheggio, a condizione però che essa esista, dato che, come specifica la Cassazione «l’effettiva esistenza di uno spazio destinato a parcheggio proporzionato alla cubatura totale dell’edificio nel provvedimento abilitativo all’edificazione è condizione per il riconoscimento giudiziale del diritto reale al suo uso da parte degli acquirenti delle singole unità immobiliari del fabbricato».
In caso, quindi, di mancanza dell’area non si potrà domandare al giudice una tutela reale, ma solo risarcitoria verso il proprio venditore, il costruttore dello stabile o –addirittura– verso la pubblica amministrazione in caso si sia resa colpevole di un mancato controllo sui progetti e abbia autorizzato la costruzione del palazzo condominiale senza le aree parcheggio previste dalla legge
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.05.2016).
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MASSIMA
10. I primi due motivi, congiuntamente esaminati per la loro connessione, si rivelano 'infondati'.
10.1. Quanto al primo rilievo dedotto, il motivo non attinge la ratio decidendi sottesa alla sentenza impugnata.
Invero, la corte d'appello salernitana, prendendo le mosse dal tenore dell'atto di compravendita intercorso tra La.Vi. ed El.Gi. (il quale prevedeva, tra l'altro, che il trasferimento avesse altresì ad oggetto, oltre all'appartamento, "ogni accessorio, accessione, dipendenza, pertinenza ... così come pervenuto alla parte venditrice"), ha dato per assodato che la quota parte dell'area destinata a parcheggio trasferita dalla Immobiliare Fi. alla El. fosse pari, a seguito dell'atto di rettifica del 22.11.1972, a mq. 21,24 (anziché a mq. 52,14, come concordato con l'atto notarile del 27.10.1972).
Tanto è vero che, con riferimento esclusiva a questa ridotta area, ha riconosciuto al La. il diritto reale d'uso sulla quota parte di dimensioni di mq. 14,58 di pertinenza dell'appartamento acquistato con l'atto pubblico del 20.12.1990 (quale porzione del più ampio box di mq. 21,24).
Da ciò consegue che non ricorrevano i presupposti affinché il La. individuasse nei contraenti del contratto di compravendita del 27.10.1972 i soggetti legittimati sul piano passivo a soddisfare la sua pretesa.
In ogni caso, il Tribunale di Salerno, per come riportato nello stesso ricorso, si era limitato ad affermare che fu proprio l'atto di rettifica del 22.11.1972 ad aver concretato un "atto contra legem", e che "la palese nullità di esso andava dedotta .... nei confronti di diversi soggetti, e comunque non solo della El.Gi.". Si trattava, pertanto, di affermazione resa "incidenter tantum" e quindi sottratta all'efficacia del giudicato, anche perché la necessità di statuire con tale efficacia sul punto avrebbe comportato l'esigenza di integrità del contraddittorio, invece esclusa dal Tribunale proprio in relazione all'oggetto della domanda proposta.
D'altro canto, ed ancora, la preventiva declaratoria di nullità dell'atto di rettifica del 22.11.1972 non è condizione indispensabile per pervenire alla conseguente invalidità della compravendita stipulata il 10.12.1990, oggetto di questa causa.
Il vincolo di destinazione impresso agli spazi per parcheggio dall'art. 41-sexies della legge 17.08.1942, n. 1150, secondo il testo introdotto dall'art. 18 della legge 06.08.1967, n. 765, norma di per sé imperativa, non può subire deroghe mediante atti privati di disposizione degli stessi spazi, le cui clausole difformi sono perciò sostituite di diritto dalla medesima norma imperativa.
Tale vincolo si traduce in una limitazione legale della proprietà, che può essere fatta valere, con l'assolutezza tipica dei diritti reali, nei confronti dei terzi che ne contestino l'esistenza e l'efficacia. Pertanto in un giudizio (qual è quello in esame), intercorrente tra l'acquirente di un immobile che si assume illegittimamente privato del diritto all'uso dell'area pertinente a parcheggio ex art. 18 della legge 06.08.1967, n. 765, ed un terzo che abbia acquistato porzione di tale area, la nullità del negozio stipulato da quest'ultimo, nella parte in cui sia stata omessa tale inderogabile destinazione, con conseguente integrazione "ope legis", non deve necessariamente correlarsi alla preventiva dichiarazione di nullità dell'atto di vendita intercorso con l'originario costruttore-venditore (argomenta da Cass. 14.11.2000, n. 14731; Cass. 25.03.2004, n. n. 5755).
10.2. Con riferimento all'asserito giudicato formatosi sulla statuizione del Tribunale in virtù della quale comunque al La. sarebbe stato trasferito il diritto di usufruire del parcheggio nell'area comune condominiale (id est, della quota condominiale dell'area di parcheggio), va ricordato che il giudicato non si estende ad ogni proposizione contenuta in una sentenza con carattere di semplice affermazione incidentale, atteso che per aversi giudicato implicito è necessario che tra la questione decisa in modo espresso e quella che si vuole tacitamente risolta sussista un rapporto di dipendenza indissolubile, e dunque che l'accertamento contenuto nella motivazione della sentenza attenga a questioni che ne costituiscono necessaria premessa ovvero presupposto logico indefettibile (Cass. 05.07.2013, n. 16824).
Nel caso di specie, anche a voler prescindere dal fatto che lo stesso Tribunale di Salerno ha espressamente (cfr. pag. 10 del ricorso) chiarito che "per inciso" formulava l'ulteriore considerazione secondo cui l'area di parcheggio, all'origine, era stata compresa tra i beni condominiali poi ceduti pro quota al La. con l'atto del 1994, è evidente che tra questa affermazione e la questione assorbente che aveva indotto il giudice di primo grado a rigettare la domanda attorea (quella per cui l'attore avrebbe dovuto semmai chiedere -nei confronti di altri soggetti- la nullità dell'atto di rettifica con il quale la sua dante causa aveva accettato la riduzione della quota ideale dell'area di parcheggio spettante ai due appartamenti da lei originariamente acquistati) non è configurabile alcun rapporto di dipendenza indissolubile.
L'affermazione del Tribunale di Salerno "sinallagma contrattuale che comunque, per inciso, non deve essere riequilibrato, in quanto l'area di parcheggio, all'origine, fu compresa tra i beni condominiali, che risultano ceduti pro quota al La." appare enunciazione puramente incidentale, ovvero considerazione priva di relazione causale col deciso, e perciò sottratta all'autorità del giudicato, la quale è circoscritta oggettivamente in conformità alla funzione della pronunzia giudiziale, diretta a dirimere la lite nei limiti delle domande proposte.
11. Il terzo ed il quarto motivo, anch'essi esaminati congiuntamente per evidenti ragioni di connessione, risultano, invece, fondati per quanto di ragione.
Quanto al primo profilo, va rilevato che la corte d'appello ha considerato che la dante causa aveva legittimamente alienato al germano l'intera area parcheggio in precedenza acquistata, e per questa ragione ha dichiarato la nullità, sia pure parziale, della compravendita intercorsa tra i due germani.
Secondo la consolidata elaborazione di questa Corte, invero,
nel fabbricato condominiale di nuova costruzione ed anche nelle relative aree di pertinenza, ove il godimento dello spazio per parcheggio -nella misura di un metro quadrato per ogni venti metri cubi di costruito, ai sensi della norma imperativa ed inderogabile di cui all'art. 41-sexies della legge n. 1150 del 1942, introdotto dall'art.18 della legge n. 765 del 1967- non sia assicurato in favore del singolo condomino, essendovi un titolo contrattuale che attribuisca ad altri la proprietà dello spazio stesso, si ha nullità di tale contratto, nella parte in cui sia omessa tale inderogabile destinazione, con integrazione "ope legis" del contratto tramite riconoscimento di un diritto reale di uso di detto spazio in favore del condomino, nella misura corrispondente ai parametri della disciplina normativa applicabile per l'epoca dell'edificazione (Cass. 24.11.2003, n. 17882; Cass. 27.12.2011, n. 28950).
Alla nullità del contratto di compravendita di unità immobiliari, nella parte in cui risulti sottratta (mediante riserva al venditore o trasferimento a terzi) la superficie destinata all'inderogabile funzione di parcheggio, consegue l'integrazione della convenzione negoziale "ope legis", con l'attribuzione, in favore dell'acquirente dell'unità immobiliare, del diritto reale d'uso di tale area, e, in favore dell'alienante, del corrispettivo ulteriore (da concordarsi tra le parti, o, in difetto, da determinarsi dal giudice), così ripristinando direttamente l'equilibrio del sinallagma contrattuale (Cass. 18.04.2000, n. 4977).
Coerentemente con tale impostazione, la corte di merito ha dichiarato la nullità parziale dell'atto del 10.12.1990 nella parte relativa al trasferimento "integrale" dell'area destinata a parcheggio all'acquirente El.Li.
D'altra parte, la ricorrente evidenzia (cfr. pagg. da 7 a 9 del ricorso) che il Ctu nominato dal Tribunale, le cui conclusioni venivano accolte nella sentenza di primo grado, avesse accertato che l'area da riservare a parcheggio proporzionata alla volumetria dei due appartamenti interno 10 e interno 11, in origine acquistati da Gi.El., doveva essere pari a mq. 34,80, mentre la zona coperta da questa ricevuta era pari soltanto a mq. 21,24, perciò mancando mq. 13,56 alla quota di legge. Lo stesso perito aveva quindi stimato in mq. 10,90 il diritto alla quota ideale dell'area di parcheggio spettante ad El.Li., traendo la conseguenza che, almeno con riferimento ai residui mq. 10,34, El.Gi. avesse sottratto l'area alla sua destinazione per quanto concerne l'altro appartamento di cui si era riservata la proprietà (e che poi ha ceduto al La.).
E' quindi incontroverso che l'area residua riconosciuta a Giuliana Elefante con l'atto di rettifica del 22.11.1972 (pari complessivamente a mq. 21,24) non garantisse a nessuno dei due appartamenti, poi da questa alienati a diversi soggetti, i parametri plano-volumetrici previsti dalla legge urbanistica. Il controricorrente ribadisce in questa sede come tale area di parcheggio, per quanto insufficiente rispetto ai criteri di legge, non fosse stata asservita in quell'atto di rettifica all'uno o all'altro degli appartamenti, e perciò ne pretende una quota.
Ora, secondo consolidata interpretazione giurisprudenziale,
la norma dettata dall'art. 41-sexies della legge n. 1150 del 1942, si limita a prescrivere, per i fabbricati di nuova costruzione, una misura proporzionale alla cubatura totale dell'edificio da destinare obbligatoriamente a parcheggi, pari ad un metro quadrato per ogni venti metri cubi di costruito, secondo i parametri applicabili per l'epoca dell'edificazione.
Per la concreta attuazione, invece, della costituzione del diritto reale di uso per parcheggio, soltanto in assenza di relativa previsione nell'atto concessorio, o nel regolamento condominiale, o negli atti di acquisto dei singoli appartamenti, è consentito chiedere al giudice tale identificazione (Cass. 11.08.1997, n. 7474).
Ai fini del rispetto del vincolo di destinazione impresso agli spazi per parcheggio dall'art. 41-sexies citato, infatti, il rapporto tra la superficie delle aree destinate a parcheggio e la volumetria del fabbricato, così come richiesto dalla legge, va effettivamente verificato a monte dalla P.A. nel rilascio della concessione edilizia (cfr. Cass. 30.07.1999, n. 6894; Cass. 14.11.2000, n. 14731; Cass. 05.05.2003, n. 6751; Cass. 13.01.2010, n. 378).
Sempre questa Corte ha affermato come gli spazi che debbono essere riservati a parcheggio ex art. 41-sexies possono essere ubicati indifferentemente nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle stesse, trattandosi di modalità entrambe idonee a soddisfare l'esigenza, costituente la "ratio" della norma, di deflazione della domanda di spazi per parcheggio nelle aree destinate alla pubblica circolazione, non essendo, peraltro, consentito al giudice di sindacare le scelte compiute in proposito dalla P.A. (Cass. 22.02.2006, n. 3961).
Ed allora, nella vicenda oggetto di questo giudizio, perché si possa correttamente affermare la nullità parziale ex art. 1418 c.c. dell'atto pubblico del 10.12.1990, come affermato dalla Corte d'Appello di Salerno, riconoscendo al La. il diritto reale d'uso sull'area di parcheggio occorre accertare l'avvenuta riserva, al momento della realizzazione dell'edificio di via ..., n. 21, di Salerno, all'interno della concessione edilizia, di una sufficiente ed individuata area da destinare a parcheggio, come richiesto dalla Legge urbanistica.
Solo, infatti, la determinazione di uno preciso spazio, interno od esterno all'edificio, idoneo ad essere utilizzato a scopo di parcheggio, e la successiva stipulazione di un atto di compravendita della singola porzione immobiliare con espressa esclusione o mancata menzione del contestuale trasferimento della proprietà o del diritto reale d'uso sulle pertinenziali porzioni del detto spazio riservato, consentono di pervenire alla dichiarazione di nullità di quell'atto.
Ove sia, diversamente, accertato che, pur previsto nella concessione edilizia, lo spazio sufficiente da adibire a parcheggio secondo le proporzioni di legge, non fosse stato affatto riservato in corso di costruzione o fosse stato impiegato, invece, per realizzarvi opere d'altra natura da destinare a diversa utilizzazione (ipotesi, cioè diversa, da quella in cui allo spazio realizzato conformemente al progetto fosse stata successivamente data una diversa destinazione in sede di vendita), non può dirsi nemmeno mai costituito il rapporto di pertinenzialità ex lege voluto dalla legge urbanistica, sicché non può ravvisarsi la nullità parziale dei contratti di vendita aventi ad oggetto quello spazio, né farsi luogo a tutela ripristinatoria per ottenere la realizzazione ex novo dello spazio da destinare a parcheggio non riservato in corso d'edificazione, ammettendosi unicamente una tutela risarcitoria.
In sostanza,
l'effettiva esistenza di uno spazio destinato a parcheggio proporzionato alla cubatura totale dell'edificio nel provvedimento abilitativo all'edificazione è condizione per il riconoscimento giudiziale del diritto reale al suo uso da parte degli acquirenti delle singole unità immobiliari del fabbricato (Cass. 18.04.2003, n. 6329; Cass. 22.02.2006, n. 3961; Cass. 07.05.2008, n. 11202; Cass. 11.02.2009, n. 3393; Cass. 05.05.2009, n. 10341; Cass. 08.08.2014, n. 17813).
Non è corretto, quindi, riconoscere un diritto reale di uso in favore del La. in una misura comunque non corrispondente ai parametri di cui all'art. 41-sexies della legge n. 1150 del 1942, in modo soltanto da condividere i disagi dell'insufficienza dell'area di parcheggio con Li.El., altro subacquirente di Gi.El., in quanto l'integrazione "ope legis" del contratto di acquisto del ricorrente non può che avvenire, sussistendone le specificate condizioni di fatto, nella proporzione aritmetica stabilita dalla citata norma imperativa ed inderogabile.
Né nella motivazione della corte d'appello risulta esplicitato se il diritto reale d'uso in favore di Lauriello Vincenzo sul sufficiente spazio destinato a parcheggio potesse trovare pieno esercizio sulle aree esterne al fabbricato comunque idonee a garantire la prescrizione normativa della legge urbanistica.
Secondo i principi generali di allocazione dell'onere istruttorio, spetta in ogni caso all'attore, il quale deduca la nullità dell'atto di acquisto da parte di terzi di un'area di parcheggio vincolata al diritto d'uso ex art. 41-sexies Legge urbanistica, di provare che il bene oggetto di tale alienazione sia compreso nell'ambito ben delimitato da tale norma (ovvero nell'apposito spazio riservato per parcheggio in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni venti metri cubi di costruzione, concretamente destinato a tal fine in sede di realizzazione del fabbricato), in quanto elemento costitutivo del suo asserito diritto (Cass. 23.01.2006, n. 1221).

ATTI AMMINISTRATIVIErrore di fatto? Subito palese. La domanda di revocazione richiede l'immediatezza. Il Consiglio di stato interviene sugli atti del giudizio. Indagini ermeneutiche al bando.
L'errore di fatto, idoneo a fondare la domanda di revocazione, deve apparire con immediatezza ed essere di semplice rilevabilità, senza necessità di argomentazioni induttive o indagini ermeneutiche.

È quanto ribadito dai giudici della V Sez. del Consiglio di Stato con la sentenza 05.04.2016 n. 1331.
Sull'errore di fatto revocatorio c'è ormai una consolidata giurisprudenza (Cons. St., sez. III, 01.10.2012, n. 5162; sez. VI, 02.02.2012, n. 587; 01.12.2010, n. 8385, nonché Cons. St., Ad. Plen., 17.05.2010, n. 2; nonché tra le più recenti sez. III, 04.08.2015, n. 3844; 27.07.2015, n. 3686; 13.05.2015, n. 2392; 23.06.2014, n. 3183; 07.04.2014, n. 1635; sez. IV, 26.08.2015, n. 3993) secondo cui tale errore si sostanzia «in una svista o in un abbaglio dei sensi» che va a provocare una percezione errata del contenuto degli atti del giudizio (ritualmente acquisiti agli atti di causa), andando a determinare un contrasto tra due diverse proiezioni dello stesso oggetto, l'una emergente dalla sentenza e l'altra risultante dagli atti e documenti di causa.
Quindi tale errore non deve assolutamente essere confuso con quello che coinvolge l'attività valutativa del giudice, costituendo il peculiare mezzo previsto dal legislatore per eliminare l'ostacolo materiale che si frappone tra la realtà del processo e la percezione che di essa ha avuto il giudicante, proprio a causa della svista o dell'abbaglio dei sensi.
In sintesi, quindi, se da un lato l'errore di fatto revocatorio è configurabile nell'attività preliminare del giudice di lettura e percezione degli atti acquisiti al processo, quanto alla loro esistenza e al significato letterale (senza coinvolgere la successiva attività d'interpretazione e di valutazione del contenuto delle domande e delle eccezioni ai fini della formazione del convincimento), esso non ricorrerà nell'ipotesi di erroneo, inesatto o incompleto apprezzamento delle risultanze processuali o di anomalia del procedimento logico di interpretazione del materiale probatorio ovvero quando la questione controversa sia stata risolta sulla base di specifici canoni ermeneutici o sulla base di un esame critico della documentazione acquisita, tutte ipotesi queste che danno luogo a un ipotetico errore di giudizio, non censurabile mediante la revocazione, anche perché il rischio in tal caso sarebbe quello di trasformare il tutto in un ulteriore grado di giudizio, non previsto però dall'ordinamento (articolo ItaliaOggi Sette del 09.05.2016).
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MASSIMA
8. Occorre premettere che, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale (del Consiglio di Stato e della Corte di Cassazione)
l'errore di fatto, idoneo a fondare la domanda di revocazione ai sensi degli artt. 106 c.p.a e 395, n. 4, c.p.c., deve essere caratterizzato:
a)
dal derivare da una pura e semplice errata o mancata percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio, la quale abbia indotto l'organo giudicante a decidere sulla base di un falso presupposto di fatto, facendo cioè ritenere un fatto documentalmente escluso ovvero inesistente un fatto documentalmente provato;
b)
dall'attenere ad un punto non controverso e sul quale la decisione non abbia espressamente motivato;
c)
dall'essere stato un elemento decisivo della decisione da revocare, necessitando perciò un rapporto di causalità tra l'erronea presupposizione e la pronuncia stessa (Cons. St., Ad. Plen., 17.05.2010, n. 2; nonché tra le più recenti sez. III, 04.08.2015, n. 3844; 27.07.2015, n. 3686; 13.05.2015, n. 2392; 23.06.2014, n. 3183; 07.04.2014, n. 1635; sez. IV, 26.08.2015, n. 3993; 11.06.2015, n. 2854; 14.05.2015, n. 2431).
L'errore deve inoltre apparire con immediatezza ed essere di semplice rilevabilità, senza necessità di argomentazioni induttive o indagini ermeneutiche (Cons. St., sez. IV, 13.12.2013, n. 6006; sez. VI, 25.05.2012, n. 2781; 05.03.2012, n. 1235).
8.1.
L'errore di fatto revocatorio si sostanzia quindi in una svista o in un abbaglio dei sensi che ha provocato l'errata percezione del contenuto degli atti del giudizio (ritualmente acquisiti agli atti di causa), determinando un contrasto tra due diverse proiezioni dello stesso oggetto, l'una emergente dalla sentenza e l'altra risultante dagli atti e documenti di causa: esso pertanto non può (e non deve) confondersi con quello che coinvolge l'attività valutativa del giudice, costituendo il peculiare mezzo previsto dal legislatore per eliminare l'ostacolo materiale che si frappone tra la realtà del processo e la percezione che di essa ha avuto il giudicante, proprio a causa della svista o dell'abbaglio dei sensi (giuris. citata, nonché Cons. St., sez. III, 01.10.2012, n. 5162; sez. VI, 02.02.2012, n. 587; 01.12.2010, n. 8385).
Pertanto,
mentre l'errore di fatto revocatorio è configurabile nell'attività preliminare del giudice di lettura e percezione degli atti acquisiti al processo, quanto alla loro esistenza ed al significato letterale (senza coinvolgere la successiva attività d'interpretazione e di valutazione del contenuto delle domande e delle eccezioni ai fini della formazione del convincimento, così che rientrano nella nozione dell'errore di fatto di cui all'art. 395, n. 4, c.p.c., i casi in cui il giudice, per svista sulla percezione delle risultanze materiali del processo, sia incorso in omissione di pronunzia o abbia esteso la decisione a domande o ad eccezioni non rinvenibili negli atti del processo, Cons. St., sez. III, 24.05.2012, n. 3053), esso non ricorre nell'ipotesi di erroneo, inesatto o incompleto apprezzamento delle risultanze processuali o di anomalia del procedimento logico di interpretazione del materiale probatorio ovvero quando la questione controversa sia stata risolta sulla base di specifici canoni ermeneutici o sulla base di un esame critico della documentazione acquisita, tutte ipotesi queste che danno luogo ad un ipotetico errore di giudizio, non censurabile mediante la revocazione (che altrimenti si trasformerebbe in un ulteriore grado di giudizio, non previsto dall'ordinamento, Cons. St., sez. III, 08.10.2012, n. 5212; sez. IV, 28.10.2013, n. 5187; sez. V, 11.06.2013, n. 3210; 18.10.2012, n. 5353; 26.03.2012, n. 1725; sez. VI, C.d.S., sez. VI, 02.02.2012, n. 587; 15.05.2012, n. 2781; 16.09.2011, n. 5162; Cass. Civ., sez. I, 23.01.2012, n. 836; sez. II, 31.03.2011, n. 7488).
8.2.
Anche l’omessa pronuncia su motivi o eccezioni è stata ritenuta denunciabile nell’ambito del vizio revocatorio di errore di fatto, ogni qualvolta essa sia dipesa dalla mancata percezione di atti e documenti di causa nei quali la domanda o l'eccezione erano state formulate (Ad. plen. 22.01.1997, n. 3; Sez. III, 24.05.2012, n. 3053; Sez. IV, 13.10.2014, n. 5043, 28.10.2013 n. 5187, 13.06.2013, n. 3287, 15.04.2013, n. 2026; sez. V, 22.01.2015, n. 264; Sez. VI, 22.09.2014, n. 4774, 20.07.2011, n. 4305), con la precisazione che l'omessa pronuncia inficiata da svista percettiva degli atti di causa non si traduce in errore revocatorio allorquando la domanda o eccezione risulti implicitamente respinta in base ad una lettura non formalistica della motivazione della decisione di cui si chiede la revoca.

EDILIZIA PRIVATA: Case mobili e titolo edilizio: nuova sentenza del Consiglio di Stato.
La precarietà dei manufatti non si può desumere dalle finalità di alloggio transitorio e temporaneo proprie delle strutture ricettive turistiche.
La stabile collocazione, ad opera del gestore, di un vero e proprio nucleo organizzato di case mobili, determina un’alterazione del territorio che non può ritenersi né precaria né transitoria, e la realizzazione di una struttura ricettiva atipica che può ritenersi assimilabile a quella di un villaggio turistico.
Nel momento in cui tali manufatti, definiti case mobili perché muniti di ruote, sono stati stabilmente infissi al suolo, all’interno dell’area del campeggio, ed hanno perso la loro mobilità, viene meno quella caratteristica di precarietà dell’opera che consente la loro collocazione in assenza di titoli edilizi all’interno di strutture ricettive turistiche.

Lo ha evidenziato il Consiglio di Stato (Sez. VI) nella sentenza 01.04.2016 n. 1291.
Palazzo Spada sottolinea che le disposizioni volte a consentire la libera collocazione all’interno delle strutture ricettive di strutture mobili (come le “case” su ruote) “è volta chiaramente a favorire l’occupazione transitoria del suolo, in particolare da parte dei turisti che utilizzano tali mezzi muovendosi da una struttura all’altra, e non anche a favorire la realizzazione, in assenza di titoli edilizi, di strutture stabili equiparabili a quelle di tipo alberghiero”.
Temporanee sono, infatti, esclusivamente le modalità di soggiorno dei soggetti ospitati nelle strutture, che nulla hanno in comune con la stabile presenza ed utilizzazione delle "case mobili".
Il Consiglio di Stato ricorda che “la possibile collocazione temporanea di roulotte o camper o altri manufatti mobili all’interno di strutture ricettive all’aperto, come i camping, è chiaramente consentita dal legislatore e non prevede il rilascio di titoli edilizi”.
Ai sensi dell’art. 3, comma 1, lettera e.5), del D.P.R. n. 380 del 6 giugno 2001, recante il T.U. delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, sono, infatti, da considerarsi nuove costruzioni, comportanti la trasformazione edilizia e urbanistica del territorio, «l'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, ad eccezione di quelli che siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee o siano ricompresi in strutture ricettive all'aperto per la sosta e il soggiorno dei turisti, previamente autorizzate sotto il profilo urbanistico, edilizio e, ove previsto, paesaggistico, in conformità alle normative regionali di settore».
IL PRONUNCIAMENTO DELLA CONSULTA. I limiti per l’applicazione di tale disposizione sono stati di recente chiariti dalla Corte Costituzionale, con la sentenza n. 171 del 02-06.07.2012. Con tale sentenza la Corte ha sancito l’illegittimità costituzionale, per la violazione della normativa statale in ordine agli interventi di nuova costruzione, del comma 1 dell’art. 25-bis della legge della Regione Lazio n. 13 del 2007, inserito dall’art. 2 della legge regionale n. 14 del 2011, secondo cui era consentita, nelle strutture ricettive all’aria aperta, previste dall’art. 23, comma 4, della detta legge regionale, l’installazione e il rimessaggio dei mezzi mobili di pernottamento, con relativi preingressi e cucinotti, «anche se collocati permanentemente».
La Corte Costituzionale ha precisato che l’art. 6 del D.P.R. n. 380 del 2001 stabilisce quali sono gli interventi eseguibili senza alcun titolo abilitativo, e tra essi non figurano le installazioni delle strutture sopra menzionate, mentre il successivo art. 10 inserisce gli interventi di nuova costruzione tra quelli di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio.
Pertanto, ha aggiunto la Corte, «l’assunto della difesa regionale –secondo cui le strutture mobili, previste dall’art. 1 della legge impugnata, non determinerebbero alcuna trasformazione irreversibile o permanente del territorio su cui insistono– si pone in palese contrasto con la normativa statale e con i principi fondamentali da essa affermati. Invero, è evidente che, se quell’assunto fosse esatto, cioè se si trattasse “di strutture caratterizzate da precarietà oggettiva, tenuto conto delle tipologie dei materiali utilizzati”, il legislatore statale non avrebbe catalogato in modo espresso tra “gli interventi di nuova costruzione” l’installazione di manufatti leggeri, tra cui le case mobili. Inoltre, quanto alla precarietà funzionale che contraddistinguerebbe i manufatti, ponendosi come nozione distinta dalla temporaneità delle funzioni cui assolvono, giacché essi sarebbero volti a garantire esigenze meramente temporanee, è sufficiente notare, da un lato, che proprio il dettato della norma censurata smentisce tale precarietà, dal momento che considera l’installazione e il rimessaggio dei mezzi mobili, “anche se collocati permanentemente”, come attività edilizia libera, e perciò non soggetta a titolo abilitativo edilizio; e, dall’altro, che proprio la mancanza del titolo edilizio e di ogni previsione di verifica o di controllo impedisce di riscontrare il presunto carattere precario e temporaneo dell’installazione».
Né secondo la Corte, è possibile giungere ad una conclusione diversa per effetto della norma di cui all’art. 6, comma 6, del T.U. sull’edilizia, che consente alle Regioni a statuto ordinario di poter estendere la disciplina sull’attività edilizia libera ad interventi edilizi ulteriori rispetto a quelli menzionati nel medesimo articolo, poiché tale disposizione si riferisce ad (altri) interventi (atipici) senza che possa essere derogata la disposizione dettata dall’art. 3 del D.P.R. n. 380 del 2001.
Nella decisione richiamata, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale anche dell’art. 2, comma 8, secondo periodo, della legge della Regione Lazio n. 14 del 2011, per aver disposto che, nelle strutture regolarmente autorizzate all’esercizio ricettivo e ricadenti nei parchi naturali successivamente istituiti, l’installazione, la rimozione e/o lo spostamento di mezzi mobili di pernottamento non costituiscono mutamenti dello stato dei luoghi e pertanto non sono soggetti al preventivo parere degli enti gestori.
Quindi, aggiunge il Consiglio di Stato, “per effetto di quanto disposto dal citato art. 3 del T.U. dell’edilizia l'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulotte, camper e, come nella specie, case mobili, può ritenersi pertanto consentita in strutture ricettive all'aperto per la sosta e il soggiorno dei turisti se sono diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee, non determinandosi una trasformazione irreversibile o permanente del territorio su cui insistono, mentre l’installazione stabile di mezzi (teoricamente) mobili di pernottamento determina una trasformazione irreversibile o permanente del territorio, con la conseguenza che per tali manufatti, equiparabili alle nuove costruzioni, necessita il permesso di costruire. Se l’area interessata è poi in zona vincolata, per tali manufatti occorre anche il nulla osta dell’amministrazione preposta alla tutela del vincolo”.
La disposizione “è chiaramente volta ad escludere la necessità di titoli edilizi per la collocazione temporanea di strutture mobili destinate ad abitazione, come le roulotte, i camper o anche le case mobili, da parte dei turisti che utilizzano tali mezzi per muoversi da una struttura all’altra e si avvalgono poi dei diversi servizi messi a loro disposizione dai gestori delle strutture ricettive
(commento tratto da www.casaeclima.com).
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MASSIMA
... per la riforma della sentenza del TAR per il Lazio, Sede di Roma, Sez. I-quater, n. 11725 del 24.11.2014, resa tra le parti, concernente la demolizione di case mobili e il ripristino dello stato dei luoghi.
...
3.- La società Ro.Ge. ha appellato l’indicata sentenza ritenendola erronea sotto diversi profili.
In particolare la società appellante ha insistito nel sostenere l’illegittimità dell’impugnata ordinanza di demolizione in quanto le case mobili oggetto del provvedimento sanzionatorio sono destinate a soddisfare, contrariamente a quanto affermato dal TAR, esigenze intrinsecamente temporanee.
Dopo aver ricordato che la normativa regionale (art. 25-bis della legge n. 13 del 2007, Organizzazione del sistema turistico laziale), che prevedeva la libera installazione delle strutture oggetto del provvedimento impugnato, è stata dichiarata incostituzionale dalla Corte Costituzionale, con sentenza n. 171 del 2012, la società appellante ha sostenuto che comunque la normativa nazionale (art. 3, comma 1, lett. e5, del T.U. dell’edilizia) include i manufatti leggeri, come le case mobili, fra quelli per i quali occorre il permesso di costruire, se utilizzati come abitazioni o come luogo di lavoro, «salvo che siano installati, con temporaneo ancoraggio al suolo, all’interno di strutture ricettive all’aperto in conformità alla normativa regionale di settore, per la sosta e il soggiorno di turisti».
L’appellante ha poi aggiunto che anche la legge regionale n. 18 del 2008 prevede che il posizionamento di mezzi mobili all’interno del camping non è soggetto a titoli abilitativi.
4.- Ciò premesso, si deve preliminarmente ricordare che
la possibile collocazione temporanea di roulotte o camper o altri manufatti mobili all’interno di strutture ricettive all’aperto, come i camping, è chiaramente consentita dal legislatore e non prevede il rilascio di titoli edilizi.
Ai sensi dell’art. 3, comma 1, lettera e.5), del D.P.R. n. 380 del 06.06.2001, recante il T.U. delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, sono, infatti, da considerarsi nuove costruzioni , comportanti la trasformazione edilizia e urbanistica del territorio, «l'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, ad eccezione di quelli che siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee o siano ricompresi in strutture ricettive all'aperto per la sosta e il soggiorno dei turisti, previamente autorizzate sotto il profilo urbanistico, edilizio e, ove previsto, paesaggistico, in conformità alle normative regionali di settore».
5.- I limiti per l’applicazione di tale disposizione sono stati di recente chiariti dalla Corte Costituzionale, con la sentenza n. 171 del 02-06.07.2012, citata dalla stessa società appellante.
Con tale sentenza la Corte ha sancito l’illegittimità costituzionale, per la violazione della normativa statale in ordine agli interventi di nuova costruzione, del comma 1 dell’art. 25-bis della legge della Regione Lazio n. 13 del 2007, inserito dall’art. 2 della legge regionale n. 14 del 2011, secondo cui era consentita, nelle strutture ricettive all’aria aperta, previste dall’art. 23, comma 4, della detta legge regionale, l’installazione e il rimessaggio dei mezzi mobili di pernottamento, con relativi preingressi e cucinotti, «anche se collocati permanentemente».
5.1.- La Corte Costituzionale ha quindi precisato che
l’art. 6 del D.P.R. n. 380 del 2001 stabilisce quali sono gli interventi eseguibili senza alcun titolo abilitativo, e tra essi non figurano le installazioni delle strutture sopra menzionate, mentre il successivo art. 10 inserisce gli interventi di nuova costruzione tra quelli di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio.
Pertanto, ha aggiunto la Corte, «l’assunto della difesa regionale –secondo cui le strutture mobili, previste dall’art. 1 della legge impugnata, non determinerebbero alcuna trasformazione irreversibile o permanente del territorio su cui insistono– si pone in palese contrasto con la normativa statale e con i principi fondamentali da essa affermati. Invero, è evidente che, se quell’assunto fosse esatto, cioè se si trattasse “di strutture caratterizzate da precarietà oggettiva, tenuto conto delle tipologie dei materiali utilizzati”, il legislatore statale non avrebbe catalogato in modo espresso tra “gli interventi di nuova costruzione” l’installazione di manufatti leggeri, tra cui le case mobili. Inoltre,
quanto alla precarietà funzionale che contraddistinguerebbe i manufatti, ponendosi come nozione distinta dalla temporaneità delle funzioni cui assolvono, giacché essi sarebbero volti a garantire esigenze meramente temporanee, è sufficiente notare, da un lato, che proprio il dettato della norma censurata smentisce tale precarietà, dal momento che considera l’installazione e il rimessaggio dei mezzi mobili, “anche se collocati permanentemente”, come attività edilizia libera, e perciò non soggetta a titolo abilitativo edilizio; e, dall’altro, che proprio la mancanza del titolo edilizio e di ogni previsione di verifica o di controllo impedisce di riscontrare il presunto carattere precario e temporaneo dell’installazione».
5.2.- Né secondo la Corte, è possibile giungere ad una conclusione diversa per effetto della norma di cui all’art. 6, comma 6, del T.U. sull’edilizia, che consente alle Regioni a statuto ordinario di poter estendere la disciplina sull’attività edilizia libera ad interventi edilizi ulteriori rispetto a quelli menzionati nel medesimo articolo, poiché tale disposizione si riferisce ad (altri) interventi (atipici) senza che possa essere derogata la disposizione dettata dall’art. 3 del D.P.R. n. 380 del 2001.
5.3.- Si deve aggiungere che la Corte, nella decisione richiamata, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale anche dell’art. 2, comma 8, secondo periodo, della legge della Regione Lazio n. 14 del 2011, per aver disposto che, nelle strutture regolarmente autorizzate all’esercizio ricettivo e ricadenti nei parchi naturali successivamente istituiti, l’installazione, la rimozione e/o lo spostamento di mezzi mobili di pernottamento non costituiscono mutamenti dello stato dei luoghi e pertanto non sono soggetti al preventivo parere degli enti gestori.
6.-
Per effetto di quanto disposto dal citato art. 3 del T.U. dell’edilizia l'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulotte, camper e, come nella specie, case mobili, può ritenersi pertanto consentita in strutture ricettive all'aperto per la sosta e il soggiorno dei turisti se sono diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee, non determinandosi una trasformazione irreversibile o permanente del territorio su cui insistono, mentre l’installazione stabile di mezzi (teoricamente) mobili di pernottamento determina una trasformazione irreversibile o permanente del territorio, con la conseguenza che per tali manufatti, equiparabili alle nuove costruzioni, necessita il permesso di costruire.
Se l’area interessata è poi in zona vincolata, per tali manufatti occorre anche il nulla osta dell’amministrazione preposta alla tutela del vincolo.

6.1.-
L’indicata disposizione è chiaramente volta ad escludere la necessità di titoli edilizi per la collocazione temporanea di strutture mobili destinate ad abitazione, come le roulotte, i camper o anche le case mobili, da parte dei turisti che utilizzano tali mezzi per muoversi da una struttura all’altra e si avvalgono poi dei diversi servizi messi a loro disposizione dai gestori delle strutture ricettive.
7.- Nella fattispecie, come risulta dalla documentazione in atti, le case mobili oggetto del provvedimento di demolizione, in gran parte poi rimosse, benché collocate all’interno di una struttura ricettiva turistica autorizzata non erano evidentemente caratterizzate da quella precarietà e temporaneità che ne poteva consentire la permanenza in assenza di titoli edilizi.
Risulta, infatti, dagli atti, che la società appellante aveva collocato stabilmente, destinandole al servizio di turisti, ben 142 case mobili (n. 70 di mt. 3 x 8, di forma rettangolare, e n. 72 di circa mq. 27, di forma ad “L”, per un totale di circa 3.624 mq.), munite di ruote, ma sollevate dal suolo, ed allacciate all’impianto idrico sanitario ed elettrico.
7.1.- In tal modo, la stabile collocazione, ad opera del gestore, di un vero e proprio nucleo organizzato di case mobili, ha determinato un’alterazione del territorio, che non può ritenersi né precaria né transitoria, e la realizzazione di una struttura ricettiva atipica che può ritenersi assimilabile a quella di un villaggio turistico.
In particolare,
nel momento in cui tali manufatti, definiti case mobili perché muniti di ruote, sono stati stabilmente infissi al suolo, all’interno dell’area del campeggio, ed hanno perso la loro mobilità (tanto che, come ha accertato il Comune, erano sollevati dal suolo), è venuta meno quella caratteristica di precarietà dell’opera che consente la loro collocazione in assenza di titoli edilizi all’interno di strutture ricettive turistiche.
Infatti, le disposizioni volte a consentire la libera collocazione all’interno delle strutture ricettive di strutture mobili (come le “case” su ruote) è volta chiaramente a favorire l’occupazione transitoria del suolo, in particolare da parte dei turisti che utilizzano tali mezzi muovendosi da una struttura all’altra, e non anche a favorire la realizzazione, in assenza di titoli edilizi, di strutture stabili equiparabili a quelle di tipo alberghiero.
7.2.- Correttamente il TAR ha, pertanto, affermato che,
per individuare la natura precaria di un'opera, si deve seguire «non il criterio strutturale, ma il criterio funzionale», per cui un'opera se è realizzata per soddisfare esigenze non temporanee non può beneficiare del regime proprio delle opere precarie.
7.3.- Anche questa Sezione ha più volte affermato che
non possono essere considerati manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee quelli destinati ad una utilizzazione perdurante nel tempo, di talché l'alterazione del territorio non può essere considerata temporanea, precaria o irrilevante (fra le più recenti: Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 4116 del 04.09.2015).
La Sezione ha anche affermato che
la “precarietà” dell'opera, che esonera dall'obbligo del possesso del permesso di costruire, postula un uso specifico e temporalmente limitato del bene e non la sua stagionalità che non esclude la destinazione del manufatto al soddisfacimento di esigenze non eccezionali e contingenti, ma permanenti nel tempo (Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 2841 del 03.06.2014).
8.-
, come pure ha giustamente osservato il TAR, la precarietà dei manufatti può desumersi dalle finalità di alloggio transitorio e temporaneo proprie delle strutture ricettive turistiche: «temporanee sono, infatti, esclusivamente le modalità di soggiorno dei soggetti ospitati nelle strutture, che nulla hanno in comune con la stabile presenza ed utilizzazione delle "case mobili" in questione».
9.- Alla luce delle esposte considerazioni, l’appello risulta infondato e deve essere pertanto respinto (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 01.04.2016 n. 1291 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

VARI: La vacanza è diritto assoluto. Il godimento delle ferie tutelabile in via aquiliana. La sentenza del tribunale di Reggio Emilia che ha riconosciuto il risarcimento.
Il diritto al godimento della vacanza non può considerarsi soltanto quale diritto di credito, nascente dal contratto di viaggio e tutelabile a livello contrattuale nei rapporti con l'organizzatore o tour operator, ma anche come diritto assoluto tutelabile in via aquiliana.

Il TRIBUNALE di Reggio Emilia - Sez. I civile, con la sentenza 30.03.2016 n. 434 (si veda ItaliaOggi del 21 aprile scorso), ha riconosciuto a un uomo coinvolto in un incidente stradale e alla moglie (non direttamente coinvolta), il risarcimento del danno non patrimoniale conseguente al mancato godimento delle ferie e delle vacanze programmate da tempo, in piena armonia con il principio di integralità del risarcimento del danno alla persona, più volte ribadito dalla Corte di cassazione.
Le sezioni unite della Suprema corte, nel procedere alla sistemazione della figura del «danno non patrimoniale» con le note sentenze di San Martino del 2008 hanno chiaramente affermato che, in tema di danno alla persona, il riconoscimento del carattere «onnicomprensivo» del risarcimento del danno non patrimoniale non può andare a scapito del principio della «integralità» del risarcimento medesimo.
Ciò impone di tenere conto dell'insieme dei pregiudizi sofferti, ivi compresi quelli esistenziali, purché sia provata nel giudizio l'autonomia e la distinzione degli stessi, dovendo il giudice, a tal fine, provvedere all'integrale riparazione secondo un criterio di personalizzazione del danno, che tenga conto, pur nell'ambito di criteri predeterminati, delle condizioni personali e soggettive del danneggiato e della gravità della lesione e, dunque, delle particolarità del caso concreto e della reale entità del danno.
Il giudice di pace di Reggio Emilia, sull'onda di letture «abolizioniste» di tutti i pregiudizi non patrimoniali diversi dal danno biologico, successive alle sopra richiamate sentenze delle ss.uu. del 2008, non aveva accolto le richieste risarcitorie dei due coniugi in ordine al danno non patrimoniale da vacanza rovinata o da ferie non godute.
Il tribunale di Reggio Emilia, in appello, ha correttamente vagliato tutti i pregiudizi non patrimoniali allegati conseguenti alle lesioni riportate dall'uomo, compresi quelli derivanti dalla lesione di un interesse costituzionalmente garantito, quale appunto il diritto alle ferie.
Le ferie, ha precisato il tribunale reggiano, rappresentano un diritto, inviolabile e irrinunciabile, costituzionalmente garantito dall'art. 36 Cost., e devono essere considerate non solo quale periodo di riposo dall'attività lavorativa, ma anche quale periodo in cui per il lavoratore è sicuramente maggiormente possibile dedicarsi agli affetti familiari.
Per questo, il tribunale ha accolto anche la domanda di risarcimento presentata dalla moglie per il danno subito a seguito della forzosa rinuncia al periodo di ferie, stabilendo che ancorché la donna non fosse stata direttamente coinvolta nel sinistro stradale, la sua posizione poteva ritenersi assimilata a quella del marito sotto il profilo del mancato godimento della vacanza programmata con la propria famiglia.
L'unica alternativa possibile per la coppia era rinunciare alle ferie, atteso che le stesse erano state organizzate con largo anticipo evidenziando, con ciò, la difficoltà di entrambi, in quanto lavoratori subordinati, di un repentino cambio di programma nell'organizzazione delle proprie ferie. Con la sentenza in commento, hanno trovato quindi tutela pregiudizi autonomi e diversi dal danno alla salute (articolo ItaliaOggi Sette del 09.05.2016).

EDILIZIA PRIVATA: Parafarmacie, insegna a bandiera.
La parafarmacia ben può installare l'insegna a bandiera all'esterno del negozio, esattamente come la farmacia, anche nel centro storico della città. Solo che la croce nel primo caso è blu e nel secondo verde.
Nessuna discriminazione è possibile nel regolamento comunale che disciplina il commercio perché anche la parafarmacia svolge un servizio di pubblica utilità vendendo le medicine disponibili senza ricetta sanitaria e dunque deve potersi segnalare agli utenti al pari di altre strutture come ospedali e ambulatori.

È quanto emerge dalla sentenza 21.03.2016 n. 520, pubblicata dalla III Sez. del TAR Toscana.
Libera concorrenza
Accolto il ricorso di un imprenditore con la croce blu. È vero: la Corte di giustizia Ue ha considerato eurocompatibile la normativa italiana che impedisce alle parafarmacie la vendita di medicinali di fascia C che implicano della prescrizione del medico ma con onere a carico dell'utente. E ciò perché potrebbe danneggiare le farmacie che non operano in provincia o in zone centrali.
Ma l'Antitrust e gli stessi giudici amministrativi hanno bocciato forme di discriminazione a danno delle parafarmacie laddove la disparità di trattamento non risulta fondata sul regime di vincoli cui sono sottoposti negozi con insegna a croce verde.
E dopo le liberalizzazioni del 2012 ogni restrizione imposta dall'amministrazione impone al giudice di controllare se il veto è adeguato allo scopo e non rischia invece di alterare il libero gioco della concorrenza e soffocare l'iniziativa economica delle imprese.
Spese di lite compensare per la novità della questione (articolo ItaliaOggi del 21.05.2016).
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MASSIMA
Il ricorso è fondato.
Occorre prendere le mosse dalla seconda censura atteso che la questione da essa posta –ossia se le parafarmacie debbano o meno incluse nel catalogo dei servizi di pubblica utilità per i quali è consentita la deroga al generale divieto di installazione di insegne a bandiera nel centro storico- potrebbe avere carattere dirimente ai fini della decisione.
Ai sensi dell’art. 8, comma 3, del regolamento comunale per la installazione delle insegne “quando le caratteristiche ambientali e l’architettura dell’immobile lo consentano potrà essere autorizzata l’installazione verticale a bandiera..di insegne con simbolo per la individuazione di ospedali di ambulatori di pronto soccorso (anche veterinario), di farmacie, di telefoni, di generi di monopolio e di parcheggio…”.
La norma, compiendo un bilanciamento di interessi, consente una (condizionata) deroga alla disciplina di protezione dei caratteri storico ambientali degli edifici inclusi nella zona A del comune di Firenze al fine di consentire l’esposizione di segnaletiche, anche a bandiera, che facilitino l’individuazione di taluni servizi ritenuti di pubblica utilità, in specie quelli correlati alla tutela della salute come gli ospedali, gli ambulatori di pronto soccorso e le farmacie.
Il catalogo non include anche gli esercizi parafarmaceutici.
Tuttavia, come osserva la ricorrente, allo stato attuale della legislazione anche i predetti esercizi erogano un servizio volto a soddisfare bisogni connessi alla salute che, per molti versi, è assimilabile a quello svolto dalle vere e proprie farmacie.
Nelle parafarmacie è, infatti, possibile reperire farmaci la cui dispensazione non necessità di ricetta medica (categoria che include oggi quasi tutti i medicinali inclusi nella fascia C del prontuario), presidi per l’automedicazione, medicinali veterinari anche sottoposti a ricetta medica ad esclusione degli stupefacenti di cui all’art. 45 del DPR 309/1990, servizi diagnostici come misurazione della pressione, esami delle urine etc.., prenotazione delle visite specialistiche presso il SSN.
Inoltre, al pari di quanto accade per le farmacie, i predetti servizi non si esauriscono in un mero scambio di natura commerciale fra venditore e cliente ma, data la loro rilevanza per la tutela del diritto alla salute, hanno un contenuto strettamente professionale, potendo essere erogati soltanto da soggetti particolarmente qualificati come i farmacisti che l’ordinamento nazionale, non a caso, considera come “persone esercenti un servizio di pubblica necessità” (art. 359 c.p.).
Occorre poi tenere in considerazione il fatto che
la vendita di prodotti medicinali e la erogazione dei connessi servizi di pubblica utilità costituiscono attività economiche di rilevanza comunitaria che godono garanzia della libertà di stabilimento prevista dagli artt. 49 e seguenti del TFUE, con la conseguenza che ogni restrizione normativa che ne ostacoli o ne scoraggi l'esercizio da parte dei cittadini dell'Unione europea deve essere debitamente giustificata (Corte Giustizia UE sez. IV, 05/12/2013, n. 159).
In recepimento dei predetti principi anche il legislatore nazionale attraverso gli artt. 1 della L. 24.03.2012 n. 27 e 34, l. 22.12.2011 n. 214 ha sancito che
le disposizioni imponenti divieti, restrizioni oneri o condizioni all'accesso e all'esercizio delle attività economiche sono da interpretarsi in senso tassativo, restrittivo e ragionevolmente proporzionato alle perseguite finalità di interesse pubblico generale, alla stregua dei principi costituzionali per i quali l'iniziativa economica privata è libera secondo condizioni di piena concorrenza e pari opportunità tra tutti i soggetti, affidando, quindi, al giudice un rigoroso controllo di proporzionalità nei confronti dei provvedimenti amministrativi e dei regolamenti che prevedano restrizioni alla libera iniziativa o che, comunque, siano suscettibili di alterare il libero gioco della concorrenza.
In applicazione delle predette disposizioni comunitarie e nazionali
deve ritenersi che anche un regolamento comunale che ponga limiti alla ordinaria facoltà dell’imprenditore che si rivolge ad un’utenza indifferenziata di segnalare alla clientela l’ubicazione dell’esercizio costituisce una potenziale restrizione della libertà economica che deve essere adeguatamente giustificata da motivi di interesse generale sulla base di un bilanciamento operato secondo i criteri di proporzionalità e non discriminazione.
Sotto quest’ultimo profilo, nel caso di specie, assume rilevanza la circostanza che in relazione ad un’ampia fascia di servizi sanitari le parafarmacie svolgono la propria attività in regime di concorrenza con le farmacie, con la conseguenza che ogni trattamento differenziato suscettibile di favorire queste ultime deve trovare adeguata giustificazione negli “obblighi di servizio pubblico” (limitazioni territoriali alla apertura delle sedi in relazione alla cd. “pianta organica”, obblighi di apertura in orari predeterminati, turni, etc.) a cui esse, a differenza delle parafarmacie, sono soggette. Obblighi che impongono, è vero, forme di compensazione ma non giustificano qualsiasi tipo di trattamento differenziato.
Così se, da un lato la Corte di giustizia UE ha considerato legittima la normativa nazionale che impedisce alle parafarmacie la vendita di medicinali di fascia C necessitanti di prescrizione medica (ma con onere a carico dell’utente), in relazione agli effetti che ciò potrebbe comportare sulla sostenibilità economica degli esercizi farmaceutici costretti ad operare in sedi economicamente poco appetibili (sentenza 159/2013 cit.), dall’altro, la giurisprudenza del g.a. e la Autorità garante per la concorrenza hanno censurato forme di discriminazione fra le due categorie di imprese che non trovavano giustificazione nel particolare regime vincolistico che connota gli esercizi farmaceutici (ad es. sono stati considerati contrari alla normativa pro concorrenziale il divieto di svolgere attività di tecnico audioprotesista nei locali adibiti a parafarmacia - TAR Umbria, sez. I, 25/07/2014, n. 421 -l’affidamento in esclusiva alle farmacie della vendita di prodotti alimentari per celiaci - Agcm, 17/01/2013, n. 1603-; l’affidamento alle sole farmacie del servizio di prenotazione delle visite specialistiche presso il SSNN - Agcm, 18/06/2014-).
Per quanto concerne la specifica questione delle insegne la giurisprudenza, restando nel solco dell’orientamento di cui sopra, ha chiarito che
l’installazione all’esterno dell’esercizio di una croce con impianto neon non costituisce affatto una prerogativa commerciale di pertinenza delle sole farmacie in quanto la legge riserva a tali esercizi soltanto il tratto connotativo del colore verde della croce (TAR, Roma, sez. II, 12/09/2012, n. 7697).
Alla luce delle suddette considerazioni
l’art. 8 del regolamento delle insegne del comune di Firenze deve considerarsi illegittimo nella parte in cui consente alle sole farmacie la facoltà di esporre insegne a bandiera con la croce conformi alle tipologie tipiche ammesse nella zona A del centro storico laddove le caratteristiche ambientali e l’architettura dell’immobile lo consentano.
Invero,
sebbene non possa essere negato che la tutela dei caratteri del centro storico costituisca un motivo imperativo di interesse generale che può comportare restrizioni alla libertà di impresa, tale esigenza, nella specie, risulta essere stata declinata in modo non conforme ai principi di non discriminazione e proporzionalità. E ciò in quanto:
1)
il simbolo della croce non si correla in modo specifico alle sole categorie di medicinali che le farmacie sono abilitate a commercializzare ma designa più comprensivamente l’offerta al pubblico di prodotti e servizi di pubblica utilità inerenti la cura della salute umana che la legge non riserva alle farmacie ma, casomai, ai farmacisti (non per nulla è proprio la croce a contraddistinguere il relativo ordine), attribuendo solo al colore verde valenza distintiva.
2) Pertanto,
nel momento in cui la p.a. assuma che l’offerta al pubblico di servizi sanitari può giustificare una deroga al divieto di installazione di insegne a bandiera nel centro storico tale deroga deve essere estesa a tutti gli esercizi che svolgano tali attività, specie se in concorrenza fra loro.
3)
L’interesse pubblico a salvaguardare (anche in modo capillare e diffuso) elementi architettonici di particolare pregio non può essere presidiato attraverso distinzioni astratte e discriminatorie fra “categorie di imprese” che offrono analoghi prodotti e servizi nel medesimo settore ma va tutelato a monte attraverso l’individuazione delle “tipologie di servizi” che per la loro utilità pubblica possono giustificare una deroga e a valle attraverso il giudizio discrezionale relativo alla compatibilità dell’insegna (della farmacia o parafarmacia poco importa) con le caratteristiche ambientali ed architettoniche, così come appunto prevede lo stesso art. 8 del censurato regolamento.

EDILIZIA PRIVATAIl garage diventa negozio? Passo carrabile revocato.
Il comune deve revocare il passo carrabile se il locale prima destinato a garage viene poi trasformato in una attività commerciale. Quindi senza alcuna necessità di transito veicolare verso l'area di stazionamento dei mezzi.

Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. I, con il parere 18.03.2016 n. 743.
Il comune di Genova ha negato la voltura di un passo carrabile richiesto per agevolare l'accesso ad un locale originariamente destinato a garage e poi trasformato in esercizio commerciale. Contro questa determinazione l'interessato ha proposto ricorso straordinario al Presidente della repubblica ma senza successo.
L'articolo 22 del codice e l'art. 46 del relativo regolamento stradale specificano che la concessione di un passo carrabile è subordinata a precise condizioni di carattere oggettivo. Ovvero alla necessità di accedere con veicoli ad un'area laterale idonea al loro stazionamento. Un negozio non può essere certamente paragonato ad un garage, prosegue il parere.
Quindi ha fatto bene il comune a revocare la licenza privata di divieto di sosta con rimozione a fronte di un cambiamento sostanziale della destinazione d'uso dei locali (articolo ItaliaOggi del 14.05.2016).
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MASSIMA
Premesso

La ricorrente, in data 19/06/2005 ha proposto ricorso straordinario per l’annullamento del provvedimento del Comune di Genova n. 1348 dell’01/03/2005, di diniego di rilascio di voltura di un passo carrabile.
L’ufficio di polizia municipale, dopo aver verificato l’effettivo utilizzo dello stesso, dichiarava l’insussistenza dei requisiti previsti dall’art. 22 del codice della strada e dall’art.46 del regolamento in quanto il locale prospiciente risultava essere un negozio con arredi e merci tale che impedivano l’ingresso veicolare.
La ricorrente ha impugnato il provvedimento con i seguenti motivi:
- violazione e falsa applicazione dell’art. 22 del codice della strada e dell’art. 46 del regolamento attuativo, eccesso di potere per difetto dei presupposti e travisamento, perché la ricorrente ha chiesto la mera voltura della precedente autorizzazione;
- violazione e falsa applicazione dei principi in materia di autotutela, perché l’ente non poteva negare il rilascio di un passo carrabile già esistente e avrebbe dovuto motivare in ordine all’interesse pubblico al suo annullamento;
- violazione e falsa applicazione dell’art. 22 del codice della strada e dell’art. 46 del regolamento del c.d.s., eccesso di potere per difetto dei presupposti e difetto di istruttoria perché non esisterebbe alcuna disposizione che vieta il rilascio dell’autorizzazione di passo carrabile per un negozio che dispone di spazio sufficiente per lo stazionamento dei veicoli.
L’Amministrazione ha sostenuto l’infondatezza delle censure e ha concluso per il rigetto del ricorso.
Considerato
Il ricorso è da respingere.
Risulta dalla documentazione in atti che il locale per il quale il Comune aveva concesso il passo carrabile è diventato un negozio ed è venuta meno la sua destinazione d’uso e quindi la presenza dei presupposti necessari alla sua autorizzazione.
Al riguardo va rilevato, come già evidenziato dalla giurisprudenza, che
la revoca della concessione di passo carrabile ha valore di atto ricognitivo dell’intervenuto mutamento sostanziale dei luoghi e di accertamento della sopravvenuta inefficacia della concessione in quanto “la concessione di passo carrabile, determinando una compressione dell’uso pubblico della sede stradale ove essa insiste, invero, è subordinata alla verifica di precise tassative condizioni di carattere oggettivo e, in particolare, della correlazione funzionale con un’area laterale idonea allo stazionamento dei veicoli, in difetto della quale il provvedimento resta privo di idonea base giustificativa, di tal che l’accertamento della sopravvenuta inefficacia dell’atto concessorio … costituisce atto dovuto e vincolato per l’amministrazione” (C.S.V 2823/2001).
Tali considerazioni sono sufficienti per respingere il ricorso.

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAL’art 21-nonies della legge n. 241 del 1990 ha codificato il risalente principio giurisprudenziale per cui un provvedimento amministrativo illegittimo può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati.
Si tratta, quindi, dell’esercizio di un potere ampiamente discrezionale, rispetto al quale l’amministrazione è tenuta a motivare sulle ragioni di interesse pubblico alla rimozione dell’atto, ciò in particolare quando sia trascorso un lungo lasso temporale dalla sua adozione, come nel caso di specie.
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Il provvedimento impugnato ha considerato quale unico presupposto la illegittimità del provvedimento annullato, senza alcuna valutazione né del tempo particolarmente lungo trascorso (quasi quindici anni dal rilascio della concessione edilizia), né dell’interesse pubblico attuale all’esercizio dell’autotutela e all’affidamento del privato, considerato anche che nel frattempo gli immobili sono stati alienati a terzi sulla base della concessione edilizia rilasciata dal Comune.
La giurisprudenza è costante nel ritenere che il provvedimento di autotutela debba essere adeguatamente motivato con riferimento alla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale all'annullamento nonché alla valutazione comparativa dell'interesse dei destinatari al mantenimento delle posizioni e dell'affidamento insorto in capo ai medesimi.
In materia edilizia, l’annullamento in autotutela di titoli edilizi illegittimamente rilasciati è considerato in maniera più rigorosa; infatti, in base ad un diffuso orientamento giurisprudenziale, l’annullamento di una concessione edilizia non necessita di una espressa e specifica motivazione sul pubblico interesse, configurandosi questo nell'interesse della collettività al rispetto della disciplina urbanistica.

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... per l'annullamento della determinazione dirigenziale di Roma Capitale n. 1465/2014 prot. 151777, avente ad oggetto il procedimento di annullamento in autotutela della concessione edilizia n. 80 del 26/01/2000;
...
1. Con il presente ricorso è stato impugnato il provvedimento dell’08.10.2014 con il quale il dirigente dell’Ufficio Permessi di Costruire del Dipartimento Programmazione ed Attuazione Urbanistica di Roma Capitale ha annullato in autotutela la concessione edilizia rilasciata il 26.01.2000 al sig. Pa.Pe. e successivamente trasferita, a seguito della permuta del terreno con edificio da costruire, alla Ga.Do. s.r.l., per la realizzazione di un fabbricato di civile abitazione composto da quattro unità immobiliari a schiera in via Gravedona, località Mazzalupetto.
Il provvedimento di autotutela è basato sulla ritenuta erroneità del calcolo della superficie fondiaria utile per definire la volumetria da realizzare, dovuta alla non conformità della rappresentazione grafica del lotto interessato, rappresentata dal progettista, alle tavole del piano particolareggiato Palmarola Selva Nera adottato il 26.04.1999 e al perimetro delle zone O riportato nella delibera di giunta regionale n. 4777 del 1983.
Ciò ha comportato, secondo la ricostruzione degli uffici comunali, un aumento della cubatura oggetto della concessione edilizia pari a complessivi metri cubi 120,20, di cui con il provvedimento di autotutela si è anche ordinata la demolizione.
Il provvedimento in questione dà atto che la comunicazione di avvio del relativo procedimento era stata inviata con nota n. 49325 del 2008; che successivamente sia il Pe. che la società costruttrice Ga.Do., avevano prodotto documentazione contestando la circostanza relativa all’erroneo calcolo della superficie fondiaria e quindi della volumetria consentita e comunque avevano proposto la cessione a Roma Capitale della sede stradale di via Gravedona e della cubatura proveniente da altro lotto del medesimo piano particolareggiato; che il responsabile del procedimento con nota del 16.05.2013 si era espresso nel senso della chiusura del procedimento con la conferma della validità della concessione edilizia n. 80 del 2000; che con nota del 23.07.014, era stata richiesta documentazione relativa alla stipula dell’atto di cessione e all’acquisizione dei diritti edificatori a cui era subordinata la conferma di validità della concessione edilizia; fa inoltre riferimento ad una nota del 31.07.2014 del Tribunale civile di Roma.
Sostanzialmente il provvedimento di autotutela è basato sulla richiesta di documentazione inviata il 23.07.2014 relativa alla acquisizione di ulteriori diritti edificatori e cessione della strada a cui non è dato riscontro e alla nota del Tribunale civile (che riguarda il giudizio civile proposto dalla attuale proprietaria di un appartamento del complesso immobiliare nei confronti del ricorrente e della società Ga.Do.).
Avverso il provvedimento di autotutela, la società Ga.Do., avente causa dell’originario titolare del titolo edilizio e costruttrice dell’immobile, ha proposto i motivi in diritto così rubricati:
1) violazione dei principi sottesi alla legge 07.08.1990, n. 241, in particolare degli artt. 2, 7 e 21-nonies, in materia di esercizio del potere amministrativo per difetto di istruttoria; eccesso di potere ed eccessiva durata del procedimento di autotutela;
2) violazione dell’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990 in materia di legittimo affidamento indotto da Roma Capitale, eccesso di potere per carenza di motivazione, difetto di istruttoria e travisamento dei fatti;
3) violazione dell’art. 38 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380; eccesso di potere per difetto di motivazione e di istruttoria.
2. Si è costituita in giudizio Roma Capitale, resistendo al ricorso.
3. Il ricorso è stato chiamato per la discussione all’udienza pubblica del giorno 11.12.2015 e quindi trattenuto in decisione.
4. Il ricorso è fondato.
L’art 21-nonies della legge n. 241 del 1990 ha codificato il risalente principio giurisprudenziale per cui un provvedimento amministrativo illegittimo può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati.
Si tratta, quindi, dell’esercizio di un potere ampiamente discrezionale, rispetto al quale l’amministrazione è tenuta a motivare sulle ragioni di interesse pubblico alla rimozione dell’atto, ciò in particolare quando sia trascorso un lungo lasso temporale dalla sua adozione, come nel caso di specie.
Il provvedimento impugnato ha considerato quale unico presupposto la illegittimità del provvedimento annullato, senza alcuna valutazione né del tempo particolarmente lungo trascorso (quasi quindici anni dal rilascio della concessione edilizia), né dell’interesse pubblico attuale all’esercizio dell’autotutela e all’affidamento del privato, considerato anche che nel frattempo gli immobili sono stati alienati a terzi sulla base della concessione edilizia rilasciata dal Comune.
La giurisprudenza è costante nel ritenere che il provvedimento di autotutela debba essere adeguatamente motivato con riferimento alla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale all'annullamento nonché alla valutazione comparativa dell'interesse dei destinatari al mantenimento delle posizioni e dell'affidamento insorto in capo ai medesimi (Consiglio di Stato n. 2468 del 2014; n. 2567 del 2012).
In materia edilizia, l’annullamento in autotutela di titoli edilizi illegittimamente rilasciati è considerato in maniera più rigorosa; infatti, in base ad un diffuso orientamento giurisprudenziale, l’annullamento di una concessione edilizia non necessita di una espressa e specifica motivazione sul pubblico interesse, configurandosi questo nell'interesse della collettività al rispetto della disciplina urbanistica (Consiglio di Stato n. 562 del 2015; n. 4982 del 2011; n. 7342 del 2010).
Nel caso di specie, peraltro, si tratta dell’annullamento in via di autotutela di una concessione edilizia rilasciata nel 2000 (sulla valutazione motivata della posizione dei soggetti destinatari del provvedimento, nel caso del lungo tempo trascorso dall’adozione delle concessioni annullate cfr. di recente Consiglio di Stato n. 5625 del 2015).
Inoltre, il procedimento di verifica della concessione edilizia è stato avviato dal Comune nel 2008 e fino al 2014 è stato portato avanti con la partecipazione delle parti private, compresi, oltre al ricorrente e alla società costruttrice, gli attuali proprietari degli immobili, per giungere ad una soluzione della questione, come risulta anche dalle riunioni tenutesi nel 2011 (cfr. verbali del 20.05.2011 e del 10.06.2011) presso gli uffici comunali.
Nello stesso provvedimento impugnato si dà espressamente atto della nota del 06.05.2013 con cui il responsabile del procedimento ha proposto la chiusura del procedimento con la conferma della validità della concessione edilizia n. 80 del 2000; e della nota del 23.07.2014, quindi di pochi mesi precedente al provvedimento impugnato, nella quale il Comune si esprime nel senso della validità della concessione edilizia n. 80, condizionandola alla cessione delle aree e alla acquisizione dei diritti edificatori. Della ricezione di tale ultima nota -a cui, secondo il Comune, non sarebbe stato dato riscontro- da parte dell’odierna ricorrente il Comune non ha dato alcuna prova agli atti del presente giudizio.
Il provvedimento di annullamento, oltre che privo di motivazione circa l’interesse pubblico ed attuale anche in relazione al tempo trascorso e all’affidamento dei privati, appare quindi anche in contrasto con i principi di correttezza e buona fede a cui deve essere improntata l’azione amministrativa, tenuto conto dei precedenti atti degli stessi uffici comunali e dell’affidamento ingenerato circa l’esito del procedimento avviato nel 2008.
La illegittimità del provvedimento di autotutela comporta la illegittimità derivata anche dell’ordine di demolizione (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 14.03.2016 n. 3177 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI FORNITUREFornitori di arredi, serve certificazione. Tar Veneto: la Uni En Iso in capo all'azienda.
La mancanza di una certificazione Uni En Iso in capo all'azienda affidataria giustifica l'annullamento di una delibera con la quale è stata assegnata una gara telematica per la fornitura di arredo scolastico e condanna la Provincia di Vicenza il risarcimento del danno a favore della ricorrente.

È questo l'esito del procedimento svoltosi avanti al TAR Veneto, Sez. I, sentenza 14.03.2016 n. 279, nella causa intentata da una società che, classificatasi seconda nella procedura d'appalto promossa dalla provincia di Vicenza, aveva contestato l'irregolarità della scelta dell'impresa vincitrice.
La vertenza era sorta a seguito della gara indetta dalla Provincia di Vicenza che aveva la necessità di rifornire gli Istituti scolastici per l'anno 2015-2016 di arredi (banchi, armadi ecc.) per un importo pari a 78.000 e dovendo rispettare gli obblighi imposti dalla spending review –non potendo quindi né procedere all'indizione di una procedura di gara «classica», né tantomeno disporre un affidamento diretto– procedeva all'acquisto tramite il c.d.. M.E.P.A. (Mercato elettronico della pubblica amministrazione) messo a disposizione da Consip.
La procedura prevedeva che la Provincia invitasse gli operatori economici che si erano preventivamente accreditati presso la piattaforma digitale Consip -e che offrivano arredi scolastici- formulando una cd. «Richiesta di Offerta» (R.d.O.) affinché detti inviassero la loro miglior proposta per gli arredi di cui necessitava.
Avendo tuttavia previsto come obbligatorio il possesso di alcune Certificazioni attestanti la conformità a norme Uni En Iso relativamente agli arredi da acquistare, si verificava che la vincitrice della gara dichiarasse, in fase di partecipazione, il possesso di dette Certificazioni, salvo poi in sede d'aggiudicazione definitiva non produrre alcuna Certificazione (in quanto, con ogni probabilità, sprovvista delle medesime).
La Provincia, tuttavia, motivando con la necessità d'approvvigionarsi entro il 5/9 u.s. (data d'inizio dell'anno scolastico), non disponeva l'annullamento dell'aggiudicazione e lo scorrimento della graduatoria, ma confermava l'affidamento già disposto alla concorrente priva delle certificazioni da prodotto obbligatorie. La seconda classificata decideva così d'impugnare tale decisione, formulando anche una richiesta di risarcimento del danno che questa avrebbe subìto non avendo conseguito l'affidamento della fornitura che del tutto illegittimamente l'amministrazione appaltante aveva invece deciso d'assegnare ad un concorrente che non rispettava le prescrizioni di gara.
Il Tar Veneto ha ritenuto fondata la domanda, condannando la Provincia di Vicenza il risarcimento del danno a favore della ricorrente. Considerato che si trattava di una fornitura da 70.000 circa, i giudici amministrativi hanno riconosciuto alla ricorrente circa 6.000 di risarcimento danno (oltre alle spese legali) (articolo ItaliaOggi Sette del 16.05.2016).
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MASSIMA
8.2. Tanto premesso, la censura sollevata con il gravame è fondata e pertanto il ricorso deve essere accolto.
8.3. Tuttavia,
considerato che il contratto di fornitura in questione ha avuto integrale esecuzione e non è quindi più materialmente possibile ammettere il subentro della parte vittoriosa, deve considerarsi non più utile alla ricorrente l’annullamento dei provvedimenti impugnati, così come il risarcimento in forma specifica del danno subito; pertanto, accertata la loro illegittimità ai sensi dell’art. 34, comma 3, c.p.a., occorre decidere la domanda di risarcimento del danno per equivalente proposta in via subordinata.
8.4. Al riguardo, si riscontra la presenza di tutti gli elementi integranti la fattispecie risarcitoria.
8.4.1. Sussiste, in primo luogo, la condotta illegittima dell’Amministrazione.
8.4.2. Sussiste altresì la lesione, non iure e contra ius, dell’interesse al bene della vita vantato dalla ricorrente: infatti, laddove l’Amministrazione avesse correttamente rilevato che la società aggiudicataria non possedeva, al momento della produzione dell’offerta, un requisito tecnico “minimo” richiesto a pena di esclusione per la partecipazione alla procedura di evidenza pubblica, l’appalto di fornitura in questione avrebbe dovuto essere affidato alla società ricorrente, seconda classificata, sulla base di un criterio di aggiudicazione vincolato (prezzo più basso).
Né sono stati allegati e/o dimostrati in giudizio, da parte della parte resistente e della controinteressata, eventuali difetti dell’offerta o dei requisiti di partecipazione della ricorrente idonei a determinarne l’esclusione.
8.4.3. Vi è, infine, un nesso eziologico tra la condotta illegittima e la lesione.
8.4.4. Quanto all’elemento soggettivo, occorre osservare che,
in materia di risarcimento da mancato affidamento di gare pubbliche di appalto, non è necessario provare la colpa dell’Amministrazione aggiudicatrice, poiché il rimedio risarcitorio risponde al principio di effettività previsto dalla normativa comunitaria e le garanzie di trasparenza e di non discriminazione operanti in materia di aggiudicazione dei pubblici appalti fanno sì che qualsiasi violazione degli obblighi di matrice comunitaria consente alla impresa pregiudicata di ottenere un risarcimento dei danni, a prescindere da un accertamento in ordine alla colpevolezza dell’ente e alla imputabilità soggettiva della lamentata violazione (così, ex multis, Cons. Stato, III, n. 1839/2015 e Cons. Stato, V, n. 6450/2014).
8.5. Occorre, pertanto, accertare e liquidare i pregiudizi subiti dalla società ricorrente.
8.6. Viene in rilievo, in primo luogo, il lucro cessante.
8.6.1. In relazione ad esso, la parte ricorrente ha chiesto una liquidazione del relativo ammontare “nella misura del 10% (o di quella maggiore o minor somma che risulterà di giustizia) applicata all’importo dell’offerta Mobilferro resa in gara” pari a € 70.900,80.
8.6.2. Al riguardo il Collegio osserva che
l’onere della prova dell’esistenza e della quantificazione del danno per la dimostrazione del “mancato utile” nella percentuale non inferiore al 10% dell’importo dell’appalto, al netto del ribasso offerto –secondo il criterio che trova il suo fondamento normativo nell’art. 345 della legge 20.03.1865, n. 2248, Allegato F, ed attualmente ribadito negli artt. 134 e 158 del codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 163/2006)–, ricade interamente sulla parte ricorrente, essendo peraltro tale onere ribadito dall’art. 124 del c.p.a. secondo il quale “il giudice ... dispone il risarcimento del danno per equivalente, subito e provato”.
8.6.3. Infatti i
n base al principio generale sancito dall’art. 2697 c.c, ai fini del risarcimento dei danni provocati da illegittimo esercizio del potere amministrativo, la ricorrente deve fornire la prova dell’esistenza del danno, non potendosi invocare il principio acquisitivo perché tale principio attiene allo svolgimento dell’istruttoria e non alla allegazione dei fatti costitutivi del proprio diritto, pur potendosi ricorrere alle presunzioni semplici ex art. 2729 c.c. per fornire la prova del danno subito e della sua entità (cfr. Cons. Stato, V, 6450/2014 cit.).
8.6.4. Su tali presupposti
la giurisprudenza prevalente ha superato l’orientamento secondo il quale il danno debba essere quantificato in maniera automatica nel 10% forfettario del prezzo a base d’asta o dell’offerta al ribasso, sostenendo che tale criterio, ancorché capace di individuare in via indicativa l’utile che l’impresa può trarre dall’esecuzione di un appalto, non può essere oggetto di applicazione automatica e indifferenziata, finendo per rivelarsi, per l’imprenditore, spesso più favorevole dell’impiego del capitale.
8.6.5.
Secondo il più recente orientamento quindi è necessario che l’impresa fornisca la prova della percentuale di utile effettivo che avrebbe conseguito in concreto se fosse risultata aggiudicataria dell’appalto, con riferimento all’offerta economica presentata al seggio di gara (cfr., fra le tante, Cons. Stato, III, n. 1839/2015 cit.), tenendo conto di tutte le voci di costo.
Deve inoltre essere detratto dall’importo dovuto a titolo risarcitorio quanto dall’impresa percepito grazie allo svolgimento di ulteriori attività lucrative, nel periodo in cui avrebbe dovuto eseguire l’appalto in contestazione, salva la prova gravante sull’impresa dell’assenza dell’aliunde perceptum vel percepiendum.
8.6.6. Nel caso in esame tale prova “negativa” non è stata fornita, mentre il criterio percentuale del 10% dell’offerta appare senz’altro idoneo a individuare in via indicativa l’utile massimo che l’impresa avrebbe potuto trarre dall’esecuzione del contratto.
8.6.7. Pertanto,
tale ultimo importo va diminuito, secondo una valutazione equitativa, di quanto la società danneggiata avrebbe potuto percepire grazie allo svolgimento di diverse attività lucrative, nel periodo in cui avrebbe dovuto eseguire l’appalto in contestazione (cfr. Cons. Stato, III, n. 1839/2015 e Cons. Stato, Sez. VI, n. 1681/2011).
8.6.8. Ciò posto, appare ragionevole, tenuto conto dell’oggetto e della natura dell’appalto, decurtare in via equitativa del 30% la somma calcolata sulla base del criterio del 10% a titolo di ristoro patrimoniale (€ 7.090,00), che risulta, quindi, essere quella di €. 4.963,00 (€ 7.090,00 - € 2.127,00)
8.6.9. È dovuto, altresì, il risarcimento del danno curriculare.
Infatti, deve ammettersi che l’impresa illegittimamente privata dell’esecuzione di un appalto possa rivendicare a titolo di lucro cessante anche la perdita della possibilità di arricchire il proprio curriculum professionale.
Tale danno non può che essere quantificato in via equitativa, nella misura che si reputa corretta di € 709,00 (rapportato all’1% dell’offerta).
9. Il danno complessivo, al cui risarcimento deve essere condannata la Provincia di Vicenza, ammonta, dunque, ad € 5.672,00 [(€4.963,00) + € 709,00].
9.1. Sulle somme corrisposte a titolo di risarcimento del danno da responsabilità extracontrattuale devono comunque riconoscersi gli interessi maturati al saggio legale vigente e la rivalutazione monetaria da computarsi alla data del verificarsi dell’illecito (giorno della stipula del contratto), in funzione compensativa in relazione alla mancata tempestiva disponibilità in capo al debitore della somma dovuta a titolo di risarcimento del danno.

EDILIZIA PRIVATANiente dehors per il bar senza sì del condominio.
Addio dehors per il bar se il titolare non ha fatto i conti con il condominio prima di rivolgersi al comune per il permesso. Stop all'autorizzazione unica concessa all'esercizio pubblico dallo sportello attività produttive dell'ente locale: la struttura a padiglione, infatti, va considerata aderente alla facciata dello stabile e dunque non può essere installata su una parete dell'edificio senza prima ottenere il nulla osta di tutti coloro che risultano proprietari del muro perimetrale.

È quanto emerge dalla
sentenza 04.03.2016 n. 379, pubblicata dalla II Sez. del TAR Toscana.
È proprio il regolamento comunale a imporre il previo nulla osta dei proprietari o dell'amministratore dell'edificio quando si verifica il «contatto-aderenza» con la superficie esterna di un fabbricato: sbaglia dunque l'amministrazione laddove interpreta le norme ritenendo necessaria l'autorizzazione preventiva solo se i tiranti della struttura a padiglione devono essere agganciati alla parete.
Al comune non resta che pagare le spese di giudizio (articolo ItaliaOggi Sette del 09.05.2016).

EDILIZIA PRIVATAL'art. 37, comma 6, del DPR 06.06.2001, n. 380, prescrive che “resta comunque salva, ove ne ricorrano i presupposti in relazione all'intervento realizzato, l'applicazione delle sanzioni di cui agli articoli 31, 33, 34, 35 e 44 e dell'accertamento di conformità di cui all'articolo 36”, e da tale norma discende che, poiché la denuncia di inizio attività è utilizzabile solo per gli interventi che siano conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente, soltanto in caso di interventi eseguiti in assenza o difformità dalla denuncia di inizio attività ma conformi alla citata disciplina urbanistica può trovare applicazione la sola sanzione pecuniaria, mentre in caso di contrasto con la disciplina urbanistica trova applicazione la sanzione della demolizione.
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... per l'annullamento del provvedimento comunale 20.07.2006 n. 16/06 di rimozione di interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire e rimessa in pristino dello stato dei luoghi, nonché di ogni altro atto presupposto o conseguente, in particolare del diniego di autorizzazione delle opere eseguite in variante di cui al permesso di costruire prot. n. 7110 notificato il 13/07/2006.
...
Ad un più approfondito esame di quello svolto nella fase cautelare, il ricorso si rivela infondato e deve essere respinto.
Nel caso all’esame con deliberazione consiliare n. 2 del 21.02.2005, è stato introdotto l’art. 4.32 delle norme tecniche di attuazione che ha disciplinato le dimensioni, l’altezza e le modalità costruttive delle strutture pompeiane, prescrivendo la necessità del mantenimento della struttura orizzontale e non inclinata delle travi superiori.
La struttura realizzata in difformità di quanto assentito non è piana ed ha altezze superiori rispetto a quelle ammesse dallo strumento urbanistico.
Pertanto anche a voler qualificare la medesima come pertinenziale, nondimeno deve trovare applicazione la sanzione della demolizione, in quanto l’art. 37, comma 6, del DPR 06.06.2001, n. 380, prescrive che “resta comunque salva, ove ne ricorrano i presupposti in relazione all'intervento realizzato, l'applicazione delle sanzioni di cui agli articoli 31, 33, 34, 35 e 44 e dell'accertamento di conformità di cui all'articolo 36”, e da tale norma discende che, poiché la denuncia di inizio attività è utilizzabile solo per gli interventi che siano conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente, soltanto in caso di interventi eseguiti in assenza o difformità dalla denuncia di inizio attività ma conformi alla citata disciplina urbanistica può trovare applicazione la sola sanzione pecuniaria, mentre in caso di contrasto con la disciplina urbanistica trova applicazione la sanzione della demolizione (ex pluribus cfr. Tar Veneto, Sez. II, 14.03.2012, n. 371).
Parimenti priva di fondamento è la censura di violazione dell’art. 10-bis della legge 07.08.1990, n. 241, di cui al secondo motivo, in quanto il diniego di sanatoria dà conto nella motivazione delle ragioni del mancato accoglimento delle osservazioni presentate, quando afferma che l’art. 22, comma 1, del DPR 06.06.2001, n. 241, contrariamente a quanto preteso dai ricorrenti, presuppone necessariamente la conformità agli strumenti urbanistici.
In definitiva il ricorso deve essere respinto (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 25.02.2016 n. 211 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - VARI: Nuova tessera senza andare in caserma.
Chi smarrisce una tessera elettorale può presentarsi per la denuncia allo sportello dei vigili e poi recarsi all'ufficio comunale per richiedere immediatamente il duplicato. Non serve passare prima dai carabinieri o dalla polizia.

Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 22.02.2016 n. 708.
In un comune della provincia di Benevento alcuni elettori hanno proposto censure al Tar evidenziando irregolarità nelle consultazioni amministrative. Il collegio ha quindi ritenuto fondata la censura di incompetenza dei vigili a ricevere le denunce di smarrimento necessarie a richiedere poi il duplicato delle tessere elettorali.
I giudici di palazzo Spada hanno però ribaltato questa interpretazione. Anche la polizia municipale ha competenza di polizia giudiziaria e di pubblica sicurezza per cui è possibile presentare direttamente una denuncia di smarrimento presso l'ufficio dei vigili.
In questo caso tutta la procedura burocratica si può gestire dunque in comune, rivolgendosi prima allo sportello della polizia locale e poi all'ufficio elettorale per richiedere il duplicato. Non serve recarsi prima a un comando di polizia o carabinieri (articolo ItaliaOggi del 12.05.2016).

EDILIZIA PRIVATA: Ascensore esterno essenziale. Via libera all'impianto che è utile a disabili e anziani. Sentenza del Tar Liguria: il condomino non riesce a far annullare il sì comunale.
«Indispensabile». L'ascensore esterno è un'infrastruttura necessaria ai residenti quando risulta impossibile realizzare l'impianto dentro l'edificio perché la tromba delle scale è troppo stretta: non serve soltanto a superare le barriere architettoniche per i diversamente abili, ma torna utile anche agli anziani che non ce la fanno più a fare le scale a piedi. È così che il condominio non riesce a bloccare il progetto che il singolo proprietario vuole realizzare sulla facciata del fabbricato: ineccepibile il permesso del Comune, che dà anche il suo assenso paesaggistico.

È quanto emerge dalla sentenza 29.01.2016 n. 97, che arriva non a caso dal TAR Liguria - Sez. I, la regione più «vecchia» d'Italia per popolazione residente.
Volume tecnico. Il via libera dell'amministrazione locale è legittimo perché l'ascensore esterno non costituisce una costruzione vera e propria: si tratta piuttosto di un volume tecnico, come gli spazi nei quali corrono le condotte idriche o termiche e tutte le opere edilizie che servono a contenere gli impianti al servizio della costruzione principale, non possono sorgere all'interno del fabbricato e risultano prive di autonomia funzionale.
Insomma: l'installazione dell'ascensore esterno deve essere autorizzata quando serve a rimuovere un grosso ostacolo alla fruizione dell'abitazione. Il condominio, dal canto suo, non riesce a dimostrare che il progetto del singolo proprietario riduca il godimento della cosa comune per tutti gli altri.
Distanza e indifferenza. Il fatto che l'ascensore esterno non sia una costruzione ha conseguenze importanti anche nei rapporti di vicinato: il condominio, infatti, ben può realizzarlo a meno di tre metri dal confine con la proprietà del vicino, ma sempre a condizione che la tromba delle scale sia troppo stretta per ospitare la cabina.
È il precedente che emerge dalla sentenza 1002/2015, pubblicata sempre dal Tar della Liguria. Il fatto che debbano essere previsti piccoli spazi per la salita e la discesa dei passeggeri non impedisce di ritenere l'impianto un mero volume tecnico. E dunque il computo delle distanze tra le proprietà non può tener conto dell'innovazione rappresentata dalla colonna dell'ascensore progettato dal condominio.
Maggioranza sufficiente. Ancora. Il comune non può pretendere il consenso di tutti i proprietari degli immobili che si affacciano sul cortile prima di autorizzare la costruzione dell'ascensore che serve al disabile.
Per il titolo edilizio che l'amministrazione locale è chiamata rilasciare al cittadino risulta sufficiente il rispetto delle maggioranze prescritte dal codice civile da parte dell'assemblea condominiale che delibera l'intervento edilizio: il permesso a costruire, infatti, viene rilasciato fatti salvi i diritti dei terzi, i quali dunque devono rivolgersi al giudice civile se si ritengono lesi.
È quanto emerge dalla sentenza 561/2016, pubblicata dal Tar Salerno.
Limite unico. Accolto il ricorso del condomino che aveva superato perfino gli ostacoli posti dalla Soprintendenza per l'impianto da realizzare in area soggetta a vincolo ambientale: troppo zelante l'ufficio tecnico dell'ente che blocca i lavori dell'ascensore necessario a una signora malata di cancro.
Affinché il via ai lavori abbia il placet dell'ente, infatti, è sufficiente che la delibera sia approvata dalla maggioranza degli intervenuti con un numero di voti che rappresenta almeno un terzo del valore dell'edificio.
L'unico limite è che l'installazione dell'impianto non deve rendere inservibile il cortile, altrimenti si configura l'innovazione vietata dall'articolo dell'articolo 1120, secondo comma, c.c. Ma si tratta di un elemento che ha rilievo soltanto sul piano civilistico.
Delibera da allegare. Ecco allora che il Comune deve invece bloccare la Scia per l'ascensore «privato» se l'amministratore-condomino non ha presentato insieme con il progetto per superare le barriere architettoniche anche la delibera dell'assemblea adottata in base all'articolo 78 del Testo unico dell'edilizia, vale a dire la disposizione che rimanda al codice civile prevedendo il quorum della maggioranza e voti pari a un terzo del valore dell'edificio.
Lo sottolinea la sentenza 442/2016, pubblicata dal Tar Lazio.
Manutenzione straordinaria. Accolto il ricorso di una dei condomini, che riesce a far bloccare i lavori. L'impianto, prefigurato dalla Scia in un edificio d'epoca nel centro storico, dovrebbe fermarsi solo ad alcuni piani dell'edificio, con ogni probabilità a servizio di un disabile, e non all'altezza dell'appartamento della ricorrente.
Sbaglia il Comune a non intervenire dopo la segnalazione dell'interessata perché la Scia è stata presentata senza titolo dall'amministratrice, che è pure proprietaria esclusiva di un'unità immobiliare e da un altro condomino. Per realizzare l'impianto serve infatti un intervento di «manutenzione straordinaria anche su strutture portanti» e prima di rivolgersi al Comune bisognava acquisire la volontà di tutto il condominio secondo la maggioranza indicata dall'articolo 1136 c.c. cui rimanda la norma contro le barriere architettoniche.
L'impianto al servizio del disabile non può fermarsi solo ad alcuni piani dell'edificio riducendo l'accessibilità agli appartamenti, come nel caso dei lavori a danno delle scale e dei ballatoi: bisogna contemperare gli interessi di tutti (articolo ItaliaOggi Sette del 16.05.2016).
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La massima
La giurisprudenza ha negato la natura di costruzione all’ascensore realizzato all’esterno di un caseggiato, in quanto l’aggiunta di tale manufatto non avrebbe potuto essere ammessa dalla conformazione della tromba delle scale o degli altri ambienti interni.
Tale orientamento è giunto all’esito di una riflessione che ha portato a delineare la nozione di volume tecnico come quell’opera edilizia priva di alcuna autonomia funzionale, anche potenziale, che viene destinata a contenere gli impianti serventi di una costruzione principale per esigenze tecnico-funzionali della costruzione medesima.
Si tratta di quegli impianti necessari per l’utilizzo dell’abitazione che tuttavia non possono essere ubicati all’interno di questa, come quelli connessi alla condotta idrica, termica o all’ascensore.
La nozione così introdotta è derivata appunto dalla consapevolezza maturata in giurisprudenza relativamente al significato della proprietà, soprattutto condominiale, in una società che è mutata anche anagraficamente, e che considera l’ascensore come un bene indispensabile non solo alla vita delle persone con problemi di deambulazione, ma anche di coloro che trovano sempre più difficoltoso salire e scendere i numerosi piani di scale che li separano dalle vie pubbliche.

ATTI AMMINISTRATIVII provvedimenti di annullamento in sede di autotutela sono misure di natura discrezionale (cfr. del resto l’art. 21-nonies della legge n. 241/1990, che ha codificato sul tema una consolidata giurisprudenza): per essi quindi, così come, più ampiamente, per la generalità degli atti di secondo grado, l’avviso di procedimento è di regola dovuto.
E’ pacifico che ai sensi dell'art 7, l. 07.08.1990, n. 241 i provvedimenti di secondo grado concretanti esercizio della c.d. autotutela decisoria, devono essere preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento, venendo ad incidere su posizioni consolidate del privato.
Il soggetto, nei cui confronti il provvedimento conclusivo del procedimento amministrativo è destinato a produrre effetti diretti, non solo deve essere destinatario della comunicazione di avvio del procedimento stesso, ma ha diritto di partecipare, in quanto l'istituto della comunicazione non è configurato quale mero strumento di instaurazione del contraddittorio, bensì quale strumento mediante il quale è garantita una fattiva collaborazione del privato, il quale deve essere messo in condizione di esporre le proprie ragioni a tutela dei propri interessi nei casi in cui l'Amministrazione imponga limitazioni ai suoi diritti; la preventiva comunicazione di avvio del procedimento costituisce infatti un principio generale dell'agere amministrativo soprattutto quando si tratta di casi di autotutela a mezzo di revoca o annullamento di precedenti provvedimenti favorevoli e alla sua osservanza l'Amministrazione è obbligata a meno che non sussistano ragioni di assoluta urgenza da esplicitare adeguatamente nella motivazione del provvedimento.
L'esercizio di poteri di autotutela costituisce sempre e comunque manifestazione di discrezionalità amministrativa, essendo rimessa all'autorità amministrativa la valutazione in ordine alla necessità di farvi luogo nell'apprezzamento bilanciato degli interessi pubblici, primari e secondari, e privati implicati nella specifica vicenda amministrativa, onde non può fondatamente sostenersi che il c.d. auto-annullamento costituisca atto "dovuto e vincolato".
Peraltro, anche con riguardo agli atti "dovuti e vincolati", sussiste l'obbligo di comunicazione di avvio del procedimento (salvo che questo consegua ad un'istanza di parte privata) secondo l'orientamento sostanzialmente univoco della giurisprudenza amministrativa, posto che la partecipazione del destinatario dell'atto (da intendere nell'accezione di soggetto sulla cui sfera giuridica ricadono gli effetti negativi del medesimo) può comunque apportare all'Amministrazione un contributo conoscitivo sui presupposti giuridico-fattuali di esercizio del potere e sulla loro rilevanza e così consentire alla medesima di adottare la determinazione finale nella pienezza e completezza del quadro di elementi giuridico-fattuali rilevanti nella fattispecie.

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Gli atti in questa sede impugnati risultano illegittimi in quanto adottati in violazione dei principi posti a garanzia della partecipazione procedimentale dei soggetti interessati alle conseguenze giuridiche dei provvedimenti adottandi e in tema di procedura di annullamento in autotutela.
Vanno in questa sede richiamati i consolidati principi in tema di partecipazione procedimentale, applicabili anche in sede di autotutela.
Secondo una pacifica regola generale i provvedimenti di annullamento in sede di autotutela sono misure di natura discrezionale (cfr. del resto l’art. 21-nonies della legge n. 241/1990, che ha codificato sul tema una consolidata giurisprudenza): per essi quindi, così come, più ampiamente, per la generalità degli atti di secondo grado, l’avviso di procedimento è di regola dovuto (cfr. Cons. Stato, Sez. V, sentenza n. 1041 del 05.03.2014, Sez. VI, 20.09.2012, n. 4997; IV, 30.12.2008, n. 6603; V, 01.07.2005, n. 3663).
E’ pacifico che ai sensi dell'art 7, l. 07.08.1990, n. 241 i provvedimenti di secondo grado concretanti esercizio della c.d. autotutela decisoria, devono essere preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento, venendo ad incidere su posizioni consolidate del privato (cfr. TAR Torino, sez. I, 30/07/2015, n. 1289).
Il soggetto, nei cui confronti il provvedimento conclusivo del procedimento amministrativo è destinato a produrre effetti diretti, non solo deve essere destinatario della comunicazione di avvio del procedimento stesso, ma ha diritto di partecipare, in quanto l'istituto della comunicazione non è configurato quale mero strumento di instaurazione del contraddittorio, bensì quale strumento mediante il quale è garantita una fattiva collaborazione del privato, il quale deve essere messo in condizione di esporre le proprie ragioni a tutela dei propri interessi nei casi in cui l'Amministrazione imponga limitazioni ai suoi diritti; la preventiva comunicazione di avvio del procedimento costituisce infatti un principio generale dell'agere amministrativo soprattutto quando si tratta di casi di autotutela a mezzo di revoca o annullamento di precedenti provvedimenti favorevoli e alla sua osservanza l'Amministrazione è obbligata a meno che non sussistano ragioni di assoluta urgenza da esplicitare adeguatamente nella motivazione del provvedimento (cfr. TAR Potenza, sez. I, 11/05/2011, n. 298).
L'esercizio di poteri di autotutela costituisce sempre e comunque manifestazione di discrezionalità amministrativa, essendo rimessa all'autorità amministrativa la valutazione in ordine alla necessità di farvi luogo nell'apprezzamento bilanciato degli interessi pubblici, primari e secondari, e privati implicati nella specifica vicenda amministrativa, onde non può fondatamente sostenersi che il c.d. auto-annullamento costituisca atto "dovuto e vincolato".
Peraltro, anche con riguardo agli atti "dovuti e vincolati", sussiste l'obbligo di comunicazione di avvio del procedimento (salvo che questo consegua ad un'istanza di parte privata) secondo l'orientamento sostanzialmente univoco della giurisprudenza amministrativa, posto che la partecipazione del destinatario dell'atto (da intendere nell'accezione di soggetto sulla cui sfera giuridica ricadono gli effetti negativi del medesimo) può comunque apportare all'Amministrazione un contributo conoscitivo sui presupposti giuridico-fattuali di esercizio del potere e sulla loro rilevanza e così consentire alla medesima di adottare la determinazione finale nella pienezza e completezza del quadro di elementi giuridico-fattuali rilevanti nella fattispecie (TAR Napoli, sez. V, 27/01/2009, n. 406) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 15.01.2016 n. 226 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANel caso di inottemperanza all’ordine di demolizione di un’opera edilizia abusiva, il provvedimento di acquisizione gratuita al patrimonio comunale della struttura discende dal fatto stesso che non vi è stata la demolizione di quanto costruito, né occorre un’ulteriore motivazione al riguardo, dal momento che le ragioni di interesse pubblico perseguite attraverso l’acquisizione non solo sono in re ipsa, ma sono proprio quelle desumibili dalla perdurante esistenza del manufatto, a seguito della mancata esecuzione dell’ordine di demolizione.
Ne consegue che il ricorso introduttivo dev’essere respinto, non riscontrandosi in capo alla P.A. alcuna discrezionalità in merito all’adozione, o meno, dei provvedimenti impugnati.

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FATTO
Il ricorrente impugna il provvedimento 29.03.2010 n. 8435, di accertamento dell’inottemperanza ad eseguire l’ordinanza di demolizione 03.03.1999 n. 24, relativa a lavori abusivi realizzati su un immobile sito in Tropea, località Croce s.n.c., nonché il successivo decreto 31.05.2010, di acquisizione al patrimonio comunale delle opere e dell’area pertinenziale.
Con successivi motivi aggiunti, la stessa parte ha impugnato l’ordinanza di demolizione 26.07.2010 n. 18163, relativo ai medesimi lavori.
Resiste l’amministrazione comunale, eccependo la tardività del gravame.
Con ordinanza 21.08.2010 n. 643, è stata respinta la domanda cautelare per carenza di fumus boni juris.
All’udienza del 13.11.2015, la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
Va preliminarmente affermata la natura di atto dovuto dei provvedimenti impugnati col ricorso introduttivo del giudizio.
Ed infatti, nel caso di inottemperanza all’ordine di demolizione di un’opera edilizia abusiva, il provvedimento di acquisizione gratuita al patrimonio comunale della struttura discende dal fatto stesso che non vi è stata la demolizione di quanto costruito, né occorre un’ulteriore motivazione al riguardo, dal momento che le ragioni di interesse pubblico perseguite attraverso l’acquisizione non solo sono in re ipsa, ma sono proprio quelle desumibili dalla perdurante esistenza del manufatto, a seguito della mancata esecuzione dell’ordine di demolizione (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 11.07.2014 n. 3565).
Ne consegue che il ricorso introduttivo dev’essere respinto, non riscontrandosi in capo alla P.A. alcuna discrezionalità in merito all’adozione, o meno, dei provvedimenti impugnati. (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 18.11.2015 n. 1726 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn tema di abusi edilizi, la sanzione pecuniaria è misura eccezionale, alternativa alla demolizione, che si applica solo ove risulti l’impossibilità del ripristino, con la precisazione che la detta impossibilità può essere rilevata d’ufficio o fatta valere dall’interessato, ma comunque in una fase successiva all’ingiunzione, a carattere diffidatorio, che precede l’ordine di demolizione, quest’ultimo da emettere sulla base di specifici accertamenti dell’ufficio tecnico comunale, chiamato ad intervenire nella fase esecutiva.
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FATTO
Il ricorrente impugna il provvedimento 29.03.2010 n. 8435, di accertamento dell’inottemperanza ad eseguire l’ordinanza di demolizione 03.03.1999 n. 24, relativa a lavori abusivi realizzati su un immobile sito in Tropea, località Croce s.n.c., nonché il successivo decreto 31.05.2010, di acquisizione al patrimonio comunale delle opere e dell’area pertinenziale.
Con successivi motivi aggiunti, la stessa parte ha impugnato l’ordinanza di demolizione 26.07.2010 n. 18163, relativo ai medesimi lavori.
Resiste l’amministrazione comunale, eccependo la tardività del gravame.
Con ordinanza 21.08.2010 n. 643, è stata respinta la domanda cautelare per carenza di fumus boni juris.
All’udienza del 13.11.2015, la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
...
Sono invece fondati i motivi aggiunti.
Risulta che il ricorrente, con atto del 29.04.2010, antecedente all’adozione dell’ordine di demolizione del 26.07.2010, ha chiesto la conversione della sanzione demolitoria in quella pecuniaria, osservando che la demolizione avrebbe compromesso la stabilità del fabbricato.
Orbene, in tema di abusi edilizi, la sanzione pecuniaria è misura eccezionale, alternativa alla demolizione, che si applica solo ove risulti l’impossibilità del ripristino, con la precisazione che la detta impossibilità può essere rilevata d’ufficio o fatta valere dall’interessato, ma comunque in una fase successiva all’ingiunzione, a carattere diffidatorio, che precede l’ordine di demolizione, quest’ultimo da emettere sulla base di specifici accertamenti dell’ufficio tecnico comunale, chiamato ad intervenire nella fase esecutiva (cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 16.05.2014 n. 2718) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 18.11.2015 n. 1726 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: Cantieri e lavori in corso su strada: chi risarcisce i danni?
Dossi, buche, voragini e crepe sulla strada per cantieri con lavori in corso: la responsabilità è sia dell’ente titolare del suolo, come il Comune, sia della ditta appaltatrice dei lavori.
Nel caso di danni subiti da un automobilista alla propria auto o da un pedone per via di lavori in corso sulla sede stradale, a pagare il risarcimento è sia l’amministrazione titolare della strada (il Comune, la Provincia, la Regione, lo Stato, ecc.), sia la ditta appaltatrice dei lavori: entrambi i soggetti, infatti, restano custodi della strada e sono quindi responsabili dei relativi danni procurati ai cittadini.
L’ente titolare del suolo pubblico, però, può poi rivalersi (con un’azione di regresso) nei confronti dell’appaltatore se quest’ultimo non ha predisposto la segnaletica di avviso per come imposto dalla legge.

Lo ha chiarito il TRIBUNALE di Firenze, Sez. II civile, con la sentenza 12.11.2015 n. 3983.
I lavori di manutenzione sulla strada vanno segnalati.
L’avviso dei lavori in corso va sempre adeguatamente indicato con apposita segnaletica che risulti visibile, anche se mobile; così, nel caso di pericolo non visibile e non prevedibile, il motociclista, l’automobilista o il pedone hanno sempre diritto al risarcimento; risarcimento che non può essere loro negato, almeno in parte, anche nell’ipotesi in cui vi sia un concorso di colpa da parte dell’utente della strada per via della velocità non consona da questi mantenuta (tale era il caso di specie che ha visto coinvolto un motociclista il quale procedeva ad andatura non consona allo stato dei luoghi). In questi casi, ditta appaltatrice e Comune (o altra amministrazione titolare della strada) non possono rimpallarsi la responsabilità del risarcimento nei confronti del danneggiato: entrambi sono responsabili in pari misura nei confronti di quest’ultimo che potrà chiedere i soldi all’uno o all’altro soggetto indifferentemente, salvo il diritto dell’amministrazione, di rivalersi contro l’appaltatore qualora sia stato responsabile nel non segnalare il pericolo.
Secondo il Tribunale di Firenze, in tema di danni determinati dall’esistenza di cantieri e lavori stradali, “se l’area del cantiere è stata completamente delimitata ed affidata all’esclusiva custodia dell’appaltatore con conseguente divieto su di essa del traffico veicolare e pedonale, dei danni subiti all’interno di questa area ne risponde esclusivamente l’appaltatore che ne è l’unico custode”.
Se, invece, l’area risulta ancora adibita al traffico “la responsabilità per i danni subiti dall’utente a causa di lavori in corso su detta strada grava su entrambi i soggetti” in quanto “l’ente titolare della strada ne ha conservato la custodia sia pure insieme all’appaltatore utilizzando la strada ai fini della circolazione” (link a www.laleggepertutti.it).

EDILIZIA PRIVATALa veranda del furbo non blocca il progetto.
Chi rispetta le norme edilizie non può essere penalizzato per colpa dei furbi. Così, se il vicino ha realizzato una veranda abusiva e il comune non l'ha contestata, l'ufficio tecnico dell'ente non può invece bloccare i lavori del progetto confinante conforme alle norme statali e locali per il mancato rispetto delle distanze minime tra i fabbricati: altrimenti il risultato sarebbe far arretrare la costruzione di chi ha diritto a edificare soltanto per la presenza del manufatto contro legge e dunque capovolgendo «ogni ordinario criterio discretivo delle posizioni giuridiche tra quelle lecite e quelle illecite».

È quanto emerge dalla sentenza 05.11.2015 n. 5164, pubblicata dalla II Sez. del TAR Campania-Napoli.
Il comune ha evidentemente chiuso un occhio sull'opera contro legge costruita dal vicino e ora non può dichiarare illegittimo dell'altro corpo di fabbrica e deciderne la demolizione perché troppo prossimo alla veranda abusiva.
Spese di giudizio compensate per la peculiarità della questione (articolo ItaliaOggi Sette del 09.05.2016).
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3. Alla luce di quanto esposto, deve ritenersi che non risulta smentito agli atti del giudizio che lo stato dei luoghi differisce da quello rappresentato solo limitatamente all’edificio di altro proprietario e che comunque le verande insistenti su tale diversa proprietà non sono strutturate ai fini portanti, ma risultano ricavate dalla chiusura parziale delle balconate esistenti con vetro e alluminio preverniciato e sono state determinate dall’UTC dell’Amministrazione come aventi carattere provvisorio ovvero temporaneo.
Ora, se il Comune non aveva contestato l’abusività di tali verande, non poteva poi censurare la parte del corpo di fabbrica per cui è controversia per mancato rispetto delle distanze da alcune verande abusive, tanto più che l’edificio realizzato da parte ricorrente risulta eseguito in conformità ai Permessi di costruire rilasciati e le distanze tra gli edifici sono rispettate in ragione sia della temporaneità delle verande, sia del fatto che le mensole balcone per la esiguità della larghezza non concorrono alla determinazione delle distanze.
3.1 Ove si aderisse al non condivisibile assunto che la distanza legale debba essere misurata tenendo conto anche delle opere abusive confinanti, quale, appunto, la veranda citata, si perverrebbe al risultato aberrante che, a causa dell’illecito ampliamento dell’edificio in proprietà altrui, parte ricorrente si vedrebbe costretta ad arretrare il proprio manufatto rispetto alla sua legittima ubicazione originaria.
La Società ricorrente si era in ogni caso munita dell’Autorizzazione sismica del 06/05/2014, ma comunque il Collegio ritiene di dover aderire all’orientamento in base al quale
l'abuso edilizio, allorquando occorra valutare la domanda del confinante di edificare sul proprio suolo, non può essere, di per sé, rilevante ed incidente sulla posizione giuridica di chi abbia diritto di edificare, pena il capovolgimento, e quindi la vulnerazione, di ogni ordinario criterio discretivo delle posizioni giuridiche tra quelle lecite e quelle illecite (Cons. Stato, IV, 27.03.2009, n. 1874; cfr. anche TAR Campania, Napoli, IV, 21.07.2005, n. 10142).
3.2 I provvedimenti impugnati devono, dunque, reputarsi illegittimi, posto che
la presenza di un manufatto abusivo non può essere di ostacolo al ius aedificandi di chi ha presentato un progetto in conformità delle norme locali e statali (TAR Abruzzo, L’Aquila, 17.02.2004, n. 138), in disparte le già accennate contraddizioni che hanno inficiato l’operato del Comune sì da integrare il denunciato vizio del difetto di istruttoria.
La Sezione ritiene, dunque, di dover aderire all’orientamento in base al quale
l'abuso edilizio, allorquando occorra valutare la domanda del confinante di edificare sul proprio suolo, non può essere, di per sé, rilevante ed incidente sulla posizione giuridica di chi abbia diritto di edificare, pena il capovolgimento, e quindi la vulnerazione, di ogni ordinario criterio discretivo delle posizioni giuridiche tra quelle lecite e quelle illecite (Cons. Stato, sez. IV, 27.03.2009, n. 1874; cfr. anche TAR Campania, n. 10142 del 2005; n. 8720 del 2010 confermata dal Cons. Stato n. 3968 del 2015).
4. Alla luce di quanto sopra deve ritenersi che il ricorso in esame vada accolto con conseguente annullamento dei provvedimenti oggetto di impugnazione.

EDILIZIA PRIVATA: Il D.M. 02.04.1968 n. 1444 –laddove all'art. 9 prescrive in tutti i casi la distanza minima assoluta di metri dieci tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti- è norma che impone determinati limiti edilizi ai Comuni nella formazione o revisione degli strumenti urbanistici, ma non è immediatamente operante anche nei rapporti tra privati; conseguentemente l'adozione, da parte degli Enti locali, di strumenti urbanistici contrastanti con la norma comporta l'obbligo, per il giudice di merito, non solo di disapplicare le disposizioni illegittime, ma anche di applicare direttamente la disposizione del ricordato art. 9 divenuta, per inserzione automatica, parte integrante dello strumento urbanistico in sostituzione della norma illegittima disapplicata.
Più in generale, va posto in rilievo che l'art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444, laddove prescrive la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, ragion per cui non è eludibile in funzione della natura giuridica dell'intercapedine.
Pertanto, le distanze tra costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione della relativa disciplina.

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1. Con il ricorso in esame parte ricorrente deduce l’eccesso di potere, la carenza di istruttoria e la violazione del DM n. 1444/1968.
2. Nella fattispecie in esame il Collegio ritiene di aderire alla consolidata giurisprudenza secondo la quale il D.M. 02.04.1968 n. 1444 –laddove all'art. 9 prescrive in tutti i casi la distanza minima assoluta di metri dieci tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti- è norma che impone determinati limiti edilizi ai Comuni nella formazione o revisione degli strumenti urbanistici, ma non è immediatamente operante anche nei rapporti tra privati; conseguentemente (cfr. ex multis Cass. Civ., II, 01.11.2004, n. 21899) l'adozione, da parte degli Enti locali, di strumenti urbanistici contrastanti con la norma comporta l'obbligo, per il giudice di merito, non solo di disapplicare le disposizioni illegittime, ma anche di applicare direttamente la disposizione del ricordato art. 9 divenuta, per inserzione automatica, parte integrante dello strumento urbanistico in sostituzione della norma illegittima disapplicata (cfr. Cons. Stato, V, n. 7731/2010; TAR Lombardia, Brescia, I, 16.10.2009, n. 1742).
2.1 Più in generale, va posto in rilievo che l'art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444, laddove prescrive la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, ragion per cui non è eludibile in funzione della natura giuridica dell'intercapedine (cfr. TAR Toscana, III, 04.12.2001, n. 1734; TAR Liguria, I, 12.02.2004 n. 145).
Pertanto, le distanze tra costruzioni sono predeterminate con carattere cogente in via generale ed astratta, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, di modo che al giudice non è lasciato alcun margine di discrezionalità nell'applicazione della relativa disciplina (cfr. Cons. Stato, IV, 05.12.2005, n. 6909) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 05.11.2015 n. 5164).

AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVIBarriere isolanti escluse se il cane del vicino latra.
Se i cani danno fastidio al vicino, non può essere il comune a ordinare al proprietario di spostarli dal confine fra i due immobili. I provvedimenti d'urgenza adottati dal sindaco, infatti, servono a tutelare la comunità amministrata e non possono intervenire nelle controversie fra privati come le liti di vicinato.

È quanto emerge dalla sentenza 10.09.2015 n. 2684, pubblicata dalla I Sez. del TAR Puglia-Lecce.
Accolto il ricorso del proprietario degli animali: non deve installare alcuna barriera di isolamento acustico al confine fra i due immobili per attutire i latrati dei cani, come invece gli aveva ingiunto il sindaco sulla base della relazione dell'Asl, firmata dal dirigente del locale servizio veterinario.
I due cani che vivono nella proprietà privata cominciano ad abbaiare appena si avvicinano estranei alla casa: «è piuttosto normale». È dunque escluso che il sindaco possa provvedere nella situazione con un'ordinanza urgente, che scatta solo in casi eccezionali: bisogna rivolgersi al giudice civile (articolo ItaliaOggi Sette del 09.05.2016).
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E’ impugnata l’epigrafata ordinanza con la quale il Sindaco del Comune di Leverano ha intimato al ricorrente di “provvedere, con immediatezza, allo spostamento dei cani di sua proprietà in modo da impedire loro l’accesso nell’area a ridosso dell’abitazione della sig. Ze., nonché di installare, al confine con la proprietà di quest’ultima, una barriera idonea ad attutire la rumorosità procurata dall’abbaiare dei suddetti animali entro dieci giorni”.
...
Il ricorso è fondato e deve essere accolto.
In particolare, è fondata la censura con la quale il ricorrente lamenta l’illegittima utilizzazione del potere straordinario di ordinanza contingibile ed urgente.
Il potere di urgenza può essere esercitato solo per affrontare situazioni di carattere eccezionale e imprevisto, costituenti concreta minaccia per la pubblica incolumità, per le quali non sia possibile utilizzare i normali mezzi apprestati dall'ordinamento giuridico e unicamente in presenza di un preventivo accertamento della situazione, fondato su prove concrete e non su mere presunzioni: tali presupposti non ricorrono, dunque, laddove il Sindaco possa fronteggiare la situazione con rimedi di carattere corrente nell’esercizio ordinario dei suoi poteri, ovvero la situazione possa essere prevenuta con i normali strumenti apprestati dall'ordinamento.
Nel caso in esame, l’ordinanza impugnata è stata adottata sul presupposto della presenza di due cani all’interno di una proprietà privata a cagione del loro abbaiare nelle vicinanze di una proprietà privata “quando gli stessi si rendevano conto della presenza di estranei”.
Appare quindi evidente che la stessa non è stata adottata al fine di tutelare la salute e incolumità pubblica, bensì il disturbo di un vicino, peraltro accertato solo ove si verifichi la presenza di estranei, e quindi una circostanza non rientrante nella eccezionalità e imprevedibilità (dato che è piuttosto normale che i cani abbaino in presenza di estranei) ben superabile con altri rimedi apprestati dall’ordinamento.
In conclusione il ricorso deve essere accolto e conseguentemente annullato l’atto impugnato.

AGGIORNAMENTO AL 18.05.2016

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Annullamento d'ufficio dei titoli edilizi entro un termine ragionevole e, comunque, non superiore a 18 mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione:
ECCO LE PRIME PRONUNCE DELLA GIURISPRUDENZA DOPO LA LEGGE N. 124/2015 (riforma Madia).

EDILIZIA PRIVATA: Titoli edilizi, primi stop all’autotutela. I giudici dichiarano illegittimo l’intervento correttivo della Pa arrivato oltre i 18 mesi.
Procedimento amministrativo. Il nuovo limite introdotto dalla riforma Madia fissa il periodo entro cui si possono annullare gli atti.
Limite d’intervento per la pubblica amministrazione. Con la sentenza 17.03.2016 n. 351, il TAR Puglia-Bari -Sez. III- ha dichiarato illegittimo il provvedimento di autotutela (previsto dall’articolo 21-nonies della legge 241/1990 sul procedimento amministrativo) adottato oltre il termine di 18 mesi, con il quale un Comune aveva annullato il permesso di costruire rilasciato in precedenza ad una società immobiliare.
La sentenza rappresenta una delle prime applicazioni giurisprudenziali delle novità introdotte dalla legge Madia (124/2015) sulla riorganizzazione della Pa. E la nuova normativa assume particolare rilievo in materia edilizia, dove sussiste la necessità di trovare un equilibrio tra l’esigenza di assicurare il rispetto della legalità e quella di garantire la stabilità dei rapporti e degli investimenti.
Soprattutto negli interventi avviati in seguito alla presentazione di una Scia, l’operatore si trova spesso in una situazione di incertezza, perché la Pa ha il potere di annullare la segnalazione certificata (o la Dia nei residui casi in cui è ancora prevista), d’ufficio o su richiesta dei terzi, anche a distanza di anni dal completamento dei lavori.
In virtù della legge Madia, dopo la scadenza del termine di 30 giorni stabilito per l’esercizio ordinario dei poteri inibitori e/o repressivi sugli interventi eseguiti tramite Scia (articolo 19, comma 6-bis, della legge 241/1990), la Pa può annullare questo titolo soltanto entro 18 mesi dalla sua formazione. Il medesimo termine, come ovvio, deve essere rispettato anche nel caso in cui la Pa intervenga su un titolo edilizio rilasciato (ad esempio, un permesso di costruire).
Questi 18 mesi previsti per l’esercizio dei poteri di autotutela rappresentano il periodo massimo entro il quale la Pa può intervenire per annullare d’ufficio un provvedimento illegittimo: non si può quindi escludere che, sulla base delle singole circostanze, il termine “ragionevole” possa essere ritenuto ancora più breve (sul punto si veda la sentenza 14.01.2016 n. 47 del TAR Puglia-Bari, Sez. III).
Il nuovo sbarramento temporale, che trova certamente applicazione per i provvedimenti adottati successivamente all’entrata in vigore della riforma Madia, è comunque rilevante per valutare -sotto il profilo della ragionevolezza del termine- la legittimità dei provvedimenti di autotutela adottati sotto la previgente disciplina (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 24.02.2016 n. 984; TAR Puglia-Lecce, Sez. II, sentenza 03.03.2016 n. 430).
Gli ulteriori presupposti che legittimano l’esercizio del potere di autotutela non sono stati invece modificati dalla legge. Quindi, per poter procedere all’annullamento di un provvedimento illegittimo (ossia adottato in violazione di legge o viziato da eccesso di potere o da incompetenza) è necessaria:
- la sussistenza di ragioni di interesse pubblico;
- la circostanza che l’autotutela intervenga entro un termine comunque “ragionevole” (ora appunto fissato al massimo in 18 mesi);
- la necessaria considerazione degli interessi dei destinatari e dei contro-interessati.
Nell’ambito dei provvedimenti adottati in violazione di legge, è opportuno anche segnalare che con l’ordinanza 22.03.2016 n. 185 il TAR Marche ha rimesso alla Corte di giustizia europea la questione relativa alla compatibilità con il diritto comunitario dei provvedimenti di Via (valutazione impatto ambientale) adottati successivamente alla realizzazione dell’impianto soggetto alla valutazione stessa (cd. Via postuma).
La soluzione del quesito è di sicuro interesse per tutti i progetti che, realizzati senza esser stati preventivamente sottoposti alla procedura ambientale, siano oggetto di provvedimenti di demolizione.
 
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Se si dichiara il falso il potere di controllo non ha scadenza. Casi particolari. Sono fatte salve le sanzioni penali.
Il potere di autotutela della pubblica amministrazione può essere esercitato oltre il termine dei 18 mesi solo in alcuni casi particolari. Quando cioè il titolo da annullare sia stato ottenuto sulla base di false rappresentazioni dei fatti oppure di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci, per effetto di condotte costituenti reato e accertate con sentenza passata in giudicato. La deroga è stata inserita dalla riforma Madia al comma 2-bis dell’articolo 21-nonies della legge 241/1990.
In questo comma il legislatore ha letteralmente chiarito che le amministrazioni “possono” e non “devono” annullare i provvedimenti ottenuti in modo illecito: ciò porta a ritenere che anche in tale ipotesi l’autotutela non sia un atto dovuto, ma preveda comunque la sussistenza degli ulteriori presupposti indicati dall’articolo 21-nonies.
Nella parte finale del comma 2-bis, si fa comunque salva l’applicazione delle sanzioni penali e delle ulteriori sanzioni contemplate dal capo VI del Dpr 445/2000 (Testo unico in materia di documentazione amministrativa) tra le quali è espressamente previsto che, nel caso di false dichiarazioni rese alla Pa, il dichiarante decada dai benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato sulla base delle stesse dichiarazioni (articolo 75).
Il legislatore sembra così aver voluto evitare che la novità normativa, finalizzata a tutelare chi abbia fatto legittimo affidamento su un titolo edilizio rilasciato (nel caso di permesso di costruire) o non contestato entro 30 giorni (nel caso di Scia) dall’autorità competente, possa essere utilizzata da coloro che, confidando nell’inerzia o nel mancato controllo della Pa, ottengano l’abilitazione sulla base di irregolari dichiarazioni o rappresentazioni dei fatti.
La medesima finalità è perseguita anche all’articolo 21, comma 1, della legge 241/1990, dove è espressamente previsto che la Scia, o il titolo edilizio ottenuto con il silenzio-assenso, non produce gli effetti previsti dalla legge se è stato formato sulla base di dichiarazioni false o mendaci. In questo caso, il titolo non produce alcun effetto giuridicamente rilevante (e infatti la norma stabilisce che «non è ammessa la conformazione dell’attività e dei suoi effetti a legge»): quindi la pubblica amministrazione potrà adottare tutti i provvedimenti necessari per ripristinare la legalità violata, anche al di fuori del limite temporale e dei presupposti indicati dall’articolo 21-nonies.
Resta infine da evidenziare il mancato coordinamento della riforma con quanto stabilito dall’art. 39 del Testo unico edilizia, Dpr 380/2001 (“Annullamento del permesso di costruire da parte della regione”), che continua a prevedere il potere regionale di eliminare, entro 10 anni dalla loro adozione, i provvedimenti comunali che autorizzano interventi non conformi a prescrizioni degli strumenti urbanistici o dei regolamenti edilizi, o comunque in contrasto con la normativa urbanistico-edilizia (articolo Il Sole 24 Ore del 09.05.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

Ricordiamo cosa dispone l'art. 21-nonies della L. n. 241/1990:

Art. 21-nonies. (Annullamento d'ufficio)
(si veda anche l'articolo 1, comma 136, della legge n. 311 del 2004)

1. Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole, comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell'articolo 20, e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge. Rimangono ferme le responsabilità connesse all'adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo.
(comma modificato dall'art. 25, comma 1, lettera b-quater), legge n. 164 del 2014, poi dall'art. 6, comma 1, legge n. 124 del 2015)

2. È fatta salva la possibilità di convalida del provvedimento annullabile, sussistendone le ragioni di interesse pubblico ed entro un termine ragionevole.

2-bis. I provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell'atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato, possono essere annullati dall'amministrazione anche dopo la scadenza del termine di diciotto mesi di cui al comma 1, fatta salva l'applicazione delle sanzioni penali nonché delle sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445.
(comma aggiunto dall'art. 6, comma 1, legge n. 124 del 2015)

Di seguito le sentenze per esteso menzionate nell'articolo di cui sopra:

EDILIZIA PRIVATA: Attesa la perentorietà del temine ex art. 21-nonies l. n. 241/1990, è illegittimo il provvedimento di autotutela (di annullamento del permesso di costruire) intervenuto oltre i 18 mesi di legge.
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... per l'annullamento, previa sospensiva, della nota prot. n. 63548 del 19.11.2015 del Dirigente del Settore Edilizia Pubblica e Privata e Servizi Catastali del Comune di Barletta, notificata il 20 successivo, recante annullamento, in autotutela, del permesso di costruire n. 133 del 01.04.2014, rettificato il 14.04.2014, rilasciato alla società ricorrente Immobiliare MV srl.
...
La società odierna ricorrente impugna la rimozione in autotutela del permesso di costruire (PdC) n. 133 del 01.04.2014, rettificato il 14.04.2014.
Deduce vari profili di censura, tra cui quello di tardività dell’esercizio del potere di autotutela, essendo questo intervenuto il 19.11.2015, ovverosia, oltre il termine di 18 mesi contemplati dall’art. 21-nonies, novellato dalla L. n. 124/2015 (entrata in vigore il 28.08.2015), dunque, già in vigore -ratione temporis- al momento dell’adozione dell’atto di secondo grado.
Resiste al ricorso il Comune intimato, sostenendo, quanto al profilo di censura appena evidenziato, che il termine di cui all’art. 21-nonies cit. sarebbe stato, comunque, rispettato, attesa la tempestiva adozione della nota n. 52811 del 01.10.2015.
All’udienza del 10.03.2016, dopo ampia discussione delle parti che hanno invocato la definizione con sentenza breve della controversia, il ricorso è stato trattenuto in decisione.
E’ fondato il profilo di doglianza appena evidenziato.
La nota n. 52811 del 01.10.2015 consiste pacificamente nella comunicazione di avvio del relativo procedimento di autotutela.
Essa non può valere a ritenere rispettato il termine indicato dalla disposizione novellata, in quanto il tenore letterale della stessa rinvia chiaramente, a tal fine, all’adozione effettiva del provvedimento di autotutela (“Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d'ufficio….”).
Nel medesimo senso depone l’interpretazione logico-sistematica, in quanto, ritenere sufficiente l’adozione della comunicazione di avvio del procedimento, per il rispetto del termine normativamente imposto, conduce a ritenerlo, di fatto, non perentorio ai fini dell’adozione dell’atto definitivo di autotutela.
Una siffatta conclusione esegetica si sostanzierebbe in una interpretazione sostanzialmente abrogativa della novella.
Ritenuta, dunque, la insufficienza della comunicazione di avvio del procedimento, non può che rilevarsi che il provvedimento di autotutela è intervenuto oltre il termine dei 18 mesi (il PdC rettificato è del 14.04.2014, mentre il provvedimento di annullamento è datato 19.11.2015).
Esso, dunque, attesa la perentorietà del suddetto temine (v. sentenza di questa Sezione n. 47/2016), è illegittimo in quanto tardivo e va, pertanto, annullato (
TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 17.03.2016 n. 351 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Il lungo lasso di tempo trascorso dai provvedimenti autorizzatori, il numero degli stessi e la natura economico-imprenditoriale dell’attività esercitata dalla ricorrente depongono per l’applicazione del principio dell’affidamento, il quale appunto, in questa materia, “tutela la certezza e la stabilità dei rapporti giuridici, ammettendo la rimozione di una situazione di vantaggio, attribuita ad un privato da un atto amministrativo specifico, soltanto al ricorrere di determinate condizioni: fra queste ultime, rientra un intervallo di tempo tale da non ingenerare nel privato la convinzione circa la stabilità del rapporto”.
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L’A.C. trascurava di considerare come ormai, a distanza di più di dieci anni dal proprio, reiterato errore e in presenza di un’attività economica consolidata e dal 2010 significativamente ampliata, il riferimento al tema del corretto rapporto tra l’attività ricettiva e quella agricola, in origine certamente decisivo, non era più sufficiente a giustificare la rimozione dell’atto, la quale doveva rispondere “a un interesse pubblico non solo attuale e concreto ma anche prevalente rispetto ad altri interessi a favore della sua conservazione e, tra questi, in particolare, rispetto all’interesse del privato che ha riposto affidamento nella legittimità e stabilità dell’atto medesimo, tanto più quando un simile affidamento si sia consolidato per effetto del decorso di un rilevante arco temporale”.

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... per l’annullamento:
- della nota prot. n. 10080 del 25.05.2015, successivamente ricevuta, con la quale si comunica l’avvio del procedimento di annullamento dell’autorizzazione n. 17/04 e si invita la ricorrente a limitare l’ospitalità agrituristica a n. 40 posti letto;
- del provvedimento prot. n. 12653 del 29.06.2015, successivamente conosciuto, avente a oggetto <<Difformità numerica della capacità ricettiva in attività agrituristica ‘Bo.Ma.’ con sede in Melendugno alla Strada Comunale Bosco Coppola, frazione Borgagne. Comunicazioni di rilascio di nuova autorizzazione>>;
- di ogni atto connesso, presupposto e/o consequenziale.
...
3.- Considerato che:
- l’art. 21-nonies l. n. 241 del 1990, nella formulazione vigente all’epoca della d.d. impugnata, prevedeva che “1. Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell’ articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall’organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge”;
- alla “stregua di tale previsione normativa [l’art. 21-nonies, ndr], che ha peraltro codificato il consolidato orientamento già precedentemente espresso dalla giurisprudenza, l’annullamento del provvedimento amministrativo richiede, oltre all’illegittimità dell’atto, anche la sussistenza dell’interesse pubblico alla sua rimozione. Quest’ultimo deve, poi, trovare adeguata evidenziazione, mediante un’idonea motivazione, che dia conto della ponderazione degli interessi in gioco, inclusi quelli dei destinatari dell’atto e dei controinteressati, anche alla luce del tempo trascorso dall’adozione del provvedimento […]".
E invero, la regola di cui all’articolo 21-nonies della legge n. 241 del 1990 non soffre eccezioni -in linea di principio- neppure nel caso in cui vengano in considerazione interessi di particolare rilievo, quale quello attinente alla tutela del paesaggio (cfr. in questo senso Cons. Stato, Sez. VI, 20.09.2012, n. 4997).
La posizione di preminenza che l’interesse assume nell’ambito dell’ordinamento giuridico, in considerazione della sua consistenza di valore costituzionalmente primario (C. cost. n. 367 del 2007, Id. n. 182 del 2006, Id. n. 151 del 1986), può invero attenuare l’onere motivatorio incombente sull’Amministrazione in sede di annullamento in autotutela dell’atto ampliativo, fino a rendere tale onere minimo in certe ipotesi (specialmente in presenza di opere di rilevante impatto o di interventi eseguiti in aree di pregio particolarmente importante).
Tuttavia, <<tale preminenza non può elidere del tutto la necessità che sia data evidenza del compimento di una ponderazione idonea a mettere in luce la preminenza dell’interesse pubblico concreto e attuale all’annullamento dell’atto autorizzatorio illegittimamente rilasciato rispetto agli altri contrapposti interessi>> (TAR Lombardia Milano, II, 13.08.2015, n. 1896).
- l’art. 6, comma 1, lettera d), numero 1), della legge 07.08.2015, n. 124, inoltre, apportava all’art. 21-nonies le seguenti modificazioni: “al comma 1, dopo le parole: <<entro un termine ragionevole>> sono inserite le seguenti: <<, comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici […]>>; e se è vero che la novella non era ratione temporis applicabile alle determinazioni impugnate, deve però ritenersi, in conformità alla preferibile giurisprudenza, che il previsto sbarramento temporale all’esercizio del potere di autotutela sia comunque rilevante “ai fini interpretativi e ricostruttivi del sistema degli interessi rilevanti” (così Consiglio di Stato, VI, 10.12.2015, n. 5625).
4.- Ritenuto che, nel caso in esame:
- il lungo lasso di tempo trascorso dai provvedimenti autorizzatori, il numero degli stessi e la natura economico-imprenditoriale dell’attività esercitata dalla ricorrente depongono per l’applicazione del principio dell’affidamento, il quale appunto, in questa materia, “tutela la certezza e la stabilità dei rapporti giuridici, ammettendo la rimozione di una situazione di vantaggio, attribuita ad un privato da un atto amministrativo specifico, soltanto al ricorrere di determinate condizioni: fra queste ultime, rientra un intervallo di tempo tale da non ingenerare nel privato la convinzione circa la stabilità del rapporto” (Consiglio di Stato, IV, 16.04.2015, n. 1953).
- a fronte di una serie di atti con i quali l’A.C. autorizzava la società per 74 posti letto neppure può ritenersi che tale legittimo affidamento fosse escluso dal diverso, e più limitato, disposto del certificato regionale, ben potendo il privato non aver colto tutte le implicazioni che, sul piano amministrativo, siffatto contrasto comportava.
- l’A.C., peraltro, pur avendo evidenziato la portata per essa vincolante della certificazione regionale, trascurava di considerare come ormai, a distanza di più di dieci anni dal proprio, reiterato errore e in presenza di un’attività economica consolidata e dal 2010 significativamente ampliata, il riferimento al tema del corretto rapporto tra l’attività ricettiva e quella agricola, in origine certamente decisivo, non era più sufficiente a giustificare la rimozione dell’atto, la quale doveva rispondere “a un interesse pubblico non solo attuale e concreto ma anche prevalente rispetto ad altri interessi a favore della sua conservazione e, tra questi, in particolare, rispetto all’interesse del privato che ha riposto affidamento nella legittimità e stabilità dell’atto medesimo, tanto più quando un simile affidamento si sia consolidato per effetto del decorso di un rilevante arco temporale” (TAR Calabria Catanzaro, II, 08.04.2015, n. 609).
5.- Ritenuto che il ricorso deve dunque essere accolto, ferma restando, ovviamente, la necessità che, salvo il profilo fin qui delineato, l’attività della società Ma. sia in linea con tutta la normativa di settore applicabile alle sue effettive dimensioni (
TAR Puglia-Lecce, Sez. II, sentenza 03.03.2016 n. 430 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sotto l’ulteriore profilo considerato (relativo all’interesse pubblico all’annullamento), va detto che l’art. 21-nonies della legge 07.08.1990, n. 241 (nel testo vigente all’epoca di adozione del provvedimento) disponeva che: <<Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge>>.
La norma è espressione di un principio volto alla composizione di tutti gli interessi che vengono in rilievo, esigendo che la P.A. dia adeguata contezza delle ragioni sottostanti all’annullamento d’ufficio, in termini di interesse pubblico attuale e prevalente, nei casi in cui il tempo trascorso abbia ingenerato nel destinatario un concreto affidamento nel consolidamento della situazione che la stessa P.A. ha assentito.
A rafforzare il principio già contenuto dall’origine nell’art. 21-nonies, dandovi concretezza, non può essere trascurato che l’attuale formulazione della norma (quale derivante dalla novella introdotta dall’art. 6, comma 1, lett. d), n. 1), della legge 07.08.2015, n. 124, ancorché non applicabile alla fattispecie in esame) pone il termine per l’annullamento d’ufficio “comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione”.
Nella specie, l’annullamento è stato disposto a distanza di due anni dal rilascio del permesso di costruire e non è enunciato quale interesse pubblico prevalente determini la necessità di procedere all’annullamento del titolo con cui il ricorrente ha eseguito la manutenzione e il consolidamento dell’edificio, in relazione alle quali non è addotto (come sopra precisato) che i lavori abbiano arrecato nocumento a preminenti valori necessitanti di tutela.

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... per l'annullamento del provvedimento del Coordinatore della 4^ Area - Ambiente Territorio e Infrastrutture prot. n. 56310 del 07/09/2010, con il quale è stato annullato il permesso di costruire in sanatoria n. 151 del 09/08/2008, rilasciato ai sensi dell'art. 36 del DPR n. 380/2001 per la manutenzione ordinaria e straordinaria dell'immobile sito alla via S. ... nn. 37/39; della nota prot. n. 32984 del 19/05/2010, recante la comunicazione dei motivi ostativi; di tutti gli atti anteriori, preordinati e connessi.
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Il ricorso è fondato.
Sono meritevoli di favorevole apprezzamento le censure con cui si fa valere che non occorreva acquisire l’autorizzazione paesaggistica e che, in ogni caso, non sono esternate le ragioni in ordine alla sussistenza di un concreto ed attuale interesse pubblico all’annullamento del permesso di costruire.
L’art. 149, primo comma, lett. a), del d.lgs. 22.01.2004, n. 42 dispone infatti che: <<Fatta salva l'applicazione dell'articolo 143, comma 4, lettera a), non è comunque richiesta l'autorizzazione prescritta dall'articolo 146, dall'articolo 147 e dall'articolo 159:
a) per gli interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, di consolidamento statico e di restauro conservativo che non alterino lo stato dei luoghi e l'aspetto esteriore degli edifici
>>.
Emerge dallo stesso provvedimento impugnato che l’intervento è consistito nella “Manutenzione ordinaria e straordinaria, con sostituzione parziale dei solai, e consolidamento delle murature, con ripristino abitativo dell’immobile”.
Il ricorrente ha prodotto in data 08/01/2016 l’istanza di permesso di costruire con l’allegata relazione tecnica, da cui risulta che –nell’immobile abbandonato da decenni e in precarie condizioni statiche, oggetto di una non meglio precisata ordinanza sindacale n. 268 del 06/03/2008– è stata realizzata la sostituzione dei solai pericolanti con interventi di cuci e scuci alle pareti anch’esse pericolanti, oltre al completamento con intonaci, pavimentazione, pitturazione, impianto idrico ed elettrico ed infissi interni ed esterni, “con criteri e tipologie idonee e consone al territorio ed all’ambiente circostante” ed utilizzo di “prodotti e materiali in muratura di tufo e solai in latero-cemento piano”, nonché “rifiniture in assonanza della zona” (cfr. l’esibita relazione descrittiva).
Con riferimento a tali elementi, può convenirsi sulla deduzione del ricorrente secondo cui l’intervento non necessitava di autorizzazione paesaggistica (non risultando modifiche alla sagoma o ai prospetti e all’aspetto esteriore dell’edificio), tenuto conto che nel provvedimento neppure si dà conto delle asserite modifiche allo stato preesistente dei luoghi.
Invero, la tutela paesaggistica è approntata per la salvaguardia dei “valori paesaggistici oggetti di protezione” (art. 146, primo comma, d.lgs. cit.), con riguardo alla forma esterna dell’edificio posto in zona tutelata (tale essendo l’ambito della tutela paesaggistica, a partire dal riferimento, nell’art. 7 della legge 29.06.1939, n. 1497, agli immobili il cui “esteriore aspetto […] è protetto dalla presente legge”).
Come detto, il provvedimento impugnato si limita ad affermare che l’intervento ha modificato lo stato dei luoghi, senza tuttavia concretamente addurre in quali termini i lavori, in relazione alla loro tipologia manutentiva e di consolidamento, abbiano concretamente arrecato una compromissione ai valori tutelati.
Quanto al richiamo, operato nello stesso provvedimento, alla norma che dispone la necessità dell’accertamento della compatibilità paesaggistica <<per i lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell'articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380>> (quarto comma, lett. c), dell’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004), va osservato che in ogni caso occorre una verifica concreta, non potendosi negare in mancanza la compatibilità paesaggistica dell’intervento.
Sotto l’ulteriore profilo considerato (relativo all’interesse pubblico all’annullamento), va detto che l’art. 21-nonies della legge 07.08.1990, n. 241 (nel testo vigente all’epoca di adozione del provvedimento) disponeva che: <<Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge>>.
La norma è espressione di un principio volto alla composizione di tutti gli interessi che vengono in rilievo, esigendo che la P.A. dia adeguata contezza delle ragioni sottostanti all’annullamento d’ufficio, in termini di interesse pubblico attuale e prevalente, nei casi in cui il tempo trascorso abbia ingenerato nel destinatario un concreto affidamento nel consolidamento della situazione che la stessa P.A. ha assentito.
A rafforzare il principio già contenuto dall’origine nell’art. 21-nonies, dandovi concretezza, non può essere trascurato che l’attuale formulazione della norma (quale derivante dalla novella introdotta dall’art. 6, comma 1, lett. d), n. 1), della legge 07.08.2015, n. 124, ancorché non applicabile alla fattispecie in esame) pone il termine per l’annullamento d’ufficio “comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione”.
Nella specie, l’annullamento è stato disposto a distanza di due anni dal rilascio del permesso di costruire e non è enunciato quale interesse pubblico prevalente determini la necessità di procedere all’annullamento del titolo con cui il ricorrente ha eseguito la manutenzione e il consolidamento dell’edificio, in relazione alle quali non è addotto (come sopra precisato) che i lavori abbiano arrecato nocumento a preminenti valori necessitanti di tutela.
Alla stregua delle considerazioni che precedono, il ricorso va dunque accolto e va conseguentemente annullato il provvedimento impugnato, con condanna del Comune resistente al pagamento delle spese processuali in favore del ricorrente, secondo la regola della soccombenza, nella misura indicata nel dispositivo (
TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 24.02.2016 n. 984 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il comma 1 dell’art. 21-nonies oggi dispone: “Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole, comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell'articolo 20, e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge”.
Il fatto che il legislatore non abbia sostituito le parole “termine ragionevole” con le parole “comunque non superiore a 18 mesi”, che in vece ad esse si aggiungono, induce a ritenere che si tratti di un’operazione meramente interpretativa con la quale si è inteso specificare che il termine ragionevole non può superare i 18 mesi, dovendosi invece riconoscere portata innovativa agli interventi di modifica che sostituiscono una disposizione o parte di essa, così risultandone una norma diversa dalla precedente.

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E’ noto che l’espressione “entro un termine ragionevole”, contenuta nella versione originaria dell’art. 21-nonies, ha occupato non poco la dottrina e la giurisprudenza nell’opera di elaborazione, in assenza di parametri costituzionali di riferimento, di criteri uniformi di misurazione del tempo entro il quale la p.a. può esercitare lo ius poenitendi ed intervenire su posizioni giuridiche acquisite, valorizzandosi talora il tempo in sé, quando l’amministrazione ha chiari gli elementi fondamentali dai quali si deduce l’illegittimità del provvedimento, grazie all’attività istruttoria espletata in precedenza, altre volte gli effetti che medio tempore sono stati prodotti dal provvedimento.
Con la disposizione in esame il legislatore ha inteso quindi dare certezza e stabilità ai rapporti che hanno titolo in atti amministrativi, individuando nel termine massimo di diciotto mesi il limite per l’annullamento d’ufficio, il quale sarebbe senz’altro illegittimo se sopravvenuto dopo il decorso di detto termine.
Pertanto, avuto riguardo ai provvedimenti per i quali, alla data di entrata in vigore della novella, il “termine ragionevole” per l’annullamento è ancora in corso, il Collegio ritiene di escludere che il termine di diciotto mesi possa nuovamente decorrere da detta data, sia perché ciò sarebbe in contrasto con la natura interpretativa delle disposizione in rassegna sia perché, diversamente opinando, si ammetterebbe un’irragionevole rimessione in termini per la p.a., in palese contraddizione con l’intendimento del legislatore di stabilire un termine certo oltre il quale il provvedimento amministrativo non può essere annullato se non in sede giurisdizionale.
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... per l'annullamento del provvedimento prot. n. 36502 del 10.09.2015, con cui il Comune di Trani ha annullato il permesso di costruire tacito formatosi sull’istanza delle ricorrenti (pratica n. 111/2009) e comunque ha negato espressamente la realizzazione dell’intervento edilizio ivi proposto.
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E’ fondato il primo motivo di ricorso con il quale le ricorrenti sostengono che il provvedimento gravato d’ufficio sarebbe stato adottato quando era ormai decorso il termine di 18 mesi dalla formazione del titolo edilizio, entro il quale è consentito l’esercizio del potere di annullamento, ai sensi della l. 124/2015, che ha modificato l’art. 21-nonies l. 241/1990.
In particolare il comma 1 dell’art. 21-nonies oggi dispone: “Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole, comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell'articolo 20, e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge”.
Il fatto che il legislatore non abbia sostituito le parole “termine ragionevole” con le parole “comunque non superiore a 18 mesi”, che in vece ad esse si aggiungono, induce a ritenere che si tratti di un’operazione meramente interpretativa con la quale si è inteso specificare che il termine ragionevole non può superare i 18 mesi, dovendosi invece riconoscere portata innovativa agli interventi di modifica che sostituiscono una disposizione o parte di essa, così risultandone una norma diversa dalla precedente.
Secondo l’insegnamento della Corte costituzionale, infatti, il carattere interpretativo di una novella si desume dal rapporto che ne risulta fra norme –e non tra disposizioni– di guisa che il sopravvenire della norma interpretante non fa venir meno la norma interpretata, ma l’una e l’altra si saldano tra loro dando luogo ad un precetto normativo unitario (sentenza n. 397 del 1994).
Tipico tratto interpretativo hanno le disposizioni che esprimono uno fra i possibili significati che la norma interpretata, per il modo -generico o elastico- in cui è formulata, può assumere nel contesto normativo di riferimento, tanto da dar luogo a contrasti interpretativi o incertezze applicative che inducono il legislatore a meglio precisarne il precetto.
E’ noto che l’espressione “entro un termine ragionevole”, contenuta nella versione originaria dell’art. 21-nonies, ha occupato non poco la dottrina e la giurisprudenza nell’opera di elaborazione, in assenza di parametri costituzionali di riferimento, di criteri uniformi di misurazione del tempo entro il quale la p.a. può esercitare lo ius poenitendi ed intervenire su posizioni giuridiche acquisite, valorizzandosi talora il tempo in sé, quando l’amministrazione ha chiari gli elementi fondamentali dai quali si deduce l’illegittimità del provvedimento, grazie all’attività istruttoria espletata in precedenza (Tar Firenze 11.06.2015 n. 904), altre volte gli effetti che medio tempore sono stati prodotti dal provvedimento (Tar L’Aquila Sez. I, 29.07.2008, n. 967).
Con la disposizione in esame il legislatore ha inteso quindi dare certezza e stabilità ai rapporti che hanno titolo in atti amministrativi, individuando nel termine massimo di diciotto mesi il limite per l’annullamento d’ufficio, il quale sarebbe senz’altro illegittimo se sopravvenuto dopo il decorso di detto termine.
Pertanto, avuto riguardo ai provvedimenti per i quali, alla data di entrata in vigore della novella, il “termine ragionevole” per l’annullamento è ancora in corso, il Collegio ritiene di escludere che il termine di diciotto mesi possa nuovamente decorrere da detta data, sia perché ciò sarebbe in contrasto con la natura interpretativa delle disposizione in rassegna sia perché, diversamente opinando, si ammetterebbe un’irragionevole rimessione in termini per la p.a., in palese contraddizione con l’intendimento del legislatore di stabilire un termine certo oltre il quale il provvedimento amministrativo non può essere annullato se non in sede giurisdizionale.
Venendo al caso in decisione è evidente che il provvedimento di annullamento del 10.09.2015 -adottato dopo l’entrata in vigore della novella (28.08.2015)- è sopravvenuto dopo più di quattro anni dalla formazione del silenzio assenso, maturato il 02.06.2011 come accertato da questo TAR con sentenza 610/2013.
Non solo allora è evidente che fosse decorso il termine di 18 mesi previsto dalla l. 124/2015, ma appare comunque irragionevole che il Comune, che aveva suscitato affidamento delle ricorrenti rilasciando il parere favorevole del 28.07.2010, abbia invece atteso rebus sic stantibus circa quattro anni per rimuovere il titolo edilizio.
Naturalmente resta fermo il potere del Comune di Trani di eventualmente reiterare l’annullamento senza limiti di tempo ove sussistano le condizioni previste dal comma 2-bis dell’art. 21-nonies l. 241/1990 parimenti introdotto dalla l. 124/2015.
Pertanto il ricorso deve essere accolto con assorbimento degli altri motivi (
TAR Puglia-Bari, Sez. III, la sentenza 14.01.2016 n. 47 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

INCENTIVO PROGETTAZIONE INTERNA

     Con l'AGGIORNAMENTO AL 23.03.2016 davamo conto di come la Sez. controllo veneta della Corte dei Conti avesse deferito alla Sez. Autonomie la seguente questione di massima: "Se gli incentivi previsti e disciplinati dai commi 7-bis, 7-ter e 7-quater del D.lgs. n. 163 del 12.04.2006 possano essere riconosciuti ed erogati al personale indicato dal comma 7-ter anche nel caso di progettazione affidata e realizzata da soggetti esterni alla stazione appaltante".
     Altresì, col precedente AGGIORNAMENTO AL 31.12.2015, informavamo che anche la Sez. controllo abruzzese richiedeva l'intervento della Sez. Autonomie circa le seguenti questioni: 1) “se sia possibile riconoscere l’incentivo di cui all’art. 93 d.lgs. n. 163/2006 in favore del Responsabile unico del procedimento, anche nell’ipotesi in cui tutte le attività che la legge individua come incentivabili, sia di progettazione sia di direzione dei lavori, sia di collaudo, siano state svolte all’esterno dell’Ente da professionisti all’uopo incaricati”;
2) “se la nozione di "collaboratori" di cui al comma 7-ter dell'art. 93 del d.lgs. n. 163/2006 faccia riferimento solamente ai collaboratori con professionalità tecnica (componenti lo staff tecnico delle specifiche figure professionali richiamate dall'art. 93 citato, per lo svolgimento delle attività ivi indicate) ovvero possa essere estesa anche al personale addetto alle altre attività amministrative connesse comunque alla realizzazione dei lavori, quali: le procedure di espropriazione, di accatastamento e frazionamento, procedure di appalto dei lavori, predisposizione dei contratti di appalto, stesura degli atti di gara e provvedimenti amministrativi afferenti ai lavori”.
     Ebbene, è arrivata la risposta che di seguito riportiamo.

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Appalti, vecchi incentivi anche se il progetto è esterno. Corte dei conti. La riforma si applica alle «attività svolte» dopo il 19.04.2016.
Gli incentivi ai dipendenti pubblici per le attività di progettazione, nella forma riveduta e corretta dal decreto Madia del 2014, possono essere attribuiti al responsabile unico del procedimento (Rup) negli appalti anche se una parte dei progetti è stata affidata all’esterno. Non solo: i “premi” possono andare anche a direttori dei lavori, collaudatori e collaboratori anche se la progettazione è stata esternalizzata integralmente. Peccato, però, che questi incentivi siano stati cancellati dalla riforma degli appalti.

Ad affrontare il tema è la deliberazione 13.05.2016 n. 18, diffusa ieri, con cui la sezione Autonomie della Corte dei conti chiude un ricco dibattito interpretativo alimentato dal decreto Madia fra i magistrati contabili delle sezioni regionali.
Quel meccanismo è stato abolito, ma la nuova delibera è tutt'altro che inutile, per due ragioni: in un inciso, la sezione Autonomie conferma autorevolmente che la riforma valgono per le «attività poste in essere dopo il 19.04.2016», data di entrata in vigore del decreto legislativo 50/2016 attuativo della delega appalti, e che quindi i lavori effettuati prima ma non ancora pagati seguono le vecchie regole. La precisazione dovrebbe evitare le incertezze sulla decorrenza che hanno accompagnato tutti i ritocchi agli incentivi “Merloni”.
Da queste premesse discende che le indicazioni fissate dai magistrati servono a pagare nel modo corretto gli incentivi legati ai lavori effettuati fino al 19 aprile.
Il decreto Madia, aveva cambiato il paradigma dei premi, cancellando la vecchia impostazione “Merloni” e sostituendola con un fondo da redistribuire fra i dipendenti. Il fondo, a carico degli stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli lavori e pari al massimo al 2% della base di gara, finanzia per l’80% il premio a responsabile unico, incaricati dell’appalto e collaboratori.
Per far partire gli incentivi, ribadisce la Corte, è indispensabile aver adottato il regolamento ad hoc. Posta questa premessa, gli incentivi possono andare al Rup anche se una parte dei progetti è stata esternalizzata, vista la complessità del suo ruolo. Per le altre figure “incentivabili”, tocca al regolamento la «prudente definizione» dei criteri con cui graduare gli incentivi, e individuare i «collaboratori» che rientrano nel meccanismo
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.05.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Il riconoscimento dell’incentivo alla progettazione di cui all’art. 93, comma 7-ter, del d.lgs. n. 163/2006 in favore del responsabile unico del procedimento non presuppone necessariamente che l’intera attività di progettazione sia svolta all’interno dell’ente”.
La nozione di “collaboratori” di cui al comma 7-ter dell’art. 93 del d.lgs. n. 163/2006 fa riferimento alle professionalità –di norma tecniche- all’uopo individuate in sede di costituzione dell’apposito staff, le quali devono porsi in stretta correlazione funzionale e teleologica rispetto alle attività da compiere per la realizzazione dell’opera a regola d’arte e nei termini preventivati.”
Gli incentivi previsti e disciplinati dai commi 7-bis, 7-ter e 7-quater del d.lgs. n. 163 del 12.04.2006 possono essere riconosciuti ed erogati in favore delle figure professionali interne esplicitamente individuate dalla norma che svolgano le attività tecniche ivi previste, anche in presenza di progettazione affidata non integralmente a soggetti estranei ai ruoli della stazione appaltante e dagli stessi realizzata”.
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La Sezione è chiamata ad esprimere il proprio avviso in merito alle questioni di massima sollevate, ai sensi dell’art. 6, comma 4, del d.l. n. 174/2012, dalle Sezioni regionali di controllo per l’Abruzzo con deliberazione 22.12.2015 n. 358 e per il Veneto con deliberazione 04.03.2016 n. 123, tutte incentrate sull’interpretazione dell’articolo 93, commi 7-ter e seguenti del d.lgs. 163/2006, come introdotti dagli articoli 13 e 13-bis, del d.l. 24.06.2014, n. 90 convertito con modificazioni dalla legge 11.08.2014, n. 114.
Pertanto, le questioni sono riunite e formano oggetto della presente deliberazione.
Esse sono articolate nei seguenti termini:
1. “Se sia possibile riconoscere l’incentivo di cui all’art. 93 d.lgs. n. 163/2006 in favore del Responsabile unico del procedimento, anche nell’ipotesi in cui tutte le attività che la legge individua come incentivabili, sia di progettazione sia di direzione dei lavori, sia di collaudo, siano state svolte all’esterno dell’Ente da professionisti all’uopo incaricati”;
2. “Se la nozione di "collaboratori" di cui al comma 7-ter, dell'art. 93, del d.lgs. n. 163/2006 faccia riferimento solamente ai collaboratori con professionalità tecnica, ovvero possa essere estesa anche al personale addetto alle altre attività amministrative connesse comunque alla realizzazione dei lavori, quali, a titolo esemplificativo, le procedure di espropriazione, di accatastamento e frazionamento, le procedure di appalto dei lavori, di predisposizione dei contratti di appalto, la stesura degli atti di gara e di provvedimenti amministrativi afferenti ai lavori”;
3. “Se gli incentivi previsti e disciplinati dai commi 7-bis, 7-ter e 7-quater del d.lgs. n. 163 del 12.04.2006 possano essere riconosciuti ed erogati al personale indicato dal comma 7-ter anche nel caso di progettazione affidata e realizzata da soggetti esterni alla stazione appaltante”.
Le predette questioni sono state sollevate in ragione del contrasto interpretativo emerso nell’ambito dell’attività consultiva svolta ex art.7, comma 8, della legge 05.06.2003, n. 131, dalle Sezioni regionali di controllo, come ampiamente ricostruito nella parte in fatto, in vista della definizione di un indirizzo interpretativo univoco, al quale debbono conformarsi le Sezioni remittenti e le altre Sezioni regionali di controllo.
1. Ai fini del corretto inquadramento della tematica, si rende necessario un breve excursus normativo, che prende le mosse dall’art. 13, del d.l. 24.06.2014, n. 90, conv. in l. n. 114/2014, con il quale sono stati abrogati i commi 5 e 6 dell’art. 92.
Il successivo articolo 13-bis, rubricato “Fondi per la progettazione e l'innovazione”, ha aggiunto all’art. 93, del d.lgs. n. 163/2006, una serie di commi fra cui il comma 7-bis, che,
nell’istituire un apposito fondo per la progettazione e l’innovazione, demanda ad un regolamento dell’ente la determinazione della percentuale effettiva delle risorse (non superiori al 2 per cento degli importi posti a base di gara di un’opera o di un lavoro) da destinare alle predette finalità.
Le risorse così determinate possono essere devolute, in forza di quanto disposto dal successivo comma 7-ter, per l’80 per cento ai compensi incentivanti da suddividere tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori. Il restante 20 per cento è destinato, dal comma 7-quater all’acquisto da parte dell’ente di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di innovazione, di implementazione di banche dati per il controllo ed il miglioramento della capacità di spesa per centri di costo nonché all’ammodernamento ed all’accrescimento dell’efficienza dell’ente e dei servizi ai cittadini.
Il secondo periodo del comma 7-ter dell’articolo 93 d.lgs. n. 163/2006 demanda al potere regolamentare di ciascun ente la definizione dei “criteri di riparto delle risorse del fondo, tenendo conto delle responsabilità connesse alle specifiche prestazioni da svolgere, con particolare riferimento a quelle effettivamente assunte e non rientranti nella qualifica funzionale ricoperta, della complessità delle opere, escludendo le attività manutentive, e dell’effettivo rispetto, in fase di realizzazione dell’opera, dei tempi e dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo”.
Tale regolamento, nel quale trova necessario presupposto l’erogazione degli emolumenti in questione, ha rappresentato da sempre un passaggio fondamentale per la regolazione interna della materia, nel rispetto dei principi e canoni stabiliti dalla legge, e per tale motivo gli enti sono tenuti ad adeguarlo tempestivamente alle novità normative medio tempore intervenute.
Analogo adempimento, pertanto (previa definizione dei nuovi criteri in sede di contrattazione decentrata integrativa), si renderà necessario anche a seguito dell’entrata in vigore del nuovo Codice dei contratti pubblici, approvato con decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, in attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26.02.2014.
In linea con quanto previsto dai criteri di delega (art. 1, comma 1, lett. rr) contenuti nella legge 28.01.2016, n. 11, la nuova normativa, sostitutiva della precedente, abolisce gli incentivi alla progettazione previsti dal previgente art. 93, comma 7-ter ed introduce, all’art. 113, nuove forme di “incentivazione per funzioni tecniche”. Disposizione, quest’ultima, rinvenibile al Tit. IV del d.lgs. n. 50/2016 rubricato “Esecuzione”, che
disciplina gli incentivi per funzioni tecniche svolte da dipendenti esclusivamente per le attività di programmazione della spesa per investimenti e per la verifica preventiva dei progetti e, più in generale, per le attività tecnico-burocratiche, prima non incentivate, tese ad assicurare l’efficacia della spesa e la realizzazione corretta dell’opera.
Queste nuove disposizioni, tuttavia, sulla base dell’articolata disciplina transitoria contenuta negli articoli 216 e 217, troveranno applicazione per le sole attività poste in essere successivamente alla data di entrata in vigore, ossia il 19.04.2016.
Non risultando applicabili ratione temporis le disposizioni appena richiamate, è evidente che le questioni all’odierno esame dovranno essere risolte sulla base del previgente regime normativo, ossia dell’art. 93 del d.lgs. n. 163/2006 come modificato dal dl n. 90/2014, in costanza del quale sono state poste in essere le attività in ipotesi incentivabili.
Delineato il quadro normativo di riferimento, non appare secondario osservare che il legislatore, con l’art. 93, commi 7-bis e seguenti, ha modificato profondamente la disciplina dell’istituto degli incentivi alla progettazione, ridefinendone l’ambito di operatività sotto il profilo soggettivo,
limitandolo alle figure professionali espressamente individuate dalle norme (responsabile del procedimento ed incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori e del collaudo e loro “collaboratori”) con esclusione di quelle aventi qualifica dirigenziale che, come già in diverse occasioni precisato anche da questa Sezione (cfr. da ultimo deliberazione 23.03.2016 n. 10), sono state espunte dall’applicazione del fondo per la progettazione in forza dell’art. 7-ter (ultimo periodo).
Inoltre,
la corresponsione dell’incentivo, in ossequio al principio di effettività, sancito dall’art. 7, comma 5, del d.lgs. n. 165/2001, è prevista a vantaggio esclusivo dei soggetti che abbiano effettivamente svolto prestazioni incentivabili non rientranti nelle competenze della “qualifica funzionale ricoperta”, al fine di riconoscere, come già evidenziato nella sopra citata deliberazione 23.03.2016 n. 10, un differenziale retributivo connesso al maggior carico di lavoro e di responsabilità assunto dai dipendenti coinvolti, nei limiti indicati dalla norma, nell’attività di progettazione.
Sotto il profilo oggettivo, la novità rilevante della disciplina introdotta dal d.l. n. 90/2014 è rappresentata dal fatto che
le risorse non sono più assegnate in riferimento alla singola opera, in quanto non vi è più lo stretto collegamento, prima esistente, fra opera e compenso, tale da determinare una corrispondenza diretta fra attività svolta e diritto alla percezione dell’incentivo, ma esse confluiscono in un fondo, denominato, ai sensi del comma 7-bis, per la progettazione e l’innovazione. In tal modo, viene meno la sinallagmaticità della prestazione oggetto di incentivazione, che caratterizza, invece, l’affidamento dell’incarico a professionisti esterni all’amministrazione, nei limiti ed alle condizioni di cui al citato art. 90, comma 6, del citato d.lgs. n. 163/2006.
Premesso quanto sopra, è utile ricordare che,
almeno nel regime antecedente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 163/2006, l’orientamento interpretativo prevalente, anche per via della formulazione originaria dell’articolo 18 della legge n. 109/1994 (c.d. legge “Merloni”), poneva in stretto collegamento l’erogazione degli incentivi in questione con il necessario svolgimento, all’interno dell’ente, dell’attività di progettazione.
La successiva evoluzione normativa, tuttavia, sembra aver superato questa impostazione, posto che l’art. 93, comma 7-ter, ha previsto che le quote del fondo incentivante corrispondenti a prestazioni non svolte dai dipendenti, ma affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione, costituiscono necessariamente economie di spesa.
Dall’analisi della richiamata disposizione, sembra potersi evincere che l’attività del RUP, ove svolta tramite personale dipendente –come previsto dall’art. 9, del D.P.R. n. 207/2010– sia incentivabile a prescindere dallo svolgimento o meno all’interno dell’ente dell’intera attività di progettazione e delle restanti attività contemplate.
Le rilevanti funzioni intestate al responsabile unico nell’ambito della gestione delle varie fasi procedimentali, del contraddittorio con le parti private e del coordinamento con gli uffici interni ed esterni, rimangono, infatti, sostanzialmente invariate, al pari delle correlate responsabilità, anche nell’ipotesi di esternalizzazione delle altre attività previste dall’art. 93 del d.lgs. 163/2006, in cui permane, comunque, l’obbligo dell’amministrazione di dotarsi di tale figura nell’ambito del proprio organico.
Come già osservato da una parte della giurisprudenza contabile (Sez. contr. Lombardia,
parere 01.10.2014 n. 247; Sez. contr. Piemonte, parere 20.01.2015 n. 17), la normativa vigente non richiede, ai fini della legittima erogazione dell’incentivo, il necessario espletamento interno di tutta l’attività progettuale quanto, semmai, una previsione regolamentare che ripartisca gli incentivi in maniera conforme alle responsabilità attribuite e devolva in economia la quota relativa agli incarichi conferiti a professionisti esterni.
Dalla sintetica ricostruzione normativa proposta, appare chiaro come le disposizioni, introdotte dal d.l. n. 90/2014 e dalla relativa legge di conversione, mirassero fra l’altro ad un obiettivo di razionalizzazione e di contenimento della spesa, anche attraverso la subordinazione dell’erogazione dell’incentivo al rispetto di alcuni parametri collegati ai tempi ed ai costi previsti inizialmente nel quadro economico del progetto esecutivo dell’opera, il cui mancato rispetto, ai sensi della predetta disciplina, può dar luogo anche alla riduzione delle risorse destinate al fondo per la progettazione e l’innovazione.
2. La seconda questione sollevata dalla Sezione regionale di controllo per l’Abruzzo, è volta, come si è detto, ad accertare se la nozione di “collaboratori”, prevista dal comma 7-ter dell’art. 93 del d.lgs. n. 163/2006, faccia riferimento solamente a quelli con professionalità tecnica, ovvero possa essere estesa anche al personale addetto ad altre attività amministrative, comunque connesse alla realizzazione dei lavori. A titolo esemplificativo, sono state in precedenza citate le procedure di esproprio, le attività relative agli accatastamenti e ai frazionamenti, le procedure di gara, ovvero di predisposizione dei contratti di appalto e di provvedimenti afferenti ai lavori.
A questo riguardo, deve preliminarmente osservarsi che
la nozione di “collaboratore”, almeno in astratto, è priva di un’autonoma portata qualificatrice, in quanto assume connotazioni di volta in volta mutevoli a seconda dell‘attività incentivata cui accede.
Ed invero,
se la progettazione, la direzione dei lavori e il collaudo sembrano far riferimento ad attività di natura prevalentemente tecnica, non altrettanto può dirsi con riferimento all’attività del Responsabile del procedimento, in considerazione della molteplicità -ed eterogeneità- delle funzioni che quest’ultimo è chiamato ex lege (articoli 9 e 10 DPR n. 207/2010) a svolgere.
I collaboratori di quest’ultimo, pertanto, si ritiene che possano essere in possesso anche di profili professionali non tecnici, purché necessari ai compiti da svolgere, e sempre che il regolamento interno all’ente ripartisca gli incentivi in modo razionale, equilibrato e proporzionato alle responsabilità attribuite.
Muovendo da questo presupposto,
l’accezione di “collaboratore”, ai fini della ripartizione degli incentivi, non può essere aprioristicamente delimitata in relazione al bagaglio professionale –tecnico od amministrativo– posseduto, ma deve necessariamente porsi in stretta correlazione funzionale e teleologica rispetto alle attività da compiere.
In questo senso, particolare rilevanza assume, nel caso del RUP, il provvedimento di istituzione, ai sensi dell’art. 10 del DPR n. 207/2010, dell’ufficio di supporto, che, in relazione alle peculiarità dell’opera da eseguire, individua le figure professionali all’uopo necessarie, al fine di realizzare l’opera a regola d’arte e nel rispetto dei tempi e dei costi preventivati.
La regolamentazione interna degli enti, cui è demandata la disciplina attuativa, dovrà correttamente delimitare la portata definitoria del termine “collaboratori”, evitando uno sproporzionato ampliamento, in sede di corresponsione dell’incentivo, della platea dei beneficiari, che, magari ispirata a finalità perequative del trattamento economico accessorio, risulterebbe poco coerente con le reali necessità funzionali e, più in generale, con la logica di sistema.
3. La terza questione sollevata dalla Sezione regionale di controllo per il Veneto relativa alla possibilità di riconoscere gli incentivi al personale di cui al comma 7-ter, anche nel caso di progettazione affidata a soggetti esterni alla stazione appaltante e dagli stessi realizzata.
A questo riguardo, sulla base della ricostruzione effettuata in precedenza, è possibile ritenere che l’erogazione dell’incentivo alla progettazione alle figure professionali tassativamente elencate (responsabile del procedimento, incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, e loro collaboratori) non presupponga il necessario espletamento all’interno dell’intera attività di progettazione. Ciò purché le figure professionali destinatarie degli incentivi, ripartiti in maniera conforme alle responsabilità loro attribuite, siano solo quelle elencate dal legislatore e le quote relative ai segmenti di attività svolte da professionisti esterni siano devolute in economia.
Nel rispetto dei limiti quantitativi stabiliti dal menzionato comma 7-ter è demandata a ciascun ente la prudente definizione dei criteri di riparto delle risorse del fondo, tenendo conto delle responsabilità connesse alle specifiche prestazioni da svolgere, (con particolare riferimento a quelle effettivamente assunte e non rientranti nella “qualifica funzionale” ricoperta), della complessità delle opere (di carattere non manutentivo cfr. deliberazione 23.03.2016 n. 10) e dell’effettivo rispetto, in fase di realizzazione dell’opera, dei tempi e dei costi preventivati, con conseguente riduzione proporzionale delle risorse incentivanti in caso di mancato rispetto.
In questa prospettiva, le amministrazioni sono, comunque, tenute a prevedere nei propri regolamenti, in modo analitico, una gradazione delle percentuali spettanti per ogni incarico espletabile dal sopraindicato personale sulla base dei criteri di proporzionalità, logicità, congruenza e ragionevolezza, e, in ogni caso, in maniera tale da permettere, nel caso in cui alcune prestazioni siano state affidate a professionisti esterni, una partecipazione delle altre figure professionali interne percentualmente contenuta, che non svilisca la finalità di contenimento della spesa perseguita dalle disposizioni in commento.
A questo riguardo, deve evidenziarsi che, pur nell’evoluzione normativa dinanzi analizzata, non sembra essere venuto meno il favor legislatoris per l’affidamento di tali attività alle professionalità interne alla stessa amministrazione, in un’ottica di valorizzazione delle figure professionali in servizio e, al contempo, di risparmio.
Tali obiettivi, tuttavia, vanno conseguiti evitando eventuali aggravi di spesa derivanti non solo dal mancato rispetto di tempi e costi preventivati, ma anche da un’esecuzione dell’opera non a regola d’arte o non in linea con gli standard qualitativi previsti nel progetto approvato.
Conclusivamente, appare doveroso sottolineare che la soluzione delle questioni poste non può che rimanere definita in un ambito di stretto principio, non potendo la Corte in questa sede addentrarsi in aspetti di dettaglio della disciplina, che attengono, come sopra precisato, alla potestà regolamentare riconosciuta in capo agli enti locali. Ciò anche in considerazione di quanto precisato nella delibera n. 3/2014/QMIG in merito al fatto che “ausilio consultivo per quanto possibile deve essere reso senza che esso costituisca un’interferenza con le funzioni requirenti e giurisdizionali e ponendo attenzione ad evitare che di fatto si traduca in un’intrusione nei processi decisionali degli enti territoriali”.
P.Q.M.
La Sezione delle autonomie della Corte dei conti, riunite le questioni di massima rimesse dalle Sezioni regionali di controllo per l’Abruzzo e per il Veneto con la deliberazione 22.12.2015 n. 358 e deliberazione 04.03.2016 n. 123, pronuncia i seguenti principi di diritto:
Il riconoscimento dell’incentivo alla progettazione di cui all’art. 93, comma 7-ter, del d.lgs. n. 163/2006 in favore del responsabile unico del procedimento non presuppone necessariamente che l’intera attività di progettazione sia svolta all’interno dell’ente”.
La nozione di “collaboratori” di cui al comma 7-ter dell’art. 93 del d.lgs. n. 163/2006 fa riferimento alle professionalità –di norma tecniche- all’uopo individuate in sede di costituzione dell’apposito staff, le quali devono porsi in stretta correlazione funzionale e teleologica rispetto alle attività da compiere per la realizzazione dell’opera a regola d’arte e nei termini preventivati.”
Gli incentivi previsti e disciplinati dai commi 7-bis, 7-ter e 7-quater del d.lgs. n. 163 del 12.04.2006 possono essere riconosciuti ed erogati in favore delle figure professionali interne esplicitamente individuate dalla norma che svolgano le attività tecniche ivi previste, anche in presenza di progettazione affidata non integralmente a soggetti estranei ai ruoli della stazione appaltante e dagli stessi realizzata” (Corte di Conti, Sez. Autonomie, deliberazione 13.05.2016 n. 18).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATAQualora non sia rispettato il termine di 90 giorni stabilito dall’art. 167, comma 5, del Codice per il paesaggio, il potere dell’Amministrazione continua a sussistere (tanto che un suo parere tardivo resta comunque disciplinato dal medesimo comma 5), ma l’interessato può proporre ricorso al giudice amministrativo, per contestare l’illegittimo silenzio-inadempimento dell’organo statale: la perentorietà del termine riguarda non la sussistenza del potere, ma l’obbligo di concludere la fase del procedimento (obbligo che, se rimasto inadempiuto, può essere dichiarato sussistente dal giudice, con le relative conseguenze sulle spese del giudizio derivato dall’inerzia del funzionario).
Infatti, nel caso di superamento del medesimo termine (e così come avviene nel caso di superamento del termine di centottanta giorni, fissato dal medesimo art. 167, comma 5, per la conclusione del procedimento, nonché nel caso di superamento di quello di quarantacinque giorni, fissato dall’art. 146, comma 5), il Codice non ha determinato né la perdita del relativo potere, né alcuna ipotesi di silenzio qualificato o significativo.
Pertanto, il superamento del sopra richiamato termine di novanta giorni:
- consente all’interessato di proporre il ricorso previsto dall’art. 117 del codice del processo amministrativo (così come in linea di principio ha ritenuto la sentenza di primo grado);
- non rende illegittimo in quanto tale il parere tardivo;
- comporta che comunque il provvedimento conclusivo del procedimento deve attenersi al parere vincolante, sia pure emesso dopo il superamento del termine fissato dal richiamato art. 167, comma 5.

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Condivide, infatti, la Sezione i principi affermati dal primo giudice che richiamano la giurisprudenza della Sesta Sezione del Consiglio di Stato.
L’art. 167 del d.lgs. n 42 del 2004, al comma 5, dispone che “il proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell’immobile o dell’area interessati dagli interventi di cui al comma 4 presenta apposita domanda all’autorità preposta alla gestione del vicolo ai fini dell’accertamento della compatibilità paesaggistica degli interventi medesimi. L’autorità competente si pronuncia sulla domanda entro il termine perentorio di centottanta giorni, previo parere vincolante della Soprintendenza da rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni […]”.
Ritiene innanzitutto il Collegio che, qualora non sia rispettato il termine di novanta giorni stabilito dall’art. 167, comma 5, del Codice per il paesaggio, il potere dell’Amministrazione continua a sussistere (tanto che un suo parere tardivo resta comunque disciplinato dal medesimo comma 5), ma l’interessato può proporre ricorso al giudice amministrativo, per contestare l’illegittimo silenzio-inadempimento dell’organo statale: la perentorietà del termine riguarda non la sussistenza del potere, ma l’obbligo di concludere la fase del procedimento (obbligo che, se rimasto inadempiuto, può essere dichiarato sussistente dal giudice, con le relative conseguenze sulle spese del giudizio derivato dall’inerzia del funzionario).
Infatti, nel caso di superamento del medesimo termine (e così come avviene nel caso di superamento del termine di centottanta giorni, fissato dal medesimo art. 167, comma 5, per la conclusione del procedimento, nonché nel caso di superamento di quello di quarantacinque giorni, fissato dall’art. 146, comma 5), il Codice non ha determinato né la perdita del relativo potere, né alcuna ipotesi di silenzio qualificato o significativo.
Pertanto, il superamento del sopra richiamato termine di novanta giorni:
- consente all’interessato di proporre il ricorso previsto dall’art. 117 del codice del processo amministrativo (così come in linea di principio ha ritenuto la sentenza di primo grado);
- non rende illegittimo in quanto tale il parere tardivo;
- comporta che comunque il provvedimento conclusivo del procedimento deve attenersi al parere vincolante, sia pure emesso dopo il superamento del termine fissato dal richiamato art. 167, comma 5 (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 18.09.2013, n. 4656)
(Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 26.04.2016 n. 1613 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAI box prefabbricati sono riconducibili alla nozione di “volume tecnico” trattandosi di opere prive di una qualsivoglia autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché destinata a solo contenere, senza possibilità di alternative e comunque per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali della medesima: come tali non generano alcun aumento di carico territoriale o di impatto visivo.
La realizzazione di questi piccoli box non costituisce quindi elemento ostativo al rilascio dell’autorizzazione paesistica postuma.

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6. - Con il quarto motivo di appello l’appellante ha reiterato le censure assorbite del primo giudice.
6.1 - Ha quindi riproposto la censura di violazione dell’art. 167, comma 4, lett. a), del D.Lgs. 42/2004, sottolineando come l’accertamento di compatibilità paesaggistica postuma sia possibile “per i lavori realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati”, rilevando che nel caso di specie, invece, vi sarebbe stata la realizzazione di volumi consistenti in box prefabbricati.
6.2 - La censura è infondata.
Occorre preventivamente rilevare che i box prefabbricati sono riconducibili alla nozione di “volume tecnico” trattandosi di opere prive di una qualsivoglia autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché destinata a solo contenere, senza possibilità di alternative e comunque per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali della medesima: come tali non generano alcun aumento di carico territoriale o di impatto visivo (cfr. Cons. Stato Sez. VI, Sent., 31/03/2014, n. 1512).
La realizzazione di questi piccoli box non costituisce quindi elemento ostativo al rilascio dell’autorizzazione paesistica postuma
(Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 26.04.2016 n. 1613 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATADal mancato rispetto del termine previsto dall’art. 167, comma 5, d.lgs. 42/2004 per il rilascio del parere obbligatorio e vincolante non matura alcuna decadenza del potere della Soprintendenza.
S’è convincentemente affermato che la perentorietà del termine non riguarda affatto la sussistenza del potere bensì l’obbligo di concludere la fase del procedimento.
A corollario: il parere tardivo non è ex se illegittimo tant’è che il provvedimento conclusivo del procedimento deve comunque attenersi al parere ancorché emesso dopo che è spirato il termine di cui al 5° comma dell’art. 167 d.lgs. cit.

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Costituisce orientamento giurisprudenziale, da cui non sussistono giustificati motivi per qui discostarsi, che dal mancato rispetto del termine, previsto dall’art. 167, comma 5, d.lgs. 42 del 2004 per il rilascio del parere, non maturi alcuna decadenza del potere della Soprintendenza.
S’è convincentemente affermato che la perentorietà del termine non riguarda affatto la sussistenza del potere bensì l’obbligo di concludere la fase del procedimento.
A corollario: il parere tardivo non è ex se illegittimo tant’è che il provvedimento conclusivo del procedimento deve comunque attenersi al parere ancorché emesso dopo che è spirato il termine di cui al 5° comma dell’art. 167 d.lgs. cit. (cfr, ex multis, Cons. St., sez. VI, 18.09.2013 n. 4656; Tar Puglia, Lecce, sez. I, 12.07.2013 n. 1681) (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 05.05.2014 n. 695 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

APPALTI: Oggetto: Nuovo Codice dei contratti pubblici – Analisi ANCE delle novità di rilievo (ANCE di Bergamo, circolare 06.05.2016 n. 112).

INCARICHI PROGETTUALI: Oggetto: Formazione - Linee di indirizzo n. 4 (Consiglio Nazionale degli Ingegneri, circolare 29.04.2016 n. 722).

PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: OGGETTO: riconoscimento diritti di rogito al vice segretario (MEF-RGS, nota 25.03.2016 n. 26297 di prot.).

EDILIZIA PRIVATAOggetto: Chiarimenti sulle procedure di deroga (Ministero dell'Interno, Dipartimento dei Vigili del Fuoco, nota 16.03.2016 n. 3272 di prot.).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 19 del 12.05.2016, "POR FESR 2014-20: Asse IV, Azione IV.4.C.1.1 – Fondo regionale per l’efficienza energetica (FREE): bando per la concessione di agevolazioni finalizzate alla ristrutturazione energetica degli edifici pubblici" (deliberazione G.R. 09.05.2016 n. 5146).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 19 del 09.05.2016, "Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale 21.01.2000, n. 1, dei nominativi e degli estremi dei provvedimenti di riconoscimento di Tecnico Competente in Acustica Ambientale alla data del 30.04.2016, in attuazione dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato regionale 03.05.2016 n. 74).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 18 del 06.05.2016, "Approvazione degli strumenti attuativi del programma regionale di gestione dei rifiuti – Linee guida per la stesura di regolamenti comunali di gestione dei rifiuti urbani e assimilazione rifiuti speciali" (deliberazione G.R. 29.04.2016 n. 5105).

ENTI LOCALI - VARI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 18 del 06.05.2016, "Approvazione del bando per la diffusione dei sistemi di accumulo di energia elettrica da impianti fotovoltaici in attuazione della d.g.r. n. 4769 del 28.01.2016" (decreto D.U.O. 03.05.2016 n. 3821).

ENTI LOCALI - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 18 del 03.05.2016, "Disposizioni in materia di commercio su aree pubbliche. Modifiche alla legge regionale 2 febbraio 2010, n. 6 (Testo unico delle leggi regionali in materia di commercio e fiere)" (L.R. 29.04.2016 n. 10).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 18 del 03.05.2016, "Legge regionale 25.03.2016 - n. 7: «Modifiche alla legge regionale 09.12.2008, n. 31 (Testo unico delle leggi regionali in materia di agricoltura, foreste, pesca e sviluppo rurale) e alla legge regionale 16.08.1993, n. 26 (Norme per la protezione della fauna selvatica e per la tutela dell’equilibrio ambientale e disciplina dell’attività venatoria) conseguenti alle disposizioni della legge regionale 08.07.2015, n. 19 e della legge regionale 12.10.2015, n. 32 e contestuali modifiche agli articoli 2 e 5 della l.r. 19/2015 e all’articolo 3 della l.r. 32/2015» pubblicata sul BURL suppl. n. 13 del 29.03.2016" (avviso di rettifica).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: F. Grazziotto, IL GIUDICE PENALE PUÒ ORDINARE LA DEMOLIZIONE DI OPERE ILLEGITTIME ANCHE SENZA CONDANNA.
Il giudice penale può ordinare la demolizione di opere illegittime anche senza condanna. Nei casi in cui il reato si prescrive, il giudice penale deve dichiarare estinto il reato, ma può disporre la demolizione o la confisca anche in assenza di una condanna penale (13.05.2016 - tratto da www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Consumo di suolo, via libera dalla Camera al disegno di legge per il contenimento e riuso.
I proventi dei titoli abilitativi edilizi e delle sanzioni previste dal testo unico dell’edilizia saranno vincolati alle opere di urbanizzazione, agli interventi di riqualificazione e rigenerazione urbana, alla demolizione dei manufatti abusivi e al verde pubblico (...continua) (12.05.2016 - link a www.casaeclima.com).

APPALTI: Codice Appalti: le novità per il Mercato Elettronico della Pubblica Amministrazione. Gli impatti del nuovo Codice su MePA e Sistema dinamico di acquisizione (12.05.2016 - link a www.casaeclima.com).

LAVORI PUBBLICI: SOA, nuove regole con la Legge europea 2015 e con il nuovo Codice appalti. Eliminato l’obbligo per le Società Organismi di Attestazione di avere la sede legale in Italia (10.05.2016 - link a www.casaeclima.com).

EDILIZIA PRIVATA - VARI: Difetti costruttivi, la responsabilità sussiste se incidono sul godimento dell'immobile. Dall'Ance una rassegna della giurisprudenza di merito (09.05.2016 - link a www.casaeclima.com).

APPALTI: R. De Nictolis, Il nuovo codice dei contratti pubblici (28.04.2016 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Codice dei contratti: contenuti della motivazione nelle procedure negoziate (26.04.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

EDILIZIA PRIVATA: Niente abuso edilizio senza cemento armato o acciaio (26.04.2016 - link a www.laleggepertutti.it).

APPALTI: Sparisce dal codice dei contratti il rinnovo disposto in via autonoma col bando (25.04.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTI: Tipologie di contratti (24.04.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTI SERVIZI: Servizi legali: il nuovo codice dei contratti chiarisce che sono appalti – no intuitu personae (05.03.2016 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

EDILIZIA PRIVATA: Abuso edilizio: la prescrizione e l’ordine di demolizione (16.12.2015 - link a www.laleggepertutti.it).

EDILIZIA PRIVATA: Abuso edilizio: quando si prescrive? (09.07.2015 - link a www.laleggepertutti.it).

A.N.AC. (già AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI)

PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Linee guida aventi ad oggetto il procedimento di accertamento delle inconferibilità e delle incompatibilità degli incarichi amministrativi da parte del responsabile della prevenzione della corruzione. Attività di vigilanza e poteri di accertamento dell’A.N.AC. in caso di incarichi inconferibili e incompatibili (13.05.2016 - link a www.anticorruzione.it).
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Con le linee guida contenute nel documento oggetto di consultazione, l’Autorità intende fornire indicazioni volte a orientare gli RPC nel procedimento di accertamento delle inconferibilità e delle incompatibilità di cui al d.lgs. n. 39/2013.
In particolare viene affrontato il tema dell’attività di verifica del RPC sulle dichiarazioni concernenti la insussistenza di cause di inconferibilità o incompatibilità e dell’attività di vigilanza e poteri di accertamento dell’Anac in caso di incarichi inconferibili e incompatibili.
Al fine di consentire la massima partecipazione all’adozione delle Linee guida, con la consultazione l’Autorità intende acquisire da parte di tutti i soggetti interessati ogni osservazione ed elemento utile per la elaborazione del documento definitivo.
Eventuali contributi potranno essere inviati entro le ore 24.00 del 25.05.2016 mediante compilazione dell’apposito modello.

APPALTI: Oggetto: Indicazioni operative alle stazioni appaltanti e agli operatori economici a seguito dell’entrata in vigore del Codice dei Contratti Pubblici, d.lgs. n. 50 del 18.04.2016 (comunicato del Presidente del 11.05.2016 - link a www.anticorruzione.it).
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Pubblicato il Comunicato del Presidente dell’11.05.2016 con il quale, a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 50/2016, si forniscono chiarimenti in relazione alla normativa da applicare per alcune procedure di affidamento disciplinate dall’abrogato d.lgs. 163/2006, all’operatività di alcune norme introdotte dal d.lgs. 50/2016 e al periodo transitorio relativo al passaggio dal vecchio al nuovo Codice.

APPALTI: Oggetto: Deliberazione n. 157 del 17.02.2016 – Regime transitorio dell’utilizzo del sistema AVCpass (comunicato del Presidente 04.05.2016 - link a www.anticorruzione.it).

APPALTI: Indicazioni sul regime transitorio nel nuovo Codice degli appalti e delle concessioni.
In relazione al regime transitorio del d.lgs. 18.04.2016 n. 50 delineato, in particolare, dagli articoli 216, comma 1 e 220, anche a seguito di numerose richieste di chiarimenti avanzate da Stazioni appaltanti, era stato adottato, congiuntamente al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, il comunicato 22.04.2016 che precisava che il codice doveva ritenersi entrato in vigore il 19 aprile e, quindi, applicabile ai bandi pubblicati a partire da quella data.
Numerose stazioni appaltanti hanno, però, successivamente evidenziato come il Codice fosse stato pubblicato, nella versione on-line della Gazzetta Ufficiale (n. 91) del 19.04.2016, dopo le 22.00 e, quindi, solo da quel momento reso pubblicamente conoscibile.
Nell’esprimersi su tali ulteriori richieste di parere, l’Autorità, sentita anche l’Avvocatura generale dello Stato, ha considerato che tale accertata evenienza imponga, in base al principio generale di cui all’art. 11 delle preleggi al codice civile ed all’esigenza di tutela della buona fede delle stazioni appaltanti, una diversa soluzione equitativa con riferimento ai soli bandi o avvisi pubblicati nella giornata del 19 aprile.
Per essi, in particolare, continua ad operare il pregresso regime giuridico, mentre
le disposizioni del d.lgs. 50/2016 riguarderanno i bandi e gli avvisi pubblicati a decorrere dal 20.04.2016 (03.05.2016 - link a www.anticorruzione.it).

APPALTIAlmeno due offerte a confronto. Comparazione su affidamenti diretti fino a 40 mila. APPALTI/ L'Anac ha reso disponibili le linee guida sull'applicazione della riforma.
Affidamenti diretti fino a 40 mila euro ma con almeno due offerte da comparare; corrispettivi per le progettazioni obbligatori; commissari di gara scelti dall'albo Anac anche sopra il milione di euro di euro; fatturati triennali per le gare di servizi tecnici; ripresi i contenuti del dpr 207/2010 per l'aggiudicazione con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa; gli ordini professionali e le università forniranno gli elenchi dei commissari di gara da iscrivere nell'albo Anac.
Sono queste alcune delle indicazioni fornite dall'Autorità nazionale anticorruzione con le sette linee guida emesse dall'Autorità nazionale anticorruzione (pubblicate il 28.04.2016) e concernenti la disciplina del direttore dei lavori e del direttore dell'esecuzione (accorpate in un solo documento), del responsabile unico del procedimento, dei contratti sotto soglia Ue, dell'offerta economicamente più vantaggiosa; dei criteri di scelta dei commissari di gara e di iscrizione degli esperti nell'Albo nazionale obbligatorio dei componenti delle commissioni giudicatrici, nonché dei servizi di ingegneria e architettura.
Osservazioni, formulazioni alternative o integrative delle bozze, potranno essere inviate fino al 16.05.2016 mediante compilazione di un apposito modello messo a disposizione sul sito Anac.
Va precisato che ancora non è del tutto chiaro il grado di vincolatività di queste linee guida, visto che solo per due dei sette documenti (direttore dei lavori e direttore dell'esecuzione) si parla di adozione con decreto ministeriale. Per le altre linee guida si tratterebbe di atti che è l'Anac a emanare direttamente, ai sensi dell'art. 213, comma 2, e che sembrano quindi avere carattere di mero indirizzo per le stazioni appaltanti.
Per la disciplina dei contratti sotto soglia Ue, l'Anac precisa, fra le diverse cose, che «in ragione del richiamo al principio di trasparenza e di pubblicità, la determina a contrarre (che contiene anche i criteri di selezione degli invitati) è pubblicata anche nelle procedure negoziate di importo inferiore alla soglia di rilevanza europea». Viene inoltre chiarito come debba essere applicato il criterio della rotazione: bisognerà «favorire la distribuzione temporale delle opportunità di aggiudicazione tra tutti gli operatori potenzialmente idonei, evitando il consolidarsi di rapporti esclusivi con determinati operatori economici».
Per gli affidamenti diretti (fino a 40 mila) si suggerisce di acquisire almeno due offerte. Per i lavori fino a un milione con invito a dieci imprese si sottolinea come sia «tanto più necessaria l'individuazione di meccanismi idonei a garantire la trasparenza della procedura e la parità di trattamento degli operatori economici».
Per i servizi tecnici, dopo aver chiarito che il dm 143/2013 (sui parametri per quantificare le parcelle) è obbligatorio per le stazioni appaltanti, l'Anac riprende la maggior parte dei contenuti della determina 4/2015, ma con alcune differenze sui requisiti: il fatturato deve essere richiesto sui tre anni (non più 5) e non potrà superare il doppio dell'appalto; l'organico medio annuo (per le sole società) sarà richiesto su tre anni, ma al massimo potrà essere quantificato in due (e non più tre) volte le unità stimate.
Potranno essere nominati commissari di gara (l'Anac suggerisce commissari esterni anche fra 1 e 5,2 milioni di lavori) i professionisti abilitati da almeno cinque anni (o dieci anni per le grandi committenze), i dipendenti delle amministrazioni (almeno funzionari o dirigenti con 5 anni di esperienza) e i professori universitari sempre con 5 anni di esperienza nella materia specifica.
Le linee guida, «al fine di evitare un onere amministrativo elevato per l'Autorità» demandano a ordini professionali e a università il compito di comunicare l'elenco dei candidati idonei all'iscrizione all'albo che deve gestire l'Anac. Sull'offerta economicamente più vantaggiosa vengono riprodotti metodi ci attribuzione di punteggi e allegati del vecchio regolamento del codice del 2006 (articolo ItaliaOggi del 30.04.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIAppalti, ecco le linee guida Anac. Indicazioni su commissari di gara, progettazione e procedure informali.
Non si è fatta attendere la bussola dell’Anticorruzione sull’applicazione del nuovo codice degli appalti. A dieci giorni esatti dall’entrata in vigore del decreto che ha mandato in pensione il vecchio testo unico, arrivano le prime indicazioni dell’Anac.
Si parte dagli aspetti giudicati più urgenti per consentire al mercato di funzionare in maniera corretta, con sette linee guida in totale: procedura negoziata, commissioni giudicatrici, direzione dei lavori e dell’esecuzione, offerta economicamente più vantaggiosa, servizi di progettazione e responsabile unico del procedimento. Altre ne arriveranno nelle prossime settimane, aggiungendo un tassello per volta al puzzle della regolazione leggera dell’Authority.
I sette documenti sono stati approvati dal Consiglio dell’Autorità e saranno posti subito in consultazione, per consentire a imprese e pubbliche amministrazioni di valutare il loro impatto. Alcuni saranno recepiti con decreto del Mit, altri diventeranno determinazioni dell’Anticorruzione. Per tutti c’è un denominatore comune: la volontà di incidere con decisione sull’applicazione del Dlgs n. 50/2016. In alcuni punti, addirittura, l’Anac forza l’interpretazione, tentando di fare luce su diversi passaggi che, se applicati in maniera scorretta, rischierebbero di mancare gli obiettivi della riforma, mettendo in ombra quote rilevanti del mercato. Senza dimenticare la necessità di ammorbidire i molti spigoli creati da una fase transitoria troppo brusca, come dimostra il caos relativo ai bandi pubblicati a cavallo dell’entrata in vigore del Dlgs 50/2016.
Basta l’esempio delle commissioni giudicatrici per capire la logica con cui si è mossa l’Autorità. Cantone non ha mai nascosto la delusione rispetto alla scelta di limitare agli appalti di maggiore importo (sopra la soglia Ue di 5,2 milioni per i lavori) l’obbligo di servirsi di commissari di gara indipendenti scelti, a sorteggio, da un albo gestito proprio dall’Anac. Con le linee guida si tenta di correggere questa impostazione. Con due indicazioni importanti. La prima è che il presidente della commissione deve sempre essere scelto tra i commissari esterni. La seconda è invece un’indicazione di opportunità che “sconsiglia” le amministrazioni dal servirsi di commissari interni per gli appalti di valore superiore al milione. Indicazioni arrivano poi per la composizione degli elenchi (da realizzare con il filtro di ordini e università) e sui requisiti necessari a candidarsi come commissario.
Improntate al criterio di elevare al massimo l’asticella della trasparenza sono anche le indicazioni contenute nel capitolo dedicato agli appalti sotto la soglia europea. In particolare quelli di importo inferiore al milione, per cui anche il nuovo codice ha confermato la possibilità di assegnazioni senza una gara formale, a valle di preventivi chiesti alle imprese sulla base di una semplice base di mercato. Anche per i micro appalti, sotto i 40mila euro, per cui è possibile l’incarico diretto, le linee guida chiedono di passare perlomeno dall’esame di due preventivi, motivando le scelte.
Per gli appalti oltre questa soglia e fino a un milione arrivano poi paletti sullo svolgimento delle indagini di mercato, sul contenuto degli avvisi da pubblicare per un tempo minimo di 15 giorni sul sito dell’amministrazione. Specifiche precise sono previste anche sul contenuto degli inviti. «Considerata l’ampiezza del limite della soglia fino a un milione di euro», l’obiettivo è limitare i «rischi insiti nella possibilità di affidare tramite procedura negoziata una porzione ragguardevole dell’intero mercato».
Passando ai servizi di progettazione, qui viene chiarita la questione del cosiddetto “decreto parametri”, il provvedimento che fissa gli importi da porre a base di questo tipo di gare. Anche se il codice parla di una mera facoltà, le linee guida vanno in direzione opposta e ribadiscono «l’obbligo per le stazioni appaltanti di determinare i corrispettivi per i servizi di ingegneria e architettura applicando rigorosamente le aliquote di cui al Dm 143/2013». Ma non solo. L’altro punto molto rilevante riguarda la qualificazione per le gare sopra la soglia di 100mila euro. Qui si dice che il fatturato globale per servizi di ingegneria e di architettura espletati negli ultimi tre esercizi antecedenti la pubblicazione del bando deve essere al «massimo pari al doppio dell’importo a base di gara». Rispetto al passato, quindi, vengono ammorbiditi i requisiti.
Novità di rilievo riguardano anche l’utilizzo dell’offerta economicamente più vantaggiosa. L’Anac apre innanzitutto alla possibilità di inserire tra i criteri di aggiudicazione anche elementi soggettivi, come il possesso di certificazioni di qualità. Possibile poi anche azzerare i punteggi assegnati allo sconto sulla base d’asta, aggiudicando le prestazioni soltanto sulla base degli elementi qualitativi.
Quanto al responsabile unico del procedimento, infine, l’Anac cerca di promuovere una sua maggiore qualificazione. Così, enuncia esplicitamente la volontà di farne un «project manager» della pubblica amministrazione
(articolo Il Sole 24 Ore del 29.04.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIn relazione all'art. 61, comma 9, del DL 25.06.2008 n. 112, convertito con modificazioni dalla Legge 133/2008, sussiste l'obbligo di versare il 50% -del compenso pattuito- all'Ente che autorizza il proprio dipendente ad espletare l'incarico di collaudo in relazione a contratti pubblici di lavori, servizi e forniture o di componente o di segretario di un collegio arbitrale, indipendentemente dalla amministrazione pubblica che conferisce l'incarico ovvero dalla provenienza del finanziamento.
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Il Comune di Mozzecane (VR), con richiesta pervenuta ed acquisita al protocollo n. 3138 del 12.05.2015 di questa Sezione, ha chiesto un parere avente ad oggetto l’interpretazione dell’articolo 61, comma 9, del D.L. 25.06.2008 n. 112, convertito con modificazioni dalle legge 133/2008 formulato nei termini che seguono.
L'art. 61, comma 9, del DL 25.06.2008 n. 112, convertito con modificazioni dalla Legge 133/2008, applicabile anche agli Enti Locali come ribadito dalla Corte dei Conti - Sezioni riunite in sede di controllo con la delibera n. 58/2010, ha introdotto l'obbligo per un dipendente pubblico a cui viene conferito un incarico di collaudo in relazione a contratti pubblici di lavori, servizi e forniture o di componente o di segretario di un collegio arbitrale di versare il 50% del compenso spettante, destinando tale importo al finanziamento del trattamento economico accessorio dei dirigenti. La Corte dei Conti Sezioni delle Autonomie, con delibera n. 12 del 09.03.2015, ha chiarito che, nell'ipotesi in cui il suddetto incarico venga conferito da una Pubblica Amministrazione diversa da quella a cui appartiene il dipendente incaricato che:
• la quota del compenso deve essere versata, a prescindere dalla provenienza del finanziamento, alla Pubblica Amministrazione in cui il dipendente, autorizzato ex art. 53 del D.lgs. 165/2001, presta servizio, al fine di consentire che le relative somme possano confluire nei pertinenti fondi per il finanziamento del trattamento accessorio, in relazione alla qualifica, dirigenziale o meno, rivestita dal dipendente;
• i destinatari della decurtazione sono tutti i dipendenti delle Amministrazioni Pubbliche, di qualifica dirigenziale e non, che, nel rispetto delle limitazioni e dei divieti legislativamente imposti, svolgano una delle predette attività, percependone il relativo compenso.
Il Comune di Mozzecane è un Ente con una popolazione poco superiore a 7000 abitanti, privo di figure dirigenziali, con dipendenti titolari di posizioni organizzative. Il dipendente Responsabile dell'Area tecnica, titolare di posizione organizzativa, è stato autorizzato, ai sensi dell'art. 53 del D.lgs. 165/2001, a svolgere per conto di soggetti privati e di Pubbliche Amministrazioni incarichi retribuiti di collaudo inerenti opere pubbliche o di interesse pubblico. Ai fini della corretta applicazione dell'art. 61 del DL 112/2008, si chiede a codesta spettabile Sezione di Controllo:
- se l'obbligo di versare all'Ente che autorizza il proprio dipendente ad espletare le tipologie di incarico sopra descritte il 50% del compenso pattuito con il dipendente medesimo si applica solo nel caso che a conferire e a remunerare l'incarico sia un'altra Pubblica Amministrazione o trova applicazione anche nell'ipotesi in cui a conferire o a remunerare tale incarico inerente opere pubbliche o di interesse pubblico sia un soggetto diverso da una Pubblica Amministrazione;
- se, negli Enti privi di figure dirigenziali, il compenso versato all'Ente autorizzante deve essere utilizzato per finanziare il trattamento accessorio riconosciuto alle posizioni organizzative (con conseguente risparmio per l'Ente medesimo) o possa essere destinato ad incrementare la parte variabile del fondo produttività di tutto il personale dipendente;
- qualora la quota del compenso possa essere utilizzata per incrementare il fondo produttività, quale sia la corretta classificazione di tali risorse ai sensi dell'art. 15 del CCNL del 01/04/1999;
- se, in considerazione della natura di tale entrata, la quota del suddetto compenso utilizzata per finanziare il trattamento accessorio del personale dipendente dell'Ente deve essere considerata anche ai fini del rispetto del limite di spesa del personale
”.
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In relazione al primo quesito formulato (“se l'obbligo di versare all'Ente che autorizza il proprio dipendente ad espletare le tipologie di incarico sopra descritte il 50% del compenso pattuito con il dipendente medesimo si applica solo nel caso che a conferire e a remunerare l'incarico sia un'altra Pubblica Amministrazione o trova applicazione anche nell'ipotesi in cui a conferire o a remunerare tale incarico inerente opere pubbliche o di interesse pubblico sia un soggetto diverso da una Pubblica Amministrazione”) va richiamata la deliberazione della Sezione delle Autonomie n. 12 del 09.03.2015, la quale ha posto il principio per cui “
la norma contenuta nel comma 9 sembra effettivamente prevedere un ulteriore meccanismo di finanziamento del fondo per il trattamento economico accessorio delle amministrazioni di provenienza del personale incaricato, in cui le risorse in questione possono essere utilizzate secondo modalità stabilite in sede contrattuale” e che “nel caso di incarico conferito a personale di altra amministrazione, la quota di compenso debba essere versata, a prescindere dalla provenienza del finanziamento, all’amministrazione in cui il dipendente presta servizio, e che ha autorizzato l’incarico, affinché le relative somme possano confluire nei pertinenti fondi per il finanziamento del trattamento accessorio, in relazione alla qualifica –dirigenziale o meno– da questo rivestita”.
L’irrilevanza della provenienza della fonte di finanziamento del corrispettivo discende dalla lettura testuale della disposizione: il comma 9 dell’art. 61 del D.L. 112/2008, infatti, prevede l’obbligo di riversamento del 50% del compenso ricevuto in ragione non della natura giuridica (amministrazione pubblica o no) del soggetto in favore del quale l’attività è svolta, ma dell’oggetto di quest’ultima, e cioè “attività di componente o segretario di collegi arbitrali” e “collaudi svolti in relazione a contratti pubblici di lavori, servizi e forniture” (Corte di Conti, Sez. controllo Veneto, parere 04.05.2016 n. 266).

PATRIMONIO: Il contratto di permuta risulta operazione finanziariamente neutra e, conseguentemente, non contemplata dal divieto di cui all’art. 12, comma 1-ter, del D.L. 06.07.2011 n. 98, convertito in legge dall’art. 1, comma 1, della L. 15.07.2011 n. 111, secondo cui: “A decorrere dal 01.01.2014 al fine di pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno, gli enti territoriali e gli enti del Servizio Sanitario nazionale effettuano operazioni di acquisto di immobili solo ove ne siano comprovate documentalmente l’indispensabilità e l’indilazionabilità attestate dal responsabile del procedimento. La congruità del prezzo è attestata dall’Agenzia del demanio, previo rimborso delle spese. Delle predette operazioni è data preventiva notizia, con l’indicazione del soggetto alienante e del prezzo pattuito, nel sito internet istituzionale dell’ente”.
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Con nota del 24.03.2016, pervenuta ed acquisita a protocollo di questa Sezione n. 3860 in data 29.03.2016, il Sindaco del Comune di Concordia Sagittaria (VE) ha richiesto un parere in merito alla applicazione dell’art. 12, comma 1-ter, del D.L. 06.07.2011 n. 98, convertito in legge dall’art. 1, comma 1, della L. 15.07.2011 n. 111, che prevede: “A decorrere dal 01.01.2014 al fine di pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno, gli enti territoriali e gli enti del Servizio Sanitario nazionale effettuano operazioni di acquisto di immobili solo ove ne siano comprovate documentalmente l’indispensabilità e l’indilazionabilità attestate dal responsabile del procedimento. La congruità del prezzo è attestata dall’Agenzia del demanio, previo rimborso delle spese. Delle predette operazioni è data preventiva notizia, con l’indicazione del soggetto alienante e del prezzo pattuito, nel sito internet istituzionale dell’ente”.
In particolare, viene chiesto se la permuta “pura” sia esclusa dal campo di applicazione della norma.
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L’ambito oggettivo di applicazione dell’art. 12, comma 1-ter, del D.L. 98/2011 sopra riportato è stato oggetto di esame da parte delle Sezioni Regionali di controllo della Corte Conti,
il cui indirizzo costante è orientato in ordine all’esclusione da detto ambito della permuta c.d. “pura”, quella, cioè, in cui non vi sono conguagli in denaro.
La non riconducibilità della citata fattispecie alla norma de qua è stata affermata dalla Sezione regionale di controllo per la Lombardia con la pronuncia n. 164 del 2013, nella quale “pur consapevole che la permuta, anche ove non preveda movimenti finanziari, è un contratto commutativo e quindi a titolo oneroso”, la Sezione lombarda, da un lato considerando che “dal punto di vista teleologico, innanzitutto, occorre considerare che la disposizione in commento novella un decreto legge recante "Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria", ed è inserita nell’ambito di una legge di stabilità, la quale, ai sensi dell’art. 11, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196 ”contiene esclusivamente norme tese a realizzare effetti finanziari”" e dall’altro che “
risolvendosi nella mera diversa allocazione delle poste patrimoniali dell’ente afferenti a beni immobili, il contratto di permuta risulta operazione finanziariamente neutra e, conseguentemente, non contemplata dal richiamato divieto”, perviene alla conclusione, anche sulla base di elementi interpretativi letterali (il “soggetto alienante” e “il prezzo pattuito”) che la disposizione non si applichi ai casi di permuta “pura” (orientamento ribadito con le successive deliberazioni n. 97/2014, 299/2014 e 21/2015).
In senso conforme si è pronunciata anche questa Sezione con la delibera n. 280/2013, oltre ad altre Sezioni regionali di controllo (Piemonte, n. 191/2014; Toscana n. 3/2015 tra le altre),
tutte concordi nel ritenere, alla luce della ratio esplicitata nello stesso testo, che la norma si applichi a quei contratti che determinano un onere di spesa a carico dell’ente.
Con riferimento a tale ultimo aspetto la Sezione regionale di controllo per l’Emilia Romagna, con deliberazione n. 80/2015, aderendo all’orientamento consolidato succitato, ha però precisato, coerentemente all’individuata ratio normativa, che “
l’applicabilità della previsione di cui al ripetuto art. 12, comma 1-ter, del D.L. 98/2011 si deve considerare sussistente ogni qualvolta, a seguito dell’acquisizione, l’amministrazione pubblica sia chiamata ad un esborso finanziario, ancorché lo stesso discenda unicamente dalle obbligazioni tributarie che l’atto traslativo comporta” (Corte di Conti, Sez. controllo Veneto, parere 04.05.2016 n. 264).

PATRIMONIOI contratti di locazione passiva in essere e gravanti su Amministrazioni pubbliche vanno comunque soggetti a riduzione del 15% del canone, tenendo presente che per i soli immobili di proprietà privata adibiti a caserme è eventualmente consentito ai Comuni di contribuire al pagamento del canone di locazione come determinato dall'Agenzia delle entrate.
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Con la nota indicata in epigrafe l’Ente ha formulato alla Sezione una richiesta di motivato avviso con cui, dopo aver rappresentato le circostanze di fatto e di diritto relative alla modalità di concessione in locazione di un proprio immobile adibito a locale caserma dei Carabinieri, ha esposto di aver ribassato il canone di locazione del 15% in ottemperanza al nuovo testo dell’art. 4, co. 4, D.L. n. 95/2012 (come modificato a opera dell’art. 24, co. 4, del D.L. n. 66/2014 convertito, con modificazioni, dalla legge 23.06.2014, n. 89).
Alla luce di tali premesse, visti anche i pronunciamenti di altre Sezioni regionali di controllo, il Comune chiede di avere un motivato avviso sull’applicazione della riduzione in parola al caso in cui i contraenti del contratto di locazione siano entrambi parti pubbliche.
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   I. La problematica oggetto del quesito riguarda la possibilità, per un Comune, di poter riportare all’importo originariamente pattuito un canone di locazione relativo ad un immobile comunale adibito a locale caserma dei Carabinieri.
In particolare, il Comune ha rappresentato di aver unilateralmente ribassato del 15% il canone di locazione, ritenendosi obbligato all’applicazione del nuovo testo dell’art. 3, co. 4, D.L. 95/2012 (come modificato a seguito da parte dell’art. 24, co. 4, del D.L. 66/2014).
Per ben comprendere la problematica in esame, appare opportuno procedere ad un preliminare esame della disciplina applicabile e dei precedenti delle altre Sezioni regionali di controllo.
   II. La questione prospettata dal Comune di Codroipo richiede di affrontare brevemente la recente normativa in tema di locazioni passive da parte delle pubbliche Amministrazioni centrali.
La normativa di riferimento è essenzialmente rappresentata dall’art. 3, co. 4, del D.L. 95/2012, come modificato dall'art. 24, comma 4, del D.L. 24.04.2014, n. 66 (convertito, con modificazioni, dalla legge 23.06.2014, n. 89), secondo cui: “ai fini del contenimento della spesa pubblica, con riferimento ai contratti di locazione passiva aventi ad oggetto immobili a uso istituzionale stipulati dalle Amministrazioni centrali, come individuate dall'Istituto nazionale di statistica ai sensi dell'articolo 1, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196, nonché dalle Autorità indipendenti ivi inclusa la Commissione nazionale per le società e la borsa (Consob) i canoni di locazione sono ridotti a decorrere dal 01.07.2014 della misura del 15 per cento di quanto attualmente corrisposto. A decorrere dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto la riduzione di cui al periodo precedente si applica comunque ai contratti di locazione scaduti o rinnovati dopo tale data. La riduzione del canone di locazione si inserisce automaticamente nei contratti in corso ai sensi dell’articolo 1339 codice civile, anche in deroga alle eventuali clausole difformi apposte dalle parti, salvo il diritto di recesso del locatore. Analoga riduzione si applica anche agli utilizzi in essere in assenza di titolo alla data di entrata in vigore del presente decreto. Il rinnovo del rapporto di locazione è consentito solo in presenza e coesistenza delle seguenti condizioni:
   a) disponibilità delle risorse finanziarie necessarie per il pagamento dei canoni, degli oneri e dei costi d’uso, per il periodo di durata del contratto di locazione;
   b) permanenza per le Amministrazioni dello Stato delle esigenze allocative in relazione ai fabbisogni espressi agli esiti dei piani di razionalizzazione di cui ai sensi all’articolo 2, comma 222, della legge 23.12.2009, n. 191, ai piani di razionalizzazione ove già definiti, nonché di quelli di riorganizzazione ed accorpamento delle strutture previste dalle norme vigenti
”.
La normativa di cui sopra, quindi, ha chiaramente operato una scelta di riduzione (in misura pari al 15%) dei canoni di locazione passiva che gravano sulle pubbliche Amministrazioni centrali.
Analoga misura, secondo il disposto dell’art. 3, co. 7, del D.L. 95/2012 (come modificato da parte del D.L 24.04.2014, n. 66), è da intendersi estesa, in quanto compatibile, anche nei confronti delle altre Amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165.
Può essere dunque utile procedere ad un esame dei precedenti resi dalle altre Sezioni regionali di controllo su questioni analoghe che vengono comunque ad intrecciarsi con la specifica tematica in esame.
   III. Questa Sezione si è pronunciata sulla possibilità per l’Ente locale di contribuire ai costi di affitto con la pronuncia n. 25/VIIIC./2004 in cui si è affermato che un Comune, per favorire la presenza sul territorio comunale della caserma dei Carabinieri, può rinunciare a parte del canone locatizio, anche innovando il contratto di locazione, qualora lo stesso fosse già perfezionato.
Significativa è altresì la deliberazione della Sezione regionale di controllo per la Sardegna n. 3/2010/PAR secondo cui “le esigenze di tutela dell’ordine pubblico rappresentate dal Comune vanno ad inserirsi - necessariamente- nel quadro dei rapporti e delle valutazioni da assumersi in sede interistituzionale, secondo l’assetto e con le procedure sopra riferiti. Esclusivamente in tale contesto concertativo allargato potranno assumersi le deliberazioni degli Enti interessati (Stato ed Enti territoriali), incidenti sulle rispettive dotazioni finanziarie o patrimoniali in relazione alle eventuali forme di contribuzione alla spesa necessarie per le esigenze di salvaguardia della sicurezza pubblica. Sul punto si sottolinea che la normativa specificamente intervenuta –introducendo una deroga ai principi generali di cui al paragrafo n. 4- circoscrive l’impegno economico-finanziario in capo agli Enti territoriali, quanto a modi e tempi, senza prevederne in alcun caso un totale accollo a carico degli stessi”.
A seguito di un contrasto tra le citate delibere e quelle di altre Sezioni che invece propendevano per l’inammissibilità, è stata investita della questione la Sezione delle Autonomie che, con la deliberazione n. 16/SEZAUT/2014/QMIG ha reso una sua pronuncia di orientamento con la quale si è affermato che: “
la Costituzione, pur attribuendo allo Stato la competenza esclusiva in materia di ordine pubblico e sicurezza (art. 117, comma 2, lett. h), tuttavia, riconosce, nella nuova formulazione dell’art. 118, l’esigenza di stabilire, con legge statale, forme di coordinamento fra Amministrazioni statali e periferiche, in vista del potenziamento della sicurezza a livello locale. Al riguardo, deve osservarsi che una specifica base normativa e soprattutto finanziaria è stata posta dall’art. 1, comma 439, della legge finanziaria per il 2007, che autorizza i Prefetti a stipulare convenzioni con le Regioni e gli enti locali per realizzare programmi straordinari, tesi ad un potenziamento dei presidi di sicurezza sul territorio, accedendo alle risorse logistiche, strumentali e finanziarie messe a disposizione dagli enti che aderiscono. (…) La finalità di potenziamento della tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza trova pieno riconoscimento nell’ambito dell’autonomia degli enti, che sono chiamati a valutare le necessità della collettività amministrata in termini di priorità e di compatibilità finanziarie e gestionali e, sulla scorta di tali valutazioni, ad avviare le eventuali concertazioni interistituzionali, volte all’adozione di specifici protocolli d’intesa che individuino obiettivi e risorse. Peraltro, ferma restando l’importanza degli strumenti di concertazione interistituzionale e la rilevanza degli obiettivi di potenziamento della sicurezza pubblica da perseguire nell’ambito degli appositi programmi, di cui all’art. 1, comma 439, della legge finanziaria per il 2007, tuttavia la Sezione ritiene che non possano rientrare nell’ambito degli anzidetti strumenti le forme di contribuzione come quella in esame, volte al pagamento del canone di locazione. Ciò anche in considerazione del carattere non episodico della contribuzione, che deve presumersi possa interessare la gestione del bilancio dell’ente ben oltre l’esercizio in corso e che, pertanto, mal si attaglia alla natura transitoria degli accordi in questione, la cui durata in generale è annuale”.
Tale pronuncia di orientamento è stata recepita dalla Sezione regionale di controllo per l’Emilia-Romagna
, parere 07.07.2014 n. 173.
Da notare, peraltro, che tale specifica problematica è stata di recente risolta a livello normativo, ed infatti
tra le disposizioni relative alla locazione di beni immobili da adibire a caserma dei Carabinieri, la legge 28.12.2015, n. 208 (legge di stabilità per il 2016) ha disposto, con l'art. 1, comma 500, l'introduzione del nuovo comma 4-bis all'interno dell’art. 3 del D.L. 06.07.2012, n. 95 secondo cui: “per le caserme delle Forze dell'ordine e del Corpo nazionale dei vigili del fuoco ospitate presso proprietà private, i comuni appartenenti al territorio di competenza delle stesse possono contribuire al pagamento del canone di locazione come determinato dall'Agenzia delle entrate”.
Alla luce del succitato quadro normativo, quindi,
le Amministrazioni comunali possono ora fornire un contributo diretto ai canoni di locazione da corrispondere ai soggetti privati per l’affitto di immobili da adibire a caserme di Forze dell’ordine o dei Vigili del fuoco.
Tale assunto, sul quale si tornerà in seguito, rileva seppur indirettamente, anche in ordine al più specifico quesito posto dal Comune richiedente.
Sullo specifico punto, si richiama un precedente della stessa Sezione regionale Emilia-Romagna che, con il parere 15.12.2015 n. 157, ha affermato che “
la disposizione del novellato art. 3, comma 4, del d.l. n. 95/2012 non pare applicabile nell’ipotesi in cui il rapporto intervenga tra due pubbliche amministrazioni. E’ preclusiva, in tal senso, l’interpretazione finalistica e financo letterale della normativa richiamata avente, peraltro, natura di norma eccezionale e, come tale insuscettibile di applicazione “oltre i casi e i tempi” in essa considerati (cfr. art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale). Si osserva, infatti che la statuizione oggetto di disamina è applicabile, prima di ogni ulteriore considerazione, quando realizzi la finalità richiamata nel testo di legge di “contenimento della spesa pubblica”. All’evidenza, tale finalità non si realizza qualora il rapporto concessorio, cui sarebbe eventualmente da applicare la riduzione automatica del canone nella misura del 15 per cento, intervenga tra due pubbliche amministrazioni. Infatti l’effetto pratico sarebbe del tutto neutro rispetto all’obiettivo del contenimento della spesa pubblica, essendo di assoluta evidenza che l’inserzione automatica ex art. 1339 c.c. di una tale clausola nel rapporto intercorrente tra due pubbliche amministrazioni, pur comportando per l’una un risparmio nella misura del 15 per cento di quanto corrisposto in precedenza, per l’altra comporterebbe, in egual misura, un minor introito”.
Si tratta della pronuncia richiamata anche dal Comune istante, peraltro, senza tenere in adeguato conto, come di seguito si preciserà, il più articolato quadro normativo e giurisprudenziale.
Ed invero, tra i precedenti rinvenibili, merita in particolare di essere segnalata anche la deliberazione della Sezione regionale di controllo per il Veneto n. 272/2015/PAR secondo cui “n
on sembra potersi ritenere che vi siano lacune normative in relazione ad ipotesi di contratti di locazione posti in essere da un comune antecedentemente all’applicazione della disposizione normativa che ha esteso agli enti locali la disciplina del d.l. 95/2012 e che, quindi, erano in corso al momento dell’entrata in vigore della medesima. Il comma 4 dell’art. 3 del D.L. 95/2012 sopra richiamato prevede, infatti, l’inserzione automatica ex art. 1339 c.c. della clausola di riduzione del canone di locazione -anche in deroga ad eventuali clausole difformi previste dalle parti- fermo restando il diritto, in capo al locatore, di optare per il recesso dal contratto”.
Tale pronuncia ha ribadito dunque, con riferimento alla normativa introdotta sulla riduzione del 15% dei canoni di locazione passiva, l’applicabilità a favore delle Amministrazioni pubbliche considerate dalla norma che prevede l’inserzione automatica di clausole ex art. 1339 cod. civ. a favore degli Enti individuati come beneficiari dalla legge.
   IV. Il Collegio condivide tale lettura ed invero si osserva che l’art. 3, co. 4, del D.L. 95/2012, come modificato dall'art. 24, comma 4, legge n. 89 del 2014, dettando previsioni per i contratti di locazione passiva aventi ad oggetto immobili a uso istituzionale stipulati dalle Amministrazioni centrali, come individuate dall'Istituto nazionale di statistica ai sensi dell'articolo 1, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196, nonché dalle Autorità indipendenti ivi inclusa la Commissione nazionale per le società e la borsa (Consob), ha previsto l’inserzione automatica ex art. 1339 c.c. della clausola di riduzione del canone di locazione, anche in deroga ad eventuali clausole difformi previste dalle parti, fermo restando il diritto, in capo al locatore, di optare per il recesso dal contratto.
La stessa disciplina è applicabile, ai sensi dell’art. 3, co. 7, del D.L. 95/2012, alle Amministrazioni locali (in tal senso, si veda anche la citata deliberazione della Sezione regionale di controllo per il Veneto n. 272/2015/PAR).
Alla luce della normativa introdotta e delle richiamate pronunce emanate dalle Sezioni regionali sul tema, il Collegio ritiene di dover approfondire le problematiche sollevate dal parere prospettato dal Comune di Codroipo.
Invero, il Comune richiedente si limita a richiamare una deliberazione dell’Emilia Romagna, parere 15.12.2015 n. 157, senza procedere ai necessari raccordi con la normativa introdotta sul tema, anche successivamente a detta pronuncia.
Va però considerato che, in una lettura sistematica, la deliberazione in questione pare porsi come una, seppur indiretta, applicazione del principio di coordinamento affermato dalla deliberazione n. 16/SEZAUT/2014/QMIG della Sezione delle Autonomie secondo cui, nell’ambito degli strumenti di concertazione interistituzionale e degli obiettivi di potenziamento della sicurezza pubblica da perseguire tramite gli appositi programmi, non sarebbe possibile prevedere da parte dei Comuni forme di contribuzione volte al pagamento del canone di locazione per le caserme delle Forze dell’ordine.
Come sopra anticipato,
tale impostazione è ormai superata e non più attuale alla luce del disposto normativo recato dal nuovo comma 4-bis all'interno dell’art. 3 del D.L. 06.07.2012, n. 95, introdotto dall'art. 1, comma 500, della legge 28.12.2015, n. 208 (legge di stabilità per il 2016) che ha riconosciuto possibilità per i Comuni di contribuire alle spese per la locazione di immobili privati adibiti a caserme di Forze dell’ordine nei limiti del “canone di locazione come determinato dall'Agenzia delle entrate”.
Non può invero ignorarsi una connessione tra le due fattispecie normativamente previste.
Alla luce del succitato quadro normativo, quindi, appare chiaro che il contributo diretto da parte dei Comuni ai canoni di locazione per caserme ospitate in immobili privati, rappresenterebbe una forma di aiuto economico assimilabile alla riduzione ex lege dei canoni di locazione per gli immobili pubblici locati alle Forze dell’ordine, trattandosi in ambedue i casi di forme di sostegno consentite dall’Ordinamento, con la conseguenza che:
   a) opera ex lege la riduzione del canone per tutte le locazioni passive cui sono tenute le pubbliche Amministrazioni per il godimento di immobili adibiti ad uso istituzionale, senza distinzione tra immobili di proprietà pubblica o privata;
   b) per i soli immobili di proprietà privata adibiti a caserme è eventualmente consentito ai Comuni di contribuire al pagamento del canone di locazione come determinato dall'Agenzia delle entrate.
Tale impostazione giuridica, relativa al diritto applicabile, appare già di per sé risolutiva del quesito prospettato, ancorché dalla normativa citata non si evinca una espressa indicazione circa l’applicabilità della predetta riduzione ai canoni di locazione relativi ad immobili di proprietà pubblica affittati ad altra pubblica Amministrazione.
Ritiene comunque il Collegio di fare cenno ai possibili effetti, invero non chiaramente affrontati nel quesito pervenuto, ma solo indirettamente enucleabili dalla lettura della più volte citata pronuncia dell’Emilia Romagna, relativi alla considerazione della diversa natura dei saldi di bilancio relativi, nel caso di specie, a una pubblica Amministrazione centrale e a una pubblica Amministrazione locale.
Invero la riduzione dei canoni, inserita ex lege in base al disposto dell’art. 1339 cod. civ., ha il precipuo scopo di ridurre la spesa per canoni di locazione passiva gravanti sulle Amministrazioni locatarie, ragion per cui va assunto a riferimento il saldo di bilancio dei singoli comparti, piuttosto che il conto economico consolidato delle pubbliche Amministrazioni.
La stessa disciplina, infatti, come si è detto, è applicabile, ai sensi dell’art. 3, co. 7, del D.L. 95/2012, alle Amministrazioni locali.
Il tutto, val la pena di evidenziare, anche alla luce dell’attuale previsione dell’art. 3, co. 7, del D.L. 95/2012 secondo cui le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano possono adottare misure alternative di contenimento della spesa corrente al fine di conseguire risparmi non inferiori a quelli derivanti dall'applicazione della citata disposizione.
Da notare che tale ultima previsione ha recentemente interessato la Consulta in un giudizio di costituzionalità, sollevato dalla Regione Veneto con ricorso notificato il 18.08.2014 e depositato il successivo 22 agosto (reg. ric. n. 63 del 2014, che è stato deciso lo stesso giorno della presente camera di consiglio).
In tale giudizio, di particolare rilievo, merita di essere richiamata la problematica della finanza delle Regioni, delle Province autonome e degli Enti locali come parte della finanza pubblica allargata e della possibilità per il legislatore statale di imporre alle Regioni e agli Enti locali vincoli alle politiche di bilancio, con una legislazione di principio, per ragioni di coordinamento finanziario connesse ad obiettivi nazionali, condizionati anche dagli obblighi comunitari.
Aspetti questi ultimi che assumono valenza ancor più significativa nell’assetto ordinamentale della Regione Friuli Venezia Giulia, per le specifiche competenza statutarie in materia di ordinamento e finanza degli Enti locali.
Tale assunto da ultimo richiamato conferma la maggiore complessità ed articolazione del quadro normativo rispetto alle prospettazioni del quesito, quadro riassumibile, come si è detto, nei suesposti princìpi secondo cui
i contratti di locazione passiva in essere e gravanti su Amministrazioni pubbliche vadano comunque soggetti a riduzione del 15% del canone, tenendo presente che per i soli immobili di proprietà privata adibiti a caserme è eventualmente consentito ai Comuni di contribuire al pagamento del canone di locazione come determinato dall'Agenzia delle entrate (Corte dei Conti, Sez. controllo Friuli Venezia Giulia, parere 27.04.2016 n. 40).

PUBBLICO IMPIEGO: Danno erariale. Responsabilità del dirigente che da esecuzione ad atti di indirizzo illegittimi della Giunta Comunale.
Va disattesa l'argomentazione difensiva che esclude la responsabilità del dirigente ritenendo l'attività svolta esecutiva di scelte operate a monte dalla Giunta comunale, in considerazione del principio di separazione tra attività di indirizzo e gestione, essendo il dirigente, per espressa disposizione legislativa (art. 4, comma 2, D.Lgs. n. 165 del 2001), responsabile in via esclusiva del pagamento illegittimo dei trattamenti economici accessori.
In altri termini, l'autonomia decisionale, normativamente prevista, di cui godeva il dirigente avrebbe dovuto indurlo a disattendere una direttiva dell'organo di indirizzo, se palesemente illegittima, o, nel dubbio, interpretarla, anche con riferimento agli atti normativi interni, in modo conforme alla legge (
nella fattispecie il dirigente aveva liquidato se stesso e i propri collaboratori a fronte di un indirizzo della Giunta Comunale che ne disponeva la possibile erogazione per attività collegate a finanziamenti comunitari).
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1.Preliminarmente va scrutinata l’eccezione di inammissibilità della citazione per carenza di motivazione in ordine alle deduzioni fornite dal convenibile a seguito di invito a dedurre.
1.1 L’eccezione è infondata.
Giova al riguardo richiamare il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Riunite di questa Corte con la sentenza 7/98/QM ed espresso -al punto 4 della parte motiva- nel senso che “…nel conseguente atto di citazione il P.R. non è obbligato a motivare le ragioni per le quali egli ha, eventualmente anche in toto, disatteso le deduzioni fornite non determinando l'invito l'insorgere di un contraddittorio pre-processuale tra P.R. ed invitato. Invero un ipotetico obbligo (peraltro non legislativamente previsto e non creabile in via giurisprudenziale) di motivazione finirebbe per trasformare la fase istruttoria, di cui il P.R. è il dominus, in un anomalo diretto contenzioso tra il medesimo e l'invitato imponendo contemporaneamente al primo funzioni, nonché obblighi di motivazione, propri del giudicante travalicandosi in tal modo quella istituzionale di acquisizione degli elementi probatori da sottoporre poi alla valutazione del giudice. L'esame valutativo delle deduzioni dell'invitato potrà, quindi, anche essere espresso dal P.R. in modo sintetico od essere persino implicito nel fatto stesso che viene emesso l'atto di citazione…”.
2. Parimente non meritevole di condivisione si reputa la censura di insussistenza del danno formulata sull’assunto secondo cui le attività progettuali costituivano per i dipendenti comunali prestazioni aggiuntive extra istituzionali, finanziate da fondi esterni non gravanti sul bilancio dell’ente locale.
2.1 Occorre, infatti, rilevare che la tesi difensiva induce ad una impropria sovrapposizione di due diversi e distinti rapporti: quello tra i soggetti finanziatori e l’Ente beneficiario, e, quello tra quest’ultimo e il personale da esso dipendente.
La prima relazione intercorre tra la Regione e le autonomie locali alle quali compete, oltre alla partecipazione alla fase di programmazione, l’identificazione delle opportunità locali, la formulazione delle proposte progettuali, collocate all’interno degli obiettivi definiti dalla Regione, spesso la realizzazione degli interventi, la loro focalizzazione su un numero limitato di priorità, la loro operatività in un quadro di programmazione finalizzato allo sviluppo.
Per gli interventi attribuiti alla competenza delle Autonomie locali e degli organismi pubblici, la Regione procede all’impegno della spesa a favore dei medesimi, ad avvenuta acquisizione di dichiarazioni del rappresentante legale in ordine all’avvenuto completamento dell’iter procedurale per l’attuazione del progetto e alla conformità ed ammissibilità delle spese sostenute secondo le disposizioni comunitarie e nazionali vigenti (POR Puglia 2000-2006).
A monte di siffatta disciplina si pongono le disposizioni comunitarie (artt. 2 e 4, lett. b, della norma n. 11, del Regolamento CEE n. 448/2004) che -afferenti al rapporto tra CE e Stati membri e non conferenti nel senso prospettato dalla Parte appellante- si limitano ad indicare le condizioni in presenza delle quali talune categorie di spesa sono ammesse al cofinanziamento.
Ciò posto, va evidenziato che l’erogazione di remunerazioni aggiuntive ai dipendenti coinvolti nel progetto afferisce al rapporto tra l’Ente locale e il proprio personale, e non può che trovare disciplina nel quadro normativo di settore -compiutamente richiamato dalla sentenza appellata- rappresentato dall’art. 45 del d.lgs. 165/2001 e dai contratti collettivi chiamati a definire un collegamento tra i trattamenti economici accessori e la performance individuale o collettiva che, deve essere valutata nel rispetto di una precisa logica procedimentale (rendicontazione del risultato conseguito, sua misurazione e conclusiva valutazione dello stesso da parte degli organismi a ciò preposti).
Ne consegue che l’erogazione degli emolumenti in esame disposta senza il rispetto della procedura normativamente prevista si appalesa illegittima e dannosa, giacché, in ipotesi di emolumenti non dovuti è la stessa maggiorazione retributiva che, per il suo intero ammontare, ne realizza ex se gli effetti lesivi.
3. Va disattesa anche l’argomentazione difensiva che esclude la responsabilità del dirigente ritenendo l’attività svolta esecutiva di scelte operate dalla Giunta comunale.
3.1 In tal senso, milita il principio di separazione tra le attività di indirizzo e le attività di gestione, di cui è espressione il comma 2, dell’art. 4, del d.lgs. 165/2001 che nell’attribuire ai dirigenti l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi, compresi tutti gli atti che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, nonché la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa mediante autonomi poteri di spesa di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo, ne afferma la responsabilità in via esclusiva.
Responsabilità dei dirigenti ribadita poi con specifico riguardo all'attribuzione dei trattamenti economici accessori dall’art. 45, comma 4, del d.lgs. 165/2001.
Ne consegue che la determina dirigenziale di liquidazione delle somme non può essere intesa quale “atto meramente esecutivo” della delibera giuntale n. 93 del 2004.
4. Con riguardo all’elemento soggettivo, infine è da ritenere che la condotta tenuta dal dirigente -nel sottoscrivere una determina, incondizionatamente autorizzativa delle indebite erogazioni, nella pienezza dei suoi poteri decisionali- sia espressiva di colpa grave.
Occorre, peraltro, considerare –come correttamente rilevato dal giudice di prime cure- che l’autonomia decisionale normativamente prevista di cui godeva il dirigente avrebbe dovuto indurlo a disattendere una direttiva dell’organo di indirizzo, se palesemente illegittima, o, nel dubbio, interpretarla, anche con riferimento agli atti normativi interni, in modo conforme alla legge.
In conclusione va affermata la riferibilità del danno al comportamento del ricorrente.
5. In ordine all’invocata applicazione dell’istituto della compensatio lucri cum damno previsto dell’art. 1, comma 1-bis, della legge n. 20/1994, -il cui onere probatorio, nell’an e nel quantum, incombe sull’istante- non se ne reputano sussistenti i presupposti, ovvero: l’effettività del vantaggio, la identità causale tra il fatto produttivo del danno e quello produttivo dell’utilitas e la corrispondenza di quest’ultima ai fini istituzionali dell’amministrazione che se ne appropria (SS.RR., sent. n. 5 del 24.01.1997).
6. Alla luce delle considerazioni esposte l’’appello deve essere respinto e confermata l’impugnata sentenza, non ricorrendo circostanze valutabili in funzione del richiesto esercizio del potere riduttivo dell’addebito.
L’Es. deve perciò essere conclusivamente condannato al pagamento, in favore del Comune di Lecce, della somma di €. 23.893,88, oltre oneri accessori come determinati nella sentenza impugnata
(Corte dei Conti, Sez. III  giurisdiz. Centrale d'Appello, sentenza 26.04.2016 n. 160).

APPALTI FORNITURE: Il presupposto per procedere ad acquisti autonomi extra Consip e centrali di committenza regionali è l’inidoneità del bene o del servizio al soddisfacimento dello specifico bisogno dell’amministrazione, per mancanza di caratteristiche essenziali; l’inidoneità, la quale deve emergere da un confronto operato tra lo specifico fabbisogno dell’ente e il bene o il servizio oggetto di convenzione, sembra dover riguardare esclusivamente le caratteristiche del bene o del servizio stesso, senza che la valutazione possa estendersi a elementi ulteriori che incidono sul fabbisogno, quali, nel caso prospettato, l’ubicazione dei distributori di carburante.
Ovviamente, resta salva la possibilità, di cui all’art. 1, co. 494, della legge di stabilità per il 2016, di effettuare affidamenti al di fuori del regime Consip e delle altre centrali di committenza regionale, per carburanti, purché ricorrano le previste condizioni (- procedere all’acquisto tramite procedure ad evidenza pubblica; - ottenere un corrispettivo inferiore almeno del 3% rispetto a quello fissato da Consip o da altre centrali di committenza regionale; - sottoporre i contratti a condizione risolutiva con possibilità per il contraente di adeguamento ai migliori corrispettivi nel caso di intervenuta disponibilità di convenzioni Consip e delle centrali di committenza regionali che prevedano condizioni di maggior vantaggio economico in percentuale superiore al 10 per cento).

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Il Sindaco del Comune di Galliera (BO) ha inoltrato a questa Sezione la seguente richiesta di parere:
Premesso che:
- il Comune di Galliera ha in dotazione n. 8 veicoli per le regolari attività istituzionali;
- nel territorio comunale non è presente gestore selezionato da Consip;
- la centrale unica di Committenza dell’Unione Reno Galliera, con sede in San Giorgio di Piano ha espletato una gara per la fornitura del carburante per i veicoli istituzionali, ma alla scadenza non sono pervenute domande e la gara è andata deserta.
Dato atto che:
- sulla centrale di Committenza Consip esiste una specifica convenzione con la ditta Kuwait Petroleum, che se pur a prezzi convenienti, non presenta una rete di distribuzione sul territorio adeguata alle esigenze di questo ente, in quanto il gestore più vicino risulta essere nel Comune di San Pietro in casale a 9 km di distanza.
Per quanto sopra esposto, considerato che fornirsi dei carburanti alla stazione di servizio di San Pietro in Casale risulta assolutamente antieconomico, sia per la distanza da percorrere (9 km andata + 9 km ritorno) che per il tempo di impiego del personale, siamo con la presente a richiedere un Vostro parere in merito alla possibilità di poter effettuare i rifornimenti dei veicoli comunali presso una stazione di servizio nel nostro territorio al di fuori delle convenzioni Consip
”.
...
2.1 Preliminarmente, occorre individuare le principali norme rilevanti ai fini del parere.
Il sistema delle centrali di committenza, stazioni appaltanti che gestiscono gli approvvigionamenti di beni e servizi per la pubblica amministrazione, avvalendosi di apposite convenzioni, trova il suo fondamento nell’art. 26 della legge 23.12.1999, n. 488 (finanziaria per il 2000); detta norma, nel testo attualmente vigente, prevede che vengano stipulate, nel rispetto della normativa in materia di scelta del contraente, con procedure competitive, “convenzioni con le quali l'impresa prescelta si impegna ad accettare, sino a concorrenza della quantità massima complessiva stabilita dalla convenzione ed ai prezzi e condizioni ivi previsti, ordinativi di fornitura di beni e servizi deliberati dalle amministrazioni dello Stato anche con il ricorso alla locazione finanziaria”. La stipulazione di un contratto in violazione delle suddette previsioni costituisce causa di responsabilità amministrativa.
Successivamente, l’art. 58 della legge 23.12.2000, n. 388, ha provveduto ad individuare la Consip come la centrale acquisti nazionale, prevedendo che “le convenzioni di cui al citato articolo 26 sono stipulate dalla Concessionaria servizi informatici pubblici (CONSIP) Spa, per conto del Ministero del tesoro, del bilancio e della programmazione economica, ovvero di altre pubbliche amministrazioni di cui al presente comma […]”.
Con il decreto del Presidente della Repubblica 04.04.2002, n. 101, contenente il "Regolamento recante criteri e modalità per l'espletamento da parte delle amministrazioni pubbliche di procedure telematiche di acquisto per l'approvvigionamento di beni e servizi", è stato ulteriormente disciplinato lo svolgimento delle procedure telematiche di acquisto, introducendo il MePA - Mercato Elettronico della PA.
A seguito dell’abrogazione del citato DPR n. 101/2002, l’attuale disciplina del MePA è contenuta nel decreto del Presidente della Repubblica 05.10.2010, n. 207, che all'art. 328 ne definisce le modalità di funzionamento, stabilendo che, fatti salvi i casi di ricorso obbligatorio al mercato elettronico previsti dalle norme in vigore, ai sensi dell'articolo 85, comma 13, del codice dei contratti pubblici, la stazione appaltante può stabilire di procedere all'acquisto di beni e servizi attraverso il mercato elettronico realizzato dalla medesima stazione appaltante, o utilizzando il mercato elettronico della pubblica amministrazione realizzato dal Ministero dell'economia e delle finanze sulle proprie infrastrutture tecnologiche avvalendosi di Consip S.p.A., oppure attraverso il mercato elettronico istituito dalle centrali di committenza di riferimento, di cui all'articolo 33 del codice dei contratti pubblici.
Con la legge 27.12.2006, n. 296 (legge finanziaria 2007), è stato sancito un più esteso campo di utilizzo delle convenzioni-quadro, prevedendo altresì l’obbligo di ricorrere al mercato elettronico della pubblica amministrazione per gli acquisti di beni e servizi al di sotto della soglia di rilievo comunitario; inoltre, è stata prevista l’istituzione di centrali di committenza regionali.
L’art. 1, co. 7, del d.l. 06.07.2012, n. 95 (convertito con modificazioni dalla l. 07.08.2012, n. 135) ha provveduto ad estendere e generalizzare per tutte le pubbliche amministrazioni l’obbligo di ricorso alle convenzioni Consip per alcune tipologie merceologiche di beni, tra cui i carburanti, disponendo, altresì, che i contratti stipulati in violazione di tali previsioni sono nulli e costituiscono illecito disciplinare e contabile, ai quali corrisponde quindi un’ipotesi tipica di responsabilità amministrativa.
Recentemente, la legge 28.12.2015, n. 208 (legge di stabilità per il 2016), all’art. 1, co. 510, ha previsto che “
le amministrazioni pubbliche obbligate ad approvvigionarsi attraverso le convenzioni di cui all'articolo 26 della legge 23.12.1999, n. 488, stipulate da Consip SpA, ovvero dalle centrali di committenza regionali, possono procedere ad acquisti autonomi esclusivamente a seguito di apposita autorizzazione specificamente motivata resa dall'organo di vertice amministrativo e trasmessa al competente ufficio della Corte dei conti, qualora il bene o il servizio oggetto di convenzione non sia idoneo al soddisfacimento dello specifico fabbisogno dell'amministrazione per mancanza di caratteristiche essenziali”.
Lo stesso articolo, con specifico riferimento all’acquisto di carburanti per autotrazione, al co. 494, ha stabilito che “
è fatta salva la possibilità di procedere ad affidamenti, nelle indicate categorie merceologiche, anche al di fuori delle predette modalità, a condizione che gli stessi conseguano ad approvvigionamenti da altre centrali di committenza o a procedure di evidenza pubblica, e prevedano corrispettivi inferiori almeno del 10 per cento per le categorie merceologiche telefonia fissa e telefonia mobile e del 3 per cento per le categorie merceologiche carburanti extra-rete, carburanti rete, energia elettrica, gas e combustibili per il riscaldamento rispetto ai migliori corrispettivi indicati nelle convenzioni e accordi quadro messi a disposizione da Consip SpA e dalle centrali di committenza regionali. Tutti i contratti stipulati ai sensi del precedente periodo devono essere trasmessi all'Autorità nazionale anticorruzione. In tali casi i contratti dovranno comunque essere sottoposti a condizione risolutiva con possibilità per il contraente di adeguamento ai migliori corrispettivi nel caso di intervenuta disponibilità di convenzioni Consip e delle centrali di committenza regionali che prevedano condizioni di maggior vantaggio economico in percentuale superiore al 10 per cento rispetto ai contratti già stipulati. Al fine di concorrere al raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica attraverso una razionalizzazione delle spese delle pubbliche amministrazioni riguardanti le categorie merceologiche di cui al primo periodo del presente comma, in via sperimentale, dal 01.01.2017 al 31.12.2019 non si applicano le disposizioni di cui al terzo periodo del presente comma”.
2.2 Richiamata la normativa, occorre verificare se vi siano precedenti pareri resi, in materia, da questa magistratura contabile.
Numerose sono le deliberazioni di questa Corte relative all’obbligo di ricorso alle convenzioni Consip (tra le altre, si richiama il parere di questa Sezione reso con deliberazione n. 286, del 17.12.2013.
Recentemente, la Sezione di controllo della Regione Friuli Venezia Giulia, con deliberazione n. 35/2016/PAR, del 25.03.2016 , si è espressa sulla medesima questione oggetto del presente parere. Si riporta il quesito: “
se sia consentito, per motivi di economicità ed efficienza, di rifornirsi dal distributore di carburante esistente (unico) nel paese, ogni qual volta in base ad una convenzione Consip il distributore cui doversi rivolgere sia più distante di esso”. La citata Sezione ha affermato che “la citata previsione del comma 510, riguardando l’acquisto di beni e servizi privi di requisiti essenziali, non può ritenersi applicabile all’acquisto di quei prodotti, come il carburante, che sono per loro stessa natura intrinsecamente fungibili”.
2.3 E’ ora possibile rispondere alla richiesta di parere, circa la possibilità, per una pubblica amministrazione, di operare acquisti di carburante per autotrazione, al di fuori delle convenzioni stipulate dalla Consip o da centrali di committenza regionali, nel caso in cui l’ubicazione del distributore più vicino renda l’operazione diseconomica.
Questa Sezione ritiene di non potersi discostare dall’interpretazione già fornita dalla Sezione di controllo della Regione Friuli Venezia Giulia.
Una diversa lettura del disposto di cui all’art. 1, comma 510, legge n. 208/2015, infatti, sembra essere preclusa dalla lettera della norma.
Il presupposto per procedere ad acquisti autonomi extra Consip e centrali di committenza regionali è l’inidoneità del bene o del servizio al soddisfacimento dello specifico bisogno dell’amministrazione, per mancanza di caratteristiche essenziali; l’inidoneità, la quale deve emergere da un confronto operato tra lo specifico fabbisogno dell’ente e il bene o il servizio oggetto di convenzione, sembra dover riguardare esclusivamente le caratteristiche del bene o del servizio stesso, senza che la valutazione possa estendersi a elementi ulteriori che incidono sul fabbisogno, quali, nel caso prospettato, l’ubicazione dei distributori di carburante.
Ovviamente, resta salva la possibilità, di cui all’art. 1, co. 494, della legge di stabilità per il 2016, di effettuare affidamenti al di fuori del regime Consip e delle altre centrali di committenza regionale, per carburanti, purché ricorrano le previste condizioni (procedere all’acquisto tramite procedure ad evidenza pubblica; ottenere un corrispettivo inferiore almeno del 3% rispetto a quello fissato da Consip o da altre centrali di committenza regionale; sottoporre i contratti a condizione risolutiva con possibilità per il contraente di adeguamento ai migliori corrispettivi nel caso di intervenuta disponibilità di convenzioni Consip e delle centrali di committenza regionali che prevedano condizioni di maggior vantaggio economico in percentuale superiore al 10 per cento).
Pur non potendo questa Corte, anche in sede consultiva, prescindere dal dato normativo, può essere utile evidenziare come, in casi, come quello all’attenzione del Collegio, di comuni presso i quali non siano presenti distributori di carburanti della ditta aderente alla convenzione, la corretta applicazione della disciplina possa determinare gravi diseconomie.
Pertanto, è auspicabile una rimeditazione, da parte del legislatore statale, della normativa. Potrebbe essere ampliata la discrezionalità riconosciuta agli enti pubblici, fino a consentire la stipulazione in deroga alle convenzioni sottoscritte dalle centrali di committenza, a fronte di un evidente e dimostrato risparmio complessivo (nel caso degli acquisti di carburante per autotrazione e delle altre categorie merceologiche, di cui al citato art. 1, comma 494, infatti, il risparmio che consente di operare in deroga, può essere calcolato sul solo corrispettivo) (Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna, parere 20.04.2016 n. 38).

INCENTIVO PROGETTAZIONELa corretta interpretazione dell’articolo 93, comma 7-ter, d.lgs. 163/2006, alla luce delle disposizioni recate dal d.l. n. 90/2014 e dei criteri individuati dalla legge delega n. 11/2016, è nel senso dell’esclusione dall’incentivo alla progettazione interna di qualunque attività manutentiva, senza distinzione tra manutenzione ordinaria o straordinaria.
In motivazione, la Sezione delle autonomie ha, altresì, precisato che: “
…la chiara formulazione dell’articolo 93, comma 7-ter, desumibile dall’applicazione del fondamentale canone ermeneutico dell’interpretazione letterale non lasci spazio ad criteri per cosi dire sussidiari, che finirebbero inevitabilmente per alterare la voluntas legis, espressa in modo inequivoco dal tenore letterale delle disposizioni (in claris non fit interpretatio)”.
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Con parere 15.12.2015 n. 155, questa Sezione regionale di controllo ha reso il proprio parere su due quesiti posti dal Comune di Ferrara e, al contempo, ha sospeso la pronuncia su un altro rispetto al quale ravvisava una difformità di orientamenti tra diverse Sezioni regionali di controllo.
I quesiti sui quali la Sezione si è pronunciata riguardano l’individuazione delle categorie di personale alle quali può essere corrisposto il cd. incentivo alla progettazione previsto dall’articolo 93, comma 7-ter, d.lgs. n. 163/2006, stabilendo che non è possibile riconoscere tale emolumento al personale dei ruoli amministrativo e/o contabile, e quello volto ad individuare l’atto regolamentare da applicare (quello vigente all’epoca del progetto o un nuovo regolamento) per gli incentivi da riconoscere per attività iniziate precedentemente alla data del 19/08/2014 (data di entrata in vigore della nuova disciplina in tema di compenso incentivante) da proseguire ed ultimare.
Il quesito sul quale è stata riscontrata una difformità di orientamenti tra le Sezioni regionali concerneva la possibilità o meno di corrispondere l’incentivo alla progettazione per le attività di manutenzione straordinaria anche a seguito delle modifiche normative introdotte dall’articolo 13-bis del decreto-legge 24.06.2014, n. 90, convertito, con modificazioni, in legge 11.08.2014, n. 114.
La pronuncia su tale quesito è stata conseguentemente sospesa, con conseguente remissione degli atti al Presidente della Corte ai sensi dell’articolo 6, comma 4, d.l. 10.10.2012, n. 174, ai fini della valutazione dell’opportunità di deferire alla Sezione delle autonomie, ovvero alle Sezioni riunite. Di tale decisione è stata data comunicazione al Sindaco di Ferrara.
Successivamente, il Presidente della Corte dei conti ha rimesso la questione alla Sezione delle autonomie, che si è espressa con deliberazione 23.03.2016 n. 10.
...
Sinteticamente si rammenta che, con il parere 15.12.2015 n. 155, questa Sezione regionale ha rimesso gli atti al Presidente della Corte dei conti ai sensi dell’articolo 6, comma 4, d.l. 174/2012 e sospeso la pronuncia sul quesito con il quale il Comune di Ferrara chiedeva se il cd. compenso incentivante previsto dal novellato art. 93, comma 7-ter, d.lgs. n. 163/2006 potesse essere corrisposto per le attività di manutenzione straordinaria, che, a differenza di quelle di manutenzione ordinaria, per le quali l’incentivo andrebbe certamente escluso, in ragione della natura dei lavori e della loro complessità, richiedono un’attività progettuale specialistica tale da giustificare il riconoscimento del predetto emolumento.
Nella citata deliberazione, la Sezione rilevava che, a decorrere dal 19.08.2014, è stata prevista una nuova disciplina in materia di incentivi spettanti ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni per le attività di progettazione. La materia de qua, originariamente disciplinata dall’articolo 92, commi 5 e 6, d.lgs. 163/2006 (codice degli appalti pubblici), è stata modificata dall’articolo 13 del decreto-legge 24.06.2014, n. 90, convertito in legge 11.08.2014, n. 114 che ha abrogato i commi 5 e 6 del richiamato articolo 92 del codice degli appalti, dall’articolo 13-bis, aggiunto in sede di conversione in legge, mediante il quale sono stati inseriti, nell’articolo 93 (rubricato “Livelli della progettazione per gli appalti e le concessioni di lavori"), i commi da 7-bis a 7-quinquies.
In particolare, il comma 7-ter, rimanda alla fonte regolamentare di ciascuna pubblica amministrazione rientrante nell’ambito di applicazione soggettiva della norma la definizione di alcuni aspetti della disciplina, prevedendo, che l’incentivo alla progettazione debba essere escluso per le attività di manutenzione, senza ulteriori specificazioni.
Sull’interpretazione di tale aspetto della disciplina, la Sezione aveva ravvisato una difformità di indirizzi tra le Sezioni regionali di controllo che si erano sino ad allora pronunciate.
Secondo un orientamento (Sez. Lombardia parere 28.10.2015 n. 351 e Sez. Marche parere 17.12.2014 n. 141), l’incentivo alla progettazione poteva essere riconosciuto per le attività di manutenzione straordinaria, purché si fosse resa necessaria una preventiva attività di progettazione.
Secondo il contrapposto orientamento (Sez. Toscana parere 28.10.2015 n. 490, Sez. Umbria parere 14.05.2015 n. 71, Sez. Liguria parere 24.10.2014 n. 60) -al quale questa Sezione regionale di controllo dichiarava di aderire- l’interpretazione letterale della norma porterebbe a sostenere che ogni tipologia di attività manutentiva, a prescindere dalla presenza o meno di una preventiva attività di progettazione, non possa essere remunerata con l’incentivo ex art. 93, comma 7-ter, d.lgs. n. 163/2006.
Tanto premesso, ritenendo sussistente l’ipotesi di cui all’art. 6, comma 4, del decreto legge 10.10.2012, n. 174, convertito con modificazioni dalla legge 07.12.2012, n. 213, la Sezione ha sospeso la pronuncia sul predetto quesito rimettendo gli atti al Presidente della Corte dei conti per le valutazioni di competenza.
A seguito del conseguente deferimento, la Sezione delle autonomie, con la deliberazione 23.03.2016 n. 10 (allegato 1), ha risolto la questione di massima, enunciando il seguente principio di diritto: “
la corretta interpretazione dell’articolo 93, comma 7-ter, d.lgs. 163/2006, alla luce delle disposizioni recate dal d.l. n. 90/2014 e dei criteri individuati dalla legge delega n. 11/2016, è nel senso dell’esclusione dall’incentivo alla progettazione interna di qualunque attività manutentiva, senza distinzione tra manutenzione ordinaria o straordinaria”.
In motivazione, la Sezione delle autonomie ha, altresì, precisato che: “
…la chiara formulazione dell’articolo 93, comma 7-ter, desumibile dall’applicazione del fondamentale canone ermeneutico dell’interpretazione letterale non lasci spazio ad criteri per cosi dire sussidiari, che finirebbero inevitabilmente per alterare la voluntas legis, espressa in modo inequivoco dal tenore letterale delle disposizioni (in claris non fit interpretatio)”.
Questa Sezione regionale di controllo, ai sensi dell’art. 6, comma 4, del d.l. 10.10.2012, n. 174, convertito dalla legge 07.12.2012, n. 213, si attiene al principio ermeneutico richiamato (Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna, parere 20.04.2016 n. 37).

INCENTIVO PROGETTAZIONELa corretta interpretazione dell’articolo 93, comma 7-ter, d.lgs. 163/2006, alla luce delle disposizioni recate dal d.l. n. 90/2014 e dei criteri individuati dalla legge delega n. 11/2016, è nel senso dell’esclusione dall’incentivo alla progettazione interna di qualunque attività manutentiva, senza distinzione tra manutenzione ordinaria o straordinaria.
In motivazione, la Sezione delle autonomie ha, altresì, precisato che: “
…la chiara formulazione dell’articolo 93, comma 7-ter, desumibile dall’applicazione del fondamentale canone ermeneutico dell’interpretazione letterale non lasci spazio ad criteri per cosi dire sussidiari, che finirebbero inevitabilmente per alterare la voluntas legis, espressa in modo inequivoco dal tenore letterale delle disposizioni (in claris non fit interpretatio)”.
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Con parere 15.12.2015 n. 156, questa Sezione regionale, preso atto della difformità di orientamenti, ha sospeso la pronuncia sulla richiesta di parere presentata dal Comune di Coriano rimettendo gli atti, ai sensi dell’articolo 6, comma 4, d.l. 10.10.2012, n. 174 al Presidente della Corte ai fini della valutazione dell’opportunità di deferire alla Sezione delle autonomie, ovvero alle Sezioni riunite. Di tale decisione è stata data comunicazione al Sindaco di Coriano.
Successivamente, il Presidente della Corte dei conti ha rimesso la questione alla Sezione delle autonomie, che si è espressa con deliberazione 23.03.2016 n. 10.
Il quesito riguardava la possibilità o meno di corrispondere l’incentivo alla progettazione previsto dall’articolo 93, comma 7-ter, d.lgs. 163/2006 per le attività di manutenzione straordinaria, anche a seguito delle modifiche normative introdotte dall’articolo 13-bis del decreto-legge 24.06.2014, n. 90, convertito, con modificazioni, in legge 11.08.2014, n. 114.
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Sinteticamente si rammenta che, con IL parere 15.12.2015 n. 156, questa Sezione regionale ha rimesso gli atti al Presidente della Corte dei conti ai sensi dell’articolo 6, comma 4, d.l. 174/2012 e sospeso la pronuncia sul quesito con il quale il Comune di Coriano chiedeva se il cd. compenso incentivante previsto dal novellato art. 93, comma 7-ter, d.lgs. n. 163/2006 potesse essere corrisposto per le attività di manutenzione straordinaria, che, a differenza di quelle di manutenzione ordinaria, per le quali l’incentivo andrebbe certamente escluso, in ragione della natura dei lavori e della loro complessità, richiedono un’attività progettuale specialistica tale da giustificare il riconoscimento del predetto emolumento.
Nella citata deliberazione, la Sezione rilevava che, a decorrere dal 19.08.2014, è stata prevista una nuova disciplina in materia di incentivi spettanti ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni per le attività di progettazione. La materia de qua, originariamente disciplinata dall’articolo 92, commi 5 e 6, d.lgs. 163/2006 (codice degli appalti pubblici), è stata modificata dall’articolo 13 del decreto-legge 24.06.2014, n. 90, convertito in legge 11.08.2014, n. 114 che ha abrogato i commi 5 e 6 del richiamato articolo 92 del codice degli appalti, dall’articolo 13-bis, aggiunto in sede di conversione in legge, mediante il quale sono stati inseriti, nell’articolo 93 (rubricato “Livelli della progettazione per gli appalti e le concessioni di lavori”), i commi da 7-bis a 7-quinquies.
In particolare, il comma 7-ter, rimanda alla fonte regolamentare di ciascuna pubblica amministrazione rientrante nell’ambito di applicazione soggettiva della norma la definizione di alcuni aspetti della disciplina, prevedendo, che l’incentivo alla progettazione debba essere escluso per le attività di manutenzione, senza ulteriori specificazioni.
Sull’interpretazione di tale aspetto della disciplina la Sezione aveva ravvisato una difformità di indirizzi tra le Sezioni regionali di controllo che si erano sino ad allora pronunciate.
Secondo un orientamento (Sez. Lombardia parere 28.10.2015 n. 351 e Sez. Marche parere 17.12.2014 n. 141), l’incentivo alla progettazione poteva essere riconosciuto per le attività di manutenzione straordinaria, purché si fosse resa necessaria una preventiva attività di progettazione.
Secondo il contrapposto orientamento (Sez. Toscana parere 28.10.2015 n. 490, Sez. Umbria parere 14.05.2015 n. 71, Sez. Liguria parere 24.10.2014 n. 60) -al quale questa Sezione regionale di controllo dichiarava di aderire- l’interpretazione letterale della norma porta a sostenere che ogni tipologia di attività manutentiva, a prescindere dalla presenza o meno di una preventiva attività di progettazione, non possa essere remunerata con l’incentivo ex art. 93, comma 7-ter, d.lgs. n. 163/2006.
Tanto premesso, ritenendo sussistente l’ipotesi di cui all’art. 6, comma 4, del decreto legge 10.10.2012, n. 174, convertito con modificazioni dalla legge 07.12.2012, n.213, la Sezione ha sospeso la pronuncia sul predetto quesito rimettendo gli atti al Presidente della Corte dei conti per le valutazioni di competenza.
A seguito del conseguente deferimento, la Sezione delle autonomie, con la deliberazione 23.03.2016 n. 10 (allegato 1), ha risolto la questione di massima, enunciando il seguente principio di diritto: “
la corretta interpretazione dell’articolo 93, comma 7-ter, d.lgs. 163/2006, alla luce delle disposizioni recate dal d.l. n. 90/2014 e dei criteri individuati dalla legge delega n. 11/2016, è nel senso dell’esclusione dall’incentivo alla progettazione interna di qualunque attività manutentiva, senza distinzione tra manutenzione ordinaria o straordinaria”.
In motivazione, la Sezione delle autonomie ha, altresì, precisato che: “
…la chiara formulazione dell’articolo 93, comma 7-ter, desumibile dall’applicazione del fondamentale canone ermeneutico dell’interpretazione letterale non lasci spazio ad criteri per cosi dire sussidiari, che finirebbero inevitabilmente per alterare la voluntas legis, espressa in modo inequivoco dal tenore letterale delle disposizioni (in claris non fit interpretatio)”.
Questa Sezione regionale di controllo, ai sensi dell’art.6, comma 4, del d.l. 10.10.2012, n.174, convertito dalla legge 07.12.2012, n. 213, si attiene al principio ermeneutico richiamato (Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna, parere 20.04.2016 n. 36).

INCENTIVO PROGETTAZIONELa corretta interpretazione dell’articolo 93, comma 7-ter, d.lgs. 163/2006, alla luce delle disposizioni recate dal d.l. n. 90/2014 e dei criteri individuati dalla legge delega n. 11/2016, è nel senso dell’esclusione dall’incentivo alla progettazione interna di qualunque attività manutentiva, senza distinzione tra manutenzione ordinaria o straordinaria.
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Il Sindaco del Comune di Mazzano (BS), con nota del 13.02.2016, ha formulato una richiesta di parere avente ad oggetto l’interpretazione della disciplina del “fondo per la progettazione e l'innovazione”, previsto dall'art. 93, commi 7-bis, 7-ter e 7-quater del d.lgs. 12.04.2006, n. 163.
L’istante precisa che, ai fini della determinazione della quota destinata ai dipendenti interni, in relazione alla complessità dell'opera, lo schema di regolamento predisposto dall’amministrazione comunale distingue fra “progetti riguardanti nuove opere” (ristrutturazioni, restauri, recuperi edilizi e rifacimenti, manutenzione straordinaria composta) e progetti di sola manutenzione ordinaria.
Alla luce della vigente formulazione del comma 7-ter del citato art. 93 (che sembra escludere tout court le attività manutentive), il Sindaco pone i seguenti quesiti:
a) se i progetti riguardanti la "manutenzione straordinaria composta" ed la “manutenzione ordinaria" vanno inquadrati all'interno della nozione di "attività manutentive", per le quali opera, ex lege, l'esclusione dalla ripartizione del fondo per la progettazione e l'innovazione;
b) se, invece, ai fini della ripartizione del predetto fondo andrebbero escluse solo quelle procedure che, di norma, non richiedono alcuna attività di progettazione (come definita dal d.lgs. n. 163 del 2006 e dal DPR 05.10.2010, n. 207), ossia quelle prestazioni semplici ed uniformi, che non richiedono la produzione di elaborati progettuali, come, per esempio, i cottimi fiduciari indicati all'art. 173 del DPR n. 207 del 2010.
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La Sezione ha già esaminato la richiesta di parere proveniente dal Comune di Mazzano (BS) nella camera di consiglio del 01.03.2016. Nell’occasione, il collegio ha sospeso la pronuncia in attesa che la Sezione delle Autonomie della Corte dei conti decidesse sulla questione di massima sollevata dalla Sezione regionale di controllo per l’Emilia Romagna con parere 15.12.2015 n. 156
Dopo il deposito della deliberazione 23.03.2016 n. 10 della Sezione delle Autonomie, che si è pronunciata sulla questione deferita, il magistrato relatore ha chiesto al Presidente della Sezione regionale la fissazione di una nuova camera di consiglio.
Nella pronuncia indicata, adottata ai sensi dell’art. 6, comma 4, del decreto legge 10.10.2012, n. 174, convertito dalla legge 07.12.2012, n. 213, la Sezione delle Autonomie ha affermato il seguente principio di diritto: “
la corretta interpretazione dell’articolo 93, comma 7-ter, d.lgs. 163/2006, alla luce delle disposizioni recate dal d.l. n. 90/2014 e dei criteri individuati dalla legge delega n. 11/2016, è nel senso dell’esclusione dall’incentivo alla progettazione interna di qualunque attività manutentiva, senza distinzione tra manutenzione ordinaria o straordinaria.”
Il seguente orientamento, per le cui motivazioni si rinvia al testo della deliberazione 23.03.2016 n. 10 vincola l’interpretazione della scrivente Sezione regionale e permette di dare risposta al questo posto dal Comune di Mazzano (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 14.04.2016 n. 111).

PATRIMONIOUn ente locale che si determina per l’acquisto di un bene immobile in ragione di una convenzione urbanistica, ma non ha ancora formalizzato l’acquisto con passaggio notarile, può impegnare il prezzo per l’acquisto del bene costituendo un fondo pluriennale vincolato quando detto prezzo è finanziato con l’avanzo di amministrazione ed è pagato in rate a scadenza su più annualità?
La Sezione osserva che, poiché il verificarsi dei presupposti indicati nella convenzione urbanistica costituisce idoneo titolo giuridico per procedere all’impegno di spesa del prezzo da corrispondere per l’acquisizione del bene immobile previsto nella convenzione medesima, l’ente locale, quando il pagamento è rateizzato in più esercizi finanziari, deve avvalersi dell’istituto del fondo pluriennale vincolato.

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Il Sindaco del Comune di Clusone (BG), con la nota indicata in epigrafe, espone nelle premesse che il Consiglio Comunale aveva approvato, con deliberazione n. 78 del 30.12.2002, convenzione urbanistica, sottoscritta il 07.05.2003, relativa al Piano Integrato di Intervento denominato "Angelo Maj", obbligandosi all'acquisto dell'immobile costituente l'ex Convitto Angelo Maj, al prezzo di € 981.268,00, entro 60 giorni dal collaudo delle opere pubbliche previste dal PII medesimo, eseguito il 26.03.2010 con conseguente perfezionamento dell'obbligo dell'acquisto in data 25.05.2010.
Chiarisce che il 24.05.2010 perveniva al Comune lettera raccomandata da parte della proprietaria dell'immobile in questione con la quale veniva fissata la data del rogito notarile per il giorno 26.07.2010.
Stanti i pesanti riflessi che il pagamento di un importo così elevato avrebbe avuto sui saldi del Patto di Stabilità interno l’amministrazione civica avviava una trattativa con la controparte per addivenire ad un pagamento rateizzato e ad una diversa determinazione del prezzo.
Tenuto conto che l’accordo si è concluso solamente nell'anno 2015, il Consiglio Comunale -con deliberazione n. 24 del 24.03.2015, prendendo atto del medesimo- ha disposto di applicare l'avanzo di amministrazione 2014, nella quota destinata ad investimenti e nella quota libera per il nuovo importo concordato di € 750.000.00.
Oltre il prezzo più contenuto, il comune istante otteneva a proprio vantaggio la rateizzazione del prezzo in sei annualità, nella misura di € 150.000,00 per i primi tre anni e € 100.000,00 per quelli a seguire.
Tuttavia il trasferimento di proprietà dell'immobile non è ancora materialmente avvenuto e nel bilancio di previsione 2015 è stato applicato importo dell'avanzo di amministrazione per € 750.000,00 destinato al pagamento della prima rata ed all'alimentazione della quota di Fondo Pluriennale Vincolato di parte capitale per le rate scadenti negli esercizi successivi per € 600.000,00.
Alla luce di quanto premesso, al fine di verificare la corretta applicazione del principio contabile della competenza finanziaria potenziata ex D.Lgs. 118/2011, l’organo rappresentativo dell’Ente chiede a questa Sezione di esprimere un parere sul seguente quesito: “se sia correttamente costituito il Fondo Pluriennale 'Vincolato di parte capitale per la quota relativa all'acquisto dell'immobile in parola, potendosi ritenere giuridicamente perfezionata l'obbligazione all'acquisto dello stesso, essendosi concretizzate le condizioni previste dalla convenzione urbanistica, anche in assenza del formale passaggio di proprietà del bene con atto notarile.
...
2. Venendo al merito della richiesta, occorre preliminarmente osservare che la Sezione, nell’ambito dell’attività consultiva, non può sindacare le pregresse scelte dell’ente che si riverberano sulle modalità, anche temporali, con le quali l’ente locale è pervenuto alla decisione di acquisire il bene immobile a cui si fa riferimento nella richiesta di parere, trattandosi di opzione gestionale rimessa alla potestà amministrativa riservata dalla legge alla pubblica amministrazione. Dunque, questa Sezione prenderà in esame il quesito formulato dall’ente astraendolo da ogni riferimento alla fattispecie concreta sottostante.
Il quesito può essere riformulato nei termini che seguono:
un ente locale che si determina per l’acquisto di un bene immobile in ragione di una convenzione urbanistica ma non ha ancora formalizzato l’acquisto con passaggio notarile, può impegnare il prezzo per l’acquisto del bene costituendo un fondo pluriennale vincolato quando detto prezzo è finanziato con l’avanzo di amministrazione ed è pagato in rate a scadenza su più annualità?
Per risolvere il quesito formulato, occorre preliminarmente richiamare le regola che disciplinano il fondo pluriennale vincolato.
Il principio applicato 4.2 allegato al d.lgs. n. 118/2011, definisce nello specifico le modalità di costituzione, l’iscrizione in bilancio e la gestione del c.d. fondo pluriennale vincolato che, di fatto, opera come un saldo finanziario, costituito da risorse già accertate (nel caso di specie, l’avanzo di amministrazione risultante dagli esercizi precedenti e accertato nel rispetto degli artt. 186 e 187 Tuel), destinate al finanziamento di obbligazioni passive dell’ente già impegnate, ma esigibili in esercizi successivi a quello in cui è accertata l’entrata (nel caso in esame le rate per il pagamento del prezzo di acquisto dell’immobile).
La finalità del fondo in discorso è sancita al punto 5.4 del richiamato principio contabile applicato: “nasce dall'esigenza di applicare il principio della competenza finanziaria di cui all'allegato 1, e rendere evidente la distanza temporale intercorrente tra l'acquisizione dei finanziamenti e l'effettivo impiego di tali risorse”.
In ordine alla costituzione del fondo il legislatore precisa che questo “è formato solo da entrate correnti vincolate e da entrate destinate al finanziamento di investimenti, accertate e imputate agli esercizi precedenti a quelli di imputazione delle relative spese”, ma “prescinde dalla natura vincolata o destinata delle entrate che lo alimentano”.
Inoltre, “il fondo riguarda prevalentemente le spese in conto capitale ma può essere destinato a garantire la copertura di spese correnti, ad esempio per quelle impegnate a fronte di entrate derivanti da trasferimenti correnti vincolati, esigibili in esercizi precedenti a quelli in cui è esigibile la corrispondente spesa”.
Questo istituto salvaguarda gli equilibri di bilancio perché “sugli stanziamenti di spesa intestati ai singoli fondi pluriennali vincolati non è possibile assumere impegni ed effettuare pagamenti. Il fondo pluriennale risulta immediatamente utilizzabile, a seguito dell'accertamento delle entrate che lo finanziano, ed è possibile procedere all'impegno delle spese esigibili nell'esercizio in corso (la cui copertura è costituita dalle entrate accertate nel medesimo esercizio finanziario), e all'impegno delle spese esigibili negli esercizi successivi (la cui copertura è effettuata dal fondo). In altre parole, il principio della competenza potenziata prevede che il "fondo pluriennale vincolato" sia uno strumento di rappresentazione della programmazione e previsione delle spese pubbliche territoriali, sia correnti sia di investimento, che evidenzi con trasparenza e attendibilità il procedimento di impiego delle risorse acquisite dall'ente che richiedono un periodo di tempo ultrannuale per il loro effettivo impiego ed utilizzo per le finalità programmate e previste”.
Chiarito il funzionamento del fondo pluriennale vincolato e che in entrata può essere alimentato dal risultato di amministrazione vincolato già accertato e accantonato per gli esercizi successivi (principio contabile applicato concernente la competenza finanziaria, allegato 4/2 punto 9.2 capoversi 6 e 7), ai fini della soluzione del quesito in esame, occorre altresì evidenziare che detto fondo può essere costituito solo quando sussiste il titolo giuridico per impegnare la spesa la cui scadenza è ripartita su più esercizi finanziari. Infatti, mentre le entrate vincolate destinate alla copertura di spese impegnate e imputate agli esercizi successivi sono rappresentate nel fondo pluriennale vincolato, diversamente le entrate vincolate destinate alla copertura di spese non ancora impegnate (in assenza di obbligazioni giuridicamente perfezionate) sono rappresentate contabilmente nella quota vincolata del risultato di amministrazione.
Dunque, bisogna affrontare la questione se la sottoscrizione di una convenzione urbanistica che prevede l’obbligo a carico dell’ente di acquisire un determinato bene immobile -anche se il trasferimento non è stato ancora formalizzato con atto notarile- costituisca idoneo titolo giuridico per procedere all’impegno di spesa.
Nel caso di specie,
poiché come riferisce l’ente si sono verificati i presupposti previsti dalla convenzione per far sorgere l’obbligo di acquisto del bene immobile in discorso, a prescindere dalla formalizzazione dell’acquisto mediante atto notarile, si deve ritenere che il titolo giuridico per procedere all’impegno di spesa sussista e, in ragione della scadenza delle singole rate del pagamento del prezzo, l’ente debba procedere ad impegnare la spesa nell’esercizio di competenza.
Detta affermazione è in linea con il principio contenuto nell’allegato sulla competenza finanziaria potenziata (all. 4.2), laddove al punto 5.3. si afferma che “
anche per le spese di investimento che non richiedono la definizione di un cronoprogramma, l'imputazione agli esercizi della spesa riguardante la realizzazione dell'investimento è effettuata nel rispetto del principio generale della competenza finanziaria potenziato, ossia in considerazione dell'esigibilità della spesa. Pertanto, anche per le spese che non sono soggette a gara, è necessario impegnare sulla base di una obbligazione giuridicamente perfezionata, in considerazione della scadenza dell'obbligazione stessa. A tal fine, l'amministrazione, nella fase della contrattazione, richiede, ove possibile, che nel contratto siano indicate le scadenze dei singoli pagamenti. E' in ogni caso auspicabile che l'ente richieda sempre un cronoprogramma della spesa di investimento da realizzare”.
In conclusione,
poiché il verificarsi dei presupposti indicati nella convenzione urbanistica, costituisce idoneo titolo giuridico per procedere all’impegno di spesa del prezzo da corrispondere per l’acquisizione del bene immobile previsto in convenzione, l’ente locale, quando il pagamento è rateizzato in più esercizi finanziari, deve avvalersi dell’istituto del fondo pluriennale vincolato (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 13.04.2016 n. 108).

ENTI LOCALI - LAVORI PUBBLICIL’Ente, in caso di esercizio provvisorio, per finanziare lavori pubblici di somma urgenza, può ricorrere o alla procedura di cui all’art. 163 (fondi capienti indipendentemente dalla presenza di un evento eccezionale o imprevedibile), o alla procedura di cui al comma 3 dell’art. 191 del TUEL ricorrendo la fattispecie ivi prevista. In tale ultimo caso non vi è alcun problema di ordine logico in quanto un bilancio c’è ed esplica i suoi effetti.
Invero,
le nuove regole disciplinate dal TUEL nella versione vigente prevedono che il bilancio di previsione sia redatto su tre anni ed abbia valore autorizzatorio in ciascuno degli anni presi in esame dal bilancio. Pertanto, pur non avendo il Comune approvato il bilancio di previsione 2016-2018, un bilancio 2016 a cui fare riferimento nel corso dell’esercizio provvisorio vi è ed è quello relativo al 2016 approvato per il periodo 2015-2017.
Inoltre,
è lo stesso principio contabile sopra richiamato a riconoscere “l’esistenza” del bilancio nel corso dell’esercizio provvisorio allorquando dispone che “è consentita la possibilità di variare il bilancio gestito in esercizio provvisorio, secondo le modalità previste dalla specifica disciplina di settore”.
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Con la nota indicata in premessa il Sindaco del Comune di Otricoli (TR) chiede a questa Sezione un parere circa la corretta applicazione del combinato disposto degli artt. 191, comma 3 e 194, comma 1, lett. e), del TUEL.
In particolare il Sindaco riferisce di aver valutato la necessità di avviare, per causa di forza maggiore, una procedura di somma urgenza e di trovarsi in esercizio provvisorio ai sensi dell’art. 163 del TUEL. In tali circostanze il Comune di Otricoli chiede se:
1) la previsione dell'articolo 163 del D.Lgs. 18.08.2000 n. 267, che prevede al comma 3 l'esclusione tra i limiti di impegno di spesa, delle spese per somma urgenza, è riferibile anche ai casi di incapienza delle previsioni di bilancio;
2) in esercizio provvisorio sia possibile procedere al riconoscimento dei debiti fuori bilancio [nei termini della] procedura [indicata dall’] articolo 191, comma 3, del D.Lgs, 18.08.2000 n. 267, per le somme che non trovano copertura nelle disponibilità di bilancio.
Il Comune chiede, poi, qualora non fosse possibile procedere al riconoscimento del debito fuori bilancio, come si debba procedere per l'applicazione della somma urgenza in assenza delle disponibilità nel bilancio provvisorio.
...
Per ciò che concerne il merito dei quesiti posti dal Sindaco di Otricoli, la soluzione agli stessi si rinviene nel D.lgs. n. 267 del 2000 e nei principi contabili vigenti.
Con riferimento al primo quesito, il comma 3 dell’art. 163, individua le spese impegnabili in esercizio provvisorio, tra cui quelle relative ai lavori pubblici di somma urgenza o altri interventi di somma urgenza, a cui si applica la disciplina prevista dal medesimo articolo ai commi 4 e 5.
Per procedere ad impegni di spesa su fondi incapienti è necessario che ricorra la fattispecie prevista dal comma 3, dell’art. 191 (“qualora i fondi specificamente previsti in bilancio si dimostrino insufficienti”), norma che si riferisce sia all’insufficienza dei fondi sia all’incapienza degli stessi in quanto in entrambi i casi l’Ente si trova di fronte a lavori di summa urgenza privi di copertura finanziaria (una lettura “restrittiva” vanificherebbe l’intento della norma).
Ritiene questo Collegio che l’Ente abbia la possibilità di attivare la procedura di cui al comma 3, dell’art. 191 [la Giunta,…., su proposta del responsabile del procedimento, sottopone al Consiglio il provvedimento di riconoscimento della spesa con le modalità previste dall'articolo 194, comma 1, lettera e), prevedendo la relativa copertura finanziaria nei limiti delle accertate necessità per la rimozione dello stato di pregiudizio alla pubblica incolumità] nel corso dell’esercizio provvisorio.
Difatti, da una parte la tipologia di spesa è ricompresa tra quelle ammesse dall’art. 163 del TUEL e dai principi contabili vigenti (punto 8.5) nel corso dell’esercizio provvisorio, dall’altra la norma in esame non prevede eccezioni alla procedura ivi richiamata ed è, pertanto, ammissibile il riconoscimento del debito fuori bilancio, o meglio, riconoscimento della spesa con le modalità previste dall'articolo 194, comma 1, lettera e), in caso di evento eccezionale o imprevedibile la cui rimozione richieda lavori che non trovino copertura finanziaria in bilancio. Diversamente argomentando l’Ente si troverebbe nell’impossibilità, ad esempio, di salvaguardare l’incolumità pubblica (finalità che il legislatore intende realizzare con la norma in esame).
Pertanto
l’Ente, in caso di esercizio provvisorio, per finanziare lavori pubblici di somma urgenza, può ricorrere o alla procedura di cui all’art. 163 (fondi capienti indipendentemente dalla presenza di un evento eccezionale o imprevedibile), o alla procedura di cui al comma 3 dell’art. 191 del TUEL ricorrendo la fattispecie ivi prevista. In tale ultimo caso non vi è alcun problema di ordine logico in quanto un bilancio c’è ed esplica i suoi effetti.
Senza voler prendere posizioni circa l’esistenza di un bilancio in esercizio provvisorio sotto il previgente ordinamento contabile,
le nuove regole disciplinate dal TUEL nella versione vigente prevedono che il bilancio di previsione sia redatto su tre anni ed abbia valore autorizzatorio in ciascuno degli anni presi in esame dal bilancio. Pertanto, pur non avendo il Comune approvato il bilancio di previsione 2016-2018, un bilancio 2016 a cui fare riferimento nel corso dell’esercizio provvisorio vi è ed è quello relativo al 2016 approvato per il periodo 2015-2017.
Inoltre,
è lo stesso principio contabile sopra richiamato a riconoscere “l’esistenza” del bilancio nel corso dell’esercizio provvisorio allorquando dispone che “è consentita la possibilità di variare il bilancio gestito in esercizio provvisorio, secondo le modalità previste dalla specifica disciplina di settore (Corte dei Conti, Sez. controllo Umbria, parere 29.02.2016 n. 35).

PUBBLICO IMPIEGOIn ordine alla corretta imputazione contabile della spesa dovuta a titolo di IRAP, che grava sull’Amministrazione quale sostituto d’imposta, per i compensi professionali dovuti all’avvocatura interna, l’obbligo giuridico di provvedere al pagamento dell’IRAP grava in capo all’Amministrazione -non potendosi ricomprendere nel concetto di “onere riflesso”-, che reperirà le risorse per finanziare il pagamento dell’imposta nei fondi destinati a compensare l’attività dell’avvocatura comunale.
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Il Sindaco del Comune di Foligno (PG) ha inoltrato a questa Sezione Regionale di Controllo una richiesta di parere, per il tramite del Consiglio delle Autonomie Locali dell’Umbria, in merito ai compensi professionali dovuti alla avvocatura interna a seguito di sentenza favorevole all'Ente in base all’art. 27 del CCNL 14.09.2000, ed in particolare relativamente alla corretta imputazione contabile della spesa dovuta a titolo di IRAP, che grava sull’Amministrazione quale sostituto d’imposta.
In particolare l’Ente chiede di conoscere se l’IRAP “…debba essere in tutto e per tutto imputata come gli oneri previdenziali, e pertanto contabilmente a carico del compenso lordo maturato in favore del dipendente, ovvero se la provvista finanziaria di tale onere per l'Amministrazione debba essere imputata a carico del bilancio comunale….
...
Nel merito il Comune chiede di conoscere l’avviso della Sezione in merito alla imputazione contabile dell’IRAP, da versare quale sostituto di imposta, in relazione ai compensi professionali dovuti alla avvocatura interna per il caso di sentenza favorevole all'Ente, così come previsto dall’art. 27 del CCNL 14.09.2000. In particolare l’Amministrazione chiede se l’IRAP debba essere assimilata agli oneri previdenziali, e dunque posta a carico del compenso lordo spettante al dipendente, oppure se vada imputata a carico del bilancio comunale o di altra voce del quadro economico dei lavori incentivati.
Occorre premettere che il citato art. 27 del CCNL EE.LL. del 14.09.2000 (Norma per gli enti provvisti di Avvocatura) ha previsto che: “1. Gli enti provvisti di Avvocatura costituita secondo i rispettivi ordinamenti disciplinano la corresponsione dei compensi professionali, dovuti a seguito di sentenza favorevole all’ente, secondo i principi di cui al regio decreto legge 27.11.1933 n. 1578 e disciplinano, altresì, in sede di contrattazione decentrata integrativa la correlazione tra tali compensi professionali e la retribuzione di risultato di cui all’art. 10 del CCNL del 31.03.1999. Sono fatti salvi gli effetti degli atti con i quali gli stessi enti abbiano applicato la disciplina vigente per l’Avvocatura dello Stato anche prima della stipulazione del presente CCNL.”.
Successivamente la legge 23.12.2005, n. 266 (legge finanziaria 2006) all’art. 1, comma 208 (Contenimento oneri personale avvocatura interna delle amministrazioni pubbliche), ha previsto che “Le somme finalizzate alla corresponsione di compensi professionali comunque dovuti al personale dell'avvocatura interna delle amministrazioni pubbliche sulla base di specifiche disposizioni contrattuali sono da considerare comprensive degli oneri riflessi a carico del datore di lavoro.”
La magistratura contabile ha avuto modo di chiarire che nella nozione di “oneri riflessi” indicata dal legislatore vanno ricompresi solo gli “oneri previdenziali ed assistenziali” e non anche i diversi oneri fiscali, quali l’imposta IRAP.
Ciò in base alla considerazione che il presupposto dell’imposta regionale sulle attività produttive è costituito dall’esercizio di una attività organizzata autonomamente, fatto che non ricorre in caso di personale dipendente da un ente, che, per operare, si avvale invece della struttura e dei mezzi dell’ente stesso, datore di lavoro a cui carico resta dunque l’imposta .
Si è pertanto concluso che, in considerazione dei presupposti propri dell’IRAP di cui all’art. 2 del D.lvo n. 446 del 1997, la detta imposta non va considerata ai fini del compenso da erogare ad avvocato dipendente, assegnato all’ufficio legale dell’ente. Ne deriva che l’IRAP non deve essere trattenuta dal compenso corrisposto all’avvocato. (cfr. tra le tante Corte dei conti, Sezione Regionale di controllo per l’Umbria, deliberazione n. 11/2007/p del 22.10.2007; deliberazione n. 1/2008/p del 28.02.2008).
Più di recente la Sezioni Riunite della Corte dei conti, con deliberazione n. 33/CONTR/2010 del 07.06.2010, hanno confermato che l’IRAP, costituendo un onere fiscale, grava sull’ente datore di lavoro, che non deve trattenerla dal compenso corrisposto all’avvocato dipendente.
E’ stato poi precisato che le somme destinate al pagamento dell’IRAP devono trovare copertura finanziaria nell’ambito dei fondi per il pagamento dei compensi professionali dell’avvocatura interna delle amministrazioni pubbliche, nel rispetto dell’art. 81, quarto comma, della Costituzione, in quanto “l’imposta deve, comunque, trovare copertura nell’ambito delle risorse quantificate e disponibili, in linea con l’obiettivo del contenimento di ogni effetto di incremento degli oneri di personale gravanti sui bilanci degli enti pubblici”.
Si è concluso nel senso che “...Pertanto, ai fini della quantificazione dei fondi per l’incentivazione e per le avvocature interne, vanno accantonate, a fini di copertura, rendendole indisponibili, le somme che gravano sull’ente per oneri fiscali, nella specie a titolo di IRAP. Quantificati i fondi nel modo indicato, i compensi vanno corrisposti al netto, rispettivamente, degli “oneri assicurativi e previdenziali” e degli “oneri riflessi”, che non includono, per le ragioni sopra indicate, l’IRAP…”.
In altri termini “...su un piano strettamente contabile, tenuto conto delle modalità di copertura di “tutti gli oneri”, l’amministrazione non potrà che quantificare le disponibilità destinabili ad avvocati e professionisti, accantonando le risorse necessarie a fronteggiare l’onere Irap, come avviene anche per il pagamento delle altre retribuzioni del personale pubblico …. Pertanto, le disposizioni sulla provvista e la copertura degli oneri di personale (tra cui l’Irap) si riflette, in sostanza, sulle disponibilità dei fondi per la progettazione e per l’avvocatura interna ripartibili nei confronti dei dipendenti aventi titolo, da calcolare al netto delle risorse necessarie alla copertura dell’onere Irap gravante sull’amministrazione.”
Va messo in evidenza che l’orientamento espresso dalle Sezioni Riunite, appena riportato, è stato confermato anche dalla giurisprudenza successiva (Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per la Basilicata, deliberazione n. 115/2013; Liguria, n. 38/2014; Veneto, n. 393/2015).
Questa Sezione non ha motivo di discostarsi dall’orientamento consolidatosi in materia, e pertanto il Collegio conclude nel senso che
l’obbligo giuridico di provvedere al pagamento dell’IRAP grava in capo all’Amministrazione -non potendosi ricomprendere nel concetto di “onere riflesso”-, che reperirà le risorse per finanziare il pagamento dell’imposta nei fondi destinati a compensare l’attività dell’avvocatura comunale (Corte dei Conti, Sez. controllo Umbria, parere 29.02.2016 n. 23).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Presidenti, elezioni doc. Nel ballottaggio vince chi ottiene più voti. La disciplina è affidata dalla legge all'autonomia degli enti locali.
Qual è la normativa da applicare per l'elezione del presidente del consiglio comunale qualora emergano, in materia, delle differenze tra la disciplina statutaria e quella regolamentare di un ente locale?

Nella fattispecie in esame, al fine di consentire l'elezione del presidente del consiglio comunale, sono state convocate due sedute consiliari che, tuttavia, non hanno avuto esito positivo. Si è proceduto, quindi, ad una terza votazione di ballottaggio tra i due candidati più votati nella seconda votazione senza esito positivo in quanto si sono registrati, sul totale dei votanti, metà voti a favore di un candidato e metà schede bianche.
Lo statuto comunale prevede che il presidente sia eletto a maggioranza dei due terzi dei componenti l'assemblea. Se, dopo due scrutini, da tenersi in due distinte sedute, nessun candidato ottiene la maggioranza prevista, nella terza votazione si effettua il ballottaggio a maggioranza semplice fra i due candidati che hanno riportato il maggior numero di voti nella seconda votazione.
Il regolamento del consiglio comunale prevede, invece, un'ulteriore votazione successiva alla terza risultata infruttuosa in quanto stabilisce che, qualora nessun candidato ottenga, dopo due scrutini, la maggioranza qualificata prevista dallo statuto, si debba procedere, nella terza votazione, al ballottaggio a maggioranza semplice fra i due candidati che hanno riportato il maggior numero di voti nella seconda votazione e che le votazioni vengano ripetute nella seduta successiva.
Posto che la disciplina del numero legale per la validità delle adunanze (c.d. «quorum strutturale») e delle votazioni (c.d. «quorum funzionale o deliberativo») è stata delegificata -ai sensi dell'art. 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, «il funzionamento dei consigli, nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto, è disciplinato dal regolamento»- nel caso di specie non si ravvisa la discrasia tra le due fonti di autonomia locale, in quanto la normativa regolamentare si limita a disciplinare un'ulteriore votazione di cui non si fa menzione nello statuto.
In altri termini, il regolamento del consiglio comunale non contrasta con nessuna norma statutaria poiché, in quanto fonte abilitata a porre norme sul funzionamento del consiglio, aggiunge un ulteriore passaggio alla procedura prevista dallo statuto per l'elezione del presidente del consiglio comunale.
Le citate fonti di autonomia locale, pertanto, con riferimento al ballottaggio da tenersi nella terza votazione, dovrebbero essere interpretate in coerenza con la ratio che, normalmente, ispira il sistema di ballottaggio; vale a dire considerando eletto quello tra i candidati che abbia ottenuto il più alto numero dei voti a prescindere dal numero dei votanti (articolo ItaliaOggi del 13.05.2016).

APPALTI: Le nuove procedure di affidamento.
DOMANDA:
In ordine alla corretta applicazione di quanto previsto dal nuovo Codice degli Appalti – D.Lgs. n. 50/2016, si chiede:
1. La soglia dei 1.000,00 € per l’acquisizione di beni e servizi in forma autonoma e, quindi, senza obbligo di ricorso a Convenzioni Consip, Piattaforma telematica M.E.P.A., Piattaforma telematica di Sintel/Arca – Regione Lombardia, Centrale Unica di Committenza (C.U.C), è tuttora vigente (L. n. 296/2006 Art. 1, co. 450)?
2. In base al combinato disposto di cui all’art. 36 ed art. 37 del D.Lgs. n. 50/2016, l’affidamento diretto da parte del Comune per la fornitura di beni e servizi di importo inferiore a 40.000, 00 € e lavori di importo inferiore a 150.000,00 deve essere comunque effettuato nell’ambito: a) Convenzione Consip; b) Piattaforma telematica MEPA?
3. In assenza del prodotto richiesto in Convenzione Consip ed in MEPA è possibile procedere alla richiesta di offerta mediante ricorso alle procedure ordinarie (forme tradizionali cartacee per l’espletamento della gara)? O è necessario rivolgersi alla Piattaforma telematica di Sintel/Arca – Regione Lombardia?
RISPOSTA:
Ai sensi dell’art. 35 del D.Lgs. 50/2016 (nuovo Codice degli appalti), emanato in attuazione delle direttive comunitarie 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE, e applicabile a tutti i bandi di gara pubblicati successivamente al 19 aprile u.s., le disposizioni del codice si applicano ai contratti pubblici il cui importo, al netto dell’imposta sul valore aggiunto, è pari o superiore alle soglie seguenti:
- euro 209.000 per gli appalti pubblici di forniture, di servizi e per i concorsi pubblici di progettazione, aggiudicati da amministrazioni aggiudicatrici sub-centrali (inclusi gli enti locali). Il calcolo del valore stimato dell’appalto è basato sull'importo totale pagabile, al netto dell'IVA, valutato dall'amministrazione aggiudicatrice. Il calcolo tiene conto dell'importo massimo stimato, ivi compresa qualsiasi forma di eventuali opzioni o rinnovi del contratto esplicitamente stabiliti nei documenti di gara.
L’affidamento e l'esecuzione di lavori, servizi e forniture sotto soglia, avvengono nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, tempestività e correttezza, nonché nel rispetto del principio di rotazione e in modo da assicurare l'effettiva possibilità di partecipazione delle micro, piccole e medie imprese, secondo le seguenti modalità:
   1) per affidamenti di importo inferiore a 40.000 euro, mediante affidamento diretto, adeguatamente motivato o per i lavori in amministrazione diretta;
   2) per affidamenti di importo pari o superiore a 40.000 euro e inferiore alle soglie per le forniture e i servizi (209.000), mediante procedura negoziata previa consultazione, ove esistenti, di almeno cinque operatori economici individuati sulla base di indagini di mercato o tramite elenchi di operatori economici, nel rispetto di un criterio di rotazione degli inviti.
Le S.A sono comunque obbligate (la norma fa infatti salvo quanto previsto dagli articoli 37 e 38) a utilizzare gli strumenti di acquisto e di negoziazione, anche telematici, previsti dalle vigenti disposizioni in materia di contenimento della spesa. Potranno farlo in modalità autonoma ove in possesso della necessaria qualificazione di cui all'articolo 38 (iscritte in apposito elenco delle s.a. qualificate presso l’Anac, perché in possesso dei requisiti tecnico organizzativi definiti con dpcm da emanarsi entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore del codice).
Al momento questa parte della disciplina non è applicabile. In alternativa, possono acquisire lavori, forniture o servizi mediante impiego di una centrale di committenza qualificata secondo la normativa vigente, ovvero mediante aggregazione con una o più stazioni appaltanti aventi la necessaria qualifica. Lo stesso avviene in caso di indisponibilità degli strumenti telematici anche in relazione alle singole categorie merceologiche.
L’articolo 1, comma 450, della legge 27.12.2006, n. 296, come modificato dal comma 502 della legge di stabilità 2016 (Legge 208/2015), prevede che le altre amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1 d.lgs. 165/01 sono tenute a fare ricorso al me.P.A. ovvero ad altri mercati elettronici per gli acquisti di beni e servizi di importo pari o superiore a 1.000 euro (ad eccezione degli acquisti di beni e strumenti informatici, per cui è sempre obbligatorio il ricorso al me.PA, ai sensi del co. 508 L. 208/2015).
Sulla base della normativa richiamata, si risponde nel dettaglio ai quesiti posti:
   1) La soglia dei 1.000,00 € per l’acquisizione di beni e servizi in forma autonoma e, quindi, senza obbligo di ricorso a Convenzioni Consip, Piattaforma telematica M.E.P.A., Piattaforma telematica di Sintel/Arca – Regione Lombardia, Centrale Unica di Committenza (C.U.C), è tutt’ora vigente.
   2) L’affidamento diretto da parte del Comune di appalti per la fornitura di beni e servizi di importo inferiore a 40.000 euro e lavori di importo inferiore a 150.000 euro deve essere comunque effettuato: utilizzando gli strumenti di acquisto e di negoziazione, anche telematici, previsti dalle vigenti disposizioni in materia di contenimento della spesa in modalità autonoma ove in possesso della necessaria qualificazione di cui all'articolo 38 (iscritte in apposito elenco delle s.a. qualificate presso l’Anac, perché in possesso dei requisiti tecnico organizzativi definiti con dpcm da emanarsi entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore del codice).
Al momento questa parte della disciplina non è applicabile. mediante impiego di una centrale di committenza qualificata, o mediante aggregazione con una o più stazioni appaltanti aventi la necessaria qualifica (unioni di Comuni, convenzioni, SUA).
   3) In caso di indisponibilità degli strumenti telematici, anche in relazione alle singole categorie merceologiche, le stazioni appaltanti procedono mediante impiego di una centrale di committenza qualificata (ex art. 38, ma la norma non è ancora attuabile), o mediante aggregazione con una o più stazioni appaltanti aventi la necessaria qualifica (unioni di Comuni, convenzioni, SUA), o procedono mediante lo svolgimento di procedura ordinaria (artt. 60 e ss.)
(link a www.ancirisponde.ancitel.it).

PATRIMONIO: L'impianto sportivo.
DOMANDA:
Questo Comune lo scorso anno ha affidato per 15 anni ad una società sportiva dilettantistica la gestione di un bene pubblico (impianto sportivo di calcio) per le finalità proprie dello stesso. L’affidamento è stato fatto a seguito di pubblico avviso nel rispetto dei principi di trasparenza ecc.
La precedente gestione era stata affidata ad una società sportiva dilettantistica che non aveva più interesse ne mezzi sufficienti a condurre una gestione in pareggio. Il comune annualmente versava a favore di detta società sportiva dilettantistica un contributo variabile (tra 25000 e 30000 euro) per supportare le spese di gestione. Detto contributo viene adesso versato anche al nuovo gestore vista la scarsa rilevanza economica dell’impianto, peraltro assai vetusto.
Il nuovo gestore (la nuova associazione sportiva dilettantistica) propone oggi al comune di eseguire importanti lavori di miglioramento della struttura e dei vari impianti e locali accessori (campo in erba da trasformare in sintetico, irrigazione, illuminazione, spogliatoi ecc. ecc.) per un importo complessivo stimabile in circa 4500000 euro. Il vantaggio di questi interventi di miglioria sarebbe immediatamente quello di rendere meno onerosa la gestione con risparmi evidenti sulle utenze ed una maggiore fruibilità degli impianti anche da parte di utenze di comuni vicini, con evidente vantaggio per riequilibrare le spese di gestione attuali.
Il nuovo gestore avrebbe la possibilità di realizzare circa il 50% dei vari lavori di miglioria tramite sponsor che avrebbero tutto l’interesse a finanziare i lavori anche eseguendoli direttamente trattandosi di imprese locali (debitamente qualificate) ed interessate a pubblicizzare la loro attività.
Il comune dovrebbe versare al gestore (sulla base di un progetto dallo stesso presentato) un contributo pari alla differenza dei lavori che lo lo stesso gestore realizzerebbe tramite sponsor e ditte specializzate ed in possesso dei regolari requisiti di legge e relative qualifiche (SOA ecc.).
L’offerta del gestore per il comune è sicuramente interessante ed il contributo verrebbe versato solo in base ai lavori man mano eseguiti e certificati. Si chiede di sapere se il comune può procedere nel modo suddetto e con quali modalità.
RISPOSTA:
Le esigenze descritte nel quesito di avvalersi di un affidatario gestore dell’impianto sportivo di calcio anche per eseguire i lavori descritti nel quesito versando al medesimo un contributo pari alla differenza di importo necessario rispetto a quello ottenuto dallo stesso gestore tramite suoi sponsor, delinea sicuramente una sistematica che può essere ricondotta all’istituto della concessione disciplinata dall’art. 142 ss. del vecchio codice ed ora dall’art. 164 ss. del nuovo codice dei contratti pubblici.
Si consiglia pertanto di valutare attentamente la problematica in relazione alle nuove disposizione verificando in particolare i nuovi limiti e modalità di affidamento e le nuove limitazioni in ordine alla possibilità della PA di concedere un contributo economico in aggiunta alla gestione in chiave produttiva del bene (v. in particolare art. 165, comma 2, in ordine al limite del 30% dell’investimento)
(link a www.ancirisponde.ancitel.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'ordinanza di demolizione.
DOMANDA:
Si chiede di sapere quali siano i provvedimenti da intraprendere per sanzionare l'inottemperanza ad una ordinanza di demolizione a firma del funzionario responsabile (titolare di posizione organizzativa) dell'area urbanistica.
RISPOSTA:
L’art. 17 del d. l. 133/2014, al fine di imprimere impulso alle attività di vigilanza urbanistico - edilizia e alla semplificazione delle procedure volte alla irrogazione delle sanzioni ripristinatorie conseguenti all’accertamento di reati legati all’abusivismo edilizio, ha integrato il comma 4 dell’art. 31 del D.P.R. 380/2001 con ulteriori tre commi, prevedendo, in particolare, una sanzione amministrativa pecuniaria di importo compreso tra 2.000 euro e 20.000 euro da comminarsi a carico del responsabile dell’abuso che risulti inadempiente, decorso il termine perentorio di novanta giorni dall’ingiunzioni stabilito per provvedere alla demolizione o alla rimessa in pristino dello stato dei luoghi.
La quantificazione della sanzione, di competenza del dirigente, trova una compiuta disciplina generale nell’art. 11 della legge n. 689/1981, “Modifiche al sistema penale”, secondo cui: “Nella determinazione della sanzione amministrativa pecuniaria fissata dalla legge tra un limite minimo ed un limite massimo e nell'applicazione delle sanzioni accessorie facoltative, si ha riguardo alla gravità della violazione, all'opera svolta dall'agente per l'eliminazione o attenuazione delle conseguenze della violazione, nonché alla personalità dello stesso e alle sue condizioni economiche”.
Tuttavia, nulla vieta, come negli altri casi di sanzioni amministrative pecuniarie di competenza degli enti locali, fissate dalla legge tra un limite minimo e un limite massimo, il consiglio, con atto regolamentare, stabilisca criteri ai quali il dirigente debba attenersi per la determinazione della sanzione.
Si ritiene invece che non possa essere modificata la disposizione prevista dalla norma che stabilisce la misura massima in caso di abusi realizzati sulle aree e sugli edifici di cui al comma 2 dell’art. 27 del D.P.R. 380/2001, ivi comprese le aree soggette a rischio idrogeologico elevato o molto elevato.
L’irrogazione della sanzione amministrativa pecuniaria non deve far ritardare, da parte del responsabile, l’adozione degli altri atti, previsti dalla normativa, tesi al ripristino della situazione precedente all’abuso: l’acquisizione dell’area, l’immissione in possesso, la trascrizione nei registri immobiliari e l’eventuale demolizione dell’opera acquisita
(link a www.ancirisponde.ancitel.it).

APPALTI L'affidamento del servizio biblioteca comunale.
DOMANDA:
Questa Amministrazione, dovendo affidare il servizio biblioteca comunale e premio letterario, chiede se sia possibile procedere mediante affidamento diretto come previsto dall'art. 36 (contratti sotto soglia) comma 2 del D.Lgs. n. 50/2016.
RISPOSTA:
L’affidamento del servizio di gestione della biblioteca può avvenire mediante affidamento diretto, ai sensi dell’art. 36 del D.Lgs. 50/2016, solo se di importo inferiore a 40.000 euro, al netto dell'IVA. Il calcolo tiene conto dell'importo massimo stimato, ivi compresa qualsiasi forma di eventuali opzioni o rinnovi del contratto esplicitamente stabiliti nei documenti di gara.
L’affidamento deve comunque avvenire attraverso ordini a valere su strumenti di acquisto, che non richiedono apertura del confronto competitivo, messi a disposizione dalle centrali di committenza (convenzioni Consip, accordi quadro CUC, acquisti a catalogo). Se invece l’importo del servizio è pari o superiore a 40.000 euro, l’affidamento avviene mediante procedura negoziata previa consultazione, ove esistenti, di almeno cinque operatori economici (indagini di mercato, elenchi di operatori economici, rotazione degli inviti).
Anche in questo caso, le S.A sono comunque obbligate a utilizzare gli strumenti di acquisto e di negoziazione, anche telematici (strumenti che richiedono apertura del confronto competitivo).
Ma possono farlo autonomamente solo se sono S.A. qualificate, ai sensi dell’art. 38 (ossia iscritte in elenco Anac, perché in possesso dei requisiti tecnico organizzativi definiti con DPCM da emanarsi entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore del codice. Al momento questa parte della disciplina non è applicabile). Altrimenti devono ricorrere ad una centrale di committenza qualificata
(link a www.ancirisponde.ancitel.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Gruppo misto, comuni liberi. È l'ente a decidere il numero minimo per la costituzione. Consiglio di stato: le norme regolamentari non possono essere disapplicate se non previo ritiro.
La disciplina prevista dal regolamento sul funzionamento del consiglio comunale può condizionare la possibilità di costituire il gruppo misto alla circostanza che lo stesso sia composto da almeno due consiglieri, con ciò impedendo la formazione del gruppo misto monopersonale?
L'esistenza dei gruppi consiliari non è espressamente prevista dalla legge e la relativa materia è regolata dalle norme statutarie e regolamentari dei singoli enti locali.
In un precedente parere di questo ministero, il cui orientamento si conferma, era stato osservato che, «in assenza di disposizioni che escludano espressamente la possibilità di istituire il gruppo misto anche con la partecipazione di un unico componente, si potrebbe accedere a un'interpretazione delle fonti di autonomia locale orientata alla valorizzazione dei diritti dei singoli di poter aderire ad un gruppo consiliare».
Nel caso di specie, però, il regolamento del consiglio comunale vieta espressamente la possibilità di costituire il gruppo misto uni personale e, pertanto, va da sé che l'avviso espresso in altra circostanza non può essere adattato al diverso contesto normativo in vigore nel comune in oggetto.
In merito, appare utile richiamare le osservazioni formulate dal Consiglio di stato con sentenza n. 3357 del 2010, in base alle quali, una volta adottato il regolamento recante le norme sul funzionamento del consiglio comunale, queste ultime non possono essere disapplicate se non previo ritiro.
Pertanto, poiché la materia dei «gruppi consiliari» è interamente demandata alla competenza delle fonti di autonomia locale, è in tale ambito che potrà essere valutata l'opportunità di adottare apposite modifiche alla normativa in questione (articolo ItaliaOggi del 06.05.2016).

PATRIMONIO: Possibilità acquisizioni immobili, ai sensi dell'art. 12, comma 1-ter, D.L. n. 98/2011.
La disposizione di cui all'art. 12, comma 1-ter, D.L. n. 98/2011, prevede per le pubbliche amministrazione un regime di limitazione per gli acquisti di immobili a decorrere dall'01.01.2014.
La Corte dei conti ritiene l'inapplicabilità di questa disciplina vincolistica ai casi di permuta pura, ovvero senza conguaglio di prezzo a carico dell'ente territoriale.
Specificamente, la fattispecie della permuta di cosa presente con cosa futura postula la manifestazione della volontà delle parti nel senso di trasferimento della proprietà attuale in cambio della cosa futura, che sarà acquisita nel momento in cui verrà ad esistenza (artt. 1555 e 1472 c.c.).

Il Comune, proprietario di un terreno edificabile, sul quale insiste un edificio che necessiterebbe di importanti lavori di ristrutturazione, ha ricevuto proposta, da parte del proprietario di un terreno adiacente, di un accordo avente ad oggetto il trasferimento della proprietà del terreno e dell'edificio comunali in cambio dell'acquisto del diritto di proprietà su immobili che verranno realizzati su una superficie inclusiva del terreno comunale di cui trattasi, nell'ambito di un piano di riqualificazione urbana dell'area.
Il Comune precisa che l'operazione avverrebbe senza ulteriori spese, e chiede se la stessa sia possibile ai sensi della normativa vigente, in particolare avuto riguardo ai vincoli posti dall'art. 12, comma 1-ter, D.L. n. 98/2011
[1].
L'art. 12, comma 1-ter, richiamato dall'Ente prevede che, a decorrere dall'01.01.2014, al fine di pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno, gli enti territoriali (e gli enti del Servizio sanitario nazionale) effettuano operazioni di acquisto di immobili solo ove ne siano comprovate documentalmente l'indispensabilità e l'indilazionabilità attestate dal responsabile del procedimento. La congruità del prezzo è attestata dall'Agenzia del demanio
[2].
Nel quadro di questo regime vincolistico di acquisti immobiliari, il Comune prospetta un'operazione di acquisizione di immobili dietro trasferimento di sue proprietà immobiliari: detta operazione sembrerebbe presentare i caratteri della permuta, per cui si espongono alcune considerazioni, in generale, sulle condizioni che rendono legittima detta modalità di acquisizione di immobili, stante le previsioni di cui all'art. 12, comma 1-ter, D.L. n. 98/2011, ed in particolare sulle condizioni che integrano la permuta di cosa presente con cosa futura, visto che i locali che acquisirà il comune non sono ancora esistenti
[3].
In ordine alla possibilità di effettuare operazioni di permuta immobiliare, da parte degli enti locali, nel quadro della disciplina vincolistica richiamata, la Corte dei conti ha distinto la fattispecie della permuta pura da quella della permuta con conguaglio di prezzo a carico dell'ente territoriale. La permuta pura costituisce un'operazione finanziariamente neutra e pertanto non rientra nell'ambito di applicazione del comma 1-ter dell'art. 12, D.L. n. 98/2011, nel presupposto dell'effettiva coincidenza di valore, idoneamente accertata, fra i beni oggetto di permuta. Per contro, nell'ipotesi in cui l'operazione comprenda il versamento, da parte dell'ente territoriale, della differenza di valore fra i beni oggetto della permuta, con conseguente qualificazione dell'operazione non in termini di neutralità finanziaria, si ricade nell'alveo di applicazione del comma 1-ter in argomento
[4].
La distinzione tra permuta pura e permuta non a parità di prezzo, ovvero con erogazione in denaro a conguaglio da parte dell'amministrazione -osserva il magistrato contabile- è operata oltre che dalla giurisprudenza contabile anche dallo stesso legislatore, che ha espressamente disposto la non applicabilità del previgente art. 12, comma 1-quater, DL n. 98/2011, tra l'altro, alle permute a parità di prezzo (art. 10-bis, c. 1, DL n. 35/2013, richiamato)
[5]. Per cui, si impone all'ente locale una puntuale quantificazione del valore di quanto sarà oggetto della permuta al fine di garantire l'effettiva parità di prezzo richiesta dalla norma [6].
Nel caso in esame, viene in considerazione il trasferimento di un terreno edificabile, con l'edificio che vi insiste, di proprietà del Comune, in cambio dell'acquisizione di locali ancora da realizzarsi, e dunque potrebbe configurarsi, al ricorrere di determinate circostanze che si vanno ad esporre, la fattispecie della permuta di cose future.
La Corte dei conti Marche ha preso in esame la possibilità della permuta di cose future, nell'anno 2013, ai sensi del previgente art. 12, comma 1-quater, DL n. 98/2011, prima che intervenisse l'interpretazione autentica operata dal D.L. n. 35/2013, ed ha concluso, in quella sede, per l'inclusione della fattispecie della permuta nella norma di divieto di acquisto
[7].
Posto che, a seguito dell'interpretazione autentica suddetta, è stato risolto (in senso positivo), sul piano legislativo e giurisprudenziale, il dubbio sull'esclusione delle operazioni di permuta pura dalla normativa limitativa di cui al previgente comma 1-quater dell'art. 12, DL n. 98/2011
[8], e dunque da quella, meno incisiva, di cui al vigente comma 1-ter, appaiono utili le considerazioni della Corte dei conti Marche sulla configurabilità della permuta di cosa futura, al fine di escluderla dal campo di applicazione del divieto di acquisto di cui al comma 1-ter in argomento.
Al riguardo, la Corte dei conti Marche richiama le riflessioni della Corte di cassazione, secondo cui la fattispecie della permuta di cosa presente con cosa futura si può constatare soltanto dopo un'attenta interpretazione della reale volontà delle parti nel caso concreto.
E così, la Suprema Corte, muovendo dalla effettiva volontà delle parti nella fattispecie dedotta in giudizio, ha sostenuto che il contratto con cui una parte cede all'altra la proprietà di un'area edificabile, in cambio di un appartamento sito nel fabbricato che sarà realizzato sulla stessa area a cura e con mezzi del cessionario, integra gli estremi del contratto di permuta tra un bene esistente ed un bene futuro, qualora il sinallagma negoziale consista nel trasferimento della proprietà attuale in cambio della cosa futura.
È il caso di osservare che nella stessa sentenza la Corte di cassazione ha utilizzato il principio espresso per escludere l'applicabilità della permuta nella fattispecie dedotta in giudizio, in quanto il sinallagma contrattuale non consisteva nel trasferimento immediato e reciproco del diritto di proprietà attuale del terreno e di quello futuro sul fabbricato, ma si articolava in due distinti contratti, vendita con effetti reali immediati del terreno e promessa di vendita, con effetti obbligatori, con la quale le parti si impegnavano a stipulare un successivo contratto per l'alienazione di una parte del fabbricato da costruire
[9].
Ed ancora, in altra sede, la Corte di cassazione ha affermato che la cessione di un'area edificabile in cambio di un appartamento sito nel fabbricato realizzato a cura e con i mezzi del cessionario può integrare tanto gli estremi della permuta tra un bene esistente ed un bene futuro quanto quelli del negozio misto caratterizzato da elementi propri della vendita e dell'appalto, ricorrendo la prima ipotesi qualora il sinallagma contrattuale consista nel trasferimento della proprietà attuale in cambio della cosa futura (l'obbligo di erigere il manufatto collocandosi, conseguentemente, su di un piano accessorio e strumentale), verificandosi la seconda ove, al contrario, la costruzione del fabbricato assuma rilievo centrale all'interno della convenzione negoziale, e l'alienazione dell'area costituisca solo il mezzo per pervenire a tale obiettivo primario delle parti
[10].
Alla luce delle considerazioni esposte, l'operazione prospettata dal Comune può assumere i caratteri della permuta di cosa presente con cosa futura se la volontà espressa dalle parti sia nel senso di trasferimento della proprietà attuale in cambio della cosa futura, che sarà acquisita nel momento in cui verrà ad esistenza (artt. 1555 e 1472 c.c.), ed appare consentita, ai sensi del comma 1-ter, dell'art. 12, DL n. 98/2011, soltanto qualora vi sia la corrispondenza di valore tra gli immobili comunali ceduti (terreno ed edificio) e gli immobili futuri che acquisirà il Comune, senza conguaglio di prezzo a suo carico (permuta pura).
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[1] Sull'applicazione dell'art. 12, comma 1-ter, in argomento, ali enti locali del Friuli Venezia Giulia, v. parere di questo Servizio n. 676/2015, consultabile all'indirizzo web: http://autonomielocali.regione.fvg.it
[2] Attualmente non è più vigente la norma imperativa che vietava l'acquisto di beni immobili, nell'anno 2013, da parte delle pubbliche amministrazioni, contenuta nel comma 1-quater dell'art. 12, D.L. n. 98/2011, introdotto dall'art. 1, c. 138, L. n. 228/2012. Detto comma 1-quater era stato oggetto di una norma di interpretazione autentica (art. 10-bis, c. 1, D.L. n. 35/2013), al fine di escludere espressamente dall'ambito di applicabilità del divieto ivi contenuto, tra l'altro, le permute 'a parità di prezzo' (cfr. Corte dei conti. sez. contr. Lombardia, deliberazione 05.03.2014, n. 97).
[3] Ai sensi dell'art. 1552 c.c., 'La permuta è il contratto che ha per oggetto il reciproco trasferimento della proprietà di cose, o di altri diritti, da un contraente all'altro'.
Per quanto concerne, in particolare, la permuta di cosa presente con cosa futura, la stessa è possibile in forza del rinvio alla disciplina della vendita operato per la permuta dall'art. 1555 c.c., con conseguente applicazione dell'art. 1472 c.c., disciplinante la vendita di cose future, la cui proprietà si acquista non appena vengano ad esistenza. Infatti, la vendita di cosa futura si configura quale vendita con effetti reali differiti, in quanto il trasferimento del bene futuro avverrà solo con la sua venuta ad esistenza.
[4] Cfr. Corte dei conti Lombardia, n. 97/2014, cit.. Nello stesso senso, C. conti Lombardia, deliberazione 23.04.2013, n. 162, secondo cui il tenore letterale del comma 1-ter dell'art. 12, DL n. 98/2011, rivela l'inapplicabilità delle prescrizioni ivi contenute ai casi di permuta pura, o al massimo laddove sia previsto un conguaglio, da erogarsi però a carico del privato; diversamente, si rientrerebbe all'interno della norma interdittiva. Conformi, C. conti Lombardia, deliberazione 23.04.2013, n. 164, e C. conti Lombardia, deliberazione 07.05.2013, n. 193, richiamate da C. conti Lombardia 24.09.2015, n. 310.
[5] C. conti, sez. contr. Piemonte, 30.10.2014, n. 203.
[6] C. conti, sez. contr. Piemonte, 18.06.2013, n. 236.
[7] Corte dei conti, sez. contr. Marche, 12.02.2013, n. 7.
[8] Corte dei conti Piemonte n. 236/2013 e n. 203/2014, citt..
[9] Cass. civ., sez. I, 22.12.2005, n. 28479.
[10] Cass. civ., sez. I, 21.11.1997, n. 11643, secondo cui l'indagine sul reale contenuto delle volontà espresse nella convenzione negoziale spetta al Giudice di merito
(04.05.2016 -
link a www.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Accesso senza la privacy. Il diritto dei consiglieri comunali è illimitato. Non possono essere opposti profili di riservatezza, ma va tutelato il segreto.
Sono ostensibili, da parte dell'amministrazione comunale, i documenti concernenti il rilascio di titoli abilitativi, studi di fattibilità, documenti dello Sportello unico attività produttive e dell'Ufficio edilizia privata-urbanistica richiesti dai consiglieri comunali ai sensi dell'art. 43, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000?
L'istanza di accesso ai documenti rientranti in tale elenco può essere riscontrata negativamente in ragione delle eventuali pretese risarcitorie dei soggetti privati coinvolti, eventualmente danneggiati dalla diffusione delle notizie in possesso della amministrazione?

L'art. 43, comma 2, riconosce al consigliere comunale un diritto dai confini più ampi sia del diritto di accesso ai documenti amministrativi attribuito al cittadino nei confronti del comune di residenza, ai sensi dell'art. 10 del decreto legislativo n. 267/2000 che, più in generale, nei confronti della pubblica amministrazione come disciplinato dalla legge n. 241/1990.
La Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi con parere espresso nella seduta del 28.02.2012 ha affermato che «il diritto di accesso riconosciuto ai consiglieri degli organi elettorali locali ex art. 43 decreto legislativo n. 267/2000 è strettamente funzionale all'esercizio del proprio mandato, alla verifica e al controllo del comportamento degli organi istituzionali decisionali dell'ente territoriale, ai fini della tutela degli interessi pubblici, e si configura come peculiare espressione del principio democratico dell'autonomia locale e della rappresentanza esponenziale della collettività (Consiglio di stato sez. V, 08.11.2011, n. 5895). In tale ottica, al consigliere comunale non può essere opposto alcun diniego, altrimenti gli organi di governo dell'ente sarebbero arbitri di stabilire essi stessi l'estensione del controllo sul proprio operato».
La giurisprudenza del Consiglio di stato si è orientata nel senso di ritenere che l'ampia prerogativa a ottenere informazioni è riconosciuta ai consiglieri comunali senza che possano essere opposti profili di riservatezza, restando fermi, tuttavia, gli obblighi di tutela del segreto e i divieti di divulgazione di dati personali, nei casi specificamente determinati dalla legge, come previsto dal sopra richiamato art. 43.
Anche il Tribunale amministrativo regionale della Lombardia (sezione di Milano) con sentenza n. 2363 del 23.09.2014 ha riconosciuto un ampio diritto dei consiglieri comunali ad accedere agli atti del comune in quanto «non è in dubbio che possa essere ostensibile anche documentazione che, per ragioni di riservatezza, non sarebbe ordinariamente ostensibile ad altri richiedenti, essendo il consigliere tenuto al segreto d'ufficio» (articolo ItaliaOggi del 29.04.2016).

APPALTI FORNITURE: Acquisto mobili e arredi da parte degli enti locali nell'anno 2016.
L'art. 10, comma 3, D.L. n. 210/2015, nel novellare l'art. 1, comma 141, L. n. 228/2012, statuente limiti agli acquisti di mobili e arredi delle pubbliche amministrazioni, da un lato ha prorogato la sua applicazione a tutto il 2016 e dall'altro ha disposto per tale anno l'esclusione degli enti locali dall'ambito applicativo del divieto.
Il Comune riferisce l'intenzione di attivare un Punto di informazione turistica per finalità di promozione del proprio territorio, e chiede se, alla luce della normativa vigente -in particolare, in considerazione dei limiti di spesa di cui al comma 141
[1] dell'art. 1 della L. n. 228/2012 e delle ipotesi derogatorie di cui al successivo comma 165 [2]- possa procedere all'acquisto dei mobili necessari all'arredo di detto Ufficio turistico.
La questione posta dall'Ente è allo stato superata, per l'anno 2016, a seguito della modifica normativa recata dal D.L. n. 210/2015. In particolare, l'art. 10 comma 3, D.L. n. 210/2015, nel novellare l'art. 1, comma 141, L. n. 228/2012, da un lato ha prorogato la sua applicazione a tutto l'anno 2016 e dall'altro ha disposto che 'Per l'anno 2016 gli enti locali sono esclusi dal divieto di cui al citato articolo 1, comma 141, della legge n. 228 del 2012'.
In virtù dell'art. 10, comma 3, richiamato, l'Ente istante non è soggetto, dunque, nell'anno 2016, al limite di acquisto di mobili e arredi, di cui all'art. 1, comma 141, L. n. 228/2012.
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[1] Si riporta il testo del comma 141 in commento: 'Ferme restando le misure di contenimento della spesa già previste dalle vigenti disposizioni, negli anni 2013, 2014, 2015 e 2016 le amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi dell'articolo 1, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196, e successive modificazioni, nonché le autorità indipendenti e la Commissione nazionale per le società e la borsa (CONSOB) non possono effettuare spese di ammontare superiore al 20 per cento della spesa sostenuta in media negli anni 2010 e 2011 per l'acquisto di mobili e arredi, se non destinati all'uso scolastico e dei servizi all'infanzia, salvo che l'acquisto sia funzionale alla riduzione delle spese connesse alla conduzione degli immobili. In tal caso il collegio dei revisori dei conti o l'ufficio centrale di bilancio verifica preventivamente i risparmi realizzabili, che devono essere superiori alla minore spesa derivante dall'attuazione del presente comma. La violazione della presente disposizione è valutabile ai fini della responsabilità amministrativa e disciplinare dei dirigenti'.
[2] Si riporta il testo del comma 165 in commento: 'I limiti di cui al precedente comma 141 non si applicano agli investimenti connessi agli interventi speciali realizzati al fine di promuovere lo sviluppo economico e la coesione sociale e territoriale, di rimuovere gli squilibri economici, sociali, istituzionali e amministrativi del Paese e di favorire l'effettivo esercizio dei diritti della persona in conformità al quinto comma dell'articolo 119 della Costituzione e finanziati con risorse aggiuntive ai sensi del decreto legislativo 31.05.2011, n. 88'
(21.04.2016 -
link a www.regione.fvg.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI: Istanza di accesso, formulata da un cittadino, rispetto alla documentazione prodotta a giustificazione della richiesta per il rimborso degli oneri sostenuti a cagione dei permessi retribuiti, goduti da un amministratore locale, ai sensi degli articoli 79 e 80 del decreto legislativo 267/2000 (TUEL).
Nel caso di richiesta, presentata da un cittadino, di ottenere copia della documentazione giustificativa inerente al rimborso degli oneri relativi ai permessi retribuiti goduti da un amministratore comunale ai sensi degli artt. 79 ed 80 del d.lgs. 267/2000, non si ritiene sussistente l'interesse diretto, concreto e attuale connesso ad una situazione giuridicamente rilevante che legittima l'esercizio del diritto di accesso.
Il Comune presenta una richiesta di parere in merito ad un'istanza di accesso, formulata da parte di un cittadino e finalizzata ad ottenere copia della documentazione giustificativa concernente il rimborso degli oneri connessi ai permessi retribuiti goduti da un amministratore locale, ai sensi degli articoli 79 e 80 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 - Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali (TUEL).
Al riguardo, l'ente locale, nel domandare se, nel caso di specie, sia tenuto al rilascio di quanto richiesto, precisa che il cittadino, che ha formulato l'istanza, non appare portatore di alcun interesse giuridicamente rilevante.
Lo scrivente ritiene che in relazione alla richiesta di accesso in oggetto non sussistano i presupposti che ne possano giustificare l'accoglimento, in considerazione dell'assenza di un interesse diretto, concreto ed attuale connesso ad una situazione giuridicamente rilevante; inoltre, anche qualora fosse motivatamente dimostrata l'esistenza di quest'ultimo, l'istanza di accesso porrebbe un problema di tutela della riservatezza dei terzi controinteressati
[1].
Al fine di fornire risposta all'illustrato quesito, è necessario premettere alcune considerazioni sull'istituto del diritto di accesso ai documenti amministrativi.
Si precisa, anzitutto, che, indipendentemente dalla natura del diritto di accesso, esso è pur sempre strumentale rispetto alla protezione di un'ulteriore o sottesa situazione soggettiva che non necessariamente è di interesse legittimo o di diritto soggettivo, ma che può avere anche la consistenza di un interesse semplice o di fatto
[2].
Tale posizione giuridica attiva, in qualsiasi modo la si voglia qualificare, deve sempre sussistere affinché la pretesa di accedere agli atti possa trovare protezione.
L'orientamento della giustizia amministrativa è, pertanto, nel senso che il diritto di accesso postula sempre un accertamento concreto dell'esistenza di un interesse differenziato della parte che richiede i documenti.
Si rammenta, inoltre, che il principio della trasparenza amministrativa, accolto dal nostro ordinamento, non è assoluto e incondizionato, ma subisce alcuni temperamenti, basati, fra l'altro, sulla limitazione dei soggetti attivi del diritto di accesso.
Da quanto sopra, discende l'esigenza di appurare un collegamento diretto tra il richiedente e il documento: la posizione legittimante l'accesso è costituita da una situazione giuridicamente rilevante e dal collegamento tra questa posizione sostanziale qualificata e la specifica documentazione di cui si pretende la conoscenza e della quale si chiede l'esibizione, onde poi procedere nella sede ritenuta più opportuna per la sua effettiva tutela
[3].
Il diritto di accesso non giustifica, del resto, un generalizzato e pluricomprensivo diritto alla conoscenza di tutti i documenti riferiti all'attività della pubblica amministrazione
[4], ma solo il più limitato diritto alla conoscenza di quegli atti che incidono in via diretta e immediata sugli interessi del soggetto instante.
La domanda di accesso soggiace, quindi, al filtro dell'esistenza di un interesse diretto
[5], concreto [6] e attuale [7], corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata, che trovi collegamento nel documento che si vuole conoscere [8].
Si rammenta, inoltre, che, l'accesso non può essere un mezzo per compiere una indagine o un controllo ispettivo, al quale, per il Consiglio di Stato, 'sono ordinariamente preposti organi pubblici, perché in tal caso nella domanda di accesso è assente un diretto collegamento con specifiche situazioni giuridicamente rilevanti'
[9].
Proprio perché l''interesse' rappresenta il fulcro attorno al quale ruota tutta la disciplina del diritto di accesso agli atti, è indispensabile motivare -in sede di richiesta- l'esatta rappresentazione dell'interesse all'accesso, acclarando una differenziata posizione di interesse concreto, diretto ed attuale, che legittima a chiedere copia di documenti.
Non si può ritenere che la richiesta di ottenere copia della documentazione giustificativa inerente il rimborso degli oneri relativi ai permessi retribuiti goduti da un amministratore comunale ai sensi degli articoli 79 ed 80 del decreto legislativo 267/2000 conferisca per ciò solo un generico e indifferenziato titolo per il diritto d'accesso nei confronti degli atti della pubblica amministrazione: l'esercizio del diritto di accesso non può che essere collegato alla sussistenza (e alla puntuale rappresentazione) di un interesse differenziato, concreto e attuale all'accesso ai documenti. La richiesta di ottenere copia della summenzionata documentazione inerente al rimborso degli oneri relativi ai permessi retribuiti di cui agli articoli 79 ed 80 del decreto legislativo 267/2000 non vale a incardinare nel soggetto instante un potere -comunque privato e perciò estraneo ai circuiti pubblici di rappresentatività e responsabilità- di controllo verso la pubblica amministrazione.
Il diritto di accesso impone pur sempre un accertamento concreto dell'esistenza di un bisogno differenziato di conoscenza in capo a chi richiede i documenti, perché può essere utilizzato solo come strumento di conoscenza, da parte dei singoli titolari, di atti effettivamente, o anche solo potenzialmente, incidenti sui loro interessi particolari. Al riguardo, si rammenta che, mediante il diritto di accesso, si esercita, legittimamente, un controllo quando questo è indirizzato verso il singolo atto amministrativo nei confronti del quale l'interessato vanta un interesse concreto e differenziato rispetto alla collettività.
All'atto della richiesta, al fine del riconoscimento dell'interesse giuridicamente rilevante, il soggetto deve, pertanto, dimostrare che esiste una correlazione tra la propria situazione giuridica soggettiva e l'utilità di conoscere il bene o la vicenda, oggetto dell'atto o del documento amministrativo di cui chiede visione o copia
[10]. La domanda di accesso deve, quindi, essere finalizzata alla tutela di uno specifico interesse giuridico di cui il richiedente è portatore [11].
Si osserva inoltre che, come rilevato dalla giustizia amministrativa, 'il titolare deve esternare non solo le ragioni per cui intende accedere ma, soprattutto, la coerenza di tali ragioni con gli scopi alla cui realizzazione il diritto di accesso è preordinato'
[12].
L'ente deve verificare l'attitudine dell'acquisizione dei contenuti dell'atto o documento in astratto a realizzare un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata, come richiesto dalla normativa vigente.
All'instante, è quindi, richiesta una 'doverosa specificazione'
[13] dell'interesse correlato all'accesso.
Ed, inoltre, 'la domanda di accesso non può essere palesemente sproporzionata rispetto all'effettivo interesse conoscitivo del soggetto, che deve specificare il puntuale riferimento che lega il documento richiesto alla propria posizione soggettiva, ritenuta meritevole di tutela'
[14].
La giustizia amministrativa ha rimarcato che l'istante deve possedere una posizione differenziata rispetto all'interesse generico di ogni cittadino a conoscere l'attività dei pubblici poteri, altrimenti l'istanza si risolve in una indagine e verifica della mera legittimità dell'attività della pubblica amministrazione, lungi dall'essere funzionale alla salvaguardia di un proprio interesse giuridico protetto
[15].
In relazione al caso di specie, oltre alla già rilevata mancanza di un interesse diretto, concreto e attuale in capo al richiedente, si fa notare che l'istanza di accesso potrebbe determinare un conflitto con esigenze di tutela della riservatezza facenti capo a soggetti terzi.
Ed, invero, come già anticipato, l'istanza di accesso, oggetto del quesito in analisi, pone anche delle problematiche in ordine alla tutela della riservatezza dei soggetti terzi controinteressati (possono esservi, invero, soggetti controinteressati all'accesso: nel caso in esame, l'amministratore comunale che ha usufruito dei permessi retribuiti ai sensi degli articoli 79 e 80 del decreto legislativo 267/2000 e datore di lavoro di quest'ultimo)
[16].
Tale situazione si verifica nei casi in cui l'ostensione o la riproduzione dell'atto o documento siano potenzialmente lesive del diritto alla riservatezza altrui. Al riguardo, si rammenta che il diritto di accesso ai documenti amministrativi è posto a garanzia della trasparenza ed imparzialità degli enti pubblici e che, per regola generale, l'amministrazione detentrice di documenti, direttamente riferibili alla tutela di un interesse personale e concreto, non può limitare il diritto di accesso, se non per motivate esigenze di riservatezza
[17] o segretezza.
Il limite della riservatezza attribuisce rilievo all'interesse privatistico a che sia mantenuto il riserbo in ordine a vicende che coinvolgono la sfera personale, determinandosi una tensione tra esigenze contrapposte, risolta attraverso un bilanciamento di interessi. All'infuori dei casi di esclusione, specificamente tipizzati in sede legislativa o regolamentare, il diritto di accesso può, dunque, essere sacrificato in relazione alla possibile lesione, non consentita dall'ordinamento ovvero non giustificata o controbilanciata da interessi di pari rango, del diritto alla riservatezza che attiene alla sfera personale di soggetti terzi, più o meno intensamente e più o meno direttamente garantita dalla legge.
Anche in relazione al limite della riservatezza, vi è, dunque, la necessità che il richiedente l'ostensione degli atti specifichi con esattezza quale obiettivo si propone di realizzare mediante l'apprendimento dei dati contenuti nella documentazione indicata nella sua istanza. Ciò, fra l'altro, consente (sia all'amministrazione sia, eventualmente, al giudice) di valutare con precisione se l'interesse alla conoscenza dell'atto o documento sia dotato di un fondamento giuridico sufficientemente forte da consentirgli, in caso di conflitto, di prevalere sul diritto alla riservatezza altrui
[18].
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[1] La pubblica amministrazione, ricevuta una richiesta di accesso, può: - declinarla per inammissibilità nell'ipotesi che essa sia avanzata in assenza dei presupposti richiesti dalla normativa perché si possa procedere all'esame della pretesa nel merito (ad esempio, perché totalmente priva di motivazione); - respingerla, se la stessa afferisce ad atti inaccessibili, stante la prevalenza dell'interesse alla riservatezza di terzi su quello della pubblicità; - limitarla; - differirla; - accoglierla ove non vi siano ragioni soggettive od oggettive, la cui sussistenza sia indispensabile a seconda dei casi, per respingerla, limitarla o differirla, rendendo operante, in tal modo, i principi di pubblicità e trasparenza dell'attività amministrativa sanciti, come regola generale, dall'articolo 1, comma 1, della legge 07.08.1990, n. 241. Si legga, al riguardo, S. Pignataro, 'Forme e modalità di tutela del diritto di accesso agli atti e documenti amministrativi', Giurisdizione Amministrativa, n. 10, ottobre 2012, 395-396.
[2] Così, Consiglio di Stato, sez. V, 10.08.2007, n. 4411.
[3] Consiglio di Stato, 22.05.2006, n. 2959 e n. 24/2010.
[4] Così, Consiglio di Stato, sentenza n. 24/2010, cit.
[5] Per interesse diretto deve intendersi un interesse riferibile al soggetto che fa l'istanza. Sull'interesse diretto è utile, in particolare, la sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV, 04.04.2012, n. 4671, secondo cui, ai fini dell'accesso, deve sussistere un''ineliminabile correlazione con un interesse, oltre che attuale e concreto, quindi non ipotetico e astratto, anche diretto ossia immediatamente riferibile alla sfera giuridica dell'istante, in termini di sua pertinenza ad essa e quindi, come tale, personale'. Si adotta, dunque, l'equivalenza interesse diretto uguale ad interesse personale. Ma la stessa sentenza offre un altro spunto significativo: 'una stretta relazione con la documentazione di cui si chiede l'ostensione, e quindi un rapporto diretto tra la medesima e la situazione giuridica soggettiva' (cfr. pure Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del 26.03.2012, n. 1768 e sez. VI, sentenza del 28.09.2010, n. 7183). È, dunque, importante rafforzare l'idea secondo la quale per l'accesso 'non è sufficiente il generico e indistinto interesse di ogni cittadino alla legalità o al buon andamento della attività amministrativa' (Consiglio di Stato, Ad. Plen., sentenza del 24.04.2012, n. 7). Si veda anche Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 13.12.1999, n. 2109: 'La personalità dell'interesse ai fini dell'accesso ai documenti amministrativi ex art. 22, l. 07.08.1990 n. 241 implica, per un verso, che quest'ultimo è riconosciuto solo a colui che, rispetto ai documenti richiesti, versi in una posizione legittimante, tale da differenziarlo dalla generalità dei consociati e da coloro che in varia guisa possono dirsi interessati all'attività del soggetto pubblico; e, per altro verso, che il diritto d'accesso non s'atteggia come una sorta di azione popolare diretta a consentire una forma generalizzata di controllo sulla p.a., sicché l'interesse che legittima alla richiesta, da accertare caso per caso, dev'essere personale e concreto, quindi serio, non emulativo né riducibile a mera curiosità'.
[6] Interesse concreto indica un interesse non ipotetico, finalizzato, non immaginario, non esistente solo nella mente dell'accedente. Proprio per assicurare la finalizzazione della domanda di accesso alla sussistenza di un interesse concreto, che non può ravvisarsi nel generico, comune interesse alla trasparenza dell'azione amministrativa, l'istanza deve essere motivata con riferimento a detto interesse (in tal senso, Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del 11.01.1994, n. 8). La 'concretezza' presuppone un collegamento tra il soggetto ed un bene della vita coinvolto dal documento. Altrimenti, si configurerebbe la fattispecie del controllo generalizzato dell'attività amministrativa cui fa esplicito riferimento l'articolo 24, legge 241/1990 (si veda Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza del 22.11.2012, n. 5936). Ai sensi della disposizione da ultimo citata e al fine di tutelare la pubblica amministrazione da richieste inutili, la concretezza deve, quindi, tendere, principalmente, ad escludere accessi 'esplorativi'. Il Consiglio di Stato ha stabilito che l'interesse, imputabile al soggetto, deve rientrare in una delle seguenti categorie: diritti soggettivi, interessi legittimi, 'interesse solo strumentale alla tutela di essi'. La scriminante è data, pertanto, dal trovarsi l'instante in una posizione differenziata rispetto agli altri soggetti dell'ordinamento giuridico.
[7] L''attualità' è valutata in base al momento in cui è formulata la richiesta di accesso ad un determinato documento.
[8] Così, Consiglio di Stato, sez. VI, 06.03.2009, n. 1351.
[9] Consiglio di Stato, sentenza n. 555/2006, richiamata da Consiglio di Stato, sentenza n. 24/2010, cit.
[10] Si legga il parere formulato dallo scrivente, datato 26.03.2014, consultabile nella banca dati di cui all'indirizzo internet http://autonomielocali.regione.fvg.it
[11] Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza del 30.09.1998, n. 1346. Si legga anche Tar Toscana, Firenze, sez. II, sentenza del 03.07.2009, n. 1184: 'Il diritto di accesso previsto dall'art. 22, l. n. 241 del 1990, non ha introdotto nell'ordinamento una sorta di azione popolare ispettiva nei confronti della P.A., ma ha voluto porre a disposizione di ogni cittadino uno strumento per superare la barriera della riservatezza degli atti di ufficio al fine di tutelare comunque i propri interessi; tuttavia l'espressione normativa "tutela degli interessi", non deve essere intesa solo come finalizzazione dell'accesso ad un ricorso giurisdizionale, ma secondo un nesso inscindibile tra i documenti richiesti e la verifica della eventuale lesione di un proprio interesse qualificato: ne consegue che se, da un lato, è escluso l'accesso a meri fini ispettivi, dall'altro esso è ammesso anche quando il richiedente non assume di volere verificare un preciso e determinato vizio degli atti al fine della impugnativa, ma solo prospetti il proprio interesse, purché concreto e qualificato, alla regolarità della procedura in questione'.
[12] In tal senso, si legga Tar Ancona, sentenza del 30.03.2005, n. 274.
[13] Così, Tar Puglia, Lecce, Sez. II, sentenza dell'11.04.2011, n. 647.
[14] Si confronti, sul punto, Tar Molise, sez. I, sentenza del 09.12.2010, n. 1528.
[15] Si veda Tar Emilia-Romagna, Parma, sez. I, sentenza 04.10.2011, n. 328, tratta da F. Palazzi (a cura di), 'L'interesse ad accedere ai documenti della p.a. ... ', cit. .
[16] La nozione di controinteressato, che si ricava dalla legge generale sul procedimento amministrativo, concerne tutti 'i soggetti, individuati o facilmente individuabili in base alla natura del documento richiesto, che dall'esercizio dell'accesso vedrebbero compromesso il loro diritto alla riservatezza' (articolo 22, comma 1, lettera c, legge 241/1990).
[17] Si legga Tar Lazio, Roma, sez. III, sentenza del 05.11.2009, n. 10838. Il limite principale al diritto di accesso è, quindi, costituito dalla riservatezza, oltre che dalla segretezza, nei casi previsti dalla legge, al fine di tutelare interessi pubblici generali. Ai sensi dell'articolo 24, comma 7, legge 241/1990, il limite della riservatezza può essere superato, a favore dell'accessibilità degli atti, soltanto per esigenze di cura e tutela dei propri diritti da parte dell'istante. Il diritto di accesso trova, quindi, un limite solo in specifiche e tassative esigenze di riservatezza di terzi.
[18] Si legga S. Pignataro, 'Forme e modalità di tutela del diritto di accesso ... ', cit., 391-406.
Sul rapporto tra accesso e riservatezza, si rimanda alla lettura del parere n. 1265/2015, pubblicato, dallo scrivente, nella già citata banca dati, ove è specificato che, quando, come nel caso oggi in esame, sono coinvolti dati personali di soggetti terzi, i documenti richiesti devono essere necessari alla tutela del proprio interesse
(18.04.2016 -
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APPALTI SERVIZI: Affidamento del servizio infermieristico domiciliare per anziani e indigenti.
L'affidamento diretto entro i 40.000 euro, previsto dall'art. 125, comma 11, del D.Lgs. 163/2006, è una particolare forma di cottimo fiduciario nella quale il Responsabile unico del procedimento negozia con un unico soggetto l'oggetto, i termini e le modalità di esecuzione del contratto.
Le amministrazioni hanno comunque la facoltà di assoggettarsi a regole più stringenti volte a garantire la concorrenza, e possono quindi prevedere, anche per importi di entità limitata, il ricorso ad indagini di mercato.
Secondo l'ANAC, in assenza di una specifica definizione normativa, l'ANAC ha affermato, le indagini di mercato devono essere improntate al rispetto dei principi generali del Codice dei contratti: in particolare, l'avviso deve specificare i criteri che la stazione appaltante utilizzerà per individuare la ditta a cui affidare l'appalto; a tali criteri, che devono essere preordinati e resi noti nel testo dell'avviso, va attribuito un punteggio o una scala di valore.

Il Comune ha provveduto all'affidamento diretto del servizio infermieristico domiciliare
[1] per il periodo 2016-2017. A tal fine, in considerazione del fatto che l'importo stimato del contratto sarebbe stato contenuto entro il limite dei 40.000 euro, ha espletato una indagine di mercato ai sensi dell'art. 11 del regolamento comunale per le forniture ed i servizi in economia. Poiché la determina di aggiudicazione è stata contestata da parte di una delle ditte che avevano manifestato interesse, l'Ente ha deciso di sospendere l'efficacia del provvedimento di affidamento per esaminare i contenuti della contestazione.
Al fine di emettere un provvedimento corretto e motivato, il Comune chiede di sapere, in ordine a due dei rilievi mossi dalla ditta interessata:
   1) se, ad avviso dello scrivente Ufficio, sia corretto, alla luce del regolamento comunale, il ricorso all'affidamento diretto attraverso la valutazione, nell'ambito dell'indagine di mercato, dell'offerta economica, ma anche di esperienze pregresse delle ditte presso l'Ente per la gestione del medesimo servizio, affidando lo stesso non già alla ditta che ha offerto il prezzo più basso ma a quella che si ritiene possa garantire un 'più puntuale ed economico adempimento';
   2) se l'ufficio comunale abbia determinato in modo corretto il valore del contratto, inferiore a 40.000 euro, limite previsto dal regolamento comunale per il ricorso all'affidamento diretto.
Preliminarmente si osserva che non rientra nelle competenze di questo Servizio effettuare valutazioni sull'operato delle singole amministrazioni. Ciononostante, in via meramente collaborativa, si esprimono le seguenti considerazioni di carattere generale, al fine di fornire al Comune elementi utili per le sue determinazioni.
Innanzitutto, si osserva che il servizio oggetto di affidamento pare rientrare nei servizi sanitari e sociali, che fanno parte dell'elenco di cui all'Allegato II B del Decreto legislativo 12.04.2006, n. 163 (cd. Codice degli appalti). Ai sensi dell'art. 20 del Codice, l'aggiudicazione degli appalti aventi per oggetto i servizi elencati nell'Allegato II B è disciplinata esclusivamente da alcuni articoli (65, 68 e 225). Tuttavia, il successivo art. 27 dispone che l'affidamento dei contratti pubblici aventi ad oggetto lavori, servizi e forniture esclusi, in tutto o in parte, dall'ambito di applicazione oggettiva del codice, deve avvenire comunque nel rispetto dei principi generali su cui si fonda la disciplina in materia di appalti, e già elencati all'art. 2, comma 1, del D.Lgs. 163/2006
[2].
Tutto ciò premesso, con riferimento al quesito sub 1), pare opportuno riassumere brevemente gli elementi distintivi delle procedure di affidamento di (lavori) servizi e forniture in economia, delineati dall'art. 125 del Codice. Tali affidamenti rientrano nell'alveo delle procedure negoziate e possono essere effettuati mediante amministrazione diretta o cottimo fiduciario. Per quanto attiene all'affidamento di servizi, in particolare, il comma 10 dell'art. 125 stabilisce che 'L'acquisizione in economia di beni e servizi è ammessa in relazione all'oggetto e ai limiti di importo delle singole voci di spesa, preventivamente individuate con provvedimento di ciascuna stazione appaltante, con riguardo alle proprie specifiche esigenze (...)'.
Nel caso dei Comuni, sono i regolamenti per le forniture e i servizi in economia a disciplinare il ricorso a tali acquisizioni, individuando al loro interno le tipologie di forniture e servizi ammessi e le modalità di selezione dell'affidatario. Proprio con riferimento a queste modalità, il comma 11 dell'art. 125 stabilisce che 'Per servizi o forniture di importo pari o superiore a quarantamila euro e fino alle soglie di cui al comma 9, l'affidamento mediante cottimo fiduciario avviene nel rispetto dei principi di trasparenza, rotazione, parità di trattamento previa consultazione di almeno cinque operatori economici, se sussistono in tale numero soggetti idonei, individuati sulla base di indagini di mercato ovvero tramite elenchi di operatori economici predisposti dalla stazione appaltante.'
Per quanto riguarda, poi, gli affidamenti di entità economica non elevata, il Codice dispone, al secondo periodo dello stesso comma, che 'Per servizi o forniture inferiori a quarantamila euro, è consentito l'affidamento diretto da parte del responsabile del procedimento'.
L'affidamento diretto entro i 40.000 euro, quindi, è una particolare forma di cottimo fiduciario nella quale il Responsabile unico del procedimento negozia con un unico soggetto l'oggetto, i termini e le modalità di esecuzione del contratto.
L'Ente instante, per l'affidamento del servizio in parola, ha deciso di avvalersi di queste previsioni, recepite nel proprio regolamento comunale per le forniture e i servizi in economia
[3]. Conformemente a quanto disposto dall'art. 11, comma 4, del regolamento comunale, l'Ente ha pubblicato un avviso di indagine di mercato per manifestazione di interesse, in cui ha indicato che il servizio sarebbe stato affidato in forma diretta secondo quanto stabilito dal richiamato art. 11. Invero, come rilevato dall'AVCP (ora ANAC), nelle procedure in economia, le amministrazioni hanno 'la possibilità di assoggettarsi o meno volontariamente a regole procedurali più stringenti, a fronte di una disciplina normativa che lascia maggiori margini di discrezionalità, pur nel rispetto dei principi insiti nel concetto stesso di gara, quali quelli di trasparenza e par condicio dei concorrenti' [4].
Con riferimento alle modalità di effettuazione delle indagini di mercato, l'AVCP (ora ANAC) ha affermato
[5] che, pur in assenza di una definizione normativa, questo procedimento deve essere improntato al rispetto dei principi generali del Codice (già richiamati in precedenza). In osservanza, in particolare, del principio di trasparenza, l'avviso deve specificare i criteri che saranno utilizzati per l'individuazione della ditta a cui affidare l'appalto. A titolo esemplificativo, l'Autorità ha indicato 'le esperienze contrattuali registrate dalla stazione appaltante nei confronti dell'impresa richiedente l'invito o da invitare (...), l'idoneità operativa delle imprese rispetto al luogo di esecuzione dei lavori ed anche il sorteggio pubblico'. Nella stessa sede, l'AVCP ha altresì ribadito che l'avviso 'deve indicare, come minimo, una succinta descrizione degli elementi essenziali dell'appalto e della procedura di aggiudicazione che si intende seguire...'.
Sulla base di queste indicazioni, si ritiene, pertanto, che la stazione appaltante possa legittimamente prevedere una valutazione delle esperienze pregresse delle ditte che hanno risposto all'avviso per la gestione del medesimo servizio, purché tale criterio sia esplicitamente indicato nell'avviso di indagine di mercato, in modo che, dandone notizia a tutti i potenziali interessati, venga rispettato il principio di trasparenza
[6]. Parimenti, sempre in osservanza dei principi di trasparenza e parità di trattamento, si ritiene che a tali criteri debba essere attribuito un punteggio, o quantomeno una scala di priorità, e che anche questi elementi vadano preordinati e resi noti già nel testo dell'avviso. [7]
Infine, con riferimento al quesito sub 2), e quindi alla determinazione del valore economico del servizio, sempre in linea generale, si richiama l'attenzione sull'art. 29 del D.Lgs. 163/2006, in cui al comma 1 si stabilisce che: 'Il calcolo del valore stimato degli appalti pubblici e delle concessioni di lavori o servizi pubblici è basato sull'importo totale pagabile al netto dell'IVA, valutato dalle stazioni appaltanti. (...)'. Viene inoltre precisato che il calcolo deve tener conto dell'importo massimo stimato, comprendendo qualsiasi forma di opzione o rinnovo del contratto. Tali indicazioni vanno tenute presenti ogniqualvolta si renda necessario valutare il costo del contratto, anche al fine di adeguare le varie procedure di scelta del contraente alle soglie individuate dal D.Lgs. 163/2006.
Con riferimento allo specifico servizio da affidare nel caso in esame, si ritiene che un elemento fondamentale ai fini dell'individuazione del costo, in considerazione della natura della prestazione da svolgere, possa essere il contratto collettivo nazionale di riferimento per i servizi infermieristici
[8]. Dal CCNL, infatti, possono essere desunti elementi utili a valutare, sulla base dell'impiego orario dei lavoratori richiesto alla ditta, quale sia l'incidenza del costo del lavoro, a cui andranno poi sommate le altre componenti (nell'avviso si fa riferimento al costo derivante dall'utilizzo dell'automezzo fornito dall'Ente nel territorio e al costo chilometrico per gli spostamenti con tale mezzo al di fuori del Comune) che si riterranno utili ai fini della determinazione del prezzo complessivo.
Si segnala invece che, in via generale, in assenza di parametri di riferimento, qualora il servizio sia già stato affidato, a simili condizioni, in periodi di tempo passati, nella determinazione del valore stimato dell'appalto, è possibile utilizzare i dati storici relativi a tali periodi
[9].
Con specifico riferimento a questa modalità di determinazione del costo del servizio, sentito il Servizio finanza locale di questa Direzione centrale, si ritiene che l'impegno risultante dalle scritture contabili alla chiusura del rendiconto di gestione rappresenti la vera spesa sostenuta.
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[1] Il Comune garantisce ai propri residenti anziani ed indigenti una serie di servizi di assistenza infermieristica, prevalentemente sanitaria, unitamente ad altri interventi di carattere assistenziale, sulla base di un protocollo d'intesa con la locale Azienda per l'Assistenza Sanitaria, approvato con delibera di Giunta.
[2] Come affermato dall'ANAC e riconosciuto dalla giurisprudenza, 'La riconducibilità del servizio appaltato all'All. II B del Codice non esonera quindi, le amministrazioni aggiudicatrici dall'applicazione dei principi generali in materia di affidamenti pubblici desumibili dalla normativa comunitaria e nazionale, (...)' (Deliberazione n. 25 dell'08.03.2012). Ai sensi dell'art. 2, comma 1, del Codice, tali principi sono economicità, efficacia, tempestività e correttezza; ed ancora libera concorrenza, parità di trattamento, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità e pubblicità.
[3] Per quanto qui di interesse, si riporta il testo dei commi 3 e 4 del regolamento comunale: '3. ... si può prescindere dall'obbligo di chiedere più offerte e preventivi per forniture e servizi d'importo contenuto entro il limite di 40.000,00 Euro.
4. Per gli affidamenti di cui al comma precedente, il responsabile del servizio/procedimento effettuata un'indagine di mercato anche informale, può aggiudicare il servizio o fornitura ad una ditta che per precedenti incarichi o vicinanza alla sede comunale, garantisca un più puntuale ed economico adempimento.'
[4] Parere n. 94 del 20.04.2008.
[5] AVCP, determinazione n. 2 del 06.04.2011.
[6] Si veda anche il decreto del Presidente della Repubblica 05.10.2010, n. 207, recante il Regolamento di attuazione del Codice. In particolare, l'art. 331, comma 2, dispone che 'Le stazioni appaltanti assicurano comunque che le procedure in economia avvengano nel rispetto del principio della massima trasparenza, contemperando altresì l'efficienza dell'azione amministrativa con i principi di parità di trattamento, non discriminazione e concorrenza tra gli operatori economici.'
[7] Per contro, si osserva che, laddove la condotta passata di una ditta sia stata valutata negativamente dalla stazione appaltante, questa può ricorrere all'esclusione della stessa ai sensi dell'art. 38, comma 1, lett. f), del Codice, il quale così recita: '1. Sono esclusi dalla partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori, forniture e servizi, né possono essere affidatari di subappalti, e non possono stipulare i relativi contratti i soggetti: (...) f) che, secondo motivata valutazione della stazione appaltante, hanno commesso grave negligenza o malafede nell'esecuzione delle prestazioni affidate dalla stazione appaltante che bandisce la gara; (...)'. Infatti, come rilevato dalla giurisprudenza, 'l'elemento che caratterizza la misura interdittiva di cui all'art. 38, comma 1, lettera f), del codice dei contratti pubblici è il pregiudizio arrecato, a causa della negligenza o dell'inadempimento a specifiche obbligazioni contrattuali, alla fiducia che la stazione appaltante deve poter riporre ex ante nell'impresa alla quale affidare un servizio di interesse pubblico ed include di conseguenza presupposti squisitamente soggettivi, incidenti sull'immagine della stessa agli occhi della stazione appaltante.' (Consiglio di Stato, sez. V, sent. n. 4502 del 28.09.2015).
[8] Infatti, lo stesso avviso di indagine di mercato ne fa menzione, con specifico riferimento alla retribuzione minima garantita ai soggetti da impiegare nel servizio de quo.
[9] Così l'AVCP nella deliberazione n. 64 relativa all'Adunanza del 27.06.2012
(14.04.2016 -
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AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Interventi di bonifica dei siti contaminati da eseguirsi ai sensi della parte IV - Titolo V del Dlgs 152/2006 all'interno del perimetro del SIR "Chieti Scalo" istituito con DGR 121/2011- Richiesta modalità procedurale per l'acquisizione di parere e autorizzazione paesaggistica ex art. 146 del Dlgs 42/2004 (ente sub delegato). Riscontro (Regione Abruzzo, nota 19.06.2015 n. 162248 prot.).
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Si fa seguito alla richiesta prot. 22819 del 30.04.2015 n. 20961 del 12.05.2012, in relazione a due distinti quesiti, miranti a far luce sulla corretta procedura per il rilascio dell'autorizzazione paesaggistica ex art. 146 del Dlgs 42/2004 nonché sui casi di esclusione previsti all'art. 149 dello stesso decreto. (...continua).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Richiesta di permesso a costruire in sanatoria per demolizione e ricostruzione con ampliamento in zona vincolata. Invio parere (Regione Abruzzo, nota 20.03.2015 n. 73745 prot.).
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Si riscontra la richiesta di parere con cui codesto Comune chiede di conoscere l'orientamento dello scrivente in merito alla possibilità di applicare la disciplina della sanatoria edilizia ex art. 36 del DPR 380/2001, quando sia definitivamente decorso il termine di 90 giorni ivi previsto, di seguito all'emanazione dell'ordinanza di demolizione, per un manufatto realizzato in assenza di permesso di costruire. (...continua).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Quesito per accertamento di compatibilità paesaggistica - art. 167 D.Lgs. 42/2004 - Sanatoria ampliamento di un trabocco esistente. Comunicazioni (Regione Abruzzo, nota 18.03.2015 n. 70301 prot.).
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In riferimento alla richiesta di parere con cui codesto Comune chiede di conoscere l'avviso della scrivente struttura in merito alla procedura di "accertamento di compatibilità paesaggistica ex art. 167 D.Lgs. 42/2004 s.m.i", avente ad oggetto la sanatoria di un trabocco esistente, il quale, (secondo quanto riferito nella nota che si riscontra), rispetto alla concessione edilizia con cui è era stata autorizzata la ricostruzione nel 1984, risulta ampliato, si rappresenta quanto segue. (...continua).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Segnalazione disservizio e/o irregolarità in ordine all'istruttoria di istanze in materia di edilizia privata. Comunicazioni (Regione Abruzzo, nota 03.06.2013 n. 2933 prot.).
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Si riscontra la nota di codesto Difensore Civico con la quale si richiede allo scrivente motivato parere in merito al regime normativo applicabile alle accertate variazioni fisiche, consolidate nel tempo, della "proprietà demaniale fluviale", avuto particolare riguardo alla possibilità di assentire opere edili su terreni ubicati a meno di 150 metri dalla fascia demaniale, ma a circa 600 metri di distanza dal fiume Pescara, posto che, ad oggi, quest'ultimo risulta avere un alveo che si è modificato da diversi decenni, risultando spostato di circa 500 metri dal sito originario, ancorché nella cartografia dell'Agenzia del Territorio sia ancora in essere la situazione preesistente, con l'indicazione grafica della vecchia fascia demaniale del fiume Pescara, come è dato evincere dalle planimetrie catastali. (...continua).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Sanatoria - Attraversamento a guado del Fiume Orta in loc. Piano D'Oda (Regione Abruzzo, nota 25.03.2013 n. 1653 prot.).
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In merito alle problematiche sollevate da codesta Amministrazione con la nota in epigrafe emarginata e per quanto di competenza della scrivente Struttura occorre richiamare, in via preliminare, alcuni principi di carattere generale avente rilevanza dirimente ai fini che qui interessano.
Come è noto, secondo l'art. 822 C.C. i fiumi, i torrenti, i laghi e le altre acque definite pubbliche dalle leggi in materia fanno parte del demanio idrico-fluviale. Da considerarsi demaniale è altresì il terreno interessato dallo scorrimento delle acque pubbliche, posto che, in questo caso, la demanialità discende dalla "funzione" che il terreno assume a supporto e contenimento del fiume medesimo, funzione che automaticamente viene meno in conseguenza di fenomeni naturali quali i fenomeni "di piena" e "di magra" che non abbiano carattere transitorio, ma che siano in grado di determinare in modo irreversibile la cessazione di quella funzione (ciò si verifica, ad esempio, nel caso di ritiro delle acque da (...continua).

NEWS

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATAVia dai tetti. Capannoni, agevolazioni sull'amianto.
Presto diventeranno operativi i nuovi incentivi per rimuovere l'amianto dai tetti dei capannoni industriali. Potranno accedere a un credito di imposta del 50% gli interventi di bonifica di importo maggiore di 20 mila euro e fino a 400 mila euro.

Lo schema di decreto che li regolamenta è già sul tavolo dei ministeri competenti (ministero dell'ambiente e ministero dell'Economia).
Ad annunciarlo è il ministro dell'ambiente, Gian Luca Galletti, rispondendo il 28.04.2016 a un'interrogazione del deputato del Partito democratico Enrico Borghi alla Camera.
Ricordiamo che le agevolazioni per la bonifica dell'amianto sono state introdotte dal collegato ambiente alla legge di Stabilità per il 2014 (legge n. 221/2015). Per i soggetti titolari di reddito d'impresa che effettuano nell'anno 2016 interventi di bonifica dall'amianto su beni e strutture produttive ubicate nel territorio dello Stato è attribuito, nel limite di spesa complessivo di 5,667 milioni di euro per ciascuno degli anni 2017, 2018 e 2019 un credito d'imposta nella misura del 50% delle spese sostenute per i predetti interventi nel periodo di imposta successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore della presente legge.
Il credito d'imposta non spetta per gli investimenti di importo unitario inferiore a 20mila euro. La prima quota annuale sarà utilizzabile a decorrere dal 1° gennaio del periodo di imposta successivo a quello in cui sono stati effettuati gli interventi di bonifica. Il credito di imposta non concorrerà alla formazione del reddito né della base imponibile dell'imposta regionale sulle attività produttive (Irap).
Le domande andranno presentate online attraverso una specifica piattaforma telematica realizzata dal Ministero dell'ambiente che sarà utilizzabile solo dopo la pubblicazione del decreto in Gazzetta Ufficiale (articolo ItaliaOggi del 30.04.2016).

SEGRETARI COMUNALISegretari nel caos. Diritti rogito, due tesi a confronto. Dopo la Consulta fioccano le richieste di pagamento.
Caos sui diritti di rogito dei segretari comunali e provinciali. La recente presa di posizione della Consulta, che smentendo la Corte dei conti ha affermato la spettanza dell'emolumento a tutti coloro che operano in enti privi di dirigenza, indipendentemente dalla fascia professionale, sta generando parecchia confusione sul territorio.
Urge, quindi, un chiarimento definitivo da parte della magistratura contabile o del legislatore.

Come noto (si veda ItaliaOggi del 22.04.2016), la questione nasce dall'art. 10, comma 2-bis, del dl 90/2014: esso dispone che i diritti di rogito spettano «negli enti locali privi di dipendenti con qualifica dirigenziale, e comunque a tutti i segretari comunali che non hanno la qualifica dirigenziale», in misura comunque non superiore a un quinto dello stipendio in godimento
Tale norma ha dato luogo a due interpretazioni diverse: da un lato, si è affermato che l'emolumento competerebbe esclusivamente ai segretari di enti di piccole dimensioni collocati in fascia C, dall'altro lato si è argomentato che negli enti privi di personale con qualifica dirigenziale i diritti spettano a prescindere dalla fascia professionale in cui è inquadrato il segretario.
Mentre la Sezione delle autonomie, con la deliberazione n. 21/2015, ha condiviso la prima e più restrittiva lettura, la Corte costituzionale, nella recente sentenza n. 75/2016, ha sposato la seconda tesi.
A questo punto, ci si chiede quale sia l'interpretazione corretta cui attenersi. Molti segretari hanno già rivendicato le somme, chiedendo anche il pagamento degli «arretrati» che diversi enti hanno nel frattempo prudenzialmente accantonato. In questa prospettiva, si ritiene che la presa di posizione dei giudici delle leggi sia sufficiente a «smontare» il precedente della giurisprudenza contabile.
In senso contrario, si evidenzia, invece, come la Consulta si sia espressa nell'ambito di una sentenza di rigetto, che tipicamente ha effetto solo «inter partes» e non «erga omnes». Per di più, la pronuncia riguarda una regione a statuto speciale (il Trentino-Alto Adige). Inoltre, l'inciso in cui è contenuta la precisazione è un mero «obiter dictum», privo di qualsiasi forza vincolante, e quindi non avente valore di «precedente».
È anche vero, però, che la norma pare chiara e la lettura dei giudici contabili molto forzata e non a caso, come si è detto, non pacifica neppure fra le Sezioni regionali (anche se da questo punto di vista l'intervento della Sezione autonomie è vincolante).
Per risolvere la questione ed evitare comportamenti difformi, pare necessario ed urgente un intervento chiarificatore definitivo o della stessa Corte dei conti o meglio ancora del legislatore, che con una norma di interpretazione autentica potrebbe fare finalmente luce su cosa aveva voluto dire con la infelice norma del dl 90 (articolo ItaliaOggi del 29.04.2016).

APPALTIIn tilt le stazioni appaltanti. Paralizzate dalla mancanza del regolamento attuativo. I compiti indicati dalla riforma del codice in attesa dell'adozione delle linee guida Mit-Anac.
Sviluppare a livello esecutivo i progetti rimasti nel cassetto per affidare appalti di sola esecuzione; definire le modalità di applicazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa; rivedere le regole sul subappalto; il tutto senza più il regolamento di attuazione del codice del 2006.

È quanto sono chiamate a fare le stazioni appaltanti dopo il 19 aprile, data di entrata in vigore del nuovo codice dei contratti pubblici, in una situazione che dire difficile è poco.
Prova ne sia il fatto che di nuovi bandi sopra soglia europea, con le nuove norme, non ne sono usciti e che in alcuni casi le amministrazioni rendono difficile comprendere se un dato avviso (anche per importi ridotti) sia stato emesso prima o dopo il 19 aprile.
Il problema maggiore è che la norma che prevede l'immediata abrogazione del regolamento attuativo del vecchio codice dei contratti pubblici rischia di paralizzare a lungo le stazioni appaltanti. Anche immaginando il percorso più rapido per adottare le linee guida generali del ministero infrastrutture (Mit) e Anac, è difficile che prima di due tre mesi si possano avere indicazioni operative utili.
Il problema risiede nell'articolo 271, comma 1 lettera u) del decreto 50 che dichiara abrogate moltissime parti del regolamento del 2010, facendo salve soltanto alcune norme del dpr 207/2010 oggetto di disciplina da parte di provvedimenti attuativi (esempio i livelli di progettazione, la disciplina del Rup (responsabile unico del procedimento), l'anagrafe delle stazioni appaltanti, la nomina dei commissari di gara all'interno delle amministrazioni ecc.).
Per il resto il regolamento del codice del 2006 non è più utilizzabile. A meno di non considerare le linee guida Mit-Anac come un atto attuativo del codice, interpretazione ardua considerando che l'articolo 214, comma 12, del codice stabilisce che il Mit «può adottare linee guida interpretative e di indirizzo su proposta dell'Anac». Si tratta di una facoltà e non di un obbligo, come è quello di adottare i diversi provvedimenti attuativi di cui è disseminato il codice.
Quindi è più che probabile che il regolamento sia oggi sostanzialmente inutilizzabile. E così è, ad esempio, per la verifica dei progetti (si veda articolo qui sotto) o per le modalità di scelta dei progettisti, o ancora per l'applicazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa nei servizi tecnici, criterio obbligatorio da 40 mila euro in su.
Un problema rilevante se si pensa che bisogna sviluppare i progetti preliminari e definitivi fino al livello esecutivo, con l'eccezione dell'appalto integrato nei settori speciali (l'articolo 95 non è richiamato come applicabile dall'articolo 122), nonché dell'affidamento a contraente generale (sul definitivo), della concessione, della finanza di progetto (art. 183 sul definitivo), del contratto di disponibilità e, in generale, degli altri contratti di Ppp dove non c'è obbligo di affidamento sull'esecutivo.
Il nuovo codice prescrive il divieto di utilizzo del prezzo più basso sopra un mln di euro per i lavori, con la conseguenza che occorre applicare il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa. Purtroppo gli allegati del dpr 207/2010 che prevedevano le formule da applicare per valutare le offerte sono stati anch'essi abrogati dal 19 aprile. Alle stazioni appaltanti toccherà quindi scegliere se fermarsi o continuare ad adottare gli stessi allegati e le stesse formule del dpr 207, senza citarli, in attesa che Anac e Mit diano qualche indicazione utile, nelle more dell'adozione delle linee guida.
Sul subappalto le amministrazioni saranno libere di dettare le regole fino ad arrivare a ritenerlo non utilizzabile; ma se lo riterranno applicabile scatterà il tetto del 30% per tutte le lavorazioni, con l'obbligo di associazione verticale per le opere superspecialistiche (articolo ItaliaOggi del 29.04.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

LAVORI PUBBLICIValidazioni, è consentito affidarsi ai professionisti. Le nuove regole sulla verifica preventiva della progettazione.
Verifiche dei progetti sull'esecutivo (di regola) affidati a organismi di ispezione accreditati, ma anche a progettisti con incompatibilità sulla singola opera; vuoto normativo con l'abrogazione del dpr 207/2010; confermato il divieto di riserve su progetti validati.

È questo il quadro desumibile dalla lettura del nuovo codice dei contratti pubblici in tema di verifica preventiva della progettazione.
Si tratta di una materia che vedeva nel dpr 207/2010 (regolamento del codice del 2006) un cospicuo numero di norme attuative ma che adesso risulta disciplinata dal solo articolo 26 del decreto 50 (sostitutivo degli articoli 93, comma 6, e 112, comma 5 del decreto 163/2006), in attesa delle linee guida Anac che dovrebbero sostituire il regolamento. Infatti, dalla data di entrata in vigore del nuovo codice (19.04.2016) fra le parti del dpr 207/201 abrogate figura anche il capo II del titolo I della parte II che conteneva le norme sull'affidamento di incarichi di verifica dei progetti, sui soggetti titolati a svolgere tale attività e sulle modalità di effettuazione delle verifiche.
Nel merito, l'articolo 26 del decreto 50 stabilisce che la verifica dei progetti concernente lavori pari o superiori a 20 milioni di euro potrà essere svolta dagli organismi di controllo accreditati ai sensi della norma Uni Cei En Iso/Iec 17020. Si tratta dei cosiddetti organismi di ispezione di tipo A, B e C che, rispettivamente svolgono queste attività in maniera indipendente (A), come organismi interni alle stazioni appaltanti (B), come strutture che progettano ma che, avendo una struttura dedicata e autonoma per la verifica dei progetti, a determinate condizioni possono anche svolgere queste attività (C).
L'articolo 26 prevede inoltre che per lavori compresi fra i 20 milioni e la soglia di cui all'art. 35 (5,2 milioni) sarà possibile affidare gli incarichi agli organismi accreditati ma anche ai progettisti (professionisti singoli, associati, società di professionisti e di ingegneria, consorzi stabili di società). In quest'ultimo caso scatta però anche il requisito della incompatibilità sul singolo progetto oggetto di validazione, per cui chi verifica non deve avere partecipato in alcun modo all'iter di produzione del progetto, né potrà svolgere la sicurezza, la direzione lavori e il collaudo. Per lavori di importo compreso fra 5,2 e 1 milione di euro la verifica verrà effettuata dagli uffici tecnici, se il progetto è stato affidato a terzi, o dalle stazioni appaltanti che dispongano di un sistema interno di controllo. Infine per lavori fino a un milione la verifica sarà di competenza del Rup (responsabile unico del procedimento).
Va segnalato che la verifica dei progetti, da effettuarsi in contraddittorio con il progettista, generalmente avverrà sul progetto esecutivo, cioè sul livello che di regola sarà quello necessario per affidare lavori pubblici; rimangono poi altri casi in cui la verifica potrà essere effettuata su livelli precedenti: sul definitivo per gli appalti integrati nei settori speciali (acqua, energia e trasporti) concessioni e Ppp, contraente generale e contratto di disponibilità.
Infine, va notato che il nuovo codice conferma il divieto di iscrizione di riserve tecniche, cioè su elementi del progetto che siano stati oggetto di validazione (articolo ItaliaOggi del 29.04.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

SICUREZZA LAVOROPer la sicurezza nei cantieri risponde anche l’affidatario. Lavori pubblici. Con il subappaltatore.
Nell’esecuzione dei lavori pubblici l’affidatario è solidalmente responsabile con il subappaltatore per gli adempimenti da parte di quest’ultimo degli obblighi di sicurezza previsti dalla normativa vigente.
È quanto previsto dall’articolo 103 del nuovo Codice degli appalti pubblici, approvato con il Dlgs 50/2016, in vigore dal 19 aprile scorso.
Il Codice estende le posizioni di garanzia di cui all’articolo 299 del Dlgs 81/2008 (Testo unico sulla salute e sicurezza sui luoghi di lavoro) oltre che sul datore di lavoro, sul dirigente e sul preposto, anche sull’impresa esecutrice dell’appalto. Si tratta di una responsabilità che in caso di accertate violazioni delle norme di sicurezza da parte del subappaltatore non potrà essere di natura penale ma di natura contrattuale. Ne consegue che anche l’impresa affidataria potrà essere chiamata in causa in sede civile per il risarcimento del danno nel caso d’infortunio sul lavoro occorso a un dipendente dell’impresa subappaltatrice.
Da qui la previsione di cui all’articolo 101 del Codice, che riorganizza e individua nuove figure nell’ambito della stazione appaltante titolare di un appalto pubblico, con ampi riflessi anche sulla prevenzione degli infortuni.
L’organizzazione è piramidale e infatti, dopo aver individuato la figura del Responsabile unico del procedimento (Rup), in capo al quale fa riferimento la direzione della esecuzione dei contratti aventi ad oggetto lavori, servizi, forniture, mediante i controlli dei livelli di qualità di tutte le prestazioni, prevede che questi possa essere aiutato da un direttore dei lavori, il quale a sua volta può avvalersi di uno o più direttori operativi e di ispettori di cantiere.
Sarà compito dei direttori operativi, in collaborazione con il direttore dei lavori, programmare e coordinare le attività degli ispettori di cantiere. Gli ispettori, presenti a tempo pieno durante il periodo di svolgimento di lavori che richiedono un controllo quotidiano, tra cui quello sull’attività dei subappaltatori, devono garantire l’assistenza al coordinatore per l’esecuzione, il quale deve a sua volta controllare l’applicazione da parte delle imprese esecutrici e dei lavoratori autonomi delle disposizioni contenute nel piano di sicurezza e di coordinamento e la corretta applicazione delle relative procedure di lavoro. In caso di irregolarità riscontrate durante i controlli gli ispettori possono arrivare a proporre al committente la sospensione dei lavori e, in casi estremi, denunciare persistenti inadempienze agli organi di vigilanza.
La responsabilità dell’impresa affidataria nei confronti della stazione appaltante è in via esclusiva, mentre risponde in solido con il subappaltatore per gli obblighi retributivi e contributivi. Una responsabilità, quest’ultima, che viene meno qualora il subappaltatore sia una micro o piccola impresa e la stazione appaltante, a richiesta, provveda a corrispondere direttamente al subappaltatore, al cottimista, al prestatore di servizi ed al fornitore di beni o lavori, l’importo dovuto per le prestazioni da questi rese.
Un’ulteriore forma di pressione delle stazioni appaltanti nei confronti delle imprese esecutrici per l’osservanza delle disposizioni in materia di lavoro è stata introdotta nell’articolo 105 del Codice, il quale, nel disciplinare le garanzie definitive, stabilisce che le stazioni appaltanti hanno il diritto di valersi della cauzione per provvedere al pagamento di quanto dovuto dall’esecutore per le inadempienze derivanti dalla inosservanza di norme dei contratti collettivi, delle leggi e dei regolamenti sulla tutela, protezione, assicurazione, assistenza e sicurezza fisica dei lavoratori, comunque presenti in cantiere o nei luoghi dove viene prestato il servizio nei casi di appalti di servizi, nonché per l’esecuzione dell’appalto
(articolo Il Sole 24 Ore del 28.04.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIDal codice degli appalti contratti a tre facce.
Il nuovo codice degli appalti ha previsto tre tipi di contratto autonomamente disciplinati. I primi due sistemi, tutto sommato tradizionali, sono quelli fondati sul «contratto di appalto» e sul cosiddetto «contratto di concessione»; mentre il terzo, definibile come «sistema semplificato» si basa su tre tipi di figure negoziali: il contratto di «partenariato pubblico-privato», il cosiddetto «affidamento in house» e l'»affidamento a contraente generale».

È quanto rileva il consigliere di stato Carlo Modica di Mohac, uno degli autori della Guida Il nuovo codice degli appalti, disponibile da oggi in tutte le edicole italiane.
La Guida di ItaliaOggi è il primo tentativo di analisi approfondita dei contenuti della riforma dei contratti pubblici entrata in vigore il 19 aprile di quest'anno. Hanno infatti dato il loro contributo alcuni tra i massimi esperti della materia.
Oltre all'avvocato Modica di Mohac, gli altri autori dell'opera collettiva sono Andrea Mascolini, direttore generale dell'Oice, Paola Rea, dello studio Brugnoletti & associati, Ilenia Filippetti, dirigente dei lavori pubblici della regione Umbria, Arnaldo Tinarelli, della Fondazione scuola nazionale servizi, Massimiliano Brugnoletti, dello studio Brugnoletti & associati, e Massimiliano Balloriani, magistrato presso il Tar di Pescara.
La Guida di ItaliaOggi, che contiene anche il testo integrale del decreto legislativo numero 50, approfondisce in particolare i temi più delicati che dovranno essere affrontati dall'interprete come le problematiche del periodo transitorio, cioè i mesi che vanno dal 19 aprile a quando saranno approvati tutti i 50 regolamenti attuativi del nuovo codice; i sistemi di affidamento e i settori esclusi; la scelta del contraente e i criteri di aggiudicazione; le novità in materia di concessioni, l'affidamento dei servizi sociali e il contenzioso; infine il ruolo determinante dell'Anac (l'Autorità nazionale anticorruzione di Raffaele Cantone).
La Guida di ItaliaOggi, di 226 pagine a 6 euro, sarà disponibile in edicola fino alla fine del mese di maggio, salvo esaurimento, e, tra qualche giorno anche in formato pdf sul sito www.classabbonamenti.com/#page-1 (articolo ItaliaOggi del 28.04.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIAppalti, nuovo codice incoerente con lo Statuto del lavoro autonomo.
L'art. 7 del ddl 2233, noto anche come Statuto del lavoro autonomo, è esplicitamente diretto a favorire l'accesso agli appalti di tutti i professionisti autonomi (rapporti di lavoro autonomo di cui al titolo III del libro quinto del codice civile).

Lo chiarisce il comma 1: «Le amministrazioni pubbliche promuovono, in qualità di stazioni appaltanti, la partecipazione dei lavoratori autonomi agli appalti pubblici, in particolare favorendo il loro accesso alle informazioni relative alle gare pubbliche, anche attraverso gli sportelli di cui all'articolo 6, comma 1, e la loro partecipazione alle procedure di aggiudicazione».
Tuttavia il nuovo codice appalti, approvato il 15 aprile scorso in via definitiva dal consiglio dei ministri, fa riferimento alle micro e alle piccole imprese (che però, proprio in quanto imprese, spesso individuali, sono comunque iscritte alla camera di commercio), ma non ai professionisti autonomi e freelance.
Per esempio gli artt. 30 comma 7, 36 comma 1 e 41 comma 1, spingono ad assicurare l'effettiva partecipazione di microimprese, piccole e medie imprese agli appalti, nel rispetto delle disposizioni stabilite dal presente codice e dalla normativa dell'Unione europea.
Confprofessioni ha chiesto che il nuovo codice degli appalti tenga conto dell'orientamento espresso nel ddl lavoro autonomo, contemplando espressamente la figura del lavoratore autonomo (articolo ItaliaOggi del 28.04.2016).

INCARICHI PROGETTAZIONECodice appalti, semplificazioni in salita. È una lacuna evidente la mancanza di un capitolo dedicato ai servizi di architettura e ingegneria.
Ravvisare autentici elementi di semplificazione nel nuovo codice sui contratti pubblici (dlgs 50/2016, entrato in vigore lo scorso 19 aprile) è un esercizio non facile, soprattutto a causa del paventato rallentamento delle attività del settore dei lavori pubblici per la mancata previsione di un periodo transitorio, utile a fronteggiare tempi di emanazione diversi per le linee guida Anac e per i vari decreti ministeriali e interministeriali: una dote di numerosi provvedimenti necessari per completare il quadro legislativo di riferimento.
Detto ciò, va rilevato che si tratta di un provvedimento strutturalmente diverso rispetto al passato, che ha recepito importanti chiarimenti giurisprudenziali (per esempio, l'espressa eliminazione della cauzione provvisoria per le attività dei servizi di ingegneria e architettura) e introdotto elementi di novità in merito all'iter di realizzazione di opere pubbliche a rilevanza sociale: basti pensare al ruolo del dibattito pubblico, che rientra a pieno titolo tra gli strumenti di gestione.
Entrando nel merito delle proposte avanzate dalla Rete delle professioni tecniche in sede di audizioni, spiace che queste non siano state accolte in toto: la lacuna più evidente è l'assenza di un capitolo specifico dedicato ai servizi di architettura e ingegneria, peculiari delle attività svolte dai professionisti dell'area tecnica. Oltre a sottrarre la progettazione dall'incentivo del 2%, sarebbe stato opportuno ridisegnare il ruolo dei dipendenti pubblici riservando loro compiti di programmazione e controllo, demandando ai liberi professionisti le attività di progettazione, direzione e collaudo.
Scarsa soddisfazione anche per la mancata adozione di una base vincolante da assumere quale riferimento dei corrispettivi (definita per decreto), la cui applicazione obbligatoria sarebbe andata a garanzia di un dato di partenza oggettivo. Apprezzamento, invece, per la completa informatizzazione della gestione dei bandi di gara, per il radicale ridimensionamento del ricorso all'appalto integrato, per l'espressa esclusione anche delle attività tecniche dal criterio di aggiudicazione del prezzo più basso.
Sulla scorta dei segnali positivi, il mondo delle professioni tecniche intende continuare a fornire il proprio contributo alla formazione dei vari decreti; in particolare, si adopererà per garantire tutele reali ai giovani colleghi, e per elevare la qualità progettuale e dei servizi tecnici, riponendo in proposito alte aspettative soprattutto nelle linee guida Anac, fondamentali per l'attuazione del codice stesso.
L'auspicio è che la politica e il legislatore confermino la disponibilità a recepire le indicazioni dei professionisti di area tecnica, quotidianamente impegnati a confrontarsi e testare criticità applicative che amplificano le difficoltà in cui versa l'intero settore (articolo ItaliaOggi del 28.04.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIAppalti, bandi da revocare se c’è il massimo ribasso. Atti da riformulare e ripubblicare anche in caso di subappalto o appalto integrato.
Il nuovo Codice. Amministrazioni alle prese con avvisi pubblicati dopo il 19 aprile.

L’entrata in vigore immediata del nuovo Codice degli appalti sta causando un generale disorientamento negli enti appaltanti e negli operatori, a causa della mancanza di un’adeguata disciplina transitoria (pericolo da tempo segnalato da questo giornale, si veda da ultimo Il Sole 24 Ore del 22 aprile).
Non appare idonea allo scopo la complessa normativa contenuta nell’articolo 216, diretta a regolamentare il passaggio tra il vecchio e il nuovo regime. Essa lascia, infatti, in vita “pezzi” del vecchio regolamento in attesa dell’emanazione delle linee guida dell’Anac e di una nutrita serie di provvedimenti attuativi, imponendo agli enti appaltanti una complicata attività di ricostruzione sistematica.
Nel contempo, lo stesso articolo 216 stabilisce una linea di cesura netta tra il vecchio e il nuovo regime: solo le procedure i cui bandi sono stati pubblicati prima dell’entrata in vigore del nuovo Codice –cioè entro il 18 aprile– possono continuare a svolgersi con le vecchie regole, mentre quelle che hanno origine in bandi pubblicati dopo tale data devono seguire le nuove regole.
La conseguenza di questa impostazione è evidente (ed è stata ribadita dal
comunicato 22.04.2016 Anac-Mit): i bandi pubblicati a partire dal 19 aprile che contengono previsioni in contrasto con le norme introdotte dal decreto legislativo 50/2016 devono essere revocati e vanno ripubblicati dopo averli resi aderenti alle nuove norme.
L’applicazione di questo principio impone alle stazioni appaltanti un’analisi puntuale dei contenuti dei singoli bandi per verificare se e in quali punti essi eventualmente confliggano con la nuova disciplina e vadano quindi corretti. Si tratta di un’analisi per nulla agevole, posto che deve essere operata con riferimento a tutte le singole disposizioni del nuovo Codice.
Vi sono tuttavia alcuni specifici aspetti in cui il possibile conflitto appare immediato e insanabile. Il primo è quello relativo all’utilizzo dell’appalto integrato di progettazione ed esecuzione, da affidare sulla base di un progetto preliminare o definitivo. Questa tipologia di appalto non è più ammessa dal decreto legislativo 50/2016: di conseguenza, se un bando pubblicato dopo il 18 aprile prevede l’affidamento di un appalto integrato, l’ente appaltante lo deve revocare, dotandosi di un progetto esecutivo e solo dopo potrà ripubblicare il bando per l’affidamento di un appalto di sola esecuzione (unica tipologia oggi consentita).
Il secondo profilo riguarda i criteri di aggiudicazione. Con le nuove norme il criterio del prezzo più basso (oggi ridefinito del minor prezzo) è utilizzabile solo per i lavori fino a un milione di euro e per le forniture e i servizi sottosoglia o con caratteristiche standardizzate. Pertanto, qualora un bando pubblicato dopo il 18 aprile preveda il ricorso a questo criterio di aggiudicazione al di fuori delle ipotesi indicate, andrà revocato. Il nuovo bando da ripubblicare dovrà prevedere l’utilizzo del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, con i conseguenti criteri di valutazione e il peso ponderale attribuito a ciascuno di essi.
Il terzo profilo attiene al subappalto. Le nuove norme prevedono che il ricorso al subappalto debba essere espressamente consentito nel bando di gara, che per le opere superspecialistiche non possa superare il 30% dell’intero importo dei lavori e che per gli appalti sopra soglia sia individuata già in sede di offerta la terna di subappaltatori. Nessuna di queste previsioni è contenuta nella vecchia disciplina. Di conseguenza, un bando pubblicato dopo il 18 aprile, non contenendo le indicazioni richiamate, dovrà essere revocato, integrato nei termini previsti dal nuovo Codice e ripubblicato
(articolo Il Sole 24 Ore del 27.04.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI SERVIZI - TRIBUTIBaratto amministrativo per tutti. Chance a tutti gli enti. Ampliate le forme di collaborazione.
CODICE APPALTI/ Il dlgs 50 allarga il perimetro dell'istituto. Ma restano nodi da sciogliere.
Il nuovo codice dei contratti allarga il perimetro del baratto amministrativo, ma non ne chiarisce ancora bene i confini.

L'art. 190 del dlgs. 50/2016 riformula la disciplina dell'istituto introdotto dall'art. 24 del dl 133/2014 (cosiddetto decreto «sblocca Italia»), senza tuttavia sciogliere molti dei nodi emersi nella sua applicazione pratica.
In primo luogo, il baratto viene esteso, dal punto di vista soggettivo, a tutti gli «enti territoriali», mentre fino ad oggi è stato limitato ai soli comuni.
Sul piano oggettivo, la nuova norma parla di «contratti di partenariato sociale», da stipularsi «sulla base di progetti presentati da cittadini singoli o associati, purché individuati in relazione a un preciso ambito territoriale», che «possono riguardare la pulizia, la manutenzione, l'abbellimento di aree verdi, piazze o strade, ovvero la loro valorizzazione mediante iniziative culturali di vario genere, interventi di decoro urbano, di recupero e riuso con finalità di interesse generale, di aree e beni immobili inutilizzati».
Anche da questo punto di vista, tale formulazione pare più ampia e puntuale di quella dell'art. 24, che menziona, oltre alla pulizia, "alla manutenzione e all'abbellimento di aree verdi, piazze o strade», interventi di generica «valorizzazione» territoriale.
Come contropartita, gli enti territoriali individuano «riduzioni o esenzioni di tributi», che (analogamente a quanto già previsto) devono essere «corrispondenti al tipo di attività svolta dal privato o dalla associazione», ovvero «comunque utili alla comunità di riferimento in un'ottica di recupero del valore sociale della partecipazione dei cittadini alla stessa».
È confermata anche la necessità di una delibera che definisca «i criteri e le condizioni», ma nuovamente non viene precisato se sia necessario un intervento dell'organo consiliare (come di recente affermato dalla Corte dei conti Emilia Romagna).
Inoltre, non si è chiarito se in sede di affidamento, sia comunque necessario rispettare le regole dell'evidenza pubblica, né se il baratto possa riguardare o meno anche debiti tributari pregressi.
Da segnalare, nello stesso filone, anche l'art. 189 del dlgs 50, rubricato «Interventi di sussidiarietà orizzontale». Esso consente di dare in gestione ad un «consorzio di comprensorio» costituito dai cittadini residenti, per quanto concerne la manutenzione e con diritto di prelazione, le aree riservate al verde pubblico urbano e degli immobili di origine rurale, riservati alle attività collettive sociali e culturali di quartiere, ceduti al comune (con esclusione di quelli ad uso scolastico e sportivo).
È inoltre possibile la formulazione all'ente competente, da parte di gruppi di cittadini organizzati, di proposte operative di pronta realizzabilità per la realizzazione di opere di interesse locale, nel rispetto degli strumenti urbanistici vigenti e delle prescrizioni in materia di Codice dei beni culturali e senza oneri per l'ente medesimo.
La proposta è vagliata dall'ente, che può respingere (vale il silenzio-rifiuto entro due mesi dalla presentazione) o approvare gli interventi, regolando le fasi essenziali del procedimento e i tempi di esecuzione (articolo ItaliaOggi del 27.04.2016).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Progettisti, gli incentivi rientrano dalla finestra.
Incertezze sulla possibilità di erogare gli incentivi ai dipendenti pubblici progettisti.

Secondo la chiave di lettura maggiormente accreditata dell'articolo 113 del dlgs 50/2016, questo avrebbe abolito il compenso a risultato per i progettisti delle pubbliche amministrazioni, aderendo così ad una richiesta molto forte del mondo dei progettisti privati, che possono ambire così ad un numero più ampio di incarichi.
Tuttavia, la lettura attenta delle disposizioni contenute nella norma non permette di esprimere la certezza che effettivamente l'incentivo non sia dovuto. Se ci si sofferma sul comma 2 dell'articolo 113, in apparenza i progettisti sono esclusi. Infatti, la norma prevede che a valere sul quadro economico dell'opera, le amministrazioni pubbliche costituiscono e «destinano a un apposito fondo risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate sull'importo dei lavori posti a base di gara per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti pubblici esclusivamente per le attività di programmazione della spesa per investimenti, per la verifica preventiva dei progetti di predisposizione e di controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del procedimento, di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti». La progettazione non è menzionata.
Tuttavia, il successivo comma 3 dispone che «l'ottanta per cento delle risorse finanziarie del fondo costituito ai sensi del comma 2 è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, servizio, fornitura con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti, tra il responsabile unico del procedimento e i soggetti che svolgono le funzioni tecniche indicate al comma 1 nonché tra i loro collaboratori».
Il comma 1, nel definire gli oneri da indicare negli stanziamenti del quadro economico, si riferisce agli «oneri inerenti alla progettazione, alla direzione dei lavori ovvero al direttore dell'esecuzione, alla vigilanza, ai collaudi tecnici e amministrativi ovvero alle verifiche di conformità, al collaudo statico, agli studi e alle ricerche connessi, alla progettazione dei piani di sicurezza e di coordinamento e al coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione quando previsti ai sensi del decreto legislativo 09.04.2008 n. 81, alle prestazioni professionali e specialistiche necessari per la redazione di un progetto esecutivo completo in ogni dettaglio».
Quindi, il rimando che il comma 3 fa al comma 1, pare poter far rientrare dalla finestra la corresponsione degli incentivi, uscita dalla porta, visto che il comma 1 cita espressamente tra le «funzioni tecniche» anche quelle relative alla progettazione, i cui oneri sono indicati tra quelli che costituiscono il fondo. Si potrebbe pensare, allora, che il comma 2 escluda la destinazione delle some connesse alla progettazione alla costituzione del fondo, certo. Ma, la disposizione combinata tra commi 3 e 1 non aiuta di certo a considerare conclusiva l'affermazione. Le possibilità che i tecnici della p.a., se incaricati, rivendichino davanti al giudice del lavoro la corresponsione dell'incentivo e che trovino ragione delle eventuali azioni è molto ampia.
Solo la contrattazione decentrata dei singoli enti, se escludesse espressamente dai compensi i progettisti, potrebbe attenuare le possibilità di attivare e vincere un possibile contenzioso. Di certo, l'ambiguità della norma scatenerà interpretazioni disparate ed il solito carico di pareri spesso contraddittori delle sezioni regionali della Corte dei conti.
Il tutto, meriterebbe un chiarimento molto veloce, anche per capire una volta e per sempre se l'Irap sia da considerare esclusa o inclusa nel quadro economico, problema irrisolto dai pareri criptici della magistratura contabile. Da sottolineare una novità chiara: col dlgs 50/2016 l'incentivazione potrà andare a responsabili del procedimento, direttore dell'esecuzione e loro collaboratori anche nel caso di appalti di servizi e forniture (articolo ItaliaOggi del 27.04.2016 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI SERVIZIClausole sociali solo facoltative. Se si sceglie questa opzione vanno anche applicati i contratti più rappresentativi.
Codice degli appalti/1. Nei bandi di gara è possibile prevedere il passaggio dei dipendenti al nuovo appaltatore.

Con la pubblicazione in Gazzetta ufficiale del codice degli appalti (Dlgs 50/2016) è entrata in vigore la nuova disciplina delle clausole sociali. Si tratta di specifiche disposizioni che dovrebbero garantire la continuità occupazionale dei lavoratori interessati da un cambio di appalto, tramite il loro passaggio alle dipendenze del nuovo appaltatore.
In particolare l’articolo 50 stabilisce che i bandi di gara, gli avvisi e gli inviti per gli affidamenti dei contratti di concessione e di appalto di lavori e servizi, diversi da quelli aventi natura intellettuale, possono prevedere apposite clausole sociali, volte a promuovere la stabilità occupazionale del personale impiegato.
Il legislatore delegato considera facoltativa, e non obbligatoria, l’introduzione della clausola sociale nei bandi di gara; questa scelta ha fatto molto discutere in quanto, nel corso dell’esame della bozza di decreto legislativo, le competenti commissioni parlamentari avevano chiesto che tale previsione fosse obbligatoria.
La clausola sociale può concretizzarsi nell’obbligo, previsto dal bando, di assumere in tutto o in parte il personale già utilizzato dal precedente appaltatore per l’esecuzione del servizio. L’eventuale scelta in questa direzione, precisa la legge, deve prevedere anche l’obbligo per l’aggiudicatario di dare applicazione ai contratti collettivi di settore stipulati, a livello nazionale, territoriale o aziendale, dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
Il rispetto dei contratti collettivi è un impegno previsto in più parti dal codice degli appalti: l’articolo 30 stabilisce tale obbligo a carico dei soggetti che eseguono appalti pubblici e di concessioni (comma 3), individua come vincolanti gli accordi in vigore per il settore e per la zona nella quale si eseguono le prestazioni di lavoro, e quelli il cui ambito di applicazione sia strettamente connesso con l’attività oggetto dell’appalto (comma 4).
L’articolo 50 del codice precisa inoltre che la clausola sociale può riguardare i servizi la cui esecuzione richieda un’alta intensità di manodopera, ma anche in questo caso resta fermo il carattere facoltativo della sua previsione. Rientrano nella nozione, secondo la norma, tutti quei servizi nei quali il costo della manodopera è pari almeno al 50% dell’importo totale del contratto.
Il codice precisa anche che le eventuali clausole sociali dovranno essere conformi ai principi dell’Unione europea: è chiaro il riferimento all’esigenza di rispettare i principi comunitari (e anche costituzionali) in materia di libertà imprenditoriale e della concorrenza, evitando che questo tipo di clausole comportino la restrizione della platea dei soggetti che vogliono competere all’affidamento del servizio.
Quella introdotta dal Dlgs 50/2016 per i bandi pubblici non è l’unica forma di clausola sociale contenuta nella riforma degli appalti.
Una disposizione avente le medesime finalità (salvaguardare l’occupazione nei casi di cambio dell’appaltatore) è contenuta anche nella legge delega che ha dato origine al codice. L’articolo 1, comma 10, della legge 11/2016 (con una disposizione diventata subito efficace) prevede, per il settore dei call center, il passaggio a carico del soggetto che subentra nel servizio del personale impiegato nell’appalto.
La norma si limita a fissare il principio generale, assegnando ai contratti collettivi nazionali di lavoro, stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali maggiormente rappresentative sul piano nazionale, il compito di regolare in maniera completa la materia (si prevede anche un potere sussidiario del ministero del lavoro, in caso di inerzia delle parti sociali)
(articolo Il Sole 24 Ore del 26.04.2016).

INCARICHI PROGETTUALI: Gare già aperte ai professionisti. Codice degli appalti/2. Per le norme attuali sono equiparati alle imprese.
Appena entrato in vigore, il codice degli appalti pubblici (decreto legislativo 50/2016) potrebbe già essere modificato da una norma esterna alla materia degli appalti, in attesa del riordino previsto per il 31.07.2016.
È infatti in discussione lo Statuto del lavoro autonomo (Ddl 2233) che, all’articolo 7, prevede una maggiore partecipazione dei lavoratori autonomi agli appalti pubblici.
Questa innovazione si affiancherà a quanto prevede il codice degli appalti, cioè che fino a 40mila euro siano possibili affidamenti diretti per i professionisti, purché vi sia motivazione e si rispettino i principi di concorrenzialità (articolo 36, comma 2, lettera a).
Ciò, tuttavia, non significa che debba prevalere l’elemento della fiducia, cioè non è sufficiente una valutazione personale sulla qualità del professionista (difficile da motivare e da contestare). Nella scelta del professionista occorre tener presente anche i principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità voluti dall’articolo 4 del codice degli appalti.
Al di là di termini generali, un primo importante passo sarà quello che alcune associazioni di professionisti (Acta, Confassociazioni, Confprofessioni), individuano nell’estensione, ai professionisti, di agevolazioni dell’accesso alle gare già presenti nel codice degli appalti per le micro e piccole imprese. Se, infatti, lo Statuto del lavoro autonomo in corso di approvazione al Senato vuole incentivare la partecipazione dei lavoratori autonomi agli appalti pubblici, già ora basta applicare in modo ragionevole le norme vigenti.
Si tratta, in particolare, dell’articolo 1, lettera ccc, della legge 11/2016, che garantisce accesso alle micro, piccole e medie imprese vietando le aggregazioni artificiose di appalti e imponendo un obbligo di motivazione qualora un affidamento non venga suddiviso in lotti.
Il committente pubblico, quindi, non può prevedere gare eccessivamente dilatate che esigano requisiti particolarmente consistenti, inaccessibili alle micro e piccole imprese. Questa misura, sotto forma di divieto di ostacoli alla partecipazione di concorrenti minori, è stata trasfusa negli articoli 30, comma 7, 36, comma 1, e 41, comma 1, del Dlgs 50/2016, a vantaggio anche dei professionisti, grazie all’equiparazione con le piccole imprese.
Se le gare non possono avere criteri tali da escludere le micro e piccole imprese, se deve essere rispettato il criterio di rotazione ed essere agevolato il sistema di reti, ciò può giovare anche ai professionisti, singoli o associati, grazie all’equiparazione tra piccole imprese e professionisti. Tale equiparazione è stata più volte affermata dall’Autorità garante della concorrenza, intervenuta in tema di tariffe e di pubblicità.
La giustizia amministrativa (Consiglio di Stato 411/2015 e 1164/2016) ha condiviso questa impostazione favorevole all’equiparazione, che del resto è stata fatta propria anche dal legislatore nella legge di Stabilità 2016: l’articolo primo ha esteso ai professionisti la possibilità di attingere a fondi strutturali europei, attraverso l’equiparazione appunto a piccole e medie imprese
(articolo Il Sole 24 Ore del 26.04.2016).

INCARICHI PROFESSIONALIAvvocati, stretta privacy. Finita la perizia non si possono tenere i dati. Lo dice il Garante in un provvedimento. Inflitti 192 mila di sanzione.
Viola la privacy il consulente dell'autorità giudiziaria che, finita la perizia, tiene per sé un data base con tutte le informazioni sulle perizie effettuate. È un illecito che contravviene agli obblighi di informativa e di raccolta del consenso dell'interessato e delle prescrizioni sul trattamento di dati giudiziari.

E tutto ciò può costare molto caro: a un avvocato, che ha organizzato una maxi banca dati, fruibile in un sito web, il Garante della privacy (provvedimento 31.03.2016 n. 148) ha comminato la sanzione pecuniaria amministrativa di 192 mila euro. E questo anche se per gli stessi fatto il consulente è stato assolto dal reato di trattamento illecito di dati.
Il principio da seguire prevede, invece, che il consulente restituisca tutto al giudice, senza tenere niente, salvo specifiche autorizzazioni del magistrato o obblighi di legge (vedasi le Linee Guida per i Ctu, provvedimento del Garante n. 46 del 26.06.2008). Vediamo come sono andati i fatti.
Un avvocato ha svolto l'attività di consulente tecnico dell'autorità giudiziaria per oltre 20 anni e ha costituito, un database contenente moltissimi dati personali, dati di traffico telefonico o comunque relativi a utenze telefoniche e dati giudiziari: tutte informazioni acquisite proprio in occasione degli incarichi conferiti. Tecnicamente, in base al codice della privacy, i titolari di questi trattamenti sono gli uffici giudiziari, che hanno conferito incarichi peritali, da completare di regola in 60 giorni. Scaduto questo termine tutte le informazioni non potevano essere conservati dal professionista.
Ma a che cosa sono serviti queste informazioni, tra l'altro messe in un sito web e fruibili in rete? Sono stati usati dall'avvocato per difendersi in sede giudiziaria (il procedimento per violazione della privacy); e sono stati anche comunicati a una vasta platea di soggetti, fra cui magistrati, appartenenti alle forze di polizia, giornalisti e professionisti vari. In base a questi fatti, il garante ha ritenuto che il database è stato creato e conservato in assenza di specifico incarico da parte dell'autorità giudiziaria e anche utilizzato per scopi diversi agli incarichi peritali.
A un certo punto, quindi, il professionista, che in primo tempo ha legittimamente acquisito i dati, successivamente è diventato lui il titolare del trattamento, non operando più come consulente dell'autorità giudiziaria, ma come soggetto privato, al di fuori dal perimetro indicato negli incarichi peritali e di consulenza. Così facendo il professionista, però, ha violato gli articoli 11 e 27 del codice della privacy (trattamento illecito di dati giudiziari). Per i dati personali diversi da quelli giudiziari, la conservazione e la comunicazione a terzi sono risultate al garante illecite per mancanza del consenso degli interessati.
Sul punto, sia per i dati giudiziari sia per i dati personali comuni, l'avvocato ha sostenuto la legittimità della conservazione e dell'utilizzo, poiché sono serviti a difendersi in giudizio: l'avvocato è stato denunciato anche per il reato di illecito trattamento dati (articolo 167 codice della privacy). Ma il garante ha ribattuto che questa giustificazione non è plausibile, considerato che la conservazione nel data base è cominciata molto prima dell'indagine che ha coinvolto il professionista.
Proprio per l'assenza di una attuale esigenza difensiva, il garante ha anche ravvisato la violazione dell'obbligo di informativa agli interessati previsto dall'articolo 13 del codice della privacy. Le violazioni riscontrate sono state quattro: inosservanza della disciplina dei dati giudiziari, mancato consenso, mancata informativa, violazioni su banca dati di particolare dimensioni (quest'ultimo ritenuto un illecito autonomo) (articolo ItaliaOggi del 26.04.2016).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGODirigenti, assunzioni a rischio. Posti indisponibili finché non sarà operativa la riforma. L'Unificata ha tentato di aprire un varco nel blocco imposto dalla legge di Stabilità 2016.
Rischio nullità per le assunzioni di dirigenti effettuate da enti locali in violazione dell'articolo 1, comma 219, della legge 208/2015.

Le indicazioni fornite dalla Conferenza unificata nella seduta dello scorso 24 marzo a oggetto l'esame delle «Problematiche interpretative relative all'articolo 1, commi 219 e 221, della legge 28.12.2015, n. 208 in materia di dirigenza pubblica», non possono superare i rilevanti problemi di legittimità di assunzioni effettuate contro la volontà del legislatore.
Come è noto, l'articolo 1, comma 219, della legge 208/2015 impone alle amministrazioni (salvo poche e specifiche eccezioni, che non contemplano gli enti locali) di rendere indisponibili i posti delle qualifiche dirigenziali, finché non sarà operativa la riforma della dirigenza, voluta dall'articolo 11 della legge 124/2015.
I comuni in particolare hanno sollevato critiche nei confronti della norma, perché costituisce un'ulteriore gabbia alla propria autonomia organizzativa.
Tuttavia, dalla critica legittima si è passati al tentativo di proporre interpretazioni della norma oggettivamente troppo spinte, cercando di reperire elementi per considerarla non applicabile agli enti locali, evocando l'autonomia costituzionale o elementi accidentali, quali il riferimento contenuto nel comma 219 agli incarichi di prima e seconda fascia, inesistenti negli enti locali.
Si è trattato, tuttavia, di tesi prive di solidi elementi. La Corte dei conti, sezione regionale di controllo della Puglia, non a caso li ha respinti integralmente nella deliberazione 17.03.2016, n. 73 mettendo in evidenza due elementi decisivi per la piena applicabilità della norma a tutti gli enti locali.
In primo luogo, la sezione rileva che «la norma si riferisce a tutte le amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, dlgs 165/2001, senza introdurre alcuna espressa eccezione per gli enti locali»; in secondo luogo, afferma: «Il comma 224 della citata legge 208/2015, nel prevedere che resta escluso dal campo di applicazione del comma 219 -tra gli altri- il personale delle città metropolitane e delle province adibito all'esercizio di funzioni fondamentali, non fa altro che confermare l'opzione ermeneutica sopra indicata, atteso che siffatta eccezione non avrebbe ragion d'essere se gli enti locali fossero esclusi a priori, per estraneità soggettiva, dal raggio operativo della disciplina in esame».
In Conferenza unificata si è cercata una soluzione definita di compromesso, nell'ambito della quale spicca in particolare l'indicazione secondo la quale «sarà comunque possibile prevedere la copertura di posizioni dirigenziali specificamente previste dalla legge o connesse alto svolgimento di funzioni fondamentali, in base all'articolo 14, comma 27, del dl 78/2010, o di servizi essenziali».
Si tratta, tuttavia, di un'indicazione per un verso priva di qualsiasi elemento cogente, in quanto proveniente da un soggetto, la Conferenza unificata, non dotato in alcun modo di poteri e competenze concernenti l'interpretazione e l'applicazione delle norme: la Conferenza unificata, ai sensi dell'articolo 2 del dlgs 281/1997 dispone solo di compiti consultivi preventivi, non della possibilità di esprimere pareri riguardo l'attuazione delle leggi. Meno che mai se detti pareri portino, di fatto, a letture contrastanti con le norme.
È evidentissima la contrapposizione tra quanto indicato dalla Conferenza Unificata e l'articolo 1, commi 219 e 224, della legge 208/2015: quest'ultima, infatti, esclude dal sostanziale blocco temporaneo delle assunzioni di qualifiche dirigenziali solo i dirigenti adibiti alle funzioni fondamentali di province e città metropolitane (che, in realtà, non possono assumere nessuno perché soggette al perdurante divieto assoluto di assunzioni).
La Conferenza Unificata finisce per estendere anche ai comuni la possibilità di assumere dirigenti nelle funzioni fondamentali dei comuni definite dall'articolo 14, comma 27, del dl 78/2010, cioè quasi tutte, con un'operazione posta a porre nel nulla la ratio della legge di Stabilità del 2016, evidentemente preordinata a tenere fermi gli incarichi dirigenziali in vista della costituzione del ruolo unico dirigenziale, previsto dalla riforma voluta dal ministro Marianna Madia.
Pertanto, poiché la Conferenza Unificata non può costituire fonte di produzione o di interpretazione efficace sul piano giuridico, assunzioni di qualifiche dirigenziali basate sul supporto del parere del 24 marzo, in quanto contrarie a legge, si espongono a rischi concreti di nullità e responsabilità erariale (articolo ItaliaOggi del 26.04.2016).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: La definizione di “restauro scientifico” esclude l’ammissibilità di incrementi volumetrici, né può diversamente ritenersi, in considerazione del fatto che la detta tipologia di intervento consente “l’inserimento degli impianti tecnologici e igienico-sanitari essenziali”.
E’ vero, infatti, che la collocazione dei detti impianti può richiedere la realizzazione di appositi volumi destinati ad ospitarli, ma si tratta di volumi c.d. tecnici, che, com’è noto, nulla hanno a che vedere con la volumetria, quale quella di che trattasi, destinata a soddisfare esigenze diverse da quella concernente il ricovero di siffatti impianti.

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Le censure delle due parti appellanti, rivolte a contestare l’ipotizzato aumento di volumetria derivante dalla chiusura del porticato, sono palesemente infondate e si prestano ad una trattazione congiunta.
Occorre preliminarmente rilevare che la lex specialis della gara non consentiva incrementi volumetrici, né, contrariamente a quanto sostenuto dal Comune di Sassuolo, questi ultimi potevano ritenersi ammessi in considerazione della tipologia degli interventi da progettare.
In base al bando di gara il concorso di progettazione per cui è causa, aveva ad oggetto interventi di “recupero funzionale” e “restauro scientifico”.
Diversamente da quanto sostenuto dall’amministrazione comunale, dalla definizione di “restauro scientifico” contenuta nell’allegato alla L.R. 25/11/2002, n. 31, non si ricava affatto l’ammissibilità di aumenti di cubatura.
Si legge nel citato allegato: <<Ai fini della presente legge si intendono per:

“restauro scientifico", gli interventi che riguardano le unità edilizie che hanno assunto rilevante importanza nel contesto urbano territoriale per specifici pregi o caratteri architettonici o artistici. Gli interventi di restauro scientifico consistono in un insieme sistematico di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici formali e strutturali dell'edificio, ne consentono la conservazione, valorizzandone i caratteri e rendendone possibile un uso adeguato alle intrinseche caratteristiche. Il tipo di intervento prevede:
   c.1) il restauro degli aspetti architettonici o il ripristino delle parti alterate, cioè il restauro o ripristino dei fronti esterni ed interni, il restauro o il ripristino degli ambienti interni, la ricostruzione filologica di parti dell'edificio eventualmente crollate o demolite, la conservazione o il ripristino dell'impianto distributivo-organizzativo originale, la conservazione o il ripristino degli spazi liberi, quali, tra gli altri, le corti, i larghi, i piazzali, gli orti, i giardini, i chiostri;
   c.2) consolidamento, con sostituzione delle parti non recuperabili senza modificare la posizione o la quota dei seguenti elementi strutturali:
- murature portanti sia interne che esterne;
- solai e volte;
- scale;
- tetto, con ripristino del manto di copertura originale;
   c.3) l'eliminazione delle superfetazioni come parti incongrue all'impianto originario e agli ampliamenti organici del medesimo;
   c.4) l'inserimento degli impianti tecnologici e igienico-sanitari essenziali
>>.
La trascritta definizione di “restauro scientifico”, esclude, dunque, chiaramente l’ammissibilità di incrementi volumetrici, né può diversamente ritenersi, in considerazione del fatto che la detta tipologia di intervento consente “l’inserimento degli impianti tecnologici e igienico-sanitari essenziali”. E’ vero, infatti, che la collocazione dei detti impianti può richiedere la realizzazione di appositi volumi destinati ad ospitarli, ma si tratta di volumi c.d. tecnici, che, com’è noto, nulla hanno a che vedere con la volumetria, quale quella di che trattasi, destinata a soddisfare esigenze diverse da quella concernente il ricovero di siffatti impianti.
Nel caso di specie, la proposta progettuale del RTP capeggiato dalla arch. Ve. prevedeva indubbiamente la realizzazione di volumetria aggiuntiva non classificabile come mero volume tecnico (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 05.05.2016 n. 1822 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'installazione di pannelli in vetro atti a chiudere integralmente un porticato che si presenti aperto su tre lati, determina, senz’altro, la realizzazione di un nuovo locale autonomamente utilizzabile, con conseguente incremento della preesistente volumetria.
Ciò vale anche nell’ipotesi in cui le vetrate siano facilmente amovibili e siano destinate a chiudere il manufatto, solo per un determinato periodo nell’arco dell’anno, atteso che:
   a) le modalità di installazione e rimozione di una struttura sono indifferenti rispetto alla sua funzione (nella specie quella di realizzare un vano chiuso);
   b) l’utilizzo stagionale delle vetrate non vale a conferire all’opera che ne risulta natura precaria, atteso che al fine di affermare siffatta natura occorre che la struttura sia oggettivamente inidonea a soddisfare esigenze prolungate nel tempo.
La giurisprudenza ha ritenuto, che la natura precaria di un manufatto non può essere desunta dalla temporaneità della destinazione soggettivamente assegnatagli dal costruttore, rilevando l’idoneità dell’opera a soddisfare un bisogno non provvisorio attraverso la perpetuità della funzione.
Coerentemente è stato affermato che nemmeno l’eventuale intendimento di utilizzare la struttura stagionalmente, può consentire di attribuire alla stessa carattere precario.

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Ed invero l'installazione di pannelli in vetro atti a chiudere integralmente un porticato che si presenti aperto su tre lati, determina, senz’altro, la realizzazione di un nuovo locale autonomamente utilizzabile, con conseguente incremento della preesistente volumetria (Cons. Stato, Sez. VI, 05/08/2013 n. 4089; Sez. V, 08/04/1999, n. 394; 26/10/1998 n. 1554).
Ciò vale anche nell’ipotesi in cui le vetrate siano facilmente amovibili e siano destinate a chiudere il manufatto, solo per un determinato periodo nell’arco dell’anno, atteso che:
   a) le modalità di installazione e rimozione di una struttura sono indifferenti rispetto alla sua funzione (nella specie quella di realizzare un vano chiuso);
   b) l’utilizzo stagionale delle vetrate non vale a conferire all’opera che ne risulta natura precaria, atteso che al fine di affermare siffatta natura occorre che la struttura sia oggettivamente inidonea a soddisfare esigenze prolungate nel tempo.
La giurisprudenza ha ritenuto, che la natura precaria di un manufatto non può essere desunta dalla temporaneità della destinazione soggettivamente assegnatagli dal costruttore, rilevando l’idoneità dell’opera a soddisfare un bisogno non provvisorio attraverso la perpetuità della funzione (Cass. Pen., Sez. III, 08/02/2007 n. 5350).
Coerentemente è stato affermato che nemmeno l’eventuale intendimento di utilizzare la struttura stagionalmente, può consentire di attribuire alla stessa carattere precario (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 05.05.2016 n. 1822 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non sussiste necessità di motivare in modo particolare un provvedimento col quale sia stata ordinata la demolizione di un manufatto abusivo, quand’anche sia trascorso un lungo periodo di tempo tra l’epoca della commissione dell’abuso e la data dell’adozione dell’ingiunzione di demolizione, poiché l’ordinamento tutela l’affidamento solo qualora esso sia incolpevole, mentre la realizzazione di un’opera abusiva si concretizza in una volontaria attività del costruttore contra legem.
Non può ammettersi, pertanto, un affidamento meritevole di tutela alla conservazione di una situazione di fatto abusiva. Colui che realizza un abuso edilizio non può dolersi del fatto che l’amministrazione lo abbia prima in un certo qual modo avvantaggiato, adottando solamente a notevole distanza di tempo i provvedimenti repressivi dell’abuso non sanabile.
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L'ordine di demolizione, come i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può mai legittimare (conf. Cons. Stato, IV, 20.07.2011, n. 4403, che segnala il carattere dovuto dell’ordine di demolizione, emanato “in mera dipendenza dall’accertamento dell’abuso e dalla riconducibilità del medesimo ad una delle fattispecie di illecito previste dalla legge, con la conseguenza che il provvedimento sanzionatorio non richiede una particolare motivazione, essendo sufficiente la mera rappresentazione del carattere illecito dell’opera realizzata; né è necessaria una previa comparazione dell’interesse pubblico alla repressione dell’abuso, che è in “re ipsa”, con l’interesse del privato proprietario del manufatto; e ciò anche se l’intervento repressivo avvenga a distanza di tempo dalla commissione dell’abuso, ove il medesimo non sia stato oggetto di sanatoria in base agli interventi legislativi succedutisi nel tempo”).
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L'interesse pubblico alla tutela della disciplina urbanistica non è negoziabile in ragione di un preteso affidamento individuale: la presenza di un manufatto abusivo none esaurisce infatti i suoi effetti, bilateralmente, nella sfera giuridica del destinatario della misura ripristinatoria, ma riguarda erga omnes l’intera collettività circostante.
Sicché, quand’anche l’asserito affidamento individuale davvero sussistesse, sarebbe comunque improduttivo di effetti utili al fine superiore dell’esigenza generale di ripristinare l’ordine urbanistico, di cui tutti beneficiano.

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5. Con il secondo motivo gli appellanti deducono la violazione del principio dell’affidamento perché la fattispecie riguarda un preteso abuso, risalente pacificamente a data anteriore al 1967, non eseguito dagli appellanti e concernente un manufatto accessorio di modeste dimensioni.
Il motivo non può trovare accoglimento alla luce della consolidata giurisprudenza, in particolare della recente pronuncia della Sezione (Cons. Stato, VI, 11.12.2013, n. 5943; 05.01.2015, n. 13) secondo la quale non sussiste necessità di motivare in modo particolare un provvedimento col quale sia stata ordinata la demolizione di un manufatto abusivo, quand’anche sia trascorso un lungo periodo di tempo tra l’epoca della commissione dell’abuso e la data dell’adozione dell’ingiunzione di demolizione, poiché l’ordinamento tutela l’affidamento solo qualora esso sia incolpevole, mentre la realizzazione di un’opera abusiva si concretizza in una volontaria attività del costruttore contra legem. Non può ammettersi, pertanto, un affidamento meritevole di tutela alla conservazione di una situazione di fatto abusiva. Colui che realizza un abuso edilizio non può dolersi del fatto che l’amministrazione lo abbia prima in un certo qual modo avvantaggiato, adottando solamente a notevole distanza di tempo i provvedimenti repressivi dell’abuso non sanabile.
Ed è da ribadire, con la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (v., ex plurimis, Cons. Stato, V, 11.01.2011, n. 79 e, ivi, numerosi riferimenti giurisprudenziali aggiuntivi), che l'ordine di demolizione, come i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può mai legittimare (conf. Cons. Stato, IV, 20.07.2011, n. 4403, che segnala il carattere dovuto dell’ordine di demolizione, emanato “in mera dipendenza dall’accertamento dell’abuso e dalla riconducibilità del medesimo ad una delle fattispecie di illecito previste dalla legge, con la conseguenza che il provvedimento sanzionatorio non richiede una particolare motivazione, essendo sufficiente la mera rappresentazione del carattere illecito dell’opera realizzata; né è necessaria una previa comparazione dell’interesse pubblico alla repressione dell’abuso, che è in “re ipsa”, con l’interesse del privato proprietario del manufatto; e ciò anche se l’intervento repressivo avvenga a distanza di tempo dalla commissione dell’abuso, ove il medesimo non sia stato oggetto di sanatoria in base agli interventi legislativi succedutisi nel tempo” (Cons. Stato, VI, 23.10.2015, n. 4880).
Più ancora vale rilevare che l'interesse pubblico alla tutela della disciplina urbanistica non è negoziabile in ragione di un preteso affidamento individuale: la presenza di un manufatto abusivo none esaurisce infatti i suoi effetti, bilateralmente, nella sfera giuridica del destinatario della misura ripristinatoria, ma riguarda erga omnes l’intera collettività circostante. Sicché, quand’anche l’asserito affidamento individuale davvero sussistesse, sarebbe comunque improduttivo di effetti utili al fine superiore dell’esigenza generale di ripristinare l’ordine urbanistico, di cui tutti beneficiano (cfr. Cons. Stato, VI, 28.01.2013, n. 498; 04.03.2013, n. 1268; 29.01.2015, n. 406) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 05.05.2016 n. 1774 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla natura e consistenza delle realizzate n. 2 “pergotende”.
La struttura in alluminio anodizzato destinata ad ospitare tende retrattili in materiale plastico non integra le caratteristiche di “trasformazione edilizia e urbanistica del territorio” (artt. 3 e 10 d.P.R. n. 380/2001). Va, invero, considerato che l’opera principale non è la struttura in sé, ma la tenda, quale elemento di protezione dal sole e dagli agenti atmosferici, finalizzata ad una migliore fruizione dello spazio esterno dell’unità abitativa.
Considerata in tale contesto, la struttura in alluminio anodizzato si qualifica in termini di mero elemento accessorio, necessario al sostegno e all’estensione della tenda. Quest’ultima, poi, integrata alla struttura portante, non vale a configurare una “nuova costruzione”, atteso che essa è in materiale plastico e retrattile, onde non presenta caratteristiche tali da costituire un organismo edilizio rilevante, comportante trasformazione del territorio.
Tanto è escluso in primo luogo dalla circostanza che la copertura e la chiusura perimetrale che essa realizza non presentano elementi di fissità, stabilità e permanenza, in ragione del carattere retrattile della tenda; onde, in ragione della inesistenza di uno spazio chiuso stabilmente configurato, non può parlarsi di organismo edilizio connotantesi per la creazione di nuovo volume o superficie.
Ciò resta escluso, inoltre, in considerazione della tipologia dell’elemento di copertura e di chiusura, il quale è una tenda in materiale plastico, privo pertanto di quelle caratteristiche di consistenza e di rilevanza che possano connotarlo in termini di componenti edilizie di copertura o di tamponatura di una costruzione.
Allo stesso modo, deve ritenersi che non sia integrata la fattispecie della ristrutturazione edilizia. Invero, ai sensi dell’articolo 3, lettera d), del dpr n. 380/2001, tale tipologia di intervento edilizio richiede che trattasi di “interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere”, i quali “comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione, la modifica e l’inserimento di nuovi elementi e impianti”: la disposizione, così come declinata dal legislatore, richiede che le opere realizzate abbiano consistenza e rilevanza edilizia, siano cioè tali da poter “trasformare l’organismo edilizio”, condividendo pertanto natura e consistenza degli elementi costitutivi di esso
(massima tratta da https://renatodisa.com).
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Con unico ed articolato motivo il signor Ag. lamenta: Violazione dell’articolo 6, comma 1, del DPR n. 380/2001; violazione della circolare n. 19137 del 09.03.2012; errata applicazione dell’articolo 16 della legge regionale Lazio n. 15/2008; eccesso di potere per travisamento dei fatti, erroneità dei presupposti, illogicità manifesta e carenza di istruttoria.
L’appellante deduce in primo luogo l’erroneità della sentenza impugnata per non avere esattamente compreso e valutato la fattispecie concreta della installazione di due pergotende, la quale rientra nell’ambito di operatività dell’articolo 6 del dpr n. 380/2001 (cd. attività edilizia libera), dovendosi in proposito fare riferimento (accertamento omesso dal Tribunale) alla sussistenza di peculiari caratteristiche, quali l’amovibilità delle opere, la loro temporaneità ovvero la loro natura di arredo pertinenziale.
Aggiunge ancora che il giudice di prime cure non avrebbe considerato che lo stesso Comune, con la Circolare n. 19137 del 09.03.2012, nel disciplinare le ipotesi di attività edilizia libera, vi aveva ricompreso le cd. “strutture semplici, quali gazebo, pergotende con telo retrattile, pergolati, se elementi di arredo annessi ad unità immobiliari e/o edilizie aventi esclusivamente destinazione abitativa”.
Rileva, poi, che la sentenza appellata avrebbe errato nel ritenere l’opera realizzata assoggettata al preventivo rilascio del permesso di costruire, atteso che, nella specie, non era configurabile un intervento di ristrutturazione edilizia, né tampoco di nuova costruzione, difettando l’indefettibile presupposto della trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio.
Andavano, infatti, sottolineati caratteri di amovibilità, precarietà e temporaneità delle strutture realizzate, nonché la loro funzione meramente accessoria e pertinenziale all’unità abitativa.
Lamenta, infine, la non corrispondenza tra la violazione contestata e la ragione di diniego espressa dal Tribunale. Invero, nella specie i provvedimenti gravati richiamavano l’articolo 16 della legge regionale Lazio n. 15/2008, riferentesi alle ipotesi di ristrutturazione edilizia e cambi di destinazione d’uso in assenza di titolo edilizio, mentre la sentenza di primo grado avrebbe configurato l’opera quale intervento di nuova costruzione.
Ciò posto, rileva la Sezione che i provvedimenti impugnati dal signor Ag. qualificano le opere realizzate quale “interventi edilizi abusivi di ristrutturazione edilizia in assenza di titolo abilitativo”.
Di poi, la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale in questa sede gravata così motiva il rigetto del ricorso: “Il ricorso è infondato e, pertanto, va respinto tenuto conto che le opere realizzate risultano avere una consistenza tale ed un ancoraggio al lastrico del terrazzo sul quale sono installate, tale da costituire, secondo un costante orientamento della Sezione, una modificazione permanente della sagoma dell’edificio per la cui esecuzione deve ritenersi necessaria la previa acquisizione di apposito permesso di costruire”.
La disamina dell’appello –a giudizio della Sezione– non può prescindere dalla considerazione della natura e della consistenza delle opere realizzate.
Trattasi di n. 2 “pergotende”, le quali vengono analiticamente descritte sia nei provvedimenti impugnati, sia nella comunicazione ex art. 27, comma 4, del dpr n. 380/2001, prot. VB/2014/23430 del 02.04.2014.
In particolare, in tale ultimo atto viene riferita la realizzazione di:
   1) “struttura di alluminio anodizzato atta ad ospitare una tenda retrattile in materiale plastico comandata elettricamente. Detta struttura risulta ancorata ai muri perimetrali del fabbricato e al muretto di parapetto del terrazzo; risulta altresì sorretta da pali, sempre in alluminio anodizzato, che poggiano sul pavimento del terrazzo:La struttura che occupa una superficie di circa mq. 34 risulta tamponata sui due lati liberi da tendine plastiche, scorrevoli all’interno di binari, comandate elettricamente e da teli plastici fissi (timpano e frangivento)inseriti nelle strutture di alluminio anodizzato”;
   2) “…una struttura in alluminio anodizzato atta ad ospitare un tenda retrattile in materiale plastico comandata elettricamente. Detta struttura risulta ancorata ai muri perimetrali del fabbricato e al plateatico pavimentato predetto. La struttura che occupa una superficie di circa mq. 15 risulta tamponata sui due lati liberi da lastre in vetro mobili “a pacchetto” munite di supporti che, manualmente, scorrono in appositi binari e da vetro fisso (timpano)inseriti nelle strutture di alluminio anodizzato”.
Orbene, in relazione alla tipologia dei manufatti realizzati, così come sopra descritti, il Collegio ritiene che l’appello sia parzialmente fondato, nei sensi che di seguito si espongono.
La Sezione evidenzia preliminarmente che
la questione relativa alla non necessità del previo titolo abilitativo non può essere risolta sulla base della pretesa precarietà delle opere, fondata, a dire dell’appellante, sulla amovibilità delle strutture.
Si osserva, infatti, che
dall’articolo 3, comma 1, lett. e.5, del Testo Unico dell’Edilizia è possibile trarre una nozione di “opera precaria”, la quale è fondata non sulle caratteristiche dei materiali utilizzati né sulle modalità di ancoraggio delle stesse al suolo quanto piuttosto sulle esigenze (di natura stabile o temporanea) che esse siano dirette a soddisfare.
Invero, la norma qualifica come “interventi di nuova costruzione” (come tali assoggettati al previo rilascio del titolo abilitativo), “l’installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni che siano utilizzati come abitazioni , ambienti di lavoro oppure depositi, magazzini e simili, e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee…”.
Dunque,
la natura di opera “precaria” (non soggetta al titolo abilitativo) riposa non nelle caratteristiche costruttive ma piuttosto in un elemento di tipo funzionale, connesso al carattere dell’utilizzo della stessa.
Ciò posto,
trattandosi nella specie di strutture destinate ad una migliore vivibilità dello spazio esterno dell’unità abitativa (terrazzo), è indubitabile che le stesse siano state installate non in via occasionale, ma per soddisfare la suddetta esigenza, la quale non è certamente precaria.
In buona sostanza
le “pergotende” realizzate non si connotano per una temporaneità della loro utilizzazione, ma piuttosto per costituire un elemento di migliore fruizione dello spazio, stabile e duraturo.
, a giudizio del Collegio, risulta dirimente, ai fini della soluzione della presente controversia, la circostanza che le strutture siano ancorate ai muri perimetrali ed al suolo.
Invero,
l’ancoraggio si palesa comunque necessario, onde evitare che l’opera, soggetta all’incidenza degli agenti atmosferici, si traduca in un elemento di pericolo per la privata e pubblica incolumità.
Chiarito per tale via che i manufatti in questione non sono “precari”, è necessario però verificare se gli stessi, in relazione a consistenza, caratteristiche costruttive e funzione, costituiscano o meno un’opera edilizia soggetta al previo rilascio del titolo abilitativo.

Orbene, ai sensi del combinato disposto degli articoli 3 e 10 del dpr n. 380/2001, sono in primo luogo soggetti al rilascio del permesso di costruire gli “interventi di nuova costruzione”, categoria nella quale rientrano quelli che realizzano una “trasformazione edilizia e urbanistica del territorio”.
Ciò premesso,
ritiene la Sezione che la struttura in alluminio anodizzato destinata ad ospitare tende retrattili in materiale plastico non integri tali caratteristiche.
Va, invero,
considerato che l’opera principale non è la struttura in sé, ma la tenda, quale elemento di protezione dal sole e dagli agenti atmosferici, finalizzata ad una migliore fruizione dello spazio esterno dell’unità abitativa.
Considerata in tale contesto,
la struttura in alluminio anodizzato si qualifica in termini di mero elemento accessorio, necessario al sostegno e all’estensione della tenda.
Quest’ultima, poi, integrata alla struttura portante, non vale a configurare una “nuova costruzione”, atteso che essa è in materiale plastico e retrattile, onde non presenta caratteristiche tali da costituire un organismo edilizio rilevante, comportante trasformazione del territorio.
Tanto è escluso in primo luogo dalla circostanza che la copertura e la chiusura perimetrale che essa realizza non presentano elementi di fissità, stabilità e permanenza, in ragione del carattere retrattile della tenda (in proposito, cfr. anche la cit. circolare del Comune di Roma, 09.03.2012, n. 19137); onde,
in ragione della inesistenza di uno spazio chiuso stabilmente configurato, non può parlarsi di organismo edilizio connotantesi per la creazione di nuovo volume o superficie.
Ciò resta escluso, inoltre, in considerazione della tipologia dell’elemento di copertura e di chiusura, il quale è una tenda in materiale plastico, privo pertanto di quelle caratteristiche di consistenza e di rilevanza che possano connotarlo in termini di componenti edilizie di copertura o di tamponatura di una costruzione.
In tale situazione, dunque,
la struttura di alluminio anodizzato mantiene la connotazione di mero elemento di sostegno della tenda e non integra, dunque, la struttura portante di una costruzione, la quale, integrandosi con gli elementi di copertura e di chiusura, realizzi, così creando un nuovo organismo edilizio, una trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio.
Allo stesso modo, deve ritenersi che non sia integrata la fattispecie della ristrutturazione edilizia.
Invero, ai sensi dell’articolo 3, lettera d), del dpr n. 380/2001, tale tipologia di intervento edilizio richiede che trattasi di “interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere”, i quali “comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione, la modifica e l’inserimento di nuovi elementi e impianti”.
Orbene, la disposizione, così come declinata dal legislatore, richiede comunque che le opere realizzate abbiano consistenza e rilevanza edilizia, siano cioè tali da poter “trasformare l’organismo edilizio”, condividendo pertanto natura e consistenza degli elementi costitutivi di esso.
La “trasformazione” può, infatti, realizzarsi solo attraverso interventi che pongano in non cale la precedente identità dell’organismo edilizio, risultato che può realizzarsi solo quando questi abbiano una rilevanza edilizia (e, dunque, una suscettività di incidenza sul territorio) almeno pari o superiore agli elementi che costituiscono la preesistenza.
Tali caratteristiche risultano all’evidenza non sussistenti nella fattispecie della struttura in alluminio anodizzato atta ad ospitare una tenda retrattile, avuto riguardo alla consistenza di tale intervento ed alla circostanza che l’immobile sul quale essa è collocata è un fabbricato in muratura, sulla cui originaria identità e conformazione l’opera nuova non può certamente incidere.
Sulla base delle considerazioni sopra svolte deve, pertanto, ritenersi che
la struttura realizzata e sopra descritta sub 1) non abbisognasse del previo rilascio del permesso di costruire: giacché la tenda retrattile che essa è unicamente destinata a servire si risolve, in ultima analisi, in un mero elemento di arredo del terrazzo su cui insiste.
Di conseguenza, non può condividersi sul punto la pronuncia di rigetto del ricorso operata dal giudice di primo grado, dovendosi ritenere che i provvedimenti di sospensione dei lavori e di demolizione adottati dall’amministrazione con riferimento alla sua realizzazione siano illegittimi.
L’appello è, di conseguenza, per tale parte fondato.
A identiche conclusioni non può giungersi, invece, in riferimento alla struttura sopra descritta sub 2).
Essa, invero, è pur sempre una “struttura in alluminio anodizzato atta ad ospitare una tenda retrattile in materiale plastico”.
Che, nondimeno,
si connota diversamente per il fatto di essere “tamponata sui due lati liberi da lastre di vetro mobili a “pacchetto”, munite di supporti che manualmente scorrono in appositi binari e da vetro fisso (timpano) inseriti nelle strutture di alluminio anodizzato”.
Orbene, osserva la Sezione, conformemente ai principi in precedenza esposti, che
la presenza, quali elementi di chiusura, di lastre di vetro determina il venir meno del richiamato carattere di mera struttura di sostegno di tende retrattili.
La natura e la consistenza del materiale utilizzato (il vetro viene comunemente usato per la realizzazione di pareti esterne delle costruzioni) fa sì che la struttura di alluminio anodizzato si configuri, in questo caso, non più come mero elemento di supporto di una tenda, ma venga piuttosto a costituire la componente portante di un manufatto, che assume consistenza di vera e propria opera edilizia, connotandosi per la presenza di elementi di chiusura che, realizzati in vetro, costituiscono vere e proprie tamponature laterali.
Sicché il manufatto in questo caso costituisce “nuova costruzione”, risultando idoneo a determinare una trasformazione urbanistico ed edilizia del territorio.
Né in contrario riveste rilievo la circostanza che le suddette lastre di vetro siano installate “a pacchetto” e, dunque, apribili, considerandosi che la possibilità di apertura attribuisce a tale sistema la stessa portata e consistenza di una finestra o di un balcone, ma non modifica la natura del manufatto che, una volta chiuso, è vera e propria opera edilizia, come tale soggetta al rilascio del previo titolo abilitativo.
Va, peraltro, considerato, in relazione al fatto che la struttura di cui al citato punto 2) presenta comunque come copertura una tenda retrattile in materiale plastico e, dunque, potenzialmente (e parzialmente) i caratteri di un’opera non soggetta a titolo edilizio (per la parte in cui è mera struttura di sostegno di una tenda retrattile), che il corretto esercizio del potere sanzionatorio avrebbe imposto, nella sua funzione di ripristino della legalità violata e nel rispetto del principio del mezzo più mite, una reazione proporzionata all’entità dell’abuso e, dunque, necessaria e sufficiente a riportare il realizzato nell’ambito della conformità alla normativa urbanistica (ossia senza demolire ciò che legittimamente può realizzarsi, posto che utile per inutile non vitiatur).
L’ordine di demolizione avrebbe, di conseguenza, dovuto limitarsi alla sola rimozione delle strutture laterali in vetro in uno ai binari (inferiore e superiore) di scorrimento delle stesse, ma non anche dell’intera struttura.
Invero,
per effetto di tali rimozioni il manufatto, limitato al solo sostegno di tende in plastica retrattili, viene ricondotto a opera lecita e non abusiva, in quanto non richiedente, per tutte le considerazioni in precedenza rese, il preventivo titolo abilitativo.
Da quanto sopra discende che, per quanto riguarda il manufatto descritto come sub 2), l’illegittimità dei provvedimenti impugnati in primo grado deve essere esclusa limitatamente alla rimozione degli elementi di chiusura laterali in vetro in uno ai binari (inferiore e superiore) di scorrimento degli stessi.
Queste costituiscono, pertanto, le componenti dell’opera che dovranno essere rimosse in esecuzione della presente pronunzia.
Conclusivamente, ritiene la Sezione che l’appello sia fondato in parte e debba essere accolto nei sensi e nei limiti sopra precisati; che, per l’effetto, la sentenza del Tribunale debba essere riformata parzialmente e che dunque, in parziale accoglimento del ricorso di primo grado, i provvedimenti impugnati debbano essere integralmente annullati, relativamente alla struttura di cui sub n. 1 (in quanto unicamente destinata al sostegno d’un elemento di arredo consistente in una tenda retrattile); mentre, quanto alla struttura di cui sub n. 2, vanno annullati solo in parte, ossia restando eccettuata dalla caducazione la relativa parte in cui si dispone, per tale secondo manufatto, la rimozione delle tamponature laterali in vetro e dei binari (inferiore e superiore) di scorrimento di esse.
Limitatamente a tali componenti dell’opera, invero, l’appello deve essere respinto e la sentenza di rigetto di primo grado confermata, unitamente (in parte qua) all’ordine demolitorio impugnato in prime cure (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 27.04.2016 n. 1619 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La penale responsabilità in ordine ai reati di cui agli artt. 44, comma 1, lettera b), del dPR n. 380 del 2001, 64, 65, 71 e 72 del medesimo dPR ed ancora 93, 93 e 95 sempre del dPR n. 380 del 2001 concernono esclusivamente la disciplina penale di manufatti la cui tenuta statica sia assicurata tramite l'uso e l'applicazione di opere in cemento armato ovvero di elementi strutturali in acciaio o in altri metalli con funzione portante.
Esse appaiono, pertanto, eterogenee rispetto alla realizzazione di un manufatto (abusivo) -struttura portante realizzata con travi e pilastri di legno e pareti perimetrali costruite in muratura- che non ha comportato la utilizzazione né di cemento armato né di altri elementi strutturali in metallo.
Detto altrimenti, non è configurabile la violazione della disciplina delle opere in conglomerato cementizio armato in caso di struttura portante realizzata con travi e pilastri di legno e pareti perimetrali costruite in muratura, ove la stessa non comporti la utilizzazione né di cemento armato né di altri elementi strutturali in metallo.

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La Corte di appello di Caltanissetta, con sentenza del 27.05.2014, ha confermato la decisione con la quale il Tribunale di Gela aveva dichiarato la penale responsabilità di Pe.Sa. in ordine ai reati di cui agli artt. 44, comma 1, lettera b), del dPR n. 380 del 2001, 64, 65, 71 e 72 del medesimo dPR ed ancora 93, 93 e 95 sempre del dPR n. 380 del 2001, per avere egli realizzato, in assenza della prescritta concessione edilizia, su di un preesistente manufatto, una sopraelevazione della superficie di circa 30 mq con pilastri e travi in legno e con pareti perimetrali in muratura, per avere eseguito la predetta opera in assenza di un progetto esecutivo redatto da un tecnico abilitato, senza la direzione tecnica di un professionista abilitato e senza avere presentato la preventiva denunzia agli uffici competenti così violando, altresì, la normativa applicabile per le costruzioni in zona sismica; con la ricordata sentenza della Corte territoriale era stata confermata anche la condanna del Pellegrino alla pena di giustizia.
...
Va, viceversa, annullata la sentenza impugnata relativamente alla affermazione della penale responsabilità del Pellegrino in ordine ai reati a lui contestati al capo 2) della rubrica elevata nei suoi confronti.
Siffatta contestazione, invero, concerne la realizzazione da parte del prevenuto delle opere descritte sub 1) del capo di imputazione, in violazione degli artt. 64, 65, 71 e 72 del dPR n. 380 del 2001, in assenza di un progetto esecutivo redatto da tecnico abilitato, senza che la direzione dei relativi lavori sia stata assunta da tecnico a ciò abilitato ed in assenza della preventiva denunzia delle realizzande opere al Comune di Gela ovvero all'Ufficio provincia del Genio civile.
Le disposizioni delle quali è stata contestata la violazione, va ora considerato, concernono, tuttavia, esclusivamente la disciplina penale di manufatti la cui tenuta statica sia assicurata tramite l'uso e l'applicazione di opere in cemento armato ovvero di elementi strutturali in acciaio o in altri metalli con funzione portante (Corte di cassazione, Sezione III penale, 17.04.2014, n. 17022).
Esse appaiono, pertanto, eterogenee rispetto alla realizzazione da parte del Pe. di un manufatto che per avere, come puntualmente precisato nella descrizione del fatto contestato contenuta nel punto 1) del capo di imputazione, una struttura portante realizzata con travi e pilastri di legno e pareti perimetrali costruite in muratura, non ha comportato la utilizzazione né di cemento armato né di altri elementi strutturali in metallo.
La sentenza impugnata va, pertanto, annullata senza rinvio limitatamente alla condanna concernente la contestazione di cui al capo 2) della rubrica elevata a carico del Pe. perché il fatto non sussiste e la relativa condanna, quantificata dal giudice di prime cure, con la sentenza confermata dalla Corte territoriale nissena, in 10 giorni di arresto ed euro 500.00 di ammenda, va conseguentemente eliminata (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 26.04.2016 n. 17085).

EDILIZIA PRIVATANel calcolo del rispetto delle distanze, stabilite dagli strumenti urbanistici, deve tenersi conto di qualsiasi elemento sporgente e/o superficie aggettante dei fabbricati, non assumendo alcuna rilevanza che gli sporti siano inadatti all’incremento volumetrico o superficiario della costruzione o che si trovino solo su una parte della facciata, eccetto quelli esclusivamente ornamentali come i fregi e le decorazioni.
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Infatti, va disatteso il primo motivo di ricorso, atteso che secondo un condivisibile orientamento giurisprudenziale (cfr. per es. C.d.S. Sez. V n. 1267 del 13.03.2014; C.d.S. Sez. IV n. 5557 del 22.11.2013; C.d.S. Sez. IV n. 4968 del 02.09.2011; TAR Lecce Sez. III n. 1624 del 28.09.2012), nel calcolo del rispetto delle distanze, stabilite dagli strumenti urbanistici, deve tenersi conto di qualsiasi elemento sporgente e/o superficie aggettante dei fabbricati, non assumendo alcuna rilevanza che gli sporti siano inadatti all’incremento volumetrico o superficiario della costruzione o che si trovino solo su una parte della facciata, eccetto quelli esclusivamente ornamentali come i fregi e le decorazioni (TAR Basilicata, sentenza 23.04.2016 n. 421 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICIIn tema di danni determinati dall’esistenza di un cantiere stradale, qualora l’area di cantiere risulti completamente enucleata, delimitata ed affidata all’esclusiva custodia dell’appaltatore, con conseguente assoluto divieto su di essa del traffico veicolare e pedonale, dei danni subiti all’interno di questa area risponde esclusivamente l’appaltatore, che ne è l’unico custode.
Allorquando, invece, l’area su cui vengono eseguiti i lavori e insiste il cantiere risulti ancora adibita al traffico e, quindi, utilizzata a fini di circolazione, questa situazione denota la conservazione della custodia da parte dell’ente titolare della strada, sia pure insieme all’appaltatore.

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6.2. Il richiamo nella sentenza ad eventuali profili di responsabilità in materia antinfortunistica risulta, peraltro, ultroneo, e correlativamente non dirimenti eventuali carenze motivazionali sul punto, non essendo contestata alcuna colpa specifica per violazione di norme antinfortunistiche ed essendo l'evento da ascrivere, piuttosto, al rischio connesso alla circolazione stradale.
Il rispetto delle norme cautelari che regolano la sicurezza stradale non è, infatti, esigibile esclusivamente dagli utenti della strada alla guida di veicoli, dunque in fase di circolazione, ma anche da coloro che svolgano attività diverse, come la manutenzione stradale (Sez. 4, n. 23152 del 03/05/2012, Porcu, Rv. 252971), come si evince da quanto espressamente previsto dall'art. 21, comma 2, d.lgs. 30.04.1992, n. 285 (<Chiunque esegue lavori o deposita materiali sulle aree destinate alla circolazione o alla sosta di veicoli e di pedoni deve adottare gli accorgimenti necessari per la sicurezza e la fluidita' della circolazione e mantenerli in perfetta efficienza sia di giorno che di notte>) e dagli artt. 30-32 d.P.R. 16.12.1992, n. 495 a proposito delle barriere che delimitano i cantieri sulla strada.
7. Il tema centrale della questione impone peraltro di chiarire che,
allorché un incidente si verifichi in un cantiere stradale, si pone il problema di approfondire i rapporti e i limiti della responsabilità dell'Ente proprietario della strada (committente) e dell'appaltatore, sia in relazione agli obblighi che il codice della strada pone a loro carico, rispettivamente all'art. 14 per l'ente proprietario e all'art. 21 per chi esegue i lavori, sia in relazione al contratto tra gli stessi intervenuti e ad eventuali pattuizioni particolari convenute dalle parti.
Non vi è, infatti, incompatibilità tra area di cantiere e strada aperta al pubblico, atteso che vale al riguardo il principio ben articolato dalla giurisprudenza civile
(Sez. 3, n. 15882 del 25/06/2013, Rv. 626858; Sez. 3, n. 12811 del 23/07/2012, Rv. 623374), secondo cui in tema di danni determinati dall'esistenza di un cantiere stradale, qualora l'area di cantiere risulti completamente enucleata, delimitata ed affidata all'esclusiva custodia dell'appaltatore, con conseguente assoluto divieto su di essa del traffico veicolare e pedonale, dei danni subiti all'interno di questa area risponde esclusivamente l'appaltatore, che ne è l'unico custode.
Allorquando, invece, l'area su cui vengono eseguiti i lavori e insiste il cantiere risulti ancora adibita al traffico e, quindi, utilizzata a fini di circolazione, questa situazione denota la conservazione della custodia da parte dell'ente titolare della strada, sia pure insieme all'appaltatore.
7.1.
La posizione di garanzia derivante dalla proprietà della strada e dalla destinazione di essa al pubblico uso comporta, infatti, il dovere per l'Ente di far sì che quell'uso si svolga senza pericolo per gli utenti.
Posizione di garanzia, dunque, a tutela della collettività, direttamente derivante dalle norme del codice della strada (art. 14), così come quella, parallela, a carico dell'appaltatore, anch'essa riconducibile, come già si è rilevato, al codice della strada (art. 21) e pertanto a tutela proprio dell'incolumità dei terzi utenti della strada che possano subire le conseguenze di una situazione di pericolo non debitamente gestita (Sez. 4, n. 11453 del 20/12/2012, dep. 2013, Zambito Marsala, Rv. 255423).
Giova ricordare anche il principio affermato in altra pronuncia da questa Sezione, secondo il quale
il pubblico amministratore committente non perde, in conseguenza dell'appalto dei lavori di manutenzione e sorveglianza delle strade, l'obbligo di vigilanza la cui omissione è fonte di responsabilità qualora concorrano le circostanze della conoscenza del pericolo, dell'evitabilità dell'evento lesivo occorso a terzi e dell'omissione dell'intervento diretto all'eliminazione del rischi (Sez. 4, n. 37589 del 05/06/2007, Petroselli, Rv. 237772) (Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 22.04.2016 n. 17010).

TRIBUTITributi, sulle delibere fuori tempo Tar che vai sentenza che trovi. Il caso.
Nel mese di aprile si registrano due opposte decisioni sullo stesso argomento da parte di due Tar diversi. Tar che vai decisione che trovi.

Stesso ricorrente, stessa materia, stesse norme di riferimento, ma incredibilmente diverse le decisioni a cui sono giunti il TAR Calabria-Reggio Calabria con la sentenza 08.04.2016 n. 392 e il TAR Friuli Venezia Giulia, con la sentenza 22.04.2016 n. 148.
Stesso ricorrente: il ministero dell'economia e delle finanze che ha impugnato «i regolamenti sulle entrate tributarie per vizi di legittimità».
Stessa materia: l'approvazione delle deliberazioni comunali in materia di tributi locali adottate dopo il termine per l'approvazione del bilancio di previsione. Per il comune calabrese si trattava della delibera Tari, per quello friulano della delibera Iuc, Tari e Tasi.
Stesse norme di riferimento: l'art. 1, comma 169, della legge 27.12.2006 n. 296, il quale stabilisce che gli enti locali deliberano le tariffe e le aliquote relative ai tributi di loro competenza entro la data fissata da norme statali per la deliberazione del bilancio di previsione. E che, in caso di mancata approvazione entro il suddetto termine, le tariffe e le aliquote si intendono prorogate di anno in anno.
Purtroppo da anni gli enti locali rimangono «incagliati» nelle spire di queste disposizioni e una nutrita giurisprudenza si è ormai consolidata in materia, che ha enucleato una serie di principi divenuti ormai saldi, primo fra tutti la natura perentoria del termine, che, peraltro, «è desumibile dal dato testuale della disposizione» stessa come ha precisato il Consiglio di stato nelle sentenze n. 3808 del 17.07.2014, n. 4409 del 28.08.2014 e n. 1495 del 19.03.2015.
Anche la sentenza del Tar per la Calabria n. 392 del 2016 non si discosta da detta impostazione e anzi evidenzia che la norma in esame «contiene, peraltro, previsioni sanzionatorie, come l'inapplicabilità delle nuove tariffe e aliquote, ove approvate dopo il termine» di approvazione del bilancio di previsione. Da ciò i giudici calabresi arrivano ad annullare la delibera comunale approvata fuori termine.
Il Tar per il Friuli Venezia Giulia, invece, non ha neanche affrontato il merito del ricorso, ma lo ha dichiarato inammissibile, sostenendo, in maniera assolutamente singolare, che «non si vede quale utilità potrebbe ottenere il ministero ricorrente dall'annullamento delle citate delibere, se non un mero ripristino della legalità», come se il ripristino della legalità non fosse un principio oggettivamente degno di tutela.
In altri termini, secondo i giudici friulani, non è sufficiente la denuncia della «difformità dalla legge» delle delibere impugnate, per quanto concerne la tempistica della loro approvazione, ma viene richiesto al Mef di dimostrare un vero e proprio interesse ad agire, come avviene per qualsiasi soggetto che voglia agire in giudizio.
I giudici omettono, però, di considerare quanto stabilito dal Consiglio di stato che nella sentenza 3817 del 17.07.2014 ha messo in chiaro che «tale legittimazione prescinde dall'esistenza di una lesione di una situazione giuridica tutelabile in capo allo stesso dicastero, configurandosi come una legittimazione ex lege, esclusivamente in funzione e a tutela degli interessi pubblici la cui cura è affidata al ministero dalla stessa legge (cfr. Cons. stato, sez. 3, parere del 14.07.1998)».
Ci sono quindi buoni motivi per ipotizzare che la pronuncia del Tar Friuli resti come un'unica voce fuori dal coro.
È, infine, proprio un passo della sentenza del Tar per la Calabria che ci offre un'esplicitazione dell'interesse a ricorrere del Mef, laddove si afferma che l'esigenza di tutela delle situazioni giuridiche soggettive dei cittadini impone di circoscrivere il potere di determinazione delle tariffe e delle aliquote da parte del comune entro un margine di tempo ben definito, costituito dalla data di approvazione del bilancio di previsione, che costituisce un limite invalicabile alla discrezionalità dell'amministrazione (articolo ItaliaOggi del 29.04.2016).

APPALTIGara, revocare si può. Se per la p.a c'è risparmio economico.
Legittima la revoca di una gara di appalto pubblico se da essa deriva un risparmio economico, se si evita una carenza di copertura finanziaria e se vi potrebbe essere una mancata corrispondenza della procedura alle esigenze dell'interesse pubblico.

È quanto ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 21.04.2016 n. 1599 rispetto a una revoca deliberata da una giunta comunale il 21.06.2014, circa un anno dopo la deliberazione con cui si era deciso di avviare la proposta per l'affidamento in finanza di progetto del servizio di gestione della pubblica illuminazione su tutto il territorio comunale e circa quattro mesi dopo aver indetto una gara a procedura aperta per la scelta dell'affidatario in concessione.
La procedura era stata avviata prima delle elezioni della nuova amministrazione comunale svoltesi il 25 maggio e l'08.06.2014. La nuova amministrazione, appena insediatasi, aveva verificato che la procedura avviata avrebbe determinato un impegno di risorse finanziarie pari a circa mezzo milione per ogni anno (a tanto valeva il canone annuo da corrispondere per 18 anni).
Palese quindi l'effetto di irrigidire per lungo tempo il bilancio comunale, impedendo margini di manovra per gli esercizi futuri. L'amministrazione ha inoltre rilevato che la continua rapida evoluzione delle tecnologie per la produzione e la distribuzione di energia elettrica, in 18 anni avrebbero potuto determinare consistenti risparmi di bilancio.
Tali motivazioni sono state ritenute legittime dal consiglio di stato che le ha giudicate ragionevoli, non illogiche, né irrazionali e soprattutto fondate su non implausibili elementi di fatto, così che la scelta, rientrante nella discrezionalità propria di cui è titolare esclusiva la pubblica amministrazione, non può considerarsi illegittima.
I giudici hanno ricordato che la giurisprudenza ha giudicato legittima la revoca dell'aggiudicazione provvisoria di una gara di appalto motivata con riferimento al risparmio economico che deriverebbe dalla revoca stessa ovvero per carenza di copertura finanziaria e sopravvenuta mancata corrispondenza della procedura alle esigenze dell'interesse pubblico (articolo ItaliaOggi del 29.04.2016).
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MASSIMA
III. L’appello è infondato e deve essere respinto.
In punto di fatto deve sottolinearsi che la revoca è stata deliberata dalla giunta comunale di San Bonifacio con atto n. 1 del 21.06.2014, circa un anno dopo la deliberazione con cui si era deciso di avviare la proposta per l’affidamento in finanza di progetto del servizio di gestione della pubblica illuminazione su tutto il territorio comunale e circa quattro mesi dopo aver indetto una gara a procedura aperta per la scelta dell’affidatario in concessione, il tutto prima quindi delle elezioni della nuova amministrazione comunale svoltesi il 25 maggio e l’08.06.2014.
Proprio la nuova amministrazione, appena insediatasi, ha riscontrato l’impegno di risorse finanziarie derivante dalla procedura in parola, quantificabile in canone annuo pari a €. 500.000,00 eventualmente ribassati per un periodo di diciotto anni, limitabili a quindici, tale da irrigidire per lungo tempo il bilancio comunale ed impedendo margini di manovra per gli esercizi futuri: ciò ha indotto la predetta nuova valutazione ad una rigorosa valutazione di tutti i flussi di entrata e di spesa, alla luce delle contrazioni di risorse pubbliche per effetto della normativa statale più recente, da ultimo dalla L. 27.12.2013 n. 147 e dal decreto legge di 04.04.2014, n. 66, convertito nella L. 23.06.2014 n. 89.
Non può sottacersi che
l’evidenziazione della enorme spesa rispetto al calo dei finanziamenti è stata accostata dall’amministrazione nella stessa deliberazione di revoca anche alla continua rapida evoluzione delle tecnologie per la produzione e la distribuzione di energia elettrica, le quali nello spazio di 18 anni avrebbero potuto determinare consistenti risparmi di bilancio.
Tali motivazioni risultano ragionevoli, non illogiche, né irrazionali e soprattutto fondate su non implausibili elementi di fatto, così che la scelta di revocare la gara, che rientra nella discrezionalità propria di cui è titolare esclusiva la pubblica amministrazione, non può considerarsi illegittima.
In tal senso è sufficiente rammentare che,
secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, è legittima la revoca dell’aggiudicazione provvisoria di una gara di appalto motivata con riferimento al risparmio economico che deriverebbe dalla revoca stessa ovvero per carenza di copertura finanziaria e sopravvenuta mancata corrispondenza della procedura alle esigenze dell’interesse pubblico (tra le tante, Cons. Stato, sez. III, 29.07.2015, n. 3748; 26.09.2013, n. 4809; 06.05.2013, n. 2418).
Alla legittimità della revoca consegue l’infondatezza della domanda di risarcimento del danno.
Deve essere a questo punto esaminata la fondatezza della
domanda di risarcimento del danno da responsabilità precontrattuale, che è astrattamente ammissibile anche in presenza della legittimità della revoca (Cons. Stato, sez. VI, 01.02.2013, n. 633).
A tal fine
deve venire in considerazione un comportamento contrario ai canoni di buona fede e correttezza dell’amministrazione che, accortasi delle ragioni che consigliavano di procedere alla revoca della gara, non ha invece provveduto a tanto, ingenerando nella parte un ragionevole affidamento nella conclusione della gara e nella possibilità di aggiudicarsi l’appalto stesso.
Sennonché nel caso di specie tale situazione non è ravvisabile, giacché la revoca della gara è intervenuta prima della scadenza del termine per la presentazione della domanda di partecipazione alla gara, senza quindi che nessun affidamento si sia potuto ragionevolmente ingenerare nei concorrenti, quand’anche la comunicazione della revoca fosse a questi ultimi pervenuta dopo la scadenza del termine per la presentazione delle offerte e dopo la effettiva presentazione di queste ultime.
Al riguardo può ancora richiamarsi la pacifica giurisprudenza del Consiglio di Stato e delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, per la quale
la responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione è connessa alla violazione delle regole di condotta tipiche della formazione del contratto e quindi non può che riguardare fatti svoltisi in tale fase; perciò la responsabilità precontrattuale non è configurabile anteriormente alla scelta del contraente, vale a dire della sua individuazione, allorché gli aspiranti alla posizione di contraenti sono solo partecipanti ad una gara e possono vantare un interesse legittimo al corretto esercizio dei poteri della pubblica amministrazione (Cons. Stato, V, 21.08.2014 n. 4272), corretto esercizio di cui non può dubitarsi nel vaso di specie, visti i tempi seguiti dall’Amministrazione comunale per l’adozione della revoca in questione e la plasubilità della motivazione.
E’ appena il caso di aggiungere che non essendosi prodotto alcun effetto durevole vantaggioso in favore dell’appellante in ragione dell’atto legittimamente revocato, non sussistono neppure i presupposti per il riconoscimento dell’indennizzo ex art. 21-quinqquies della l. n. 241 del 1990.
IV, Per le suesposte considerazioni l’appello deve essere dunque respinto.

EDILIZIA PRIVATAIl carattere permanente degli abusi edilizi comporta che il decorso del tempo non spieghi alcuna efficacia sanante nei confronti degli abusi stessi, con la conseguenza che in tali circostanze non può formarsi alcuna fattispecie di legittimo affidamento in capo al soggetto che ha realizzato le opere abusive.
Da quanto precede deriva, quindi, che -non potendosi formare in capo al ricorrente alcun legittimo affidamento sulla sanabilità delle opere de quibus- il decorso di un lungo lasso di tempo per l'adozione dei contestati provvedimenti non risulta una circostanza adeguata al fine di inficiare la loro legittimità, con la conseguenza che la censura in esame risulta priva di pregio.

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10. Con l'ottavo motivo di gravame il ricorrente ha dedotto l'illegittimità del provvedimento impugnato per violazione e falsa applicazione dell'art. 3 della legge n. 241 del 1990, sotto altro profilo, nonché violazione del principio dell'affidamento del privato cittadino.
Secondo il ricorrente, infatti, il provvedimento de quo sarebbe stato adottato dal Comune a distanza di oltre sei anni dalla presentazione dell'istanza dell’08.06.2007, prot. n. 10058, concernente il permesso di costruire in sanatoria: operando in tal modo, quindi, l'Amministrazione comunale avrebbe violato l'affidamento che si sarebbe ingenerato nel ricorrente in ragione del decorso di un lungo lasso di tempo dalla presentazione della succitata istanza.
Anche detta censura non può essere condivisa.
Rileva, infatti, la Sezione che, in base alla consolidata giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, “il carattere permanente degli abusi edilizi comporta che il decorso del tempo non spieghi alcuna efficacia sanante nei confronti degli abusi stessi...” (Cons. di Stato, Sez. VI, 18.09.2013, n. 4651), con la conseguenza che in tali circostanze non può formarsi alcuna fattispecie di legittimo affidamento in capo al soggetto che ha realizzato le opere abusive (Cons. di Stato, Sez. VI, 20.06.2013, n. 3667): da quanto precede deriva, quindi, che -non potendosi formare in capo al ricorrente alcun legittimo affidamento sulla sanabilità delle opere de quibus- il decorso di un lungo lasso di tempo per l'adozione dei contestati provvedimenti non risulta una circostanza adeguata al fine di inficiare la loro legittimità, con la conseguenza che la censura in esame risulta priva di pregio (Consiglio di Stato, Sez. II, parere 21.04.2016 n. 962 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Abuso edilizio - Criteri per l'identificazione del committente dei lavori - Assenza di titoli formali - Disponibilità del bene.
In tema di violazioni edilizie costituenti reato, il committente deve identificarsi in colui che ha la materiale disponibilità del bene oggetto dell’intervento abusivo, anche senza esserne il proprietario o senza avere con lo stesso un rapporto giuridicamente qualificato.
In altri termini, la paternità, esclusiva o in concorso con altri, dell’opera ben può essere attribuita anche a colui che, pur in assenza di titoli formali astrattamente legittimanti un potere decisionale, abbia, anche solo di fatto, la disponibilità del bene.
Sicché, se con riguardo alla posizione di chi ricopra una veste già di per sé implicante la disponibilità formale del bene, la presunzione logica in tal modo derivante circa l’attribuibilità al medesimo dei lavori comporta, in capo all’accusa, un onere probatorio di minore portata perché in qualche modo coincidente con tale dato formale, con riguardo invece a chi tale qualifica formale non abbia, è necessario che sia fornita la prova degli elementi fattuali univocamente indicativi, in contrasto con l’apparente formale estraneità del soggetto, della disponibilità di fatto del bene coinvolto.
Ed infatti, sia pure con riferimento alla situazione del coniuge mero comproprietario e non committente, si è affermato che la responsabilità per l’abuso edilizio può essere desunta da elementi oggettivi di natura indiziaria della compartecipazione, anche morale, alla realizzazione del manufatto, desumibili dalla presentazione della domanda di condono edilizio, dalla piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo, dall’interesse specifico ad edificare la nuova costruzione, dai rapporti di parentela o affinità tra terzo e proprietario, dalla presenza di quest’ultimo “in loco” e dallo svolgimento di attività di vigilanza nell’esecuzione dei lavori o dal regime patrimoniale dei coniugi.

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Questa Corte ha in più occasioni affermato che in tema di violazioni edilizie costituenti reato, il committente deve identificarsi in colui che ha la materiale disponibilità del bene oggetto dell'intervento abusivo, anche senza esserne il proprietario o senza avere con lo stesso un rapporto giuridicamente qualificato (Sez. 3, n. 43608 del 15/09/2015, Rosati, Rv. 265159); in altri termini, la paternità, esclusiva o in concorso con altri, dell'opera ben può essere attribuita anche a colui che, pur in assenza di titoli formali astrattamente legittimanti un potere decisionale, abbia, anche solo di fatto, la disponibilità del bene.
Sicché, se con riguardo alla posizione di chi ricopra una veste già di per sé implicante la disponibilità formale del bene, la presunzione logica in tal modo derivante circa l'attribuibilità al medesimo dei lavori comporta, in capo all'accusa, un onere probatorio di minore portata perché in qualche modo coincidente con tale dato formale, con riguardo invece a chi tale qualifica formale non abbia, è necessario che sia fornita la prova degli elementi fattuali univocamente indicativi, in contrasto con l'apparente formale estraneità del soggetto, della disponibilità di fatto del bene coinvolto (nella fattispecie, del fondo sul quale i manufatti sono stati edificati).
Ed infatti, sia pure con riferimento alla situazione del coniuge mero comproprietario e non committente, si è affermato che la responsabilità per l'abuso edilizio può essere desunta da elementi oggettivi di natura indiziaria della compartecipazione, anche morale, alla realizzazione del manufatto, desumibili dalla presentazione della domanda di condono edilizio, dalla piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo, dall'interesse specifico ad edificare la nuova costruzione, dai rapporti di parentela o affinità tra terzo e proprietario, dalla presenza di quest'ultimo "in loco" e dallo svolgimento di attività di vigilanza nell'esecuzione dei lavori o dal regime patrimoniale dei coniugi (tra le altre, Sez. 3, n. 52040 del 11/11/2014, Langella e altro, Rv. 261522) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.04.2016 n. 16163).

ENTI LOCALI - VARIDivieto di sosta. Anche senza l'ordinanza multa valida.
La mancata indicazione sul retro del segnale di divieto di sosta del numero dell'ordinanza comunale non invalida la multa accertata dai vigili urbani.

Lo ha evidenziato la Corte di Cassazione, Sez. II, civ., con la sentenza 19.04.2016 n. 7709.
Un automobilista si è rivolto prima al prefetto poi al tribunale e infine in Cassazione evidenziando la mancata apposizione sul retro del segnale indicante divieto di sosta del numero dell'ordinanza. Ma sempre senza successo. A parere dei giudici di Piazza Cavour, infatti, l'eventuale omissione sul retro dei segnali stradali delle indicazioni previste dalla normativa configura una mera irregolarità.
In particolare l'omessa indicazione degli estremi dell'ordinanza comunale sul retro del cartello non determina l'illegittimità del segnale e non esime l'automobilista dal rispetto delle indicazioni fornite (articolo ItaliaOggi del 26.04.2016).

INCARICHI PROFESSIONALI: L'obbligo di diligenza, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 1176, secondo comma, e 2236 cod. civ., impone all'avvocato di assolvere -sia all'atto del conferimento del mandato, sia nel corso dello svolgimento del rapporto- anche ai doveri di sollecitazione, dissuasione ed informazione del cliente, essendo il professionista tenuto a rappresentare a quest'ultimo tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque insorgenti, ostative al raggiungimento del risultato, o comunque produttive del rischio di effetti dannosi; di richiedergli gli elementi necessari o utili in suo possesso; di sconsigliarlo dall'intraprendere o proseguire un giudizio dall'esito probabilmente sfavorevole.
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1. - Il ricorso è infondato.
1.1. - Con il primo motivo è dedotta violazione degli artt. 1176, 1218, 1375, 2229 e 2236 cod. civ., in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per avere la Corte d'appello ritenuto che -a fronte di uno specifico dovere informazione nei confronti del proprio cliente in ordine all'opportunità di chiamare in causa il terzo- non era fonte di responsabilità professionale il comportamento omissivo dell'avvocato, che non aveva sollecitato il cliente dopo che questi aveva rifiutato l'ipotesi di effettuare la chiamata in causa del terzo.
1.2. - La doglianza è infondata.
1.2.1. - La Corte d'appello ha osservato che dalle prove raccolte (prova testimoniale diretta, testi Ro. e Ve.) emergeva con certezza che l'amministratore della Sh.Te. era stato informato dall'avvocato Pa., codifensore insieme all'avvocato Mi., dell'opportunità di chiamare in causa -oltre all'istituto incaricato della sorveglianza del capannone nel quale era stato perpetrato il furto- anche la società che aveva installato l'impianto di allarme, ed inoltre che, all'esito dell'informazione, la Sh.Te. aveva scelto di non dare seguito alla predetta chiamata.
Tale valutazione di opportunità, secondo la Corte d'appello, era rimessa al cliente e non era sindacabile dal difensore.
1.2.2. - La motivazione resa dalla Corte territoriale risulta esente da censura.
Non può ritenersi che il difensore avesse il dovere di insistere per ottenere il consenso della parte alla chiamata in causa del terzo:
la diligenza cui era tenuto il difensore nell'esercizio del suo mandato era stata assolta nel momento in cui il cliente era stato informato sul punto (ex plurimis, Cass., sez. 3^, sentenza n. 24544 del 2009).
Vero che, secondo la giurisprudenza di questa Corte,
l'obbligo di diligenza, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 1176, secondo comma, e 2236 cod. civ., impone all'avvocato di assolvere -sia all'atto del conferimento del mandato, sia nel corso dello svolgimento del rapporto- anche ai doveri di sollecitazione, dissuasione ed informazione del cliente, essendo il professionista tenuto a rappresentare a quest'ultimo tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque insorgenti, ostative al raggiungimento del risultato, o comunque produttive del rischio di effetti dannosi; di richiedergli gli elementi necessari o utili in suo possesso; di sconsigliarlo dall'intraprendere o proseguire un giudizio dall'esito probabilmente sfavorevole.
E' vero, di conseguenza, che
incombe sul professionista l'onere di fornire la prova della condotta mantenuta, e che al riguardo non è sufficiente il rilascio da parte del cliente delle procure necessarie all'esercizio dello ius postulandi, trattandosi di elemento che non è idoneo a dimostrare l'assolvimento del dovere di informazione in ordine a tutte le circostanze indispensabili per l'assunzione da parte del cliente di una decisione pienamente consapevole sull'opportunità o meno di iniziare un processo o intervenire in giudizio (Cass., sez. 2^, sentenza n. 14597 del 2004).
Ciò detto, è altresì vero che
l'attività di persuasione del cliente al compimento o non di un atto, ulteriore rispetto all'assolvimento dell'obbligo informativo, è concretamente inesigibile, oltre che contrastante con il principio secondo cui l'obbligazione informativa dell'avvocato è un'obbligazione di mezzi e non di risultato (ex plurimis, Cass., sez. 3^, sentenza n. 10289 del 2015) (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 19.04.2016 n. 7708).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: Abuso edilizio e dolo.
Premesso che il dolo caratterizzante il reato di abuso di ufficio è quello "intenzionale", va rammentato che la prova dello stesso deve essere ricavata da elementi ulteriori rispetto al comportamento "non iure" osservato dall'agente, che evidenzino la effettiva "ratio" ispiratrice del comportamento dell'agente, giacché la condotta illecita deve essere posta in essere al preciso scopo di perseguire, in via immediata, un danno ingiusto ad altri o un vantaggio patrimoniale ingiusto per sé o per altri.
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2. Con un secondo motivo lamenta l'illogicità della motivazione della sentenza con riferimento all'eccepita mancanza del dolo intenzionale; segnatamente la sentenza non ha fatto sul punto alcun riferimento a quanto sollevato con l'atto di appello.
Aggiunge come da un lato la attività del tecnico comunale al momento dell'approvazione del progetto sia meramente cartolare e dall'altro la sentenza abbia trascurato di considerare le conclusioni della sentenza del Tar che ha ritenuto assente ogni violazione della normativa urbanistica da parte dell'imputato. Non è stata raggiunta alcuna prova circa le pretese scorrette modalità delle verifiche condotte dall'imputato.
Anche l'affermazione dei benefici economici ricavati dall'impresa edilizia destinataria del provvedimento sarebbe erronea posto che anzi è stata applicata la sanzione prevista dall'art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001.
...
5. E' invece fondato il secondo motivo:
premesso che il dolo caratterizzante il reato di abuso di ufficio è quello "intenzionale", va rammentato che la prova dello stesso deve essere ricavata da elementi ulteriori rispetto al comportamento "non iure" osservato dall'agente, che evidenzino la effettiva "ratio" ispiratrice del comportamento dell'agente (Sez. 2, n. 23019 del 05/05/2015, Adamo, Rv. 264280), giacché la condotta illecita deve essere posta in essere al preciso scopo di perseguire, in via immediata, un danno ingiusto ad altri o un vantaggio patrimoniale ingiusto per sé o per altri (Sez. 3, n. 10810 del 17/01/2014, Altieri ed altri, Rv. 258893).
La sentenza si è sul punto limitata a richiamare la "tutt'altro che trascurabile entità delle violazioni commesse" e "i rilevanti benefici economici procurati all'impresa edilizia", tra i quali quelli relativi agli oneri di urbanizzazione, senza chiarire perché tali aspetti, lungi dall'essere compatibili con un dolo anche solo generico, dovrebbero essere univocamente indicativi dello scopo di favorire l'impresa costruttrice, sui cui eventuali legami o rapporti con l'imputato nulla è dato sapere.
La sentenza andrebbe dunque annullata con rinvio per nuova motivazione sul punto; sennonché la prescrizione del reato, nelle more intervenuta per decorso del termine scaduto in data 13/09/2014 (anche a volere, come contestato dal ricorrente, considerare la data di consumazione del 13/03/2007 indicata in imputazione) osta all'annullamento posto che il conseguente rinvio all'esame del giudice di merito è incompatibile con l'obbligo di immediata declaratoria di proscioglimento stabilito dall'art. 129 c.p.p. (da ultimo, Sez. 3, n. 23260 del 29/04/2015, Gori, Rv. 263668); sicché la sentenza impugnata deve essere, da un lato, annullata senza rinvio per essere il reato (unico residuato già all'esito del giudizio di primo grado) estinto appunto per prescrizione e, dall'altro, quanto alle statuizioni civili adottate (nella specie la condanna dell'imputato, confermata in appello, al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile), annullata con rinvio ai fini civili al giudice civile competente per valore in grado d'appello (da ultimo, Sez. 5, n. 594 del 16/11/2011, Perrone, Rv. 252665; Sez. 5, n. 15015 del 23/02/2012, P.G. e p.c. in proc. Genovese, Rv. 252487) (tratto da www.lexambiente.it - Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 18.04.2016 n. 15895).

EDILIZIA PRIVATA: Rapporti tra autorizzazione paesaggistica e permesso di costruire.
L'autorizzazione paesistica, essendo finalizzata alla salvaguardia del paesaggio quale bene costituzionalmente protetto tanto sotto l'aspetto estetico e culturale quanto sotto il profilo di risorsa economica, è un provvedimento distinto ed autonomo rispetto ai provvedimenti autorizzatori in materia urbanistica, i quali sono invece volti ad assicurare la corretta gestione del territorio, sotto il profilo dell'uso e della trasformazione programmata di esso in una visione unitaria e complessiva, con la conseguenza che, stante la reciproca autonomia dei due provvedimenti ad ogni effetto, ivi compreso quello sanzionatorio, il reato paesaggistico è integrato tutte le volte in cui manchi la relativa autorizzazione dell'autorità preposta alla tutela dell'interesse paesaggistico, a nulla rilevando che la stessa autorità, se preposta anche alla tutela degli interessi urbanistici, abbia compiuto, in ragione della pluralità degli interessi presidiati dalle rispettive norme, una autonoma valutazione in quest'ultimo senso e non anche, come necessario, anche ai fini paesaggistici.
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3. Anche il secondo motivo è manifestamente infondato, essendo risultato incontroverso che il ricorrente realizzò il fabbricato senza aver ottenuto alcun titolo abilitativo.
In particolare, per quanto concerne il reato paesaggistico, la costruzione fu realizzata senza che fosse stata mai rilasciata la necessaria autorizzazione da parte del competente ufficio della Regione sarda, cosicché è stato correttamente ritenuto del tutto irrilevante il fatto che l'imputato avesse confidato nella definizione delle procedure concernenti l'approvazione del piano di lottizzazione, cui era subordinato il rilascio del permesso a costruire e dunque la legittima edificazione dei singoli edifici, posto che le disposizioni in materia urbanistica e paesaggistica prevedono tassativamente che le opere edilizie possano essere realizzate soltanto dopo il rilascio dei preventivi provvedimenti abilitativi da parte delle amministrazioni competenti, laddove invece il ricorrente ha comunque dato corso alle opere in assenza della prescritta autorizzazione paesistica.
Sono pertanto del tutto irrilevanti le obiezioni formulate dal ricorrente, anche sotto il profilo del difetto di motivazione, avendo la Corte d'appello fatto buon governo del principio affermato dalla giurisprudenza di legittimità secondo il quale l'autorizzazione paesistica, essendo finalizzata alla salvaguardia del paesaggio quale bene costituzionalmente protetto tanto sotto l'aspetto estetico e culturale quanto sotto il profilo di risorsa economica, è un provvedimento distinto ed autonomo rispetto ai provvedimenti autorizzatori in materia urbanistica, i quali sono invece volti ad assicurare la corretta gestione del territorio, sotto il profilo dell'uso e della trasformazione programmata di esso in una visione unitaria e complessiva, con la conseguenza che, stante la reciproca autonomia dei due provvedimenti ad ogni effetto, ivi compreso quello sanzionatorio, il reato paesaggistico è integrato tutte le volte in cui manchi, come nella specie, la relativa autorizzazione dell'autorità preposta alla tutela dell'interesse paesaggistico, a nulla rilevando che la stessa autorità, se preposta anche alla tutela degli interessi urbanistici, abbia compiuto, in ragione della pluralità degli interessi presidiati dalle rispettive norme, una autonoma valutazione in quest'ultimo senso e non anche, come necessario, anche ai fini paesaggistici (Sez. 3, n. 23230 del 22/04/2004, Verdelocco, Rv. 229437).
Deriva da ciò anche la legittimità dei provvedimenti sanzionatori di tipo amministrativo di rimessione in pristino dello stato dei luoghi disposti dal giudice penale per la violazione della normativa paesaggistica (tratta da www.lexambiente.it - Corte di Cassazione, sez. III penale, sentenza 14.04.2016 n. 15466).

URBANISTICA: Lottizzazione e autorizzazione a lottizzare postuma.
L'eventuale autorizzazione a lottizzare, concessa "in sanatoria", non estingue il reato di lottizzazione abusiva, non essendo espressamente prevista dalla legge come causa estintiva di tale reato.
Qualora essa intervenga il giudice non può, tuttavia, disporre la confisca, perché l'autorità amministrativa competente, riconoscendo ex post la conformità della lottizzazione agli strumenti urbanistici generali vigenti sul territorio, ha inteso evidentemente lasciare il terreno lottizzato alla disponibilità dei proprietari, rinunciando implicitamente ad acquisirlo al patrimonio indisponibile del Comune.
Allo stesso modo la successiva approvazione di un piano di recupero urbanistico non può configurare un'ipotesi di sanatoria della lottizzazione.

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1. Per quanto riguarda il primo motivo, mediante il quale è stata denunciata violazione di legge in relazione agli artt. 36, 44 e 45 d.P.R. 380/2001 e 2 l. 241/1990, per l'omessa sospensione del processo nonostante l'approvazione da parte del Comune di Genova di un aggiornamento del Piano Urbanistico Comunale e di una convenzione urbanistica con la società proprietaria del fabbricato, in attuazione della quale è in corso il rilascio del titolo di legittimazione delle opere che ne consentirebbe il mantenimento (rilasciato successivamente al deposito del ricorso e di cui è stato dato atto con i motivi aggiunti), giova ricordare che
l'eventuale autorizzazione a lottizzare, concessa "in sanatoria", non estingue il reato di lottizzazione abusiva, non essendo espressamente prevista dalla legge come causa estintiva di tale reato (Sez. 3, n. 23154 del 18/05/2006, Scalici, Rv. 234476; conf. Sez. 3, n. 4373 del 13/12/2013, Franco, Rv. 258921; Sez. 3, n. 43591 del 18/02/2015, Di Stefano, Rv. 265153).
Qualora essa intervenga (ma ciò è oggetto degli ulteriori rilievi formulati dai ricorrenti con il quarto motivo e con i motivi aggiunti a proposito della confisca) il giudice non può, tuttavia, disporre la confisca, perché l'autorità amministrativa competente, riconoscendo ex post la conformità della lottizzazione agli strumenti urbanistici generali vigenti sul territorio, ha inteso evidentemente lasciare il terreno lottizzato alla disponibilità dei proprietari, rinunciando implicitamente ad acquisirlo al patrimonio indisponibile del Comune.
Allo stesso modo -secondo la giurisprudenza di questa Corte- la successiva approvazione di un piano di recupero urbanistico non può configurare un'ipotesi di sanatoria della lottizzazione (vedi Cass., Sez. 3, 05.12.2001, Venuti).
Ne consegue, sotto il profilo della incidenza sulla sussistenza della lottizzazione abusiva, l'irrilevanza dell'aggiornamento del Piano Urbanistico Comunale e della stipula della convenzione urbanistica tra il Comune e la proprietaria dell'edificio, inidonei, per le ragioni anzidette, anche nella ipotesi di rilascio di valido e legittimo titolo di legittimazione delle opere, ad estinguere il reato di lottizzazione abusiva, con la conseguente insussistenza di ragioni di sorta per disporre la sospensione del processo in attesa del rilascio di permesso di costruire in sanatoria.
2. Soccorrono le medesime considerazioni in ordine al secondo motivo di ricorso, mediante il quale è stata denunciata violazione di legge in relazione all'art. 30 d.P.R. 380/2001, per l'omessa considerazione da parte della Corte d'appello del complesso iter amministrativo relativo alla pianificazione urbanistica dell'area nella quale si trova il fabbricato oggetto della lottizzazione abusiva contestata ai ricorrenti.
Costoro, infatti, in considerazione della innovazione dello strumento urbanistico direttivo nell'anno 2000, con la esclusione della destinazione direzionale dell'area nella quale si trova il fabbricato oggetto dell'intervento edilizio e la previsione quale destinazione caratterizzante di tale area di quella residenziale (con la conseguente richiesta da parte della società proprietaria del fabbricato di un nuovo titolo autorizzativo per conformarsi a tale destinazione, in ordine alla quale il Comune di Genova non si era determinato nonostante il decorso del termine di cui all'art. 2 l. 241/1990), hanno prospettato l'insussistenza della contestata lottizzazione abusiva, per essere stato realizzato il manufatto solamente nella sua struttura essenziale e con la sola prefigurazione in vista del suo adeguamento, anche sotto il profilo concessorio, alle nuove destinazioni residenziali previste dal Piano Urbanistico Comunale vigente.
Risulta, tuttavia, assorbente, il dato, già evidenziato, della radicale difformità tra la concessione edilizia rilasciata alla proprietaria, la S.r.l. Ba. San Giuliano, dal Comune di Genova, n. 550 del 03/12/1991, che prevedeva la realizzazione di un fabbricato a destinazione direzionale di quattro piani (compreso il piano autorimessa seminterrato) su un'area della superficie di 926 metri quadrati, con altezza di metri 15,15 e volume totale di metri cubi 8492, e quanto effettivamente realizzato dagli imputati, e cioè una modifica di destinazione d'uso del fabbricato e varianti in corso d'opera mai assentite (tra cui: la realizzazione del fabbricato ad una quota d'imposta inferiore di circa m. 2,60; il frazionamento dell'edificio in undici unità immobiliari; il rimodellamento della sagoma dell'edificio con riduzione della superficie lorda da mq. 2392 a mq. 1927 e la contestuale variazione dei prospetti; la realizzazione di una rampa elicoidale per l'accesso alla rimessa al piano seminterrato; la diversa realizzazione delle sistemazioni esterne circostanti il fabbricato con inserimento di due piscine; la realizzazione di un locale fuori terra in calcestruzzo armato della superficie di 10 mq.; la mancata realizzazione del parcheggio pubblico previsto quale opera in convenzione; la trasformazione della pista provvisionale di accesso al cantiere in viale carrabile posto a servizio del fabbricato): una così rilevante discrepanza determina la verificazione di una lottizzazione abusiva, per la totale difformità di quanto realizzato rispetto al piano di lottizzazione,  irrilevante rimanendo, alla stregua dei principi ricordati, l'eventuale autorizzazione a lottizzare emessa successivamente, così come l'approvazione di un nuovo piano urbanistico-comunale, cui le opere abusive sarebbero astrattamente conformi, giacché ciò non determina comunque una sanatoria della lottizzazione abusiva o l'estinzione del reato, che non sono contemplate dall'art. 30 d.P.R. 380/2001.
Manifestamente infondato risulta poi il profilo della censura fondato sul rilievo che non sarebbe qualificabile come lottizzazione abusiva l'intervento edilizio realizzato dagli imputati, in quanto avente ad oggetto un fabbricato e non un terreno, giacché ricorre il reato di lottizzazione abusiva fisica o materiale quando l'intervento, per le sue dimensioni o caratteristiche, sia idoneo a pregiudicare la riserva pubblica di programmazione territoriale (Sez. 3, n. 9446 del 21/01/2010, Lorefice, Rv. 246340), consista esso nella realizzazione di un nuovo fabbricato o nella suddivisione in lotti di un terreno in vista della realizzazione di nuove costruzioni, e tale idoneità a pregiudicare la programmazione territoriale di quanto realizzato dagli imputati non è in alcun modo stato oggetto di censura.
3. Per le medesime considerazioni risulta manifestamente infondato anche il terzo motivo di ricorso, mediante il quale è stata prospettata errata applicazione degli artt. 30 e 44 d.P.R. 380/2001, per la ritenuta sussistenza dell'elemento soggettivo del reato di lottizzazione abusiva in capo a tutti gli imputati nonostante l'incertezza della situazione in ordine alla validità del piano di lottizzazione a causa della sua sopravvenuta incompatibilità con gli strumenti urbanistici.
Va ricordato che
è stato chiarito, quanto all'elemento soggettivo del reato di lottizzazione abusiva, che "non è ravvisabile alcuna eccezione al principio generale stabilito per le contravvenzioni dall'art. 42, 4° comma, cod. pen., restando ovviamente esclusi i casi di errore scusabile sulle norme integratici del precetto penale e quelli in cui possa trovare applicazione l'art. 5 cod. pen. secondo l'interpretazione fornita dalla pronuncia n. 364/1988 della Corte Costituzionale. Conseguentemente va ammessa anche la cooperazione colposa nella realizzazione del reato e diviene irrilevante l'eventuale eterogeneità dell'elemento soggettivo accertato in capo ai diversi concorrenti" (così Sez. 3, n. 36940 del 11/05/2005, Stiffi, Rv. 232189; conf. Sez. 3, n. 38799 del 16/09/2015, De Paola, Rv. 264718).
Ora, nella vicenda in esame, i ricorrenti hanno intrapreso sulla base del piano di lottizzazione e della concessione edilizia del 1991, che contemplavano la realizzazione di un fabbricato indiviso con destinazione direzionale articolato su quattro piani, una ristrutturazione con mutamento della destinazione, realizzando anche tutte le anzidette varianti in corso d'opera mai assentite, in assenza di risposta da parte del Comune di Genova circa la variante riduttiva della suddetta concessione edilizia ed in difformità dall'originario piano di lottizzazione e dalla concessione edilizia ottenuta: tutto ciò comporta l'irrilevanza, sotto il profilo della consapevolezza di realizzare un'opera del tutto difforme dal piano di lottizzazione e dalla concessione, dei sopravvenuti mutamenti degli strumenti urbanistici e delle altre vicende amministrative e giurisdizionali, soprattutto in considerazione della importanza dell'opera e della veste qualificata dei ricorrenti (quale evidenziata dalla Corte d'appello), che non potevano non rappresentarsi (sia pure nel quadro di incertezza derivante dalle pronunce dei giudici amministrativi, dalla imposizione del vincolo storico ambientale e del nuovo Piano Urbanistico Comunale) di dare corso alla realizzazione di un'opera illegittima, stante la persistente palese e rilevante difformità della stessa rispetto al piano di lottizzazione ed alla concessione, in ordine ai quali non erano intervenute modifiche di sorta da parte degli organi comunali.
4. Per quanto riguarda, infine, le censure relative al mantenimento della confisca, nonostante l'approvazione della variante del Piano Urbanistico Comunale e la stipula di convenzione attuativa e, da ultimo, il rilascio (in data 24.02.2015) di permesso di costruire al fine di ripristinare l'iniziale destinazione d'uso del fabbricato con finalità direzionale, oggetto del quarto motivo e dei motivi aggiunti, va ribadito che
il provvedimento di confisca delle aree impartito con la sentenza di condanna per i reati di lottizzazione abusiva e di costruzione abusiva su area illecitamente lottizzata non è automaticamente caducato per effetto del successivo rilascio di permesso a costruire in sanatoria, in quanto il giudice dell'esecuzione penale ha il dovere di controllare la legittimità di tale provvedimento e, in particolare, la sussistenza dei requisiti per il rilascio del titolo abilitativo (così Sez. 3, n. 12350 del 02/10/2013, Pandiani, Rv. 259890).
E' solo per effetto di un legittimo rilascio della concessione in sanatoria per condono che è possibile rivisitare la questione riguardante la confisca dei manufatti abusivamente realizzati a seguito di lottizzazione abusiva e dunque confiscati, in quanto il titolo abilitativo sopravvenuto legittima soltanto l'opera edilizia come tale, ma non si estende alla possibilità di rivedere la questione riguardante la lottizzazione, perché la concessione non ha una funzione strumentale urbanistica di pianificazione dell'uso del territorio (Sez. 3, 21.04.1989, n. 6160, Greco, Rv. 181117), e dunque, ferma restando la sussistenza della lottizzazione abusiva, per poter escludere la confisca occorrerà verificare la legittimità del permesso di costruire ed anche la sua compatibilità e coerenza con gli strumenti di pianificazione del territorio.
Ora, nella specie, occorrerà verificare, in sede esecutiva, essendo una tale indagine preclusa in questa sede, la legittimità del rilascio del suddetto permesso di costruire (avente lo scopo di consentire il ripristino della iniziale destinazione d'uso direzionale del fabbricato), tenendo conto dei mutamenti frattanto apportati allo stato dei luoghi ed all'edificio, onde accertare la compatibilità di tale permesso con lo stato di fatto e la sua congruenza rispetto al suo scopo ed agli strumenti urbanistici di pianificazione territoriale, e solo all'esito di una tale indagine potranno essere esclusi i presupposti per mantenere la confisca, per effetto ed in conseguenza della legittima sanatoria delle opere e della loro compatibilità con gli strumenti urbanistici.
Ne consegue la manifesta infondatezza anche di tali motivi di ricorso, non potendo allo stato essere esclusi i presupposti di detta confisca (tratto da www.lexambiente.it - Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.04.2016 n. 15404).

COMPETENZE PROGETTUALI: Consiglio di Stato: gli atti di aggiornamento catastale esclusi dalle competenze degli agrotecnici.
Accolto il ricorso del Consiglio nazionale dei geometri e dei geometri laureati.
Gli agrotecnici non sono legittimati a redigere e sottoscrivere gli atti di aggiornamento geometrico di cui all'articolo 8 della legge n. 679/1969 e agli articoli 5 e 7 del D.P.R. n. 650/1972.
Lo ha confermato il Consiglio di Stato (Sez. IV) che con la sentenza 13.04.2016 n. 1458 ha accolto il ricorso del Consiglio Nazionale dei Geometri e dei Geometri Laureati che ha chiesto l’integrale riforma della sentenza di primo grado con cui il Tar Lazio ha dichiarato l’inammissibilità per carenza di interesse dei ricorsi introduttivi del giudizio.
I geometri hanno fatto presente che, in seguito alla sentenza della Corte Costituzionale, n. 154 del 2015 -con cui è stata dichiarata l’incostituzionalità, per violazione dell’art. 77, comma secondo Cost., dell’art. 26, comma 7-ter, del decreto legge n. 248 del 2007, in accoglimento della questione prospettata dal Consiglio di Stato con l'ordinanza n. 753 del 17.02.2014- risulta evidente non soltanto l’interesse al ricorso introduttivo del giudizio, ma anche la illegittimità dell’azione dell’Amministrazione.
L’art. 26, comma 7-ter, del decreto-legge 31.12.2007, n. 248 stabiliva che il comma 96 dell’art. 145 della legge 23.12.2000, n. 388 (legge finanziaria 2001), “si interpreta nel senso che gli atti ivi indicati possono essere redatti e sottoscritti anche dai soggetti in possesso del titolo di cui alla legge 06.06.1986, n. 251, e successive modificazioni”. La legge 06.06.1986, n. 251, cui faceva espresso rinvio la disposizione censurata, ha istituito l’albo professionale degli agrotecnici.
  I giudici di Palazzo Spada ricordano che secondo un costante orientamento del Consiglio di Stato, dal quale non c’è motivo per discostarsi, deve ritenersi che “la pronuncia di illegittimità costituzionale di una norma di legge determina la cessazione della sua efficacia erga omnes ed impedisce, dopo la pubblicazione della sentenza, che essa possa esser applicata ai rapporti, in relazione ai quali la norma dichiarata incostituzionale risulti anche rilevante, stante l’effetto retroattivo dell’annullamento escluso solo per i cd. rapporti esauriti” (cfr. Cons. di Stato, Sez. III, 14.03.2012, n. 1429).
La risoluzione n. 10/DF del 03.04.2008 del Ministero dell’Economia e delle Finanze, nonché la circolare dell’Agenzia del Territorio n. 3 del 14.04.2008, in seguito alla pronuncia della Corte Costituzionale n. 154 del 2015, “devono ritenersi viziate da una invalidità derivata: detti atti, infatti, costituiscono integrazione e non mera interpretazione, della disposizione dichiarata incostituzionale e, il venir meno del presupposto normativo, determina, in ultima analisi, la loro invalidità ed inidoneità a produrre effetti”.
Pertanto, conclude il Consiglio di Stato, “Alla luce delle suesposte argomentazioni, va accolto l’appello proposto dal sig. Fausto Savoldi e dal Consiglio Nazionale Geometri e Geometri Laureati e, per l’effetto, in riforma della sentenza del TAR per il Lazio sede di Roma n. 7395 del 30.08.2012, devono annullarsi i provvedimenti impugnati in primo grado” (commento tratto da www.casaeclima.com).

ATTI AMMINISTRATIVI - TRIBUTINotifiche a mezzo posta senza relata. Cassazione ricorda che si seguono le regole sul servizio postale ordinario.
In tema di notificazioni a mezzo posta, non deve essere redatta alcuna relata di notifica o annotazione specifica sull'avviso di ricevimento in ordine alla persona cui è stato consegnato il plico, e l'atto pervenuto all'indirizzo del destinatario deve ritenersi ritualmente consegnato a quest'ultimo, stante la presunzione di conoscenza di cui all'art. 1335 c.c.
Inoltre, ai sensi dell'art. 140 cpc la raccomandata cosiddetta «informativa» deve contenere la semplice notizia del deposito dell'atto stesso presso la casa comunale e, per quanto riguarda la notificazione nei confronti di un destinatario irreperibile, non occorre che dall'avviso di ricevimento della raccomandata informativa del deposito dell'atto presso l'ufficio comunale risultino tutte le annotazioni prescritte in caso di notificazione effettuata a mezzo del servizio postale, dovendo piuttosto da esso risultare il trasferimento, il decesso del destinatario o altro fatto impeditivo della conoscibilità (non della conoscenza effettiva) dell'avviso stesso.

Questi importanti princìpi, in tema di notificazione, sono stati espressi dalla VI Sez. civile della Corte di Cassazione nell'ordinanza 12.04.2016 n. 7184.
I giudici di legittimità hanno richiamato la pronuncia della Cassazione n. 9111/2012 che, in tema di notificazioni a mezzo posta, ha stabilito che la disciplina relativa alla raccomandata con avviso di ricevimento, mediante la quale può essere notificato l'avviso di liquidazione o di accertamento senza intermediazione dell'ufficiale giudiziario, è quella dettata dalle disposizioni concernenti il servizio postale ordinario per la consegna dei plichi raccomandati, in quanto le disposizioni di cui alla L. n. 890 del 1982 attengono esclusivamente alla notifica eseguita dall'ufficiale giudiziario ex art. 140 cpc.
Ne consegue che, difettando apposite previsioni della disciplina postale, non deve essere redatta alcuna annotazione specifica sull'avviso di ricevimento in ordine alla persona cui è stato consegnato il plico, e l'atto pervenuto all'indirizzo del destinatario deve ritenersi ritualmente consegnato a quest'ultimo, stante la presunzione di conoscenza di cui all'art. 1335 c.c., superabile solo se il medesimo dia prova di essersi trovato, senza sua colpa, nell'impossibilità di prenderne cognizione.
Sempre con specifico riferimento alle formalità relative alla notifica ai sensi dell'art. 140 cpc, in materia tributaria, già la recente sentenza della Cassazione n. 26864/2014 ha precisato che la raccomandata cosiddetta informativa, poiché non sostituisce l'atto da notificare, ma contiene solo la notizia del deposito dell'atto stesso nella casa comunale, non è soggetta alle disposizioni di cui alla L. n. 890/1982, sicché per la stessa occorre rispettare solo quanto prescritto dal regolamento postale per la raccomandata ordinaria.
In particolare, la Suprema Corte ha escluso che la mancata specificazione, sull'avviso di ricevimento, della qualità del consegnatario e della situazione di convivenza o meno con il destinatario determini la nullità della notificazione. Inoltre, nella notificazione nei confronti di destinatario irreperibile, ai sensi dell'art. 140 cpc, non occorre che dall'avviso di ricevimento della raccomandata informativa del deposito dell'atto presso l'ufficio comunale, che va allegato all'atto notificato, risulti precisamente documentata l'effettiva consegna della raccomandata, ovvero l'infruttuoso decorso del termine di giacenza presso l'ufficio postale, né che detto avviso contenga, a pena di nullità dell'intero procedimento notificatorio, tutte le annotazioni prescritte in caso di notificazione effettuata a mezzo del servizio postale, dovendo invece da esso risultare, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 3 del 2010, il trasferimento, il decesso del destinatario o altro fatto impeditivo della conoscibilità dell'avviso stesso, come stabilito di recente dalla sentenza della Cassazione n. 2959/2013.
Nel caso di specie, la Ctr del Lazio non si è conformata a tali principi, avendo dichiarato la nullità della notificazione della cartella esattoriale effettuata dal messo notificatore ai sensi dell'art. 140 cpc, condizionando la validità della notificazione alla riferibilità della firma apposta sulla raccomandata di ricevimento al destinatario della stessa, senza invece considerare l'inutilità di siffatta verifica, una volta acclarato il compimento della formalità dell'inoltro al destinatario della raccomandata informativa (articolo ItaliaOggi del 28.04.2016).

URBANISTICALe scelte urbanistiche compiute dalle autorità preposte all’approvazione degli atti di pianificazione hanno natura altamente discrezionale e, per questa ragione, sono sindacabili da parte del giudice amministrativo solo nel caso in cui vi siano evidenti indici di irrazionalità o emerga chiaramente la sussistenza di errori nella valutazione dei presupposti ad esse sottesi.
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L’amministrazione non è tenuta a motivare specificamente le scelte riguardanti le singole zone, essendo a tal fine sufficiente il richiamo ai criteri generali seguiti nell’impostazione del piano come risultanti dall’apposita relazione di accompagnamento al piano stesso.
Uniche eccezioni a questa regola si hanno quando il soggetto interessato dall’atto di pianificazione versi in situazione di particolare affidamento; affidamento che può derivare o da una convenzione urbanistica, già stipulata con il Comune, che riservi all’area un trattamento più favorevole rispetto a quello introdotto con il piano sopravvenuto, ovvero da una sentenza di annullamento di un provvedimento di diniego al rilascio un titolo edilizio.
Altra eccezione si ha poi nel caso in cui l’autorità intenda imprimere destinazione agricola ad un lotto intercluso da fondi legittimamente edificati.

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Come noto, per costante orientamento giurisprudenziale, le scelte urbanistiche compiute dalle autorità preposte all’approvazione degli atti di pianificazione hanno natura altamente discrezionale e, per questa ragione, sono sindacabili da parte del giudice amministrativo solo nel caso in cui vi siano evidenti indici di irrazionalità o emerga chiaramente la sussistenza di errori nella valutazione dei presupposti ad esse sottesi.
Per quanto riguarda poi il profilo motivazionale, si afferma altresì che l’amministrazione non è tenuta a motivare specificamente le scelte riguardanti le singole zone, essendo a tal fine sufficiente il richiamo ai criteri generali seguiti nell’impostazione del piano come risultanti dall’apposita relazione di accompagnamento al piano stesso (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 07.04.2008 n. 1476; id. 13.03.2008 n. 1095; id. 27.12.2007 n. 6686).
Uniche eccezioni a questa regola si hanno quando il soggetto interessato dall’atto di pianificazione versi in situazione di particolare affidamento; affidamento che può derivare o da una convenzione urbanistica, già stipulata con il Comune, che riservi all’area un trattamento più favorevole rispetto a quello introdotto con il piano sopravvenuto, ovvero da una sentenza di annullamento di un provvedimento di diniego al rilascio un titolo edilizio. Altra eccezione si ha poi nel caso in cui l’autorità intenda imprimere destinazione agricola ad un lotto intercluso da fondi legittimamente edificati (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 01.10.2004 n. 6401; id. 04.03.2003 n. 1197) (TAR Valle d'Aosta, sentenza 12.04.2016 n. 13 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTI: Ingiunzione Tarsu firmata dal funzionario.
Ingiunzione di pagamento Tarsu illegittima senza la firma del funzionario responsabile. L'ingiunzione emanata dal concessionario della riscossione per conto del comune deve essere sottoscritta, a pena di nullità, dal funzionario responsabile dell'ente, che è tenuto anche ad apporre il visto di esecutività sulla lista di carico. Il concessionario della riscossione non è legittimato a sottoscrivere l'ingiunzione.

È quanto ha stabilito la Ctp di Taranto, I Sez., con la sentenza 07.04.2016 n. 854.
Per la commissione provinciale, l'ingiunzione non è valida senza la «necessaria e specifica sottoscrizione da parte del funzionario responsabile del servizio». In particolare, l'atto impugnato (ingiunzione Tarsu) «non risulta sottoscritto e ne accompagnato dalla provata sottoscrizione da parte del funzionario responsabile comunale di un pur più ampio elenco di contribuenti tenuti al pagamento della pretesa tributaria che solo avrebbe potuto rappresentare il ruolo e sanare le singole situazioni».
Il principio non può essere condiviso ed è destinato a generare solo confusione, tenuto conto che non distingue i casi in cui l'ingiunzione va sottoscritta dal funzionario responsabile dell'ente, perché l'incarico al concessionario è limitato alla predisposizione dell'atto, sotto forma di appalto di servizi, da quelli in cui, invece, l'attività di riscossione è affidata in concessione e l'esattore è legittimato alla sottoscrizione. Fermo restando che il funzionario è tenuto ad apporre il visto di esecutività sulla lista di carico, ma la stessa, contrariamente a quanto sostenuto dal giudice, non deve essere allegata all'ingiunzione.
Nel caso in esame la Soget, nella qualità di concessionaria del comune di Taranto, era abilitata alla sottoscrizione dell'atto: non a caso era stata chiamata in causa dal contribuente come parte resistente, essendo il soggetto autore dell'atto e, quindi, legittimato a contraddire. Non era stata opposta, infatti, dal ricorrente la carenza di legittimazione passiva nel processo tributario. Solo laddove l'affidamento sia limitato alla predisposizione degli atti, con la formula dell'appalto di servizi, il soggetto incaricato può svolgere un'attività endo-procedimentale, di supporto all'attività dell'ente, non può sottoscrivere gli atti, non può assumersene la paternità giuridica e, per l'effetto, non è abilitato alla difesa innanzi alle commissioni tributarie, perché carente di legittimazione passiva.
L'ingiunzione è uno strumento nato per il recupero delle entrate patrimoniali. L'articolo 52 del decreto legislativo 446/1997 ne ha esteso l'ambito di applicazione a tutte le entrate locali, sia tributarie che extratributarie. È un atto amministrativo recettizio, che esplica i suoi effetti nel momento in cui si perfeziona la notifica, ovvero quando l'intimazione viene portata a conoscenza del destinatario.
È utilizzabile a seguito di una pretesa divenuta definitiva o anche quando l'atto viene contestato innanzi all'autorità giudiziaria. È un atto emanabile dopo la notifica dell'avviso di accertamento, sempre che non venga sospeso dal giudice, o comunque qualora vi sia un titolo esecutivo (articolo ItaliaOggi del 26.04.2016).

APPALTI: Impresa in gara se trasparente. No all'esclusione se manca il Passoe.
No all'esclusione dall'appalto per l'impresa che al momento in cui presenta l'offerta per la gara non risulta in possesso del Passoe, il codice di registrazione presso il servizio Avcpass, il sistema di controllo dei requisiti per ottenere lavori pubblici targato Anac, l'authority anticorruzione. L'importante è che risulti comunque iscritta al sistema di trasparenza gestito dall'autorità presieduta da Raffaele Cantone. Il Passoe, infatti, costituisce un semplice strumento attraverso cui l'operatore economico può essere verificato tramite Avcpass e la mancata produzione del codice in sede di gara rappresenta una mera carenza documentale, non anche un'ipotesi di irregolarità essenziale.

Lo dice la sentenza 06.04.2016 n. 1682 della II Sez. del TAR Campania-Napoli.
Accolto il ricorso dell'impresa esclusa dalla procedura per l'affidamento di un servizio comunale. È vero: serve un Passoe per ogni singola gara cui si partecipa, ma ciò non esime l'impresa che si candida all'appalto dall'obbligo di presentare le autocertificazioni richieste sul possesso dei requisiti per la partecipazione alla procedura di affidamento.
Non è dunque vero che l'omissione del codice possa far scattare l'esclusione dalla procedura pubblica: l'azienda ben può presentare il documento in seguito regolarizzando la sua posizione e senza pagare alcuna sanzione pecuniaria.
Lo conferma la stessa Anac nella nota illustrativa al bando tipo: il concorrente deve essere invitato ad acquisire e produrre il codice entro un certo termine, questo sì a pena di esclusione (articolo ItaliaOggi del 28.04.2016).

APPALTI: Sistema Avcpass: la mancata produzione del Passoe in sede di gara non è un’irregolarità essenziale.
Tar Campania: il Passoe non solo non costituisce causa di esclusione dalla procedura, ma può essere prodotto successivamente regolarizzando la documentazione, senza alcuna sanzione pecuniaria.
La mancata produzione del Passoe (documento attestante l'iscrizione al sistema Avcpass) in sede di gara rappresenta una semplice carenza documentale e non anche un’ipotesi di irregolarità essenziale. Pertanto il Passoe non solo non costituisce causa di esclusione del concorrente dalla procedura, ma può essere prodotto, regolarizzando la documentazione, successivamente, senza che per questo sia dovuta alcuna sanzione pecuniaria.
Lo ha precisato il TAR Campania-Napoli, Sez. II, con la sentenza 06.04.2016 n. 1682.
La registrazione al servizio AVCPASS e la generazione per ogni singola gara di un PASSOE non esime l’operatore economico –scrive il Tar Napoli- dall’obbligo di presentare le autocertificazioni richieste dalla normativa vigente in ordine al possesso dei requisiti per la partecipazione alla procedura di affidamento: il “PASSOE” rappresenta lo strumento necessario per procedere alla verifica dei requisiti stessi da parte delle stazioni appaltanti”.
Per l’operatore economico “non è, pertanto, prevista alcuna semplificazione nella preparazione della documentazione di gara, cui aggiunge proprio il PASSOE”.
Il PASSOE, ribadiscono i giudici amministrativi della Campania, “rappresenta un semplice strumento attraverso cui l’operatore economico può essere verificato per mezzo del sistema ACVPASS con il quale la stazione appaltante assolve, a norma dell’art. 6-bis, I comma, del DLgs n. 163/2006, all’obbligo di provvedere direttamente, presso gli Enti certificanti convenzionati con l’ANAC (tra cui Ministero della Giustizia, Unioncamere, Inail e Agenzia delle Entrate), all’acquisizione dei documenti necessari alla verifica dei requisiti autodichiarati dai concorrenti in sede di gara”.
Pertanto, conclude il Tar Napoli, la mancata produzione del PASSOE in sede di gara rappresenta “una semplice carenza documentale e non anche un’ipotesi di irregolarità essenziale: ne consegue che il PASSOE non solo non costituisce causa di esclusione del concorrente dalla procedura, ma può essere prodotto, regolarizzando dunque la documentazione, successivamente, senza che per questo sia dovuta alcuna sanzione pecuniaria” (commento tratto da www.casaeclima.com).

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MASSIMA
- che, nel merito, va osservato che oggetto della controversia è la legittimità o meno dell’esclusione di “Qu.-2001 soc. coop.” dalla gara per l’affidamento triennale del servizio di refezione scolastica a favore degli alunni della scuola dell’infanzia, esclusione che il Comune di Crispano ha disposto in ragione del fatto che il documento PASSOE –che, richiesto dalla legge di gara, la concorrente aveva omesso di inserire nella busta contenente la documentazione amministrativa–, fornito alla commissione giudicatrice a seguito dell’invito rivolto dalla commissione stessa in ossequio alla doverosità del soccorso istruttorio, non era “posseduto” dalla ricorrente alla scadenza del termine per la presentazione dell’offerta (01.02.2016), ma era stato “generato” successivamente (l’11.02.2016);
- che, in altre parole, l’esclusione di Qu. dalla gara trae giustificazione e fondamento, secondo l’Amministrazione, non già dall’omessa allegazione di un requisito di partecipazione (posseduto dalla concorrente), ma proprio dal suo mancato possesso, giacché era stato creato in un momento successivo alla data ultima per la proposizione dell’offerta;
- che, da parte sua, la ricorrente afferma che la mancanza del PASSOE non può comportare -soprattutto quando, come nel caso di specie, l’impresa sia registrata al servizio AVCPASS- l’esclusione dalla gara, in quanto, non configurandosi il predetto elemento quale requisito essenziale di partecipazione, ciò contrasterebbe con il principio di tassatività delle clausole di esclusione sancito dall’art. 46, I comma-bis, del codice dei contratti;
- che l’affermazione della ricorrente va condivisa, giacché né il codice dei contratti (art. 6-bis), né il “bando disciplinare di gara” (pag. 10) accreditano il possesso del PASSOE quale requisito di partecipazione previsto a pena di esclusione dalla procedura concorsuale, né peraltro esso si configura come elemento essenziale incidente sulla par condicio dei concorrenti;
- che, invero, il sistema informatico AVCPASS (Autority Virtual Company Passport) è stato elaborato dall’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici (ora incorporata nell’ANAC) in attuazione dell’art. 6-bis, I comma, del DLgs n. 163/2006: tale articolo dispone che la documentazione comprovante il possesso dei requisiti di carattere generale, tecnico-organizzativo ed economico-finanziario per la partecipazione alle procedure disciplinate dal Codice deve essere acquisita dalle stazioni appaltanti presso la Banca dati nazionale dei contratti pubblici (BDNCP).
Con la deliberazione AVCP 20.12.2012 n. 111 l’Autorità ha attuato il codice istituendo sul proprio sito istituzionale un gateway per le stazioni appaltanti, denominato AVCPASS, per accedere ai dati messi a disposizione dagli Enti Certificanti, dall’Autorità di Vigilanza/Osservatorio sui contratti pubblici e dagli Operatori Economici.
L'AVCPASS presuppone che tutti i soggetti, per accedere al Portale AVCP, debbano registrarsi nel sistema. Una volta registrato, l’accesso dell’operatore economico ai servizi AVCPASS avviene a seguito del superamento di una procedura che verifica le credenziali di autenticazione composte dall’identificativo utente e dalla relativa password. L’accesso nel profilo AVCPASS consente all’operatore economico di generare e stampare un documento che attesta la possibilità, per la stazione appaltante, di verificare il concorrente tramite il sistema AVCPASS.
La stazione appaltante o l’ente aggiudicatore, accedendo al sistema, sfrutta il collegamento tra la Banca dati nazionale dei contratti pubblici e le banche dati dei soggetti detentori delle informazioni necessarie alla verifica dei requisiti di partecipazione alle gare pubbliche. Va tuttavia osservato che
l’AVCPASS, se si eccettua la presentazione del PASSOE (tale documento, infatti, va inserito nella busta contenente la documentazione amministrativa), non modifica le normali procedure di gara, ma cambia unicamente il mezzo con cui verificare i requisiti di partecipazione alle gare.
Infatti,
la registrazione al servizio AVCPASS e la generazione per ogni singola gara di un PASSOE non esime l’operatore economico dall’obbligo di presentare le autocertificazioni richieste dalla normativa vigente in ordine al possesso dei requisiti per la partecipazione alla procedura di affidamento: il “PASSOE” rappresenta lo strumento necessario per procedere alla verifica dei requisiti stessi da parte delle stazioni appaltanti (cfr., a tal proposito, l’art. 2, III comma, lett. b, della deliberazione 17.02.2016 n. 157 dell’ANAC di aggiornamento della precedente deliberazione n. 111/2012 dell’AVCP: ivi si afferma, riprendendo pedissequamente l’inciso dell’AVCP, che “il sistema rilascia un "PASSOE" da inserire nella busta contenente la documentazione amministrativa. Fermo restando l'obbligo per l'OE di presentare le autocertificazioni richieste dalla normativa vigente in ordine al possesso dei requisiti per la partecipazione alla procedura di affidamento, il "PASSOE" rappresenta lo strumento necessario per procedere alla verifica dei requisiti stessi da parte delle stazioni appaltanti/enti aggiudicatori”).
Per l’operatore economico non è, pertanto, prevista alcuna semplificazione nella preparazione della documentazione di gara, cui aggiunge proprio il PASSOE. Il PASSOE, lo si ribadisce, rappresenta un semplice strumento attraverso cui l’operatore economico può essere verificato per mezzo del sistema ACVPASS con il quale la stazione appaltante assolve, a norma dell’art. 6-bis, I comma, del DLgs n. 163/2006, all’obbligo di provvedere direttamente, presso gli Enti certificanti convenzionati con l’ANAC (tra cui Ministero della Giustizia, Unioncamere, Inail e Agenzia delle Entrate), all’acquisizione dei documenti necessari alla verifica dei requisiti autodichiarati dai concorrenti in sede di gara.
La mancata produzione del PASSOE in sede di gara rappresenta, perciò, una semplice carenza documentale e non anche un’ipotesi di irregolarità essenziale: ne consegue che il PASSOE non solo non costituisce causa di esclusione del concorrente dalla procedura, ma può essere prodotto, regolarizzando dunque la documentazione, successivamente, senza che per questo sia dovuta alcuna sanzione pecuniaria.
Di tale avviso è anche l’ANAC (che, come s’è detto, ha incorporato l’AVCP), che nella nota illustrativa al “Bando-tipo per l’affidamento di contratti pubblici di servizi e forniture” afferma espressamente (cfr. il paragrafo relativo alle “cause di esclusione e soccorso istruttorio”, pag. 8) che “fermo restando l’obbligo per l’operatore economico di presentare le autocertificazioni richieste dalla normativa vigente in ordine al possesso dei requisiti per la partecipazione alla procedura di affidamento, il “PASSOE” rappresenta lo strumento necessario per procedere alla verifica dei requisiti stessi da parte delle stazioni appaltanti. Al riguardo, si rappresenta che la mancata inclusione del PASSOE non costituisce causa di esclusione dell’operatore economico in sede di presentazione dell’offerta. Tuttavia, le stazioni appaltanti saranno tenute a verificare, nella prima seduta di gara, l’inserimento del PASSOE nella busta contenente la documentazione amministrativa e, laddove ne riscontrino la carenza, dovranno richiedere all’operatore economico interessato di acquisirlo e trasmetterlo in tempo utile a consentire la verifica dei requisiti, avvertendolo espressamente che in mancanza si procederà all’esclusione dalla gara e alla conseguente segnalazione all’Autorità ai fini dell’applicazione delle sanzioni di cui all’art. 6, comma 11, del Codice, essendo il PASSOE l’unico strumento utilizzabile dalla stazione appaltante per procedere alle prescritte verifiche”.
L’ANAC, cioè, afferma senza mezzi termini che
il concorrente privo del PASSOE deve essere invitato ad “acquisirlo” e produrlo entro un certo termine, questo sì a pena di esclusione;
- che, dunque, avendo l’Amministrazione contestato alla ricorrente non già il contenuto delle autocertificazioni prodotte, ma soltanto la mancanza del documento che ne consentiva la verificazione attraverso il sistema AVCPASS, documento poi prodotto dall’interessata entro il termine fissato dalla stessa Amministrazione, il ricorso è fondato e va accolto, assorbite le ulteriori censure (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 06.04.2016 n. 1682 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPuò parlarsi di ristrutturazione e restauro conservativo in tutte le ipotesi di lavori afferenti a edifici già esistenti e individuabili nella loro struttura e caratteristiche, anche se in parte diruti, mentre solo nei casi in cui non sia affatto possibile individuare il manufatto originario, quantomeno nei suoi connotati essenziali, deve parlarsi di nuova costruzione.
Il concetto di costruzione esistente postula, invero, la possibilità di individuazione della stessa come identità strutturale, in modo da farla giudicare presente nella realtà materiale quale specifica entità urbanistico-edilizia esistente nell'attualità, sicché l'intervento edificatorio non costituisce trasformazione urbanistico edilizia del territorio rilevante in termini di nuova costruzione. Deve, pertanto, trattarsi di manufatto che, a prescindere dalla circostanza che sia abitato o abitabile, possa comunque essere individuato nei suoi connotati essenziali, come identità strutturale, in relazione anche alla sua destinazione.

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Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa, può parlarsi di ristrutturazione e restauro conservativo in tutte le ipotesi di lavori afferenti a edifici già esistenti e individuabili nella loro struttura e caratteristiche, anche se in parte diruti, mentre solo nei casi in cui non sia affatto possibile individuare il manufatto originario, quantomeno nei suoi connotati essenziali, deve parlarsi di nuova costruzione (Tar Napoli, Sez. IV, sent. 25.07.2014 n. 4321; Tar Latina, Sez. I, sent. 30.09.2014, n. 762).
Il concetto di costruzione esistente postula, invero, la possibilità di individuazione della stessa come identità strutturale, in modo da farla giudicare presente nella realtà materiale quale specifica entità urbanistico-edilizia esistente nell'attualità, sicché l'intervento edificatorio non costituisce trasformazione urbanistico edilizia del territorio rilevante in termini di nuova costruzione. Deve, pertanto, trattarsi di manufatto che, a prescindere dalla circostanza che sia abitato o abitabile, possa comunque essere individuato nei suoi connotati essenziali, come identità strutturale, in relazione anche alla sua destinazione” (cfr. Cons. Stato, V, 10.02.2004, n. 475; V, 15.03.1990, n. 293, Tar Salerno, Sez I, sent. 09.12.2012 n. 2436) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 04.04.2016 n. 796 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa visione aerea satellitare non vieta il nuovo sottotetto. Non si possono «cristallizzare» i luoghi in virtù della tecnologia.
Tar di Brescia. Sì alla modifica: il paesaggio va tutelato in base alla normale percepibilità.

La modifica di un sottotetto non può trovare ostacolo nella visione aerea da Google, quando si discute di tutela dei beni ambientali: lo sottolinea il TAR Lombardia-Brescia (Sez. I, ordinanza 04.04.2016 n. 270), chiarendo i rapporti tra privati e Soprintendenza al paesaggio.
Il proprietario di un sottotetto in zona paesistica vincolata, avrebbe potuto rendere abitabili i luoghi realizzando un terrazzo “a tasca” (detto anche “ad asola”), con aperture di 5 e di 2 metri: in tal modo infatti sarebbe stato raggiunto l’indice minimo aeroilluminante per i locali sottostanti.
La Soprintendenza, competente per l’autorizzazione (articolo 146 del Dlgs 42/2004), si è, tuttavia, opposta osservando che l’innovazione sarebbe stata visibile da percorsi pedonali e carrabili di una collina sovrastante. Inoltre, era anche possibile la visione satellitare del terrazzo. Appunto su quest’ultimo argomento il Tar si è pronunciato in modo innovativo, osservando che la visione satellitare si affermerà in futuro, probabilmente, come la principale forma di fruizione delle bellezze paesistiche, consentendo ad un numero indeterminato di persone di accedere ad immagini attraverso Internet.
Tuttavia oggi, da tale cambiamento del pubblico che fruisce del paesaggio, non deriva un vincolo di immodificabilità rafforzato, sui luoghi osservabili. Anche questo nuovo tipo di visione, secondo i giudici, va collocato in una scala di valori che riguardano il pregio paesistico, pregio che deve essere sempre riferito ad un insieme complesso e non a singoli dettagli messi in primo piano. Il giudice ha quindi imposto alla Sovrintendenza di pronunciarsi nuovamente, semmai imponendo eventuali misure di mitigazione dell’intervento edilizio.
In altri termini, secondo il Tar, il paesaggio va tutelato in coerenza a una normale percepibilità; la dimensione del bene da tutelare deve continuare a essere quella del passante, del turista, dell’amante dell’arte o del paesaggio; occorre immedesimarsi nel progettista che a suo tempo ha ideato i luoghi generando armonia e qualità, e da tutto ciò può derivare una corretta tutela paesistica.
Tutela che può esprimersi anche attraverso un divieto assoluto di modifica (impedendo un’alterata percezione dei luoghi), ma senza giungere ad un’assoluta cristallizzazione dei luoghi causata dell’evolversi di tecnologie (visioni aeree, uso di droni, elevata risoluzione delle immagini) focalizzando dettagli non usualmente percepibili.
Nella tutela del paesaggio, fino ad oggi, problemi del genere sono emersi quando si è inteso modificare l’interno di costruzioni in zone vincolate quali cantine, ambienti e suddivisioni interne, solai o murature interne prive di pregio specifico: per interventi su tali elementi edilizi, ad esempio, il vincolo derivante da distanza dal mare (300 metri) è stato ritenuto irrilevante (Tar Lecce 321/2014, Firenze 671/2014).
Anche il modesto innalzamento di un solaio di copertura può risultare irrilevante sotto l’aspetto paesaggistico (se di 40 centimetri: Tar Brescia 39/2015, Consiglio di Stato 3676/2013), mentre se il vincolo è storico-artistico, genera immodificabilità assoluta. A seconda quindi del tipo di vincolo e della percezione che si vuole garantire, i giudici ritengono necessaria una scala graduata, che non può essere alterata dalla tecnologia e dai dettagli delle visioni aeree, nel senso che il paesaggio è un valore complessivo che non si accresce per la sola migliore osservabilità consentita dalla tecnologia
(articolo Il Sole 24 Ore del 28.04.2016).
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MASSIMA
... per l'annullamento previa sospensione dell'efficacia:
- del provvedimento del responsabile dello Sportello Unico dell’Edilizia del 24.12.2015, con il quale è stata negata l’autorizzazione paesistica per un intervento di recupero del sottotetto di un edificio situato in viale Venezia;
- del parere negativo vincolante della Soprintendenza del 22.12.2015, con il quale è stata dichiarata l’assenza di compatibilità paesistica ex art. 146, comma 5, del Dlgs. 22.01.2004 n. 42;
...
Considerato a un sommario esame:
1. I ricorrenti hanno chiesto al Comune di Brescia in data 11.05.2015 l’autorizzazione paesistica per un intervento di recupero del sottotetto in un edificio situato in viale Venezia. Il progetto prevede anche la realizzazione di due tasche nella copertura (rispettivamente di metri 5,00x1,70 e 2,40x1,10) allo scopo di assicurare il raggiungimento dei rapporti aeroilluminanti nei locali del sottotetto.
2. Sull’area grava il vincolo paesistico posto dal DM 07.05.1952.
3. La Commissione comunale per il paesaggio ha espresso parere favorevole in data 10.09.2015, dopo aver preso atto di alcune modifiche progettuali che hanno ridimensionato l’impatto dell’intervento. È stato prescritto il mantenimento dell’orditura e dei caratteri architettonici della gronda.
4. La Soprintendenza, in data 22.12.2015, ha invece espresso parere vincolante negativo ai sensi dell’art. 146, comma 5, del Dlgs. 22.01.2004 n. 42. Secondo la Soprintendenza vi sarebbero le seguenti criticità:
   (i) le tasche nella copertura non sono elementi architettonici tradizionali, e provocherebbero la perdita della leggibilità dell’insediamento storico-paesistico;
   (ii) l’innovazione sarebbe visibile dai percorsi pedonali e carrabili, e in particolare dalla collina sovrastante. Nella relazione depositata il 23.03.2016 la Soprintendenza sottolinea che non sarebbe comunque possibile escludere la visione mediante satelliti, accessibile da ogni parte del pianeta.
5. Il Comune si è adeguato, e con provvedimento del responsabile dello Sportello Unico dell’Edilizia del 24.12.2015 ha negato l’autorizzazione paesistica.
6. Il ricorso richiama le valutazioni dell’arch. Au.Lo., esposte nella relazione del 12.02.2016. In particolare, la relazione mette in evidenza i seguenti aspetti:
   (i) i percorsi pedonali e carrabili della collina non consentono di osservare agevolmente la zona in questione;
   (ii) l’impatto visivo delle tasche nella copertura è completamente diluito nella visione d’insieme dai punti panoramici e dall’alto;
   (iii) ben 6 dei 14 edifici che compongono l’isolato sono dotati di aperture a tasca nella copertura.
7. Sulla vicenda così sintetizzata si possono formulare le seguenti osservazioni:
   (a)
la leggibilità del paesaggio urbano tradizionale presuppone la conservazione di una pluralità di elementi (forma e orditura della gronda, materiali, colori), ma non di tutte le caratteristiche storicamente attestate in un gruppo di edifici. Il giudizio di leggibilità è dato infatti dall’insieme degli elementi caratterizzanti. La modifica di uno di questi può essere bilanciata e riassorbita nell’immagine complessiva grazie alla persistenza degli altri;
   (b) occorre poi sottolineare che
le innovazioni necessarie per garantire gli attuali standard igienico-sanitari delle abitazioni sono maggiormente accettabili, in un giudizio estetico aggiornato, rispetto a innovazioni voluttuarie e frivole;
   (c)
la presenza di tasche nelle coperture di quasi la metà degli edifici che compongono l’isolato permette tuttora di apprezzare il pregio architettonico della zona. Non sembra quindi ragionevole ritenere che le due nuove aperture a tasca progettate dai ricorrenti possano alterare l’equilibrio generale;
   (d) al contrario,
appare evidente che in una visione d’insieme, e quindi da lontano, come è necessario nel giudizio paesistico, le aperture a tasca di modeste dimensioni sono diluite nel paesaggio e non sono percepibili come elementi di interruzione o disturbo;
  
(e) infine, è verosimile che la visione satellitare possa affermarsi in un prossimo futuro come la principale forma di fruizione delle bellezze paesistiche, in considerazione del numero di persone in grado di accedere alle immagini da ogni parte del mondo via Internet. Da tale cambiamento nella composizione del pubblico non deriva però un vincolo di immodificabilità rafforzato a carico dei luoghi osservabili. Anche in questo nuovo tipo di visione, infatti, è necessario individuare una scala alla quale collegare il giudizio paesistico, che è sempre riferito a un insieme complesso e non a singoli dettagli messi in primo piano.
8. Sussistono quindi i presupposti per concedere una misura cautelare sospensiva e propulsiva. Sospesi i provvedimenti impugnati, vi è l’obbligo per la Soprintendenza di riesaminare la domanda di autorizzazione paesistica, nel rispetto delle indicazioni sopra esposte, e garantendo il contraddittorio con i ricorrenti. Il riesame è diretto in particolare a definire eventuali misure di mitigazione dell’intervento edilizio. Il termine ragionevole per tale adempimento è fissato in 120 giorni dal deposito della presente ordinanza.

EDILIZIA PRIVATA: Tar Sicilia. Il sentiero privato può essere chiuso.
Se il comune vuole impedire a un privato di sbarrare l'accesso pedonale alla spiaggia deve dimostrare l'esistenza di una servitù di uso pubblico. Non basta avere iscritto la strada nella toponomastica locale.

Lo ha evidenziato il TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, con la sentenza 01.04.2016 n. 836.
Un comune siciliano ha negato la licenza per l'installazione di un cancello in una stradella utilizzata per l'accesso alle spiagge pubbliche. Contro questa determinazione gli interessati hanno proposto con successo ricorso al collegio.
La legge regionale n. 37/1985 che si occupa di ripristino degli accessi al mare chiusi abusivamente dai privati non è applicabile trattandosi in questo caso di un'area privata, specifica innanzitutto la sentenza. E neppure il comune ha provato l'esistenza di una servitù di uso pubblico sulla strada in questione.
L'indicazione del tracciato pedonale nella toponomastica comunale riveste una funzione puramente dichiarativa, specificano i giudici. Non basta ad accertare l'uso pubblico (articolo ItaliaOggi del 26.04.2016).

EDILIZIA PRIVATA: Spetta al comune dimostrare l'uso pubblico della strada di accesso alla spiaggia che insiste su una proprietà privata.
E’ quasi superfluo precisare che affinché un qualsiasi bene possa essere destinato a un uso pubblico è necessario che rientri nel patrimonio pubblico.
Ove l’amministrazione ravvisi la necessità di acquisire un bene privato nel proprio patrimonio, per la soddisfazione di un interesse pubblico, la legge predispone gli strumenti idonei affinché la P.A. possa acquisire quel bene.

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L'asservimento a uso pubblico di una strada privata, in forza del quale essa diviene soggetta alla normale disciplina stradale, può derivare o dall'inserimento nella rete viaria cittadina riconducibile alla volontà del proprietario che si manifesta nel mutamento della situazione dei luoghi, come può accadere in occasione di convenzioni urbanistiche, di nuove edificazioni o di espropriazioni, oppure da un immemorabile uso pubblico che va inteso come comportamento della collettività contrassegnato dalla convinzione -pur essa palesata da una situazione dei luoghi che non consente di distinguere la strada in questione da una qualsiasi altra strada della rete viaria pubblica- di esercitare il diritto di uso della strada.
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Quanto alla identificazione della strada nella toponomastica comunale va precisato che tale iscrizione non ha natura costitutiva e portata assoluta, ma riveste funzione puramente dichiarativa della pretesa del Comune, ponendo una semplice presunzione di pubblicità dell'uso, superabile con la prova contraria della natura della strada e dell'inesistenza di un diritto di godimento da parte della collettività.
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... per l'annullamento del diniego della domanda di autorizzazione n. 31930 del 15.11.2013, per la collocazione di un cancello a chiusura della stradella sul terreno, sito in C.da San Giorgio, in catasto al foglio 150, p.lla 108.
...
Il ricorso è fondato.
E’ quasi superfluo precisare che, affinché un qualsiasi bene possa essere destinato a un uso pubblico, è necessario che rientri nel patrimonio pubblico.
Ove l’amministrazione ravvisi la necessità di acquisire un bene privato nel proprio patrimonio, per la soddisfazione di un interesse pubblico, la legge predispone gli strumenti idonei affinché la P.A. possa acquisire quel bene.
Sulla base di tali principi è evidente che il Comune resistente può imporre l’apertura al pubblico della stradella per cui è causa solo in quanto il terreno su cui insiste rientri nel suo patrimonio; diversamente, ove ne ravvisi la necessità, dovrà prima espropriare la stradella ai suoi attuali proprietari.
In questa logica si muove la previsione dell’art. 12 della legge regionale n. 37/1985, laddove prevede, per un verso l’apertura al pubblico delle strade di accesso al mare rientranti nel patrimonio pubblico che sono state abusivamente chiuse da privati e, per altro verso, stabilisce che, in sede di pianificazione urbanistica, siano individuati gli accessi al mare necessari a soddisfare l’interesse della collettività, al fine di poterne disporre l’espropriazione e, quindi, trasformarli in accessi pubblici al mare.
Nel caso in esame, parte ricorrente però afferma che la stradella per cui è causa rientra nel suo patrimonio personale e il Comune di Sciacca non è stato in grado di smentire tale circostanza.
Risulta perciò fondato il secondo motivo di ricorso poiché il Comune resistente ha negato l’autorizzazione rispetto a un bene che non è pubblico.
Ove l’amministrazione volesse perseguire il proprio interesse all’apertura al pubblico della strada per cui è causa, avrebbe dovuto provarne la natura pubblica –circostanza neanche affermata nel provvedimento impugnato– ovvero disporne l’espropriazione nei modi e nei tempi di legge.
Né il Comune ha provato l’esistenza di una servitù di uso pubblico sulla strada in questione.
Va, a tal proposito, richiamato l’incontroverso orientamento giurisprudenziale secondo il quale l'asservimento a uso pubblico di una strada privata, in forza del quale essa diviene soggetta alla normale disciplina stradale, può derivare o dall'inserimento nella rete viaria cittadina riconducibile alla volontà del proprietario che si manifesta nel mutamento della situazione dei luoghi, come può accadere in occasione di convenzioni urbanistiche, di nuove edificazioni o di espropriazioni, oppure da un immemorabile uso pubblico che va inteso come comportamento della collettività contrassegnato dalla convinzione -pur essa palesata da una situazione dei luoghi che non consente di distinguere la strada in questione da una qualsiasi altra strada della rete viaria pubblica- di esercitare il diritto di uso della strada (ex plurimis Cons. di Stato, V, 09.06.2008, n. 2864; 24.05.2007, n. 2618 e 04.02.2004, n. 373).
Ebbene, sulla stradella per la quale è lite il Comune di Sciacca non ha dimostrato di avere svolto alcun servizio pubblico di illuminazione, manutenzione, pulizia viaria e raccolta di rifiuti.
Tale circostanza costituisce, ad avviso del Collegio, indice inequivocabile del fatto che la strada non è gravata da uso pubblico, dovendosi ricondurre il passaggio per l’accesso al mare alla tolleranza dei proprietari, i quali non hanno mai inteso rinunziare al loro diritto tant’è che hanno chiesto di potere collocare il cancello, che, peraltro, potrebbe, ipoteticamente, anche consentire il passaggio pedonale.
Quanto alla identificazione della stradella nella toponomastica comunale va precisato che tale iscrizione non ha natura costitutiva e portata assoluta, ma riveste funzione puramente dichiarativa della pretesa del Comune, ponendo una semplice presunzione di pubblicità dell'uso, superabile con la prova contraria della natura della strada e dell'inesistenza di un diritto di godimento da parte della collettività (Cons. Stato, V, 01.12.2006; TAR Sicilia, Palermo, III, 05.12.2012, n. 2545; Cass. civ., sez. un., n. 1624/2010) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 01.04.2016 n. 836 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa valutazione degli abusi edilizi presuppone una visione complessiva e non atomistica degli interventi posti in essere, in quanto il pregiudizio arrecato all’assetto urbanistico deriva non dal singolo intervento ma dall'insieme delle opere realizzate nel loro contestuale impatto edilizio.
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Nel caso all’esame la copertura della pompeiana e l’aggiunta delle strutture metalliche coperte, hanno creato un autonomo organismo edilizio di rilevanti dimensioni stabilmente destinato a sala da pranzo del locale che deve pertanto essere qualificata come nuova opera per consistenza e funzione di ampliamento del locale dal punto di vista della volumetria e della superficie utile commerciale.
Infatti, come è stato osservato proprio con riguardo all’abusiva copertura di strutture del tipo di quella in esame:
- dal punto di vista tecnico-giuridico la pompeiana, a prescindere dai materiali usati e dalle concrete categorie definitorie (porticato, pergolato, gazebo, berceau, dehor), è caratterizzata dal dover essere una struttura costruttiva leggera e aperta, la cui copertura (teli, rampicanti, assi distanziate) deve consentire di fare filtrare l’aria e la luce, assolvendo a finalità di ombreggiamento e di protezione nel passaggio o nella sosta delle persone, in soluzione di continuità con lo spazio circostante e senza creare interruzione dimensionale dell’ambiente in cui è installata;
- l’aspetto tipico di essa risiede nella mancanza di pareti e di una copertura integrale assimilabile ad un tetto o solaio, che si viene invece a concretizzare con una copertura che la faccia configurare come volume edilizio;
- la stabile destinazione funzionale a sala da pranzo comporta lo snaturamento dei caratteri propri della pompeiana;
- è da escludersi la possibilità di riscontrare precarietà dell'opera, ai fini dell'esenzione dal permesso di costruire, quando la medesima sia destinata a soddisfare bisogni non provvisori attraverso la permanenza nel tempo della sua funzione.
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Da quanto esposto emerge che l’intervento edilizio è qualificabile come nuova opera assoggettata al previo rilascio di un permesso di costruire, che la medesima era incompatibile con la destinazione agricola dell’area prevista dallo strumento urbanistico allora vigente, che era necessario il previo rilascio dell’autorizzazione paesaggistica in quanto si tratta di opera che altera l’aspetto esteriore dell’edificio cui accede e che pertanto correttamente il Comune ha sanzionato l’abuso con un’ordinanza di rimozione e ripristino allo stato originario ed autorizzato dei luoghi.

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... per l'annullamento del provvedimento del Comune di Abano Terme, a firma del Dirigente del V Settore 17.06.1999 prot. n. 16032, con cui si ordina alla Società ricorrente, relativamente al fabbricato ad uso commerciale-residenziale in Abano Terme, via ... n. 46, di demolire le opere pretestamente abusive entro il termine di 90 giorni.
...
Il ricorso è infondato e deve essere respinto.
Le censure proposte, che possono essere valutate unitariamente, si fondano sull’erroneo presupposto che l’abuso edilizio dovrebbe essere considerato come consistente nella mera apposizione di un telo di nylon, come tale qualificabile come opera amovibile, non soggetta al previo rilascio di un titolo edilizio, o tutt’al più qualificabile come intervento di manutenzione straordinaria non sanzionabile con un’ordinanza di demolizione, irrilevante da un punto di vista urbanistico ed inoltre non soggetta al previo rilascio di un’autorizzazione paesaggistica perché costituente un intervento edilizio minore.
Tale ordine di idee non può essere condiviso.
Come è noto la valutazione degli abusi edilizi presuppone una visione complessiva e non atomistica degli interventi posti in essere, in quanto il pregiudizio arrecato all’assetto urbanistico deriva non dal singolo intervento ma dall'insieme delle opere realizzate nel loro contestuale impatto edilizio (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 06.06.2012 n. 3330; Consiglio di Stato, Sez. VI, 12.06.2014, n. 2985).
Nel caso all’esame la copertura della pompeiana e l’aggiunta delle strutture metalliche coperte, hanno creato un autonomo organismo edilizio di rilevanti dimensioni stabilmente destinato a sala da pranzo del locale che deve pertanto essere qualificata come nuova opera per consistenza e funzione di ampliamento del locale dal punto di vista della volumetria e della superficie utile commerciale (cfr. Consiglio di Stato, Sez. I, 06.05.2013, n. 1193).
Infatti, come è stato osservato proprio con riguardo all’abusiva copertura di strutture del tipo di quella in esame (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 31.10.2013, n. 5265):
- dal punto di vista tecnico-giuridico la pompeiana, a prescindere dai materiali usati e dalle concrete categorie definitorie (porticato, pergolato, gazebo, berceau, dehor), è caratterizzata dal dover essere una struttura costruttiva leggera e aperta, la cui copertura (teli, rampicanti, assi distanziate) deve consentire di fare filtrare l’aria e la luce, assolvendo a finalità di ombreggiamento e di protezione nel passaggio o nella sosta delle persone, in soluzione di continuità con lo spazio circostante e senza creare interruzione dimensionale dell’ambiente in cui è installata;
- l’aspetto tipico di essa risiede nella mancanza di pareti e di una copertura integrale assimilabile ad un tetto o solaio, che si viene invece a concretizzare con una copertura che la faccia configurare come volume edilizio;
- la stabile destinazione funzionale a sala da pranzo comporta lo snaturamento dei caratteri propri della pompeiana;
- è da escludersi la possibilità di riscontrare precarietà dell'opera, ai fini dell'esenzione dal permesso di costruire, quando la medesima sia destinata a soddisfare bisogni non provvisori attraverso la permanenza nel tempo della sua funzione (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 22.12.2007, n. 6615).
Da quanto esposto emerge che l’intervento edilizio è qualificabile come nuova opera assoggettata al previo rilascio di un permesso di costruire, che la medesima era incompatibile con la destinazione agricola dell’area prevista dallo strumento urbanistico allora vigente, che era necessario il previo rilascio dell’autorizzazione paesaggistica in quanto si tratta di opera che altera l’aspetto esteriore dell’edificio cui accede e che pertanto correttamente il Comune ha sanzionato l’abuso con un’ordinanza di rimozione e ripristino allo stato originario ed autorizzato dei luoghi.
Il ricorso in definitiva deve essere respinto (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 22.03.2016 n. 297 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa realizzazione di interventi edilizi del tutto priva di titolo comporta una consapevole deviazione dalle regole che governano l’uso del territorio, sicché sul semplice decorso del tempo non può fondarsi alcun affidamento.
Stante la natura permanente dell’illecito edilizio e l’interesse pubblico alla repressione di esso, la giurisprudenza ha chiarito che l'affidamento può configurarsi e rendere necessaria una più estesa motivazione dei provvedimenti sanzionatori solo in presenza di atti o comportamenti dell'amministrazione dai quali esso possa effettivamente e attendibilmente trarre fonte.

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7c. Con il terzo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano la violazione di varie norme e principi, nonché eccesso di potere sotto diversi profili, in sostanza dolendosi della mancanza di una motivazione esaustiva circa il (preteso) affidamento ingenerato dal lungo periodo di inerzia del Comune di Lucca.
In realtà, come più volte sottolineato, gli abusi constatati dal Nucleo di Polizia edilizia nel 2009 risalgono (per ammissione dei ricorrenti stessi e dei periti da loro incaricati) al periodo 2001–2004, sicché manca in radice l’elemento tempo.
Quanto all’affidamento, la realizzazione di interventi edilizi del tutto priva di titolo comporta una consapevole deviazione dalle regole che governano l’uso del territorio, sicché sul semplice decorso del tempo non può fondarsi alcun affidamento. Stante la natura permanente dell’illecito edilizio e l’interesse pubblico alla repressione di esso, la giurisprudenza ha chiarito che l'affidamento può configurarsi e rendere necessaria una più estesa motivazione dei provvedimenti sanzionatori solo in presenza di atti o comportamenti dell'amministrazione dai quali esso possa effettivamente e attendibilmente trarre fonte (Consiglio di Stato, IV, 13.06.2013, n. 3182) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 21.03.2016 n. 515 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Effetto acquisitivo del manufatto abusivo.
L’effetto acquisitivo si ricollega automaticamente al decorso infruttuoso del termine di novanta giorni entro il quale le opere abusive devono essere demolite. Tuttavia, tale effetto, ai sensi dell’art. 31 T.U.ED., presuppone che l’area da acquisire sia stata individuata.
Ciò deve avvenire nell’atto di avvio del procedimento di acquisizione gratuita, con assegnazione all’interessato di un termine per fare le proprie verifiche e valutazioni e per presentare eventuali osservazioni; deve infatti consentirsi all’interessato di verificare il rispetto dei limiti dimensionali dell’acquisizione gratuita fissati dal comma terzo dell’art. 31 D.P.R. 380/2001, in cui è stabilito che il provvedimento di acquisizione può avere per oggetto solo il bene e l’area di sedime, nonché l’area necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quella abusiva.
La disposizione di cui trattasi precisa che l’area acquisita non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita e su tutti tali aspetti l’interessato deve poter interloquire con l’amministrazione in sede procedimentale, contribuendo con opportune osservazioni e/o produzioni documentali all’esercizio da parte della stessa di un potere connotato da discrezionalità tecnica.
Per altro, è soltanto grazie all’indicazione dell’area da acquisire che il privato può effettuare consapevolmente la scelta tra demolire il manufatto abusivo, sostenendone i costi ma conservando la proprietà dell’area, oppure abbandonare definitivamente il fabbricato e l’area di sedime.

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8b. Con la seconda e la terza censura dei motivi aggiunti in esame si deducono i vizi di violazione del giudicato cautelare formatosi sull’ordinanza di questo Tar n. 79/2013 e di violazione delle disposizioni in materia di acquisizione gratuita dell’area al patrimonio comunale.
Come si è già avuto modo di esporre, con la predetta ordinanza è stata respinta l’istanza cautelare sulla base della considerazione che il danno grave e irreparabile (collegato all’acquisizione dell’area) sarebbe derivato, eventualmente, da successivi atti dell’amministrazione, non già dall’ordinanza demolitoria che non specificava l’area da acquisire.
I ricorrenti sostengono che la nota d’avvio del procedimento di acquisizione –in cui il Comune di Lucca afferma di essere già proprietario dell’area in quanto il termine assegnato per ottemperare all’ingiunzione di demolizione è decorso infruttuosamente– viola il giudicato cautelare (l’ordinanza più volte richiamata non è stata impugnata) e pertanto deve considerarsi nullo ai sensi dell’art. 21-septies della legge n. 241/1990.
Inoltre, le disposizioni che regolano l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere abusive e dell’area sarebbero state violate per mancata individuazione dell’area stessa.
Il Comune resistente osserva, in contrario, che la proprietà dell’area di sedime dell’opera abusiva viene automaticamente acquisita per il semplice decorso dei novanta giorni assegnati per l’esecuzione dell’ingiunzione di demolizione dell’opera stessa; l’atto dell’amministrazione volto a quantificare la misura dell’area ha carattere soltanto ricognitivo e dichiarativo e l’unica contestazione possibile in tale fase riguarda la misura dell’area acquisita.
Con riguardo alla violazione del giudicato cautelare si osserva che l’ordinanza n. 79/2013 ha rilevato soltanto l’assenza del pregiudizio grave e irreparabile, essendo questo da ricollegare a successive determinazioni dell’amministrazione volte a individuare l’area da acquisire e ad accertare l’inottemperanza all’ingiunzione di demolizione. Tuttavia, una valutazione complessiva del secondo e del terzo motivo di ricorso induce a ritenere illegittimo l’operato dell’amministrazione per le ragioni che saranno subito esposte.
È infatti indubbiamente da condividere la tesi secondo cui l’effetto acquisitivo si ricollega automaticamente al decorso infruttuoso del termine di novanta giorni entro il quale le opere abusive devono essere demolite. Tuttavia, tale effetto, ai sensi dell’art. 31 T.U.ED., presuppone che l’area da acquisire sia stata individuata.
Ciò deve avvenire nell’atto di avvio del procedimento di acquisizione gratuita, con assegnazione all’interessato di un termine per fare le proprie verifiche e valutazioni e per presentare eventuali osservazioni; deve infatti consentirsi all’interessato di verificare il rispetto dei limiti dimensionali dell’acquisizione gratuita fissati dal comma terzo dell’art. 31 D.P.R. 380/2001, in cui è stabilito che il provvedimento di acquisizione può avere per oggetto solo il bene e l’area di sedime, nonché l’area necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quella abusiva (TAR Piemonte, I, n. 107/2013).
La disposizione di cui trattasi precisa che l’area acquisita non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita e su tutti tali aspetti l’interessato deve poter interloquire con l’amministrazione in sede procedimentale, contribuendo con opportune osservazioni e/o produzioni documentali all’esercizio da parte della stessa di un potere connotato da discrezionalità tecnica (TAR Lazio-Roma, I, 04.04.2001, n. 2918).
Per altro, è soltanto grazie all’indicazione dell’area da acquisire che il privato può effettuare consapevolmente la scelta tra demolire il manufatto abusivo, sostenendone i costi ma conservando la proprietà dell’area, oppure abbandonare definitivamente il fabbricato e l’area di sedime (in tal senso, TAR Lecce, sez. III, 03.02.2010, n. 435; TAR Piemonte, sent. su menzionata).
È chiaro che nel caso in esame nulla di tutto ciò è accaduto. E quindi, se è senz’altro vero che l’ordinanza di demolizione è legittima anche in mancanza di individuazione dell’area da acquisire e che l’accertamento dell’inottemperanza ha carattere meramente ricognitivo, è altrettanto vero che presupposto dell’automatico effetto acquisitivo è la regolarità del procedimento, anche sotto il profilo partecipativo.
In altri termini, il destinatario della sanzione demolitoria deve essere posto nelle condizioni di scegliere a ragion veduta fra l’ottemperanza e l’inottemperanza all’ingiunzione, con piena consapevolezza delle conseguenze dell’una e dell’altra opzione; ed è evidente che tale consapevolezza non può ravvisarsi nelle situazioni in cui l’individuazione dell’area da acquisire non sia avvenuta né al momento dell’ordinanza di demolizione né successivamente.
In conclusione, la nota impugnata è illegittima per le assorbenti ragioni testé indicate e va di conseguenza annullata (tratto da www.lexambiente.it - TAR Toscana, Sez. III, sentenza 21.03.2016 n. 515 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: È ammissibile l'affidamento diretto di un servizio a una società mista.
Il Consiglio di Stato, nella pronuncia in commento, affronta l’annoso tema della differenza tra la società in house e la società mista.
Nello specifico i giudici di Palazzo Spada stabiliscono l'ammissibilità dell'affidamento di un servizio pubblico (nel caso di specie per l'affidamento del servizio di igiene urbana) ad una società mista a condizione che si sia svolta in un'unica gara per la scelta del socio e per l'individuazione del determinato servizio da svolgere.
La differenza tra la società in house e la società mista consiste, secondo i giudici amministrativi, nel fatto che la prima agisce come un vero e proprio organo dell'amministrazione dal punto di vista sostanziale, mentre la diversa figura della società mista a partecipazione pubblica, in cui il socio privato è scelto con una procedura ad evidenza pubblica, presuppone la creazione di un modello nuovo, nel quale interessi pubblici e privati trovino convergenza.
In quest'ultimo caso, l'affidamento di un servizio ad una società mista è ritenuto ammissibile a condizione che si sia svolta una unica gara per la scelta del socio e l'individuazione del determinato servizio da svolgere, delimitato in sede di gara sia temporalmente che con riferimento all'oggetto.
La Corte di Giustizia ha, infatti, ritenuto l'ammissibilità dell'affidamento di servizi a società miste, a condizione che si svolga in unico contesto una gara avente ad oggetto la scelta del socio privato (socio non solo azionista, ma soprattutto operativo) e l'affidamento del servizio già predeterminato con obbligo della società mista di mantenere lo stesso oggetto sociale durante l'intera durata della concessione.
La chiave di volta del sistema è rappresentato dal fatto che l'oggetto sia predeterminato e non genericamente descritto, poiché altrimenti, è evidente, sarebbe agevole l'aggiramento delle regole pro-competitive a tutela della concorrenza. L'affidamento diretto di un servizio a una società mista non è incompatibile con il diritto comunitario, a condizione che la gara per la scelta del socio privato della società affidataria sia stata espletata nel rispetto dei principi di parità di trattamento, di non discriminazione e di trasparenza.
Inoltre, i criteri di scelta del socio privato si devono riferire non solo al capitale da quest’ultimo conferito, ma anche alle capacità tecniche di tale socio e alle caratteristiche della sua offerta in considerazione delle prestazioni specifiche da fornire, così da potersi inferire che la scelta del concessionario risulti indirettamente da quella del socio medesimo (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 15.03.2016 n. 1028 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVICon riguardo alla risalenza nel tempo della situazione di pericolo, il Consiglio di Stato ha optato per l'orientamento secondo cui non è opportuno distinguere tra i tipi di urgenza, a seconda che la stessa consista in una situazione preesistente oppure in un evento nuovo e imprevedibile, dato che una simile distinzione appare indifferente ai fini della tutela dell’interesse pubblico (cfr. Cons. di Stato, Sez. V, 29.04.1991, n. 700, a tenore della quale “il fatto che non si sia ancora provveduto non vuol dire necessariamente che l’urgenza non ci sia, ma piuttosto che si doveva provvedere prima o che la situazione si è aggravata», di tal che «escludere in radice, in questi casi, l’emanabilità di ordinanze di necessità e urgenza può significare esporre l’interesse pubblico ad un’ulteriore, forse definitiva, compromissione”, fermo restando ovviamente il sindacato giurisdizionale sull’eccesso di potere in cui potrebbe incorrere l’Amministrazione).
Anche le Sezioni unite della Corte di Cassazione, nello stesso senso, ammettono che le ordinanze contingibili e urgenti possono essere adottate anche al solo scopo, preventivo, di attenuare le probabilità del verificarsi di pregiudizi ulteriori, in relazione ad una situazione di pericolo preesistente, anziché per scongiurare incombenti pericoli derivanti da eventi eccezionali.

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I provvedimenti contingibili ed urgenti del tipo di quelli in esame rispondono alla necessità di far fronte ad una situazione di pericolo non altrimenti fronteggiabile, senza che possa rilevare l’esatta individuazione delle cause che hanno determinato la situazione su cui occorre intervenire, potendo al più queste ultime rilevare ai fini della allocazione delle responsabilità nelle sedi deputate all’espletamento di tale accertamento.
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Con il primo motivo parte ricorrente afferma che la problematica delle infiltrazioni sarebbe risalente e riconducibile a comportamenti inerti e negligenti proprio della resistente parte comunale che avrebbe omesso di svolgere le attività di manutenzione e ripristino più volte sollecitate dalla -OMISSIS--OMISSIS- e incombenti sull’Amministrazione comunale
Il motivo è infondato.
Giova rammentare che con riguardo alla risalenza nel tempo della situazione di pericolo, sono venuti a delinearsi due orientamenti: secondo una prima impostazione, il carattere contingibile delle ordinanze presuppone che esse si riferiscano ad una situazione nuova e imprevedibile, l’altra impostazione, invece, ritiene irrilevante la circostanza che la situazione di fatto esista già da tempo, considerato che anzi il ritardo può soltanto accentuare l’urgenza, anziché escluderla (cfr: da ultimo, TAR Puglia, Lecce, sez. II, 22.12.2015, n. 3673).
Il Consiglio di Stato ha optato per il secondo orientamento, sostenendo che non è opportuno distinguere tra i tipi di urgenza, a seconda che la stessa consista in una situazione preesistente oppure in un evento nuovo e imprevedibile, dato che una simile distinzione appare indifferente ai fini della tutela dell’interesse pubblico (cfr. Cons. di Stato, Sez. V, 29.04.1991, n. 700, a tenore della quale “il fatto che non si sia ancora provveduto non vuol dire necessariamente che l’urgenza non ci sia, ma piuttosto che si doveva provvedere prima o che la situazione si è aggravata», di tal che «escludere in radice, in questi casi, l’emanabilità di ordinanze di necessità e urgenza può significare esporre l’interesse pubblico ad un’ulteriore, forse definitiva, compromissione”, fermo restando ovviamente il sindacato giurisdizionale sull’eccesso di potere in cui potrebbe incorrere l’Amministrazione).
Anche le Sezioni unite della Corte di Cassazione, nello stesso senso, ammettono che le ordinanze contingibili e urgenti possono essere adottate anche al solo scopo, preventivo, di attenuare le probabilità del verificarsi di pregiudizi ulteriori, in relazione ad una situazione di pericolo preesistente, anziché per scongiurare incombenti pericoli derivanti da eventi eccezionali (Cass. civ., Sez. un., 17.01.2002, n. 490).
Deve quindi concludersi che, nel caso di specie, la circostanza che la ricorrente avesse formulato nel tempo diverse doglianze concernenti la problematica delle infiltrazioni non vale di per sé stessa ad escludere la sussistenza dei presupposti per l’adozione dell’ordinanza impugnata.
Considerazioni sostanzialmente analoghe possono essere ribadite con riguardo alla seconda censura secondo cui le infiltrazioni d’acqua che hanno dato origine all’ordinanza di sgombero sarebbero dipendenti dall’inerzia dell’Amministrazione.
Tale circostanza deve ritenersi irrilevante ai fini dell’esercizio del contestato potere extra ordinem, atteso che i provvedimenti contingibili ed urgenti del tipo di quelli in esame rispondono alla necessità di far fronte ad una situazione di pericolo non altrimenti fronteggiabile (cfr: Consiglio Stato, sez. VI, 16.04.2003, n. 1990), senza che possa rilevare l’esatta individuazione delle cause che hanno determinato la situazione su cui occorre intervenire, potendo al più queste ultime rilevare ai fini della allocazione delle responsabilità nelle sedi deputate all’espletamento di tale accertamento (TAR Molise, sentenza 11.03.2016 n. 122 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Lottizzazione senza condono.
Il condono copre le opere edilizie contro legge e non anche la lottizzazione abusiva. È così che se il reato è prescritto ma la confisca risulta confermata, il comune ordina al proprietario di consegnargli l'immobile: la sanatoria delle opere, infatti, è compatibile con la misura ablativa penale ma soltanto con l'eventuale autorizzazione a lottizzare concessa in sanatoria l'ente locale può rinunciare ad acquisire le aree al patrimonio indisponibile comunale.

È quanto emerge dalla sentenza 10.03.2016 n. 668, pubblicata dal TAR Sicilia-Palermo, Sez. II.
L'amministrazione si convince a non demolire i fabbricati. È evidente che l'autorizzazione a lottizzare in sanatoria non può estinguere il reato, ma dimostra soltanto ex post la conformità della lottizzazione agli strumenti urbanistici.
E nella specie non conta che sia intervenuta nelle more la concessione in sanatoria per le opere edilizie realizzate sui singoli lotti: il titolo abilitativo che è sopravvenuto, infatti, legittima soltanto il manufatto interessato, ma non comporta alcuna valutazione di conformità di tutta la lottizzazione rispetto alle scelte generali di pianificazione urbanistica; la revocabilità del provvedimento ablatorio consegue invece soltanto all'adozione di un provvedimento esplicito che «legittima» la lottizzazione, emesso dall'autorità amministrativa competente.
Nel nostro caso il comune rispetta l'articolo 19 della legge 47/1985 che vincola l'ente ad acquisire al proprio patrimonio le opere realizzate in assenza di concessione edilizia e a seguito di lottizzazione abusiva, benché oggetto di condono (articolo ItaliaOggi del 30.04.2016).
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MASSIMA
Nel merito, re melius perpensa rispetto alla fase cautelare, ritiene però il Collegio che il ricorso sia infondato.
Invero, per come emerge da un più attento esame della documentazione in atti, nel caso di specie il reato contestato ai ricorrenti era quello di lottizzazione abusiva e non di mera costruzione di opere abusive.
La confisca disposta dal giudice penale è quindi disciplinata dall’art. 19 l. n. 47/1985, applicabile ratione temporis, a norma del quale: “La sentenza definitiva del giudice penale che accerta che vi è stata lottizzazione abusiva, dispone la confisca dei terreni abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite. Per effetto della confisca i terreni sono acquisiti di diritto e gratuitamente al patrimonio del Comune nel cui territorio è avvenuta la lottizzazione abusiva. La sentenza definitiva è titolo per la immediata trascrizione nei registri immobiliari.”
Secondo il prevalente orientamento della giurisprudenza, che il Collegio ritiene di condividere:
- in tema di lottizzazione abusiva, la sanatoria per condono edilizio delle costruzioni abusive eseguite non è incompatibile con il provvedimento di confisca delle aree lottizzate, esplicando influenza a tali effetti solo l'eventuale autorizzazione a lottizzare concessa in sanatoria. Invero, solo questa, pur non estinguendo il reato di lottizzazione abusiva, dimostra ex post la conformità della lottizzazione agli strumenti urbanistici e la volontà dell'amministrazione di rinunciare all’acquisizione delle aree al patrimonio indisponibile comunale;
- il rilascio della concessione in sanatoria per le opere edilizie realizzate sui singoli lotti non è incompatibile con la confisca del terreno lottizzato, poiché il titolo abilitante sopravvenuto legittima soltanto l'opera edilizia che ne costituisce l'oggetto, ma non comporta alcuna valutazione di conformità di tutta la lottizzazione alle scelte generali di pianificazione urbanistica;
- la revocabilità del provvedimento ablatorio consegue solo all'adozione di un provvedimento esplicito da parte della competente Autorità amministrativa autorizzatorio della lottizzazione
(cfr., in termini, da ultimo, Cass. pen. 29/10/2015, n. 43591).
Nel caso di specie risulta che il Comune ha concesso la sanatoria per le opere abusive, ma non per la lottizzazione.
Segue da ciò che l’Amministrazione ha operato legittimamente in base al disposto di cui all’art. 19 l. n. 47/1985 che lo vincolava ad acquisire al proprio patrimonio le opere realizzate in assenza di concessione edilizia e a seguito di lottizzazione abusiva, ancorché oggetto di sanatoria.
Il ricorso va quindi rigettato.

VARI: L'esame patente non è da rifare. Restituzione del titolo dopo tre anni.
All'automobilista è restituita la patente ma il ministero dei Trasporti ordina che l'interessato debba rifare l'esame. E invece no: il provvedimento è annullato perché l'amministrazione non spiega il motivo che impone la revisione. Il fatto che l'interessato sia rimasto per tre anni senza poter guidare, e dunque potrebbe avere perso molto smalto al volante, emerge solo dalla relazione depositata in sede istruttoria per ordine del Tar. E di per sé non basta per rimandare a scuola guida il titolare della licenza.
Così la sentenza 18.02.2016 n. 2113 della Sez. III-ter del TAR Lazio-Roma.
La comunicazione con cui la prefettura restituisce la patente ritirata non fa cenno ad alcun dubbio sulle residue capacità tecniche di conduzione dei veicoli in capo all'interessato. Ed è stato il giudice a ordinare che fosse depositata la nota dell'ufficio del governo oltre che la dettagliata relazione sulle circostanze che hanno portato alla revisione della patente.
Si configura il difetto di motivazione nel provvedimento che ha appiedato l'automobilista: la necessità di rifare l'esame è indicata rispetto all'idoneità tecnica alla guida e non anche ai requisiti psico-fisici; se l'amministrazione avesse comunicato l'avvio del procedimento l'automobilista avrebbe potuto difendersi meglio in giudizio; non conta che la commissione medica locale abbia dichiarato l'interessato non idoneo per tutte le categorie di patenti: il titolare della patente conserva l'interesse a impugnare il provvedimento perché potrebbe comunque ricevere l'ok in seguito (articolo ItaliaOggi del 28.04.2016).

EDILIZIA PRIVATASebbene a seguito della presentazione della DIA non si formi alcun provvedimento tacito, una volta spirato il termine per l’esercizio del potere inibitorio, l’amministrazione può ancora intervenire per contrastare l’attività edilizia non conforme alla vigente normativa, esercitando un potere di autotutela sui generis (sui generis proprio perché non ha ad oggetto un provvedimento di primo grado) che condivide con l’ordinario potere di autotutela i principi che ne governano l’esercizio.
E’ pertanto indispensabile, affinché tale potere possa dirsi legittimamente esercitato, che, ai sensi dell’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990, l’autorità amministrativa invii all’interessato la comunicazione di avviso di avvio del procedimento, che l’atto di autotutela intervenga tempestivamente, e che in esso si dia conto delle prevalenti ragioni di interesse pubblico concrete ed attuali, diverse da quelle al mero ripristino della legalità violata, che depongono per la sua adozione, tenendo in considerazione gli interessi dei destinatari e dei controinteressati.

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28. La giurisprudenza ritiene che, sebbene a seguito della presentazione della DIA non si formi alcun provvedimento tacito, una volta spirato il termine per l’esercizio del potere inibitorio, l’amministrazione possa ancora intervenire per contrastare l’attività edilizia non conforme alla vigente normativa, esercitando un potere di autotutela sui generis (sui generis proprio perché non ha ad oggetto un provvedimento di primo grado) che condivide con l’ordinario potere di autotutela i principi che ne governano l’esercizio (cfr. Consiglio di Stato, ad. plen., 29.07.2011 n. 15).
29. E’ pertanto indispensabile, affinché tale potere possa dirsi legittimamente esercitato, che, ai sensi dell’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990, l’autorità amministrativa invii all’interessato la comunicazione di avviso di avvio del procedimento, che l’atto di autotutela intervenga tempestivamente, e che in esso si dia conto delle prevalenti ragioni di interesse pubblico concrete ed attuali, diverse da quelle al mero ripristino della legalità violata, che depongono per la sua adozione, tenendo in considerazione gli interessi dei destinatari e dei controinteressati (TAR Lombardia-Milano, sez. II, sentenza 18.02.2016 n. 355 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il costruttore, quale diretto responsabile dell'opera, prima di iniziare i lavori ha il dovere di controllare che siano state richieste e rilasciate le prescritte autorizzazioni.
L’art. 29, primo comma, del D.P.R. 06.06.2001, n. 380 dispone che: <<Il titolare del permesso di costruire, il committente e il costruttore sono responsabili, ai fini e per gli effetti delle norme contenute nel presente capo, della conformità delle opere alla normativa urbanistica, alle previsioni di piano nonché, unitamente al direttore dei lavori, a quelle del permesso e alle modalità esecutive stabilite dal medesimo. Essi sono, altresì, tenuti al pagamento delle sanzioni pecuniarie e solidalmente alle spese per l'esecuzione in danno, in caso di demolizione delle opere abusivamente realizzate, salvo che dimostrino di non essere responsabili dell'abuso>>.
Coerentemente con la finalità di assicurare il rispetto della normativa edilizia (coinvolgendo nella responsabilità i vari soggetti che vengono in rilievo), la definizione legislativa di costruttore è rivolta ad ogni soggetto che, attraverso la propria opera, abbia concorso alla realizzazione dell’opera abusiva.
In tal senso, la legge ha riguardo all’assuntore dei lavori (ossia a colui che ha assolto all’incarico di costruire il manufatto o di eseguirvi opere edili), tenuto a verificare la conformità del proprio operato alle disposizioni di legge e regolamentari in materia.
Tale evidenza è stata rimarcata in giurisprudenza laddove: “Secondo quanto disposto dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 29, anche l'assuntore dei lavori, indicato come costruttore, è responsabile della conformità delle opere alla normativa urbanistica, alle previsioni di piano nonché, unitamente al direttore dei lavori, a quelle del permesso e alle modalità esecutive stabilite dal medesimo. Si è pertanto specificato che il costruttore, quale diretto responsabile dell'opera, prima di iniziare i lavori, ha il dovere di controllare che siano state richieste e rilasciate le prescritte autorizzazioni, (…) perché la responsabilità del costruttore trova il suo fondamento nella violazione dell'obbligo, imposto dalla legge, di osservare le norme in materia urbanistica-edilizia".

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... per l'annullamento dell'ingiunzione di demolizione del Responsabile del Settore Urbanistica n. 144 del 18.12.2008, nei confronti della Società ricorrente nonché degli ulteriori soggetti individuati in essa e nel contestuale diniego di condono.
...
1.- Con l’impugnato provvedimento sono state respinte tre domande di condono edilizio del 15/11/2014 ed è stata ingiunta “la demolizione dell’intero fabbricato composto da 4 piani oltre il terrapieno, delle ulteriori tettoie e gazebi realizzati sui terrazzi e dei garage lungo Via C., realizzati in totale difformità dall’autorizzazione n. 81/99 ed in assenza di permesso di costruire e di nulla osta BB.AA., sopra dettagliatamente descritti, sull’area sita alla Via C. n. 102, individuati in catasto al foglio di mappa n. 21 particella n. 308, 792 e 793”.
L’ingiunzione di demolizione è stata formulata (oltre che nei confronti dei committenti dei lavori e comproprietari del bene) anche nei riguardi della Società ricorrente, “nella qualità di impresa esecutrice” (ed, altresì, dei direttori dei lavori).
1.1- Ciò posto, deve essere disattesa la censura con cui la Società ricorrente sostiene che non poteva essere considerata destinataria dell’ordine di demolizione.
Si fa leva sulla considerazione secondo cui il T.U. edilizia pone in rilievo la figura del “costruttore”, senza ulteriore specificazione e non potendo ricomprendervi l’imprenditore nel campo dell’edilizia, che va più propriamente definito appaltatore (si afferma quindi che, per “costruttore”, deve intendersi il soggetto che prometta in vendita un immobile da costruire, secondo l’accezione adoperata dall’art. 1, primo comma, lett. b), del d.lgs. n. 122/2005).
La tesi è priva di pregio.
L’art. 29, primo comma, del D.P.R. 06.06.2001, n. 380 dispone che: <<Il titolare del permesso di costruire, il committente e il costruttore sono responsabili, ai fini e per gli effetti delle norme contenute nel presente capo, della conformità delle opere alla normativa urbanistica, alle previsioni di piano nonché, unitamente al direttore dei lavori, a quelle del permesso e alle modalità esecutive stabilite dal medesimo. Essi sono, altresì, tenuti al pagamento delle sanzioni pecuniarie e solidalmente alle spese per l'esecuzione in danno, in caso di demolizione delle opere abusivamente realizzate, salvo che dimostrino di non essere responsabili dell'abuso>>.
Coerentemente con la finalità di assicurare il rispetto della normativa edilizia (coinvolgendo nella responsabilità i vari soggetti che vengono in rilievo), la definizione legislativa di costruttore è rivolta ad ogni soggetto che, attraverso la propria opera, abbia concorso alla realizzazione dell’opera abusiva.
In tal senso, la legge ha riguardo all’assuntore dei lavori (ossia a colui che ha assolto all’incarico di costruire il manufatto o di eseguirvi opere edili), tenuto a verificare la conformità del proprio operato alle disposizioni di legge e regolamentari in materia.
Tale evidenza è stata rimarcata in giurisprudenza [cfr., di recente, Cass. pen., Sez. III, 22.04.2015 n. 16802: “Secondo quanto disposto dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 29, anche l'assuntore dei lavori, indicato come costruttore, è responsabile della conformità delle opere alla normativa urbanistica, alle previsioni di piano nonché, unitamente al direttore dei lavori, a quelle del permesso e alle modalità esecutive stabilite dal medesimo. Si è pertanto specificato che il costruttore, quale diretto responsabile dell'opera, prima di iniziare i lavori, ha il dovere di controllare che siano state richieste e rilasciate le prescritte autorizzazioni, (…) perché la responsabilità del costruttore trova il suo fondamento nella violazione dell'obbligo, imposto dalla legge, di osservare le norme in materia urbanistica-edilizia (così Sez. 3, n. 860 del 25/11/2004 (dep. 2005), Cima, Rv. 230663)”].
Nella specie, non è contestato che la Società ricorrente avesse assunto l’incarico di eseguire i lavori, portandoli a compimento, in virtù della comunicazione d’inizio lavori prot. n. 18652 del 14/12/2000, richiamata nel provvedimento impugnato (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 18.11.2015 n. 5306 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' consolidata in giurisprudenza l’affermazione per cui dall’abusività dell’opera scaturisce con carattere vincolato l’ordine di demolizione, che in ragione di tale sua natura non esige una specifica motivazione o la comparazione dei contrapposti interessi, senza che assuma rilievo il lasso di tempo intercorso, non potendo ammettersi la conservazione di una situazione “contra legem”.
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... per l'annullamento dell'ingiunzione di demolizione del Responsabile del Settore Urbanistica n. 144 del 18.12.2008, nei confronti della Società ricorrente nonché degli ulteriori soggetti individuati in essa e nel contestuale diniego di condono.
...
1.2- Anche le ulteriori censure vanno respinte.
Giova premettere che il ricorso promosso da alcuni dei proprietari avverso lo stesso provvedimento è stato respinto da questa Sezione con sentenza del 21.07.2015 n. 3829.
Alla stregua di quanto già statuito in quella pronuncia, vanno disattesi i rilievi critici formulati dalla ricorrente in ordine all’applicazione, nella specie, dell’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001.
L’accertamento compiuto dal Comune ha infatti verificato che: “Dal confronto dei grafici e dei rilievi fotografici allegati all’autorizzazione 81/99, con un esame visivo dell’attuale stato dei luoghi si rileva una totale difformità del fabbricato realizzato rispetto alla predetta autorizzazione edilizia” (cfr. pag. 2 del provvedimento).
Nello stesso provvedimento sono di seguito descritte le modifiche apportate, riguardanti:
- i prospetti di via C. e via Suor L.R. (che presentano, rispettivamente, 4 piani oltre il terrapieno e 3 livelli fuori terra), da cui “è rilevabile la modifica delle quote dei solai d’interpiano”;
- un ulteriore piano in ampliamento al vano preesistente in copertura e un aumento di superficie e volume al lato sud al secondo impalcato;
- l’aumento di unità abitative;
- un manufatto in c.a. lungo via C. con quattro aperture, adibito presumibilmente a deposito/garage;
- la completa modifica dei prospetti e della sagoma in conseguenza delle variazioni delle quote dei solai e dell’ulteriore piano realizzato in copertura;
- la presenza di tettoie in legno e ferro su vari lati;
- la sistemazione dell’area di pertinenza e di quella adiacente, con percorsi pavimentati, scale di collegamento tra le quote e arredo giardino per le unità abitative.
Risulta da ciò palese la realizzazione di un organismo totalmente diverso dal fabbricato preesistente (per il quale era stata rilasciata l’autorizzazione n. 81/99, per interventi di manutenzione straordinaria e restauro conservativo), tenendo conto che:
- l’edificio era “composto da terrapieno di altezza 3.00 mt, piano terra e primo piano, nonché un vano di circa 30 mq. sul lato nord ovest prospiciente via Capodivilla al piano secondo” (cfr. il provvedimento impugnato);
- i lavori di cui alla citata autorizzazione n. 81/99 consistevano “principalmente nella demolizione e ricostruzione dei solai, senza modifiche dei prospetti, senza aumenti di volumetrie, superficie e numero delle unità immobiliari” (cfr. ancora il provvedimento impugnato).
La veridicità dell’accertamento (debitamente effettuato dall’U.T.C., dotato di specifiche competenze) non è scalfita dalle deduzioni della parte ricorrente, mostrandosi aderente alla realtà delle cose ed immune dai vizi di legittimità dedotti la ricostruzione dei presupposti di fatto, compiuta dal Comune resistente ed ampiamente illustrata nella congrua motivazione che correda il provvedimento impugnato.
In particolare, si palesa l’avvenuta realizzazione di due sopraelevazioni a fini residenziali, di mq. 138 e mq. 135, con incremento dunque dei volumi e variazione della sagoma e dei prospetti, visibili dall’esterno ai fini della verifica della difformità.
Ciò giustifica l’ingiunzione di demolizione delle opere abusivamente realizzate, concernente l’intero fabbricato che si connota quale un organismo edilizio integralmente diverso dal precedente, assoggettato perciò nella sua interezza alla sanzione demolitoria, ai sensi dell’art. 31 del D.P.R. n. 380/2001 (che riunisce nell’unica disposizione le fattispecie dell’assenza del permesso di costruire e della totale difformità dal titolo rilasciato).
Quanto all’asserito difetto di motivazione in ordine all’interesse pubblico e alla rilevanza del decorso del tempo, è consolidata in giurisprudenza l’affermazione per cui dall’abusività dell’opera scaturisce con carattere vincolato l’ordine di demolizione, che in ragione di tale sua natura non esige una specifica motivazione o la comparazione dei contrapposti interessi, senza che assuma rilievo il lasso di tempo intercorso, non potendo ammettersi la conservazione di una situazione “contra legem” (cfr., per tutte, Cons. Stato – Sez. V, 28.04.2014 n. 2196).
2.- Conclusivamente, il ricorso va dunque respinto (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 18.11.2015 n. 5306 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: PROCESSO VERBALE D’AGGIUDICAZIONE E VINCOLO CONTRATTUALE PRIMA E DOPO L’AVVENTO DEL CODICE DEI CONTRATTI PUBBLICI.
Sino all’entrata in vigore dell’art. 11 del D.Lgs. n. 163/2006, nei contratti stipulati dalla P.A. con il sistema dell’asta pubblica o della licitazione privata, il processo verbale di aggiudicazione definitiva equivaleva a ogni effetto al contratto, con forza immediatamente vincolante per entrambe le parti (art. 16, R.D. n. 2440/1923; artt. 88, 89, 97, R.D. n. 827/1924), salvo che dal verbale stesso non emergesse la volontà della P.A. di rinviare la costituzione del vincolo al momento successivo della stipulazione del contratto la quale, in tal caso, non assume il valore di un mero atto formale e riproduttivo, ma rappresenta la vera ed unica fonte del rapporto per entrambe le parti.
Un’impresa convenne al Tribunale civile una società interportuale marittima dolendosi di avere subito -quale aggiudicataria provvisoria di un ingente appalto di lavori, malgrado la tempestiva trasmissione di ogni documento necessario per la sottoscrizione del contratto- una revoca dell’affidamento per non avere dimostrato la propria capacità economico- finanziaria.
Nella domanda era chiesto l’accertamento della valida formazione del vincolo contrattuale, oltre alla condanna per lucro cessante ai sensi dell’art. 345, L. n. 2248/allF/1865, in allora vigente, ovvero a una maggiore somma a titolo di responsabilità contrattuale.
La convenuta eccepiva, in priorità, il difetto di giurisdizione del G.O. e deduceva nel merito l’infondatezza della pretesa. Il Tribunale riteneva sussistente la giurisdizione e, ravvisando nella specie un’ipotesi di recesso ad nutum del committente, riconosceva all’appaltatore il diritto a ricevere il 10% del prezzo dell’appalto secondo il dettato dell’art. 345, cit.
La sentenza era gravata dalla stazione appaltante, censurando anzitutto la ritenuta giurisdizione del G.O. in ragione del fatto che -avendo in precedente occasione il Consiglio di Stato affermatane la natura di ente pubblico- ne discendeva la presenza di un interesse pubblico nell’azione da essa svolta, pur senza la necessità che fossero posti in essere atti amministrativi.
Ancora, l’appellante poneva censure di merito alla sentenza resa, deducendo che la società aveva partecipato alla gara producendo documentazione attestante una solidità economica che, invece, non sussisteva: per il che l’appellante -che tramite la revoca dell’aggiudicazione aveva legittimamente esercitato, per fini di pubblico interesse, il proprio potere autoritativo- non poteva essere destinataria di condanna.
La Corte territoriale rigettava l’appello.
Contro la sentenza ricorre per cassazione l’interporto, contestando la sussistenza di giurisdizione ordinaria, in favore di quella amministrativa, in ragione del fatto che la controversia, promossa nel 1998 dall’aggiudicatario di un contratto d’appalto di lavori pubblici, mira a ottenere la condanna della Stazione appaltante -ente pubblico- al risarcimento derivato dall’esercizio del potere di revoca legittimamente esercitato, perché la committente dopo l’aggiudicazione provvisoria ma prima della definitiva e della stipula del contratto aveva disposto, in via di autotutela, la revoca della stessa per ragioni di interesse pubblico adeguatamente esplicitati nella motivazione del relativo atto amministrativo assunto.
Non essendo, a dir della ricorrente, giunti alla sottoscrizione del contratto dopo l’aggiudicazione, non era sorto alcun diritto soggettivo in capo all’impresa, versante ancora in mera situazione di interesse legittimo a fronte del provvedimento di revoca.
La Corte non condivide l’assunto, osservando che alla data dell’aggiudicazione (17.02.1997) ancora vigeva il modello poggiante sul combinato disposto degli artt. 16, R.D. n. 2440/1923; 88, 89, 97 del R.D. n. 827/1924, applicabili agli enti locali per il richiamo contenuto all’art. 140 del R.D. n. 383/1934 e all’art. 56 della L. n. 142/1990. Sicché, osserva la Suprema Corte, il vincolo contrattuale si è formato tra le parti per il solo effetto della comunicazione dell’aggiudicazione sicché la decisione della stazione appaltante di sciogliersi dal vincolo deve considerarsi recesso intervenuto nell’ambito di una vicenda contrattuale retta dal regime civilistico, con conseguente sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario.
Questo anche in base alla giurisprudenza consolidata su tale disciplina, per la quale nei contratti stipulati dalla P.A. con il sistema dell’asta pubblica o della licitazione privata, il processo verbale di aggiudicazione definitiva equivale per ogni effetto legale al contratto, con forza immediatamente vincolante, sia per l’ente che per l’altro contraente, salvo che dal verbale stesso non risulti la volontà della P.A. di rinviare la costituzione del vincolo al momento successivo della stipulazione del contratto la quale, in tal caso, non assume il valore di un mero atto formale e riproduttivo, ma rappresenta la vera ed unica fonte del rapporto per entrambe le parti (ex plurimis, Cass. nn. 7481/2007; 1103/2004, 9366/2003, 8420/2000, 5807/1998, 11513/1997, 5771/1990, 2938/1984, 5702/1981, 5404/1981, 1695/1979, 5295/1977, 4781/1977; Cons. Stato, Sez. 5, 2331/2001; Cons. Stato, Sez. 4, n. 16/1996).
Il predetto sistema normativo non è stato modificato neppure dalla L. n. 109/1994, che non ha in alcun modo reso obbligatorio il successivo contratto per l’insorgenza del vincolo negoziale (Cass. n. 5217/2011). A tale proposito è stato osservato che il successivo D.Lgs. n. 490/1994 che ha introdotto la necessità di fornire in sede di appalto documentazioni di prevenzione da infiltrazioni mafiose, ha disposto che il relativo accertamento sfavorevole può sopravvenire alla conclusione del contratto e comportarne l’invalidità, senza perciò interferire sui fatti generatori del contratto (Cass. n. 5217/2011).
Neppure il d.P.R. n. 554/1999 (artt. 45 ss. e 110 ss.) ha fatto determinato l’effetto “costitutivo dell’accordo” in capo al provvedimento di aggiudicazione: infatti l’art. 109, comma 3, d.P.R., cit. ha lasciato impregiudicata la facoltà della stazione appaltante di prevedere “la stipula del contratto o la sua approvazione” ed ha significativamente attribuito alla impresa, qualora la stipulazione non avvenga nei termini stabiliti, il diritto di “sciogliersi da ogni impegno o recedere dal contratto”.
Dal che si deduce che il contratto, anche nel regime di questa normativa, può trarre origine direttamente ed immediatamente dal provvedimento di aggiudicazione (Cass. n. 5217/2011).
La modifica di questo modello si è avuta solo con l’art. 11 del D.Lgs. n. 163/2006 (Codice dei contratti pubblici), giusta quale tal separazione è divenuta “regola”: ivi si stabilisce che l’aggiudicazione definitiva non equivale a accettazione dell’offerta che è irrevocabile, per l’impresa, fino al termine, stabilito nel comma 9 (pari a 60 giorni o al diverso termine previsto dalla legge di gara, decorrenti dall’aggiudicazione provvisoria, salva la possibilità di dar esercitare il potere di autotutela nei casi stabiliti dalla legge). Solo alla loro scadenza, l’operatore economico è legittimato a svincolarsi o a recedere dal contratto, senza altro indennizzo che non siano le spese contrattuali documentate.
Il Codice dei contratti pubblici, quindi, disciplina diversamente termini e modalità per la stipula del contratto e le relative vicende che peraltro, a differenza di quelle dell’aggiudicazione, per le quali è stata introdotta una nuova ipotesi di giurisdizione esclusiva, restano attribuite alla giurisdizione ordinaria (Cass. n. 5217/2011) (
Corte di Cassazione, SS.UU. civili, sentenza 13.07.2015 n. 14555 - Urbanistica e appalti n. 10/2015).

URBANISTICA: EFFETTI DEL VINCOLO DI INEDIFICABILITÀ E CONSEGUENZE SUL PROCEDIMENTO ESPROPRIATIVO.
I vincoli d’inedificabilità -sia per risalente giurisprudenza di legittimità quanto, ora, per espressa previsione dell’art. 37, comma 4, d.P.R. n. 327/2001- non hanno valenza espropriativa.
Alcuni privati convennero avanti la Corte d’appello un’Amministrazione comunale opponendosi alla stima definitiva, espressa dalla competente Commissione Provinciale, per l’occupazione e la successiva espropriazione di un’area per la realizzazione di una Residenza Sanitaria Assistita.
La Corte distrettuale, all’esito di CTU, con sentenza determinava le indennità d’espropriazione, d’occupazione e di soprassuolo, oltre agli interessi legali decorrenti dalla domanda per tutte le suddette indennità, nei termini di cui in motivazione. Disponeva, inoltre, che il Comune depositasse gli importi differenziali presso la Cassa Depositi e Prestiti.
La determinazione della Corte era motivata sul presupposto che al momento dell’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio - avvenuta con la delibera giuntale di approvazione del progetto esecutivo - l’intera area, poi espropriata con decreto del 18 dicembre 1999, era già inserita dal PRG al tempo vigente in zona F (aree destinate agli impianti pubblici ed attrezzature civili gestiti da Enti Pubblici) e destinata a servizi sanitari.
Ancora, che l’edificazione era avvenuta ad opera di un soggetto privato, in regime di finanziamento di progetto, in base ad una convenzione; che il terreno, posto all’interno della perimetrazione del centro urbano e in zona dotata d’ogni opera d’urbanizzazione, fu espropriato per la realizzazione d’una struttura di interesse pubblico, destinata a servizio dell’intero Comune, sì da integrare la previsione dell’art. 4, D.M. n. 1444/1968 secondo cui gli spazi per le attrezzature pubbliche d’interesse generale -quando ne fosse risultata l’esigenza di prevederle- dovevano essere previste in misura non inferiore in rapporto alla popolazione del territorio servito; che le aree in zona F costituivano, nella previsione degli strumenti urbanistici, non già un corpo separato rispetto alle altre zone (A, B, C, D, alla cui destinazione edificatoria erano funzionali) ma concorrevano con esse a determinare l’indice edilizio territoriale dell’area di cui si trattava, giacché esse erano il corredo necessario e l’elemento costitutivo della edificabilità della zona specifica a cui inerivano secondo una proporzione necessaria per volontà legislativa, sicché erano piena mente partecipi di tutti i parametri edificatori che le caratterizzavano.
La determinazione dell’indennizzo, per conseguenza, non doveva essere fatta tenendo conto del valore venale dei fondi agricoli ma facendo applicazione dei criteri stabiliti per i terreni edificabili.
La costruzione della residenza per anziani era destinata a servizio dell’intero Comune, cosicché nella determinazione dell’indice di edificabilità non doveva farsi riferimento al valore di 1,5 mc/mq, indicato nella variante allo strumento urbanistico approvata in previsione della realizzazione dell’opera bensì all’indice medio di edificabilità comprensoriale (vale a dire della parte di territorio che traeva beneficio dalla realizzazione dell’opera pubblica) calcolato con riguardo al rapporto intercorrente tra la superficie di territorio urbano limitrofo all’area in questione e la relativa volumetria che su di esso era edificata. Parimenti erano da riconoscersi l’indennità di soprassuolo per un pozzo romano e annesso complesso in muratura; l’indennità per occupazione d’urgenza; gli interessi legali sulla somma corrispondente al valore del terreno, rivalutata annualmente.
Avverso questa sentenza il Comune ha proposto ricorso per Cassazione, che la Suprema Corte accoglie per la sola censura involgente la violazione e/o la falsa applicazione dell’art. 5-bis, comma 3, D.L. n. 333/1992, convertito in L. n. 359/1992, nonché dei principi in materia di criteri per l’individuazione dell’edificabilità dei terreni espropriati.
La Cassazione ribadisce che la vocazione edificatoria delle aree è correlata solo alla destinazione privata (residenziale, industriale, commerciale) degli insediamenti che su di esse abbiano ad essere realizzati, mentre la destinazione pubblica dell’insediamento rende irrilevanti od assorbe le modalità della sua realizzazione, quand’anche gli interventi siano effettuati da privati e la gestione sia assicurata da enti od imprese private. Osserva che, nella specie, la destinazione attribuita al terreno dal PRG al tempo vigente (“aree destinate agli impianti pubblici e attrezzature civili gestiti da Enti Pubblici”) era in modo inequivoco d’indole conformativa e comportava l’inedificabilità legale del terreno oggetto d’occupazione e successiva espropriazione, indipendentemente dal vincolo espropriativo derivato dalla sopravvenuta delibera giuntale che approvava il progetto esecutivo dei servizi salutari (Cass. nn. 611/2014; 14840/2013; 15090/2012; 12496,18430 e 19938/2011; 404 e 12862/2010; 17995/2009; 15616/2007; 23028/2004). Ancora, osserva che i vincoli d’inedificabilità in base alla risalente giurisprudenza di legittimità e ora all’espressa previsione del T.U. Edilizia di cui al d.P.R. n. 327 del 2001 (art. 37, comma 4) non sono espropriativi e rendono soltanto il terreno inedificabile.
In applicazione degli esposti principi di diritto, dunque, la Suprema Corte dispone procedersi alla rideterminazione sia dell’indennità di espropriazione, commisurandola al valore di mercato del terreno (stante la sopravvenuta declaratoria d’incostituzionalità di cui alla sentenza Corte cost. n. 181/2011) sia dell’indennità di occupazione legittima, secondo il noto criterio di relativa quantificazione contemplato dalla L. n. 865/1971 per i terreni agricoli, non attinto da pronunce del giudice delle leggi e ribadito dal T.U. n. 327/2001 (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 15.06.2015 n. 12318 - Urbanistica e appalti n. 8-9/2015).

EDILIZIA PRIVATA: IPOTESI IN CUI DEVE ESSERE PRODOTTO IL CERTIFICATO DI DESTINAZIONE URBANISTICA E VALENZA DI DESTINAZIONI IN ITINERE.
Il certificato di destinazione urbanistica è necessario soltanto per la valida conclusione del contratto definitivo, posto che l’art. 18, comma 2, L. n. 47/1985 si riferisce ai soli contratti che determinano effetti reali e non anche a quelli con effetti obbligatori, come il preliminare di compravendita: se ne ha che il c.d.u. va allegato nel solo primo caso oppure -in ipotesi di azione ex art. 2932 c.c.- va prodotto nel fascicolo di giudizio, attesa la funzione sostitutiva di tale azione del contratto definitivo non concluso.
La vocazione agricola o edificatoria del terreno va scrutinata con riguardo al momento della conclusione del contratto, senza che possa avere incidenza la destinazione urbanistica in itinere, salva l’ipotesi -eccezionale e non suscettibile d’interpretazione estensiva- prevista dall’art. 8, comma 2, L. n. 590/1965 che impone di dare rilievo alle utilizzazioni future laddove lo strumento urbanistico in itinere preveda un cambio di destinazione da agricola ad urbanistica.

Sorge controversia tra alcuni privati, circa un contratto preliminare relativo all’acquisto di un appezzamento di terreno agricolo con entro-stanti fabbricati rurali, condotto in affitto per uso agricolo e zootecnico da un terzo soggetto.
Le parti previdero che -in caso di esercizio della prelazione da parte dei conduttori, aventi diritto- il preliminare si sarebbe risolto con restituzione al promissario acquirente del solo acconto versato.
Il promittente venditore comunicava che gli affittuari avevano manifestavano la volontà di esercitare la prelazione e di ritenersi perciò sciolto dal preliminare sottoscritto, manifestando disponibilità a restituire l’importo ricevuto. Il promissario acquirente, ritenendo che il terreno oggetto del contratto non avesse vocazione agricola, sicché alcun diritto di prelazione ex lege n. 590/1965, potesse spettare agli affittuari, convenne in giudizio il promittente venditore con un’azione ex art. 2932 c.c.
Il Tribunale ordinario rigettò la domanda.
La Corte territoriale viceversa accolse il gravame sul rilievo che, ai fini della configurabilità o meno del diritto di prelazione agraria e in particolare circa il requisito della natura agricola del terreno oggetto della prelazione e del riscatto, occorresse far riferimento al PRG vigente al momento della conclusione del contratto e non al successivo piano, ancora in itinere al momento della stipula del preliminare.
Insorge, contro la sentenza della Corte territoriale, l’originario convenuto e promittente venditore, con un ricorso che la Suprema Corte respinge, così confermando la statuizione finale dei giudici del merito.
In particolare, il Giudice di legittimità, ribadisce che la vocazione agricola o edificatoria del terreno va verificata al momento della conclusione del contratto. Questo, benché l’art. 8, comma 2, della L. n. 590/1965 -invocato dal ricorrente- introduca eccezione a tale principio, laddove impone di dare rilievo alle utilizzazioni future nel solo caso in cui lo strumento urbanistico in itinere preveda un cambio di destinazione. Tuttavia, osserva la Suprema Corte, non rileva a tal fine un qualsiasi cambio di destinazione, ma la sola ipotesi del cambio di destinazione da agricola ad urbanistica.
È questa un’eccezione al principio generale, che trova la sua ratio nella necessità di evitare speculazioni, realizzabili laddove - attraverso l’apparenza di voler realizzare unità produttive agricole - si miri in realtà a lucrare il prossimo incremento di valore del bene, allorché questo passerà da una utilizzazione agricola a quella edilizia.
In ragione del fatto che la norma in questione ha carattere eccezionale, essa non è suscettibile d’interpretazione estensiva sicché non può applicarsi al caso inverso, caratterizzato da un assetto di interessi del tutto differente, in mancanza di un’espressa disposizione normativa che preveda che ai fini della individuazione della natura del terreno si debba in ogni caso aver riguardo alle previsioni dello strumento urbanistico in itinere.
Attraverso l’eccezione contenuta nella norma in commento, si ripristina il principio della libera disponibilità del fondo da parte del suo proprietario, la cui compressione (che consegue alla previsione del diritto di prelazione in favore del proprietario coltivatore diretto del fondo confinante e dell’affittuario) si giustifica in virtù della particolare tutela assicurata al mantenimento e all’incentivazione delle attività agricole dalla L. n. 590/1965. Quindi, se il fondo è coltivato ma in base alle disposizioni del PRG vigente esso non ha vocazione pienamente agricola, non sussiste il diritto di prelazione e riscatto in capo all’affittuario coltivatore diretto.
La Suprema Corte respinge anche il terzo motivo, recante doglianza di violazione, tra gli altri, dell’art. 2932 c.c., e dell’art. 40 della L. n. 47/1985 e dell’art. 46, d.P.R. n. 380/2001 (T.U. Edilizia) per la mancanza del c.d.u. (certificato di destinazione urbanistica) nel contratto, preliminare, che avrebbe comportato nullità del medesimo.
Osserva, sul punto la S.C. che il certificato di destinazione urbanistico è necessario solo per la valida conclusione del contratto definitivo e non anche del preliminare, secondo un principio ormai consolidato secondo il quale la disposizione dell’art. 18, comma 2, L. 28.02.1985, n. 47, che sancisce la nullità degli atti tra vivi, aventi a oggetto trasferimento, costituzione o scioglimento della comunione di diritti reali relativi a terreni, quando a essi non sia allegato il certificato di destinazione urbanistica contenente le prescrizioni urbanistiche riguardanti l’area interessata, si riferisce esclusivamente ai contratti che determinano l’effetto reale indicato dalla norma e non anche a quelli con effetti obbligatori, come il contratto preliminare di compravendita.
Per l’effetto, il preliminare è valido pur non contenendo la dichiarazione di cui agli artt. 17 e 40 della legge citata e l’allegazione del c.d.u., fatta salva l’esigenza di allegazione del detto certificato al contratto definitivo o nel caso di azione ex art. 2932 c.c., attesa la funzione sostitutiva del contratto definitivo non concluso da essa spiegata (inter alias, Cass. n. 24460/2007) (Corte di Cassazione, Sez. III civile, sentenza 12.06.2015 n. 12230 - Urbanistica e appalti n. 8-9/2015).

EDILIZIA PRIVATA: PERMANENZA DEL REATO DI COSTRUZIONE ABUSIVA ED INDIVIDUAZIONE DEL MOMENTO DI CESSAZIONE DELLA PERMANENZA.
Il reato di costruzione abusiva ha natura permanente per tutto il tempo in cui continua l’attività edilizia illecita, ed il suo momento di cessazione va individuato o nella sospensione di lavori, sia essa volontaria o imposta “ex auctoritate”, o nella ultimazione dei lavori per il completamento dell’opera o, infine, nella sentenza di primo grado ove i lavori siano proseguiti dopo l’accertamento e sino alla data del giudizio.
Il tema affrontato dalla Corte di Cassazione con la sentenza in esame attiene all’esatta individuazione della natura giuridica del reato di costruzione abusiva edilizia nonché al momento di cessazione della permanenza del medesimo.
La vicenda processuale segue alla sentenza di condanna, confermata anche in appello, per il reato previsto dal d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. c), contestato all’imputato per aver demolito e ricostruito alcuni fabbricati preesistenti in assenza di autorizzazione paesaggistica.
Contro la sentenza proponeva ricorso l’imputato, sostenendo in particolare che la Corte d’appello avrebbe dovuto pervenire a ritenere prescritto il reato in relazione alle opere di cui in contestazione, limitandosi ad accertare che l’unica attività da considerarsi come attuale al momento del sopralluogo era costituita da un evidente scavo con cumulo di terra e di pietre, situazione non sovrapponibile a quella di demolizione e ricostruzione di fabbricati preesistenti.
La Cassazione, nel dichiarare inammissibile il ricorso, ha affermato il principio di cui in massima, in particolare osservando, con riferimento al caso in esame, che la cessazione della permanenza della condotta antigiuridica è individuabile nel momento in cui venne eseguito il sequestro dell’area e che, in ogni caso, il sopralluogo che ebbe ad accertare che i lavori di cui si discute erano in corso, venne eseguito in data 01.05.2010, donde la motivazione della sentenza dava atto -difformemente da quanto sostenuto dalla difesa- che gli unici interventi in corso di esecuzione al momento del sopralluogo non erano certamente l’esecuzione dello scavo con cumulo di terra e di un cumulo di pietre.
Trattasi, con riferimento all’individuazione della natura giuridica del reato di costruzione abusiva e del correlato momento di cessazione della permanenza, di principio ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità, avendo affermato la Cassazione in più occasioni che la permanenza del reato di edificazione abusiva termina, con conseguente consumazione della fattispecie, o nel momento in cui, per qualsiasi causa volontaria o imposta, cessano o vengono sospesi i lavori abusivi, ovvero, se i lavori sono proseguiti anche dopo l’accertamento e fino alla data del giudizio, in quello della emissione della sentenza di primo grado (v., da ultimo: Cass. pen., Sez. III, n. 29974 del 06.05.2014 - dep. 09.07.2014, P.M. in proc. S., in CED, n. 260498) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.05.2015 n. 23267 - Urbanistica e appalti n. 8-9/2015).

EDILIZIA PRIVATA: CONDIZIONI PER QUALIFICARE UNA TETTOIA COME SOTTRATTA AL REGIME DEL PERMESSO DI COSTRUIRE.
Ove la tettoia costituisca un’opera nuova esclude che la sua realizzazione possa essere qualificata come intervento di manutenzione ordinaria o straordinaria, di restauro e risanamento conservativo, o di ristrutturazione edilizia, come definiti dall’art. 3, comma 1, lett. a), b), e) e d), d.P.R. n. 380 del 2001.
Se, peraltro, la stessa non è destinata al soddisfacimento di esigenze meramente temporanee ne rende irrilevanti le caratteristiche tipologiche ed esclude che possa essere inclusa tra quelle dirette a soddisfare obiettive esigenze contingenti e temporanee e ad essere immediatamente rimosse al cessare della necessità e, comunque, entro un termine non superiore a novanta giorni, e soggette, a norma del d.P.R. n. 380 del 2001, art. 6, comma 2, lett. b), a regime di attività edilizia libera.

Il tema affrontato dalla Corte di Cassazione con la sentenza in esame attiene alla necessità o meno del preventivo rilascio del permesso di costruire in caso di realizzazione di una tipologia di manufatto abbastanza comune nella pratica corrente, rappresentata dalla c.d. tettoia. 
La vicenda processuale segue alla sentenza di condanna, confermata anche in appello, nei confronti di due imputati, ritenuti responsabili, nelle rispettive qualità di amministratore della CC, committente dei lavori, e di presidente della COG, ditta esecutrice dei lavori, di aver realizzato, senza permesso di costruire, una tettoia estesa mq. 65, costituita da una struttura in metallo stabilmente ancorata al parapetto perimetrale del piano di copertura di uno stabile.
Tale tettoia era ricoperta in parte con cristallo di sicurezza stratificato, in parte con tessuto plastificato, ed era chiusa sui due lati maggiori con tende a rullo ed aperta sui lati minori. La tettoia era stata realizzata per destinare il lastrico solare a locale destinato alla ristorazione ed a servizio del quale era stato anche ricavato, da un preesistente torrino, un locale WC. Nel superare i rilievi difensivi, la Corte di appello, condividendo sul punto il giudizio già espresso dal Tribunale, ha qualificato l’opera come nuova costruzione, sottratta a regime di libera edificabilità e soggetta a permesso di costruire.
Ha poi ritenuto il colpevole coinvolgimento dell’esecutore dei lavori, non ritenendo credibile la versione difensiva volta ad accreditare la tesi dell’ignoranza dei lavori ai quali, a dire dell’imputato, erano stati addetti i suoi soli dipendenti.
Contro la sentenza proponevano ricorso per cassazione ambedue gli imputati, in particolare sostenendo che l’intervento edilizio di che trattasi, se non proprio classificabile come attività edilizia libera ai sensi del d.P.R. n. 380 del 2001, art. 6, comma 2, lett. d), non è soggetto a permesso di costruire ma, al più, a regime di segnalazione certificata di attività, ai sensi della L. n. 241 del 1990, art. 19, lett. m).
La Cassazione, sul punto, ha dichiarato inammissibile il ricorso affermando il principio di cui in massima, rilevando come la struttura, diversamente da quanto sostenuto dalla difesa, non era destinata ad una migliore utilizzazione dello spazio del terrazzo ma ad un suo diverso uso (la ristorazione), non era di modeste dimensioni e non era utilizzabile autonomamente (come, sul punto, convengono gli stessi ricorrenti). Il che esclude che possa essere considerata sia alla stregua di un “elemento di arredo” di area pertinenziale (di cui all’art. 6, comma 2, lett. d, cit. d.P.R.), sia come “intervento pertinenziale”.
La tettoia in questione, infatti, costituisce ampliamento esterno alla sagoma del manufatto preesistente ed era destinata non già ad una migliore fruizione della parte di edificio cui accedeva o a servizio ed ornamento dell’edificio stesso, bensì ad un diverso uso del lastrico solare, stabilmente trasformato in vero e proprio locale di ristorazione, dotato anche di un angolo cottura e di servizi igienici, che costituiva parte integrante del sottostante edificio al quale era collegato mediante una scala esterna ed un montacarichi.
Si trattava, dunque, per gli Ermellini, di nuova costruzione, avente natura non pertinenziale, per la cui realizzazione era necessario il permesso di costruire.
La sentenza di inserisce nel solco di un orientamento ormai consolidato, che ritiene integri il reato previsto dall’art. 44, lett. b), del d.P.R. n. 380 del 2001 la realizzazione, senza il preventivo rilascio del permesso di costruire, di una tettoia di copertura che, non rientrando nella nozione tecnico-giuridica di pertinenza per la mancanza di una propria individualità fisica e strutturale, costituisce parte integrante dell’edificio sul quale viene realizzata (v., da ultimo: Cass. pen., Sez. III, n. 42330 del 26.06.2013 - dep. 15.10.2013, S. e altro, in CED, n. 257290) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.05.2015 n. 22474 - Urbanistica e appalti n. 8-9/2015).

EDILIZIA PRIVATA: L’IMPUTATO CHE ECCEPISCE LA PRESCRIZIONE DEL REATO EDILIZIO AD OPERA TROVATA “ULTIMATA” NE DEVE FORNIRE PROVA RIGOROSA.
In tema di prescrizione, grava sull’imputato, che voglia giovarsi di tale causa estintiva del reato a fronte di opera apparentemente già ultimata, l’onere di allegare gli elementi in suo possesso dai quali poter desumere la data di inizio del decorso del termine, diversa da quella risultante dagli atti; a ritenere diversamente, infatti, nessun abuso edilizio potrebbe mai essere contestato, perché ogni opera trovata terminata dovrebbe essere fatta risalire all’ultimo accertamento effettuato su quella porzione di territorio, o addirittura, se nessun accertamento di tal genere vi fosse stato, a tempo immemorabile.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame, sul tema, invero assai comune nella prassi giurisprudenziale, relativo alla individuazione delle condizioni in presenza delle quali un’opera abusiva possa ritenersi ultimata prima della data dell’accertamento e, quindi, prescritto il relativo reato edilizio.
La vicenda processuale trae origine dalla ordinanza con la quale il tribunale del riesame aveva respinto la richiesta degli indagati proposta avverso il provvedimento del G.I.P. con cui era stato disposto il sequestro preventivo di alcuni immobili.
Avverso detta ordinanza proponevano impugnazione gli interessati, in particolare rilevando di aver eccepito, in sede di riesame, che tutti i reati avevano natura istantanea seppure con effetti permanenti le cui condotte, però, cessavano con l’ultimazione dell’opera; le opere in sequestro, al momento dell’accertamento, si presentavano completamente ultimate e rifinite, risultando già da tempo abitate; la completa ultimazione dovrebbe, perciò, farsi risalire al luglio 2009, in quanto l’ultimo sopralluogo, citato nel verbale di sequestro, risaliva al 23.07.2009, ciò in quanto, non essendovi traccia di lavori in corso o di recente esecuzione, in applicazione del principio, in dubio pro reo, la data di ultimazione non poteva che individuarsi nel luglio 2009; pertanto ad oggi, sostenevano, andrebbe affermata la ampiamente maturata prescrizione dei reati in contestazione e, in ogni caso, anche a voler ritenere le opere realizzate nel 2010, la prescrizione sarebbe comunque maturata; i giudici del riesame avrebbero errato limitandosi ad affermare che l’onere di dimostrare una diversa decorrenza del termine di prescrizione, rispetto a quella risultante dagli atti, graverebbe sull’imputato; diversamente, gli stessi avrebbero dovuto rinvenire in atti elementi concreti ed attuali posti a giustificazione e fondamento allo stato del disposto sequestro, e, in ogni caso, la data della provvisoria contestazione non sarebbe riferibile, e probabilmente nemmeno attribuita, alla data di consumazione dei reati, ma si riferirebbe soltanto alla data di accertamento ciò perché in occasione dell’accertamento le opere erano completamente ultimate, rifinite, arredate e funzionali, non vi era traccia di lavori nemmeno recenti, e l’unico precedente accesso in zona risaliva al luglio 2009; lo stesso esposto che dava origine al procedimento penale, faceva riferimento all’utilizzo delle opere nel corso degli anni.
La Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso e, nell’affermare il principio di cui in massima, ha puntualizzato che alla data dell’ultimo accesso la Guardia di Finanza aveva riscontrato immobili, realizzati in difetto di qualsivoglia autorizzazione, già completati, essendo tuttavia onere dell’imputato dimostrare che gli stessi erano tali ad una data antecedente a quella dell’accertamento.
La sentenza si inserisce in un filone giurisprudenziale ormai consolidato, secondo cui anche in materia edilizia, in base al principio generale per cui ciascuno deve dare dimostrazione di quanto afferma, grava sull’imputato che voglia giovarsi della causa estintiva della prescrizione, in contrasto o in aggiunta a quanto già risulta in proposito dagli atti di causa, l’onere di allegare gli elementi in suo possesso, dei quali è il solo a potere concretamente disporre, per determinare la data di inizio del decorso del termine di prescrizione ed in particolare, trattandosi di reato edilizio, la data di esecuzione dell’opera incriminata (Cass. pen., Sez. III, n. 10585 del 23.05.2000 - dep. 11.10.2000, M. C., in CED, n. 217091; Id., Sez. III, n. 19082 del 24.03.2009 - dep. 07.05.2009, C., in CED, n. 243765; Id., Sez. III, n. 27061 del 05.03.2014 - dep. 23.06.2014, L., in CED, n. 259181) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 27.05.2015 n. 22117 - Urbanistica e appalti n. 8-9/2015).

APPALTI: EFFETTI DELL’AGGIUDICAZIONE PROVVISORIA E DIVERSITÀ DI ESSA RISPETTO A QUELLA DEFINITIVA.
In tema di pubblici appalti, secondo alcune sequenze procedimentali adottate dalle stazioni appaltanti e le conseguenti previsioni del bando di gara, l’aggiudicazione provvisoria -che ha natura di atto endoprocedimentale- anche se fa nascere tra le parti talune situazioni giuridiche preliminari tutelabili in sede giurisdizionale, non fa conseguire l’instaurazione del rapporto contrattuale finale, intercorrente tra la stazione appaltante e l’aggiudicatario, potendolo solo l’aggiudicazione definitiva, che non è atto meramente confermativo o esecutivo ma è provvedimento autonomo e diverso rispetto all’aggiudicazione provvisoria, sia pure nel caso in cui recepisca interamente i risultati all’esito di una nuova valutazione, condotta anche da organi diversi dell’Amministrazione.
Un Istituto autonomo case popolari (IACP) invitò un’impresa a partecipare a una licitazione privata per la scelta del contraente e l’aggiudicazione dei lavori di progettazione e costruzione di alcuni complessi di edilizia residenziale pubblica.
Secondo la legge di gara, l’autore dell’offerta più vantaggiosa sarebbe stato il destinatario di un provvedimento di aggiudicazione soltanto provvisoria. Quella definitiva, infatti, era subordinata al realizzarsi di alcune condizioni, ossia: a) il rilascio della concessione edilizia; b) la disponibilità dell’area; c) la permanenza di alcune condizioni d’idoneità tecnico-economica dell’offerta.
Ad avvenuta aggiudicazione provvisoria, l’impresa così titolata ricevette una richiesta di variante finalizzata allo sfruttamento di alcune caverne esistenti nell’area, al fine di realizzarvi locali di rimessa di veicoli.
Tale area, oggetto d’intervento aggiuntivo, non era però disponibile giacché occupata da costruzioni e ancora preclusa nel proprio accesso al punto che l’aggiudicataria -per poter adempiere a quest’ulteriore richiesta- avrebbe dovuto acquistare, a proprie spese, un altro punto di accesso. In ogni caso, l’aggiudicataria (ancor provvisoria) richiese e ottenne il titolo abilitativo edilizio, previo espletamento d’indagini geognostiche, presentò un progetto di variante, contestualmente sollecitando -senza riscontro- la committente alla sottoscrizione del contratto.
Nelle more, per effetto di una variante nella disciplina urbanistica, il Comune revocò le cubature per le edificazioni sicché IACP denegò l’aggiudicazione definitiva, assumendosi gli oneri della progettazione e delle spese sostenute dall’impresa per il rilascio della concessione.
L’impresa -ritenendo essere così intervenuto un recesso del committente dal contratto- chiese al Tribunale di esser tenuta indenne, ex art. 1671 c.c., da ogni spesa sostenuta, con pagamento dei lavori eseguiti e del mancato utile. In via graduata, chiese l’accertamento della responsabilità del committente per il tardivo recesso, con la sua condanna al pagamento delle stesse somme prima richieste.
Il Tribunale, con una prima sentenza non definitiva parzialmente accolse la domanda dell’impresa, condannando l’Ente al pagamento di una somma offerta da IACP banco judicis, quale credito incontestato ex art. 186-bis c.p.c. Con sentenza definitiva, il Tribunale confermò la sentenza parziale tuttavia respingendo ogni altra domanda e condannando l’attrice al pagamento delle spese processuali. La sentenza di prime cure costituì oggetto d’appello dell’impresa, censurandosi di aver disconosciuto l’esistenza di un vincolo contrattuale in forza del quale era ribadita la richiesta della condanna al pagamento di quanto dovuto ai sensi dell’art. 1671 c.c., o per responsabilità precontrattuale.
Lo IACP propose a sua volta gravame incidentale, chiedendo che la sentenza non definitiva fosse riformata nei sensi, ritenuti erronei, ivi indicati.
Detto appello incidentale fu accolto dalla Corte distrettuale, nella parte in cui riconosceva l’avvenuta stipulazione del contratto di appalto, in tal modo rigettando la domanda di pagamento di ulteriori somme rispetto a quelle riconosciute.
Respinse l’appello principale verso la sentenza definitiva, compensando le spese del grado. A motivazione del proprio convincimento il giudice di appello osservò che la sentenza non definitiva avrebbe affermato l’avvenuta costituzione di un vincolo contrattuale tra le parti. Siffatta ricostruzione sarebbe tuttavia errata perché -secondo l’insegnamento del Giudice di legittimità- solo con l’aggiudicazione definitiva viene a crearsi il rapporto contrattuale mentre quella provvisoria, specie se dovuta a necessità di controlli relativi a elementi sopravvenuti e determinanti per l’instaurazione del sinallagma, non avrebbe un tale effetto.
Nella specie, una pluralità di fatti (tra questi: la difficoltà d’acquisizione piena dell’area; la revoca delle cubature) giustificano l’impossibilità dell’aggiudicazione definitiva dell’appalto. Per il che non potevano accogliersi le domande fondate sull’art. 1671 c.c., stante l’insussistenza del vincolo contrattuale e la subordinata (e astratta) proponibilità di quelle per responsabilità precontrattuale o extracontrattuale, la prima neppur presenti nella domanda di prime cure.
La sentenza è oggetto di gravame per Cassazione da parte dell’impresa, che rigetta il ricorso.
In disparte i motivi in rito (attinenti l’efficacia di giudicato interno della sentenza parziale e la completezza dei quesiti allora dovuti ex art. 366-bis c.p.c.) merita attenzione la terza censura, con la quale il ricorrente lamenta che la Corte d’Appello avrebbe errato nel distinguere un’aggiudicazione provvisoria dell’appalto da una sua aggiudicazione definitiva e, per l’effetto, la mancanza di un vincolo nascente dalla prima.
Questo, sia per il contrasto tra le disposizioni normative richiamate; quanto per l’erronea interpretazione della lettera d’invito del contraente inviata da IACP, ove si prevedeva un’apposita via d’uscita, ossia l’esercizio della facoltà di recesso previo pagamento della progettazione già realizzata e dalle ulteriori prestazioni rese. In particolare, a dir della ricorrente, occorreva porsi sguardo al comportamento complessivo delle parti (art. 1362 c.c.) all’interpretazione complessiva delle clausole della lettera d’invito (art. 1363 c.c.) e del canone ermeneutico di buona fede (art. 1366 c.c.).
In violazione di queste chiavi di lettura, la Corte territoriale avrebbe dovuto ritenere sussistente il vincolo negoziale a prescindere dall’aggiudicazione definitiva dell’appalto, peraltro mai avvenuta. Al definitivo, si sarebbe al cospetto di un vincolo di contenuto diverso da quello nascente dall’aggiudicazione definitiva ma non legittimante l’interpretazione di una responsabilità aquiliana o precontrattuale da parte dell’Ente.
La doglianza è respinta dalla Suprema Corte facendosi richiamo alla costante giurisprudenza amministrativa, secondo cui l’aggiudicazione provvisoria di una gara di appalto ha natura di atto endo-procedimentale, inidoneo a produrre la definitiva lesione dell’interesse dell’impresa che non è diventata vincitrice. Tale lesione, di contro, si realizza solo con l’aggiudicazione definitiva, che non è per nulla un atto meramente confermativo o esecutivo, ma è provvedimento del tutto autonomo e diverso rispetto all’aggiudicazione provvisoria (anche quando ne recepisce interamente i risultati), al punto che esso deve essere impugnato indipendentemente dall’impugnazione della aggiudicazione provvisoria.
In ragione di questi pacifici presupposti, non v’è alcuna contraddizione ad affermare, come ha fatto la Corte territoriale, la regula iuris secondo cui la prima aggiudicazione ha comportato la nascita di un primo vincolo giuridico sol che si consideri, razionalmente, che quel primo vincolo altro non è che una limitata produzione di effetti giuridici i quali, per avere pieno spiegamento devono attendere la produzione del fatto giuridico ulteriore della definitiva approvazione -ossia la definitiva aggiudicazione- propedeutica alla stessa stipulazione del contratto di appalto (
Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 25.05.2015 n. 10750 - Urbanistica e appalti n. 8-9/2015).

EDILIZIA PRIVATA: RIENTRANO NELLE VARIANTI LEGGERE O MINORI LE VARIANTI A PERMESSI DI COSTRUIRE NON INCIDENTI SUI PARAMETRI URBANISTICI E SULLE VOLUMETRIE.
Rientrano nella nozione di “varianti leggere o minori” -soggette al rilascio di mera denuncia di inizio dell’attività da presentarsi prima della dichiarazione di ultimazione dei lavori- le varianti a permessi di costruire che non incidono sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, non modificano la destinazione d’uso e la categoria edilizia, non alterano la sagoma dell’edificio e non violano le prescrizioni eventualmente contenute nel permesso a costruire.
Il tema affrontato dalla Corte di Cassazione con la sentenza in esame attiene all’esatta individuazione del titolo abilitativo necessario per l’esecuzione della c.d. varianti leggere o minori.
La vicenda processuale segue alla iniziale accusa mossa all’imputato di avere violato il d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b), perché, nella sua qualità di amministratore della società C., proprietaria dell’immobile, nonché di progettista e direttore dei lavori, aveva realizzato un immobile in totale difformità da quello assentito con il permesso di costruire in variante, mediante la realizzazione di un secondo piano sottotetto di circa 174 mq lordi ed un volume di 320 m., nonché quella di 5 lucernai (ai posto dei 4 previsti) le cui misure risultavano eccedenti di mq 0,40 quelle di cui all’art. 48, comma 1, del Regolamento edilizio comunale ed, infine, mediante la realizzazione di 4 bucature di forma trapezoidale sui timpani, in numero maggiore rispetto a quelli di progetto e la cui superficie era eccedente quella prevista dal Regolamento Edilizio Comunale.
Con la sentenza oggetto di ricorso per cassazione, il Tribunale aveva derubricato il fatto come violazione del d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. a), condannando l’imputato alla sola pena dell’ammenda. Contro la sentenza proponeva ricorso l’imputato, sostenendo in particolare che il giudice non avrebbe tenuto conto che le opere erano ancora in corso e, quindi, rientravano nelle varianti in corso d’opera sicché il reato non poteva dirsi sussistente in concreto; inoltre, proseguiva l’imputato, a mente del d.P.R. n. 380 del 2001, art. 22, sono realizzabili a mezzo d.i.a. le varianti a permessi di costruire che non incidono sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, sicché, essendo pacifico che non si tratta di varianti essenziali, si versava nell’ipotesi di varianti leggere o minori in corso d’opera per le quali l’imputato aveva presentato prima della conclusione dei lavori la richiesta di permesso di costruire in variante.
La Cassazione, nell’accogliere il ricorso così annullando senza rinvio la sentenza impugnata, ha affermato il principio di cui in massima, in particolare osservando, con riferimento al caso in esame, come la stessa sentenza, riqualificando il fatto come violazione del d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. a), aveva dato atto che le opere contestate al ricorrente erano qualificabili come variazioni non essenziali rispetto al titolo abilitativo. Nel fare, ciò, tuttavia, aveva tralasciato di considerare che, a mente del d.P.R. n. 380 del 2001, art. 22, gli interventi inquadrabili tra le cosiddette varianti “leggere o minori” sono soggetti a mera denuncia di inizio attività. Tale profilo non risultava essere stato preso in considerazione pur risultando incontestata la natura e l’entità dei lavori edilizi in variante posti in essere dall’imputato.
Come riportato da un teste, infatti, in occasione del sopralluogo, era no stati riscontrati, rispetto al progetto grafico, solo degli aumenti di superficie, peraltro in misura decisamente esigua (pari, cioè all’1,7%) e, comunque, la presenza di un maggior numero di bucature nonché un lucernaio in più rispetto a quelli autorizzati. Essendo, quindi, di tutta evidenza l’assenza di incremento volumetrico, vale il principio consolidato di questa S.C., richiamato nella massima, e già oggetto di precedenti e conformi pronunce (v., tra le tante: Cass. pen., Sez. III, n. 24236 del 24.03.2010 - dep. 24.06.2010, M. e altro, in CED, n. 247687) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.05.2015 n. 21461 - Urbanistica e appalti n. 8-9/2015).

EDILIZIA PRIVATA: SOGGETTA ALLA NORMATIVA ANTISISMICA LA REALIZZAZIONE DI UN BAGNO PER DISABILI.
Neppure il d.P.R. n. 380 del 2001, art. 6, sottrae gli interventi di edilizia libera al rispetto delle norme antisismiche ed alle altre disposizioni di settore, come si ricava dalla testuale formulazione del comma 1, che fa salve “le prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali, e comunque nel rispetto delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia e, in particolare, delle norme antisismiche. di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie, di quelle relative all’efficienza energetica nonché delle disposizioni contenute nel codice dei beni culturali e del paesaggio”.
Il tema affrontato dalla Corte di Cassazione con la sentenza in esame attiene alla necessità o meno del preventivo rispetto della normativa antisismica per la realizzazione di interventi edilizi rientranti nella c.d. attività edilizia libera, disciplinata dall’art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001.
La vicenda processuale segue all’ordinanza con cui il Tribunale ha parzialmente accolto la richiesta di riesame, presentata nell’interesse di D.M.L., avverso il decreto di sequestro preventivo emesso dal Giudice per le indagini preliminari e concernente alcune strutture abusive, ubicate all’interno di uno stabilimento balneare, in relazione ai reati di cui agli artt. 54, 55 e 1161 c.n., d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. c), artt. 93 e 95, D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181 e L. 394 del 1991, art. 30, disponendo la restituzione all’avente diritto di un’area adibita a sala ristorante e confermando invece il vincolo reale relativamente alla tamponatura di una tettoia adibita a sala ristorante, un gazebo, un bagno per disabili ed un collegamento tra locale lavapiatti e cucina, ma con riferimento al solo reato sanzionato dal d.P.R. n. 380 del 2001, art. 95, concernente il mancato deposito del progetto strutturale per le opere suddette.
Contro l’ordinanza proponeva ricorso per cassazione l’interessato, sostenendo, per quanto qui di interesse, che il bagno per disabili rientrerebbe tra le opere di edilizia libera per l’abbattimento di barriere architettoniche di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 6 e, dunque, non sarebbe soggetto alla normativa antisismica.
La Cassazione, sul punto, ha dichiarato inammissibile il ricorso affermando il principio di cui in massima, rilevando come, proprio in base alla normativa richiamata dall’interessato, l’esecuzione di tale intervento edilizio, pur potendo rientrare astrattamente nella attività edilizia libera, resta comunque soggetto alla disciplina antisismica, nella specie non rispettata.
Sul punto, va qui ricordato che, già in precedenza, la Cassazione aveva affermato che, per l’esecuzione delle opere dirette a favorire il superamento e l’eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati vanno rispettate le disposizioni della legge antisismica con esclusione dell’obbligo dell’autorizzazione (Cass. pen., Sez. III, n. 11605 dell’11.11.1993 - dep. 18.12.1993, F., in CED, n. 196070) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.05.2015 n. 19362 - Urbanistica e appalti n. 8-9/2015).

EDILIZIA PRIVATA: LA SISTEMAZIONE DI UN’INSEGNA O TABELLA PUBBLICITARIA RICHIEDE IL RILASCIO DEL PERMESSO DI COSTRUIRE SE LE SUE DIMENSIONI COMPORTANO MUTAMENTO TERRITORIALE.
La sistemazione di un'insegna o tabella pubblicitaria richiede il rilascio del preventivo permesso di costruire quando per le sue rilevanti dimensioni comporti mutamento territoriale, atteso che soltanto un sostanziale mutamento del territorio nel suo contesto preesistente, sia sotto il profilo urbanistico che edilizio, fa assumere rilevanza penale alla violazione del regolamento edilizio, con conseguente integrazione del reato di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 1, lett. b).
Interessante la decisione della S.C. che contribuisce a delineare il perimetro applicativo della disciplina sanzionatoria edilizia rispetto a disposizioni solo apparentemente regolanti il medesimo oggetto, con particolare riferimento all’installazione di insegne pubblicitarie.
La vicenda processuale segue alla sentenza, resa a seguito di giudizio abbreviato, con il Tribunale ha condannato l’imputato alla pena di trecento Euro di ammenda in relazione al reato di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 95, a lui contestato per aver eseguito i lavori di installazione di un sostegno metallico circolare per un impianto di cartellonistica pubblicitaria avente un’altezza di 6 m. e un diametro di circa 0,6 m. in zona sismica, senza notificarne preavviso scritto al competente ufficio tecnico regionale e omettendo la contestuale presentazione del relativo progetto.
Avverso la sentenza proponeva ricorso per cassazione l’imputato, in particolare deducendo l’erronea applicazione del D.Lgs. n. 507 del 1993, del D.Lgs. n. 285 del 1992, del d.P.R. n. 495 del 1992. Secondo la ricostruzione difensiva, spetta ai Comuni determinare, con proprio regolamento e piano particolareggiato, la quantità e la tipologia degli impianti pubblicitari che possono essere installati nel territorio comunale, nonché le modalità e le procedure per ottenere l’autorizzazione all’installazione.
Il sistema sanzionatorio per l’inosservanza delle disposizioni del D.Lgs. n. 507 del 1993, del regolamento comunale e del piano generale degli impianti è contenuto nell’art. 24 di tale D.Lgs. A tale regime si aggiunge quello previsto dall’art. 23 C.d.S. (D.Lgs. n. 285 del 1992) e art. 53 relativo reg. att. (d.P.R. n. 495 del 1992).
Per la difesa, il regolamento e il piano sono gli strumenti attraverso i quali l’amministrazione comunale esprime le scelte compiute al fine di garantire un’equilibrata protezione della variegata trama di molteplici interessi, di natura urbanistica, edilizia, economica, culturale, viaria, tra loro interferenti, che in diversa misura vengono in rilievo nell’attività pubblicitaria. Ne conseguirebbe che detta normativa avrebbe carattere speciale rispetto a quella generale in materia edilizia contenuta nel d.P.R. n. 380 del 2001, ivi compresa la disciplina antisismica.
La difesa giunge a tale interpretazione in considerazione del disposto del D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 168 il quale prevede che la collocazione di cartelli o mezzi pubblicitari in violazione delle disposizioni a tutela del paesaggio è punita con le sanzioni amministrative previste dal richiamato art. 23 del codice della strada. A tali considerazioni la difesa aggiunge che, con deliberazione del 22.07. 2011, la giunta regionale della Calabria ha catalogato gli impianti pubblicitari come opere minori, sottraendoli alle leggi nazionali e regionali in materia di edilizia sismica.
La Cassazione ha, sul punto, respinto il ricorso, e, nell’affermare il principio di cui in massima, ha ricordato che non vi è rapporto di specialità tra la disciplina sanzionatoria penale dettata in materia urbanistica e antisismica dal d.P.R. n. 380 del 2001 e quella, amministrativa pecuniaria, dettata dal D.Lgs. n. 507 del 1993, in materia di imposta comunale sulla pubblicità e pubbliche affissioni, in quanto si tratta di sanzioni poste a tutela di interessi giuridici diversi, presidiando la prima la pubblica incolumità e l’altra il controllo sulle pubbliche affissioni, in relazione al loro contenuto, alla loro natura commerciale, all’applicazione dell’imposta sulla pubblicità.
Né a tale ricostruzione vale obiettare che il D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 168 richiama, per l’apposizione di cartelli con mezzi pubblicitari in violazione delle disposizioni poste a tutela del paesaggio, le stesse sanzioni amministrative previste dal codice della strada, perché la tutela del paesaggio rappresenta un interesse diverso e ulteriore rispetto al corretto assetto del territorio e, soprattutto, alla tutela dell’incolumità pubblica nelle zone sismiche (ex plurimis: Cass. pen., Sez. III, n. 39796 del 10.04.2013 - dep. 25.09.2013, M., in CED, n. 257677; Id., Sez. III, n. 43249 del 22.10.2010 - dep. 06.12.2010, B., in CED, n. 248724). Né, per gli Ermellini, può valere ad escludere la sussistenza del reato il riferimento alla Delib. Giunta Regione Calabria 22.07.2011, n. 330 (Approvazione elenco opere dichiarate “minori”.
Indirizzi interpretativi in materia di sopraelevazione di edifici esistenti). Si tratta infatti, a ben vedere, di una delibera che viene ritenuta dalla Corte illegittima perché crea ex novo la categoria delle “opere minori” che non sarebbero soggette alla disciplina antisismica, in aperta violazione del disposto del d.P.R. n. 380 del 2001, art. 83 il quale prevede che tutte le costruzioni la cui sicurezza possa comunque interessare la pubblica incolumità sono soggette alla normativa antisismica, senza consentire alle Regioni di adottare in via amministrativa deroghe per particolari categorie di opere.
E l’illegittimità della deliberazione regionale emerge -concludono i Supremi Giudici- dalla sua stessa formulazione laterale, laddove nel preambolo si riconosce espressamente che “le norme legislative nonché quelle tecniche in vigore non dettano, espressamente, alcuna particolare limitazione o esclusione delle opere da assoggettare alle discipline di cui sopra” (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.05.2015 n. 19185 - Urbanistica e appalti n. 8-9/2015).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: IL MOMENTO PERFEZIONATIVO DEL REATO DI ABUSO D’UFFICIO OMISSIVO COINCIDE CON LA CESSAZIONE DELL’OMISSIONE DEI CONTROLLI DA PARTE DEL P.U..
La circostanza che la denuncia di inizio attività diviene pienamente operativa trascorso il termine di 30 giorni dalla data della sua presentazione non influisce sul momento consumativo del reato di abuso d’ufficio.
Ed invero, il d.P.R. n. 380 del 2001, art. 23 riguarda semplicemente l’operatività della denuncia di inizio attività, ma non impedisce alla pubblica amministrazione di svolgere in ogni tempo i controlli di sua competenza, con la conseguenza che il momento perfezionativo del reato di abuso d’ufficio commesso mediante omissione deve essere ritenuto coincidente con la cessazione dell’omissione di tali controlli.

La Corte di Cassazione si occupa, nella interessante sentenza qui esaminata, della individuazione del momento consumativo del delitto di abuso d’ufficio commesso mediante omissione, precisando che lo stesso coincide con il momento in cui il pubblico ufficiale “cessi” la propria inerzia.
La vicenda processuale che ha fornito l’occasione alla Corte per occuparsi della questione segue alla sentenza di condanna con cui gli imputati erano stati condannati per il reato di cui agli artt. 110, 117 e 323 c.p. perché, S., in qualità  di rappresentante di un consorzio e B., in qualità di dirigente del settore urbanistica del Comune di C., determinavano a favore del primo l’ingiusto vantaggio conseguente all’edificazione di un immobile difforme rispetto alle vigenti disposizioni di legge.
In particolare, B. sottoscriveva la nota del 07.01.2002, nella quale attestava che l’intervento, rappresentato da due edifici ad uso commerciale e una strada, in realtà incompatibili con la destinazione urbanistica della zona a verde pubblico attrezzato, era compatibile con il piano regolatore e il regolamento edilizio; tale nota era posta alla base della Delib. Giunta comunale 10.05.2002, con la quale si rilasciavano i permessi di costruire e si omettevano i controlli circa le d.i.a. presentate.
Contro la sentenza gli stessi proponevano ricorso per cassazione sostenendo, per quanto qui di interesse, che la Corte d’appello avrebbe erroneamente ancorato la decorrenza dei termini prescrizionali alla condotta contestata alla data in cui B. aveva disposto l’abbattimento dei manufatti in precedenza assentiti; a tale conclusione la Corte d’appello era giunta ritenendo che nella fattispecie si versasse in un’ipotesi di abuso d’ufficio caratterizzato da comportamenti sia commissivi che omissivi; la condotta omissiva sarebbe cessata con l’omesso controllo sulle d.i.a. presentate dall’interessato.
Secondo la difesa tali d.i.a. sarebbero solo l’ulteriore espressione di un’attività illecita già verificatasi in precedenza, ma, in ogni caso, il potere di intervento della pubblica amministrazione sarebbe limitato a 30 giorni, con la conseguenza che il momento consumativo del reato potrebbe al più individuarsi al momento, antecedente, di presentazione dell’ultima d.i.a.
La Cassazione ha respinto sul punto il ricorso degli interessati, affermando il principio di cui in massima, in particolare osservando che correttamente la Corte d’appello aveva richiamato la violazione del d.P.R. n. 380 del 2001, art. 27, il quale impone al pubblico ufficiale (nel caso in esame, nella sua qualità di dirigente del competente ufficio comunale), di esercitare la vigilanza e il controllo sull’attività urbanistico-edilizia nel territorio. Si noti che, sulla questione, non constano precedenti in termini (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.05.2015 n. 19182 - Urbanistica e appalti n. 8-9/2015).

EDILIZIA PRIVATA: LA REALIZZAZIONE DI UN VOLUME INFERIORE AL 20% DEL FABBRICATO PRINCIPALE DI PER SÉ NON È INTERVENTO PERTINENZIALE DOVENDO SODDISFARE QUATTRO REQUISITI.
Il requisito della volumetria non superiore al 20% dell’edificio principale è solo uno degli elementi che concorre a definire l’intervento come “pertinenziale”, essendo comunque necessario che si tratti di un intervento che accede ad un immobile preesistente legittimamente realizzato, che abbia ridotte dimensioni, che sia insuscettibile di destinazione autonoma e che non si ponga in contrasto con gli strumenti urbanistici vigenti.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame, sul tema della qualificazione come interventi pertinenziali di quelli che determinano un aumento di volumetria non superiore al 20% dell’edificio principale.
La vicenda processuale segue dell’ordinanza del Tribunale di Firenze che ha respinto l’istanza di riesame del decreto con il quale il Giudice per le indagini preliminari aveva ordinato il sequestro preventivo di un immobile di proprietà della società “L.C. S.r.l.”.
Il decreto era stato emesso sulla ritenuta sussistenza indiziaria, per quanto di interesse, del reato di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b), perché, dopo aver proceduto, in forza di permesso di costruire, ad effettuare la demolizione e ricostruzione non fedele di una casa colonica e di un fienile, trasformando la prima in un fabbricato residenziale composto da più unità immobiliari e articolato su due piani, il secondo in un fabbricato residenziale composto anch’esso da più unità immobiliari e articolato parte su un piano fuori terra, parte su due piani fuori terra; dopo aver altresì ripristinato la natura tecnica di fondazione del volume costituito dal piano interrato comune alle unità abitative sovrastanti, demolendone tutti i muri di tamponamento non perimetrali, ripristinava l’uso residenziale del suddetto interrato mediante lavori che interessavano anche i piani primo e terreno.
Contro l’ordinanza, per quanto rileva in questa sede, proponeva ricorso per cassazione il legale rappresentante della società, sostenendo che i lavori eseguiti sarebbero stati realizzabili mediante SCIA, giusta la L.R. Toscana 03.01.2005, n. 1, art. 75, secondo il quale “gli interventi pertinenziali che comportano la realizzazione, all’interno del resede di riferimento, di un volume aggiuntivo non superiore al 20 per cento del volume dell’edificio principale”: ne conseguirebbe che i volumi ottenuti, ancorché non previsti nell’originario permesso di costruire, sarebbero comunque conformi a quanto prevede la L.R. n. 1 del 2005, art. 75.
La Corte, nel respingere il ricorso, ha affermato il principio di cui in massima, osservando come la norma della predetta L.R. si raccorda a quanto prevede il d.P.R. n. 380 del 2001, art. 3, comma 1, lett. e.6), secondo il quale non sono considerati “interventi di nuova costruzione quelli pertinenziali che comportino la realizzazione di un volume non superiore al 20% dell’edificio principale”.
Il requisito della volumetria non superiore al 20% dell’edificio principale, però, chiariscono gli Ermellini, è solo uno degli elementi che concorre a definire l’intervento come “pertinenziale”, essendo comunque necessario che si tratti di un intervento che accede ad un immobile preesistente legittimamente realizzato, che abbia ridotte dimensioni, che sia insuscettibile di destinazione autonoma e che non si ponga in contrasto con gli strumenti urbanistici vigenti (Cass. pen., Sez. III, n. 37257 del 11.06.2008, A., in CED, n. 241278; Id., Sez. III, n. 25669 del 30.05.2012, Z., in CED, n. 253064).
Sicché, concludono i Supremi Giudici, la realizzazione di un volume inferiore al 20% del fabbricato principale non può essere di per sé considerato intervento pertinenziale se non soddisfa anche gli altri requisiti sopra indicati e, tra questi, la preesistenza dell’edificio principale e la sua legittima realizzazione.
Nel caso in esame è evidente che i lavori in questione non accedevano ad un fabbricato né preesistente, né legittimamente edificato ma risultavano volti a ripristinare una destinazione dei locali non consentita dal titolo originario e a reiterare il reato per il quale l’imputata era già stata condannata in primo grado e poi assolta in secondo per prescrizione del reato (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.05.2015 n. 18670 - Urbanistica e appalti n. 7/2015).

LAVORI PUBBLICI: TARDIVA STIPULAZIONE DEL CONTRATTO E CONSEGUENZE RISARCITORIE.
L’art. 10, d.P.R. n. 1063/1962 -come oggi l’art. 11, comma 9, D.Lgs. n. 163/2006- detta una disciplina derogatoria di quella comune in materia di appalto e che, pur non escludendo la configurabilità del ritardo nella consegna come inadempimento di un obbligo posto a carico dell’Amministrazione committente, vi ricollega effetti diversi rispetto a quelli previsti dal diritto comune, in particolare attribuendo all’appaltatore -in luogo del diritto di chiedere la risoluzione del contratto- la facoltà di provocare lo scioglimento del rapporto mediante proposizione di un’istanza di recesso e limitando, in caso di accoglimento della stessa, il risarcimento del danno al rimborso delle sole somme ivi indicate.
Un’impresa convenne in giudizio il proprio committente Istituto autonomo case popolari per sentirlo condannare al risarcimento dei danni cagionati dal ritardo nella consegna dei lavori.
A presupposto della propria domanda si assumeva che -a fronte di un’aggiudicazione del marzo 1989 e d’una sottoscrizione del contratto del marzo 1990- la consegna dei lavori (fissata per il marzo 1990) non aveva potuto aver luogo a causa della sopravvenuta indisponibilità dell’area prescelta. Per questo, non essendo possibile l’acquisizione di un’area alternativa ove eseguire le opere, nel gennaio 1991 l’appaltatore aveva dichiarato di voler recedere dal contratto chiedendo il rimborso delle spese sostenute e il risarcimento dei danni subiti.
Costituitasi in giudizio, l’Amministrazione committente evocò in giudizio il Comune, nei confronti del quale propose domanda di rivalsa assumendo essere riconducibili alla condotta di questo i fatti determinanti la domanda attorea.
Il Tribunale accolse solo parzialmente la domanda, condannando lo IACP di una somma ridotta.
La sentenza fu appellata dall’impresa in via principale e dalla committenza in via incidentale, ma entrambi gli appelli furono reietti dalla Corte di merito. Ritenne la Corte che la fattispecie fosse riconducibile all’allora vigente Capitolato generale per le opere pubbliche (d.P.R. n. 1063/1962) il cui art. 10, in questa fattispecie, limitava il rimborso alle sole spese derivanti dal recesso iniziale (art. 9 d.P.R., cit.), non potendosi applicare -nel recesso dell’appaltatore- l’art. 41 d.P.R. cit., riferibile alla differente ipotesi di scioglimento del contratto per recesso unilaterale dell’Amministrazione committente.
Fu parimenti esclusa la sussistenza di una genetica responsabilità comunale, per non avere il Comune messo a disposizione dell’Istituto autonomo i sedimi sui quali compiere l’intervento: questo, osserva la Corte d’Appello, perché il procedimento non si sarebbe potuto avviare se non a seguito dell’acquisizione della disponibilità delle aree interessate.
Per il che, l’unico responsabile per il danno lamentato, a giudizio della Corte territoriale, era individuabile dell’Istituto, il quale aveva avendo indetto la gara d’appalto seppur consapevole dell’indisponibilità dell’area.
Contro questa decisione l’appaltatore propone ricorso per Cassazione, al quale resistono le controparti interponendosi, da parte del solo IACP (divenuto, nelle more, ATER), ricorso incidentale. La Suprema Corte respinge il ricorso principale e dichiara l’incidentale inammissibile per ragioni di rito (esorbitanti la materia trattata da questa Rivista).
A fondamento del proprio ricorso, l’appaltatore deduce che la Corte di merito -riduttivamente riconducendo la fattispecie all’art. 10 d.P.R. cit.- non ha considerato che nel giudizio era stato fatto valere un inadempimento di IACP tale da giustificare, oltre alla pronuncia di risoluzione del contratto, la condanna dell’ente al risarcimento dei danni, la quale è una statuizione indipendente rispetto all’esercizio della facoltà di recesso dal contratto e per la quale si sarebbe dovuta statuire una responsabilità risarcitoria. Questo, nella specie, perché l’art. 10 in parola non escluderebbe l’applicabilità della disciplina generale dell’inadempimento, limitandosi a subordinare la proposizione della domanda alla presentazione dell’istanza di recesso, che -a dir del ricorrente- ne rappresenterebbe una mera condizione di proponibilità.
La Suprema Corte ritiene infondato il motivo, osservando che sin dall’iniziale domanda di primo grado era stata richiesta la condanna al rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione dell’appalto e il risarcimento dei danni derivati dalla mancata consegna dei lavori da parte di IACP, a seguito della quale era stata proposta una istanza di recesso dal contratto, in conformità all’art. 10 del d.P.R. n. 1063/1962.
Tale disposizione, osserva il Giudice di legittimità, detta una disciplina speciale e derogatoria di quella comune in materia di appalto e che, pur non escludendo la configurabilità del ritardo nella consegna come inadempimento di un obbligo posto a carico dell’Amministrazione committente, vi ricollega effetti diversi da quelli previsti dal codice civile.
Questo, in particolare, attribuendo all’appaltatore -in luogo del diritto di chiedere la risoluzione del contratto- la facoltà di provocare lo scioglimento del rapporto mediante la proposizione dell’istanza di recesso e limitando, in caso di accoglimento dell’istanza, il risarcimento del danno al rimborso delle spese indicate dall’art. 9, d.P.R. n. 1063/1962, ossia a quelle sostenute per la stipulazione del contratto e al pagamento delle relative imposte, nonché alle spese sostenute per l’esecuzione dell’appalto, in misura non superiore a determinate percentuali dell’importo netto dei lavori (cfr. Cass., Sez. I, 05.03.2008, n. 5951; 11.11.2004, n. 21484; 14.04.2004, n. 7069).
Osserva la Cassazione che la portata dell’art. 10, d.P.R. n. 1062/1963 porta a escludere la fondatezza della tesi sostenuta dal ricorrente, secondo cui la predetta disposizione non inciderebbe sulla disciplina generale dell’appalto (che pone a carico del committente la responsabilità per mancata o tardata consegna dei lavori) ma si limita a subordinare la risarcibilità del danno subìto all’avvenuta proposizione dell’istanza di recesso. Se pure è vero che la consegna tempestiva dei lavori da parte della P.A. costituisce, al pari di quella effettuata dal committente privato, espressione di quel dovere di leale cooperazione che discende dall’art. 1374 c.c., è anche vero che l’art. 10 in parola regola in modo completo i diritti dell’appaltatore.
Da un lato, sottraendogli la facoltà di scelta tra richiesta d’adempimento e risoluzione (in funzione dell’interesse pubblico alla sollecita esecuzione del contratto) e, dall’altro, circoscrivendo con precisione gli effetti economici dello scioglimento del rapporto, sì da consentire all’appaltatore di avanzare l’istanza di recesso sulla base d’una piena cognizione delle sue conseguenze e alla P.A. di valutare anticipatamente gli effetti del ritardo e l’opportunità di mantenere in vita il rapporto, ovvero di adottare una diversa determinazione in vista dell’eventuale superamento degli originari limiti di spesa (Cass., Sez. I, 14.04.2004, n. 7069).
È quindi errato pretendere l’applicazione del differente canone legislativo (art. 41, d.P.R. n. 1063/1962) che, nel determinare le modalità di calcolo della percentuale delle opere non eseguite dovuta all’appaltatore in aggiunta all’importo dei lavori eseguiti ed al valore dei materiali utili esistenti in cantiere, si riferisce alla sola ipotesi in cui lo scioglimento del contratto abbia avuto luogo ai sensi della L. n. 2248/all.F/1865 (oggi si veda l’art. 134, D.Lgs. n. 163/2006, Codice dei contratti pubblici) ossia per volontà della P.A.: sicché non è applicabile al caso di mancata o ritardata consegna dei lavori (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 30.04.2015 n. 8842 - Urbanistica e appalti n. 7/2015).

ESPROPRIAZIONE: ANNULLAMENTO DEGLI ATTI DELLA PROCEDURA ESPROPRIATIVA E RESPONSABILITÀ DA OCCUPAZIONE.
L’annullamento, da parte del giudice amministrativo, degli atti della procedura espropriativa fa sì che l’occupazione, anche parziale, di terreni da parte della P.A. assuma le connotazioni di un illecito permanente, mentre il privato rimane proprietario dei terreni medesimi, sicché di questo illecito deve rispondere la pubblica amministrazione committente, non l’impresa appaltatrice.
La Corte d’Appello, in riforma della sentenza di primo grado, rigettò la domanda proposta da alcuni privati volta alla condanna di un Comune al risarcimento dei danni cagionati a un fondo di loro proprietà in occasione dell’esecuzione di opere pubbliche (una scuola e due strade) realizzate su altra porzione finitima dello stesso fondo, contestualmente occupata e già acquisita in precedenza dallo stesso Comune convenuto.
Ritenne la Corte di merito che la responsabilità dei danni lamentati non potesse essere addebitata al Comune committente delle opere, ma all’appaltatore che nel corso dei lavori aveva depositato sul fondo degli attori il materiale risultante dagli sbancamenti, causando una sopraelevazione del piano di campagna e seppellendo una sorgente e una vasca di raccolta dell’acqua.
Contro la sentenza d’appello i privati ricorrono per Cassazione, che cassa con rinvio.
Osserva la Suprema Corte che -come risulta dalla stessa sentenza impugnata- il Comune “in forza di decreti prefettizi poi annullati dal giudice amministrativo”, aveva occupato l’intera estensione di mq. 7.900 del fondo degli attori. Ne consegue che, come dedotto dai ricorrenti, non può addebitarsi all’appaltatore l’occupazione della porzione di fondo non acquisita al patrimonio comunale, benché dal Comune contestualmente occupata.
Infatti, l’occupazione dell’intero fondo avvenne in forza di un decreto prefettizio poi annullato, non per iniziativa dell’impresa appaltatrice, alla quale il Comune consegnò l’intera superficie di mq. 7.900 già occupata e che dunque, in ogni caso può considerarsi soltanto corresponsabile dell’illecita opposizione.
Fondatamente pertanto gli attori hanno chiesto la condanna del Comune alla restituzione del loro fondo ancor abusivamente occupato, oltre al risarcimento dei danni derivanti dall’illecita occupazione.
La Corte richiama, in proposito, la propria giurisprudenza secondo la quale "l’annullamento, da parte del giudice amministrativo, degli atti della procedura espropriativa fa sì che l’occupazione, anche parziale, di terreni da parte della P.A. assuma le connotazioni di un illecito permanente, mentre il privato rimane proprietario dei terreni medesimi” (Cass., Sez. I, 21.06.2010, n. 14940) e di questo illecito deve rispondere la pubblica amministrazione, non l’impresa appaltatrice (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 27.04.2015 n. 8466 - Urbanistica e appalti n. 7/2015).

EDILIZIA PRIVATA: REQUISITI VALUTABILI DA PARTE DEL GIUDICE DELL’ESECUZIONE A SEGUITO DELLA RICHIESTA DI REVOCA O SOSPENSIONE DELL’ORDINE DI DEMOLIZIONE.
In tema di reati edilizi il giudice dell’esecuzione investito della richiesta di revoca o di sospensione dell’ordine di demolizione delle opere abusive di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 31, in conseguenza della presentazione di una istanza di condono o sanatoria successiva al passaggio in giudicato della sentenza di condanna, è tenuto a esaminare i possibili esiti ed i tempi di conclusione del procedimento amministrativo e, in particolare:
a) il prevedibile risultato dell’istanza e la sussistenza di eventuali cause ostative al suo accoglimento;
b) la durata necessaria per la definizione della procedura, che può determinare la sospensione dell’esecuzione solo nel caso di un suo rapido esaurimento, non essendo consentito paralizzare in modo indefinito il ripristino dell’assetto urbanistico violato.

La Corte Suprema torna a pronunciarsi, con la sentenza in esame, sul tema delle condizioni e dei requisiti che il giudice dell’esecuzione è chiamato a valutare in presenza di un’istanza di revoca o sospensione dell’ordine di demolizione.
La vicenda processuale trae origine dall’ordinanza con cui, il Tribunale rigettava l’istanza con la quale si chiedeva la revoca o la sospensione dell’ingiunzione a demolire un immobile principale ed un fabbricato secondario, oggetto di sanzione penale; secondo il Giudice, infatti, gli stessi non potevano esser condonati poiché non rispettavano i limiti -volumetrici e non- fissati dalla L. 23.12.1994, n. 724 e dalla L. 24.11.2003, n. 326.
Contro la sentenza proponeva ricorso per Cassazione l’interessato, dolendosi del fatto che il Giudice avrebbe erroneamente ritenuto il fabbricato principale come immobile unico, anziché due immobili distinti, si che avrebbe sommato i volumi di entrambi (nell’ottica dei limiti di cui alle leggi citate), anziché considerarli autonomamente; errore dimostrato dall’intera documentazione esibita, comprese le integrazioni, nonché dagli importi versati a titolo di oblazione (al riguardo, il ricorrente sviluppa diffusi calcoli circa le superfici in oggetto).
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha dichiarato inammissibile il ricorso, osservando che il Tribunale di Napoli aveva fatto buon governo di questi principi, rilevando -con riguardo sia all’immobile principale che al fabbricato secondario- la completa assenza dei requisiti di cui alle L. n. 47 del 1985 e L. n. 724 del 1994 e, quindi, il prevedibile esito negativo delle relative istanze; in ordine ad entrambi i beni, infatti, il Giudice aveva sottolineato che gli ampliamenti realizzati eccedevano il consentito suscettibile di condono, sia in termini assoluti che in percentuale rispetto alla volumetria della costruzione originaria.
Ciò, peraltro, con ulteriori precisazioni:
1) quanto al manufatto principale, le due domande di condono si riferivano, in effetti, ad un unico immobile;
2) quanto al fabbricato secondario, il vincolo paesaggistico che grava sull’intera isola di Ischia avrebbe comunque impedito un intervento della tipologia di quello realizzato, invero insuscettibile di condono;
3) l’ordine di demolizione concerne anche opere successive a quelle oggetto di iniziale abuso, anch’esse prive di ogni titolo.
Orbene, a fronte di una motivazione, l’interessato introduceva soltanto valutazioni di mero fatto (circa l’“unicità” o meno del fabbricato principale o la natura del vincolo paesaggistico sulla specifica area) e calcoli aritmetici (circa le volumetrie), sollecitando alla Cassazione una nuova e diversa lettura, alternativa e più favorevole di quella compiuta dal Tribunale.
Quel che, però, non è consentito in sede di legittimità (v., nella giurisprudenza della Cassazione, in senso conforme: Cass. pen., Sez. III, n. 47263 del 17.11.2014, R., in CED, n. 261212; Sez. III, n. 13746 del dep. 22.03.2013, F. e altro, in CED, n. 254752) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.04.2015 n. 17135 - Urbanistica e appalti n. 7/2015).

EDILIZIA PRIVATA: SEQUESTRO PREVENTIVO IN ZONA VINCOLATA SEMPRE ESEGUIBILE INDIPENDENTEMENTE DALL’ULTIMAZIONE DELL’OPERA ABUSIVA.
In tema di violazioni edilizie, ai fini della legittimità del provvedimento di sequestro preventivo, la sola esistenza di una struttura abusiva, realizzata senza autorizzazione e in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, integra il requisito dell’attualità del pericolo, indipendentemente dall’essere l’edificazione ultimata o meno, posto che l’offesa al territorio e gli effetti lesivi all’equilibrio urbanistico perdurano e sono, anzi, aggravati dall’utilizzazione della costruzione ultimata.
La questione giuridica oggetto di esame da parte della Suprema Corte verte, in particolare, sulla eseguibilità del sequestro preventivo di un’opera abusivamente realizzata pur in presenza di intervento edilizio ultimato.
La vicenda processuale trae origine dall’ordinanza con la quale il Tribunale, quale giudice del riesame, ha accolto le istanze degli indagati (nelle rispettive qualità di committente e progettista dei lavori) nei cui confronti si procedeva per i reati di cui al D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, comma 1-bis (costruzione su area boschiva soggetta a vincolo paesaggistico senza autorizzazione della competenze autorità) e d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. c) (realizzazione di una lottizzazione a scopo edificatorio), annullando il decreto di sequestro preventivo emesso dal G.I.P. sulle opere edilizie realizzate dai detti indagati.
Nell’annullare il provvedimento cautelare il Tribunale, per quanto qui di interesse, escludeva la sussistenza del periculum in mora in relazione alla avvenuta pressoché totale ultimazione delle opere edilizie. Avverso la detta ordinanza ricorre il Procuratore della Repubblica, sostenendo, quanto al profilo attinente al periculum in mora, che le opere edilizie non erano ultimate (essendo state definite solo quelle strutturali), e i rilievi fotografici costituivano la prova -ritenuta superata dal Tribunale- della necessità di svolgere ulteriori lavori mediante i macchinari esistenti in loco e raffigurati nelle fotografie allegate; inoltre, anche a voler considerare ultimate le opere, in ogni caso il Tribunale non avrebbe tenuto conto dell’impatto sul territorio e sull’ambiente circostante della costruzione e degli effetti perduranti collegati alla natura permanente del reato.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha accolto il ricorso, osservando che, trattandosi di reato di natura permanente, essa legittima il sequestro preventivo delle opere edilizie realizzate in zona sottoposta a vincolo anche nel caso di ultimazione dei lavori, perché l’esecuzione di interventi edilizi in zona vincolata ne protrae nel tempo e ne aggrava le conseguenze, determinando e radicando il danno all’ambiente ed al quadro paesaggistico che il vincolo ambientale mira a salvaguardare; senza dire che nessun rilievo assume una eventuale ultimazione delle opere, in quanto il rischio di offesa al territorio ed all’equilibrio ambientale, a parte l’effettivo danno al paesaggio, perdura in stretta connessione con l’utilizzazione della costruzione ultimata (per tali concetti, v.: Cass. pen., Sez. II, n. 23681 dell’11.06.2008, C., in CED, n. 240621; Sez. III, n. 30932 del 24.07.2009, T., in CED, n. 245207; Sez. III, n. 42363 del 15.10.2013, C., in CED, n. 257526) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.04.2015 n. 17129 - Urbanistica e appalti n. 7/2015).

EDILIZIA PRIVATA: LA FINALITÀ DELL’OPERA DISTINGUE L’ATTIVITÀ DI SPIANAMENTO LIBERA DA QUELLA VINCOLATA AD UNA PREVENTIVA AUTORIZZAZIONE.
Le opere di scavo, di sbancamento e di livellamento del terreno, finalizzate ad usi diversi da quelli agricoli, in quanto incidenti sul tessuto urbanistico del territorio, sono assoggettate a titolo abilitativo edilizio; ed invero, ciò che connota l’attività di spianamento libera da quella vincolata ad una preventiva autorizzazione è, dunque, la finalità dell’opera, nel senso che solo una migliore sistemazione di un terreno per uso agricolo al fine di una più adeguata coltivazione esula dalla norma urbanistica.
Il tema affrontato dalla Corte di Cassazione con la sentenza in esame attiene alla necessità o meno di un titolo abilitativo edilizio in presenza di interventi consistenti nella movimentazione del terreno.
La vicenda processuale trae origine dalla sentenza con cui la Corte di Appello, in parziale riforma della sentenza del tribunale, condannava l’imputato, cui erano stati contestati i reati di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. c), D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181 e del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 256, comma 1, lett. a).
In particolare, si contestava al medesimo, nella sua qualità di amministratore unico della impresa B. s.p.a. “di avere ... con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, realizzato opere edilizie di seguito indicate in assenza del permesso di costruire e più precisamente per avere realizzato su area di proprietà della società citata (di cui ai mappali 10852, 2154, 3941) un piazzale dell’estensione di circa 3.000 mq. utilizzando per la realizzazione dello stesso materiale litoide proveniente dalla foce del fiume O. a L. d’I., nonché due baracche in lamiera zincata ed un container su basamento di calcestruzzo”.
Al medesimo veniva poi contestato il reato di cui al D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181 (sanzionato dal d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. c) “per avere, nella rispettiva qualità di cui sopra, eseguito opere indicate al capo a) in zona sottoposta a vincolo paesaggistico e ambientale in assenza della preventiva autorizzazione prevista dal D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 146”. Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione l’imputato, in particolare sostenendo che detti reati non erano configurabili, trattandosi di attività non soggette a preventiva autorizzazione.
La Cassazione, respingendo il ricorso dell’imputato, ha affermato il principio di cui in massima, evidenziando il piazzale è stato realizzato per scopi chiaramente industriali (stoccaggio dei rifiuti provenienti dall’attività estrattiva), sottolineando come il livellamento fosse avvenuto su un’area già oggetto di discarica abusiva, aggiungendosi che “il Piano di caratterizzazione del sito non prevedeva la realizzazione di alcun piazzale ma solo interventi di indagini integrative concernenti il torrente O. al fine di dell’adozione del successivo piano di bonifica”.
Ciò è valso per disattendere la tesi difensiva, riproposta con il ricorso, secondo la quale tale piazzale costituiva una sorta di operazione propedeutica alla bonifica, in quanto, essendo ancora in corso l’iter amministrativo per la predisposizione di tale piano, qualsiasi intervento da effettuare in quel sito doveva essere preventivamente autorizzato.
Peraltro, nessuna autorizzazione era stata poi rilasciata a posteriori ed, anzi, era stata ordinata la rimessione in pristino dell’area con relativo ordine di bonifica. La sentenza da continuità ad un indirizzo giurisprudenziale consolidato (v., tra le tante: Cass. pen., Sez. III, n. 4722 del 23.04.1994, G., in CED, n. 198730) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.04.2015 n. 17114 - Urbanistica e appalti n. 7/2015).

LAVORI PUBBLICI: CONDIZIONI PER LA PROROGA LEGALE DEI TERMINI D’OCCUPAZIONE D’URGENZA E DELLE DICHIARAZIONI DI P.U..
Costituisce sedimentato principio giurisprudenziale quello per cui -in deroga alla regola dell’indipendenza dei termini della dichiarazione di p.u. da quelli indicati nel decreto di occupazione temporanea- i termini delle occupazioni d’urgenza e delle dichiarazioni di pubblica utilità in corso alla data di entrata in vigore delle LL. 01.03.1985, n. 42, 29.02.1988, n. 47, L. 20.05.1991, n. 158, sono stati da dette leggi prorogati, con effetto retroattivo, ai sensi dell’art. 4 della L. 01.08.2002, n. 166, automaticamente, di cinque anni.
Una Corte di Appello, in riforma della sentenza resa in prime cure dal Tribunale, con sentenza parziale condannava un Comune al risarcimento dei danni in favore di alcuni privati per l’occupazione illegittima e l’irreversibile trasformazione di un terreno di proprietà degli originari attori, sul quale era stata realizzata un’opera pubblica.
In particolare, la Corte di Appello osservava che nella specie era decorso il termine quinquennale per il compimento dell’espropriazione, con cui la Giunta municipale aveva dichiarato la pubblica utilità dell’opera: per l’effetto, era divenuta illegittima l’occupazione d’urgenza, indipendentemente dal fatto che i relativi termini fossero ancora in corso, e doveva considerarsi emesso in carenza di potere il decreto di esproprio emesso.
Pertanto, considerata l’originaria validità della dichiarazione di pubblica utilità, si era realizzata una fattispecie di accessione invertita e il danno subito dagli attori doveva essere liquidato secondo i criteri dettati dal D.L. n. 333 del 1992 (art. 5-bis, comma 7-bis, introdotto dalla L. n. 662 del 1996).
Con sentenza definitiva, successivamente intervenuta, la Corte di Appello stabiliva l’ammontare del risarcimento dei danni dovuto agli attori, avendo riguardo all’intero valore venale del terreno. In proposito, la Corte richiamava la sentenza Corte cost., n. 349/2007 che aveva dichiarato l’illegittimità del criterio riduttivo previsto dall’art. 5-bis, comma 7-bis, cit., ed affermava che sul punto si doveva escludere la formazione di un qualsiasi giudicato, la cui portata era limitata alla condanna al risarcimento dei danni e non investiva il relativo criterio di determinazione che rispetto a detta condanna rappresentava non un prius, ma un posterius.
Il Comune propone ricorso per Cassazione, che la Corte accoglie.
Merita osservarsi come -alla sintesi di tutte le doglianze- la Suprema Corte richiami con fermezza la propria costante giurisprudenza per la quale i termini di cui alla L. n. 2359/1865, previsti per il compimento delle espropriazioni e dei lavori, ed i termini fissati dal decreto di occupazione, ai sensi dell’art. 20 della L. n. 865/1971, assolvono diverse funzioni nell’ambito della procedura espropriativa: i primi segnando il limite per la giuridica esistenza e validità della dichiarazione di pubblica utilità, condizione di validità della potestà espropriativa; i secondi -relativi all’occupazione temporanea- riguardando l’apprensione del bene per l’inizio dei lavori ed il completamento delle procedure di espropriazione e dell’opera pubblica, con la conseguenza che l’inutile decorso del termine, non prorogato né modificato, previsto dalla dichiarazione di pubblica utilità comporta la sopravvenuta inefficacia del relativo provvedimento, anche indipendentemente dalla presenza di un più lungo termine previsto per l’occupazione temporanea e dalle successive proroghe di esso (Cass., SS.UU., nn. 10024/2007 e 20459/2005).
Sennonché il legislatore, in vista dell’emanazione di una nuova definitiva normativa sulla indennità di espropriazione in conseguenza delle note declaratorie di incostituzionalità contenute nelle decisioni nn. 233/1983 e 5/1980 della Corte Costituzionale, aveva disposto una serie di proroghe obbligatorie dei termini per il compimento del procedimento espropriativo (a partire dal D.L. n. 901/1984).
Di dette proroghe, quella recata dall’art. 4 della L. n. 166/2002, ha ribadito il collegamento necessario per raggiungere la finalità perseguita in relazione non soltanto alle occupazioni temporanee, ma anche alle dichiarazioni di p.u. che del provvedimento di occupazione costituiscono il presupposto indefettibile (Cass. n. 4202/2009; Cass., SS.UU., n. 3569/2011).
Di conseguenza la giurisprudenza di questa Corte e quella amministrativa hanno affermato il principio che -in deroga alla regola della indipendenza dei termini della dichiarazione di p.u. da quelli indicati nel decreto di occupazione temporanea- i termini delle occupazioni d’urgenza e delle dichiarazioni di pubblica utilità in corso alla data di entrata in vigore delle LL. 01.03.1985, n. 42; 29.02.1988, n. 47; L. 20.05.1991, n. 158; sono stati da dette leggi prorogati, con effetto retroattivo, ai sensi dell’art. 4 della L. 01.08.2002, n. 166, automaticamente, di cinque anni (Cass. 21.06.2012, n. 10394; Cass., SS.UU., 08.02.2006, n. 2630).
Nella specie, il termine quinquennale della dichiarazione di pubblica utilità -resa con Delibera del 19.07.1980- era ancora in corso alla data di entrata in vigore della citata L. n. 42/1985 e, pertanto, è stato da essa prorogato, con conseguente tempestività del decreto di esproprio emesso il 21.11.1986, atteso che a tale data era ancora in corso, per essere stato a sua volta prorogato dalle medesime leggi, anche il ... (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 23.04.2015 n. 8315 - Urbanistica e appalti n. 7/2015).

EDILIZIA PRIVATA: LA REALIZZAZIONE DI TETTOIE RILEVA SOTTO IL PROFILO URBANISTICO E RICHIEDE IL PERMESSO DI COSTRUIRE OVE DIFETTI DEI REQUISITI RICHIESTI PER LE PERTINENZE E PER GLI INTERVENTI PRECARI.
La realizzazione di tettoie assume comunque rilevanza sotto il profilo urbanistico, richiedendo quindi il permesso di costruire, allorché difetti dei requisiti richiesti per le pertinenze e per gli interventi precari, come peraltro avviene con riferimento a tutte le tipologie di manufatti; ed invero, le tettoie sono state sempre considerate come parti di un edificio preesistente o autonomamente valutate come interventi di nuova costruzione.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame, sull’individuazione delle condizioni e dei requisiti in presenza dei quali la realizzazione di una “tettoia” richiede il preventivo rilascio di un titolo abilitativo edilizio.
La vicenda processuale segue alla sentenza con la quale la Corte di Appello ha subordinato alla demolizione dell’opera abusiva la sospensione condizionale della pena, in quanto l’imputata era stata riconosciuta responsabile dei reati di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. e), artt. 65, 72, 93, 94 e 95 e D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181 per aver realizzato, sul piano attico di un preesistente edificio insistente in zona sismica, sottoposta a vincolo paesaggistico, in assenza dei necessari titoli abilitativi, una tettoia in materiale ligneo e laterizi, a due spioventi, avente una superficie di circa 40 mq, comportante modifica strutturale e di sagoma del preesistente edificio.
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione l’imputata, in particolare denunciando la violazione di legge ed il vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta necessità del permesso di costruire, trattandosi, nella fattispecie, di intervento avente natura meramente pertinenziale.
La Corte, nel respingere il ricorso, ha affermato il principio di cui in massima, ricordando che l’opera precaria, per la sua stessa natura e destinazione, non comporta effetti permanenti e definitivi sull’originario assetto del territorio tali da richiedere il preventivo rilascio di un titolo abilitativo.
Secondo la giurisprudenza della Cassazione, la precarietà di un’opera non può essere desunta dalla temporaneità della destinazione soggettivamente datale dall’utilizzatore, non rilevano le sue caratteristiche costruttive, i materiali impiegati e l’agevole amovibilità, mentre risulta determinante l’intrinseca destinazione materiale ad un uso realmente precario per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo con destinazione ad una sollecita eliminazione alla cessazione dell’uso (cfr. Cass. pen., Sez. III, n. 966 del 13.01.2015, M., in CED, n. 261636; Id., Sez. III, n. 22054 del 27.05.2009, F., in CED, n. 243710).
Parimenti, per ciò che concerne le pertinenze, si è precisato (Sez. III, n. 25669 del 30.05.2012, Z. e altro, in CED, n. 253064) che, affinché un manufatto presenti il carattere della pertinenza, si richiede che abbia una propria individualità, che sia oggettivamente preordinato a soddisfare le esigenze di un edificio principale legittimamente edificato, che sia sfornito di autonomo valore di mercato, che abbia ridotte dimensioni, che sia insuscettibile di destinazione autonoma e che non si ponga in contrasto con gli strumenti urbanistici vigenti (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.04.2015 n. 16806 - Urbanistica e appalti n. 7/2015).

URBANISTICA: IL C.D. FRAZIONAMENTO INTEGRANTE LA LOTTIZZAZIONE VIETATA DALLA LEGGE PUÒ ANCHE REALIZZARSI MEDIANTE OGNI ALTRA FORMA DI SUDDIVISIONE DI FATTO.
Il c.d. frazionamento integrante attività lottizzatoria vietata dalla legge non deve necessariamente avvenire attraverso un’apposita operazione catastale che preceda le vendite o, comunque, gli atti di disposizione, potendosi anche realizzare mediante ogni altra forma di suddivisione di fatto, atteso che il termine “frazionamento” deve ritenersi utilizzato dal legislatore in modo atecnico e, pertanto, riferito a qualsiasi attività giuridica che abbia per effetto la suddivisione in lotti di una più ampia estensione territoriale, comunque predisposta od attuata ed anche se avvenuta in forma non catastale, attribuendone la disponibilità ad altri al fine di realizzare una non consentita trasformazione urbanistica o edilizia del territorio.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame, sulla disciplina lottizzatoria e, più specificamente, di quell’attività, prevista dalla legge, consistente nel c.d. frazionamento catastale.
La vicenda processuale segue alla sentenza con la quale la Corte di appello ha dichiarato non doversi procedere nei confronti degli imputati, in ordine ai reati loro ascritti concernenti ipotesi di lottizzazione abusiva e connessi abusi edilizi e violazioni paesaggistiche perché estinti per prescrizione, confermando la confisca del terreno.
Contro la sentenza proponevano ricorso per cassazione gli interessati, in particolare sostenendo, in relazione alla ritenuta sussistenza della lottizzazione abusiva, che dall’istruzione dibattimentale non sarebbe emersa la sussistenza dei presupposti per la configurabilità del reato nella forma della lottizzazione negoziale, né risulterebbero trasformazioni irreversibili del fondo attraverso la realizzazione di opere di urbanizzazione.
Non sarebbe stata, inoltre, considerata la effettiva natura e consistenza delle opere realizzate; la dedotta insussistenza della lottizzazione abusiva, poi, avrebbe dovuto comportare la restituzione dell’area agli aventi diritto e non anche la confisca.
La Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso e, nell’affermare il principio di cui in massima, ha ricordato come si abbia una lottizzazione negoziale quando la trasformazione di un’area venga attuata attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche, quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l’ubicazione o la eventuale previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio.
Come emerge dalla descrizione medesima dell’art. 30, d.P.R. n. 380 del 2001, la lottizzazione negoziale si configura sulla base di situazioni che la giurisprudenza amministrativa e quella penale indicano come elementi indiziari. L’elencazione di tali indici rivelatori dell’intento lottizzatorio non è tassativa e, secondo la giurisprudenza, essi non devono necessariamente coesistere, ritenendosi sufficiente che lo scopo edificatorio emerga anche da un solo indizio (v., nella giurisprudenza amministrativa: Cons. Stato, Sez. V, n. 3136 del 14.05.2004; Cons. Stato, Sez. IV, n. 2004 del 31.03.2009; Cass. pen., Sez. III, n. 39078 del 13.07.2009, A., non massimata sul punto).
Può configurarsi, perciò, lottizzazione negoziale anche nell’ipotesi in cui venga stipulato un solo atto di trasferimento a più acquirenti, i quali pervengano nella disponibilità e/o nel godimento di quote di un terreno indiviso e questo, anzi, è un meccanismo al quale si è fatto frequentemente ricorso proprio con l’intento di aggirare, attraverso una forma stipulatoria “mascherata”, il divieto di lottizzazione posto dal legislatore (Cass. pen., Sez. III, n. 6080 del 07.02.2008, C. e altri, in CED, n. 238978; Id., Sez. VI, n. 48472 del 28.11.2013, P.M. in proc. D’A. e altri, in CED, n. 257457) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.04.2015 n. 16803 - Urbanistica e appalti n. 7/2015).

EDILIZIA PRIVATA: IL COSTRUTTORE PUÒ RISPONDERE INDIFFERENTEMENTE PER DOLO O PER COLPA IN CASO DI COSTRUZIONE ABUSIVA.
Il costruttore, quale diretto responsabile dell’opera, prima di iniziare i lavori, ha il dovere di controllare che siano state richieste e rilasciate le prescritte autorizzazioni, con la conseguenza che risponderà a titolo di dolo, se darà inizio alle opere nonostante l’accertamento negativo, ed a titolo di colpa, nell’ipotesi in cui ometta tale accertamento, perché la responsabilità del costruttore trova il suo fondamento nella violazione dell’obbligo, imposto dalla legge, di osservare le norme in materia urbanistico-edilizia.
Il tema oggetto di attenzione da parte della Suprema Corte con la sentenza in esame è quello, assai frequente nella prassi di legittimità, della possibilità di individuare come responsabile dei lavori edilizi il c.d. costruttore.
La vicenda processuale trae origine dalla sentenza con cui la Corte di Appello ha confermato l’affermazione di responsabilità penale di due imputati per il reato di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b), loro attribuito, nelle rispettive qualità di proprietario committente e legale rappresentante dell’impresa esecutrice dei lavori, per la realizzazione, in assenza di titolo abilitativo, di un edificio con tetto a capanna delle dimensioni di m. 11,03 e 6,02, con altezza di gronda pari a m. 2,60 ed al colmo 3,82, per un volume complessivo di circa mc 172,65, suddiviso in tre ambienti: ampio locale, angolo cottura e bagno.
Contro la sentenza, per quanto qui di interesse, proponeva ricorso per cassazione il costruttore, in particolare sostenendo che i giudici di merito avrebbero ignorato la sua particolare posizione in seno alla società F. S.r.l., della quale egli era co-amministratore con poteri disgiunti per l’ordinaria amministrazione, nell’ambito della quale certamente rientrerebbe l’intervento edilizio oggetto di imputazione, non considerando che solo l’altro amministratore era presente in cantiere all’atto dell’accertamento del reato che, pertanto, non poteva essere attribuito anche a lui.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha osservato che secondo quanto disposto dal d.P.R. n. 380 del 2001, art. 29, anche l’assuntore dei lavori, indicato come costruttore, è responsabile della conformità delle opere alla normativa urbanistica, alle previsioni di piano nonché, unitamente al direttore dei lavori, a quelle del permesso e alle modalità esecutive stabilite dal medesimo.
Come correttamente rilevato dalla Corte d’appello, indipendentemente dal regime di amministrazione disgiuntiva adottata dalla società, l’imputato rivestiva comunque la posizione di legale rappresentante della società che l’obbligava a vigilare sulla regolarità degli interventi da eseguire. La sentenza da continuità ad un indirizzo giurisprudenziale consolidato (v., tra le tante: Cass. pen., Sez. III, n. 860 del 18.01.2005, C., in CED, n. 230663) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.04.2015 n. 16802 - Urbanistica e appalti n. 7/2015).

EDILIZIA PRIVATA: LA DISCIPLINA DEGLI IMPIANTI DI PRODUZIONE DI ENERGIA DA FONTI RINNOVABILI NELLE ZONE AGRICOLE NON RILEVA AI FINI DELLA DEROGA SULLA REALIZZABILITÀ SUI SOPRASSUOLI PERCORSI DAL FUOCO.
Il D.Lgs. n. 387 del 2003, art. 12, comma 7, limitandosi a prevedere la possibilità di ubicare gli impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili anche nelle zone classificate come agricole, peraltro con determinati obblighi, non assume rilievo ai fini dell’applicabilità della deroga di cui alla L. n. 353 del 2000, art. 10, che consente la realizzazione di edifici, strutture ed infrastrutture finalizzate ad insediamenti civili ed attività produttive nei soprassuoli percorsi dal fuoco nei casi in cui la realizzazione sia stata prevista in data antecedente all’incendio dagli strumenti urbanistici vigenti a tale data.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame, sul tema dei rapporti intercorrenti tra la disciplina in materia di realizzazione di impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili e quella che consente la realizzazione di edifici, strutture ed infrastrutture finalizzate ad insediamenti civili ed attività produttive nei soprassuoli percorsi dal fuoco nei casi in cui la realizzazione sia stata prevista in data antecedente all’incendio dagli strumenti urbanistici vigenti a tale data.
La vicenda processuale segue alla ordinanza con la quale il Tribunale ha confermato il decreto di sequestro preventivo emesso dal Giudice per le indagini preliminari avente ad oggetto un parco eolico, composto da nove generatori e tre cabine elettriche, dalle opere di urbanizzazione asservite e dai terreni limitrofi, ipotizzandosi nei confronti dell’amministratore della “A.W. s.r.l.”, i reati di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b) e c).
Contro l’ordinanza quest’ultimo proponeva ricorso per cassazione, in particolare lamentando, da un lato, che il Tribunale avrebbe erroneamente escluso la possibilità di fare ricorso alla procedura semplificata di cui all’art. 12, comma 5, D.Lgs. n. 387/2003, per la realizzazione dell’impianto eolico, in quanto lo stesso sarebbe stato artificiosamente frazionato, censurando l’erronea individuazione, da parte dei giudici del riesame, dei “punti di connessione” nelle cabine di trasformazione invece che nei contatori collegati a ciascuna turbina, come precisato nell’art. 1, comma 1, lett. ee), e art. 5 dell’Allegato A della deliberazione ARG/eIt 99/88 dell’Autorità dell’Energia: da ciò conseguirebbe che i nove aerogeneratori costituirebbero singoli impianti mini-eolici, ciascuno di potenza inferiore a 60 Kw, soggetti, pertanto, a procedura abilitativa semplificata.
Dall’altro, deduceva la violazione della L. n. 353 del 2000, art. 10, evidenziando che la contravvenzione di cui del d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. c), sarebbe stata contestata in relazione al fatto che parte delle turbine erano state realizzate su aree percorse da incendio, non considerando che la zona è classificata come “agricola”, ove è prevista la possibilità di installare pale eoliche; l’esistenza di vincoli sull’area non risultava nota neppure agli uffici competenti per la definizione delle pratiche, tanto che non sarebbe stata menzionata nei certificati di destinazione urbanistica, cosicché non poteva ipotizzarsi, nei suoi confronti, alcuna negligenza.
La Corte, nel respingere il ricorso, ha affermato il principio di cui in massima, ricordando che la L. n. 353 del 2000, art. 10, laddove consente la realizzazione di edifici, strutture ed infrastrutture finalizzate ad insediamenti civili ed attività produttive nei soprassuoli percorsi dal fuoco nei casi in cui la realizzazione sia stata prevista in data antecedente all’incendio dagli strumenti urbanistici vigenti a tale data, si riferisce alla specifica localizzazione dell’area riservata all’intervento da parte dello strumento urbanistico e non anche alla previsione di zona, con la conseguenza che non rileva, ai fini della speciale deroga, la generica compatibilità dell’intervento con la destinazione dell’area, essendo al contrario richiesto che l’area medesima sia già riservata dallo strumento urbanistico alla realizzazione delle predette opere (Cass. pen., Sez. III, n. 16592 del 31.03.2011, S., in CED, n. 250154.; Id., Sez. III, n. 32807 del 23.04.2013, P.M. in proc. T., in CED, n. 255905).
A ciò non sopperisce certo -secondo gli Ermellini- il D.Lgs. n. 387 del 2003, art. 12, comma 7, il quale si limita a prevedere la possibilità di ubicare gli impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili anche nelle zone classificate come agricole, peraltro con l’obbligo di tenere conto “delle disposizioni in materia di sostegno nel settore agricolo, con parti colare riferimento alla valorizzazione delle tradizioni agroalimentari locali, alla tutela della biodiversità, così come del patrimonio culturale e del paesaggio rurale di cui alla L. 05.03.2001, n. 57, artt. 7 e 8, nonché del D.Lgs. 18.05.2001, n. 228, art. 14” (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 21.04.2015 n. 16624 - Urbanistica e appalti n. 7/2015).

EDILIZIA PRIVATA: IL REGIME DEI TITOLI ABILITATIVI EDILIZI NON PUÒ ESSERE ELUSO ATTRAVERSO LA SUDDIVISIONE DELL’ATTIVITÀ EDIFICATORIA FINALE NELLE SINGOLE OPERE CHE CONCORRONO A REALIZZARLA.
Il regime dei titoli abilitativi edilizi non può essere eluso attraverso la suddivisione dell’attività edificatoria finale nelle singole opere che concorrono a realizzarla, astrattamente suscettibili di forme di controllo preventivo più limitate per la loro più modesta incisività sull’assetto territoriale; ed invero, l’opera deve essere infatti considerata unitariamente nel suo complesso, senza che sia consentito scindere e considerare separatamente i suoi singoli componenti e ciò ancor più nel caso di interventi su preesistente opera abusiva.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame, sulla questione, assai ricorrente nella pratica, della “elusione” normativa della disciplina edilizia in tema di titoli abilitativi, attraverso la presentazione di richieste per interventi apparentemente inquadrabili in tipologie per le quali è richiesto un titolo abilitativo “leggero”, ma che in realtà celano l’esecuzione di più importanti edificazioni.
La vicenda processuale segue alla ordinanza con la quale il Tribunale ha annullato il decreto di sequestro preventivo, emesso dal Giudice per le indagini preliminari, di un manufatto costituto da una tettoia in legno di circa 100 mq, successivamente tamponata, asservita ad un preesistente locale adibito a bar ristorante e realizzata in area sismica, soggetta a vincolo idrogeologico, in assenza di validi titoli abilitativi e rispetto alla quale risulta indagato il proprietario committente, unitamente ad altri, per i reati di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b), artt. 93 e 95; art. 110 c.p., art. 61 c.p., n. 2, art. 81 e 481 c.p.; art. 110 e 323 c.p..
Contro l’ordinanza proponeva ricorso per Cassazione il P.M., rilevando che i giudici del riesame, pur ritenendo sussistente il fumus dei reati ipotizzati, si sarebbero adagiati, quanto alla valutazione del periculum, sulle tesi della difesa, senza tenere in alcun conto le contestazioni formulate e gli elementi emersi in corso di indagine e compiutamente evidenziati nella richiesta di sequestro preventivo accolta dal G.I.P., il provvedimento del quale ben poteva essere integrato dal Tribunale, nonché della concreta incidenza delle opere realizzate sul carico urbanistico.
La Corte, nell’accogliere il ricorso, ha affermato il principio di cui in massima, osservando come, la descrizione della vicenda sintetizzata dal Tribunale poneva in evidenza una serie di comportamenti la cui particolarità non può essere ignorata.
Ci si riferisce, in primo luogo, alle modalità con le quali si è proceduto alla realizzazione delle opere attraverso la frammentazione degli interventi, assentiti con d.i.a., per giungere al risultato finale della creazione di nuovi volumi e la successiva richiesta di un permesso di costruire in sanatoria, titolo abilitativo, quest’ultimo, che sarebbe stato dunque necessario fin dall’inizio per la realizzazione del manufatto.
Una simile evenienza, che nel caso in esame risultava ancor più rilevante, avendo l’ufficio di Procura ipotizzato la falsità delle asseverazione che accompagnavano le d.i.a. e l’abuso d’ufficio nel rilascio del titolo abilitativo sanante, non poteva essere ignorata, perché si poneva in palese contrasto con il principio di cui in massima, espressione di un consolidato orientamento della Cassazione (v., da ultimo: Cass. pen., Sez. III, n. 5618 del 14.02.2012, F., in CED, n. 252125) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 21.04.2015 n. 16622 - Urbanistica e appalti n. 7/2015).

EDILIZIA PRIVATA: LE DEROGHE PREVISTE DALLA NORMATIVA SUL RISPARMIO ENERGETICO PER LA REALIZZAZIONE DI EDIFICI DI NUOVA COSTRUZIONE NECESSITANO DI ESPRESSO RICONOSCIMENTO DA PARTE DELL’ENTE COMUNALE.
Le deroghe previste dalla normativa sul risparmio energetico per la realizzazione di edifici di nuova costruzione non possono essere considerate in maniera autonoma da parte dei proprietari e dei committenti l’opera edilizia, ma necessitano di espresso riconoscimento da parte dell’ente comunale attraverso le procedure autorizzatorie disciplinate dalla legge.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame, sulla questione dei rapporti intercorrenti tra la disciplina in materia di risparmio energetico per la realizzazione di edifici di nuova costruzione e la necessità di titoli abilitativi.
La vicenda processuale segue alla sentenza con cui il Tribunale di Nola dichiarava l’imputata colpevole della contravvenzione di cui al d.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 44, lett. a); alla stessa era ascritto di aver apportato variazioni essenziali (sagoma, altezza, volume e superficie) al permesso di costruire in sanatoria rilasciato dal Comune. Contro la sentenza l’imputata proponeva ricorso per Cassazione, deducendo l’erronea applicazione del D.L. 13.05.2011, n. 70, art. 5, comma 2, e d.P.R. n. 380 del 2001, art. 34, comma 2-ter, in quanto, il Tribunale, pur ritenendo le violazioni di lieve entità, avrebbe omesso di valutare in concreto l’effettiva portata delle stesse, non procedendo ad apposita misurazione.
La Corte, nel respingere il ricorso, ha affermato il principio di cui in massima, osservando in particolare, quanto all’invocato D.Lgs. n. 115 del 2008, come il Tribunale aveva evidenziato che l’imputata aveva subito il diniego del permesso di costruire in sanatoria in ordine alle difformità riscontrate (anche) perché “tale adeguamento tecnico non era stato richiesto, né previsto nel progetto”.
Trattasi, per i giudici di legittimità, di una motivazione sintetica, ma del tutto adeguata, atteso che l’art. 11, comma 1, D.Lgs. in oggetto (oggi sostituito dal D.Lgs. 04.07.2014, n. 102, art. 14, comma 6), prevede espressamente che “è permesso derogare, nell’ambito delle pertinenti procedure di rilascio dei titoli abitativi di cui al titolo 2° del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, a quanto previsto dalle normative nazionali, regionali o dai regolamenti edilizi comunali, in merito alle distanze minime tra edifici, alle distanze minime di protezione del nastro stradale, nonché alle altezze massime degli edifici”; con l’effetto -come già affermato dalla stessa Cassazione (Cass. pen., Sez. III, n. 28048 del 26/01/2011, R., in CED, n. 250593)- che le deroghe previste dalla normativa sul risparmio energetico per la realizzazione di edifici di nuova costruzione non possono essere considerate in maniera autonoma da parte dei proprietari e dei committenti l’opera edilizia, ma necessitano di espresso riconoscimento da parte dell’ente comunale attraverso le procedure autorizzatorie disciplinate dalla legge (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.04.2015 n. 16326 - Urbanistica e appalti n. 7/2015).

EDILIZIA PRIVATA: ATTENUANTE DELLA RIPARAZIONE DEL DANNO RICONOSCIBILE SOLO SE LA DEMOLIZIONE DELL’OPERA ABUSIVA È SPONTANEA MA NON SE COSTITUISCE ADEMPIMENTO DI UN OBBLIGO.
L’attenuante della riparazione del danno non può essere riconosciuta se la demolizione dell’opera abusiva non è spontanea ma costituisce adempimento all’ordine di demolizione per evitare l’acquisizione del bene e dell’area di sedime al patrimonio comunale.
La Corte di Cassazione si occupa, nella sentenza qui esaminata, del tema della possibilità di riconoscere all’imputato l’attenuante della c.d. riparazione del danno in caso di demolizione dell’opera abusiva.
La vicenda processuale che ha fornito l’occasione alla Corte per occuparsi della questione segue alla sentenza di condanna, confermata anche in grado d’appello, nei confronti di due imputati, condannati per il reato continuato di cui agli artt. 110 e 81 cpv. c.p., d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. c), e art. 95, D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, art. 181.
La Corte di Appello, in particolare, aveva ritenuto non ancora prescritta l’abusiva realizzazione, in zona sismica e sottoposta a vincolo paesistico, del fabbricato ad un vano che era risultato privo di copertura (e dunque non ancora ultimato). Contro la sentenza i medesimi proponevano ricorso per cassazione, in particolare sostenendo l’omessa valutazione, ai fini dell’invocata applicabilità dell’art. 62 c.p., n. 6), della integrale demolizione dei manufatti, effettuata in epoca anteriore alla prima udienza.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha respinto sul punto il ricorso, in particolare osservando che la circostanza attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 6), è applicabile anche ai reati edilizi limitatamente però alla previsione di cui alla seconda parte, trattandosi di reati che non offendono il patrimonio (Cass. pen., Sez. III, n. 10169 del 04.10.1993, P., in CED, n. 161444).
Proprio per questo, concludono gli Ermellini, l’attenuante in questione non può essere riconosciuta se la demolizione dell’opera abusiva non è spontanea ma costituisce adempimento all’ordine di demolizione (viepiù per evitare l’acquisizione del bene e dell’area di sedime al patrimonio comunale: v., da ultimo, Cass. pen., Sez. III, n. 29991 del 13.07.2011, C., in CED, n. 251025; cfr. anche, Sez. III, n. 41518 del 22.10.2010, B., in CED, n. 248745) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.04.2015 n. 16319 - Urbanistica e appalti n. 7/2015).

EDILIZIA PRIVATA: LA TEMPORANEITÀ DELL’ESIGENZA NON VA CONFUSA CON LA SUA STAGIONALITÀ, CHE NON VALE A FAR RITENERE PRECARIA L’OPERA PUR FACILMENTE AMOVIBILE E MAI RIMOSSA.
La oggettiva inamovibilità dell’opera non può essere soverchiata dalla temporaneità delle esigenze che l’opera intende soddisfare; quand’anche le esigenze siano temporanee, un immobile saldamente ancorato al suolo e mai più rimosso non può certamente ritenersi sottratto a permesso di costruire.
Vi ostano, infatti, le caratteristiche strutturali che oggettivamente incidono in modo non reversibile sull’assetto del territorio e che lo stesso legislatore ha inteso valorizzare a tal fine (il non stabile ancoraggio al suolo di cui all’art. 3, comma 3, lett. e.5, la speculare necessità della effettiva rimozione dell’opera di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 6, comma 2, lett. b).

La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame, sul tema dei rapporti intercorrenti tra la temporaneità dell’esigenza che l’opera edilizia intende soddisfare e il diverso concetto della stagionalità dell’opera medesima.
La vicenda processuale segue alla sentenza con cui la Corte di appello ha confermato la condanna inflitta agli imputati, dichiarati responsabili del reato di cui all’art. 81 c.p., comma 1, D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, artt. 142 e 181, e d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. c), perché, in concorso fra loro, nelle rispettive qualità di legali rappresentanti della società “L.P. S.r.l.”, società committente dei lavori, i primi due, di esecutore dei lavori il terzo, avevano realizzato, in zona sottoposta a vincolo paesaggistico ed in assenza di qualsiasi titolo abilitativo, un plinto di calcestruzzo delle dimensioni di mt. 5x5, sul quale era stata montata una struttura prefabbricata, nonché una struttura triangolare in legno e copertura con canne, adibita a barbecue.
Contro la sentenza gli stessi proponevano ricorso per cassazione, in particolare eccependo che i manufatti realizzati costituiscono interventi di natura precaria, essendo oggettivamente destinati a soddisfare esigenze improvvise e  transeunti.
Non rilevano, secondo la difesa, la natura dei materiali adottati e la facile amovibilità dell’opera ma le esigenze, nel caso di specie stagionali, che quest’ultima soddisfa: ai fini della qualificazione dell’opera come precaria, dunque, non avrebbe rilevanza il dato strutturale, ma quello funzionale.
La Corte, nel dichiarare inammissibile il ricorso, ha affermato il principio di cui in massima, osservando come la oggettiva destinazione dell’opera a soddisfare bisogni non provvisori, la sua conseguente attitudine ad una utilizzazione non temporanea, né contingente, è criterio da sempre utilizzato dalla giurisprudenza per distinguere l’opera assoggettabile a regime concessorio (oggi permesso di costruire) da quella realizzabile liberamente, a prescindere dall’incorporamento al suolo o dai materiali utilizzati (v., tra le tante: Cass. pen., Sez. III, sentenza n. 22054 del 25.02.2009, quest’ultima con richiamo ad ulteriori precedenti conformi di questa Corte e del Consiglio di Stato).
Nemmeno il carattere stagionale dell’attività implica di per sé la precarietà dell’opera (Cass. pen., Sez. III, sentenza n. 34763 del 21.06.2011). Tali principi sono maturati, sono stati espressi e sono stati fatti propri dal legislatore nei termini indicati dal d.P.R. n. 380 del 2001, art. 3, per superare le obiezioni volte a identificare la precarietà dell’opera con la natura dei materiali utilizzati, con il fatto che l’opera non fosse stabilmente incorporata al suolo o con la natura stagionale del servizio cui essa è preposta.
Mai però, concludono i giudici di Piazza Cavour, è stato messo in discussione il principio secondo il quale la oggettiva inamovibilità dell’opera potesse essere soverchiata dalla temporaneità delle esigenze che l’opera intende soddisfare (v., da ultimo: Cass. pen., Sez. III, n. 34763 del 26 settembre 2011, B., in CED, n. 251243) (
Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.04.2015 n. 16316 - Urbanistica e appalti n. 7/2015).

EDILIZIA PRIVATA - VARI: CIRCA IL MOMENTO DI VERIFICA DELLA REGOLARITÀ URBANISTICA ED EDILIZIA DELL’IMMOBILE COMPRAVENDUTO.
La verifica circa l’adempimento delle obbligazioni poste a carico del promittente venditore va compiuta con riferimento al momento della data di conclusione del contratto definitivo, anche in relazione alla regolarità urbanistica dell’immobile, dovendo in quel momento sussistere le condizioni per la commerciabilità del bene promesso.
Due privati convennero in Tribunale un altro privato, esponendo che quest’ultimo si era impegnato a vendere loro, a un prezzo predeterminato, un’unità immobiliare ricevendo a titolo di caparra la somma di trenta milioni di lire.
Quest’ultimo, di contro, esponeva di aver notificato una diffida -pena la risoluzione del contratto- al pagamento della somma di 100 milioni di lire a fronte della quale gli attori avevano chiesto chiarimenti circa la conformità del fabbricato alla normativa vigente, comunicando la loro dichiarazione di recesso in ragione di talune irregolarità urbanistiche a loro emerse. Sulla scorta di ciò, chiesero la condanna al pagamento del doppio della caparra versata al venditore.
Instauratosi il contraddittorio, parte convenuta eccepiva l’infondatezza della domanda deducendo, fra l’altro, che erano stati gli attori a rendersi inadempienti per non aver effettuato il richiesto pagamento dell’acconto e pertanto chiedeva che, dichiarata l’avvenuta risoluzione del contratto, fosse accertato il proprio diritto a trattenere la caparra.
Il Tribunale rigettava la domanda, escludendo in particolare l’inadempimento della promittente venditrice al momento d’invio della diffida, posto che nel contratto preliminare era stata prevista la soluzione taluni aspetti inerenti alla situazione del fabbricato (sotto il profilo urbanistico e del regime dell’edilizia popolare) entro la data di stipulazione del contratto definitivo.
La Corte di appello, in riforma della decisione impugnata, dichiarava legittimo il recesso dal contratto, rigettando le domande proposte dalla convenuta che condannava al pagamento del doppio della caparra.
La questione -su iniziativa dell’originaria parte attrice- approda all’esame della Suprema Corte, che accoglie il ricorso cassando la sentenza con rinvio.
Osserva il Giudice di legittimità che secondo la ricostruzione compiuta dai Giudici del merito, il contratto preliminare, con cui era fissata la data per la conclusione del definitivo, prevedeva ad un’anteriore scadenza l’obbligo -per i promissari acquirenti- del versamento della rata di lire 100.000.000 che non venne versata. Pertanto, la promittente venditrice inviò diffida ad adempiere, al quale seguì richiesta da parte degli acquirenti di chiarimenti sulle condizioni dell’immobile e, poi, la dichiarazione di recesso da parte degli stessi.
La sentenza d’appello ha ritenuto l’inadempimento della parte promittente venditrice che nel contratto preliminare si era impegnata: a) a riscattare l’immobile dal Comune, assumendo che lo stesso sarebbe stato costruito in base a diritto di superficie; b) a rendere tutte le dichiarazioni necessarie comprese quelle relative alla regolarità urbanistiche.
Contrariamente a quanto dichiarato nel contratto preliminare, secondo i Giudici, l’immobile era stato costruito su suolo ceduto in piena proprietà e non con concessione del diritto di superficie, per cui sarebbe stata necessaria l’autorizzazione del Comune previo pagamento di una somma di denaro e soprattutto l’assunzione da parte degli acquirenti delle obbligazioni di cui alla convenzione da stipulare con il Comune con l’impegno di rispettare le condizioni e le sanzioni che l’Ente avrebbe deliberato: il che emergeva dalla Delibera comunale n. 131/2000, dall’autorizzazione provvisoria rilasciata alla convenuta nonché dalle obbligazioni assunte dai successivi acquirenti con la compravendita successivamente conclusa dalla convenuta.
Inoltre l’immobile presentava irregolarità urbanistiche che la convenuta chiedeva di sanare soltanto in seguito, rispondendo -alla richiesta di chiarimenti formulata dagli acquirenti- di essersi immediatamente azionata incaricando un tecnico di fiducia. Ciò posto, occorre innanzitutto considerare che gli art. 31, commi 45 e 46, L. n. 448/1998, consentivano la sostituzione della convenzioni stipulate ai sensi dell’art. 35 della L. n. 865/1971, art. 35 anche con riferimento degli immobili ceduti in proprietà, di guisa che era possibile giungere alla convenzione disciplinata dall’art. 8, L. n. 10/1977, da stipulare con il Comune, previo pagamento del corrispettivo.
Peraltro, come si è detto, la condizione giuridica dell’immobile era stata dichiarata nel preliminare dalla promittente che aveva edotto gli acquirenti della natura dell’immobile promesso in vendita e dei relativi vincoli.
Al fine di stabilire l’adempimento delle obbligazioni poste a carico della promittente, osserva la Cassazione che la verifica andava compiuta con riferimento al momento della data di conclusione del contratto definitivo, anche in relazione alla regolarità urbanistica dell’immobile, dovendo in quel momento sussistere le condizioni per la commerciabilità del bene promesso.
La promittente aveva assicurato le controparti di svolgere le attività necessarie, rendendo le relative dichiarazioni di conformità in sede di stipula del definitivo: pertanto, sarebbe stato allora necessario di verificare se, al momento del termine di scadenza fissato per la stipula del definitivo, fosse o meno intervenuta la concessione in sanatoria degli abusi, alla quale la ricorrente ha fatto riferimento: tale verifica non è stata in alcun modo compiuta dai Giudici che, pur dando atto della sanatoria intervenuta successivamente al recesso dichiarato dai promissari acquirenti, si sono soffermati su presunte dissimulazione dello stato di fatto dell’immobile che, come si è detto erano contraddette da quanto risultava dichiarato nel contratto preliminare.
Ed evidentemente, soltanto all’esito della verifica dell’inadempimento di non scarsa importanza della promittente, si sarebbe dovuto accertare, con valutazione comparativa, se fosse stato improntato a buona fede il mancato pagamento della rata del prezzo alla scadenza prevista e il recesso dal contratto dichiarato dagli attori.
Per questo motivo, la sentenza è cassata in relazione ai motivi accolti, con rinvio, anche per le spese della presente fase, ad altra sezione della Corte di Appello di Bologna (Corte di Cassazione, Sez. II civlle, sentenza 16.04.2015 n. 7819 - Urbanistica e appalti n. 7/2015).

APPALTI: LA CASSAZIONE FA IL PUNTO SUL CONCETTO DI “SUBAPPALTO”.
L’art. 21, L. n. 646/1982, nel vietare il subappalto non autorizzato, si riferisce esclusivamente a quella particolare forma di contratto derivato o subcontratto configurabile quando l’appaltatore affidi a un terzo il compimento, in tutto o in parte, di lavori relativi “all’opera stessa” o delle attività inerenti “al servizio stesso” che egli si è impegnato a compiere direttamente nei confronti del committente pubblico, in armonia con l’espressione “compresi nel contratto di appalto” contenuta nell’art. 118, D.Lgs. n. 163/2006: sicché non vi è subappalto quando l’oggetto del contratto non coincida, nemmeno in parte, con l’oggetto del contratto di appalto.
Un privato evocò in giudizio un’impresa -mandataria di un’ATI- chiedendone la condanna al pagamento del corrispettivo dovutogli per l’attuazione dell’incarico, conferito con regolare contratto, di compiere le procedure d’esproprio necessarie per la realizzazione di un impianto d’irrigazione per conto di un Consorzio di Bonifica Integrale.
La domanda - inizialmente accolta dal Tribunale - fu respinta dalla Corte d’Appello in accoglimento del motivo, proposto dall’ATI, per il quale il rapporto sarebbe invalido perché in contrasto con l’art. 21 della L. n. 646/1982, norma imperativa che vieta il subappalto di opere e servizi riguardanti la P.A. se non autorizzato. Tale norma, per quanto relativa agli appalti di lavori è stata dalla Corte territoriale ritenuta applicabile anche agli appalti di servizi, quale era quello intercorso, in quanto strumentale al rapporto principale tra il Consorzio e l’ATI, appunto inerente un appalto di lavori.
Il professionista ricorre per la cassazione di tale Sentenza, con un ricorso articolato in due motivi che la Suprema Corte accoglie cassando con rinvio la sentenza impugnata. È anzitutto dedotta la falsa applicazione dell’art. 21 della L. n. 646/1982 applicabile, per il ricorrente, solo agli appalti di lavori, ossia aventi ad oggetto attività di costruzione, demolizione, recupero e manutenzione di opere e impianti.
A conferma di ciò, osserva il ricorrente, l’art. 18 della L. n. 55/1990 (intrinsecamente collegata all’art. 21, L. n. 646 cit.) nel limitare il subappalto, si riferisce esclusivamente a opere e lavori compresi nel contratto principale e ne subordina la possibilità alla condizione che il subappaltatore sia in possesso che non possono essere propri di un libero professionista. Infatti, conclude il ricorrente, il contratto con l’ATI ha ad oggetto un’attività libero professionale per svolgimento di rilievi tecnici necessari per le pratiche amministrative di occupazione ed espropriazione delle aree occorrenti per la realizzazione dell’impianto di irrigazione.
La Suprema Corte condivide la censura, osservando che -al fine di giudicare dell’esistenza in concreto del diritto azionato in giudizio- si deve verificare se la fonte costitutiva (cioè il contratto) sia valido o, come eccepito dall’ATI, contrario alla norma imperativa. Ove esso sia qualificabile non come subappalto di servizi ma in termini diversi (ad esempio, come contratto di mandato o d’opera professionale), va esclusa l’applicabilità della norma assunta dalla Corte territoriale a ragione di nullità del contratto (che, infatti, riguarda i soli contratti di subappalto) mentre a diversa soluzione si dovrebbe pervenire se si trattasse di subappalto di servizi, in conformità all’orientamento prevalente nella giurisprudenza penale (Cass. pen., Sez. V, n. 35057/2009) che ripudia un’interpretazione letterale dell’art. 21, L. n. 646/1982, volta a restringerne la portata ai soli subappalti di opere (orientamento confortato da disposizioni succedutesi alla L. n. 646/1982, quali l’art. 18, comma 3, D.Lgs. 17.03.1995, n. 157 e l’art. 118 del Codice del codice dei contratti pubblici). Il problema può essere quindi risolto solo considerando e confrontando l’oggetto dei due contratti (principale e secondario o derivato).
L’art. 21 della L. n. 646/1982, nel vietare a chiunque abbia in appalto “opere riguardanti la pubblica amministrazione” di concederle in subappalto a terzi “in tutto o in parte” senza l’autorizzazione dell’autorità competente, si riferisce esclusivamente a quella particolare forma di contratto derivato o subcontratto che è il subappalto (d’opera o servizi che sia), il quale è configurabile quando l’appaltatore affidi a un terzo il compimento, in tutto o in parte, dei lavori relativi “all’opera stessa”, o delle attività inerenti al servizio stesso, che egli si è impegnato a compiere direttamente nei confronti del committente. A conforto di tale conclusione si può rilevare come, in modo analogo per gli appalti dei privati, sia disposto dall’art. 1656 c.c. che vieta all’appaltatore di dare in subappalto l’esecuzione dell’opera o del servizio, se non è stato autorizzato dal committente.
Del resto, anche per l’art. 118 del Codice dei contratti pubblici, sono subappaltabili le opere o i lavori, i servizi, le forniture “compresi nel contratto di appalto” che l’appaltatore è tenuto “ad eseguire in proprio”. Pertanto, non può configurarsi un subappalto quando il suo oggetto non coincida, nemmeno in parte, con l’oggetto del contratto di appalto.
Né può rilevare il fatto che il contratto, stipulato dall’appaltatore con terzi, preveda prestazioni strumentali o accessorie a quelle del contratto di appalto, perché ad esempio necessarie per l’esecuzione dell’opera o del servizio cui l’appaltatore si è obbligato nei confronti del committente (nel senso che è subappalto solo quello che ha lo stesso oggetto del contratto di appalto, di cui fa necessariamente parte, non rilevando l’esistenza di prestazioni di natura accessoria e strumentale al contratto principale, cfr. Cass. n. 6481/1990). In tal caso, il divieto previsto dal citato art. 21 è inapplicabile, posto che esso si riferisce esclusivamente ai subappalti di opere o servizi, non a ogni contratto genericamente derivato, sebbene avente ad oggetto prestazioni strumentali o accessorie all’opera o al servizio cui l’appaltatore si è obbligato in proprio nei confronti del committente.
Una diversa interpretazione avrebbe l’effetto di limitare eccessivamente e ingiustificatamente l’ambito applicativo del subappalto, in contraddizione con la normativa comunitaria che lo ritiene strumento idoneo a favorire la concorrenza (si vedano, in proposto, i consideranda n. 43, Dir. CE n. 17/2004 e n. 32 della dir. CE n. 18/2004, i quali stabiliscono che “per favorire l’accesso delle piccole e medie imprese agli appalti pubblici, è necessario prevedere disposizioni in materia di subappalto”).
Erroneamente la sentenza impugnata ha qualificato il contratto come subappalto di servizi, sul presupposto che l’attuazione delle procedure di esproprio costituisse un servizio accessorio o strumentale all’esecuzione dell’opera appaltata alla stessa impresa, omettendosi di verificare in concreto se l’attività fosse stata prevista come dovuta dall’appaltatrice nei confronti del committente sulla base del contratto di appalto e, soprattutto, senza considerare che normalmente il reperimento dell’area necessaria per l’esecuzione dell’opera pubblica rappresenta un onere della P.A. committente, da compiersi mediante espropriazione per pubblica utilità.
Per l’adempimento di detto onere (per il quale, peraltro, l’appaltatore non dispone di pubblici poteri) la P.A. committente può stabilire nel capitolato d’appalto che sia quest’ultimo a curare il compimento delle procedure di espropriazione in nome e per conto dell’amministrazione, a norma dell’art. 324 della L. 20.03.1865, n. 2248, all. F (nonché dell’art. 350, n. 8, R.D. n. 350/1895): a tal fine stipulando un contratto di mandato che accede a quello di appalto (cfr., T.S.A.P., 27.11.1995, n. 96) ma che resta logicamente distinto da questo proprio per l’oggetto, come del resto dimostra la formula per cui, qualunque sia l’ampiezza della delega, il compimento degli atti della procedura ablativa non può che avvenire in nome e per conto dell’Amministrazione delegante (così anche l’art. 16, comma 3, D.M. n. 145/2000).
In tal caso, se l’appaltatore intende affidare a un altro soggetto il compimento delle procedure di esproprio, vi è una coincidenza oggettiva tra il contenuto del primo e del secondo contratto che è elemento sufficiente per qualificare il secondo non come subappalto di servizi, ma come submandato o contratto d’opera professionale, che in quanto tale è estraneo all’ambito applicativo del divieto previsto per il subappalto dall’art. 21 della L. n. 646/1982.
Del resto, la prestazione di servizi avente come base la legge o un contratto di lavoro (o anche d’opera professionale) già esulava dal campo d’applicazione della Dir. CEE n. 92/50 sugli appalti di servizi: è una conclusione coerente con la natura giuridica dell’attività commissionata al terzo (che è il compimento di atti giuridici, quali sono quelli espropriativi) e con l’ambito contenutistico della categoria degli appalti di servizi, come definito negli allegati alla Dir. CE n. 18/2004 e al D.Lgs. n. 157 del 1995 (art. 3) e D.Lgs. n. 163 del 2006 (art. 3, comma 10) i quali non contengono riferimenti all’attività espropriativa.
Sulla scorta di ciò, in accoglimento del primo motivi e con assorbimento del secondo, la sentenza è cassata con rinvio (
Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 16.04.2015 n. 7752 - Urbanistica e appalti n. 7/2015).

EDILIZIA PRIVATA - VARI: ASSENZA DEL CERTIFICATO DI ABITABILITÀ E SUE CONSEGUENZE.
L’esistenza dei requisiti di abitabilità e agibilità deve essere attuale al momento del contratto, non già meramente futura, ipotetica o condizionata, poiché è obbligo del venditore il trasferire la proprietà di un bene immobile che, per la sua destinazione a uso abitativo, già presenti all’atto della vendita i requisiti indispensabili ai fini della piena realizzazione della funzione socio-economica del contratto da stipulare: la carenza comporta ricadute sulla valutazione di adempimento del promittente venditore, in relazione all’interesse del promissario acquirente a ottenere la proprietà di un immobile idoneo a soddisfare i bisogni che lo inducono all’acquisto, ossia la fruibilità e la commerciabilità del bene, per i quali il certificato di abitabilità deve ritenersi essenziale.
La promissaria acquirente di un immobile convenne al Tribunale civile i promittenti venditori assumendo, tra l’altro, che il bene era affetto da varie anomalie, fra le quali la mancanza del certificato di abitabilità. Era perciò chiesta la condanna dei convenuti al pagamento del doppio della caparra corrisposta e alla restituzione dell’importo dato in acconto sul prezzo, oltre interessi legali.
I convenuti, nel costituirsi, contestavano il fondamento della domanda di cui chiedevano il rigetto, a loro volta avanzando riconvenzionale per la risoluzione del contratto preliminare determinato da fatto e colpa della promissaria acquirente, con richiesta di sua condanna al risarcimento dei danni e, in subordine, ponendo domanda di accertamento circa la legittimità del loro recesso contrattuale, con declaratoria del diritto a trattenere l’importo ricevuto a titolo di caparra.
Il Tribunale adito dichiarava la legittimità del recesso dell’attrice e condannava i convenuti a corrispondere all’attrice tanto l’importo degli acconti, quanto quello pari al doppio della caparra.
L’appello, proposto dagli originari convenuti, fu respinto della Corte territoriale assumendosi tra l’altro che i venditori non avevano presentato domanda per il rilascio del certificato di abitabilità per la parte dell’edificio di loro proprietà esclusiva sicché la venditrice non poteva invocare in suo favore, per la parte dell’edificio oggetto di compravendita, il silenzio assenso del Comune del luogo, non potendo operare tal silenzio circostanziato in dipendenza di una domanda non presentata o presentata da soggetto terzo (il costruttore, per le parti condominiali) non proprietario della parte d’edificio di proprietà esclusiva dei venditori. Al definitivo, la Corte territoriale escluse che tale porzione dell’immobile potesse intendersi dotata di abitabilità ai fini della stipulazione tra le parti del contratto definitivo di compravendita.
Pertanto, mancando il certificato di abitabilità, la diffida ad adempiere inviata dall’acquirente ricadeva nel periodo durante il quale l’abitabilità -da intendersi “attestata” per silenzio-assenso- ancora mancava.
Tra l’altro, la Corte territoriale non mancò di rilevare che il Comune aveva dichiarato in seguito addirittura la non abitabilità dell’edificio compromesso in vendita, per la carenza di requisiti minimi a tale scopo in ispecie quelli fognari.
In definitiva all’esito del giudizio di merito si è ritenuto che l’esistenza dei requisiti dell’edificio per essere abitabile, essendo soggetta a verifica preventiva, deve essere attuale al momento del contratto, e non già meramente futura, ipotetica ed eventuale, come prospettato gli appellanti condizionandola al verificarsi di un evento in fieri ed incerto, in quanto compete al venditore trasferire la proprietà di un bene immobile che, per la sua destinazione ad uso abitativo, già presenti all’atto della vendita i requisiti indispensabili ai fini della piena realizzazione della funzione socio-economica del contratto da stipulare. Sicché, legittimamente la promittente acquirente aveva esercitato il recesso dal contratto preliminare e aveva fatto valere il suo diritto al versamento in proprio favore del doppio della caparra confirmatoria.
Per la cassazione di tale sentenza i promissari venditori, soccombenti nel doppio grado di merito, ricorrono per Cassazione, con mezzi che la Suprema Corte respinge. Tra le enunciazioni contenute nella sentenza in commento, alcune meritano attenzione per la materia oggetto della presente Rivista.
La ratio della produzione documentale -effettuata dai venditori per mettere la P.A. nelle condizioni di verificare l’esistenza degli elementi necessari perché la costruzione sia abitabile e considerato che in materia ricorre la fattispecie di assenso delineata dall’art. 4, d.P.R. n. 425/1994- presuppone tanto che il proprietario, all’atto della presentazione della domanda d’abitabilità offra tutta la documentazione richiesta dal primo comma di detta norma, quanto il decorso del tempo idoneo a integrare il silenzio circostanziato dalla norma come “assenso”.
Detta documentazione è necessaria ai fini della formazione del silenzio-assenso per l’attestazione della sussistenza dei requisiti urbanistici e igienici dell’immobile (con ricadute sull’adempimento o meno del promittente venditore di un immobile destinato a civile abitazione a corredare il bene del certificato di abitabilità, in relazione all’interesse del promissario acquirente a ottenere la proprietà di un immobile idoneo ad assolvere la sua funzione economico-sociale e a soddisfare i bisogni che inducono all’acquisto, ovvero la fruibilità e la commerciabilità del bene, per i quali il certificato di abitabilità deve ritenersi essenziale).
Per tale ragione, la Suprema Corte ritiene pienamente da condividersi il convincimento del Giudice di appello, con la conseguenza che, in mancanza del certificato di abitabilità, la diffida ad adempiere inviata ricadeva logicamente nel periodo di tempo durante il quale l’abitabilità ancora mancava per la parte dell’edificio compromesso (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 14.04.2015 n. 7472 - Urbanistica e appalti n. 6/2015).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: ATTESTARE IL FALSO IN UNA DICHIARAZIONE SOSTITUTIVA DI ATTO NOTORIO PER OTTENERE LA SANATORIA INTEGRA IL REATO DI FALSITÀ IDEOLOGICA.
La falsa attestazione in dichiarazione sostitutiva di atto notorio integra il reato di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico perché ha valenza probatoria con riferimento al contenuto dell’atto pubblico.
La questione giuridica oggetto di esame da parte della Suprema Corte verte, in particolare, sulla configurabilità o meno del reato di falsità ideologica, previsto dall’art. 483 c.p., nel caso in cui il privato, al fine di ottenere una sanatoria edilizia, attesti in una dichiarazione sostitutiva di atto notorio notizie false.
La vicenda processuale trae origine dalla condanna della proprietaria di un immobile per il reato di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 1, lett. b), per l’edificazione di strutture edilizie in ferro e pilastri di cemento armato senza titolo  abitativo, ancora in corso di realizzazione al momento dell’accertamento, nonché per il reato di cui all’art. 483 c.p., per avere dichiarato, contrariamente al vero, in autocertificazione, che i lavori di cui al precedente capo erano stati ultimati nel 1981.
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione l’interessata, in particolare sostenendo che la falsa attestazione contenuta in una dichiarazione sostitutiva di atto notorio resa ai fini della concessione in sanatoria ai sensi del d.P.R. n. 445 del 2000, art. 47, non integrerebbe il reato di cui all’art. 483 c.p.; richiamava, in particolare, il d.P.R. n. 445 del 2000, art. 76, comma 1, il quale descrive la condotta penalmente rilevante come quella di chiunque rilascia dichiarazioni mendaci, forma atti falsi o ne fa uso nei casi previsti dal presente testo unico, rimandando per la sanzionabilità della condotta al codice penale e alle leggi speciali in materia.
Secondo la tesi difensiva, da tale disposizione si evince che le dichiarazioni mendaci rese ai sensi dello stesso d.P.R. n. 445, artt. 46 e 47, costituirebbero reato solo in presenza di espresse disposizioni in tal senso del codice penale o delle leggi speciali.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha dichiarato inammissibile il ricorso, osservando che il d.P.R. n. 445 del 2000, art. 76, comma 3, dispone che le dichiarazioni sostitutive di certificazioni, rese ai sensi degli artt. 46 e 47 del predetto d.P.R., si considerano come fatte a pubblico ufficiale e che esse sono destinate a essere trasfuse in atto pubblico, costituendo il presupposto delle circostanze di fatto che le stesse autocertificazioni e, dunque, l’atto pubblico hanno la funzione di provare (Cass. pen., Sez. V, 02.04.2014, n. 18279, in CED Cass., n. 259883; Id., Sez. V, 01.12.2011, n. 12133/2012, in CED Cass., n. 252163).
Con specifico riferimento alla fattispecie esaminata, peraltro, ha dunque ribadito che integra il reato di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico la condotta di colui che, in sede di dichiarazione sostitutiva di atto notorio allegata a domanda di concessione edilizia in sanatoria, attesti falsamente la data di ultimazione dell’opera da sanare, considerato che l’ordinamento attribuisce a detta dichiarazione valenza probatoria privilegiata -con esclusione di produzioni documentali ulteriori- e, quindi, di dichiarazione destinata a dimostrare la verità dei fatti cui è riferita, e destinata ad essere trasfusa in atto pubblico (v., in precedenza: Cass. pen., Sez. V, 26.11.2009, n. 2978/2010, in CED Cass., n. 245839) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 27.03.2015 n. 13009 - Urbanistica e appalti n. 6/2015).

EDILIZIA PRIVATA: SIA L’ORDINE DI DEMOLIZIONE CHE QUELLO DI RIMESSIONE IN PRISTINO DELLO STATO DEI LUOGHI VANNO REVOCATI SE I REATI SONO PRESCRITTI.
Nel caso in cui la sentenza di condanna venga annullata in grado di appello con conseguente proscioglimento per qualsivoglia causa dell’imputato (ivi compresa la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione), l’ordine di demolizione e quello di rimessione in pristino emesso dal primo giudice deve essere rimosso dal giudice dell’impugnazione in quanto non più ricollegato ad una sentenza di condanna.
Il tema oggetto di attenzione da parte della Suprema Corte con la sentenza in esame è quello, assai frequente nella giurisprudenza di legittimità, della sussistenza o meno di revocare gli ordini conseguenti ex lege all’irrogazione della sanzione penale, quando tuttavia, nei successivi gradi di giudizio, i relativi reati siano dichiarati prescritti.
La vicenda processuale trae origine dalla sentenza con cui la Corte d’Appello, in riforma della sentenza emessa dal Tribunale nei confronti di D.R.V. (imputato dei reati di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. c, artt. 64, 65, 71, 72, 83 e 95, nonché del reato di cui all’art. 734 c.p., e, infine, del reato di cui al D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, comma 1-bis), dichiarava non doversi procedere nei confronti del predetto imputato in ordine ai reati suddetti perché estinti per prescrizione, contestualmente revocando l’ordine di demolizione.
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione il condannato, in particolare nella parte in cui la Corte di appello si era limitata alla revoca dell’ordine di demolizione e non anche alla revoca dell’ordine di rimessione in prestino, tenuto conto che tale ordine poteva essere mantenuto solo in presenza di una sentenza di condanna.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha osservato come la Corte d’appello avesse ritenuto, erroneamente, di non revocare l’ordine di remissione in pristino dello stato dei luoghi a cura e spese del condannato.
Diversamente, osservano gli Ermellini, posto che da parte del primo giudice erano stati emessi, all’esito della sentenza di condanna, tanto l’ordine di demolizione del manufatto abusivo che l’ordine di riduzione in pristino dello stato dei luoghi a cura e spese dell’imputato, il giudice di appello, avendo dichiarato l’estinzione di tutti i reati per prescrizione, era incorso in violazione di legge, nella misura in cui si è limitato alla revoca dell’ordine di demolizione nulla disponendo sull’ordine di rimessione in pristino dello stato originario dei luoghi.
Ciò in quanto, sia per quanto concerne la prima che per quanto concerne la seconda, si tratta di sanzioni amministrative di tipo ablatorio che trovano la propria giustificazione giuridica nella accessorietà alla sentenza di condanna, sicché se il reato si estingue, tale giustificazione viene meno, fermo restando, ovviamente, l’autonomo potere-dovere dell’autorità amministrativa (v. in tal senso: Cass. pen., Sez. III, 24.10.2013, n. 51010, C., in CED Cass., n. 257916; Cass. pen., Sez. III, 06.02.2003, n. 4798, B., in CED Cass., n. 229346) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 27.03.2015 n. 13003 - Urbanistica e appalti n. 6/2015).

EDILIZIA PRIVATA: QUALSIASI TRASFORMAZIONE RILEVANTE DEL TERRENO COMPORTA LA NECESSITÀ DI UNA PREVENTIVA CONCESSIONE URBANISTICA E NON DI UNA SEMPLICE AUTORIZZAZIONE.
In tema di trasformazione dei suoli, versandosi nella materia urbanistica, le opere di scavo, di sbancamento e di livellamento del terreno, finalizzate ad usi diversi da quelli agricoli, in quanto incidenti sul tessuto urbanistico del territorio, sono assoggettate a titolo abilitativo edilizio.
Il tema affrontato dalla Corte di Cassazione con la sentenza in esame attiene alla possibilità di eseguire interventi edilizi in senso lato (quali, in particolare, sbancamenti, scavi e livellamenti del terreno), in base a titolo edilizio semplificato.
La vicenda processuale trae origine dalla sentenza con cui la Corte d’Appello confermava la sentenza emessa dal Tribunale nei confronti di M.M., M.P. e S.A. imputati, ciascuno, del reato di cui agli artt. 110 e 81, cpv., c.p., d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. c), artt. 64, 65, 71, 72, 93 e 95; D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, comma 1-bis, sentenza con la quale ciascuno dei detti imputati era stato condannato alla pena, condizionalmente sospesa, di mesi otto di reclusione oltre alla rimessione in pristino dello stato dei luoghi.
Contro la sentenza avevano proposto ricorso i tre condannati, in particolare sostenendo che la decisione della Corte d’Appello si poneva in contrasto con il disposto dell’art. 13 della L.R. Sardegna 11.10.1985, n. 23, secondo il quale è sufficiente la semplice autorizzazione edilizia, tra gli altri, per i lavori di demolizione, reinterri e scavi finalizzati ad attività edilizia (art. 13, lett. i, della L.R. citata).
La Cassazione, nel respingere la tesi difensiva, ha affermato il principio di cui in massima, così dando continuità all’indirizzo giurisprudenziale secondo cui le opere di scavo, di sbancamento e di livellamento del terreno, finalizzate ad usi diversi da quelli agricoli, in quanto incidenti sul tessuto urbanistico del territorio, sono assoggettate a titolo abilitativo edilizio (Cass. pen., Sez. III, 02.12.2008, n. 8064/09, P.G. in proc. D. ed altri, in CED Cass., n. 242741; nello stesso senso, Cass. pen., Sez. III, 22.12.1999, n. 3107, A. ed altro, in CED Cass., n. 216521).
Siffatto orientamento muove dalla rilevata, profonda differenza tra la materia urbanistica considerata nel suo significato globale e la materia urbanistica circoscritta ad interventi edilizi, dalla quale deriva la reale finalità delle norme urbanistiche miranti ad una generale disciplina dell’uso del territorio con specifico riguardo a tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali di salvaguardia e di trasformazione del suolo, nonché alla protezione dell’ambiente.
Proprio per tali ragioni qualsiasi trasformazione rilevante del terreno comporta la necessità di una preventiva concessione urbanistica, e non di una semplice autorizzazione. Ma nel caso in esame, al di là della mancanza di concessione edilizia valevole solo per la edificazione, era carente anche l’autorizzazione preventiva paesaggistica, posto che quella rilasciata riguardava opere del tutto diverse e di minima consistenza ritenute compatibili con l’ambiente circostante (Corte di Cassazione penale, Sez. III penale, sentenza 27.03.2015 n. 12998 - Urbanistica e appalti n. 6/2015).

ESPROPRIAZIONE: LA REGOLARITÀ URBANISTICA È IL PRESUPPOSTO NECESSARIO PER L’OTTENIMENTO DELL’INDENNITÀ ESPROPRIATIVA O DI OCCUPAZIONE.
Il diritto dell’affittuario di fondo rustico all’indennità espropriativa o di occupazione per miglioramenti (apportati prima dell’entrata in vigore della L. n. 11/1971 e della L. n. 203/1982) è disciplinato dalle norme codicistiche: sicché, per i miglioramenti apportati con il consenso del concedente, dagli artt. 1591, 1632 e 1633 c.c. e, per quelli non autorizzati né concordati con il locatore, dall’art. 1651 c.c.: tuttavia, è condizione necessaria per il riconoscimento dell’indennizzo la regolarità urbanistica dell’immobile.
Un Ente religioso convenne in giudizio, avanti la Sezione specializzata agraria di un Tribunale ordinario, un proprio affittuario per ottenere il rilascio di un fondo rustico dallo stesso condotto, deducendo che il contratto era da molto tempo scaduto e che, in subordine, il contratto stesso dovesse dichiararsi risolto per grave inadempimento dell’affittuario stesso.
Il convenuto propose domanda riconvenzionale per il pagamento dell’indennità per le migliorie realizzate in epoca antecedente all’anno 1971, quantificandola in oltre 200 mila euro.
Il Tribunale ordinò il rilascio del fondo, dichiarando risolto il contratto per naturale scadenza e accolse solo in parte (per il minore importo di euro 6.600 euro) la riconvenzionale.
La Corte d’Appello confermò l’importo per indennità, aggiungendovi i soli interessi legali. Osservò la Corte territoriale che, essendo mancata in primo grado qualsiasi contestazione circa l’an debeatur, la controversia riguardava la sola quantificazione dell’indennità per miglioramenti spettante all’affittuario. Sulla scorta di ciò affermò che ai fini del calcolo della stessa, andasse applicata la normativa in vigore alla data della cessazione del rapporto e, dunque, l’art. 17 della L. n. 203/1982, trattandosi di contratto scaduto nel 1992 e precisando che occorresse “calcolare la differenza tra il valore di mercato del fondo alla data di cessazione del rapporto ... e il valore del medesimo fondo, alla stessa data, ove non fosse stato trasformato”.
I giudici del merito hanno peraltro escluso che si potesse tener conto del fabbricato a uso abitativo realizzato dall’affittuario, perché eccedente rispetto ai normali fabbisogni del fondo e non proporzionato alle esigenze dello stesso, rapportando la superficie utile del fabbricato (111 mq) a quella del fondo all’epoca della cessazione del contratto (pari a circa 1207 mq) e ancora considerato il fatto che il privato non aveva dimostrato la regolarità amministrativa della costruzione.
La questione è sottoposta dall’affittuario all’esame della Suprema Corte, che cassa con rinvio la decisione.
Lamenta il ricorrente la violazione del canone di cui all’art. 11 Preleggi (tempus regit actum) oltre che degli artt. 1592, 1593, 1632, 1633, 1651 e 2909 c.c., nonché falsa applicazione dell’art. 17 della L. n. 203/1982. Nella specie, si deduce che la Corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto applicabile la disciplina dell’art. 17, L. n. 203/1982, mentre l’unica applicabile era quella codicistica. Ancora, che erroneamente la Corte di merito abbia escluso dal computo dell’indennità spettante al fittavolo il fabbricato eretto dal medesimo, ritenendolo “eccedente” rispetto ai normali fabbisogni del fondo e non proporzionato alle esigenze dello stesso.
La Suprema Corte condivide le censure svolte, alla luce del proprio consolidato indirizzo secondo cui il diritto dell’affittuario di un fondo rustico all’indennità espropriativa o di occupazione per miglioramenti apportati prima dell’entrata in vigore della L. n. 11/1971 e della L. n. 203/1982, è disciplinato dalle norme codicistiche: sicché, per i miglioramenti apportati con il consenso del concedente, dalle norme di cui agli artt. 1591, 1632 e 1633 c.c., riferibili tanto al contratto di affitto a non coltivatore diretto, quanto a quello di affitto a coltivatore diretto (Cass. n. 8071/2001) e, per quelli che non siano stati autorizzati né concordati con il locatore, in forza dell’art. 1651 c.c. (Cass. n. 25050/2013).
Parimenti cassata è la valutazione circa la “eccedenza o la superfluità” dell’opera in relazione alla pretesa di indennizzo.
Osserva la Corte di Cassazione che l’eccedenza o superfluità dell’opera -per comportare l’esclusione dell’indennizzo ablativo (Cass. n. 405/2002)- dev’essere valutata con riferimento alla situazione del fondo al momento dell’esecuzione dell’intervento, non potendo tenersi conto di eventuali modifiche qualitative o quantitative del fondo medesimo che siano intervenute successivamente. Nel caso di specie (in cui il ricorrente assume che, all’epoca della ristrutturazione del rudere, il terreno affittato aveva un’estensione di circa 8.500 mq, poi ridotta a seguito di occupazione d’urgenza), dovrà dunque valutarsi se, in relazione alla estensione effettiva del fondo all’epoca della realizzazione del fabbricato, lo stesso risultasse o meno proporzionato rispetto alle esigenze di conduzione.
Del resto, va rimarcato che nella valutazione dell’eventuale “eccedenza” o “superfluità”, occorre seguire il criterio secondo cui il fabbricato destinato ad abitazione del coltivatore deve comunque rispondere agli standards urbanistici minimi di abitabilità (considerato anche il rapporto persone/spazi abitabili), non potendosi far discendere automaticamente dalla ridotta estensione del fondo un dimensionamento del fabbricato al di sotto dei limiti di abitabilità.
Infine, la Corte rimarca il concetto per cui la condizione necessaria per il riconoscimento dell’indennizzo è la regolarità urbanistica dell’immobile: nessun indennizzo può -infatti- essere preteso da chi abbia realizzato, sul fondo altrui, opere in violazione della normativa edilizia, in quanto “quell’indennizzo sarebbe in contrasto con i principi generali dell’ordinamento ed in particolare con la funzione dell’amministrazione della giustizia” (Cass. n. 26853/2011), tanto più che le opere non sanabili non sono idonee ad integrare un effettivo aumento di valore del fondo (Corte di Cassazione, Sez. III civile, sentenza 27.03.2015 n. 6252 - Urbanistica e appalti n. 6/2015).

EDILIZIA PRIVATA: IL DIRETTORE DEI LAVORI HA IL DOVERE DI VIGILARE SULL’ESECUZIONE DELLE OPERE IN CONFORMITÀ ALLA RILASCIATA AUTORIZZAZIONE.
Sul direttore dei lavori grava una posizione di garanzia circa la regolare esecuzione dei lavori, con la conseguente responsabilità per le ipotesi di reato in materia edilizia, dalle quali questi può andare esente soltanto ottemperando agli obblighi di comunicazione e rinuncia all’incarico previsti prima dalla L. 28.02.1985, n. 47, art. 6 ed oggi dal d.P.R. n. 380 del 2001, art. 29.
La Corte di Cassazione torna ad occuparsi, nella sentenza qui esaminata, del tema della responsabilità penale del direttore di lavori, in particolare con riferimento al reato di occupazione arbitraria di terreno appartenente ad un ente pubblico.
La vicenda processuale che ha fornito l’occasione alla Corte per occuparsi della questione segue alla sentenza di condanna, confermata anche in grado d’appello, nei confronti di P.V. (in concorso con T. G. e D.G.F.) ritenuto colpevole del reato di cui agli artt. 633 - 639-bis c.p. perché, in concorso tra loro, quale direttore dei lavori, in difformità da un’autorizzazione rilasciata per la recinzione di un lotto di terreno antistante l’abitazione dei committenti, occupavano arbitrariamente anche una striscia di marciapiede di mq 10 di proprietà comunale, inibendo il libero passaggio, delimitando il tutto con una recinzione in conci di tufo e la messa in posa di un cancello.
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione il direttore dei lavori, in particolare osservando che l’autorizzazione prescriveva, quale condizione di efficacia, che prima dell’inizio dei lavori, venisse trasmessa all’U.T.C. la comunicazione di inizio lavori, a firma congiunta del proprietario e del direttore dei lavori, oltre al DURC relativo alla ditta esecutrice.
Sennonché le suddette incombenze amministrative non erano mai state eseguite in quanto i committenti avevano eseguito i lavori abusivi per proprio conto senza metterne al corrente il direttore dei lavori il quale, non appena venuto a conoscenza dell’abuso, rinunciò formalmente all’incarico: da qui, la carenza dell’elemento psicologico non tenuto in alcun conto dalla Corte d’appello.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha respinto il ricorso, in particolare osservando che sulla persona del direttore dei lavori, incombeva, in conseguenza dall’accettazione dell’incarico, un preciso dovere di vigilanza sull’esecuzione delle opere in conformità alla rilasciata autorizzazione (v., tra le tante: Cass. pen., Sez. III, 10.05.2005, n. 34376, in CED Cass., n. 232475; Id., Sez. III, 23.06.2009, n. 34879, in CED Cass., n. 244927).
Da qui, dunque, la correttezza della sentenza di appello che aveva, ragionevolmente, considerato il direttore dei lavori come compartecipe, oltre che della fase della progettazione, anche della fase di esecuzione dei lavori, dai quali era scaturita l’arbitraria occupazione del marciapiede pubblico, non potendo da ciò esonerarlo la tardiva rinuncia all’incarico, effettuato solo dopo che era stata accertata la difformità delle opere eseguite rispetto al progetto in precedenza elaborato (Corte di Cassazione, Sez. II penale, sentenza 25.03.2015 n. 12613 - Urbanistica e appalti n. 6/2015).

EDILIZIA PRIVATA: OPERE IN CEMENTO ARMATO E RESPONSABILITÀ DEL TITOLARE DELL’IMPRESA ESECUTRICE DEI LAVORI.
In materia edilizia, sia l’esecuzione di opere in cemento armato in assenza di progetto esecutivo redatto da tecnico abilitato, sia la realizzazione di opere edili senza la direzione di un tecnico abilitato che l’omessa denuncia delle opere in conglomerato cementizio armato, sono reati ascrivibili al titolare della impresa esecutrice dei lavori.
La questione giuridica oggetto di esame da parte della Suprema Corte verte, in particolare, sull’individuazione delle responsabilità gravanti in capo al titolare dell’impresa esecutrice dei lavori con particolare riguardo alla disciplina in materia di cemento armato.
La vicenda processuale trae origine dal provvedimento con cui il Tribunale -per quanto di interesse in questa sede- ha affermato la colpevolezza di M.V., quale titolare della ditta esecutrice dei lavori, per violazione della legge antisismica e sulle opere in cemento armato in relazione a interventi eseguiti su un immobile.
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione l’imputato, in particolare sostenendo che un reato (l’esecuzione di opere in cemento armato in assenza di progetto esecutivo redatto da tecnico abilitato) aveva ad oggetto violazioni a cui era estranea la ditta esecutrice dei lavori; stesse considerazioni svolgeva in ordine agli altri reati (la realizzazione di opere edili senza la direzione di un tecnico abilitato; l’omessa denuncia delle opere in conglomerato cementizio armato), per i quali non era neppure contestato il concorso, richiamando in proposito le dichiarazioni rese dal tecnico comunale circa i soggetti tenuti ai relativi adempimenti.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima (v., per un precedente: Cass. pen., Sez. III, 30.09.2014, n. 40341, in CED Cass., n. 260752), ha respinto il ricorso, in particolare, osservando, da un lato, che il reato di omessa denuncia della realizzazione di opere in conglomerato cementizio armato con deposito del relativo progetto, di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 71 è ascrivibile unicamente al committente e alla società esecutrice e, quanto ai residui reati, che, anzitutto, la realizzazione di opere edili senza la direzione di un tecnico abilitato (d.P.R. n. 380 del 2001, art. 53, art. 64, comma 3 e art. 71 in relazione alla L. n. 1086 del 1971, artt. 1, 2, 3 e 13) vede come soggetto attivo anche il costruttore che esegue le opere in violazione dell’art. 64, comma 3, come si evince dal chiaro dato testuale; in secondo luogo, infine, che la contravvenzione di omessa denuncia delle opere in conglomerato cementizio armato (d.P.R. 06.06.2001, n. 380, artt. 65 e 72), è un reato omissivo proprio del costruttore (v., per un precedente: Cass. pen., Sez. III, 31.05.2011, n. 21775, in CED Cass., n. 250377) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 25.03.2015 n. 12533 - Urbanistica e appalti n. 6/2015).

EDILIZIA PRIVATA: SANATORIA EDILIZIA POSSIBILE SOLO IN CASO DI “DOPPIA CONFORMITÀ”, MA NON SE SONO NECESSARI ULTERIORI INTERVENTI EDILIZI.
In tema di reati edilizi, sussistono i presupposti per attribuire efficacia estintiva dell’illecito penale al permesso in sanatoria, ai sensi del d.P.R. n. 380 del 2001, art. 36, solo se le opere abusive risultano, per quanto difformi dal titolo abilitativo, in sé non contrastanti con gli strumenti urbanistici vigenti sia al momento della loro realizzazione che al momento della presentazione della domanda, con la conseguenza che detta vicenda non può prodursi se sia necessario procedere ad ulteriori interventi che riconducano i lavori realizzati a tale doppia conformità.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame, sull’individuazione dei limiti in presenza dei quali è possibile il prodursi dell’effetto estintivo in caso di rilascio del permesso di costruire in sanatoria.
La vicenda processuale che ha fornito l’occasione alla Corte per affrontare la questione segue alla sentenza di condanna emessa nei confronti di alcuni imputati, ritenuti colpevoli del reato di cui all’art. 110 c.p., d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b).
Contro la sentenza, proponevano ricorso per Cassazione gli imputati, dolendosi per aver prodotto in giudizio dinanzi alla Corte d’appello un permesso di costruire in sanatoria, ritenuto dal giudice di secondo grado inidoneo ad estinguere il reato di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b), sul presupposto che esso fosse subordinato a delle prescrizioni e quindi privo della cosiddetta “doppia conformità”; ad avviso degli stessi ciò deriverebbe dalla deposizione confusa di un teste, ma tale doppia conformità vi sarebbe stata e lo si poteva agevolmente dedurre da quanto sostenuto dallo stesso dirigente dell’ufficio tecnico; la Corte d’Appello avrebbe, dunque, dovuto -secondo gli imputati- dichiarare estinto il reato loro contestato ai sensi del d.P.R. n. 380 del 2001, artt. 36 e 45, in virtù del rilascio del permesso a costruire in sanatoria: il titolo, infatti, era conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda.
La Corte, nel respingere il ricorso, ha affermato il principio di cui in massima, confermando la sentenza di condanna ed escludendo l’effetto estintivo del reato urbanistico. In particolare, hanno osservato gli Ermellini che la Corte d’Appello, proprio per chiarire l’aspetto della sussistenza o meno della “doppia conformità” rispetto al permesso per costruire rilasciato, aveva ritenuto di sentire il responsabile dell’UTC del Comune, il quale, dopo una prima parte della deposizione confusa e generica, aveva effettivamente chiarito che trattavasi di una “doppia conformità” c.d. “postuma”.
Del resto, puntualizzano i Supremi Giudici, gli stessi imputati riconoscevano che il permesso per costruire era stato rilasciato sulla scorta di un progetto allegato alla domanda che prevedeva la riduzione di 70 cm. del piano seminterrato. E nello stesso permesso per costruire si faceva riferimento alla necessità che vengano rispettate integralmente tutte le condizioni e/o prescrizioni contenute nell’accertamento di compatibilità paesaggistica (in precedenza, nel senso che va negato l’effetto istintivo del permesso per costruire in ragione del fatto che lo stesso sia subordinato a delle prescrizioni: Cass. pen., Sez. III, n. 19081 del 24.03.2009, in CED Cass., n. 243724) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.03.2015 n. 12229 - Urbanistica e appalti n. 6/2015).

EDILIZIA PRIVATA: NOZIONE DI “CREAZIONE DI SUPERFICIE UTILE” AI FINI DELL’OPERATIVITÀ DELLA SPECIALE SANATORIA PAESAGGISTICA.
La “creazione di superficie utile”, indicata nell’art. 181, comma 1-ter, D.Lgs. n. 42/2004, pur non definita dal legislatore, deve essere intesa come una immutazione stabile dell’assetto territoriale attuata a discapito della vincolata conformazione originaria, dalla quale nettamente prescinde, non integrandone alcuna specie di manutenzione.
La questione affrontata dalla Suprema Corte con la sentenza in esame concerne un tema ricorrente nell’esegesi giurisprudenziale di legittimità, rappresentato dalla qualificazione della nozione di “creazione di superficie utile” nella speciale procedura di sanatoria paesaggistica prevista dall’art. 181, D.Lgs. n. 42 del 2004.
La vicenda processuale trae origine dall’impugnazione contro la sentenza con cui la Corte d’Appello confermava la pronuncia emessa dal Tribunale, con la quale P.E. era stato condannato per il reato di cui al D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, art. 181, comma 1, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 44, lett. c); allo stesso era ascritto di aver realizzato -su beni sottoposti a vincolo paesaggistico- lavori in sostanziale difformità dall’autorizzazione rilasciata dal Comune, ed in particolare interventi di rimodellamento morfologico a mezzo disboscamento abusivo, così aumentando la superficie coltivabile di 1868 mq.
Contro la sentenza proponeva ricorso per Cassazione l’interessato, in particolare sostenendo che erroneamente la Corte d’Appello avrebbe definito “non minore” la tipologia di intervento soltanto con riferimento alla superficie, che però, di per sé, non può costituire parametro unico per stabilire il rilievo delle opere; ciò soprattutto alla luce della successiva autorizzazione paesaggistica, che dimostra come non vi fosse stata alcuna lesione del bene paesaggio.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha respinto la tesi difensiva, ricordando che il D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181 -in tema di opere eseguite in assenza di autorizzazione o in difformità da essa- stabilisce, al comma 1-ter, che “ferma restando l’applicazione delle sanzioni amministrative pecuniarie, qualora l’autorità amministrativa competente accerti la compatibilità paesaggistica secondo le procedure di cui al comma 1-quater, le sanzioni di cui al comma 1 non si applicano, a fronte di un sopravvenuto accertamento di compatibilità, soltanto…” per interventi da qualificare come minori, poiché caratterizzati da un impatto sensibilmente più modesto sull’assetto del territorio vincolato rispetto agli altri considerati nella medesima disposizione di legge.
In particolare, con riferimento al caso in esame, l’importanza dell’intervento (1869 mq. disboscati, pari al doppio di quanto autorizzato, tali da creare quattro terrazzamenti ed una banchina) e l’impatto paesaggistico dello stesso, definito non secondario, impediscono per gli Ermellini di qualificare l’opera come minore, essendosi invece verificata una percepibile modificazione dell’aspetto geomorfologico del versante, pur in presenza di successiva rinaturalizzazione.
Per quanto, poi, concerne la normativa applicabile, i giudici di legittimità chiariscono che la nozione di superficie utile va “individuata, in mancanza di specifica definizione, con riferimento alla finalità della disposizione che la contempla e, per quanto riguarda la disciplina paesaggistica … considerando l’impatto dell’intervento sull’originario assetto paesaggistico del territorio, cosicché deve escludersi la speciale sanatoria stabilita dall’art. 181 in tutti qui casi in cui la creazione di superfici utili o di volumi o l’aumento di quelli legittimamente realizzati siano idonei a determinare una compromissione ambientale”).
In quest’ottica, conclusivamente, la realizzazione di un disboscamento abusivo di 1869 mq., con creazione di quattro terrazzamenti ed una banchina in luogo del precedente declivio, correttamente per i Supremi Giudici è stata qualificata come un incisivo e stabile mutamento dell’assetto territoriale; e senza che, pertanto, risulti necessario qualsivoglia collegamento a fabbricati, costruzioni o manufatti di sorta (sul punto, con riferimento alla realizzazione di una strada, anche dove già preesisteva un sentiero, v. in senso conforme: Cass. pen., Sez. III, 13.01.2005, n. 3725, B., in CED Cass., n. 230679) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.03.2015 n. 12029 - Urbanistica e appalti n. 6/2015).

EDILIZIA PRIVATA: I REATI DI OMESSA DENUNCIA DEI LAVORI E PRESENTAZIONE DEI PROGETTI E DI INIZIO ABUSIVO DEI LAVORI HANNO NATURA DI REATI PERMANENTI.
In tema di legislazione antisismica, i reati di omessa denuncia dei lavori e presentazione dei progetti e di inizio dei lavori senza preventiva autorizzazione scritta dell’ufficio competente hanno natura di reati permanenti, la cui consumazione si protrae sino a quando il responsabile non presenta la relativa denuncia con l’allegato progetto ovvero non termina l’intervento edilizio.
Ormai consolidata la giurisprudenza della Corte di Cassazione sulla questione giuridica oggetto di esame da parte dei giudici di legittimità con la sentenza in esame, in cui viene ad essere nuovamente affrontata la questione della natura permanente od istantanea dei reati antisismici di omessa denuncia dei lavori e presentazione dei progetti e di inizio dei lavori senza preventiva autorizzazione scritta dell’ufficio competente.
La vicenda processuale traeva origine dalla sentenza con cui la Corte d’Appello -per quanto qui rileva- confermava la sentenza emessa dal Tribunale con la quale gli imputati erano stati dichiarati colpevoli dei reati loro ascritti (artt. 110 e 81, cpv., c.p., d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. c, artt. 64, 65, 71, 72, 93 e 95; 181, comma 1, D.Lgs. n. 42/2004) nonché alla rimessione in pristino dello stato dei luoghi.
Contro la sentenza proponeva ricorso per Cassazione uno degli imputati, in particolare per avere la Corte omesso di dichiarare l’estinzione del reato di cui agli artt. 93, 94 e 95 del cit. d.P.R. per maturata prescrizione già prima della sentenza di condanna, versandosi in tema di reato istantaneo con effetti permanenti.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha confermato la sentenza, così facendo applicazione di un principio, ormai da ritenersi consolidato nella giurisprudenza della Cassazione. Ed infatti, dopo un iniziale orientamento che aveva affermato la natura istantanea del reato di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, artt. 93 e 95 (omessa presentazione della denuncia dei lavori all’Ufficio del Genio Civile: Cass. pen., Sez. III, 13.06.2011, n. 23656; Cass. pen., Sez. III, 07.11.2008, n. 41858; Cass. pen., SS.UU., 23.07.1999, n. 18, Lauriola) si è profilato un orientamento di segno opposto che ha ritenuto la natura permanente del reato in parola (tra le più recenti v.: Cass. pen., Sez. III, 04.06.2013, n. 29737, V.; Cass. pen., Sez. III, 11.02.2014, n. 12235, P.; Cass. pen., 04.05.2011, n. 17217, G.).
Orbene, nel caso in esame, gli Ermellini hanno ritenuto di aderire all’orientamento sostenuto dalle più recenti decisioni, dovendo ritenersi corretta l’esegesi normativa dalle stesse condotta. Invero, la più recente giurisprudenza, nel discostarsi consapevolmente dall’orientamento consolidato enunciato dalle Sezioni Unite, afferma che “ciò che non appare condivisibile nella sentenza Lauriola è la logica che sottende tutto il ragionamento e che è applicabile sia ai sistemi fondati sull’autorizzazione preventiva sia a quelli basati sul controllo successivo all’inizio dei lavori. Questa logica finisce per confondere il criterio della persistenza dell’offesa al bene giuridico tutelato ... col diverso criterio desunto dalla apertura formale di un procedimento amministrativo e comunque dalla possibilità di un controllo postumo, attivate dall’adempimento tardivo del contravventore”, discendendone, dunque, secondo l’orientamento più recente che, che “in realtà, la persistenza della condotta antigiuridica e la connessa protrazione della lesione all’interesse pubblico di vigilare sulla regolarità tecnica di ogni costruzione in zona sismica, sussistono anche se (anzi proprio perché) l’amministrazione competente non ha aperto un procedimento formale o non ha attivato alcun controllo”.
Alla stregua delle predette considerazioni, la giurisprudenza più recente conclude affermando che “atteso che sono istantanei solo quei reati in cui la condotta tipica esaurisce la lesione del bene tutelato, e sono permanenti quelli in cui la condotta volontaria del soggetto protrae nel tempo la lesione del bene, i reati di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, artt. 93, 94 e 95 devono ritenersi permanenti nel senso anzidetto” (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.03.2015 n. 11645 - Urbanistica e appalti n. 6/2015).

URBANISTICA: LOTTIZZAZIONE ABUSIVA PUNIBILE ANCHE SE L’ILLECITO LOTTIZZATORIO CONSEGUE ALLA VIOLAZIONE DEL VINCOLO IDROGEOLOGICO.
In tema di lottizzazione abusiva, se è vero che all’art. 44, lett. c), d.P.R. n. 380/2001, seconda parte, non si fa riferimento alla violazione dei vincoli idrogeologici, ciò però significa soltanto che tale violazione resterà sottratta al relativo trattamento sanzionatorio e alla confisca prevista dal medesimo art. 44, comma 2, se e in quanto costituisca effetto di interventi edilizi che di per sé non comportino lottizzazione abusiva, ossia di interventi isolati e comunque di dimensioni tali da non determinare trasformazione urbanistica o edilizia dei terreni.
In caso contrario, ove cioè si configuri una lottizzazione abusiva, ciò è sufficiente a giustificare comunque la riconduzione della fattispecie alle prospettive sanzionatorie suddette, e dunque anche il sequestro preventivo strumentale alla confisca urbanistica, anche se la qualificazione delle opere in termini di lottizzazione abusiva nasca dalla ravvisata violazione di norme a tutela dell’equilibrio idrogeologico.

La questione giuridica oggetto di esame da parte della Suprema Corte verte, in particolare, sull’applicabilità del regime sanzionatorio previsto dall’art. 44, lett. c), d.P.R. n. 380/2001 per la c.d. lottizzazione abusiva nel caso in cui venga ravvisata la violazione del solo vincolo paesaggistico.
La vicenda processuale trae origine dal decreto con cui il G.I.P. del Tribunale aveva disposto il sequestro preventivo di diversi immobili e strutture connesse, facenti parte del c.d. “Villaggio C. del G.”, ravvisando il fumus del reato di lottizzazione abusiva (d.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 30) in capo a diversi indagati, rappresentanti legali delle società C. e C. del G. S.p.a., autrici dell’intervento edilizio. La cautela era applicata ai sensi dell’art. 321 c.p.p., comma 2, in quanto funzionale alla confisca urbanistica (prevista dal d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 2, quale sanzione accessoria per il reato di lottizzazione abusiva); veniva, altresì, palesata anche l’esigenza di tutela, ex art. 321 c.p.p., comma 1, per l’incolumità pubblica con riferimento ai rischi di carattere geologico (caduta di massi et similia).
Dopo un primo annullamento, da parte della Cassazione, del provvedimento con cui il tribunale aveva respinto la richiesta di riesame, i medesimi indagati avevano nuovamente proposto ricorso per Cassazione contro il provvedimento con cui, in sede di rinvio, il tribunale del riesame aveva nuovamente confermato il precedente provvedimento del GIP, in particolare contestando che erroneamente l’ipotesi di reato era stata ricondotta alla previsione di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 1, lett. c), dovendo essa piuttosto essere ricondotta alla previsione di cui alla lett. b), per la quale non è prevista la confisca: ciò in quanto, come evidenziato in alcuni precedenti della Suprema Corte, il vincolo idrogeologico non è ricompreso tra quelli tassativamente elencati dalla lett. c) dell’art. 44 cit., come tali insuscettibili di estensione analogica (v., in particolare: Cass. pen., Sez. III, 24.09.2009, n. 43731, N., in CED Cass., n. 245208).
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha respinto il ricorso degli indagati, in particolare evidenziando come gli indagati avevano omesso di considerare che l’art. 44, lett. c), d.P.R. n. 380/2001, si compone di due periodi, aventi ciascuno una diversa e autonoma portata precettiva.
Nel primo si prevede “l’arresto fino a due anni e l’ammenda da 30.986 a 103.290 euro, nel caso di lottizzazione abusiva di terreni a scopo edilizio, come previsto dall’art. 30, comma 1”, la quale ultima disposizione -è utile rammentare- al comma 1, primo periodo, definisce lottizzazione abusiva (nella ipotesi, che qui viene in rilievo, di lottizzazione c.d. materiale o reale) quella determinata dalle opere, anche solo “iniziate” “che comportino trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione”.
Nel secondo, si estende la stessa pena anche alla distinta fattispecie integrata da “interventi edilizi nelle zone sottoposte a vincolo storico, artistico, archeologico, paesistico, ambientale, in variazione essenziale, in totale difformità o in assenza del permesso”: ciò sull’implicito ma ovvio presupposto che si tratti di interventi edilizi diversi della lottizzazione abusiva, già di per sé soggetta, senza alcuna ulteriore specificazione, al predetto trattamento sanzionatorio in forza del primo periodo: una diversa interpretazione -per li Ermellini- renderebbe la norma priva di senso e darebbe luogo a un’intrinseca insanabile contraddizione tra la prima e la seconda parte della disposizione.
È ben vero, dunque, secondo i giudici di Piazza Cavour, che in quest’ultima non si fa riferimento alla violazione dei vincoli idrogeologici, ciò però può significare soltanto che tale violazione resterà sottratta al trattamento sanzionatorio suindicato e alla confisca prevista dal comma 2 del medesimo art. 44 se e in quanto costituisca effetto di interventi edilizi che di per sé non comportino lottizzazione abusiva, ossia di interventi isolati e comunque di dimensioni tali da non determinare trasformazione urbanistica o edilizia dei terreni.
In caso contrario, ove cioè si configuri -come nella specie- una lottizzazione abusiva nei termini predetti, ciò è sufficiente a giustificare comunque la riconduzione della fattispecie alle prospettive sanzionatorie suddette, e dunque anche il sequestro preventivo strumentale alla confisca urbanistica, anche se la qualificazione delle opere in termini di lottizzazione abusiva nasca dalla ravvisata violazione di norme a tutela dell’equilibrio idrogeologico.
Conferma di tale interpretazione si trae anche da alcuni precedenti (oltre a Cass. pen., Sez. III, 14.01.1993, n. 1590, D.M., in CED Cass., n. 193049, può rammentarsi anche Cass. pen., Sez. III, 24.09.2009, n. 43731, P., non mass.), i quali infatti attengono a singoli e specifici interventi edilizi (si parla infatti in esso non di lottizzazione abusiva ma di costruzione abusiva) posti in violazione del vincolo idrogeologico al di fuori di un piano di lottizzazione.
Ragione giustificativa di un tale distinto trattamento va vista nel fatto che l’interesse protetto dalla lettera dall’art. 44, lett. c), T.U.E. ha, ad un tempo, una natura urbanistica e culturale-ambientale, identificando, nella pienezza dei suoi attributi, l’oggetto sul quale va ad incidere la condotta trasgressiva, cioè il luogo di vita, di lavoro e di benessere psichico e fisico della collettività, vale a dire, l’habitat, con riguardo alla complessa personalità dell’abitante, secondo una ampiezza di concezione che corrisponde al contenuto prescrittivo degli strumenti urbanistici (Cass. pen., Sez. VI, 10.03.1994, n. 6337, S., in CED Cass., n. 198510).
Tant’è che la giurisprudenza successiva (Cass. pen., Sez. III, 13.10.1997, n. 10392, M., in CED Cass., n. 209415) non ha mancato di sottolineare come, nello specifico ambito dell’illecito lottizzatorio, la violazione del vincolo -integrante o meno una fattispecie penale incriminatrice concorrente con il reato di lottizzazione (sul concorso materiale di reati, v.: Cass. pen., Sez. III, 24.02.2011, n. 9307, S., in CED Cass., n. 249763)- incida in modo rilevante non soltanto sull’assetto del territorio, ma sull’intero ambiente, nella misura in cui una tale trasgressione, pregiudicando l’interesse collettivo all’ordinato assetto territoriale, produce al tempo stesso un vulnus alle condizioni di vita della popolazione ivi residente, della quale altera le condizioni soggettive ed oggettive di vita.
Si tratta di concezioni, ormai del tutto pacifiche, che coniugano, al massimo livello, le norme penali urbanistiche con i beni di rilevanza costituzionale, legittimando anche la funzione anticipata di tutela affidata al diritto penale in tale nevralgico settore della vita della comunità, attraverso il preciso riconoscimento della valenza costituzionale attribuita al bene ambiente - territorio secondo una concezione dinamica del paesaggio (art. 9 Cost., comma 2), la cui tutela esige perciò il controllo e la direzione degli interventi che, ricadendo sul territorio stesso, influiscono sul paesaggio che non può essere assolutamente confinato in forma statica, quale mera conservazione del visibile.
Logico corollario di tale impostazione è -dunque, per la Cassazione- che, in considerazione dell’oggetto della tutela penale in relazione all’incriminazione ravvisata ed all’individuato pericolo, l’esigenza cautelare, di cui all’art. 321 c.p.p., comma 1, non richiede necessariamente un collegamento con un delitto contro la pubblica incolumità, essendo diverso il livello di tutela penale predisposto con le differenti incriminazioni (quelle cioè a protezione della incolumità pubblica e quelle a tutela dell’ambiente-territorio).
Sicché in presenza di un illecito lottizzatorio e di un pericolo concreto ed attuale per la collettività derivante dall’accertamento del reato urbanistico che, quanto alla lottizzazione, ha natura permanente e si segnala per essere progressivo nell’evento, il sequestro preventivo presenta connotati che lo inseriscono, nell’ambito processuale, negli istituti intesi ad evitare la probabilità del verificarsi di un evento antigiuridico in maniera da impedire che una cosa pertinente al reato possa essere utilizzata per estendere nel tempo od in intensità le conseguenze del reato stesso.
Va, infatti, ricordato come le conseguenze che il legislatore intende neutralizzare mediante il sequestro preventivo possano essere aggravate o protratte anche dopo la consumazione del reato medesimo, sicché le conseguenze antigiuridiche che il sequestro preventivo tende ad evitare si configurano come diverse ed ulteriori rispetto a quelle ordinarie della fattispecie criminosa già eventualmente realizzata in tutti i suoi elementi (Cass. pen., Sez. III, 29.01.2014, n. 15960, P. e a., non massim.) (Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 19.03.2015 n. 11631 - Urbanistica e appalti n. 6/2015).

LAVORI PUBBLICI: LIMITI ALL’INVARIABILITÀ DEL PREZZO NEI CONTRATTI D’APPALTO “A CORPO”.
In un appalto di opere pubbliche “a corpo”, il prezzo convenuto è fisso e invariabile sicché grava sull’appaltatore il rischio dipendente dalla maggiore quantità di lavoro necessaria rispetto a quella prevedibile: questo, a condizione che sia correttamente rappresentato nella legge di gara (anche per il generale canone di buona fede - art. 1175 c.c.) ogni elemento idoneo a influire sulla stima della prestazione, solo in tal caso potendosi ritenere che la maggiore onerosità dell’opera rientri nell’alea normale del contratto, diversamente verificandosi un’alterazione della struttura e della funzione che sono proprie di questo tipo contrattuale, rendendolo un contratto aleatorio.
Un consorzio d’imprese convenne in giudizio un’Amministrazione comunale committente per la condanna al pagamento di un’ingente somma risultata da ventidue riserve iscritte nel corso dell’esecuzione di contratti d’appalto per la realizzazione di una linea tramviaria urbana.
Il Tribunale ordinario riconobbe la fondatezza di solo quattro delle riserve iscritte e, per l’effetto, condannò l’Amministrazione convenuta al pagamento dell’importo in esse riportato: nella sostanza, la domanda era accolta per circa un settimo dell’importo in origine preteso. La sentenza fu appellata in via principale dall’Amministrazione e incidentale dal Consorzio.
La Corte di merito riformò totalmente la sentenza e rigettò tutte le domande dell’originario attore, escludendo così anche la fondatezza delle quattro riserve riconosciute dal Tribunale.
La questione approda all’esame della Suprema Corte, che rigetta totalmente il ricorso confermando la sentenza resa dalla Corte d’appello.
Rileva, in questa sentenza, l’affermazione per cui alcuni mezzi di gravame -recanti censure alle motivazioni con cui i giudici di appello respinsero le riserve- sono dichiarati inammissibili perché attinenti al merito della decisione impugnata, non censurabili in sede di legittimità anche se contrastanti con le conclusioni del consulente di ufficio, che il giudice può motivatamente disattendere (Cass., Sez. I, 03.03.2011, n. 5148) anche sulla base di “proprie personali cognizioni tecniche” (Cass., Sez. lav., 07.08.2014, n. 17757, m.  631903).
Ancora, con riguardo ad altre riserve, la Suprema Corte afferma il principio che in tema di appalto di opere pubbliche “a corpo” il prezzo convenuto è fisso e invariabile (fin dall’art. 326 della L. 20.03.1865, n. 2248, all. F) sicché grava sull’appaltatore il rischio dipendente dalla maggiore quantità di lavoro resasi necessaria rispetto a quella prevedibile: ma tale principio è applicabile quando siano correttamente rappresentati nella legge speciale di gara tutti gli elementi che possano influire sulla previsione di spesa dell’appaltatore, solo in tal caso potendosi ritenere che la maggiore onerosità dell’opera rientri nell’alea normale del contratto, tenuto conto che, a norma dell’art. 1175 c.c., le parti del rapporto obbligatorio devono comportarsi secondo buona fede (Cass., Sez. I, 09.09.2011, n. 18559; Cass., Sez. I, 07.06.2012, n. 9246).
Sotto questo profilo la Suprema Corte osserva che l’appalto pubblico non si sottrae alla regola, desumibile dall’art. 1664 c.c., dell’adeguamento del corrispettivo ai mutamenti imprevedibili delle condizioni di esecuzione del contratto (Cass., Sez. I, 10.03.2006, n. 5277). È però indiscusso che il caso di appalto “a forfait” o “a corpo” comporti una deroga all’art. 1664 c.c., benché non alteri la struttura o la funzione dell’appalto nel senso di renderlo un contratto aleatorio ma ne allarghi soltanto il rischio in capo all’impresa, senza che questo, pur così ulteriormente allargato, esorbiti dall’alea normale di questo tipo contrattuale (Cass., Sez. I, 15.07.1996, n. 6393), ben potendo anche le parti rinunciare alla clausola di salvaguardia di cui al citato art. 1664 c.c. (Cass., Sez. II, 21.01.2011, n. 1494) purché con ciò non vengano a trasmutare l’appalto in un contratto aleatorio (Cass., Sez. II, 21.02.2014, n. 4198).
Sicché, al definitivo, nell’appalto “a corpo o a forfait” l’allargamento del rischio accollato all’appaltatore non deve spingersi a relegare a situazioni del tutto marginali la rilevanza dell’imprevedibilità delle condizioni di maggior difficoltà nell’esecuzione delle opere, potendo qui rilevare solo situazioni che finiscano per incidere sulla natura stessa della prestazione.
Con riferimento ad un altro motivo di ricorso attinente ad altra delle riserve non riconosciute nella sentenza gravata, la Cassazione afferma che con il contratto d’appalto l’appaltatore assume un’obbligazione di risultato (Cass., Sez. III, 12.04.2005, n. 7515; Cass., Sez. II, 18.05.2011, n. 10927) e, quando si tratti di appalto a corpo o a forfait, il prezzo finale è vincolante per l’appaltatore indipendentemente dal computo metrico, che risulta meramente indicativo delle modalità di formazione del prezzo globale (Cass., Sez. I, 07.06.2012, n. 9246).
Sicché -fermo il risultato- non rilevano le possibili variazioni nelle opere necessarie per realizzarlo (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 17.03.2015 n. 5262 - Urbanistica e appalti n. 6/2015).

EDILIZIA PRIVATA: LA REALIZZAZIONE DI UNA TETTOIA DI COPERTURA DI UN TERRAZZO DI UNA ABITAZIONE RICHIEDE IL PERMESSO DI COSTRUIRE.
La realizzazione di una tettoia di copertura di un terrazzo di una abitazione non può qualificarsi quale intervento di manutenzione straordinaria, né si configura quale pertinenza, atteso che costituendo parte integrante dell’edificio ne costituisce ampliamento, con conseguente integrabilità, in difetto del preventivo rilascio del permesso di costruire, del reato di cui all’art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001.
Il tema affrontato dalla Corte di cassazione con la sentenza in esame attiene alla necessità o meno del “massimo” titolo abilitativo per la realizzazione di un intervento edilizio invero assai diffuso nella pratica corrente, ossia la c.d. tettoia di copertura del terrazzo di un’abitazione.
La vicenda processuale trae origine dall’ordinanza di rigetto di istanza di revoca di sequestro preventivo emessa dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale presentata nell’interesse di A.F., indagato del reato di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44 e concernente una struttura lignea, sita all’ultimo piano di un preesistente fabbricato, avente una superficie di circa mq 20 ed un’altezza di m. 3,00, una tettoia in scatolari in ferro sita sul solaio di copertura con superficie di mq 40 e altezza di m. 2,70, di un piccolo vano WC in aderenza al torrino scale.
Ricorrendo in Cassazione, l’indagato aveva sostenuto che i giudici avevano erroneamente ritenuto le opere realizzate come soggette a permesso di costruire, trattandosi di interventi ormai completati ed aventi natura pertinenziale, equivocando pertanto sui presupposti di applicabilità della misura cautelare reale.
La Cassazione, accogliendo il ricorso dell’indagato per ragioni diverse, hanno, sul punto di interesse, chiarito però che il Tribunale, con motivazione puntuale e giuridicamente corretta, aveva fornito una descrizione delle opere che, di per sé, astrattamente esclude ogni ipotesi alternativa a quella della necessità del permesso di costruire, trattandosi, all’evidenza, di un intervento edilizio al quale, valutandolo nel suo complesso, non può attribuirsi natura pertinenziale.
La Corte Suprema ha così inteso dare continuità ad un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, secondo cui è vietata la realizzazione, senza il preventivo rilascio del permesso di costruire, di una tettoia di copertura che, non rientrando nella nozione tecnico-giuridica di pertinenza per la mancanza di una propria individualità fisica e strutturale, costituisce parte integrante dell’edificio sul quale viene realizzata (v., tra le tante, da ultimo: Cass. pen., Sez. III, n. 42330 del 15.10.2013, S. e altro, in CED, n. 257290; Cass. pen., Sez. III, n. 40843 del 10.11.2005, D., in CED, n. 232363) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.03.2015 n. 9812 - Urbanistica e appalti n. 5/2015).

EDILIZIA PRIVATA: PRINCIPIO DEL “FAVOR REI” E DECORRENZA DEL TERMINE DI PRESCRIZIONE DEL REATO URBANISTICO.
Il principio del “favor rei”, per cui, nel dubbio sulla data di decorrenza del termine di prescrizione, il momento iniziale va fissato in modo che risulti più favorevole all’imputato, va applicato solo in caso di incertezza assoluta sulla data di commissione del reato o, comunque, sull’inizio del termine di prescrizione, ma non quando sia possibile eliminare tale incertezza, anche se attraverso deduzioni logiche, del tutto ammissibili.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame, sulla questione dell’applicabilità al reato urbanistico del c.d. principio del “favor rei”, principio secondo cui, in caso di incertezza, l’inizio del termine di decorrenza della prescrizione dev’essere fissato in data antecedente, essendo ciò più favorevole per l’imputato.
La vicenda processuale trae origine dall’ordinanza con cui il tribunale del riesame ha accolto l’impugnazione del P.M. contro il provvedimento con cui il Giudice per le indagini aveva disposto il dissequestro dell’immobile ubicato in (Omissis) in favore di C.C.C. e, conseguentemente, ordinato il sequestro preventivo dei tre appartamenti siti all’ultimo livello dell’edificio in relazione ai reati di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44 e art. 349 c.p., concretatisi nel completamento, mediante suddivisione in tre unità, delle opere di sopraelevazione di un preesistente piano per circa mq 200 in assenza di permesso di costruire, previa violazione dei sigilli precedentemente apposti.
Contro l’ordinanza proponeva ricorso per cassazione l’indagato, in particolare sostenendo che il reato urbanistico era ormai prescritto, poiché all’epoca del primo sequestro, nell’anno 2006, l’immobile si presentava già completo nella volumetria, mentre l’attività edilizia successiva avrebbe riguardato soltanto l’esecuzione di opere interne, la cui realizzazione, sulla base del contratto di fornitura di energia elettrica e di dichiarazioni testimoniali, sarebbe temporalmente collocabile negli anni 2006 e 2007; il medesimo aveva osservato che, in ogni caso, opererebbe il principio del favor rei, stante l’incertezza sulla data effettiva di ultimazione degli interventi abusivi.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha rigettato il ricorso, osservando che, se è ben vero che in caso di incertezza nella determinazione del “tempus commissi delicti”, il termine di decorrenza della prescrizione va computato nel modo che risulti più vantaggioso per l’imputato, posto che il principio “in dubio pro reo” trova applicazione anche in tema di cause di estinzione del reato (Cass. pen., Sez. IV, n. 37432 del 02.10.2003, M. e altri, in CED, n. 225990), è però altrettanto vero che tale principio va applicato solo in caso di incertezza assoluta sulla data di commissione del reato o, comunque, sull’inizio del termine di prescrizione, ma non quando sia possibile eliminare tale incertezza, anche se attraverso deduzioni logiche, del tutto ammissibili (Cass. pen., Sez. III, n. 1182 dell’11.01.2008, C. e altro, in CED, n. 238850) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.03.2015 n. 9810 - Urbanistica e appalti n. 5/2015).

EDILIZIA PRIVATA: CONDIZIONI PER LA “LEGITTIMITÀ” DELLA C.D. CESSIONE DI CUBATURA PER REALIZZARE UN MANUFATTO DI MAGGIORE AMPIEZZA SUL FONDO CESSIONARIO.
In assenza delle condizioni di legge (essere i terreni se non precisamente contermini, quanto meno dotati del requisito della reciproca prossimità; essere i medesimi caratterizzati sia dalla omogeneità urbanistica, avere cioè tutti la medesima destinazione, sia dalla medesimezza dell’indice di fabbricabilità originario), attraverso l’utilizzazione del c.d. contratto di cessione di cubatura, non è consentito realizzare scopi del tutto estranei e confliggenti con le esigenze di corretta pianificazione del territorio.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame, sull’individuazione delle condizioni in presenza delle quali può ritenersi legittima la realizzazione di un manufatto di maggiore ampiezza sul fondo cessionario, attraverso il ricorso alla c.d. cessione di cubatura.
La vicenda processuale segue alla sentenza con cui il tribunale aveva assolto gli imputati in relazione ad alcuni illeciti edilizi, applicandosi l’istituto dell’asservimento di terreno per scopi edificatori (detto anche cessione di cubatura), attraverso il quale era stato possibile trasferire da altri terreni a quello ove insistevano le costruzioni oggetto di imputazione le volumetrie edificabili proprie di quegli altri terreni.
Contro la sentenza aveva proposto ricorso per Cassazione il P.M., in particolare per avere erroneamente il tribunale ritenuto consentita la cessione di cubatura fra terreni non contigui aventi indici di edificabilità non coincidenti, essendo quello del terreno cedente più favorevole di quello del terreno cessionario.
La Cassazione, nell’accogliere il ricorso, ha affermato il principio di cui in massima, soffermandosi in particolare sulla corretta applicazione nel caso di specie dell’istituto, creato dalla prassi negoziale ma oggetto di riconoscimento anche in sede giurisprudenziale, della cessione di cubatura edificabile da un fondo ad un altro, cosiddetto asservimento di terreno per scopi edificatori, onde consentire, nel rispetto dei volumi massimi complessivamente edificabili, la realizzazione di un manufatto di maggiore ampiezza sul fondo cessionario.
Sul punto, precisano gli Ermellini, trattasi di istituto di fonte negoziale, la cui legittimità è stata ripetutamente avallata in sede giurisprudenziale (per tutte si veda: Cons. Stato, Sez. V, 28.06.2000, n. 3636), in forza del quale è consentita, a prescindere dalla comune titolarità dei due terreni, la “cessione” della cubatura edificabile propria di un fondo in favore di altro fondo, cosicché, invariata la cubatura complessiva risultante, il fondo cessionario sarà caratterizzato da un indice di edificabilità superiore a quello originariamente goduto.
Tale meccanismo, tuttavia, puntualizza la Cassazione, onde evitare la facile elusione dei vincoli posti alla realizzazione di manufatti edili in funzione della corretta gestione del territorio, è soggetto a determinate condizioni, illustrate nella massima. È, infatti, evidente che in assenza delle predette condizioni, attraverso l’utilizzazione di questo strumento, astrattamente del tutto legittimo, sarebbe possibile realizzare scopi del tutto estranei ed anzi confliggenti con le esigenze di corretta pianificazione del territorio.
Ciò, a mero scopo esemplificativo, si potrebbe verificare laddove si ritenesse legittima la “cessione di cubature” fra terreni fra loro distanti, potendosi in tal modo realizzare per una verso una situazione di “affollamento edilizio” in determinate zone (quelle ove sono ubicati i fondi cessionari) e di carenza in altre (ove sono situate i terreni cedenti), con evidente pregiudizio per l’attuazione dei complessivi criteri di programmazione edilizia contenuti negli strumenti urbanistici; pregiudizio ancora più manifesto ove fosse consentita la “cessione di cubatura” fra terreni aventi diversa destinazione urbanistica ovvero diverso indice di edificabilità; è, infatti, evidente che ove fosse consentito l’asservimento di un terreno avente un indice di fabbricabilità più vantaggioso di quello proprio del terreno asservente, ovvero avente una diversa destinazione, le esigenze di pianificazione urbanistica che avevano presieduto alla scelta amministrativa di differenziare gli indici di edificabilità dei due fondi, ovvero la loro stessa destinazione, rimarrebbero inevitabilmente insoddisfatte.
Nel caso di specie, concludono i Supremi Giudici, si trattava di fondi fra loro non adiacenti, tutti tipizzati come agricoli, che presentavano indici di fabbricabilità fra loro difformi.  Era, pertanto, evidente che attraverso l’asservimento dei primi ai secondi si è conseguito l’effetto di violare il rapporto di edificabilità proprio di questi ultimi, con palese compromissione delle finalità urbanistiche che siffatta previsione perseguiva (sulla questione, nella giurisprudenza, v.: Cass. pen., Sez. III, n. 21177 del 20.05.2009, G. e altri, in CED, n. 243623) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 27.02.2015 n. 8635 - Urbanistica e appalti n. 5/2015).

URBANISTICA: GLI STRUMENTI URBANISTICI NON POSSONO DISCIPLINARE L’UTILIZZAZIONE DEL TERRITORIO SENZA RISPETTARE IL D.M. 02.04.1968, N. 1444.
Anche la individuazione delle destinazioni di zona e del rapporto tra le varie destinazioni d’uso insediabili è compito attribuito al D.M. n. 1444 del 1968, non potendosi ritenere che la fonte disciplinatrice delle destinazioni d’uso e delle loro quantità insediabili negli ambiti per i quali è previsto l’obbligo dello strumento urbanistico preventivo sia lo strumento stesso.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame, sulla questione del rapporto intercorrente tra il c.d. decreto sugli standard urbanistici (D.M. n. 1444/1968) e gli strumenti urbanistici territoriali.
La vicenda processuale segue all’ordinanza con cui il Tribunale ha rigettato richiesta di riesame presentata da C.A. s.c. a r.l. avverso il decreto con cui il G.I.P. aveva disposto il sequestro preventivo finalizzato a confisca di un manufatto in relazione a indagini per il reato di lottizzazione abusiva in cui è indagato il legale rappresentante di tale cooperativa.
Contro il provvedimento proponeva ricorso per Cassazione l’indagato, in particolare denunciando l’erronea applicazione del D.M. n. 1444 del 1968, quale norma extrapenale di cui occorre tener conto dell’applicazione del d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 1, lett. c, essendo le destinazioni d’uso disciplinate non da tale decreto bensì dallo stesso strumento urbanistico e non sussistendo nel caso in esame la violazione del piano di lottizzazione.
La Cassazione, nel respingere il ricorso, ha affermato il principio di cui in massima, precisando in particolare che non è condivisibile la lettura “neutralizzante” del ruolo che il D.M. 02.04.1968, n. 1444 avrebbe nella questione in esame, come se gli strumenti urbanistici, in sostanza, potessero disciplinare l’utilizzazione del territorio senza inquadrarsi comunque negli standard urbanistici dettati dal decreto.
Invero, il decreto è diretto proprio a regolare -che significa predeterminare in una certa misura- il contenuto degli strumenti urbanistici, perché stabilisce i “Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza tra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi della L. 06.08.1967, n. 765, art. 17”; esso è stato emesso su delega prevista nel L. 18.08.1942, n. 1150, art. 41-quinquies ed essendo stato quest’ultimo inserito proprio dalla L. 06.08.1967, n. 765, art. 17 gli è stata riconosciuta efficacia di legge dello Stato, per cui gli strumenti urbanistici non possono discostarsene, prevalendo il decreto anche sui regolamenti locali nella determinazione appunto degli standard urbanistici (Cass. pen., Sez. III, n. 10431 del 16.03.2012, P. e altri, in CED, n. 252247; Cass. pen., Sez. III, n. 6599 del 17.02.2012, S., in CED, n. 252016; Cass. pen., Sez. III, n. 36104 del 05.10.2011, P.M. in proc. A., in CED, n. 251251; Cass. civ., Sez. II, sentenza n. 3199 dell’11.02.2008, in CED, n. 601619; Cass. civ., SS.UU., sentenza n. 14953 del 07.07.2011, in CED, n. 617949; Cons. Stato, Sez. IV, 22.01.2013, n. 354; Corte cost., sentenza n. 232/2005) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 19.02.2015 n. 7425 - Urbanistica e appalti n. 5/2015).

EDILIZIA PRIVATA: L’ESTINZIONE DEL REATO IN CASO DI RIMESSIONE SPONTANEA IN PRISTINO VALE SOLO PER LA CONTRAVVENZIONE E NON PER IL DELITTO PAESAGGISTICO.
L’art. 181, comma 1-quinquies, D.Lgs. n. 42 del 2004, prevede un’ipotesi di estinzione del reato paesaggistico per il caso di rimessione in pristino delle aree o degli immobili prima che venga disposta d’ufficio dall’autorità amministrativa, e comunque prima che intervenga la condanna; detta ipotesi -giusta il tenore letterale- è limitata però alla sola contravvenzione di cui al comma 1, non anche al successivo delitto di cui al comma 1-bis.
La questione affrontata dalla Suprema Corte con la sentenza in esame concerne un tema oggetto di frequente esegesi giurisprudenziale di legittimità, rappresentato dall’applicabilità della speciale causa di estinzione del reato paesaggistico contemplata dal D.Lgs. n. 42 del 2004.
La vicenda processuale trae origine della sentenza di condanna con la quale D.G. era stato ritenuto responsabile, tra l’altro, del delitto di cui al D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, art. 181, comma 1-bis; allo stesso -nella qualità di legale rappresentante della “D’A. s.r.l.”- era ascritto di aver iniziato ed eseguito lavori edili in assenza del permesso di costruire (realizzazione di un capannone di 20x40 mt.), in area sottoposta a vincolo paesaggistico e sismica, senza denuncia al Genio civile e direzione lavori da parte di un tecnico competente, nonché di aver distrutto od alterato le bellezze paesaggistiche e, infine, di aver -quale custode giudiziario dell’immobile, poi sottoposto a sequestro- ripetutamente violato i sigilli.
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione l’imputato, in particolare sostenendo di aver pacificamente ripristinato lo stato dei luoghi, quel che -giusta il D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, comma 1-quinquies- doveva comportare l’estinzione del delitto di cui all’art. 181, comma 1-bis contestato, analogamente a quanto disposto per la contravvenzione di cui al comma 1 del medesimo articolo.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha così fatto applicazione del principio di diritto, tradizionalmente ribadito in giurisprudenza, per il quale il citato art. 181, al comma 1-quinquies, prevede un’ipotesi di estinzione del reato per il caso di rimessione in pristino delle aree o degli immobili prima che venga disposta d’ufficio dall’autorità amministrativa, e comunque prima che intervenga la condanna; ipotesi -giusta tenore letterale- limitata però alla sola contravvenzione di cui al comma 1, non anche al successivo delitto. Tale disparità di trattamento, peraltro, appare pienamente giustificata.
Ed invero, la stessa Cassazione ha già affermato (Cass. pen., Sez. III, n. 13736 del 26.02.2013, M., in CED, n. 254762; Cass. pen., Sez. III, n. 7216 del 17.11.2011, Z., in CED, n. 249527) che “il legislatore ha ritenuto di sanzionare più severamente quelle condotte, che sono state ritenute maggiormente offensive del bene tutelato dell’integrità ambientale, consistenti o in lavori di qualsiasi genere eseguiti su immobili o aree tutelate già in precedenza con apposito provvedimento di dichiarazione di notevole interesse pubblico, ovvero in lavori di consistente entità (come determinata con i parametri richiamati dalla lett. b del citato comma) che ricadono su immobile o aree tutelate per legge ai sensi dell’art. 142 dello stesso corpus normativo. Occorre richiamare, quindi, i principi stabiliti dalla Corte Costituzionale in base ai quali la discrezionalità in materia di disciplina delle condizioni di estinzione del reato o della pena spetta in via esclusiva al legislatore e -quindi- l’estensione di una disciplina (...) è possibile solo quando risulti piena identità fra le discipline che vengono confrontate”.
Quel che non è consentito nel caso del delitto, anche alla luce del dato letterale, di stretta interpretazione, trattandosi per l’appunto di situazioni non omogenee, in relazione alle quali non risulta irragionevole una disciplina normativa diversa (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 19.02.2015 n. 7401 - Urbanistica e appalti n. 5/2015).

EDILIZIA PRIVATA: ESCLUSA LA DISAPPLICAZIONE DA PARTE DEL GIUDICE PENALE DEL PROVVEDIMENTO DI DINIEGO DELLA C.D. SANATORIA EDILIZIA.
Non è “disapplicabile” il diniego del rilascio della sanatoria edilizia, visto che, anche ad ipotizzare l’esplicazione di un potere di “disapplicazione”, la situazione resterebbe immutata perché il potere di supplenza del giudice penale non potrebbe giungere al punto di “sostituirsi” alla P.A. rilasciando quell’atto che sia stato ingiustamente negato.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame, su una inusuale questione, rappresentata dalla possibilità o meno per il giudice penale di esercitare il potere di “disapplicazione” dell’atto amministrativo illegittimo costituito dal diniego del rilascio della c.d. sanatoria edilizia.
La vicenda processuale trae origine dalla sentenza d’appello che ha confermato la condanna inflitta a due imputati in quanto accusati di avere edificato, senza autorizzazione, in zona sottoposta a vincolo paesistico e senza preavviso all’Ufficio del Genio Civile né acquisizione della prescritta autorizzazione da parte di quest’ultimo.
Contro la sentenza gli stessi proponevano ricorso per cassazione, in particolare sostenendo la violazione della L. n. 2248 del 1865, art. 5, relativa al potere di disapplicazione, da parte del giudice penale dell’atto amministrativo illegittimo. Gli stessi, in altri termini, sostenevano che, di fronte al chiaro errore in cui è incorsa la P.A., il giudice penale non avrebbe potuto che disapplicare il provvedimento di diniego del titolo abilitativo. Nella specie, si tratta di sanatoria ex art. 36, vale a dire, di quell’istituto per la cui applicazione è prevista la c.d. “doppia conformità”.
In pratica, si tratta di una sorta di legalizzazione di un’opera in sé lecita ma realizzata in difetto del prescritto titolo e si è, quindi, al cospetto di un mero provvedimento formale che, nella specie, non avrebbe potuto, né dovuto, essere negato sul presupposto (irrilevante, visto che la legge contempla tale eventualità) che difettasse la qualità di proprietario.
A fronte di tale erronea statuizione, quindi, l’evocazione della disciplina sul condono sarebbe inappropriata perché quell’istituto riguarda le opere illegittime per difetto dei requisiti e si atteggia come vero e proprio atto di clemenza che il legislatore ha deliberato di concedere una tantum al di là degli strumenti urbanistici vigenti e/o dei regolamenti edilizi.
Esso è un provvedimento eccezionale, limitato nel tempo e volto a regolarizzare gli interventi, non solo, formalmente, ma anche, sostanzialmente abusivi. Ciò posto, nel caso in esame, secondo gli imputati, l’accertamento di conformità, ingiustamente negato, determina (come affermato anche dalla Corte costituzionale n. 370/1988) l’affermazione della mancanza ex tunc di antigiuridicità dell’opera realizzata dagli imputati ed essa non può essere negata solo perché la disciplina concessoria postuma è stata istruita erroneamente dal Comune.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha respinto il ricorso, correttamente evidenziando che non esiste una norma che imponga alla pubblica amministrazione di accogliere detta istanza ed, anche a voler ipotizzare che la P.A., nel respingerla, abbia commesso un errore, di certo, esso non può essere emendato in questa sede penale ricorrendo ad un istituto, la disapplicazione, che -ontologicamente- presuppone un provvedimento rilasciato, e non, negato. Ed infatti, la parola stessa, disapplicazione, implica il concetto di non applicazione di qualcosa che esiste.
Come noto, tra l’altro, la disapplicazione costituisce una ipotesi eccezionale di “invasione”, da parte del giudice penale, nella sfera della P.A. e trova le sue premesse nel fatto che il giudice penale abbia ravvisato nell’atto amministrativo dei vizi che consentono di considerarlo tamquam non esset. Orbene, siffatta eventualità è praticamente inimmaginabile nel caso, opposto, in cui il “vizio” sia rappresentato da un diniego visto che, anche ad ipotizzare l’esplicazione di un potere di “disapplicazione”, la situazione resterebbe immutata perché il potere di supplenza del giudice penale non potrebbe giungere al punto di “sostituirsi” alla P.A. rilasciando quell’atto che sia stato ingiustamente negato.
Ciò significa, in altri termini, che il provvedimento di sanatoria può essere disapplicato quando sia stato concesso illegittimamente, sicché il giudice di merito può non tenerne conto e non è comunque obbligato a rendere una pronuncia di disapplicazione incidenter tantum (così, ad es. Cass. pen., Sez. III, n. 26144 del 01.07.2008, P., in CED, n. 240728).
Quando, però, il provvedimento sia negativo, l’eventuale verifica di illegittimità non può avere effetto estintivo del reato. Diversamente, si dovrebbe assistere ad un vero e proprio “volo pindarico” in cui, non solo, il giudice penale ignora il provvedimento amministrativo illegittimamente negato ma, arriva ad escludere il reato (ammesso che questa ne sia la conseguenza) sulla base di un provvedimento inesistente (come se l’illegittimità del diniego lo rendesse equipollente ad un rilascio) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 19.02.2015 n. 7388 - Urbanistica e appalti n. 5/2015).

PUBBLICO IMPIEGO: IL TERMINE DI PRESCRIZIONE DEL TENTATO ABUSO DI UFFICIO DECORRE DAL MOMENTO IN CUI È STATO POSTO IN ESSERE L’ULTIMO ATTO DEL TENTATIVO.
Ai fini della decorrenza del termine di prescrizione del delitto tentato ha rilievo non il giorno in cui la condotta illecita viene scoperta o comunque il reato non può essere più consumato per cause indipendenti dalla volontà dell’agente, bensì il giorno in cui il reo ha compiuto l’ultimo atto integrante la fattispecie tentata.
Di particolare interesse la questione affrontata dalla Corte di cassazione sul problema giuridico oggetto di esame da parte dei giudici di legittimità con la sentenza in esame, in cui viene ad essere affrontato il tema del momento di decorrenza iniziale del reato di tentato abuso di ufficio collegato alla violazione della disciplina edilizia.
La vicenda processuale traeva origine dalla sentenza con cui la Corte d’Appello confermava la sentenza del tribunale, con cui gli imputati (un pubblico ufficiale ed un privato) erano stati condannati in quanto ritenuti responsabili del reato di abuso d’ufficio tentato in concorso, per aver compiuto atti idonei diretti in modo non equivoco a far rilasciare alla società R.T. s.r.l. due permessi di costruire in sanatoria illegittimi, sia quanto ai presupposti di fatto che a quelli di diritto, non riuscendo nel loro intento per cause indipendenti dalla propria volontà e specificamente a causa dell’intervento e degli accertamenti effettuati dal responsabile dell’U.T. comunale e dalla polizia municipale. Contro la sentenza gli stessi proponevano ricorso per cassazione, dolendosi, per quanto qui di interesse, della ritenuta configurabilità del reato contestato, sia sotto il profilo oggettivo che soggettivo.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha annullato la sentenza per intervenuta estinzione del reato per prescrizione, osservando come l’imputazione ascritta -consistente nell’aver redatto attestazione di regolarità tecnica in cui si affermava la corretta definizione delle pratiche e che si erano verificate tutte le condizioni per il rilascio del permesso di costruire in sanatoria, nonché predisponendo materialmente il permesso di costruire in sanatoria-, rendeva corretta la richiesta degli imputati secondo cui il dies a quo da cui far decorrere il termine di prescrizione sarebbe quello, contestato, individuabile nella data della formazione delle false attestazioni di regolarità tecnica, conseguendone la intervenuta prescrizione prima della sentenza d’appello.
La eccezione è stata considerata come corretta in diritto dai Supremi Giudici, atteso che, nella fattispecie configurata in forma tentata, al fine del computo del termine prescrizionale, ha rilievo il momento in cui il reo ha compiuto l’ultimo atto integrante la fattispecie tentata (Cass. pen., Sez. II, n. 16609 del 29.04.2011, C., in CED, n. 250112; Cass. pen., Sez. II, n. 313 del 13.01.1999, G., in CED, n. 212201).
Ne discende, pertanto, che detto dies a quo non può essere individuato in quello coincidente con la data in cui è intervenuto il rigetto dell’istanza di condono, poiché in tal momento si verificherebbe la cristallizzazione degli effetti della condotta finalizzata al conseguimento dell’ingiusto vantaggio patrimoniale (come affermato da Cass. pen., Sez. VI, n. 10230 del 27.08.1999, C., in CED, n. 214376), principio, questo, tuttavia applicabile solo nel caso di fattispecie consumata e non nel caso, come quello esaminato, di fattispecie tentata, per il quale trova invece applicazione il diverso principio sopra illustrato (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 19.02.2015 n. 7384 - Urbanistica e appalti n. 5/2015).

EDILIZIA PRIVATA: IL GIUDICE DELL’ESECUZIONE NON È COMPETENTE AD ORDINARE LA DEMOLIZIONE O LA RIMESSIONE IN PRISTINO DELLO STATO DEI LUOGHI NON DISPOSTE DAL GIUDICE DELLA COGNIZIONE.
In caso di condanna per reato urbanistico, che ometta di ordinare la demolizione delle opere abusive, o di condanna per reato paesaggistico, che ometta di ordinare la rimessione in pristino dello stato dei luoghi, trattandosi di sanzioni amministrative accessorie a contenuto predeterminato:
   a) è possibile rimediare alla omissione attraverso la procedura di correzione dell’errore materiale, ex art. 130 c.p.p.;
   b) competente al riguardo è il giudice che ha emesso la sentenza di condanna, nonché il giudice della impugnazione, quando questa non sia inammissibile, ma non il giudice della esecuzione, che non ha una competenza specifica in materia.

La questione giuridica oggetto di esame da parte della Suprema Corte verte, in particolare, sulla possibilità, per il giudice dell’esecuzione, di porre rimedio all’omessa statuizione del giudice della cognizione di una delle sanzioni amministrative accessorie tipiche in materia edilizia o paesaggistica.
La vicenda processuale trae origine dalla sentenza con cui il Tribunale applicava all’imputato la pena di giorni 20 di arresto ed € 22.000,00 di ammenda, in relazione ai reati di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. c), 93, 94 e 95, D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181 e art. 734 c.p., perché, quale proprietario e committente dei lavori, in difetto di titolo abilitativo, aveva realizzato una tettoia con struttura in legno e soprastanti tegole a coppi siciliani, nonché un manufatto in muratura, chiuso da porta in legno con rialzamento del muro di confine, destinato a cucina.
A seguito di richiesta di correzione di errore materiale, avanzata dall’imputato, lo stesso Tribunale, quale giudice della esecuzione, in accoglimento della predetta istanza, ha disposto l’inserimento nella sentenza di patteggiamento dell’ordine di demolizione dell’opera abusivamente edificata. Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione l’imputato, in particolare sostenendo che la correzione non poteva essere disposta dal giudice dell’esecuzione, non essendo lo stesso competente a pronunciarsi in materia.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha accolto il ricorso dell’imputato, in particolare ammettendo l’applicabilità della procedura correttiva, disciplinata dall’art. 130 c.p.p. anche alla omessa statuizione relativa a sanzioni amministrative accessorie di natura obbligatoria ed a contenuto predeterminato, tra le quali rientrano l’ordine di demolizione del manufatto abusivo e quello di rimessione in pristino dello stato dei luoghi, perché, in ragione della loro natura, non consentono margine di discrezionalità per il decidente. Va, però, rilevato -aggiungono gli Ermellini- che è da escludere una eventuale competenza del giudice dell’esecuzione nella materia in esame, rilevando come l’art. 676 c.p.p., in quanto derogatorio al principio generale della irrevocabilità delle sentenze e dei decreti penali definitivi, di cui all’art. 648 c.p.p., sia di stretta interpretazione e non possa essere applicato al di fuori delle materie in esso specificatamente previste.
Sul punto si evidenzia che dopo il passaggio in giudicato del provvedimento giurisdizionale spetta al giudice della esecuzione la competenza a conoscere di tutte le questioni attinenti alla esecuzione del provvedimento stesso, ex art. 666 c.p.p., nonché delle questioni specificamente attribuitegli dall’art. 676 c.p.p., fra le quali soprattutto rilevano, per il tema di cui trattasi, quelle relative alle pene accessorie, alla confisca e alla restituzione delle cose sequestrate.
In nessun modo, però, possono rientrare tra queste competenze specifiche, proprio per il divieto di interpretazione analogica, quelle relative ad alcune sanzioni amministrative accessorie, come l’ordine di demolizione delle opere abusive o l’ordine di rimessione in pristino dopo una condanna (o una pronuncia resa ex artt. 444 ss. c.p.p.) rispettivamente per reato urbanistico o per reato paesaggistico, sanzioni che, secondo la giurisprudenza costante della Cassazione, da una parte sono tipicamente diverse dalle pene accessorie e dall’altra divergono strutturalmente e funzionalmente dalla confisca (v., per il principio di diritto già affermato, da ultimo: Cass. pen., Sez. III, n. 10067 del 06.03.2009, P.G. in proc. G., in CED, n. 244017) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 18.02.2015 n. 7048 - Urbanistica e appalti n. 5/2015).

EDILIZIA PRIVATA: NECESSARIO IL PERMESSO DI COSTRUIRE PER LE IMBARCAZIONI GALLEGGIANTI IN ACQUA.
Anche le imbarcazioni galleggianti in acqua, per effetto del d.P.R. n. 380 del 2001, art. 3, comma 1, lett. e) sono da considerarsi “interventi di nuova costruzione”, trattandosi di trasformazione edilizia e urbanistica del territorio non rientrante nelle categorie definite alle lettere precedenti, dovendosi considerare, a titolo esemplificativo, tali “l’installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, camper, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee” (comma 5); ne consegue che, dovendosi le imbarcazioni galleggianti in acqua considerare installate, la loro “installazione” richiede il permesso di costruire.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame, su una interessante questione, relativa alla necessità o meno del permesso di costruire per le c.d. imbarcazioni galleggianti in acqua.
La vicenda processuale trae origine dal provvedimento con cui il Tribunale rigettava la richiesta di riesame proposta da G.O. avverso il decreto di sequestro preventivo emesso dal G.I.P. del Tribunale; premetteva il Tribunale che il G. era indagato per i reati di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. c) e D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181 nonché per il reato di cui alla L. n. 171 del 1973, art. 9 e che il sequestro, disposto dal G.I.P., aveva ad oggetto due imbarcazioni da diporto, ormeggiate in (omissis) ed adibite ad attività alberghiera.
Tanto premesso, riteneva il Tribunale che sussistesse sia il fumus dei reati ipotizzati che il periculum in mora. La collocazione di un’imbarcazione in un certo luogo poteva determinare una trasformazione urbanistica del territorio (come per i manufatti leggeri anche prefabbricati ed altre strutture quali roulottes, camper e case mobili), ai sensi del d.P.R. n. 380 del 2001, art. 3, lett. e, comma 5), in presenza di determinate condizioni.
Risultava pacificamente che le imbarcazioni venivano utilizzate come strutture ricettive e che l’attività in questione era stata avviata l’anno precedente al sequestro ed era proseguita fino al momento del sequestro medesimo, per cui si era in presenza di una utilizzazione con carattere di stabilità.
Quanto al requisito della installazione, l’interpretazione restrittiva prospettata dal ricorrente non era condivisibile, dal momento che una imbarcazione non potrebbe mai considerarsi installata e si perverrebbe ad una sostanziale abrogazione della previsione normativa. Nel caso di specie risultava che le imbarcazioni si trovavano da mesi all’ormeggio ed erano destinatarie di un’erogazione continua di energia elettrica ed acqua; la riprova dello snaturamento della natura di imbarcazione si ricavava dal fatto che a bordo il personale non era certo qualificato per svolgere mansioni nautiche.
Contro l’ordinanza proponeva ricorso per cassazione l’indagato, in particolare sostenendo che difettavano i requisiti per ritenere che le imbarcazioni siano equiparabili ai beni immobili o anche ai beni mobili d.P.R. n. 380 del 2001, ex art. 3, lett. e), comma 5. La giurisprudenza di legittimità ha da tempo chiarito che può parlarsi di installazione soltanto quando i manufatti siano stabilmente appoggiati al suolo (il che non è ipotizzabile per le imbarcazioni calate in mare). La norma quindi troverebbe applicazione soltanto nell’ipotesi di imbarcazioni che siano installate, con carattere di stabilità e permanenza, sul suolo e che quindi come tali siano idonee a modificare il paesaggio circostante e ad integrare quindi una trasformazione urbanistica.
Ritenere che le imbarcazioni fossero stabilmente installate al suolo solo perché non avevano navigato con continuità ed avessero allacciamenti di acqua e luce, costituisce una erronea applicazione analogica della norma, per di più in malam partem. A nulla rileva quindi la destinazione data all’imbarcazione calata in mare. Peraltro il D.Lgs. n. 171 del 2005, art. 47, che disciplina la nautica da diporto, prevede che le imbarcazioni da diporto possano essere utilizzate non solo ai fini di navigazione, ma anche come mere imbarcazioni ormeggiate e ferme. Il semplice collegamento, tramite un cavo, alla terra ferma non può certo essere ritenuto sufficiente per configurare il fumus del reato di cui all’art. 44.
La Cassazione, nel rigettare il ricorso, ha affermato il principio di cui in massima, in particolare precisando come la norma considera come interventi di nuova costruzione, necessitanti quindi di permesso di costruire, anche quelli relativi ad imbarcazioni “insistenti” in acque territoriali. Ne discende, quindi, che bisogna verificare se ricorrano gli altri requisiti richiesti e cioè l’installazione, l’utilizzazione come abitazioni o come ambienti di lavoro o depositi, ed il soddisfacimento di esigenze non meramente temporanee.
Quanto alla nozione di installazione, è indubitabile che non si richieda che l’opera sia “infissa”. Il riferimento contenuto nella norma anche a campers e case mobili è inequivocabile in proposito: è sufficiente, quindi, che essa sia “stabilmente appoggiata”. Non si richiede, però, che tale appoggio debba necessariamente avvenire al “suolo”, sia perché la norma non fa alcun espresso riferimento a tale parola (richiamando piuttosto quella di “territorio”), sia perché la prospettata interpretazione restrittiva porterebbe alla sostanziale abrogazione della norma nella parte in cui fa riferimento ad imbarcazioni, che, per la loro naturale destinazione, galleggiano nelle acque e non sono appoggiate al suolo.
A meno di non ipotizzare, irragionevolmente ed in contrasto con la lettera e la ratio della norma, che il legislatore abbia inteso riferirsi ad imbarcazioni trasportate a terra ed appoggiate al suolo. Senza alcuna interpretazione in malam partem può, quindi, dirsi -puntualizzano gli Ermellini- che anche le imbarcazioni galleggianti in acqua debbano considerarsi installate. Né si richiede che esse siano agganciate in modo stabile al fondo marino o alla terraferma.
È pacifico, invero (Cass. pen., Sez. III, n. 25015 del 22.06.2011, D.R., in CED, n. 250601), che sia configurabile il reato di costruzione edilizia abusiva nell’ipotesi di installazione, senza permesso di costruire, di strutture mobili quali camper, roulotte e case mobili, sia pure montate su ruote e non incorporate al suolo, aventi una destinazione duratura al soddisfacimento di esigenze abitative.
Quanto agli ulteriori requisiti, infine, da un lato, l’utilizzazione delle due imbarcazioni per attività ricettiva presentava i caratteri della stabilità; dall’altro, infine, del tutto non pertinente è stato ritenuto dalla Cassazione il richiamo al D.Lgs. 18.07.2005, n. 171, che disciplina la normativa della nautica da diporto, che prevede sì l’utilizzo da parte della clientela di imbarcazioni ormeggiate e ferme, ma per esigenze temporanee e non come abitazioni o strutture ricettive con il carattere della stabilità (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 18.02.2015 n. 7047 - Urbanistica e appalti n. 5/2015).

LAVORI PUBBLICI: PRESUPPOSTI PER IL RICONOSCIMENTO DI SOMME MAGGIORI RISPETTO A QUELLE CONTRATTUALI.
I presupposti per il riconoscimento di pretese economiche aggiuntive o revisionali non possono essere desunti dal pagamento di SAL liquidati, occorrendo, di contro, che il Giudice accerti la sussistenza di una specifica autorizzazione o di una delibera per gli stessi.
Un imprenditore convenne in giudizio al Tribunale civile un’Amministrazione comunale per sentirla condannare al pagamento del saldo di lavori stradali al medesimo affidati, oltre a interessi per ritardato pagamento.
Chiese, inoltre, il riconoscimento della revisione dei prezzi contrattuali e il risarcimento dei danni subiti derivatigli dal tardato saldo del corrispettivo, circostanza che -a suo dire e pur non essendo la capital somma dovuta elevata (circa un centinaio di migliaia di euro)- lo aveva costretto a liquidare l’impresa e a cessare ogni attività.
Il Comune si costituì eccependo, nell’opera, la presenza di vizi e incompletezze tanto gravi da determinare l’apertura di un procedimento penale per frode in capo all’impresa attrice. Deduceva, comunque, il pagamento di ogni importo dovuto in base ai SAL deliberati e l’assenza di autorizzazioni per l’esecuzione dei lavori suppletivi per i quali è domanda; contestava altresì -quanto alla revisione prezzi- la sussistenza di giurisdizione ordinaria. In via riconvenzionale, il Comune chiedeva la risoluzione del contratto per inadempimento e frode ai sensi dell’allora vigente art. 340 della L. 20.03.1865, n. 2248, all. F, e la condanna al risarcimento danni.
Con sentenza non definitiva, il Tribunale condannava il Comune al pagamento delle somme dovute in esecuzione del contatto, come quantificate dalle relazioni tecniche del direttore dei lavori, comprese le variazioni in corso d’opera disposte dal direttore dei lavori stesso ai prezzi, variati, esposti dall’impresa. Disponeva, con separata ordinanza, la prosecuzione del giudizio per la determinazione del quantum e dell’eventuale risarcimento danni dovuto all’attrice.
All’esito della CTU per la quantificazione delle somme dovute a tale titolo, il Tribunale con sentenza definitiva condannava il Comune al pagamento delle stesse, oltre a interessi moratori; danni, patrimoniali e non; spese di giudizio e di CTU.
La sentenza era appellata dal Comune, con svariati motivi, tanto riferiti alla sentenza parziale, quanto alla definitiva. In particolare, evidenziò che dalla stessa CTU erano emersi lavori non eseguiti; che le opere suppletive in variante non erano state autorizzate ed erano prive delle necessarie autorizzazioni amministrative, eseguite senza ordine scritto del direttore dei lavori, e che neppure vi fosse un’accettazione o un riconoscimento di utilità da parte della P.A..
Il Comune ribadiva, poi, le eccezioni di tardività e di mancata coltivazione della riserva per i lavori aggiuntivi, oltre a quella di difetto di giurisdizione del G.O. per la domanda di revisione prezzi, insistendosi per la riconvenzionale di risoluzione del contratto. La sentenza definitiva era, a propria volta, gravata da altri motivi: di ultra-petizione ed errata liquidazione della somma per “ulteriore danno patrimoniale e non” senza specifica motivazione al riguardo. L’impresa, nel costituirsi, proponeva appello incidentale per la parte di ridotta liquidazione della domanda.
La Corte territoriale, in parziale accoglimento del gravame, condannava il Comune al pagamento di una somma parzialmente ridotta e dichiarava sussistere la giurisdizione amministrativa sulla domanda revisionale. La questione giunge all’esame della Suprema Corte, con ricorso principale del Comune e incidentale dell’impresa. La sentenza è cassata con rinvio, nei termini che si diranno.
Quanto al ricorso principale, osservano i Supremi giudici che i presupposti per il riconoscimento delle richieste dell’appaltatore circa pretese aggiuntive e revisionali non possono essere desunti dal pagamento di SAL liquidati, occorrendo di contro accertarsi della sussistenza di specifica autorizzazione e delibera e, in caso negativo, verificare se tale mancanza comportasse la non riconoscibilità del credito, anche in relazione alla dedotta mancata iscrizione a riserva per tali lavori: sotto tale profilo, la Cassazione ritiene affetta da carenza motivazionale la sentenza impugnata, che è rinviata al giudice di merito.
Viceversa, la domanda di risoluzione contrattuale è respinta osservandosi che, anche se alcuni lavori non erano stati realizzati, tuttavia, nel complesso, l’inadempimento non rivestiva carattere di gravità (Corte di Cassazione, SS.UU. civili, sentenza 13.07.2013 n. 14556 - Urbanistica e appalti n. 10/2015).

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